Il Visitatore Di Case E Altre Storie 28b3k

sco Caruso

Il visitatore di case e altre storie

UUID: 498c6f30-93dc-11e6-8798-0f7870795abd

Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com) un prodotto di Simplicissimus Book Farm

Indice dei contenuti

Il visitatore di case Turno di notte Tracce Tie break Offerte speciali L'ultimo assist L'aggiornamento Delenda Carthago Dentro il cassetto Fangulo Gli intrusi La guerra dei trent'anni Il tagliando Il pianeta di Antoine I bamboccianti Coincidenze La preda Convergenze parallele

La lanterna L'amico di famiglia L'odore della paura Una botta di vita

Il visitatore di case

Ecco, ora comincerà a consultarla con aria annoiata. Fingerà per un momento di interessarsi a qualcuna delle voci, poi ricomincerà a sfogliare le pagine, sempre più velocemente, e inizierà a scrollare la testa in segno di disapprovazione. Alla fine, contrita, se ne uscirà con la solita storiella del “sì, è interessante, ma è una spesa che in questo periodo non mi sento di affrontare”. Ed io lì, seduto sul salotto con le dita incrociate aspettando la sentenza e preparando le contromosse,le solite, il vestito buono ormai stropicciato dai troppi divani e una bastarda goccia di sudore ad imperlarmi la fronte: “Certo che fa un caldo qua dentro, vero signora?” A questa cosa le dico? Non ha figli che vanno a scuola e sembra di cultura medio-alta. Ha pure una libreria ben fornita, per quel che ho potuto notare. Che se ne dovrebbe fare di una enciclopedia universale in 18 volumi e 42 rate da 70 euro cadauna? Tra l’altro, ando per il corridoio ho intravisto pure un bel pc di ultima generazione, con tanto di schermo LCD. Mi sa tanto che a questa qui non dirò proprio niente per convincerla a cambiare opinione. Sono già le cinque del pomeriggio e questa casa elegante dei quartieri bene è la quindicesima della giornata che visito. Tra poco dovrebbe pure tornare il marito e per noi i mariti sono una iattura da evitare ad ogni costo. Agli uomini non frega niente delle enciclopedie, in genere sono le donne le più sensibili a questo tipo di acquisti. Per i mariti sono solo soldi buttati. “Va bene signora, vedo dalla faccia che l’articolo non le interessa. Le lascio il mio recapito, casomai dovesse cambiare idea. Buonasera”. Mi porge il volume con un’espressione di sorpresa sul viso. L’ho privata del piacere di espormi gentilmente, ma con fermezza, le ragioni del suo diniego. Dev’essere un’insegnante. Sono loro quelle fissate con le spiegazioni. Neppure si alza per accompagnarmi. Mi saluta con un cenno della testa mentre imbocco nuovamente il corridoio in direzione della porta d’ingresso.

Fuori è già buio ed ha ripreso a piovere. Mi guardo attorno cercando invano una fermata d’autobus. E’ un quartiere relativamente nuovo quello dove mi trovo e non è ancora ben servito dai mezzi pubblici. Ho l’ombrello e decido di avviarmi a piedi, anche perché la pioggia non è poi così intensa. E’ , però, una fitta pioggerellina di fine ottobre, di quelle che ti penetrano dentro le ossa. Questo è il momento peggiore della giornata, quello del ritorno a casa. Quello di Lidia che apre la porta e mi guarda negli occhi con un’aria speranzosa e interrogativa: “Com’è andata?” “Il solito”. Il solito girovagare inutile di case, il solito decantare inutile di un prodotto che non interessa a nessuno, i soliti caffè, le solite facce annoiate dei possibili clienti, i soliti convenevoli, le solite scuse. Il solito fascio di moduli intonsi dentro la borsa accanto al solito volume di campionario: Del-Inn. Doveva essere un lavoro per pochi mesi, è diventata la dannazione della mia vita. Della mia e di quella della donna che ho sposato. Ho già percorso parecchi metri del grande viale che collega il centro al quartiere dell’ultima cliente. Stasera non mi va di tornare a casa. Non mi va di sentire Lidia sciorinare il suo consueto rosario di lamentele per le bollette non pagate, il ritardo nell’affitto, il latte artificiale da comprare a Roberta. Non mi va di leggerle in viso la certificazione del mio fallimento. Ho appena trent’anni, una laurea in scienze politiche che non è servita a niente e il futuro già dietro le spalle. Da studente sognavo di fare il giornalista, mi immaginavo a lavorare nella redazione di un grande quotidiano. Poi...Poi si sa come vanno queste cose: non hai i contatti giusti per intraprendere certe carriere e cominci a cercarti un lavoro purchessia. Poi ti sposi, pensando incoscientemente di commuovere la sorte con un anello al dito e una famiglia da mantenere. Poi arriva puntuale la sera che lei ti si accosta mentre guardi la tv, ti abbraccia teneramente e ti dice: “Sai, forse a breve diventerai papà”

Te lo dice sicura di provocarti uno sconquasso di gioia e resta perplessa e delusa quando vede l’angoscia impadronirsi del tuo volto. Poi..poi tutto il resto. Quello che prima bastava a stento a mantenere due persone, non basta più. Lentamente, giorno dopo giorno, ti accorgi di non star meglio del mendicante seduto sul marciapiede di fronte casa tua, quello col bastardino pieno di zecche, un barbone bianco da eremita e un buffo colbacco di pelo sulla testa. Solo che tu sei un accattone in giacca e cravatta, odorante di dopobarba e con i capelli ben pettinati. Il momento peggiore della giornata è quando vado a letto, in quell’interludio infinito tra la veglia e il sonno. E’ un momento persino peggiore del risveglio del mattino. Me ne sto a braccia conserte fissando il soffitto della camera da letto, al buio, in un silenzio assoluto rotto soltanto dal ticchettio monocorde della sveglia sul comodino. Lì o in rassegna tutti gli anni della mia breve vita e mi chiedo dove ho sbagliato. Mi chiedo perché mi ritrovo per le mani, dopo tanti sogni ad occhi aperti, un lavoro che non mi piace e le stesse ansie economiche di mio padre, lo stesso orizzonte senza luce delle sue stagioni di contabile malpagato di una ditta di import-export, finite sopra il ripiano di una scrivania in una giornata di primavera di dieci anni fa. Aspettando l’arrivo del primo torpore, mi volto a guardare Roberta che riposa beata nella culla. Fortunatamente non si sveglia quasi mai la notte, tranne per i pasti. Chi glielo spiega che qualcuno lassù ha sbagliato l’indirizzo del destinatario? Intanto sono già arrivato nel corso, quello del eggio del sabato sera e dei negozi con le vetrine sfavillanti. Ma oggi è mercoledì, piove, fa un po’ di freddo e c’è poca gente in giro. Meglio così Mi fermo a guardare un rivendita di informatica. C’è una commessa carina che sta sistemando i nuovi arrivi in vetrina. Mi guarda e mi sorride, pensando magari che ho la faccia giusta del cliente di un posto del genere: giovane e vestito come un professionista di successo, uno di quelli che cambiano il notebook ogni 6 mesi. Per un attimo sono tentato di entrare e spiegarle che il mio patrimonio

informatico si riduce ad un vecchio IMac dell’era glaciale, un dinosauro che ormai va avanti solo con i cazzotti sullo chassis del monitor, ma alla fine ci rinuncio. Sono ormai le sette e Lidia sicuramente si starà chiedendo che fine abbia fatto. Difficilmente torno a casa oltre quell’orario e se capita di ritardare l’avviso col telefonino. Stasera, invece, ho il cellulare spento e nessuna intenzione di riaccenderlo. Osservo i palazzi attorno e mi rendo conto di conoscerli quasi tutti. In tanti anni di infruttuoso girovagare, oramai sono poche le case che non ho visitato. Se avessero previsto una provvigione per ogni scamlata, ogni stretta di mano e ogni seduta in soggiorno o in cucina, a quest’ora sarei straricco. Ecco cosa sono davvero, mi dico: un visitatore di case. Dovrei buttarmi nel settore immobiliare. Un vecchio rappresentante di commercio ormai in pensione anni addietro mi disse che per far bene quel mestiere bisogna essere dei grandi psicologi ed entrare in empatia col potenziale cliente: “Perdi anche un’ora, due ore della tua giornata se è necessario, chiacchierando dei figli e dei problemi di salute della tua 'preda', ma non dargli mai l’impressione che tu sia venuto a violare il sacrario della sua casa soltanto per vendergli qualcosa”. Forse una volta era così, ora non più. La gente sta chiusa dentro il carapace delle proprie solitudini e difficilmente si lascia andare a confidenze, anche innocue, sulla vita privata. C’è ormai un muro invisibile tra le persone che nessuna affabilità riesce a scalfire. Così io ho rinunziato da tempo a fare l’amabile e mi limito ad essere molto cortese e professionale. Tanto, anche buttarla sul simpatico sarebbe ugualmente inutile. Nell’era di internet e delle enciclopedie su dvd, non c’è prodotto più obsoleto del sapere confezionato in diciotto volumi di 500 pagine ciascuno. Piuttosto che di esseri umani, ho preferito così diventare psicologo dell’ambiente in cui vivono, mangiano, dormono e si riproducono. Lo so, mi serve a poco tutto questo decifrare i segni delle cose inerti degli altri,

ma ormai è diventata un’esegesi spontanea, un esercizio mentale al quale non riesco a sottrarmi. Finalmente sono giunto al ponte sul fiume. Dall’altra parte inizia la via che conduce al mio appartamento. Ho sempre evitato di attraversarlo a piedi, per togliermi dalla testa certe paturnie. In genere ci o con i mezzi pubblici e sempre con la faccia rivolta verso l’interno del veicolo, per non vedere lo scorrere violento di quell’acqua cinerea trenta metri più sotto. Ora sono fermo a metà del percorso e guardo il vuoto sotto di me. Chiudo l’ombrello e mi lascio inzuppare dalla pioggia sempre più intensa. Mi dico “E’ un attimo, che ci vuole?” All’improvviso vedo are velocemente qualcosa, trascinato dalla corrente vorticosa. Sembra un oggetto di plastica, forse un bambolotto perso da un bambino o gettato via. Lo seguo mentre si allontana sempre più, affiorando e scomparendo continuamente nell’acqua in movimento, come un corpo che annega. Quanto c’è della nostra vita nelle cose che perdiamo o buttiamo? In un paio di scarpe vecchie, in una borsa di pelle consunta dal tempo, in un giocattolo, in una camicia dal colletto liso, in una macchina. Sono oggetti che hanno condiviso con noi giorni e giorni della nostra esistenza: ci hanno nutrito, ci hanno vestito, ci hanno divertito, ci hanno aiutato nel lavoro. Poi un bel giorno decidiamo che non ci servono più, che non meritano più di ricordarci i frammenti di vita custoditi dentro di essi. Liberandoci della loro presenza, ci liberiamo inconsapevolmente anche di una parte di noi stessi. Sento improvvisamente una profonda eucaristia con tutto quello di mio che ho perduto lungo i sentieri dell’ esistenza, dal maglione preferito dei diciotto anni al televisore in bianco e nero che troneggiava nel salotto dei miei genitori, e comincio a farne l’ inventario. Ma ogni volta devo ricominciare daccapo, perché riaffiora il ricordo di qualcosa che ho tralasciato e che appartiene ad una fase o a una fascia d’età che pensavo già di aver catalogato. Quasi meccanicamente, riapro l’ombrello e ricomincio ad attraversare il ponte. Sono ormai arrivato praticamente sotto casa, vedo già le luci accese della cucina e immagino Linda impegnata a dar la pappa a Roberta, un occhio ai fornelli ed

uno preoccupato all’orologio. Prima del portone, o accanto al vecchio mendicante e lo saluto. Howard è inglese ed è parte ormai del paesaggio della strada, al pari dei lampioni, dell’edicola all’angolo e delle buche sull’asfalto. Nessuno nel quartiere conosce la sua storia, ma ci siamo abituati a lui e lo rispettiamo. Sappiamo solo che si chiama Howard. Spunta qui puntuale alle sette di ogni mattina e puntuale se ne va verso le nove di sera, per andare a dormire chissà dove. Talvolta sembra venuto fuori dal nulla, perché neppure i negozianti più anziani ricordano quando ha deciso di scegliere i nostri marciapiedi per questuare. Gli lancio una moneta dentro il colbacco aperto e intanto cerco le chiavi di casa dentro la borsa. Di solito Howard si mette sul lato opposto della strada, ma non disdegna neppure quello che fiancheggia il palazzo dove abito, come stasera. All’improvviso, sento che mi tira per la giacca. Mi giro e gli lancio uno sguardo affettuoso ma interrogativo. Non mi aveva mai fermato prima d’ora: sempre good morning , good night e thank you so much quando gli lascio qualche spicciolo. Ha un’età indefinibile, tra i cinquanta e i settanta, e non sorride mai, neppure con gli occhi. Stasera, però, noto che mi fissa con una luce di felicità sul viso. Mi chiede a gesti di avvicinarmi a lui ed io lo faccio, vincendo l’inevitabile ribrezzo di accostarmi ad una pelle che non conosce il sapone da settimane. Mi indica il suo borsone di plastica, da cui non si separa mai. Lo apre e ne tira fuori un paio di volumi della mia enciclopedia: “Fire...fire against the cold. Paper extremely good. Thank you, mister” Mormoro un paio di ok e gli batto una mano aperta sulla spalla. Lui lo sa bene che non gliel’ho date io quelle copie, che probabilmente sono gli scarti del recente trasloco di una famiglia di un altro condominio, ma siccome sa anche che io la sua fonte di riscaldamento invernale la vendo, ha pensato fosse corretto ringraziare pure me. Giusto così, mi dico. Perlomeno, ora so di svolgere una funzione sociale.

Turno di notte

Eccoci qua, via Marconi. Via Marconi, Viale Palestro, Via Pirandello, Piazza Unità d’Italia, Lungomare Cairoli e Viale 4 Novembre. Oggi si va nei quartieri alti, Salvato’, tra i gran signori. Dovevano darci lo smoking, stasera. Salvatore è l’autista. Ha 60 anni, un solo rene, una figlia all’università e un altro su una sedia a rotelle. La moglie due anni fa s’è scocciata di vederselo tutti i giorni dentro al letto e se n’è andata. Nel senso che è morta, poveraccia. Va in pensione tra sei mesi. Salvato’, voglio dire. Fermati, Salvato’, fermati. Guarda quanti bei cassonetti ci sono qui. Guarda quanta bella monnezza da signori, monnezza col pedigree. Eh, noblesse oblige... Tutta roba di marca, Salvato’: la migliore pasta, il migliore vino, il burro più costoso. Mancano solo le scatolette di tonno col filino di perle tutt’attorno. Non parla mai, Salvato’. Ciao e ciao. All’arrivo e alla partenza. Sono 10 anni che lavoriamo assieme e tutto quello che so di lui me l’hanno raccontato gli altri colleghi. Non parla nemmeno al bar: si piglia il suo caffè senza zucchero, saluta il barista e se ne va. “Salvato’, ma tu che ne pensi?”. Ogni tanto gli si chiede un parere, che volete. Non sta normale uno che non dice mai niente. Ma lui zitto, fa una smorfia con la faccia, per farci capire che non ha un pensiero sulla cosa, e torna al suo camion. Secondo me quello col camion ci parla. Magari a fine turno, prima di posarlo nell’autorimessa. E’ un bel lavoro quello del monnezzaro. Non credete a chi vi dice il contrario. Mica è più come una volta. Il carrettino e lo spazzolone di saggina. Acqua ata. Ormai noi siamo super tecnologici : tute fosforescenti, guantoni, stivali, casco e mascherina. Ci danno pure il cellulare di servizio, per tenerci in contatto con la centrale. Per non parlare del veicolo: autocarro gigante Iveco con regolare dispositivo tritura rifiuti e una plancia che sembra quella di un Boeing. Solo il salario è rimasto all’età della pietra...

Io però non mi lamento. Sono scapolo e a fine mese ci arrivo quasi tranquillo. Dico quasi perché più di metà della mia paga va dritta nelle tasche della padrona di casa. Bivani arredato con angolo cottura, trentacinque metri quadri in tutto. Ci ho pure la finestrella nel bagno. Una sciccheria. Perché non mi sono sposato? Perché tutti i miei colleghi sposati o hanno divorziato o non sanno dove sbattersi la testa per tirare avanti. Pure Salvato’. Metà dei suoi soldi se li piglia l’università della figlia e l’altra metà le medicine del figlio. Con la rimanenza dovrebbero campare tutti e tre per un mese. E poi, siamo sinceri, non è facile dover dire a una ragazza “faccio il netturbino”. Sapete com’è. I pregiudizi. Una volta ero fidanzato con una brunetta che lavorava come segretaria da un avvocato. Quando mi ha chiesto che mestiere facevo, le ho detto “impiegato comunale”. Il che in parte è vero. Da noi è ancora il sindaco in persona che ci dà il pane. Non per molto, però, perché pare che l’anno prossimo ci trasformiamo in azienda pure noi: AMURR, azienda municipalizzata raccolta rifiuti. Suona fico, no? Sembra qualcosa che abbia a che fare con l’amore. L’amore per la pulizia. Salvato’ non è d’accordo, forse è per questo vuole andarsene in pensione. Come lo so, visto che non parla mai? Dalla faccia che ha fatto quando gliel’hanno detto. Io, invece, sono sicuro che non cambierà niente, a parte gli stipendi dei capi. Monnezza raccoglievamo prima, monnezza raccoglieremo dopo. Anche i soldi saranno sempre gli stessi. Si spera. E poi, male che vada comincio a cercarmi un altro lavoro. Sono ancora giovane e ci ho pure un diploma di geometra. Però a me in fondo questo mestiere piace. Giuro. Nella monnezza c’è la vita delle persone e la storia delle città. Dalla monnezza che lascia la gente capisci con chi hai a che fare. Conosci meglio il tuo prossimo. Come disse una volta il mio vicino di casa, il professor Orlandi, un vecchio professore di latino in pensione :” immunditia est perfumus mundi” La spazzatura è il deodorante del mondo, mi ha spiegato. Cosa volesse intendere, lo sa lui. Per come l’interpreto io, significa che il mondo puzza molto più della sua spazzatura, che al confronto di chi la produce è un profumo inebriante. Sarà, professo’, ma se venisse qui dove mi trovo adesso, incrocio Via Pirandello-

Piazza Unità d’Italia, altezza civico 42, mi sa che sentirebbe solo puzza. E’ vero, Salvato’? Sì, buonanotte. Però, ne buttano di cose i benestanti. Guarda qui, ci sono pure un televisore e una lavatrice nuovi nuovi. Nei cassonetti dei quartieri popolari al massimo trovi qualche vecchio materasso tutto sbrindellato e le sedie di legno con le gambe rotte. In compenso, nell’immondizia dei signori non ci sono tutte le siringhe che si trovano in quella dei poveracci. All’inizio pensavo che nei rioni popolari si consumassero tutte quelle siringhe perché i morti di fame s’ammalano più dei ricchi. Poi mi hanno spiegato. I preservativi usati, però, sono gli stessi: una infinità, sia qui che là. Le prostitute rumene e albanesi, infatti, sono ragazze democratiche, non fanno differenze di censo: tante ne trovi nei quartieri alti e tante nei viali della periferia. Qualcuna ormai la conosciamo pure, ci saluta con la mano quando iamo. Sono giovanissime, alcune davvero molto carine. Sono già le quattro e mezza, Salvato’, sbrighiamoci sennò non ce la facciamo a completare il giro. Guarda, c’è un bar aperto. Che fa, ci fermiamo un attimo? Magari stanno sfornando i primi cornetti caldi. No, Salvato’ non è d’accordo: gira il testone verso di me tenendo le mani sul volante e mi lancia una delle sue solite occhiate di disapprovazione. Questa di stanotte vuol dire “più avanti”, ci fermiamo più avanti. Io lo so perché non si vuole fermare qui, Salvato’. Perché si vergogna. Questo è un bar chic, un bar dei quartieri-bene, con clientela adeguata al posto. Lì dentro si sentirebbe a disagio. Quando facciamo il turno di notte, il nostro bar di solito è quello vicino alle acciaierie, sulla strada del rientro. Mangiamo il cornetto insieme agli operai. Tute sporche loro e tute sporche noi. Tutti fratelli. Fermati, Salvatore, capolinea. Ci facciamo ‘sto vialone e per stanotte abbiamo chiuso.

Non so perché ogni volta gli dico di fermarsi. Lo farebbe lo stesso. Ci ha tutte le tappe in testa, ormai. Il fatto è che sta sempre assorto nelle cose sue e io ho paura che salti qualche punto di raccolta. Uh, cinque cassonetti. Stracolmi. C’è di tutto anche qua. Uno ha anche lo sportello aperto e un gatto nero che ci fruga dentro. Pussa via, brutta bestiaccia. Puzza pure più del solito. Bisognerà dirlo a quelli della squadra-lavaggi. Lo sposto e lo metto sull’elevatore. Ecco che si solleva e comincia a rovesciare il suo carico puzzolente sul camion. E ora questo cos’è? Oh, Madonna ... Fermati, Salvato’, ferma subito la sminuzzatrice e scendi, per l’amor di Dio!! Un fagotto. E dentro un fantolino infreddolito. E’ appena nato, ci ha ancora attaccato il cordone ombelicale. Mi tornano in mente le parole del professore: immunditia perfumus mundi. Che dici, Salvato’, è ancora vivo? Salvato’ fa cenno di sì con la testa. E’ spaventato pure lui. Salvato’ ha ragione: per fortuna è ancora vivo. Muove la testolina. E mo’ che facciamo? Piglia il giaccone sul camion, Salvato’, sennò muore congelato, povero piccerello. Anzi, piccerella. Mi guardo attorno. Non c’è un’anima viva. C’è solo una ragazza in minigonna vertiginosa,borsetta e tacchi a spillo che appena ci vede fermi col fagotto in mano comincia ad avvicinarsi. La conosco, si chiama Irina. Mentre lei prende in braccio il neonato io chiamo il 113. Chissà chi l’ha abbandonato. Forse la badante extracomunitaria di qualche ricca vedova o qualcuna delle battone del viale. Vallo a sapere. Ecco che arrivano l’ambulanza e la polizia. Irina si allontana. Gli infermieri caricano la bambina e partono sparati per l’ospedale. Noi raccontiamo ai poliziotti come l’abbiamo trovata e gli lasciamo le generalità. Ci voleva la volante per far parlare Salvatore. Risaliamo sul camion. Che nottata, eh Salvato’? Come non detto.

Tracce

“Uova fresche!” Ecco. Ha dato il via. Sta qui dall' ultima era glaciale e inizia sempre così la sua giornata di lavoro. Dopo di lui, partono a raffica tutti gli altri: il venditore di pentole, quello di abiti, quello di scarpe e via di seguito. Solo io resto in silenzio davanti al mio banco. Io non ho roba fresca da vendere come Martino, anzi la mia mercanzia in genere è quanto di meno fresco ci possa essere in giro. Vendo libri, usati e nuovi. Libri in edizione economica con qualche annetto già sulle spalle, quelli che nessuno nelle librerie guarda più. Perché da qualche tempo la mania del fresco ha preso pure gli acquirenti dei libri. Cercano sempre l'ultima novità, in genere un thriller. Pare che ormai si scrivano solo thriller. A chi verrebbe mai in mente di comprare un Conversazione in Sicilia in edizione Struzzi Einaudi? Solo a chi s'accosta alla mia bancarella. Io non lodo la mia merce. La mia merce si loda da sola. Ho sempre scelto buoni libri e scartato best-seller alla moda e manuali di giardinaggio. Eppure molti cercano quel genere lì e vanno via delusi quando s'accorgono che l'unico manuale che possono portarsi a casa è l'arte della guerra di Sun Tzu. Faccio questo mestiere da dieci anni, da quando sono andato in pensione. Prima facevo il maestro elementare. Ho trascorso quasi tutta la mia vita a spiegare ai bambini che soqquadro si scrive con due q e che un po' non vuole l'accento sulla o. Quando però, alla fine del quinto anno, mi accorgevo con soddisfazione che l'avevano imparato per bene, insieme a tutto il resto, me li toglievano per affidarli ad altri. Mi privavano dei miei alunni nel momento più bello, quando potevo iniziare con loro il viaggio meraviglioso nella letteratura e nella magia dello scrivere. Nessuno può capire quanto sia affascinante aiutare una piccola mente, avida confusamente di tutto, ad aprirsi all'universo colorato e stordente del sapere, quello con la S maiuscola. E nessuno può capire quanto sia frustrante per un insegnante dover troncare il lavoro a metà, quando l'età dei discepoli è quella giusta per affrontare insieme il tratto più impervio del viaggio.

Ma io ero solo un maestro elementare. Per contratto, dovevo fornire solo i rudimenti e gestire il livello più facile del gioco. Per le fasi più complicate del videogame della conoscenza, i miei giovanissimi giocatori avrebbero avuto altre guide. Mi è sempre piaciuto paragonarmi al manuale d'istruzioni di un videogioco, ma un manuale limitato alle nozioni di base, all'uso dei tasti fondamentali. Anche se ho ormai la bella età di 75 anni, ho seguito fin dall'inizio con grande curiosità e interesse l'evoluzione tecnologica degli ultimi lustri. Uso regolarmente il computer e navigo in Internet. Per me, figlio dei lumi a petrolio e dei film in bianco e nero, è come attraversare una lussureggiante foresta pluviale piena di fascino e pericoli. E' per questo che non ho mai criticato, come certi tromboni di miei colleghi, l'uso del pc e dei giochi elettronici da parte dei bambini. Anzi, l'ho sempre incoraggiato, cercando di sfruttare il divertimento per favorire le capacità d'apprendimento dei miei alunni . Un videogioco intelligente talvolta stimola la mente quanto un buon libro. Ma i libri...oh i libri certo sono insostituibili. Nessuna dvd e nessun e-book potrà mai trasmettere il piacere acuto e pervasivo che si prova sfogliando le pagine di un libro, sentendole crocchiare fragranti tra le dita, come pane caldo di forno, quando il volume viene aperto per la prima volta oppure osservandole, invereconde, nel loro civettuolo disfacimento quando appartengono ad un libro posseduto troppe volte. Ebbene sì, lo confesso: sono stato un seduttore insaziabile di libri, più Don Giovanni che Casanova. Ho letto di tutto, roba bella e roba brutta. Ma anche i brutti libri talvolta si lasciano dietro una scia di profumo , come una frase da ricordare o una riflessione intelligente. La letteratura, i libri : lo specifico del genere umano, l'antidoto che ci impedisce di continuare a saltare da un ramo all'altro di un albero nutrendoci di bacche e banane. E' per questo che vendo libri. Non sono tutti capolavori i miei libri e spesso sono gualciti, rovinati da un uso distratto, sciatto o esagerato. I loro titoli a molti potranno non dire nulla, perché magari quel tale scrittore arabo non lo conosce nessuno all'infuori degli addetti ai lavori. Ma sono il mio mondo, la finestra

sempre aperta sulla landa sconfinata della fantasia. Ricordo quasi tutti i libri che ho letto, anche quelli della primissima giovinezza. Non avevo nemmeno 14 anni e già mi chiudevo la notte nel bagno con la Lady Chatterley dei miei turbamenti erotici di adolescente. Ma mi hanno fatto compagnia, tenendomi per mano nelle strade della vita, anche il sud turgido e violento dei Caldwell e dei Faulkner, le raffinate atmosfere della Du Maurier, gli sguardi dal ponte di Miller, gli uomini in barca di Jerome, la Napoli barocca e lazzarona di Malaparte, le escluse di Pirandello e gli spiriti allegri di Coward. Ad elencarli tutti, non basterebbero due giorni interi. Non è vanità di acculturato, la mia. E' solo orgoglio di seduttore. Lo stesso orgoglio che fa sciorinare ad un vecchio sciupafemmine incallito cifre e nomi delle sue imprese amatorie di gioventù. Io, mandrillo della parola, posso elencare solo titoli e autori. Di donne ne ho avuta una soltanto, dolcissima e sfortunata. L'ho sposata troppo tardi e abbandonata troppo presto, per seguire un bisogno sterile e folle di solitudine, la necessità impellente di non lasciare impronte sul terreno. E’ morta l'anno scorso. Era molto più giovane di me e piena di gioia di vivere. Una gioia ingenua, priva di orpelli mentali e di complicate filosofie da eggio. Una gioia contadina schietta e semplice, da sublime ignorante che null’altro desiderava conoscere oltre quello che l’esperienza le aveva insegnato . Non è giusto che sia toccato prima a lei. La morte, Ariele maligno e dispettoso, troppo spesso predilige chi alla vita non chiede nulla, risparmiando chi invece alla vita rimprovera tutto. Dicono che non mi abbia mai dimenticato e che abbia sempre sperato, in segreto, che un giorno tornassimo insieme. Povera Irma: il sapere che non c’erano altre donne accanto a me l’aveva illusa che io ancora le appartenessi. Le donne sono fatte così: ci considerano degli esseri inferiori incapaci di badare a noi stessi e di spenderci da soli in giro per il mondo. Nel loro immaginario, iamo dalla tutela della madre a quella delle mogli e fidanzate senza soluzione di continuità e se ci lasciamo con una di esse è perché ne abbiamo subito un’altra pronta a prendere il posto della prima. In questo puzzle ideale, dove ogni tessera prima o poi deve trovare la sua casella, non c’è posto per l’uomo solo. L’uomo solo, nell’immaginario delle donne, è un

prodotto difettoso, uno scherzo di natura, un bizzarro gargoyle estraneo all’umano consorzio. Lo accettano fedifrago, manesco, biscazziere, menzognero, distratto, insensibile, inetto ma non solo. Solo mai. E’ qualcosa che non capiscono e non ammettono, perché l’uomo nasce dal ventre di una donna e sul ventre di una donna deve sempre, per forza, trovare rifugio, come un porto sicuro nella tormenta. Io invece la solitudine l’ho sempre vezzeggiata, anelata, invocata. E alla fine ne ho fatto la mia vera sposa. Una sposa tradita mille volte con la letteratura, ma mai abbandonata. La letteratura è stata l’amante calda, giunonica, scostumata con cui saziare le voglie primitive e consumare gli amplessi più violenti. Ma la vera e unica donna della mia esistenza è stata la solitudine, testimone discreta e comprensiva della mia inabilità alla vita, della mia assoluta incapacità, fatta eccezione per il rapporto educativo con i bambini, di stare come uomo tra gli uomini, con tutto il bagaglio di banalità e ipocrisie che ciò comporta. Irma soffriva di tutto questo ma provava a sopportarlo. Tanto io la escludevo, insieme a tutti gli altri, dai miei orizzonti e dalla nicchia di egoismo in cui mi ero imbozzolato, tanto lei (composta, silenziosa, tollerante) provava a scalfire, con la sua dolcezza, il muro di indifferenza che avevo innalzato tra di noi. Ho messo fine all’agonia del nostro matrimonio dopo cinque anni di fidanzamento e appena pochi mesi dal giorno in cui, radiosa nel suo abito bianco, Irma aveva oltreato per la prima volta il portone della nostra casa di novelli sposi, una piccola villetta bifamiliare di periferia lontana dai rumori e dalle folle del centro, in un quartiere dominato dai silenzi tipici dei luoghi che al mattino si svuotano dei suoi abitanti per ripopolarsi soltanto nelle ore serali. Ho riattraversato per l’ultima volta quel portone in una mattina d’aprile di quarant’anni fa. Avevo 35 anni e un morbo oscuro che mi rodeva dentro. Pensavo di guarirne lasciandomi tutto alle spalle e dedicandomi soltanto al mio lavoro e alle mie letture. Irma non disse nulla quel giorno e mi preparò il caffè come se quella fosse una giornata uguale a tutte le altre. Non volevo che mi preparasse il caffè e me lo portasse a letto, glielo avevo detto tante volte. La mia cultura progressista, egualitaria, aborriva questi gesti di sottomissione femminile. Ma lei, espressione

di una generazione di donne abituata ad accudire l’uomo più che a conviverci, non capiva il perché della mia insofferenza verso quei rituali di affettuosa quotidianità e credeva che il mio fosse soltanto un modo, un ulteriore modo crudele e sprezzante, di ricordarle il fallimento della nostra unione. Non pianse, almeno non rammento che lo fece alla mia presenza. Io non mi voltai mai indietro, non ne ebbi il coraggio. Nel giugno di quell’anno cambiai città, casa e scuola, ando un’ideale spugna sulla lavagna del mio tempo. Tabula rasa. Si ricomincia. Le notizie sulla vita da separata di Irma da allora me le ha fornite, messaggera per istinto, ione e rabbia, mia sorella Beatrice. Non le ho mai chiesto di farlo e anzi accoglievo sempre i suoi resoconti con una smorfia di fastidio, quasi per farle capire che quelle ambasciate erano l’ultimo dei miei affanni. Ma in fondo non era vero. Non ci sono stati altri uomini nella vita di Irma. Come io, d’altronde, non ho avuto altre donne. Le urgenze del corpo, quei fermenti animaleschi che ogni tanto si ridestavano in me e reclamavano la pace dentro un grembo di femmina, le ho soddisfatte con sporadici e svogliati convegni occasionali. Ma era solo acqua per la sete. Nulla più. Non sono andato al suo funerale, non ne sarei stato degno. Ho mandato soltanto una corona, una semplice corona di gigli e garofani bianchi che mia sorella le ha lasciato sulla tomba insieme ad un bacio. Si volevano molto bene con Beatrice, quasi come germane. Un’amicizia nata in un bar dove Irma lavorava come cassiera. E fu proprio lì, in un pomeriggio afoso di fine estate, che la conobbi, semplice e irresistibile nella sua camicetta a fiori di ragazza degli anni sessanta. Mi innamorai della sua semplicità prima ancora che degli enormi occhi neri e dei corti capelli corvini di cerbiatta calabrese. Attraente nella sua quieta normalità, nel suo essere tutto il contrario di ciò che all’epoca il cinema e le riviste di moda giudicavano indispensabile per l’avvenenza di una donna. Quegli occhi e quei capelli li ho rivisti soltanto tre giorni fa, nel volto di una madre nervosa e indaffarata venuta ad abitare proprio nel palazzo di fronte alla piazza dove vendo bellezza a buon mercato. Ha comprato Il ponte sulla Drina di Andric e Opinioni di un clown di Boll tenendo per mano un undicenne annoiato

e dalle sembianze familiari. Non ho mai creduto alla leggenda che i figli, i figli sconosciuti e inattesi, le tracce più evidenti che può lasciare un pellegrino della vita frettoloso e intabarrato, si individuano al primo sguardo, anche in mezzo ad una ressa indistinta di persone. Mi sbagliavo.

Tie break

Lo tiro forte o lo tiro piano? Se lo tiro forte, rischio di sprecare la prima palla di servizio. Se lo tiro piano, rischio di bruciarmi il match-point…Lo tiro forte, chi se ne frega. Tanto, ho un’altra possibilità. Ma guardalo…C’è rimasto male: settecinque, sei-sei, sei-quattro parziale al tie-break. E questo potrebbe essere il sigillo finale. Povero Andrea. Lui che è abituato sempre a vincere. Lui e quel suo sorriso da pubblicità di dentifricio. Sempre inappuntabile, completo grigio, cravatta Regimental, camicia bianca con ferma-polsi d’oro. Sempre sull’onda, il caro Andrea. Fin dai tempi dell’Università. Da quanto tempo ci conosciamo, eh stronzone? Quante volte ti ho salvato il didietro agli esami? Il paparino ti comprava i libri e tu li lasciavi ammuffire sullo scaffale. Tanto c’era Pierpaolo, no? C’era quel coglione di Pierpaolo che se li studiava per te e poi ti faceva i sunti. Mai una volta che avessi ringraziato. La consideravi una cosa scontata: tu appartenevi ai bramini, alla casta dominante a cui tutto è dovuto. Io ero l’essere inferiore che la sorte ti aveva assegnato come scudiero, per sbrigare al posto tuo tutte le seccature della vita. Il figlio del custode della fabbrichetta di papà. Bravo ragazzo, ma destinato alle briciole. Cosa pensavi, eh stronzone? “Mo’ invito al club del tennis quel contabile da quattro soldi che può pararmi il culo con la finanza e poi, dopo la doccia, gli faccio un discorso a quattr’occhi. Non mi dirà di no. E’ il figlio del vecchio custode di mio padre. Ci conosciamo da bambini. E’ un povero scemo, ha fatto sempre quello che volevo io. E’ uno da pianoterra. Anzi, da scantinato: nella catena alimentare, non rientra manco nel primo anello…” Ci sei rimasto di merda quando ti ho fatto vedere il dossier. Ammettilo, ti eri fatto male i conti. Pensavi di liquidarmi con la solita pacca sulla spalla e la solita promessa di un piccolo aumento: “E forza, Pierpaolo, mettiamoci al lavoro. Per il fine settimana tutto dev’essere in ordine. Sennò stavolta sono guai. Mi raccomando, eh?” E invece stavolta Pierpaolo te l’ha combinata. Perché Pierpaolo conosce tutte le tue evasioni fiscali, euro per euro, e tutti gli imbrogli tuoi e dei tuoi commercialisti. E si è stufato di tenerti la scala. Ora vuole salirci pure lui.

E’ inutile che mi guardi con quella faccia da cane bastonato. E aggiustati la bandana sulla testa, che sembri un cretino. Non tiro ancora, mi dispiace. Questo momento me lo voglio godere tutto. Lo so che sei preoccupato, sennò non ti troveresti sull’orlo della tua prima sconfitta a tennis da quando sei iscritto a questo club. Voglio la vice-presidenza della società. Chiedo troppo, badrone? Mi dispiace, prendere o lasciare. Se accetti, ti rimetto in sesto in conti e te la cavi con qualche piccola multa. Perché io lo so fare, caro dottor Fiorenza, anche se la laurea alla fine l’hai presa solo tu. Grazie a me. Se rifiuti, ti ritrovi in manette e con le banche che si pigliano pure la collezione di francobolli peruviani e il criceto di tua figlia. Cosa dici, con quell’espressione implorante dall’altro capo della rete? Con quella faccia a metà strada tra Willy Coyote che precipita nel canyon e un tizio che ha appena pagato l’IMU? Che non potresti giustificare la mia nomina alla famiglia, perché dovresti rimuovere tuo cognato? E a me che frega, scusa? Sono cavoli tuoi, caro. Lo so che te la fai sotto perché, con tutte le corna che le hai messo in questi anni, ci mancherebbe pure che alla granduchessa le sostituissi il fratello col figlio del custode. Si sa, nell’alta società le corna ano, gli affari restano. Gli affari sono una cosa seria, vero stronzone? No, mi dispiace, non ti lascio via d’uscita. Non voglio soldi. Voglio la vicepresidenza. Vedi un po’ come puoi fare. Lavorati il consiglio d’amministrazione, parla con i parenti di tua moglie ma vedi di sbrigarti. Voglio la lettera in tasca prima di iniziare a fare il prestigiatore con le tue fatture. Non hai altra scelta, ormai. Siamo al tie-break. Guarda un po’ chi è arrivata, la granduchessa; lei e le sue tette al silicone puntate contro il mondo. Ne hai fatta di strada, Ivana, da quando stavi col sottoscritto. Dal Sangiovese al Sassicaia. Lo so, è sconvolgente: il tuo maritino per una volta sta perdendo. E non solo la partita. Ti chiedi dove ho imparato a giocare a tennis? Me l’ha insegnato lui: da ragazzo gli facevo da partner. Giocavamo la sera, tre volte a settimana. Poi lui ad una certa ora mollava tutto per salire sul Ferrari e andare a bagordi e io invece continuavo. Palle su palle sbattute al muro. Per ore intere. Con rabbia.

Perfetto, ha ricominciato a piovere. La piccola pozzanghera vicino ad Andrea ha ripreso a gonfiarsi d’acqua. E la sua Lacoste da 180 euro ad inzupparsi. Basta, ho deciso: lo tiro forte, così la facciamo finita. Lancio la palla. La vedo attraversare il campo da gioco a velocità supersonica, are davanti ad Andrea, finire dritta nella pozzanghera e rimbalzare fuori. Uno schizzo di fango colpisce il bel faccione da rotariano del mio datore di lavoro. Game, set e match. What else?

Offerte speciali

Oramai ne era sicuro: voleva fortissimamente quell' incontro. Non si trattava di un incontro con una donna (di quelli ne aveva avuti a sufficienza ed erano stati, più che altro, una fonte di problemi) e neppure con una personalità importante o una star del cinema. No, Fausto si era messo in testa di voler incontrare il diavolo. Sì, proprio quello con le corna, il mantello rosso e lo spiedo. Non lo voleva conoscere per curiosità, amore del soprannaturale o voglia di poter raccontare qualcosa che avrebbe fatto colpo sugli altri. Non gli importava nulla di sapere se Belzebù esisteva davvero o meno: era un agnostico convinto in materia di fede e ripartiva equamente il suo granitico scetticismo tra il sacro ed il suo esatto contrario. No, lui voleva incontrarlo per proporgli un baratto. Il solito baratto: l'anima in cambio di soldi e successo. Ma con le carte a posto stavolta. Tanto di contratto con caparre, penali e facoltà di recesso. Mica era scemo. Voleva la garanzia che il maligno non sarebbe venuto a prenderselo prima di vent’ anni. Aveva fatto un rapido calcolo. Ora ne aveva cinquanta. Morire a settanta, ricco, satollo e circondato da avvenenti fanciulle scarsamente vestite, non era francamente una prospettiva così malvagia. Tenuto conto anche del fatto che, nelle condizioni in cui si trovava, non sarebbe arrivato vivo al Natale seguente. Che aveva da perdere? L'idea dell'abboccamento con il principe degli Inferi gli era venuta dopo l'ultimo pignoramento e gli era piaciuta tanto che spesso indulgeva ad immaginarne mentalmente i dettagli. Ad esempio, seduto su una panchina del parco, la testa tra le mani ed i pensieri rivolti alle sue solite cose: una moglie che se n'era andata dopo venticinque anni di matrimonio, una figlia che non sentiva da mesi ed un reggimento di creditori famelici che affilavano nell'ombra i coltelli, pronti ad azzannarlo alla prima occasione. Ad un tratto, alzando la testa, si sarebbe trovato di fronte un uomo alto, magro ed elegante, con un ghigno sardonico all'angolo della bocca. Ed uno strano odore di bruciato attorno a lui. Poi ricordava che una scena molto simile era descritta nel primo capitolo de "II maestro e Margherita". L'incontro agli stagni Patriarsie. Berlioz e Bezdomnyj , i due letterati. Il primo faceva una brutta fine, però. Meglio cambiare scenario. Ecco: in bagno, sotto la doccia, nelle forme di una splendida bionda procace e

lasciva. Oppure travestito da automobilista in panne sull'autostrada. O in chiesa, seduto nella panchetta accanto alla sua. Che ci farebbe un diavolo in chiesa, vi chiederete. Ci entrano ogni tanto anche loro, a quanto pare: è un posto frequentato dai migliori peccatori. Ma soprattutto vi chiederete che ci farebbe in chiesa Fausto. Ebbene sì, un tentativo l'aveva fatto pure con la concorrenza di Lucifero. Disperato, tempo prima aveva rinunciato ad anni di sdegnoso disinteresse ed iniziato a bazzicare la parrocchia, per implorare l'intercessione di santi e madonne. A don Ottavio, l'anziano parroco, non l'aveva data a bere, però. Lo capiva dagli sguardi indignati che gli lanciava dall'altare ogni volta che lo vedeva entrare. Ma Fausto non ci faceva caso. Lui era come i protestanti, il rapporto con la divinità lo allacciava direttamente, senza intermediazioni. Ma tanta devozione, seppur tardiva, non aveva ancora sortito apprezzabili risultati. Quella del cristianesimo era una azienda all'antica, evidentemente. Non cambiavano strategie di vendita da secoli . Il loro ritornello era sempre lo stesso: nessuna felicità su questa terra, solo la speranza della salvezza eterna. E sai che soddisfazione ... Come fero ad avere ancora tanto seguito con un catalogo di prodotti così scarno, era un arcano che Fausto non riusciva proprio a spiegarsi. Contraddiceva tutte le regole del marketing. Questa di paragonare le istituzioni religiose, terrene ed ultraterrene, alle imprese commerciali era una delle sue metafore preferite. Ma non c'era nulla di irriverente o di empio in ciò. La sua era solo una deformazione professionale. Prima di avviare quella sciagurata attività che l'aveva ridotto sul lastrico, Fausto aveva infatti lavorato per anni in una importante azienda di elettrodomestici, come responsabile locale del settore vendite. Un'epoca felice finita il giorno in cui, per dar retta alla moglie, aveva deciso di investire tutti i risparmi di anni e anni di lavoro. Con i risultati che aveva davanti. Niente da dire, Erminia era proprio infallibile nel dispensare buoni consigli e suggerire scelte azzeccate. Un vero talento naturale... Mentre chiudeva le luci della stanza e entrava sotto le coperte, gli venne da ridere pensando che anche all'altra ditta, quella delle fiamme e dello zolfo, non mancavano mai i clienti. Ma almeno lì c'era una certa diversificazione dell'offerta. Sarà che avevano una dirigenza più spregiudicata. 2. C'era qualcosa che stava squillando in casa. A quell'ora della notte, poteva essere solo il telefono. Ma forse era solo la sua immaginazione. Meglio non svegliarsi per così poco. Anche perché stava facendo un sogno bellissimo e non aveva alcuna intenzione di interromperlo: si trovava sul proprio yacht al largo di un'isola tropicale (la spiaggia era vicinissima, con la sua striscia di sabbia lucente al limitare di una lussureggiante foresta di palme), spaparanzato a prora

in costume da bagno, con una bibita fresca in una mano ed una mulatta ventenne nell'altra. Eppure c'era davvero qualcosa che continuava a squillare. Si ridestò di malavoglia, mentre il telefono non desisteva dal martoriare le sue orecchie con il suo trillo imperioso e con la spietata determinazione che possiedono solo i telefoni e le sveglie. "Pro... pronto" . "Buon giorno! Parlo con il sig. Salvati? Il sig. Fausto Salvati?" "Guardi che sono le tre di notte, altro che buon giorno. Sì, sono io. Chi siete e che volete?" Nonostante fosse impastata di sonno, Fausto provò a dare alla sua voce il giusto tono d'indignazione e sorpresa. "Questo è il call center della Progetto Caronte 2000 ed io sono Lella." "Buongiorno Lella. Anzi, buona notte. Posso sapere ora che diavolo vuole e perché ha disturbato il mio riposo?" "Guardi che ci ha cercato lei." "Io?!? No, senta: ci sarà stato un equivoco. Io non ho mai chiamato alcun Progetto Caronte. Non so nemmeno di cosa vi occupate" "Scusi, qui a noi risulta che lei gradirebbe contattare il Demonio o qualche suo incaricato. Ho ricevuto stamattina una segnalazione dal Servizio Clienti. Se non è così, le chiedo scusa. Io sono solo una centralinista. Eseguo ordini." La cornetta rimase a mezz'aria nelle mani di Fausto, che la rimirò in lungo ed in largo come se la stesse vedendo per la prima volta. Uno scherzo. Ma di chi? Nessuno sapeva del suo desiderio di incontrare Satana. A meno che...Vuoi vedere...Quello stronzo di Mario, il tabaccaio che aveva il negozio accanto al suo. Una volta gliene aveva accennato al bar, ma con accenti puramente scherzosi. E poi era successo parecchio tempo prima. E poi Mario non sembrava il tipo da prestarsi a certe buffonate. Ma se non era stato lui... Mentre dall'altro capo del filo continuavano gli accorati "pronto... pronto...." della ragazza, Fausto decise di stare al gioco per un po': "Ah sì, ora mi ricordo. Mi scusi, signorina. Mi dica tutto." "Allora, caro sig. Salvati, sono stata incaricata di fornirle le necessarie

delucidazioni sui nostri servizi. Mi dica di cosa ha bisogno e noi vedremo di proporle il miglior pacchetto per le sue esigenze." La cosa cominciava a diventare divertente. Aveva fatto bene a non chiudere il telefono in faccia alla sconosciuta. Che, a giudicare dalla voce, doveva essere pure molto giovane e carina: "Mi permette prima una domanda?" "Certo, mi dica" "Ma lei quanti anni ha? Dalla voce sembra giovanissima." Per contratto, le centraliniste dovevano sempre mostrarsi allegre e cordiali con i clienti, anche quando costoro facevano degli apprezzamenti sulla loro presunta avvenenza. La Lella conosceva bene le regole aziendali: "Ne compirò 351 il prossimo mese, signor Salvati. Non sono proprio giovanissima", rispose con un malizioso squittio. "Solo 351? Ma è ancora una ragazzina! Immagino che abbia un diploma da strega, allora." La donna sospirò, come turbata da ricordi dolorosi: "Purtroppo non ho potuto completare gli studi. Sono stata mandata sul rogo un anno prima del saggio finale." "Ci andavano giù pesanti a quei tempi, eh?" "Non me lo dica. Un periodaccio...Ma adesso andiamo a noi, signor Salvati: cosa vorrebbe esattamente?" Emise anche lui un forte sospiro prima di parlare, onde creare la dovuta atmosfera di drammaticità: "Beh, dovreste già saperlo, vivo in una situazione estremamente precaria. Diciamo che, in cambio della solita cosa che chiedete voi, vorrei la serenità di un bel po' di soldi e qualche ragazza per allietare la mia vecchiaia." "Pretese comprensibilissime, signor Salvati. Dunque, attualmente ci sono in corso tre promozioni per il suo target di spesa"

"Target di spesa? Guardi che io non devo comprare niente. Casomai vendere...." Risata di compatimento dall'altro capo del telefono. "Ma no, si dice così in linguaggio aziendale. Il suo ‘target di spesa’ nel caso nostro è costituito dall' età e dallo stato di salute. A noi risulta che lei attualmente gode ottima salute ed anche l'età sembra quella giusta. Quasi al limite, ma è quella giusta." "Ma scusate, a voi che importa? Siete o non siete l'aldilà? Se volete far campare un tizio fino a cent'anni, basta che lo decidiate." "Signor Salvati, vedo che lei sconosce le regole di questo mercato: per accordi interaziendali e a meno che non firmino con noi un contratto, non possiamo influire su fattori come lo stato di salute o gli anni di vita degli esseri umani. Sono faccende di competenza della Global Paradise. Sì, proprio loro. E poi, per età giusta qui si intende una età vicina alla data del decesso." Nonostante fosse consapevole che quella era tutta una burla, Fausto non poté far a meno di sobbalzare: "Co...Come... Età vicina al decesso? Vuoi dire che non mi resterà molto da vivere, anche dopo il vostro intervento?" "La data esatta non posso dirgliela. Non sono autorizzata, cerchi di comprendermi. Ma posso comunque garantirle che per i prossimi dieci anni non dovrebbe avere problemi." Dieci anni. Pochini...Era destinato a crepare a 60 anni, anno più, anno meno. E vabbè, vuol dire che avrebbe cercato di sfruttarli al meglio, con l'aiuto della "Caronte. Ma che idiozie andava dicendo? Quella era tutta una farsa, anche se recitata bene. Era proprio brava la signorina Lella. Lei e quelli che le avevano preparato la sceneggiatura. "Ma non ha detto che godo di buona salute? Anche questo dovrebbe essere un elemento negativo per voi." "E invece no: per noi è importante che il potenziale cliente sia immune da malattie gravi o invalidanti. Vede , signor Salvati, la ADE è una ditta seria, presente sul mercato ormai da millenni, malgrado qualche goffo tentativo di imitazione. Noi vogliamo che il cliente non abbia davanti una esistenza troppo lunga, per non dover aspettare troppo prima di incassare la nostra ‘provvigione’,

ma contemporaneamente vogliamo che egli si possa godere in s.p. i servizi che gli offriamo, per tutto il tempo che gli resta da vivere " "In s.p.?!?" La signorina cominciava a dare segni di insofferenza. Un cliente come quello, che le faceva perdere tanto tempo dietro a dettagli così insignificanti, non le era mai capitato. Tanto più che aveva una lunga lista di altre chiamate da fare prima della fine del turno. "S.P. è l'acronimo di due paroline che non posso pronunziare, pena la perdita del mio posto di lavoro..." "Aspetti...Ho capito: santa pace. Eh, eh..." "Ecco, bravo...Allora, signor Salvati, come le stavo dicendo..." "Un momento, poco fa ha parlato di una certa ditta ADE. Ma non vi chiamate Progetto Caronte?" Fausto era certo di esser riuscito a coglierli in fallo, facendo rilevare quella che lui considerava una clamorosa disattenzione, ma la ragazza replicò prontamente e con piglio estremamente disinvolto: "La Progetto Caronte, come dice il nome stesso, è una articolazione della ADE, signor Salvati. La Progetto si occupa di stipulare i contratti di cessione per la casa madre. Ovviamente parliamo di cessioni sottoscritte da clienti volontari, ossia da quelli che, senza l'accordo, qui non ci finirebbero mai dopo morti." "Mi sta dicendo che, se non dovessi firmare, da morto sarei destinato ad andare ai piani di sopra?" "Certo, signor Salvati."-ora la Lella si stava davvero spazientendo-"Se lei non dovesse sottoscrivere alcun impegno con noi, andrà dritto dritto lì una volta crepato! Cosa c'è, ci vuole ripensare? Guardi che ai suoi guai non frega niente se lei un giorno andrà da una parte piuttosto che da un'altra. Ci rifletta...Ma in fretta!" "Eh, non si arrabbi...Mi voglio informare bene, prima di decidere...Avanti, mi parli delle vostre offerte" "Oh, finalmente...Dunque, come le dicevo, per il suo profilo attualmente abbiamo in corso tre opzioni: la prima prevede una durata decennale ed un deposito di dieci milioni di euro sul suo conto corrente. La seconda una durata quinquennale e quindici milioni di euro. La terza una durata biennale e venti

milioni di euro. Quale preferisce?" “Ma questi ci sono o ci fanno?” -pensò Fausto- “Ci vuole proprio una gran faccia tosta per divertirsi così sulle sventure altrui." Per un attimo fu tentato di smascherare l'imbroglio ed investire di improperi la sedicente centralinista. Poi decise di andare ancora avanti con quella pantomima, fino al punto in cui la messinscena si sarebbe smascherata da sola. "Mah, non saprei...Così su due piedi. Certo, sono tutte proposte allettanti, ma vorrei leggere bene il contratto prima di decidere. Insomma, io mi aspettavo un contatto diretto con voi, che so, un rappresentante, uno dei dirigenti, magari il Grande Capo in persona." "Signor Salvati, quella è roba vecchia. I nostri agenti non fanno più visite a domicilio da quasi un decennio, ormai. Siamo nell'era dei computer e di internet. Sa quanto costava all'azienda sguinzagliare i dipendenti a destra e a manca? Ora si fa tutto premendo un tasto. Comunque, avevamo previsto le sue riluttanze. Succede spesso. Guardi sotto il cuscino, ci troverà uno dei nostri moduli precompilati." II facsimile era stampato su un carta di colore rosso chiaro, con i caratteri neri. Difficile descrivere la faccia di Fausto quando lo trovò. La prima cosa che pensò, ato il primo momento di stupore, fu che qualcuno si fosse introdotto in casa in sua assenza. Ma scartò subito l'ipotesi, perché ricordava bene di aver sollevato il cuscino prima di coricarsi, per sprimacciarlo un po', e del foglio non c'era traccia. Cominciò a leggerne il contenuto con le mani colte da un irrefrenabile tremolio: "Contratto di vendita dell 'anima , ai sensi degli artt. 1470 e ss.gg. del codice civile italiano. II sottoscritto, ecc.ecc , nato a,ecc.ecc con il presente atto cede alla ditta ADE s.p.a., nella persona del legale rappresentante per l'Europa meridionale, Astarotte dr Furio , tutti i diritti riguardanti la propria anima, con l'impegno di ricevere in cambio la somma di €….La predetta somma verrà liquidata al cedente entro gg. 20 dalla stipula del contratto, mediante accredito sul proprio conto corrente bancario o mediante assegno circolare non trasferibile. Il presente contratto ha validità di anni...... ed alla scadenza legittima il cessionario ad esigere la propria controprestazione, appropriandosi dell'anima del cedente per gli usi che ne riterrà opportuno fare . Non sono ammesse proroghe o rinnovi". Eccetera, eccetera. C'era proprio tutto, compreso il Foro competente per le

controversie... "Signor Salvati, lo confessi: non ci credeva, eh? Fate tutti così quando telefoniamo. Vi convincete solo quando guardate l'estratto conto." Non era possibile. Eppure non c'erano altre spiegazioni. Solo dopo averla pronunziata si rese conto dell'assurdità della prima frase che fu in grado di articolare: "Le...Lei cosa mi consiglia?" La Lella a quel punto abbassò la voce :"Signor Salvati, che dirle...Lei non è un grosso imprenditore con fallimenti miliardari da evitare ed ex mogli ingorde da mantenere. E' un piccolo commerciante. Dieci milioni potrebbero pure bastarle. Poi faccia lei." "Perché parla così piano? Non la sento bene..." "Non posso dare certi consigli a voce alta. Se mi ascolta qualcuno, o un guaio" "Certo, capisco. E vada per i dieci anni e i dieci milioni, vah." Dieci milioni di euro. La prima esclamazione che gli venne in mente fu "madonna santa". Poi, viste le circostanze, optò per un più appropriato (anche se ingrato) porco demonio. Subito dopo aprì un ideale registro di contabilità nel proprio cervello ed iniziò a suddividere accuratamente la somma, incolonnando le varie voci ed imputando gli importi da destinare ad ognuna di esse: per prima cosa, avrebbe ripianato tutte le esposizioni del suo locale, poi avrebbe intrapreso un tour intorno al mondo di almeno un mese, con soggiorni in alberghi di prima e pranzi in ristoranti a cinque stelle. Al ritorno, si sarebbe comprato una grande casa ed investito un' altra parte del denaro nel rilancio dell'attività. Eh sì , la ruota ricominciava a girare... Chissà, forse sarebbe anche riuscito a riappacificarsi con sua figlia. "Ma ... signorina, nel contratto non si parla delle donne. Se devo vivere soltanto per altri dieci anni, voglio viverli sempre circondato da bella gioventù. Non so se mi spiego..." "Signor Salvati, le vostre leggi non consentono l'inclusione di clausole contrarie al buon costume nei negozi giuridici. Qualunque avvocato potrebbe confermaglielo. Ma poi, scusi, con dieci milioni di euro da spendere pensa di

avere qualche problema a procurarsele?" "In effetti, ha ragione...". Accidenti che gente seria, però. "Signor Salvati, ora se non le dispiace dovrebbe compilare le parti in bianco del contratto e firmarlo." "Sì, certo." Inserì rapidamente i dati mancanti, tra cui le sue generalità complete e la formula prescelta. Giunto alla firma, però, gli venne un dubbio: "Devo firmare col sangue?" "Ma che sciocchezze dice, Salvati. Lei ha visto troppi filmacci. " "Ecco qua...Fatto! A che indirizzo devo mandarlo?" "Ce l'ho già davanti. A lei è rimasta una copia" Impressionante. Ma a Fausto questa spedizione repentina ed invisibile del documento fece anche riaffiorare le iniziali diffidenze sulla genuinità di quella telefonata: "Le dispiace dirmi cosa c'è scritto?" "Ancora sospettoso, eh? Certo che lei è un bel tipo... C'è scritto che il signor Fausto Salvati, nato a Torino il 12-04-1955...” La Lella di colpo ammutolì." Come ... Nato a Torino?", chiese dopo un minuto di angosciante silenzio. "Sì, nato a Torino." "Odd ... Ehm ... Cavoli, signor Salvati, mi sa che c'è stato davvero un equivoco." "Che storia è questa?!" "Sono mortificata...Non capisco proprio come sia potuto succedere...Il Fausto Salvati che cercavamo noi ci risulta nato a Verona il 12-04-1955." "Ma come...Guardi meglio, magari è solo un errore di trascrizione. In fondo, io volevo davvero contattarvi." "No, signor Salvati, nessun errore . Si tratta di un suo omonimo che risiede in Veneto. Sì, nel computer vedo pure una sua richiesta, ma è ancora in fase istruttoria . Ho appena controllato. Con tutte le domande che ci sono in corso, credo che per lei ormai se ne parlerà il prossimo anno."

"Io non posso aspettare tutto questo tempo!" "Non so che farle, mi dispiace. Presenti un reclamo al Servizio Clienti. Devono aver confuso i vostri numeri di telefono. Peccato, perché queste offerte erano davvero convenienti e scadranno tra meno di una settimana. Mi scusi, ma ora devo proprio salutarla. Arrivederci." Clic.

L'ultimo assist

“Ma guarda che idiota. E ala, quella palla. Non sei Pelè.” Peccato non poterglielo urlare. L’allenatore non gradirebbe. E questo sarebbe il mio erede, il nuovo regista della nazionale e della squadra più “scudettata” del Paese. Bell’erede... Ma che ci faccio qui, seduto in mezzo a questi sbarbatelli? Ah già, sono il vecchietto in gita premio ai campionati d’Europa per nazioni. Una specie di santino, insomma. Il calciatore più talentuoso degli ultimi dieci anni portato in giro a mo’ di icona, per gli autografi, le foto con le vichinghe e le strette di mano. Ma di giocare manco a parlarne. Troppo vecchio, caro Donati. Così mi ha detto il Presidente. Ti portiamo con noi, ma solo per l’immagine. L’immagine! Che stronzo. E che sono diventato, uno spot? Dovresti ringraziarci, mi ha anche detto quel cornuto (sì, è cornuto, lo sanno perfino gli uscieri della Federazione). Apprezza la franchezza. E poi mi ha dato pure una bella pacca sulla spalla. Alé, abile arruolato. Ma con la consegna di non rompere i coglioni. E io qui ci sono venuto lo stesso, brutto verme, anche se a te avrebbe tanto fatto piacere uno sdegnato rifiuto. Così liberavi un posto per quel fighetto ventenne dell’under, il figlio di quell’ex portiere amico tuo, quel ragazzino presuntuoso che a per genio per aver tirato un paio di punizioni “a foglia morta”. Io ho segnato almeno trenta gol così, tirando a palombella: il portiere si accorgeva del pallone solo quando era già dentro. Ma Ettore Donati non è mai stato paragonato a nessuno, era Ettore Donati e basta. “Bel calciatore, sì, è elegante, ha visione di gioco, dribbling, un bel lancio..” e bla bla bla bla. Troppo elegante, però. Troppo tecnico, poco muscolare. Fuori dal tempo. Un lusso che il calcio di oggi non si può permettere. Oggi vanno di moda questi qui, tutti bicipiti e pettorali. Sembrano gonfiati con lo pompa per canotti. Correre, correre. Correre e dar pestoni. Siamo tornati al calcio di Firenze. E allora Donati non va bene, anche se non ha nemmeno trentadue anni. E’ già vecchio, Donati, perché fa ancora i tunnel e i pallonetti, povero illuso. Gioca ancora alla foca ammaestrata, ‘sto rimbambito. ‘Tira, Venturin, tira!” Porco demonio, Venturin, è la finale. La finale! Non sei al

campetto dell’oratorio, non ti giochi una coppetta di latta. E’ la finale della Coppa d’Europa. Erano secoli che non centravamo una finale, Venturin. E tu che fai? Ti presenti da solo davanti al portiere e t’incarti sul più bello. E meno male che sei il capocannoniere del campionato. Il capo-coglione del campionato sei, ecco cosa sei.’ Tutti così questi ragazzi, giganti di cartapesta. Però è la migliore nazionale degli ultimi tre lustri, bisogna ammetterlo. Sarebbe un peccato fallire questa occasione. Magari avessi avuto io quei due mediani, quando ero titolare fisso. Il fiore nel deserto mi chiamavano i giornalisti, perché ero l’unico talento in una squadra di carciofi. Eppure me le sono tolte anch’io un paio di soddisfazioni: quel gol ai tedeschi in amichevole ... Stop di petto e tiro al volo in mezza rovesciata. Mamma mia, venne giù lo stadio. Io ci ho sempre tenuto alla nazionale, rispondevo alle convocazioni pure con la febbre. L’inno, la bandiera ... Ora questi qui quando cantano l’inno sembrano una comitiva di cerebrolesi scappati dall’ospedale. E se hanno il ginocchietto sbucciato, mandano subito il certificato medico. ‘ Gesù, per un pelo. Non è entrata per un pelo ... E stiamo più attenti in difesa! Se segnano, non li riprendiamo più’ Ma perché non sono andato in tribuna come le altre volte ... Che poi stasera c’è pure Antonio tra gli spettatori. Ha visto che stavolta sto in panchina e pensa che forse mi faranno giocare. Vallo a spiegare a un ragazzo di dodici anni che il “panchinaro titolare” s’è infortunato in allenamento e che il padre è messo qui solo per fare numero. Che dicono ‘sti due qua accanto? Madonna che bestie. Vorrebbero mandare il nostro terzino destro in marcatura a uomo sulla loro ala. Bravi, così perdiamo la spinta sulla fascia e ci facciamo chiudere nella nostra area. La loro ala è un cesso, non c’è bisogno di marcarla: si marca da sola. Lo capirebbe pure un bambino. A questi puzza ancora l’alito di latte e già ragionano di tattiche ... Stiamo messi bene! ‘Ehi, arbitro, i cartellini colorati non te li hanno dati per ornamento del taschino! Quello è un fallo da espulsione, venduto!’ Va là che s’è fatto male per davvero. Pensavo che recitasse. Ecco, portategli l’acqua miracolosa, così si riprende.

No, non si riprende. “L’erede” è andato. Bel guaio, a cinque minuti dalla fine. Mi sa che per il titolo di commendatore devi aspettare il prossimo giro, mister. Questi giocano in casa. Supplementari, rigori e ti saluto la coppa. Sempre che non arrivi prima il golletto ... E ora chi ci mette? Sicuramente uno dei due armadi seduti vicino a lui. Non è più tempo di fiordalisi. Però io al suo posto non la butterei sull’agonistico: i nostri amici sono nordici, hai voglia a stancarli. Io? Devo entrare io? Dev’essere impazzito. Dopo la partita, il Presidente se lo cucina in fricassea. Entro, entro... Che si crede, che me la faccia addosso? Certo, qualche minuto di riscaldamento non mi sarebbe dispiaciuto. Fa niente, sono pronto lo stesso. Sì sì... ho capito. Lo so quello che devo fare. Mamma mia, ha la faccia bianca come un cencio. Su con vita, è solo la coppa Europa. Ih ih... Vuoi vedere i tacchetti? Eccoli qui. Belli,vero? Ora mi fai entrare, fallito di un guardalinee? Che vuole lo stopper? Sta correndo da me come un matto. Forse s’è innamorato e vuole darmi un bacio. Figliolo, non sei il mio tipo. La fascia di capitano? Ecco cos’era ... Eh già, dimenticavo: ora che sono entrato, la devi dare a me, piscialetto. “Calma,ragazzi,calma: continuiamo a giocare come sappiamo fare. Ancora non hanno vinto niente. Lo so che siete stanchi, ma dobbiamo stringere i denti. Tra poco ci aspettano i supplementari.” Roba da pazzi! Cosa credevano, di giocare contro il Dopolavoro Ferrovieri? Qua c’è da sgobbare, bimbi. Sono così spigliati quando firmano quei contratti stramiliardari e vanno in discoteca con le veline ... Guardali ora: sudati, stravolti, con le magliette strappate e le strie di terra sulle cosce. Manca solo che qualcuno si metta a piangere e a invocare la mamma. Quanto manca alla fine? Meno di un minuto, forse. Recupero? Niente. Meglio, questi non ce la fanno più. Bello ‘sto rilancio su calcio d’angolo. Contropiede. Ho la palla e mezzo campo libero. No, c’è quello spilungone della difesa che mi sta appiccicato addosso. Ma in velocità lo frego. Sono fresco. Mi fermo all’improvviso e poi riparto. Ecco, l’ho saltato. Dribbling secco sullo scatto. E’

finito a gambe all’aria, povero stoccafisso. Ha tentato di stendermi e al posto dei miei stinchi ha trovato l’aria fresca. Ciao ciao. Dov’è quel coglione di Venturin ? Stanno arrivando da dietro come forsennati. Eccolo lì che corre, col terzino alle calcagna. Un aggio filtrante penso di saperlo fare ancora come si deve. Oplà, appena in tempo. Maledizione, testa di cavolo di un mungi-renne, che bisogno c’era di tranciarmi le gambe così? Ho già due menischi rotti, brutto figlio di buona donna. Ha segnato. Non è possibile. Il coglione ha segnato. Anche un bel gol: diagonale rasoterra da sinistra a destra e palla all’angolino. La coppa è nostra. Non ce la faranno mai a pareggiare, manca troppo poco alla fine. Eccoli lì che si abbracciano e si baciano come se avessero vinto la guerra. Sembrano invasati. La panchina è esplosa. I nostri tifosi sono in delirio. Scrivono sempre così i giornalisti, in questi casi. Però è vero. C’è l’inferno. Che faccio, mi alzo? Magari se mi alzo qualcuno di loro si ricorda che tre quarti del gol sono merito mio. No, non mi alzo. Me ne sto qui disteso sull’erba fino alla premiazione. Tanto la partita non riprende più, vedo l’arbitro col fischietto in mano. Tutto finito, siamo campioni. Sono campione. Ma guarda questi, ci fosse uno che si degnasse di venire da me. Errore, uno c’è: il portiere. L’ho sempre detto che è un bravo ragazzo. Un po’ farfallone come portiere, ma bravo ragazzo. Sì, grazie, dammi una mano a rialzarmi. Sì, abbracciamoci noi, visto che gli altri manco ci cagano. Le lacrime no, però. Non ti sembra di esagerare? E adesso che faccio? Saluto tutti con la manina, mi vado a fare la doccia e ci vediamo per la festa. Antonio dov’è? Eccola lì la mia coppa, la più bella di tutte. Ride e salta sulla sedia. S’è pure dipinto la faccia con i colori della bandiera. Sì, tesoro, abbiamo vinto grazie a quel rottame di tuo padre. Dillo a tutti quelli che ti stanno attorno. Dillo anche a quell’arpia di tua madre, che per me ha il nome dolcissimo di exmoglie. C’è l’allenatore che mi viene incontro. Ora sì che ha ripreso colore. Mi tende la

mano. Sì, certo, grazie mister. Anche lei è stato bravissimo. Quanta ipocrisia! E dillo che non mi hai mai sopportato, che hai litigato per giorni con la Federazione perché non volevi inserirmi nella rosa. Però al momento opportuno ti ho fatto comodo. Dov’è l’uscita? Eccola là. Permesso, permesso. Sì, grazie. Siete stati splendidi anche voi dagli spalti. Minchiate: sono rimasti in silenzio per tutta la partita, annichiliti dagli attacchi a ripetizione dei nostri avversari. Guardali adesso, sembrano tanti ubriachi. C’è quella ragazza che tra poco si toglierà pure le mutandine. Oh, finalmente sono arrivato. Mannaggia a lui, il Presidente. Sentiamo che vuole. Dice di fermarmi. Perché? Sto solo andando a farmi una doccia prima che arrivino gli altri. Non ce n’è bisogno, perché ho giocato poco? E che ne sa lui? Io comincio a sudare immediatamente. Vado e risalgo, dottore, tranquillo. Dice che non posso. E perché? Mi dice di voltarmi. E che ci sarà mai dietro, miss Scandinavia con le poppe al vento? No, non c’è. Ci sono invece quei 10 pivelli che mi vengono incontro con un gran sorriso cretino stampato sulle loro facce di tolla. Ma che vogliono? Mi sollevano. Ehi, fate piano. Mi portano in trionfo. Il giro del campo. Cazzarola, non correte così. Non lo dovevano fare. No, dico davvero. Avrei preferito che mi ignorassero. Se mi portano in trionfo, vuol dire che è proprio finita. Non lo dicono, ma lo pensano, lo so. Bravo, ci hai fatto vincere ma ora levati definitivamente dalle palle, tu e i tuoi numeri da prestigiatore. Appendi le scarpe al chiodo, si dice così no? Non vi preoccupate, che il posto non lo posso togliere più a nessuno. Gioco ancora un paio d’anni in serie B, nella squadra del mio paese, e poi apro un bartabaccheria. Sissignori, un bar-tabaccheria. Che c’è di strano? E’ sempre stato il mio sogno. Che dite? Che potrei fare il dirigente di una grande società? Ma per favore... Non mi ci vedo in giacca e cravatta. In questo calcio, poi. Troppi soldi, troppi affari. A me gira la testa già con le bollette, figuriamoci con i bilanci. No no, niente da fare. Io sono l’ultimo esemplare di una specie estinta: quella dei calciatori che a fine carriera aprono i bar-tabaccheria. E che l’ultimo assist lo fanno in cortile, dopo aver dribblato il cane. Bar Sport Donati. Suona bene, non vi sembra?

L'aggiornamento

1.L'insegna non lasciava adito a dubbi : " The New Hardware - ricambi per tutti i componenti del tuo sistema. Tutte le migliori marche a prezzi imbattibili". Gli costava parecchio dover entrare in quel negozio, aveva rimandato il momento per settimane,per mesi. Per il suo magro stipendio di gendarme distrettuale, un acquisto in un posto del genere equivaleva ad una Waterloo. Le aveva provate tutte prima di decidersi ad aggiornare il suo hardware:aveva contattato persino alcuni operatori indipendenti che, per protesta contro la politica della Megasoft, riciclavano la vecchia componentistica per rivenderla in rete a poco prezzo.Una attività al limite del lecito, che poteva comportargli anche una sospensione di 6 mesi: i capi della Gendarmeria ci andavano pesante con gli agenti che navigavano sui siti illegali. Ed era logico, visto che la Megasoft nominava direttamente tre dei sei membri del Consiglio Mandamentale della Gendarmeria di Città e metteva il proprio autorevole naso anche sulla nomina degli altri tre. Stavolta, però, gli era andata bene:il server dell'Ufficio Analisi e Controllo della Megasoft si era guastato proprio nei giorni in cui aveva contattato i "pirati". Venivano ancora chiamati così, come ai tempi della Prima Rivoluzione Informatica Mondiale. Roba da libri di scuola, ormai,anche perché questi pirati con quelli avevano poco a che fare:oggi era impossibile violare i sistemi delle aziende e del governo.Questi ragazzi adesso si limitavano a commerciare in hardware e software di seconda mano, ad effettuare riparazioni,a lanciare messaggi di ribellione contro lo strapotere della Grande Madre, come veniva chiamata la Megasoft. Erano degli incoscienti, rischiavano pene severissime. Ma per chi aveva poca disponibilità di denaro,erano un'autentica ancora di salvezza. Se si riusciva a sfuggire all'individuazione telematica , l'unica precauzione da prendere era poi solo quella di evitare l'invio del materiale tramite il servizio MegaMail, per andarlo a ritirare di persona in quei bugigattoli del Quartiere Antico dove le macchine della Gendarmeria neppure si avvicinavano. Acqua ata, comunque:il pezzo che gli avevano proposto non lo aveva convinto e così aveva mollato l'affare. Diamine,un articolo del genere non si

cambia tutti i giorni. Se doveva fare un o simile,meglio comprarne uno che garantisse una certa durata. Però non si decideva ad entrare. Era quasi buio,l'orologio all'angolo della strada segnava le 17 e 30 del pomeriggio. Il traffico da qualche minuto si era fatto più intenso: molti lavoratori della Sede Centrale Megasoft rientravano a quell'ora, infatti. Il suo turno sarebbe finito tra due ore e non poteva restare lì in eterno:un gendarme fermo ad osservare la vetrina di un punto vendita Megasoft avrebbe infastidito parecchio i vertici dell'Azienda. Una delle prime cose che gli avevano insegnato al Corso di Formazione era che la Megasoft non rientrava tra le materie d'indagine di un buon poliziotto. Guardò all'interno della vetrina,stando bene attento a non far scattare il meccanismo automatico di apertura:dentro vi era il ben di dio del migliore hardware in circolazione. Basta,si disse,devo farlo e al diavolo la vacanza in Europa. Vuol dire che la rimanderemo a tempi migliori: Elena capirà,anche lei ha dovuto affrontare aggiornamenti costosi l'anno scorso. Andò spedito verso il banco, dove un giovane commesso asiatico stava intrattenendo una cliente: "Signora,può stare tranquilla: tutto quello che vede qui è certificato Megasoft." "Si, lo so. Ma vorrei provarlo,prima." "Questo non è possibile, mi dispiace. Posso soltanto garantirle che,in caso di difetti di funzionamento, il servizio clienti Megasoft provvederà immediatamente a sostituire il prodotto." "Eh no,mio caro. Stiamo parlando di un apparato digerente completo,mica di altro. Se si rivelerà difettoso, io ci rimetterò il marito." "Una bella fortuna,ci pensi." Il commesso sorrise. La signora,di mezza età ma ancora piacente, fece una smorfia di finto disappunto, mentre con una mano si aggiustava i capelli. "Scherzo, naturalmente. Stia tranquilla, signora, prenda l'articolo senza timori. Vedrà." Mentre la signora armeggiava dentro la borsetta alla ricerca della scheda di pagamento,il commesso volse lo sguardo al nuovo venuto: "Lei cosa desidera?"

Rimase un attimo perplesso, si aspettava una maggiore discrezione lì dentro. Non è bello far sapere agli estranei i propri aggiornamenti: "Finisca con la signora,poi parleremo." "Come preferisce, Agente. Sono cento planetari, signora." "Tenga." rispose la donna porgendo la scheda. Accidenti, pensò Alfred, cento planetari per un apparato digerente. Equivalevano a cinquemila dei vecchi dollari. Una cifra mica da ridere. "Paga in contanti,signora?" "Si si,in contanti." "Bene,ecco a lei e buona sera." La donna uscì soddisfatta con la sua busta azzurrina col logo Megasoft. " E allora, cosa posso fare per lei ?" Alfred esitò,ancora incerto sul da farsi. Poi disse risoluto:"Un cervello." "Un cervello completo?" "Si,un cervello. Mi serve un nuovo cervello." "Ne è sicuro? Lei è ancora giovane, strano che debba già sostituire ilcervello." " E invece si" rispose Alfred imbarazzato "Non so perché ma quello originario da un po' di tempo non funziona più come prima." "Forse è una sua impressione. Ci pensi bene prima di cambiarlo, costa un patrimonio." "No,guardi, è la verità. Non ricordo più le cose. A volte dimentico persino il posto dove ho lasciato la macchina. O quando devo prendere servizio. Nel mio lavoro, poi, serve grande concentrazione e lucidità di mente. No, credo sia meglio cambiarlo in tempo,prima che mi combini qualche guaio serio." "Come preferisce. Controllo subito la disponibilità di magazzino."

II commesso digitò alcuni comandi su una minuscola tastiera da polso e subito sul display di un enorme monitor appeso alle pareti del negozio apparve un elenco di prodotti Megasoft. Pure questo alla faccia della riservatezza, pensò Alfred. "Dunque, vediamo, per adesso abbiamo disponibili tre cervelli" "Megasoft o ditte associate?" "I cervelli li produce solo la Megasoft." "Prezzi?" "Il mini è il più economico, ovvio: costa centocinquanta planetari ma non ha optional. " "Cioè?" "Le spiego: il mini fornisce al soggetto un livello minimo d'intelligenza, appunto, e dunque non a altro che le funzioni primarie:mangiare, dormire, camminare, riprodursi." "Un animale. Anche meno..."obiettò Alfred,scandalizzato che un prodotto così rozzo venisse venduto ad un prezzo così esorbitante. "Non esageriamo. Gli animali non parlano mentre i clienti che acquistano il nostro modello economico possono parlare normalmente" "E vorrei vedere." commentò Alfred "Comunquenon mi interessa:troppo poco. " "E allora le conviene prendere il medium:con 200 planetari le diamo anche i driver per installare le emozioni e i ricordi. " "E basta?" "No, con una piccola differenza di prezzo le possiamo dare anche un nuovissimo software che le permetterà di innamorarsi. " "Ma non è giusto, mi scusi. Tutte queste funzioni ce l'ha già il cervello in dotazione alla nascita. E quindi, pure quello di ricambio dovrebbe contenerle

tutte, senza pagare un soldo in più. " "Scherza? Lo sa quanto costa fabbricare un cervello che riproduca esattamente tutte le funzioni di quello naturale? Una cifra abnorme. E infatti un cervello del genere viene prodotto solo su ordinazione. Non è neppure la Divisione Cervelli della Megasoft a fabbricarlo, ma una piccola azienda collegata con sede alle Comore." "Va bene, ho capito. Col maxi, invece, che altro offrite ?”Alfred si stava rassegnando a dover convivere, per il futuro, con un cervello meno dotato di quello fornitogli da madre natura. "Beh, per il maxi ci vuole una speciale autorizzazione governativa. Deve riempire un modulo, spedirlo al Dipartimento Verifica Intelletti del Ministero dell'Integrità Pubblica ed aspettare il visto." "Perché tutte queste complicazioni? E' solo un cervello." "Appunto, le sembra poco? Il fatto è che in ato si sono verificati alcuni piccoli incidenti col maxi..." "Del tipo?" "Vede, il maxi fornisce di default un livello d'intelligenza piuttosto elevato. Il che significa dotare l'individuo che ne è in possesso di alcuni ‘gadget’alquanto pericolosi,come la capacità di giudizio ed il senso critico" "Mi sembra logico." "A lei. Ai nostri governanti un po' meno. Alcuni soggetti a cui è stato impiantato questo tipo di cervello hanno manifestato in ato perniciose tendenze all'insubordinazione, alla diffusione di scritti sovversivi, alla polemica contro la Grande Madre, alla demolizione dei fondamenti del nostro Perfetto ed Immutabile Modello di Convivenza, il PIMC, la base della nostra società. Le parlo di queste cose perché lei è un tutore dell'ordine. Comprenderà bene che un cervello capace di stimolare questo tipo di deviazioni vada venduto con le dovute cautele." "Mi rendo conto. Ma, scusi,queste facoltà mentali così temibili non si trovano già nelle persone dotate di cervello originario?"

"Sono addomesticate, signore, lo dovrebbe sapere anche lei. Dia un'occhiata ai programmi delle nostre scuole,dalle primarie all'ultimo anno di college. Dopo una cura da cavallo come quella, è difficile che il Governo debba aspettarsi delle spiacevoli sorprese dai suoi cittadini. Ma con un cervello nuovo il discorso cambia. Il soggetto conserva tutte le sue conoscenze. Con in più la possibilità di rielaborarle in maniera del tutto autonoma. E lì cominciano i problemi" " Capisco. E quanto costa tutto questo?" " Costa trecento planetari, ma l'acquisto si può effettuare solo dopo aver ottenuto il visto. E non è cosa semplice: la convocheranno al Ministero per un colloquio preliminare e la obbligheranno, dopo l'impianto, a seguire un corso di adattamento e riconversione. Senta, mi ascolti, prenda il medio: lei è un poliziotto, che gliene frega del senso critico? Potrei capire se fosse un insegnante,un esperto d'arte, un censore di libri e riviste" " No ,voglio il maxi. Cavoli, è carissimo, ma è quello che si avvicina di più al mio". Alfred aveva un alto concetto della propria intelligenza. "Bene, ecco il modulo. Serve un anticipo di cinquanta planetari per bloccare l'articolo" Cinquanta planetari erano tutto quello che Alfred aveva risparmiato in otto anni di servizio. Gli tremò la mano mentre consegnava la scheda magnetica al commesso. Il resto della somma lo avrebbe pagato a rate, con un finanziamento MegaFin ,al tasso agevolato previsto per gli appartenenti alla Gendarmeria Mandamentale. "Devo farle alcune domande per verificare la compatibilità del cervello che abbiamo in magazzino con la sua persona. Dunque:maschio,bianco,età 30-35,e fin qui andiamo bene. Etero o omosessuale? " Etero" "Ok,ateo o credente? " Credente" "Credente nel Batesismo o in altre confessioni tollerate?"

"Batesista, batesista. La mia bisnonna era luterana,una vecchia religione ante Rinnovamento Tecnologico Planetario. Ma dopo di lei, tutti Batesisti convinti in famiglia." Will Bates I il Grande,il fondatore della Megasoft,era stato divinizzato dopo la sua morte. "Perfetto,lei è fortunato. Torni appena avrà ottenuto il visto,faremo subito il finanziamento e le fisseremo l'appuntamento per l'installazione." "No, per l'installazione preferisco rivolgermi ad un tecnico di fiducia. Come credo abbia fatto pure la signora di poco fa." "Buon osservatore. Infatti la signora ha un installatore di fiducia. Sono ancora ammessi, ma per poco, l'avverto. In genere,sono tecnici rimasti a so dopo lo scioglimento della Op-Là: se non li assorbirà la Megasoft,dovranno rassegnarsi a cambiare mestiere." ' La Op-Là, l'unica azienda che era riuscita a resistere al monopolio Megasoft per oltre un secolo. Alfred non aveva mai capito come avessero fatto a restare nel mercato legale per tutto quel tempo. Forse la Megasoft aveva chiuso un occhio per convenienza, per dare una parvenza di democrazia al suo predominio. Fino a quando la Op-Là non era riuscita a produrre anch'essa, dio sa come vista la scarsità di mezzi e personale, ricambistica artificiale per il corpo umano, più affidabile e a prezzi concorrenziali. Fuorilegge, dopo neppure un mese dal primo polmone venduto. "Bene"concluse Alfred "Ci rivedremo presto per concludere l'affare." "L'aspetto, arrivederci" Quando uscì in strada,la città era ormai immersa nel buio precoce di novembre. Scendeva una pioggia leggera, fastidiosa, continua, che minacciava di inzuppargli la divisa se non si fosse affrettato a ripararsi. Non faceva ancora molto freddo,tuttavia un brivido gli corse lungo la schiena. Sarà per la spesa che ho appena fatto,pensò. Eppure era allegro, l'idea di poter rimediare alla precoce senescenza delle sue cellule cerebrali lo tranquillizzava, lo rendeva orgoglioso di vivere in un'epoca tanto fortunata per gli esseri umani.

Nella sua famiglia in ato vi erano stati diversi casi di Alzhaimer ed un lontano prozio ricoverato per turbe mentali. Per tutta la vita era cresciuto nell'incubo di dover patire un giorno sulla propria pelle l'orrore di una malattia di quel tipo. E' vero, adesso c'erano cure avanzate, ma niente che riportasse rapidamente il paziente ad una esistenza normale. Tutta la ricerca degli ultimi decenni era stata spesa con successo nella lotta ai tumori e i medici impegnati a debellare le altre patologie erano rimasti in pochi. No, aveva fatto la cosa giusta. Anche Elena avrebbe approvato. Guardò di nuovo l'orologio all'angolo della strada:le 18,15. Doveva sbrigarsi,il collega che lo stava sostituendo al corpo di guardia non gli aveva raccomandato altro: massimo un'ora. Attraversò la strada e si diresse velocemente verso la sede del 10° Distretto di Mandamento. In fondo, oltre il ponte sul fiume,la sagoma delle Silicon Towers si stagliava sprezzante sul resto degli edifici. Alfred si fermò un attimo a fissare l'ultimo piano del palazzo più alto,dove c'era l'ufficio di Will Bates IV°. "Malgrado tutto, grazie" disse tra sé.

2.Dal Megasoft Post di sabato 10 gennaio 2099: "Dopo un anno d'indagini è stato finalmente identificato il misterioso malvivente che per diversi mesi ha sommerso gli uffici della Nostra Beneamata Azienda di scritti satirici .Grande sorpresa ha suscitato negli investigatori il fatto che si trattasse di un agente distrettuale in servizio nella città di New Mega. Il sistema utilizzato dal delinquente era arcaico ma molto efficace. Invece di spedire meganetmail,redigeva manualmente le lettere su antiquati fogli di carta formato A4, ancora in vendita presso piccoli negozi dell'East River. Poi le recapitava depositandole all'ingresso della Sede Centrale Megasoft, approfittando dell'uniforme per are inosservato e avendo cura di non lasciare impronte sulle buste. Ciò ha impedito alla Gendarmeria Federale di individuarlo prima. L'uomo rischia una condanna a svariati anni di carcere selenico. Intervistato sulle ragioni che lo avrebbero spinto a compiere gesti tanto sconsiderati, il Capo del Dipartimento Federale per le Investigazioni sul Pensiero Deviato ha detto che probabilmente la causa delle azioni illegali di Alfred B. va ricercata in una sostituzione di cervello cui si è sottoposto due anni fa. Pare infatti che il negozio dove acquistò la protesi gli abbia venduto per errore un cervello difettoso, che non aveva superato i test preliminari. Dopo pochi giorni dall'impianto,nell'individuo si è così sviluppato spontaneamente uno dei più pericolosi virus mentali conosciuti, noto agli esperti col nome in codice di Ironia, che sfugge persino ai controlli previsti dalla legge per i portatori di encefali

artificiali di tipo superiore. Il legale di B. ha già affermato che chiederà per il suo cliente la sostituzione della detenzione con un lungo periodo di cura riconvergente presso uno dei centri specializzati Megasoft. Il responsabile del negozio e l'addetto alle vendite sono stati licenziati"

Delenda Carthago

1.Il presidente “Ceterum censeo Carthaginem esse delendam” Gaspare Battistoni chiuse il grosso libro di pelle marrone, alzò a fatica i suoi cento chili dalla poltrona di pelle nera del suo studio, aprì l’anta di vetro della libreria e restituì Plutarco alla compagnia dei colleghi. Si affacciò alla finestra e osservò per qualche istante l’operoso via vai nel cortile della sua azienda. In quel momento c’erano due camion pronti a partire per consegnare i suoi biscotti in tutta Italia. Il ragionier Marotta stava dando agli autisti le ultime disposizioni, mentre Osvaldo, il suo fidato Osvaldo, responsabile delle spedizioni, controllava che tutto fosse in ordine. Le vendite andavano a meraviglia. I biscotti Battistoni stavano scalando il mercato nazionale e tra poco si sarebbe pure potuto permettere un po’ di pubblicità nelle reti nazionali e nei quotidiani più importanti . Non avrebbe mai ringraziato abbastanza il ricettario di nonna Agata e quel rincitrullito di suo fratello che un giorno, ripulendo la soffitta della vecchia magione di famiglia, l’aveva ritrovato. Niente di cui lamentarsi per quanto riguardava il lavoro. Aveva un’ impresa che andava a gonfie vele, dipendenti affezionati e laboriosi (e ci mancava pure: senza di lui, quel borgo di collina dimenticato da Dio sarebbe già stato abbandonato da tempo) e vendeva un prodotto di qualità, decisamente superiore alla media dei prodotti dolciari industriali presenti sul mercato. Insomma, a parte qualche grattacapo di salute, dovuto alla sua cronica incapacità di tenere a bada le fauci, e qualche piccola rogna con un figlio che preferiva ancora la baldoria alle responsabilità aziendali, fino a poco tempo addietro Gaspare non avrebbe avuto motivi per dolersi della sua esistenza. Com'erano lontani i giorni della vita grama! Eppure, fin quando erano durati

Valeria era rimasta con lui.. Strane le donne... Gli mancava, come negarlo. Ma soprattutto gli faceva rabbia che l’avesse mollato per mettersi con quello lì. Con tutti, ma non con quello lì Achille Lombardozzi, imprenditore come lui. Insaccati. Un cafone. Un bottegaio ignorante miracolato dalla qualità degli allevamenti suini della zona e dai soldi di uno zio prete. Come avesse potuto Valeria innamorarsi di un simile zotico, era faccenda per fattucchiere e esperti dell’occulto. A lui non spiegò mai i motivi. Un giorno gli disse che s’era innamorata di un altro. Un altro che la faceva ridere. E basta. Scoprì dopo che l’irresistibile barzellettiere era Achille, fresco vedovo in cerca di consolazione. Quell’Achille. Si detestavano fin da ragazzi. Scuole elementari e medie insieme. Otto anni di risse. Le due famiglie e gli insegnanti non sapevano più cosa escogitare per farli convivere in pace. Il problema lo risolse alla fine Lombardozzi padre decidendo, col pretesto di iscrivere Achille alle superiori, di vendere la casa in paese e trasferirsi armi e bagagli a trenta chilometri da lì, in una cittadina che ospitava anche l’istituto professionale al quale intendeva affidare l’istruzione del turbolento figliolo. All’epoca, però, furono in tanti a sospettare che le vere ragioni del trasloco di Paride Lombardozzi e famiglia avessero lunghi capelli biondi, due tette di quarta e un nome tedesco. E fu così che Achille e Gaspare si sarebbero ritrovati soltanto dopo decine di anni e migliaia di capelli in meno, precisamente nei cartelloni pubblicitari di cui, avviate le rispettive attività, avevano cominciato a tappezzare il circondario. E l’antipatia, provvisoriamente sedata dall’oblio del tempo, sarebbe rinata come d’incanto.

Iniziarono a farsi i primi dispetti non appena i biscotti Battistoni apparvero sugli scaffali dei negozi della cittadina dove viveva il rivale. In risposta, Achille aprì 2 rivendite di salumi nel paese di Gaspare, pur sapendo che il ricavato, in quel villaggio di quattro gatti, difficilmente avrebbe coperto i costi di gestione. E dire che non c’erano plausibili ragioni per farsi guerre commerciali tra di loro: vendevano articoli diversi e nessuno dei due rischiava d’essere danneggiato dalle fortune dell’altro. Ma l’unica cosa che accuratamente evitarono di fare fu quella di incontrarsi, ben sapendo che un simile evento si sarebbe sicuramente trasformato, in spregio alla presunta saggezza degli anni che portavano sul groppone, in un incontro di pugilato. A parte questa stilla di buon senso, però, per il resto non si privarono di nulla: manifesti promozionali strappati per far posto a quelli dell’altro, fiumi di maldicenze reciproche sulla qualità dei rispettivi prodotti presso i negozianti e i gestori degli ipermercati, denunzie anonime sulle condizioni igieniche dei rispettivi locali, segnalazioni (sempre rigorosamente anonime) alla finanza su presunte irregolarità fiscali. Quando ormai mancavano solo l’incendio doloso o il sabotaggio delle merci e le maestranze dell’uno e dell’altro iniziavano a mugugnare, stufe di quella assurda contesa, la segretaria di Battistoni, una cinquantenne sfiorita ma con la sagacia di un diplomatico Onu, suggerì di trasbordare l’ antagonismo tra i due industriali su un piano del tutto particolare: “Se mi permette, dottore...” “Sì Carla, dimmi” “Si potrebbe fare come nella disfida di Barletta” “Cioè?” Cioè era successo che cinque anni prima Lombardozzi, a coronamento della ormai solida posizione di prestigio e ricchezza e con la segreta intenzione di procacciarsi ulteriori benemerenze in vista di future avventure politiche, aveva acquistato la locale squadra di calcio, che fino ad allora si era barcamenata con affanno nelle zone basse dei campionati di prima categoria. Coi soldi di Lombardozzi, invece, la squadra aveva fatto un rapido salto di qualità, vincendo l’anno successivo il torneo e transitando nella serie superiore. Qui aveva incontrato la squadra del paese del suo acerrimo nemico, da sempre abbonata con la parte centrale della classifica.

Alla fine di quel campionato, il Salumificio Lombardozzi football club arrivò secondo, la Polisportiva Virtus, come al solito, decima. Durante l’estate Battistoni si decise, dopo atroci tentennamenti (di calcio non capiva una mazza e di natura non era tipo da buttare via i suoi soldi con leggerezza), a rilevare la società dal notaio Seminara, ribattezzandola A.S. Biscottificio Battistoni e rinforzandone gli organici con 3-4 giocatori di peso. A ottobre la moglie lo mollò. A dicembre si giocò la partita di andata tra le due squadre rivali: 3 a 0 per il salumiere. A fine giugno la Lombardozzi si riclassificò seconda e la Battistoni terza. Stessa solfa, o quasi, l’anno seguente: Lombardozzi terza, Battistoni quarta. Con il fegato ormai irrimediabilmente rovinato da cene pantagrueliche, abbandoni coniugali, dissapori con la discendenza e dispiaceri sportivi, Battistoni si accingeva ad affrontare il suo terzo campionato da presidente quando sul capo gli piovve la tegola più pesante di tutte:Ilaria Lombardozzi, anni 24, sorriso smagliante, capelli corti neri, fisico da maniaca dell’aerobica, una laurea in scienze bancarie ed una sconfinata faccia tosta Galeotto fu un convegno di industriali della provincia al quale Marco Battistoni dovette presenziare per ordine del padre, stufo di pagare multe per eccesso di velocità e di non vedersi mai spuntare il figlio in fabbrica prima di mezzogiorno. Dal caffè al bar dell’albergo alle prime uscite insieme arono solo due settimane. Dalle prime uscite al fidanzamento altri 3 mesi. Non servirono a nulla né le sfuriate paterne né gli imbarazzati tentativi di dissuasione della madre. A febbraio i due piccioncini cominciavano già a parlare di nozze. Chi se la godeva un mondo in tutto quel casino era Lombardozzi senior, il quale da tempo andava incassando a rate una vittoria completa sull’avversario e su ogni terreno di battaglia: dentro al letto, sul campo di calcio e nel più profondo degli affetti familiari. Gaspare ormai se lo sognava pure la notte, mentre l’infame sghignazzava perfido sulle sue disgrazie. Tornò a sedersi alla sua scrivania e, fissando il tavolo, ci sferrò sopra un pugno

che sollevò in aria le carte che vi erano poggiate. Delenda Carthago... Catone aveva ragione: certi nemici non basta sconfiggerli, bisogna annientarli Girò lo sguardo al datario: mancavano appena 3 giorni alla partita decisiva. La Lombardozzi era prima, la Battistoni seconda. Ma stavolta, contrariamente agli anni ati, un solo punto divideva le due squadre. Se l’impresa fosse riuscita, avrebbe finalmente scavalcato in classifica il laido pizzicagnolo con poche speranze per quest’ultimo di rimediare, perché mancavano solo 4 partite alla fine del campionato, perché la Battistoni, a parte la Lombardozzi, non temeva nessun’altra formazione e perché solo lui poteva schierare un centravanti coi fiocchi come Luca Velardi, in forte odore di convocazione nella nazionale dilettanti. Sì, stavolta doveva vincere: Cartagine doveva essere distrutta. Sì, per la miseria! 2. L’allenatore Sì, stavolta poteva essere la volta buona. Dopo la partita, sarebbe ato all’incasso per poi sparire per sempre. Via, lontano anni luce da quel posto di merda. Lontano da quel paese di bifolchi, da quel cornuto bilioso di Battistoni, da quel campetto di campagna con i cancelli arrugginiti e i cessi rotti nello spogliatoio, da quei 18 coglioni invertebrati che senza di lui non sarebbero riusciti a sconfiggere neppure la selezione dell’asilo comunale. Tre anni. Tre anni in alta classifica per una formazione degna della lotta per la retrocessione. E di chi era il merito? Suo. Ma Battistoni pretendeva ancora di pagarlo con un pugno di lenticchie: “Non abbiamo ancora raggiunto l’obiettivo, caro De Dominici. Vinci il campionato e poi ne riparliamo” Ne riparliamo adesso, invece, caro il mio stronzissimo e pidocchioso Presidente. Mi sono venduto la partita della vita, quella per la quale conti da giorni le ore e i minuti. Quella contro l’altro stronzo che t’ha fregato la moglie. Che mi dici ora?

Che goduria quando era arrivata quella chiamata al cellulare. Fabrizio De Dominici non avrebbe mai avuto il coraggio di farla di sua iniziativa. Ma quella lenza del segretario di Lombardozzi, il dr. Rocchi, a quanto pare gli aveva letto nel pensiero: “Vediamoci in città dopodomani. Alle 11 al caffè Berchet di piazza Indipendenza” Diecimila euro subito e diecimila euro dopo l’incontro. Non doveva neppure coinvolgere qualcuno dei giocatori. Sarebbe bastato mandare in campo una formazione difensivistica e giocare per lo 0 a 0. Ancora meglio se avesse tolto Velardi e il portiere titolare. Ma questo non poteva farlo. Glielo spiegò chiaramente: se tolgo Velardi, Battistoni mi strozza. O mangia la foglia. L’altro non insistette. De Dominici provò a strappare pure, oltre ai soldi, anche una vaga promessa di assunzione come allenatore per l’anno successivo (Lombardozzi pagava molto meglio del ciccione), ma qui Rocchi fu irremovibile: “Si accontenti del denaro, Fabrizio. Il nostro attuale tecnico ha già firmato il contratto per il prossimo torneo” Che il trainer della Battistoni non fosse molto soddisfatto di come veniva ricompensato il suo lavoro, in paese lo sapevano tutti. Ma l’alta opinione che egli aveva delle sue capacità di allenatore non era condivisa né dai tifosi né dal presidente. I tifosi ritenevano De Dominici un onesto mestierante, bravo solo a motivare i ragazzi, ma attribuivano il merito dei risultati positivi degli ultimi 3 campionati ai soldi di Battistoni ed ai giocatori che quei soldi avevano comprato. Battistoni, dal canto suo, continuava a tenerselo proprio perché costava poco. Scontri veri e propri non ne avevano mai avuti, tranne dopo le sconfitte con la Lombardozzi. Battistoni non s’intrometteva mai nelle scelte tecniche, perché di pallone non capiva un tubo. L’unica fissa che aveva era per Velardi. Dopo che un pomeriggio si era presentato all’allenamento un osservatore della federazione, s’era messo in testa di avere in casa Maradona. Per carità, era un buon attaccante, con un certo fiuto del gol, ma niente più. Aveva appena 21 anni e poteva ancora migliorare, ma per De Dominici non sarebbe mai riuscito a fare il salto di qualità. Dopo i trent’anni avrebbe smesso e si sarebbe cercato un impiego da ragioniere, magari nell’azienda del padrone. Ma Battistoni era certo di avere per le mani la gallina dalle uova d’oro. De Dominici stava al gioco, perché conveniva anche a lui: avere la responsabilità di allenare una promessa

era uno dei migliori grimaldelli per scardinare il portafoglio di un presidente. Battistoni, però, fino a quel momento era rimasto sordo ad ogni sollecitazione “E allora i soldi che mi hai sempre negato me li sono presi da solo, caro il mio tirchione” pensò l’allenatore mentre riponeva nel borsone tuta e scarpe sportive. Fuori faceva già buio e dentro lo spogliatoio non era rimasto più nessuno: i ragazzi erano scappati via dopo la doccia e Ernesto, il vecchio custode, gli aveva chiesto il permesso di andare via prima del previsto, perché doveva accudire la moglie influenzata “Vai vai , Ernesto. Chiudo io qui” Mancavano solo due giorni alla partita. Due giorni e la sua vita sarebbe cambiata. I diecimila d’anticipo li aveva già dati allo strozzino che lo perseguitava da mesi: altri 2.000 e se lo sarebbe tolto finalmente dalle scatole. Con la rimanenza, aveva in mente di realizzare un certo progettino insieme ad un suo vecchio amico d’infanzia: una palestra in città. L’amico avrebbe messo a disposizione il locale mentre lui si sarebbe occupato di acquistare un po’ d’attrezzi. Poca roba, tanto per cominciare. Il resto sarebbe venuto da sé, col denaro delle iscrizioni. Si lisciò la barba soddisfatto, tirò la lampo del borsone, uscì dallo spogliatoio, chiuse il cancello e salì in macchina. Non era per nulla pentito di aver svenduto la squadra e la promozione. E poi, non era mica la prima volta che provava a cambiare le carte in tavola alle partite. Anni prima aveva pure fatto di peggio, propinando ai calciatori di un’altra squadra allenata da lui certe pilloline che oggi, con le leggi antidoping in vigore, lo avrebbero spedito al gabbio per direttissima. Ma allora si poteva fare di tutto e pazienza se qualcuno di quei giocatori dopo aveva avuto i suoi bei problemi di salute. Lui mica lo sapeva che quelle pillole potevano causare brutte malattie. All’epoca non lo sapeva nessuno, neanche i medici. La sua coscienza era a posto. Quella roba gliela faceva ingoiare per farli vincere, mica per ammazzarli. Stavolta, invece, la malefatta l’aveva commessa per fare perdere la sua squadra. Ma se l’erano andata a cercare, lui non si sarebbe mai sognato di farsi corrompere se la dirigenza avesse riconosciuto i suoi meriti Mentre percorreva il lungo vialone centrale del paese, ormai deserto, ripensò alla sua vita balorda.

Non doveva finire così. Non doveva ritrovarsi a 50 anni a svendersi per poche migliaia di euro. Da giovane coltivava grandi ambizioni, sognava di poter allenare un giorno in serie A e magari di diventare selezionatore di qualche rappresentativa nazionale. Il calcio l’aveva nel sangue, un fatto di famiglia. Ma come calciatore non si era mai sollevato oltre una dignitosa mediocrità. Era arrivato solo fino alla serie C, in una stagione ata peraltro in panchina,come riserva della ala destra titolare. Poi, chiusa la parentesi del calcio giocato, si era iscritto al corso per allenatori, risultando uno dei migliori. Se non ci fosse stata quella maledetta serata... Una festa organizzata dall’agente di un calciatore famoso nella sua villa al mare, dalle parti di Ladispoli. Donne, cocaina e alcool a fiumi. Lui c’era finito dentro invitato dall’amico di un amico. Si sa come funziona in certi ambienti, ci si a la voce quando qualcuno del giro organizza certi eventi. Più si è meglio è. Solo che quella sera, mentre beveva come una spugna allacciato ad una bruna discinta e piuttosto volgarotta (come si chiamava? Sara? No, Ylenia), in mezzo alla bolgia c’erano pure degli agenti in borghese della narcotici. Perse il posto di allenatore in seconda della squadra di B dove lavorava da un anno. Fu squalificato per 2 stagioni e quando ritornò ad allenare per lui ci furono solo squadrette dopolavoristiche e ingaggi da metalmeccanico. Da allora non ebbe più il coraggio di guardare in faccia suo padre, le rare volte che andava a trovarlo. Quella faccia dura e abbronzata da muratore che tante speranze di riscatto aveva riposto in lui. Stavano seduti l’uno accanto all’altro sul grande tavolo di legno della cucina della casa di famiglia e si parlavano fissando la parete di fronte. Sembrava una scena del teatro dell’assurdo: l’anziano operaio minato dall’Alzheimer che rispondeva a monosillabi e il figlio che dialogava col muro. O con la foto della madre morta di tumore quando lui era appena un adolescente. Lasciata la periferia del paese, cominciò a salire per la stradella che conduceva al villino in affitto dove abitava con Renata, una ragazza romena conosciuta in vacanza, la migliore compagna della sua solitudine: silenziosa, discreta, quasi indifferente. Non era una bellezza ma neanche da buttare. E poi faceva bene

l’amore. Dopo un paio di chilometri girò lo sterzo con rabbia, infilandosi in un vialetto sterrato. Vedeva già le luci della casa e Renata seduta nel cortile a fumare. Fermò la macchina a due i da lei 3.Il giornalista Ci mancava pure la macchina col serbatoio quasi vuoto. Smadonnò in silenzio, con un occhio sul rosso del contatore e l’altro a cercare un benzinaio lungo quella specie di trazzera desolata. Per fortuna, dopo un paio di minuti gli sembrò di vedere in lontananza l’insegna di un distributore. Se quella lì pensava di averlo umiliato si sbagliava di grosso: “Questa domenica vai a ..., a seguire Biscottificio Battistoni-Salumificio Lombardozzi. Pare che sia una partita decisiva del campionato di promozione e pare anche, da quanto mi hanno riferito, che sia molto più di una semplice partita di calcio per i due presidenti. Si odiano a morte. C’è parecchio materiale per un buon articolo, quindi. Vai lì e mandami un pezzo interessante, una volta tanto. Non parlare solo del fatto sportivo. Vedi di non deludermi ancora e tieniti stretto con le spese” Una email. Una email per contattare un tizio seduto tre stanze più avanti. Non aveva avuto neppure la decenza di telefonargli o di convocarlo nel suo ufficio. Da quando si erano lasciati, la sua vita al giornale stava diventando un inferno. Dalle stelle alle stalle. Doveva essere solo un’avventura, invece lei l’aveva presa molto sul serio, a quanto sembra. Ma senza mai farglielo capire. Prima di beccarlo con l’altra, approvava tutto quello che scriveva, anche robe di una mediocrità sconcertante. Non contestava manco i refusi o certi piccoli errori di ortografia. Lui si era ormai talmente abituato alle sue lodi che non metteva più nessun impegno nel lavoro, limitandosi a scrivere articoli molto brevi e molto banali, nello stile e nei contenuti. Il resto, tutto divertimento. D’altronde, cavoli, aveva appena ventotto anni: se non se la sava adesso... Però quella frustata gli aveva fatto bene. Si era dato una regolata. Orari più decenti: in redazione mai dopo le 9,00 e mai prima delle 19.00, sul lavoro sempre in giacca e cravatta e a letto presto la sera. Articoli più lunghi e più meditati. Anche il rapporto coi colleghi era migliorato: prima lo vedevano solo come il cocco della direttrice, un raccomandato di ferro a cui tutto era consentito. Ora qualcuno cominciava persino ad invitarlo al bar.

Solo il termometro dei rapporti con Lidia era rimasto fermo a temperature polari: ormai lo aveva messo in black list e da lì forse non l’avrebbe più spostato. Non c’era il pericolo che lo licenziasse, questo no, perché evidentemente si divertiva molto di più così, ma lui non era sicuro di poter reggere ancora a lungo quella situazione. Stava già cominciando a guardarsi attorno per trovare sistemazione presso un’altra testata. Una partita di dilettanti! Lo stava mandando a 80 chilometri di distanza per una partita di dilettanti! L’anno prima, di questi tempi, stava a Roma a seguire la nazionale e ora arrancava con l’auto aziendale su una provinciale piena di buche per raggiungere un villaggio sperduto di 3.000 anime, pecore comprese. Chissà come se la stava ridendo in quel momento, la strega. Ma lui non aveva fatto una piega. Era ato dall’amministrazione per l’anticipo sulle spese, aveva messo in borsa un po’ di biancheria ed era partito quel sabato stesso. L’incontro si sarebbe disputato alle 15 dell’indomani ma se voleva saperne di più sulla rivalità tra i presidenti doveva arrivare in paese almeno con un giorno d’anticipo e al diavolo le spese. Per il pernottamento aveva contattato l’unica struttura turistica esistente da quelle parti, un piccolo bed and breakfast a conduzione familiare. Arrivato alla pompa di benzina, si fermò per il pieno e per un caffè nel piccolo bar annesso al distributore, uno di quei bar di provincia con l’arredamento in formica anni sessanta e le bottiglie di Punt&Mes dietro il bancone. Chiese al barista, un quarantenne tarchiato e taciturno con un grosso paio di baffi neri, quanto mancava ancora per il paese del cavalier Battistoni. Nel locale non c’erano altri clienti. Il barista, con somma sorpresa di Riccardo, alzò gli occhi dal lavello dentro il quale stava pulendo le tazzine e gli sorrise:” Non mi dica che si è fatto tutta questa strada per la partita?” Riccardo, ato il primo stupore, gli chiese come fe a sapere quanta strada avesse già percorso per arrivare lì e perché fosse convinto che stesse recandosi a ... per una partita “Ma si vede lontano un miglio che lei viene dalla città e poi di sabato non ci si reca in un posto del genere per affari” “Potrei avere lì un parente, scusi. E tra l’altro le partite di solito si giocano la domenica, no? Ma poi, tanto per parlare, è così importante questa partita?”

Il barista, che a dispetto delle apparenze si rivelò un tipo piuttosto loquace, lo mise al corrente della telenovela tra i due imprenditori e del colpo di scena finale del fidanzamento dei loro figli. Gli accennò anche alle leggende che circolavano in paese sull’origine della ricchezze di Lombardozzi, da qualcuno attribuite alle borsa nera praticata da uno zio sacerdote in tempo di guerra, e sulla causa scatenante di quella eterna rivalità: ”Pare che da bambini, durante l’intervallo a scuola, Achille abbia pesantemente offeso la madre di Gaspare” “Vabbè, cose che succedono a quella età: una scazzottata e via. Ma qui stiamo parlando di un odio che dura da quarant’anni...” “Eh, lei non li conosce quei due: stesso carattere testardo. Se non si detestassero così, li si potrebbe scambiare per fratelli. A pensarci bene, in viso si somigliano pure. Poco ma si somigliano.” Chiacchierarono ancora per qualche minuto, poi Riccardo pagò il suo caffè, salutò il proprietario del bar e risalì in macchina. Aveva saputo abbastanza: una stupida storia di provincia che non valeva l’inchiostro che si sarebbe sprecato in tipografia per metterla sul giornale. Ma se Lidia voleva un articolo sapido e frizzante su una simile scemenza, l’avrebbe accontentata. Sì, forse quella era l’occasione che aspettava per stupirla, per costringerla a rivedere l’ atteggiamento nei suoi confronti. Magari, in futuro, avrebbero potuto pure riappacificarsi e, chissà, tornare insieme. D’altronde la capiva: era una donna di potere ferita nel suo orgoglio e le ferite dell’orgoglio sono dure a rimarginarsi. La differenza di età tra loro due era piuttosto notevole, perché la clessidra di Lidia correva già verso la quarantina, ma se lei s’era davvero presa una cotta, doveva assolutamente fare in modo di rientrare nelle sue grazie. Da un matrimonio con una così, ricca di famiglia e con una posizione di prestigio nell’ambiente giornalistico, potevano solo venirgli dei vantaggi, sociali e professionali. Sì, doveva tentare in ogni modo di rigiocarsela quella partita Ma stavolta preparandola come si deve 4. Il calciatore

Stavolta non si sentiva preparato. C’era qualcosa nelle gambe che non andava, le avvertiva solle, prive di tonicità. E poi non ci stava proprio con la testa in quel periodo. Si portò il pallone sul destro e tirò in porta dal limite dell’area di rigore. Fuori di poco. Gli altri intanto stavano facendo una sgambatura nella metà campo opposta a quella dove lui si allenava col portiere di riserva. Aspettando che Farinon, il portiere, recuperasse il pallone, alzò gli occhi al cielo: quelle nuvole non promettevano nulla di buono. Proveniva da una famiglia di contadini e sapeva decifrare gli indizi del bello e del cattivo tempo. Un cielo così, si disse, suo nonno lo avrebbe sicuramente classificato come annunciatore di temporali. Magari proprio per il pomeriggio di quella domenica, in coincidenza con la partita. Lo voglia Iddio, pensi La cosa che lo infastidiva di più era la pressione che sentiva su di lui da quando quel maledetto incaricato della federazione era venuto a visionarlo. Da allora, il presidente s’era convinto d’avere per le mani un campione e i tifosi, influenzati dal Battistoni, pretendevano ogni domenica gol a grappoli. Ma per Luca Velardi il calcio era solo un atempo, non aveva nessuna intenzione di farne una professione. Quei quattro soldi dei premi partita gli servivano per continuare gli studi all’università e per dare una mano a casa. Con un padre paralizzato per un infortunio sul lavoro, una madre diabetica e una sorella ancora alle elementari, a Luca Velardi la vita non aveva concesso il lusso di potersi crogiolare nei propri sogni di ventenne. Lo studio per Luca non era un parcheggio temporaneo o il coronamento di una aspirazione genitoriale, come per tanti altri suoi coetanei. Lui aveva quasi l’obbligo di diventare medico al più presto ed al più presto iniziare a guadagnare. Il calcio gli piaceva, come negarlo, ma da qui a ritenersi un giocatore con possibilità di carriera nelle serie superiori ce ne correva. Non era falsa modestia ma consapevolezza dei propri limiti. L’allenatore l’aveva capito, benché non fosse un mostro di psicologia, ma faceva finta di credere pure lui alla favoletta del campione. Palleggiando pigramente in mezzo al campo, Luca si accorse che nella tribuna di legno, insieme ai soliti quattro gatti di sfaccendati che non si perdevano un

allenamento, c’era anche un estraneo, una faccia mai vista in paese. Aveva in mano un taccuino e prendeva appunti. L’incaricato di qualche altra squadra o una spia del “nemico”, probabilmente. Fu Farinon a diradargli i dubbi, informandolo sottovoce che si trattava invece di un cronista sportivo de L’Informatore. Un giornalista? Era venuto sicuramente per lui, allora. Battistoni ora stava esagerando. Alla fine del campionato glielo avrebbe detto chiaro e tondo: ne faccio al massimo un altro e poi chiudo. E che si togliesse dalla testa l’idea di piazzarlo presso qualche società di serie C o B, come pare avesse confessato una volta ad alcuni suoi stretti collaboratori. Però, un giornalista di città. Un giornalista venuto fin lì per vederlo giocare. E sennò per che cosa? Un periodico come L’Informatore non spendeva certo i suoi soldi per poter raccontare ai lettori la cronaca di una partitella strapaesana. A meno che uno dei due ricconi non avesse messo mano alla tasca e alle sue conoscenze per veder celebrata nella grande stampa la sfida dell’anno. Così, per vanagloria e senza conoscerne ancora l’esito. No, era venuto per lui. Ammesso che ci fosse davvero Battistoni dietro il pennivendolo venuto dalla metropoli, l’aveva fatto sicuramente per promuovere presso il grande pubblico quello che lui riteneva il suo “gioiello”. Un giornalista...Luca cominciò a pensare che forse non gli conveniva ancora metter fine alla bufala del giovane fuoriclasse. In fondo, al momento era il capocannoniere di quel campionato. E’ vero che lo era principalmente per l’incapacità degli attaccanti delle altre squadre (tutti ferrivecchi a fine carriera o difensori travestiti da centravanti per necessità), ma intanto lo era. Cosa ci perdeva a continuare a recitare la parte della promessa di sicuro avvenire? Poteva strappare un ingaggio migliore per l’anno successivo e nel frattempo spargere un po’ di fumo attorno (che so? Qualche intervista sulle tv locali o magari proprio su L’Informatore: Battistoni non si sarebbe certo tirato indietro se glielo avesse chiesto). Fatti furbo Luca, si disse: hai la fortuna di avere vent’anni in un'epoca in cui le apparenze contano più delle sostanze. Approfittane. Nel suo caso, poi, le apparenze erano tutte dalla sua parte: un aspetto gradevole

che mandava in estasi le ragazzotte del paese, modi educati, grande correttezza in campo, rapporti cordiali col resto della squadra e con l’allenatore. E poi c’erano i gol: davvero tanti quell’anno, già il doppio dell’anno ato. Gli mancava la cosa più importante, quella che differenzia il campione dal buon giocatore: la capacità di ribellarsi agli dei e sfidare col pallone le leggi di natura. In una parola, la genialità. Ma la genialità, se non la si possiede, qualche volta si può anche millantare. Tanto, pensò, con la crisi del senso critico che c’era in giro, erano ormai pochi quelli in grado di smascherare le imposture e separare il grano dal loglio. S’incollò il pallone al piede e corse al piccolo trotto dalla linea di centrocampo verso la porta difesa da Farinon. Trenta metri prima dell’obiettivo, sganciò un “missile”che il povero portiere ebbe appena il tempo di intuire mentre la palla s’insaccava nell’angolo alto alla sua sinistra, gonfiando sontuosamente la rete. Luca si voltò a guardare il giornalista, ma Riccardo Allegri in quel frangente stava parlando con un tifoso e probabilmente non aveva potuto vedere e apprezzare la sua “prodezza” Poco male, pensò il ragazzo, ho tutto il pomeriggio per rimediare. Sperando che non piova. 5.Il nemico Ma guarda, s’è messo a piovere... Proprio a poche ore dalla partita. Chissà come sarà contento quel cretino di Battistoni. Terreno infangato, incontro pareggiato. Incontro pareggiato, cretino gabbato. Ad Achille Lombardozzi del calcio fregava ancor meno della fisica quantistica. Le sue vere preoccupazioni erano quelle di tenere a distanza dalla sua fabbrica Nas, finanza e ispettori del lavoro ed erano preoccupazioni che incidevano sensibilmente sui bilanci occulti della sua azienda Alto, robusto, con un gran faccione quadrato da legionario romano, i capelli corti neri, le sopracciglia cespugliose e il naso camuso, sembrava più un colonnello dei paracadutisti in pensione che un fabbricante di salami e mortadelle. Al contrario del suo antagonista, che menava vanto a levante e ponente dei suoi studi classici e a cui difettava la scaltrezza, era ignorante come una capra e furbo come una faina. Però, a parte le ire funeste (tanto terribili quanto brevi), aveva anche un carattere molto più gioviale e espansivo.

Forse era davvero questo che aveva conquistato la moglie di Battistoni, stufa di ritrovarsi nel letto, dopo vent’anni di matrimonio, un marito capace solo di esprimersi a grugniti. La loro casa, malgrado il benessere, era più silenziosa di un monastero di clausura: Battistoni non amava far vita sociale e raramente invitava estranei o organizzava feste. Negli ambienti bene della provincia il suo nome era diventato sinonimo di anacoretismo e spilorceria. Diversamente dal biscottiere, invece, Lombardozzi era famoso per il fasto e la frequenza dei suoi ricevimenti, durante i quali intratteneva amabilmente gli ospiti con giochi pirotecnici in giardino o con spettacoli di artisti circensi appositamente ingaggiati per l’occasione. Lungi dal mostrare fastidio o insofferenza per quel continuo via vai di gente, Valeria Montagnani, l’ex moglie di Battistoni, sembrava invece affascinata dall’indole estroversa, anche se un po’ rustica e caciarona, del suo nuovo compagno. Sua figlia Ilaria l’aveva tenuta sotto osservazione fin dal primo giorno in cui aveva messo piede in casa sua. All’inizio le aveva mostrato l’ostilità tipica delle figlie di fronte alle donne che hanno la pretesa di sostituire la madre. Poi, a poco a poco la diffidenza reciproca si era sciolta ed erano diventate buone amiche, specie dopo il fidanzamento della ragazza col figlio di Valeria. Ilaria aveva capito di aver di fronte soltanto una bella donna di mezza età stanca di una vita matrimoniale piatta e senza stimoli, che aveva trovato in suo padre quel brio e quel buonumore che mancavano a casa Battistoni. Achille e Valeria di certo non si amavano e non si sarebbero mai amati, ma sicuramente, dopo il divorzio di lei, si sarebbero sposati. Lei per allegria, come nella famosa commedia, e lui per interesse... Però una ione, a parte quella per i falsi in bilancio, Lombardozzi Achille ce l’aveva davvero: la pesca. Ogni domenica, col sole o con la pioggia, d’estate o d’inverno, partiva di buon mattino attrezzato di tutto punto per il piccolo lago artificiale distante una decina di chilometri dalla sua residenza e lì trascorreva il resto della giornata. Non andava mai alle partite della sua squadra, nemmeno alle più importanti. Verso le cinque del pomeriggio, talvolta mentre era impegnato a battagliare con una trota o un pesce gatto, arrivava puntuale la telefonata del dr. Rocchi che gli comunicava il risultato (in genere positivo)

Ma il calcio per Achille era solo un diversivo, un mezzo per raggiungere lo scopo. Lo scopo era l’elezione a sindaco per le amministrative che si sarebbero tenute da lì a qualche anno. Il primo appuntamento lo aveva volutamente saltato, preferendo limitarsi ad appoggiare dall’esterno uno stimato professionista a lui molto vicino, ma il secondo non lo poteva perdere. Lombardozzi sapeva che la sua impresa e tutto quello che aveva costruito negli anni erano come un grande castello di sabbia pronto ad essere spazzato via dalla prima mareggiata e aveva bisogno di blindarsi attraverso la politica. Attraverso la politica e un certo matrimonio Quello era stato il suo capolavoro di strategia. La Battistoni era un’azienda sana, con prodotti di qualità. Ci aveva messo gli occhi sopra fin da primo momento. Anche la ripresa delle baruffe col vecchio Gaspare era stata artatamente studiata a tavolino. Gaspare Battistoni in certe cose aveva conservato un carattere infantile. Irritandolo fino all’esasperazione, Achille era riuscito ad abbassargli la soglia dell’attenzione. La prima mossa vincente era stata quella di sedurgli la moglie, la seconda quella di corrompere la sua segretaria (della quale si fidava ciecamente) per spingerlo all’avventura calcistica e distrarlo da altre faccende. La terza, quella decisiva, la ciliegina sulla torta, convincere Ilaria ad ammaliare quel tontolone di Marco Battistoni e a fidanzarsi con lui. L’impresa si era rivelata più facile del previsto. Quel dongiovanni da strapazzo di Marco ci era cascato come un carciofo. Ilaria ci sapeva fare, anche perché, degna figlia di cotanto padre, aveva ben compreso quali vantaggi poteva comportare l’unione tra lei e Marco. Col matrimonio dei due piccioncini, infatti, l’acquisizione della Battistoni non sarebbe stata più un miraggio. Gaspare non aveva certo gli anni di Matusalemme ma era già in età di pensione e di cervello “leggero”. C’erano decine di persone pronte a testimoniare sulle sue bizzarrie, ad iniziare dalla fanciullesca ostinazione e dai fanciulleschi dispetti con cui portava avanti l’infinita controversia tra loro due. Anche l’ossessione per il calcio, per la quale ultimamente- a detta di qualche suo collaboratore di lingua lunga-stava cominciando a trascurare gli affari, non deponeva bene nei suoi confronti. Insomma, non sarebbe ato molto tempo, dopo il matrimonio, prima di vedere il futuro genero assiso sulla poltrona di presidente e amministratore

delegato del Biscottificio di famiglia. E una volta affidata l’azienda nelle mani incapaci di Marco, tutto sarebbe stato più facile. E’ vero, c’era ancora una piccola quota di proprietà di Valeria (che neanche lontanamente immaginava cosa asse per la testa del suo nuovo compagno), ma quello era un problema da risolvere con altri sponsali, ancora di là da venire purtroppo. Ormai era l’una ata. Achille decise di fare una pausa e mangiare qualcosa. Fissò la canna a riva, nella speranza che qualche preda transitasse da quelle parti durante il suo spuntino, e si sedette sull’erba a divorare avidamente un panino con la carne. Nonostante i soldi e le frequentazioni altolocate, nell’animo e nel vocabolario era rimasto il plebeo di sempre, capace di preferire un semplice panino e un fiasco di vino ai cibi ricercati che offriva agli amici durante le sue famose feste. Mentre finiva di mangiare, osservò soddisfatto il pescato della mattina dibattersi sempre più stancamente dentro il contenitore pieno d’acqua dove l’aveva riposto. Sul lago come nella vita, si disse: in effetti, l’unica attività alla quale aveva sempre dedicato tutte le sue energie era stata quella di prendere all’amo pesci e persone per poi ammassarli tutti assieme, gli uni e le altre, a dividersi il poco ossigeno che gli lasciava. Fino alla lenta fine. Terminata la sua frugale colazione, si distese sul prato dormicchiando beato per un’altra mezzora Al risveglio, guardò distrattamente l’orologio e si accorse che mancava davvero poco all’inizio di quella stupida partita. 6.Il gatto Agenore Che stupida micia! Preferisce la compagnia di quel lazzarone di randagio alla mia. A me, che sono un gatto di razza. Beh, insomma...Non proprio. Ho avuto una bisnonna angora, a quanto si racconta in famiglia. Però sono un bel gatto: testa rotonda, fibrisse lucide, occhi azzurri, pelo bianco e morbido. Modestamente sono un figo. Nessuna delle gatte della zona finora mi ha resistito. Solo questa smorfiosa di siamese del custode. Ma chi si crede di essere? Secondo me ha paura del suo moroso. In effetti, è un tipo poco

raccomandabile, un vero delinquente. Un tigrato attaccabrighe temuto da tutti, qua attorno. Si, lo so: magari dovrei provare a sfidarlo per acquistare credito agli occhi della signorina. Ma onestamente non ci ho il coraggio: quello mi affetta come un prosciutto se mi azzardo a infastidirlo. Ha certe unghie... Ultimamente, però, qualcuno mi ha sussurrato che la donzella pare sia molto sensibile ai regalini. E’ per questo che da giorni faccio la posta a quel sorcetto di campagna, un topetto grigio che di solito bazzica tra la recinzione e la porta destra del campo, quella con la rete bucata. Ho provato ad acchiapparlo ma è velocissimo. Oggi è già più di un’ora che lo punto. Va avanti e indietro come un matto dalla tribuna al buco della recinzione, salta dall’altra parte e sparisce per qualche minuto, per poi riapparire dopo un pò. Non ho capito ancora dove abbia la tana. Sta facendo provviste, il roditore: oggi è giorno di partita e gli spettatori sgranocchiano di tutto. Con le briciole che sta raccattando, ci fa tutto l’inverno. Stavolta, poi, gli spettatori sono davvero tanti. Dev’essere un incontro importante. Mai capiti gli umani: si ritengono superiori a tutti gli altri esseri viventi e poi litigano, urlano e saltano di gioia per alcuni scemi con un pallone tra i piedi. Bah... Eccolo lì che rientra. Mi ha visto ma fa finta di niente: tutto quel ben di Dio che cade dalle tribune per lui dev’essere un richiamo irresistibile, più forte di qualsiasi prudenza Bravo, avvicinati Ancora un po’...Ancora un po’... Eccolo a tiro Preso! Cavoli, sono proprio un fior di cacciatore: ho fatto un balzo da Olimpiadi feline. Stai buono tu, è inutile che ti dibatti: è la vita, amico. Oggi a te, domani a me. Sì,

l’ho capito: tieni famiglia. La teniamo tutti. I tuoi parenti se ne faranno una ragione, stai tranquillo. Il tempo lenisce ogni dolore. Caspita come si agita, se non sto attento mi cade dalla bocca e tanti saluti. Glielo vorrei portare ancora vivo a quell’antipatica, così ci si può divertire come le pare, ma se continua a dimenarsi in questo modo gli do un bel morso e buonanotte. Il furbacchione credeva di poterla fare franca pure stavolta. Ci dev’essere rimasto parecchio male. Ora devo trovare il modo di uscire da qui e portare il trofeo alla squinzia, nel gabbiotto del custode. Normalmente per far la stessa strada o dietro la porta... Ma oggi non si può, ci sono vigili del fuoco, carabinieri e addetti alla sicurezza. Non posso correre il rischio che qualcuno di loro mi urti, anche per sbaglio, e faccia scappare il sorcio. Aspetterò che i giocatori si spostino tutti dall’altro lato e poi proverò ad attraversare il campo. Ma è così importante sto cavolo di partita? Ecco, adesso. Via, più veloce di mio cugino il ghepardo. Ahia! Che botta! Ma che è stato? Porca miseria, il topo ha preso il volo. E ora chi ce la fa ad inseguirlo, ho la testa che mi ronza come un alveare. Massì, che vadano tutti a quel paese: il topo, la squinzia e quel poco di buono del suo compare. Appena mi ripiglio, scappo a zampe levate da questa gabbia di matti e mi vado a fare un pisolino. Epilogo “Antò, quanto stanno?” “Stanno zero a zero. Chillu rimbambito di Fabrizio oggi ha fatto scendere in campo una formazione di scarpari!” “Maronna, gli piglia un colpo a don Gaspare se non vince”

“E com’aggia vincere accussì? So tutti difensori. In attacco ci sta solo Velardi, povero guaglione. E’ n’ora che gira in tondo com’a nu scemo” “Chillu rimbambito” nel frattempo contava i minuti che lo separavano dal resto dei suoi quattro soldi. In panchina, i giocatori esclusi (attaccanti e centrocampisti) si lamentavano col vice, Gegè Parrinello, chiedendogli di intercedere presso il mister per far entrare uno di loro. “Non se ne parla nemmeno, Gegè. Quelli non aspettano altro: se sguarniamo la difesa, ci infilzano come tordi e addio campionato. Io me ne frego di quello che vuole il presidente. Ci sono ancora 3 giornate e noi le abbiamo tutte in casa e tutte facili. Loro, invece, devono ancora incontrare l’Audace e l’Amatori. Fuori casa, per giunta. Chi è messo meglio? Rispondimi” Niente da dire, come scusa era sublime, tant’è che il povero Parrinello non ebbe nulla da eccepire. Il povero scemo di Velardi, invece, aspettava ancora che gli arrivasse tra le gambe un aggio decente. Ma con una squadra imbottita di difensori, chi avrebbe dovuto farglielo? L’occasione della sua vita rischiava di sfumare per colpa di quel coglione di De Dominici. Roba da strozzarlo. Conosceva bene la difesa della Lombardozzi: non erano delle aquile. Se avesse avuto il sostegno del centrocampo, gli avrebbe già fatto gol da un pezzo. Ma così...Così c’era solo da aspettare il fischio di chiusura Riccardo Allegri, intanto, si era già da parecchio disinteressato di quello che succedeva sul campo da gioco, tutto assorto a scrivere il pezzo per il giornale sul suo notebook. Aveva raccolto notizie talmente esplosive sul rapporto tempestoso tra i due industriali che la cronaca della partita era diventata un dettaglio di minima importanza. Chiaccherando del più e del meno, si era fatto dare dal proprietario del bed l’indirizzo di una vecchia zia di Lombardozzi, sorella della madre, che viveva in una frazione a pochi chilometri dal paese.L’incontro con l’anziana donna, ormai quasi centenaria, era stato illuminante: malgrado l’età, aveva conservato un ricordo vivido del ato e non lesinò commenti arguti sulla rivalità tra i due imprenditori. A quanto pare, i due potevano essere davvero fratelli: la donna con cui il vecchio Paride aveva avuto la relazione extraconiugale che lo costrinse alla fine a sloggiare dal paese non era la moglie del farmacista (l’amante “ufficiale” di Paride, una giunonica trentenne di origine

tedesca), come tutti allora avevano sospettato, bensì proprio la madre di Gaspare, Ersilia Fontana. Pertanto il giornalista, curvo sul portatile, non smetteva ora di ringraziare mentalmente l’incartapecorita zitella per quella scottante confidenza che gettava quantità sconfinate di pepe su una pietanza altrimenti irrimediabilmente scipita: la scoperta, infatti, spalancava scenari del tutto inaspettati, soprattutto in virtù del recente fidanzamento dei rampolli dei due fratelli e della ben nota spregiudicatezza manageriale di Lombardozzi. Era giunto quasi alle chiose finali dell’articolo quando un boato del pubblico lo fece sobbalzare. Alzò la testa e vide il pallone dentro la rete della squadra ospite. Vide anche i giocatori di casa che si gettavano addosso a Velardi per festeggiare e i loro avversari che protestavano vivacemente con l’arbitro. Nell’area di rigore della Lombardozzi, però, vicino al portiere affranto vide pure qualcosa che non doveva trovarsi lì: un gatto che camminava malfermo sulle zampe, come stordito o ubriaco. Perplesso, Riccardo si levò in piedi, tra la baraonda dei tifosi attorno a lui, cercando di raccapezzarsi meglio su ciò che era accaduto. Non ne ebbe il tempo: venne travolto all’improvviso dalla enorme massa di carne del suo vicino di posto che gli fece perdere, oltre all’equilibrio, anche il prezioso notebook, mandandolo inesorabilmente a frantumarsi 20 metri più sotto. Contemporaneamente, un agitatissimo Stefano Rocchi cercava di contattare al cellulare il suo padrone per informarlo della strana rete segnata dalla Battistoni quasi allo scadere dell’incontro e per consigliargli le iniziative più opportune da intraprendere qualora l’arbitro, come sembrava intenzionato a fare, l’avesse ugualmente convalidata. Anche Marco Battistoni stava provando in quel momento a parlare col padre, rimasto a casa per scaramanzia. Non riuscendoci neanche lui, digitò un breve messaggio sul display e gli spedì un sms. Pochi metri più giù, invece, un attonito Fabrizio De Dominici osservava paralizzato dalla panchina, tra il tripudio dei suoi giocatori, l’evolversi della situazione, sperando che l’arbitro si convincesse ad invalidare quella rete così anomala: “Un gatto che devia un tiro con la testa! Ma si era mai sentita?”

Mentre De Dominici attendeva angosciato il verdetto del direttore di gara, in campo Luca Velardi, al contrario dei suoi compagni, era consapevole che per lui c’era ben poco da festeggiare. Liberatosi dall’abbraccio caloroso dell’ultimo invasato, cominciò a rientrare lentamente e a capo chino nella propria area, in attesa- come tutti gli altri - che il direttore di gara annullasse o convalidasse la rete. In ogni caso però, a prescindere dalla decisione che avrebbe preso l’uomo in giacchetta nera, per lui sarebbe stata una giornata da dimenticare: assente dal gioco per quasi 80 minuti, a causa degli scarsi “rifornimenti” di palloni giocabili dalle retrovie, nell’unica circostanza in cui era riuscito a prendere la mira aveva trovato sulla sua strada quel cavolo di gatto... Nel frattempo, lontano dal finimondo scoppiato sugli spalti e sul campo, un certo telefono chiuso dentro una Panda azzurro-metallizzata continuava a squillare a vuoto, perché il suo proprietario, con la canna da pesca ancora in mano, stava sgolandosi a spiegare ad un irremovibile capitano della Guardia di Finanza e a due suoi arcigni sottoposti che l’arresto era platealmente arbitrario, che lui li avrebbe fatti espellere dal corpo, che non sapevano con chi avevano a che fare e che il giudice che aveva firmato quel mandato avrebbe concluso i suoi giorni mendicando davanti al sagrato delle chiese. A qualche chilometro di distanza, invece, dentro una stanza piena di libri arredata con mobilio fine ottocento, un corpulento uomo sulla sessantina aveva appena lasciato il mondo dei vivi e ora fissava con sguardo vitreo lo schermo di un cellulare poggiato sul palmo della sua mano. Una morte misericordiosa gli aveva concesso giusto il tempo, udito dal piano inferiore della casa il trillo imperioso dell’apparecchio, di accorrere nel suo studio, far accomodare i suoi cento chili nell’ampia poltrona di pelle nera, aprire lo sportello del cellulare e leggere il testo di un messaggio inviatogli dal figlio: “Carthago deleta est…”

Dentro il cassetto

Quel lunedì aprì le imposte prima del solito. Spesso le piaceva stare un po' seduta in soggiorno con le persiane socchiuse, quanto bastava per far filtrare la luce del primo mattino. Stava lì, ancora in vestaglia, con in mano la tazzina di caffè, e girava lentamente lo sguardo attorno ai mobili, ai quadri ed ai gingilli di cui era piena la stanza. Sembrava che ne fe l'eterno inventario, una tela di Penelope che distruggeva ogni giorno, per ricomporla subito dopo. Ma quel giorno no, non le andava di compilare quella assurda contabilità. Aprì le persiane ed il sole cocente di quella caldissima estate umbra inondò subito la casa. Doveva fare una cosa importante, quel giorno. Doveva svuotare un cassetto. Quel cassetto. Avrebbe dovuto farlo subito, ma non se l'era sentita. Andrea era morto due mesi prima e lei da allora non aveva fatto altro che riunire tutte le sue cose dentro due grandi cassapanche, su in soffitta. Un lavoro frenetico, interminabile. Ogni giorno entrava nel suo studio, o nella stanza da letto, apriva scrupolosamente cassetti, scaffali, armadi, ne asportava il contenuto e andava a riporre tutto in soffitta, in attesa di trasportare le casse nel casale di campagna. Niente di Andrea doveva restare in quell'appartamento. Aveva tolto persino la carta da lettere e gli articoli di cancelleria. In mancanza di figli, il computer lo aveva regalato al nipote, il figlio di suo fratello. Solo i libri non aveva rimosso, per non lasciare la libreria sguarnita, visto che per la maggior parte li aveva acquistati lui. Ma si riprometteva di comprarne presto altri nelle librerie del Corso. Ogni volta che depositava qualcosa nel soppalco, si sentiva come alleggerita da un peso: dopo scendeva le scale sorridendo, come se avesse appena onorato un impegno che non credeva di poter mantenere. Quando l'aveva tradito per la prima volta? Non lo ricordava neppure. Ah sì, stavano ancora a Varese, lei insegnava al liceo scientifico, una supplenza annuale. Lui sempre all'estero. Il suo Indiana Jones, l'archeologo giramondo. Erano sposati da appena 6 mesi. E poi arrivò quel collega napoletano: così simpatico, così insistente... E dopo, quante volte l'aveva tradito dopo? Questa era una contabilità che non riusciva mai a far quadrare: 10, 20, 30 volte. Tante volte. Di alcuni partner non ricordava neppure la faccia.

Perché lo tradiva ? Perché le andava di farlo. Quando lui era ancora vivo, non se l'era mai chiesto. Lo faceva e basta. Se lo chiese il giorno in cui lo seppellirono: tornata a casa, si sedette sulla poltrona a fissare una foto di Andrea, scattata in Grecia due anni prima. E la scoperta di aver accolto dentro di sé, in 25 anni di matrimonio, i corpi estranei di tanti uomini solo per un impulso irrefrenabile di libidine, la stupì, la turbò. Prima non si era mai soffermata a pensarci: quando accettava le proposte dei suoi corteggiatori, era come se non avesse obblighi di fedeltà nei confronti di nessuno. Era un'altra persona, libera, senza vincoli. Talvolta si illudeva di farlo per le sue troppe assenze, o per rendere la pariglia a quelle distrazioni che, ne era sicura, uno come lui certamente non si asteneva dal concedersi. Ma era solo una sua congettura, del tutto priva di riscontri. E quando un'assistente del marito, giovane, carina, che lavorava da anni nel suo staff, durante una festa ne decantò pubblicamente le virtù di uomo fedele ed innamorato (una rarità nell'ambiente degli egittologi itineranti), confortata dai cenni d'assenso degli altri colleghi presenti (ben lieti che il discorso si spostasse dai loro presunti tradimenti alla indiscussa morigeratezza del comune amico), quasi ci rimase male, delusa di non poter più giustificare i propri adulteri con le immaginarie scappatelle del coniuge. Neppure la scusante dei lunghi viaggi era una credibile motivazione per la disinvoltura delle sue abitudini sessuali, perché in fondo a Laura piaceva aver la casa tutta per sé. Non avrebbe mai potuto resistere 25 anni con qualcuno con cui fosse stata costretta a condividere i medesimi spazi per troppo tempo. E allora? Allora la verità era che aveva bisogno di quei convegni squallidi, in piccoli alberghi di provincia, con giovani professionisti conosciuti nei pub di Roma o con colleghi sposati incontrati nei seminari cui partecipava di sovente. Appagavano una cruda necessità fisica ed una irrazionale mania di collezionismo. Stava solo attenta a non scegliere i suoi amanti occasionali tra coloro che vivevano a Perugia e dintorni e ad evitare incontri con persone potenzialmente pericolose: ci teneva parecchio alla patente di rispettabilità che le derivava dal lavoro di insegnante e dal ruolo di moglie di un ricercatore universitario. Un sussulto di perbenismo borghese che non era mai riuscita a soffocare, figlio di una rigida educazione cattolica e di un padre ufficiale dell'Esercito. Ora il cassetto era lì, davanti a lei. Era il cassetto centrale del comodino posto ai lati del letto dove dormiva Andrea. Avevano sempre avuto letti separati, come nei film americani degli anni 50. Gli altri due li aveva svuotati il giorno prima,

contenevano in gran parte orologi da polso ed accendini guasti da tempo immemore. Andrea non riusciva mai a staccarsi del tutto dalle sue cose. L'esatto contrario di lei, che si sbarazzava subito degli oggetti quando diventavano inservibili. Quel cassetto, però, era speciale. Lo sapevano entrambi. Lo avevano reso tale sin dal primo giorno di matrimonio, colmandolo di lettere, foto e cartoline. E di tutte le altre piccole e stupide cose che si possono scambiare due innamorati in 5 anni di fidanzamento. Il cassetto delle rimembranze, lo avevano ribattezzato. Non veniva aperto quasi mai, tranne nelle serate in cui cenavano a lume di candela nell'ampia veranda, in genere per festeggiare il suo ritorno da qualche spedizione, e bevevano spumante ghiacciato rievocando gli anni della loro giovinezza. Era in quelle occasioni che veniva aperto il cassetto, per farsi due risate rivedendo le vecchie foto scattate ai tempi dell'Università o per richiamare alla mente amici di gioventù di cui avevano perduto le tracce da tempo. Lì dentro era tutto più difficile per lei: non c'erano cose sue e cose di Andrea facilmente individuabili e separabili le une dalle altre, come nel resto della casa. Lì era tutto intrecciato, confuso, inestricabile. Quel cassetto era forse l'unico angolo della loro vita che contenesse oggetti comuni ad entrambi. Eppure doveva liberarsene. Doveva. Non era possibile continuare a far vivere il mondo di Andrea accanto a lei. Perché lei non lo aveva meritato. E dunque, meglio privare gli oggetti a lui cari della vista quotidiana di una persona che in vita non si era guadagnata il diritto a farli propri, a continuarne il possesso quale erede naturale di chi lì aveva raccolti ed amati. Quando lo aprì, il cassetto vomitò subito un pacco di buste consunte contenenti lettere di 30 anni prima. Era stipato fino all'inverosimile. Le raccolse da terra una ad una, iniziandole a sistemare dentro una grande scatola di cartone. Man mano che proseguiva, rivedevano la luce ricordi ormai occultati da tempo nei ripostigli della sua memoria. Scacciò irritata una lacrima, continuando metodicamente a catalogare e conservare ciò che andava faticosamente riemergendo. Era quasi arrivata al fondo del cassetto, quando lo vide. Era un vecchio portafogli di pelle marrone. Glielo aveva regalato per il suo 24° compleanno. O forse per il 25°. Lo aprì senza fretta: dentro vi erano solo alcune foto tessera fatte per l'immatricolazione all'Università ed una carta d'identità scaduta quindici anni prima e mai rinnovata. Si soffermò a guardare il volto di quel giovane magro, coi capelli corti, neri, dal sorriso controllato e dagli occhi intensi, che in un lontano giorno di ottobre l'aveva abbordata timidamente nell'androne della facoltà di

Lettere: "scusa, sai quando riceve il Prof....". La domanda più stupida che potesse farle, visto che gli orari di ricevimento dei docenti erano affissi proprio dietro di lui. Sorrise ripensando al suo imbarazzo ed all'invito a bere qualcosa dopo le lezioni che si era affrettato precipitosamente a proporgli, dopo che lei gli aveva indicato con un dito la bacheca degli avvisi. Era un bel ragazzo, molto tranquillo e molto intelligente. Ricordava di essersene innamorata lentamente, giorno dopo giorno, persa dietro ai suoi discorsi su tombe etrusche e capitelli dorici. Un legame sorseggiato a lungo prima del giudizio finale, come quei vini che al primo assaggio non lasciano una grande impressione e vengono apprezzati solo alla fine di un pasto completo. Immersa nei ricordi, non si era accorta che qualcosa fuoriusciva parzialmente da una delle piccole tasche interne del portafogli. Era un'altra foto, un po' più grande e sfrangiata ai lati, come si usava una volta. Ma non era molto vecchia. La estrasse e vi vide raffigurata una donna piuttosto giovane, una biondina magra e sorridente sullo sfondo di un paesaggio desertico. La sua assistente preferita, Daniela Sereni. Dietro una data, marzo 1993, ed una frase tanto banale quanto impegnativa, scritta con una calligrafia sorprendentemente ingenua per una laureata: Tua per sempre, Daniela. Per un momento rimase perplessa, fissando il retro della fotografia. Daniela. Quella che elogiava pubblicamente le doti morali del bel professore. Solo che la fedeltà cui si riferiva riguardava il loro rapporto, non quello coniugale del suo mentore. Dieci anni. Era iniziata allora la tresca? Rise al pensiero di aver utilizzato mentalmente un vocabolo tanto desueto, da romanzo ottocentesco. No, doveva essere cominciata già da un pezzo:una trentenne non scrive frasi come quella a pochi giorni dall'inizio di un rapporto affettivo. Era continuata fino alla sua morte? Forse, ma non poteva esserne sicura: Daniela al funerale aveva ostentato un dolore canonico, niente che autorizzasse a credere che la perdita di Andrea rappresentasse per lei molto più della scomparsa di un caro amico e compagno di lavoro. Da ingannatrice ad ingannata. Si senti pervadere da un vortice di sensazioni, tutte discordanti tra loro ed alcune persino paradossali, tenuto conto delle circostanze: rabbia, stupore, sollievo, ilarità, dolore, piacere, soddisfazione, sconcerto.

Da ingannatrice ad ingannata. Ecco perché Daniela non si era mai sposata, né le si erano mai potuti attribuire particolari legami sentimentali. Perché non era tipo da bigamie. Si poneva certe domande sulla ragazza soprattutto quando se la vedeva spuntare a casa, col compito di cercare qualche documento nello studio di Andrea. La incaricava lui di rovistare tra le sue carte ed i suoi libri, in genere quando non poteva allontanarsi dal Dipartimento. Era l'unica autorizzata a farlo, anche perché spesso si trattava di ricerche alle quali avevano lavorato insieme. Arrivava coi suoi modi spigliati e l'abbigliamento da eterna studentessa, la salutava cordialmente, si intratteneva con lei per un caffè prima di portare a termine l'incombenza. Mai avrebbe potuto immaginare che Andrea provasse attrazione per una donna così, tanto diversa da lei, dai suoi tailleur sofisticati, dalle sue frequentazioni influenti, dal suo fascino algido. Da ingannatrice ad ingannata. Pensò amaramente che di solito erano i libertini di sesso maschile a fare certe scoperte. Effetti della rivoluzione sessuale. Ripose lentamente la foto nella custodia e chiuse il cassetto. Uscita dalla camera da letto, si diresse in cucina, aprì il frigo e prese una bibita. Si affacciò al balcone, imponendosi di metabolizzare le proprie emozioni, di incanalarle verso alvei mentali conosciuti e rassicuranti. Si scoprì ferita, ma non per il tradimento. Non avrebbe mai potuto offendersi per quello. Si sentiva ferita per la sostituzione. Lei una cosa simile non l'aveva mai fatta, le sue storie duravano sempre lo spazio di una notte. Anche meno. In fondo, aveva rispettato i patti. Per quanto ridicolo potesse sembrare, si stava convincendo che tra i due la meno fedifraga fosse stata lei. Invece Andrea si era costruito un altro matrimonio, parallelo e molto più solido del loro. E questo era difficile da accettare. Nel gioco delle maschere, aveva giocato persuasa di essere l'unica ad indossarla. L'accorgersi che anche l'altro aveva giocato a viso coperto era una novità che la spiazzava, che la costringeva a rivedere tutto ciò che aveva sempre pensato sul loro rapporto Poi gradualmente, quasi inavvertitamente, cominciò a provare una strana sensazione di benessere. Il profondo disagio che le albergava dentro dal giorno dell'incidente, quel fastidio continuo, opprimente, che l'aveva fatta sentire indegna di continuare a convivere con tutto ciò che parlava di lui, stava evaporando poco a poco, rimpiazzato da una serenità fino ad allora sconosciuta. Nel gioco delle maschere, iniziava ad intravedere il lato nascosto di quella medaglia di menzogne ed ipocrisie: non doveva più vergognarsi di aver barato, di aver usato un travestimento scorretto, di aver ingannato un compagno di gioco ignaro dei suoi trucchi. Perché l'inganno non solo era stato reciproco, ma anche

di eguale intensità: uno per quantità, l'altro per qualità. Forse sarebbe riuscita a seppellire Andrea, finalmente. Forse sarebbe riuscita a riprendere le sue cose, a rimetterle al loro posto, a sentirle parte di sé senza il timore di appropriazioni indebite. Forse. Andò a sedersi in veranda, nella sua poltrona di vimini prediletta. Da lì si godeva una vista meravigliosa della campagna umbra, ancora più bella quel giorno perché bagnata dal temporale estivo della notte precedente. Ora che aveva riconosciuto in lui un suo simile, decise di fermarsi a rileggere con calma lo spartito della sua esistenza. Specie nella parte in cui sul suo pianoforte si era seduto anche Andrea, per suonare quel brano a 4 mani. Per tutta la vita aveva percorso strade piene di viandanti travisati come lei. E si era trovata perfettamente a suo agio. Fin da piccola, si era resa conto di muoversi ed agire in un mondo che era solo la pallida proiezione olografica di quello vero. Una sorta di grande palcoscenico, dove gli attori tolgono gli abiti di scena solo nel chiuso dei propri camerini, in assoluta solitudine. Lì dentro si toglieva la maschera il padre, quella maschera di rigore ed austerità che mal si confaceva con le sue visite notturne in certe vie strette e poco illuminate del centro storico di Arezzo. Lì la madre si toglieva la sua ingombrante armatura di donna sottomessa, di toscana d'ingegno vivace e parlata sciolta che per rispetto delle convenzioni aveva mortificato scientemente la propria identità, per riuscire ad indossare bene i panni mediocri di moglie di un alto ufficiale del Distretto Militare. Lo pretendeva la platea, lo pretendevano il regista e gli altri attori di quella commedia che Maddalena Chiti aveva cominciato a recitare il 24 giugno del 1951, in una piccola chiesa di S. Giovanni Valdarno. Ma quando si toglieva il camuffamento, Maddalena tornava di nuovo la ragazza allegra, colta e curiosa dei vent'anni. Solo che non c'erano più gli amici di Arezzo ad ascoltarla recitare poesie e ad ammirare i suoi paesaggi su tela. Non c'erano più i muretti di una Val di Chiana devastata dalla guerra, dove accostare le biciclette e mangiare un panino parlando di Hemingway e Fitzgerald. Adesso ad ascoltarla c'era sempre un bicchiere colmo di un liquido denso e scuro, che custodiva gelosamente dentro uno scomparto della credenza. L'unico amico che sapesse riconoscere le sue vere fattezze. L'unico che le rimase accanto fino alla fine. Non portò mai rancore al padre: gli somigliava troppo. La sua sola vendetta, nemmeno troppo meditata, fu quella di ripudiare il castello di precetti e consuetudini che lui aveva cercato di inculcarle fin dalla nascita. Ma lo fece a

suo modo, senza ribellismi plateali, senza strappi laceranti. Fu la sua vendetta, ma anche la sua difesa. La sincerità era un rischio che non poteva permettersi di correre, uno stile di vita riservato solo ai folli o a chi dalla vita nulla poteva più pretendere. Agli attori che avevano esaurito le battute. Lei no, lei aveva ancora un copione lungo da recitare. E finora lo aveva recitato bene, calandosi nella parte sino in fondo, assumendo le sembianze che di volta in volta il canovaccio richiedeva. Il sesso libero era stata solo una delle maschere dentro il suo baule di commediante. E neppure la più importante. Ma gli altri attori del suo spettacolo non erano stati da meno. Tutti tranne Andrea. Andrea con i suoi modi schietti, la sua semplicità, i suoi valori. Dio come l'aveva odiato: era la negazione vivente di tutto ciò che aveva appreso dalla vita. Sconvolgeva le regole della sua sintassi, il collaudato palinsesto della sua personalità, il mausoleo delle sue certezze. Non poteva uno come lui essere arrivato dov'era arrivato senza aver mai messo piede a teatro. Non poteva uno come lui aver raggiunto quella fama nella professione, quegli onori, la cattedra all'Università, gli articoli sulle riviste specializzate, la stima unanime del mondo accademico. La sua disarmata ingenuità contraddiceva le leggi di natura. Era un affronto ai principi basilari che regolano la condizione umana. Andrea era un perdente che aveva vinto. E questo era possibile solo nei mondi del Dottor Pangloss, non nel suo. Per reazione, per vincere il disorientamento quotidiano che le dava il doversi confrontare con un giocatore apparentemente tanto diverso da lei, aveva alzato il livello delle sue imposture. Nel lavoro e nella vita di tutti i giorni. Se ne rendeva conto solo adesso. Se avesse saputo prima che anche l'altro portava la sua bella maschera dentro casa, tutto sarebbe stato più logico, più semplice. Non avrebbe provato alcun imbarazzo e avrebbero potuto vivere tranquillamente le loro vite farisee per molti anni ancora. Come tanti altri. Come tutti gli altri. Se avesse saputo prima ciò che nascondeva Andrea dietro l'apparenza dell'intellettuale preso solo dai suoi studi, glielo avrebbe detto sicuramente che i freni della macchina non funzionavano bene. Glielo avrebbe detto prima che intraprendesse quel viaggio a Milano, prima che tutto diventasse rimpianto. Lui guidava di rado e solo in caso di lunghi spostamenti. Preferiva utilizzare i mezzi pubblici. La macchina l'adoperava quasi esclusivamente lei, per recarsi a scuola o andare in centro per acquisti. E si era accorta da tempo che qualcosa non

andava nel sistema frenante. Si riprometteva ogni volta di ricoverarla in officina, ma poi puntualmente se ne dimenticava. Quando seppe del viaggio, non seguì ciò che l'istinto ed il buonsenso le suggerivano. C'è ancora tempo, pensava, glielo dirò qualche giorno prima della partenza. Invece lui partì ignaro di tutto, come sempre.

Fangulo

1.Lo potevi incontrare la sera a rovistare nei cassonetti, soprattutto in quelli della strada principale del paese, oppure a bussare alla porta della canonica, per provare a scroccare la cena a padre Aurelio. Nessuno sapeva come si chiamasse davvero e nessuno sapeva da dove venisse. Era spuntato in paese in un giorno di primavera di tanti anni prima, entrando a piedi dal lato delle montagne. D’inverno indossava un vecchio cappotto verde sopra pantaloni scuri di lana portati alla zuava, scarponi militari e una bisaccia consunta a tracolla. Cosa ci mettesse dentro, nessuno l’ha mai capito. D’estate, invece, andava in giro con una camiciola a fiori regalatagli dopo una pesca di beneficenza, pantaloni di cotone color kaki e un paio di sandali di pelle, probabile dono dei frati del convento dell’Annunziata. Aveva un’età indefinibile, tra i 18 e i 70 anni. Talvolta, guardandolo, sembrava poco più che un bambino, con quel viso paffuto e rubizzo che pareva uscito dalle pagine di Collodi. Altre volte, invece, sembrava vecchissimo, più vecchio del mondo e anche più vecchio di Dio. I ragazzi delle scuole lo prendevano spesso in giro, quando avano dal marciapiede dove elemosinava. Ci dovevano are per forza per raggiungere i plessi scolastici, perché lui si metteva sempre a metà strada tra il municipio e le scuole. Non dava fastidio a nessuno e nessuno infastidiva lui, a parte le innocenti monellerie e i motteggi dei ragazzini. Restò sempre un mistero, però, scoprire dove andasse a dormire la notte. Forse giù al fiume, diceva qualcuno, in qualche ricovero nascosto dalla vegetazione intricata degli argini. Viveva di piccole elemosine che pochi gli negavano e della carità cristiana di padre Aurelio e delle sue parrocchiane. La parrocchia di padre Aurelio era piccola, non aveva locali adatti ad accogliere ospiti. Nondimeno, il buon prete d’inverno, nelle serate più fredde, lo invitava a

dormire in una stanzetta della canonica normalmente utilizzata come ripostiglio. Talvolta accettava e talvolta no. Non era un gran parlatore, pur non essendo propriamente muto Si limitava a fare un cenno con la testa in segno di ringraziamento o di risposta a chi gli dava una moneta o a chi lo salutava. Il medico condotto, il dott. Cremona, sosteneva che fosse affetto da una rara patologia delle corde vocali che gli impediva di articolare bene le parole. Fu per questo che tutti si stupirono il giorno in cui la signora Elide, che gestiva una piccola merceria vicino allo spicchio di marciapiede dove elemosinava, salutatolo affettuosamente come sempre (“Come va, tutto bene?”) si sentì rispondere “Fangulo” La signora, una cinquantenne tracagnotta tutta casa,chiesa e pettegolezzi, sulle prime non capì: “Come hai detto, scusa?” “Uhhh...Fan-gu-lo.Fangulo!” La povera donna rimase interdetta. Poi, rossa in viso, lo redarguì aspramente: “Ma come ti permetti! Cafone! E’ questo il ringraziamento per tutte le volte che ti ho fatto l’elemosina ! Pure il panettone ti ho regalato a Natale! Nessuno ti regala panettoni a Natale qui, manco padre Aurelio. Io sì, povera scema! Ah, ma ora lo vado a riferire al prete, deve sapere che razza di gente ingrata e maleducata assiste nella sua chiesa!” E partì sparata per la parrocchia con piglio da granatiere. 2. Trovò il parroco intento a riporre i paramenti sacri dentro l’armadio della canonica. “Padre, padre... una cosa inaudita” “Elide ciao, cos’è successo? Sembri parecchio arrabbiata” Elide rifiatò un attimo prima di rispondere, un po’ per il tragitto fatto a o di carica e un po’ per la gravità della notizia che stava per riferire al sant’uomo.

“Ma dai...Avrai capito male. Lo sai che non spiccica una parola. E poi...che motivo avrebbe di mandarti a quel paese?” Elide Zoppelli voleva bene a padre Aurelio. Veramente tutti lì volevano bene a padre Aurelio ma Elide, insieme ad altre comari del borgo sue amiche, gliene voleva forse un po’ di più. Sarà stato per la giovane età (aveva festeggiato da poco i quarant’anni ma sembrava molto più giovane), sarà stato per il bell’aspetto (quante dicerie aveva alimentato al suo arrivo, con le poche ragazze da marito del paese che entravano e uscivano dalla chiesa tra risolini e toccate di gomito), sarà stato soprattutto per il suo impegno nella comunità (il prete di prima pensava solo a ingozzarsi tra una messa frettolosa e l’altra), fatto sta che Elide a padre Aurelio era disposta a perdonare tutto, pure certe strane visite pomeridiane a casa del macellaio, marito di una giovane e prosperosa rumena dalla vita sentimentale notoriamente turbolenta. Eppure Elide questa del mendicante proprio non riuscì a perdonargliela: “Padre, ma mi prende per scema? E’ vero che sono solo una semplice madre di famiglia con la licenza media e senza grilli per la testa, ma so riconoscere bene un insulto come quello!” Padre Aurelio, visto il tono risentito della sua parrocchiana, si soffermò a guardarla perplesso: “Elide, che dirti? Magari qualcuno gli avrà fatto qualche torto, qualche dispetto, e lui era ancora arrabbiato quando ti ha risposto. Ora proverò a parlargli, sempre ammesso che ne possa cavare qualcosa. Non è facile averci a che fare, lo sai” “Ecco, gli parli e gli dica chiaro e tondo che certe insolenze qui non le ammettiamo, soprattutto da parte di chi vive della nostra carità!” “Eh però, Elide...Mi piacerebbe che ti offendessi così pure quando gli studenti gli ano accanto e gliene dicono di tutti i colori...” La battuta aveva colto nel segno, perché Elide, in preda ad evidente imbarazzo, replicò farfugliando: “Ma che c’entra...quella è un’altra cosa...sono ragazzi”

“Ah sì, certo: sono ragazzi e tra l’altro sono tutti figli di persone che conosci, vero Elide? Io ci ho provato mille volte a farli smettere, pure con gli urlacci, ma voi qui in paese la considerate quasi una cosa normale: siccome è un accattone, uno che vive alle vostre spalle, che almeno paghi dazio prendendosi gli sfottò dei vostri figli. Vabbè, lasciamo perdere...” “Allora, ci parlerà? Gli dica che voglio le scuse. Nemmeno mio marito si è mai permesso di insultarmi così e dire che in trent’anni di matrimonio le nostre belle litigate non ce le siamo fatte mancare di certo...” 3. Al bar Splendor , l’unico ritrovo del paese (a parte una vecchia trattoria fuori mano), qualche giorno dopo non si parlava d’altro. Il mendicante, infatti, dopo la merciaia pare avesse regalato biglietti di sola andata per una certa località anche a tutti quelli che in seguito gli si erano accostati rivolgendogli la parola. Ma sull’argomento le opinioni delle vittime della sua attività “turistica” divergevano: qualcuno faceva l’offeso, come l’Elide, e qualcun altro ci rideva sopra, come Ermanno, il farmacista. “A me mi ci ha mandato dopo che gli ho offerto il cornetto. L’altra mattina l’ho visto are diretto alla sua postazione e l’ho chiamato tenendo in mano un cornetto alla crema e sventolandoglielo sotto al naso: lui è entrato, ha preso il cornetto e mi ha sfanculato. Cose da pazzi...” -disse Tiberio, il proprietario del bar-“Quando ci ripenso, mi vien voglia di uscire fuori e prenderlo a calci nel sedere” Nessuno dei presenti dubitò neppure per un momento che Tiberio Bernardi, ex pugile dilettante categoria massimi, fosse in grado di mettere in pratica il suo proposito. Ma ugualmente nessuno pensò che Tiberio l’avrebbe effettivamente messo in pratica: era l’uomo più mite del mondo, che usciva dai gangheri soltanto davanti alle cartelle delle tasse... “A me pure mi ha sfanculato ieri l’altro e solo per avergli detto di stare attento a dove metteva i piedi” gli fece subito eco Osvaldo, il proprietario dell’autofficina ubicata alla fine del paese, prima della discesa verso il fiume. “Erano le otto di sera, più o meno, e stavo per chiudere-continuò- Ad un certo punto è ato di lì, diretto probabilmente verso il fiume, e a momenti inciampava in un crick poggiato per terra”. “Ma questo dev’essere impazzito”- commentò allora il colonnello Incardona, un

colonnello dei carabinieri in pensione di origine siciliana dal portamento ancora marziale, nonostante la canizie dei capelli e dei maestosi baffi a manubrio di cui era orgogliosissimo-“Foglio di via obbligatorio e divieto di dimora! Come minimo!Ecco quello che ci vorrebbe per tipi del genere! Ah, se fossimo ancora ai bei tempi! Soggetto nullafacente e dedito a vagabondaggio e questua: una volta sarebbe stato più che sufficiente per prendere provvedimenti, vero maresciallo?” Il maresciallo Arrighi, comandante della locale stazione dell’Arma, sospirò rassegnato mentre si portava alle labbra quel caffè mattutino tanto agognato, visto che a casa non poteva prepararselo da solo, avendo una moglie che non ne tollerava neppure l’odore. Posata la tazzina, il maresciallo aspettò un po’ a rispondere, indeciso se seguire l’esempio del mendicante e mandare una buona volta a quel paese quel gran rompiballe del colonnello, che dal giorno del trasferimento gli stava rendendo intollerabile il suo soggiorno in paese con le pretese più assurde e la mania di vedere reati inesistenti dappertutto, o se continuare a portare rispetto al grado e alla persona replicando in modo educato. Scelse per l’ennesima volta la seconda via, promettendo però a sé stesso che sarebbe stata l’ultima: “Che vuole,signor colonnello, i tempi cambiano. Oggi non abbiamo più strumenti per perseguire quelli come il nostro amico maleducato. Tra l’altro, fino a poco tempo fa si comportava bene, mi pare. Chissà che cavolo gli starà ando per la testa ultimamente. Casomai è il sindaco che potrebbe fare qualcosa, segnalandolo ai servizi sociali o facendolo ricoverare”. “Buono quello!” Il vocione tonitruante che annunziò il suo ingresso nel bar con quel giudizio acido sul primo cittadino non poteva che appartenere al professor Bertrando Malaspina, docente di italiano e latino in un liceo di città nonché capo dell’opposizione in consiglio comunale. Tutti gli avventori del locale si voltarono verso di lui attendendo con ansia il seguito. Il professor Malaspina, infatti, era noto in paese per due motivi: per il numero di elezioni perse in qualità di candidato sindaco e per la capacità di immaginare complotti e oscure trame politiche dietro ogni evento, per quanto banale esso fosse. Ma siccome era anche molto bravo a rendere credibili le sue

ricostruzioni fantasiose, i compaesani, golosi di fanfaronate come tutti quelli che vivono in posti dove le novità latitano peggio dei gratta e vinci milionari, attendevano sempre con grande interesse l’ultima sua trovata sui perfidi intrighi del sindaco e dei suoi “accoliti”, come li chiamava Malaspina, per impedirgli di denunziare la cattiva gestione della cosa pubblica e gli intrallazzi che ammorbavano l’aria della casa municipale. “La merciaia, il barista, il meccanico, il fruttivendolo, l’orefice, il medico condotto, il tabaccaio, il farmacista...Tutti omaggiati da un “fangulo”e tutti presenti stamattina qua dentro, a parte la merciaia, a cui però, ne sono certo, i resoconti analitici di questo convegno non mancheranno di sicuro, vero signorina Iole?” Iole Corsari, graziosa cassiera ventenne del bar Splendor, era la nipote della merciaia nonché la sua fonte principale di informazioni sui fattacci dei paesani , visto che col barbiere, benché suo parente, non correva buon sangue e visto soprattutto che la Elide, benché curiosa come una scimmia, non trovava fine per una signora farsi vedere troppo al bar. Tuttavia la ragazza, seduta al suo posto di lavoro, quella volta negò indignata, forse preoccupata che quella diceria su di lei alla fine potesse indispettire il suo datore di lavoro: “Ma per chi mi prende, professore. Non vado in giro a raccontare i fatti della gente, io. Nemmeno a mia zia, se vuol saperlo”. “Si, come no...E allora, stavo dicendo...Mi fate ridere, siete tutte pedine e non ve ne rendete conto. Il vero obiettivo sono io e voi siete solo serviti agli ideatori di questo ennesimo attacco alla mia persona e al mio ruolo per nascondere i loro veri scopi. “ “Suvvia professore, cosa c’entra il clochard che ci manda a quel paese con le sue beghe politiche. Stiamo parlando di un povero scemo che all’improvviso si è messo ad insultare tutti e senza un apparente motivo. Lei lo fa troppo machiavellico, il nostro sindaco” “Stamattina, appena uscito da casa, ha mandato a fare in c. pure me, se vuol proprio saperlo, caro geometra Tonini. E con una solennità nei toni che non credo abbia usato negli altri casi. Ciò vorrà pur dire qualcosa, non crede? Ad onor del vero, sono corso subito a protestare in municipio e il sindaco non mi ha

fatto mancare la sua solidarietà. Ma figurarsi, chi ci crede: timeo Danaos et dona ferentes” “Psst...Chi è sto Timeo? E’ uno di fuori?” chiese subito Mario la, l’idraulico. “Ma che ne so,sarà un filosofo o qualche altro cervellone che conosce lui”gli rispose il suo vicino di tavolo, Carlone Stoppani, proprietario dell’unica edicola del paese. “Se la cosa la può consolare, mio carissimo avversario, e indurla per una volta a smontare i castelli in aria che si diletta a costruire, il nostro mendicante è per la par condicio. Dopo aver spedito lei in posti che è meglio non dire, per non lasciarla da solo subito dopo si è premurato di mandarci anche il sottoscritto.” 4. L’inatteso ingresso del sindaco, Avv. Gilberto Maria Bencivegna, era un evento che si verificava di rado al bar Splendor. Ad onta delle apparenze e dell’aspetto pacioso del personaggio, infatti, l’Avv. Bencivegna era un uomo molto schivo, che evitava accuratamente i posti frequentati solitamente dai suoi amministrati. Agli amministrati, però, di ciò non doveva importare poi molto, visto che l’avvocato era già alla terza rielezione consecutiva, malgrado gli sforzi del suo eterno rivale per screditarlo ai loro occhi. La notizia che un vaffa se l’era beccato pure lui, però, non dovette far piacere a Malaspina, se non altro perché lo privava dell’opportunità di fabbricare l’ennesima congiura di palazzo ai suoi danni: bofonchiando irritato qualcosa, subito dopo l’entrata in scena di Bencivegna si eclissò in fondo al locale, sparendo dietro le teste di un paio di altri clienti. “Carissimo maresciallo...- proseguì l’avvocato dopo aver ordinato un cappuccino. “Mi dica, sindaco” “Qui la situazione comincia a farsi fastidiosa...” “Sante parole, sindaco! “proruppe subito il colonnello, che era stato, tra l’altro, anche assessore in una precedente giunta guidata da Bencivegna. “Signori, cittadini”- continuò il sindaco volgendosi verso tutti i presenti-“ Io

non amo il tintinnar di manette, lo sapete bene...” “Eh, lo sappiamo bene”- mormorò Malaspina-“Ad amarlo troppo, il tintinnare, c’è il pericolo che le manette prima o poi finiscano ai nostri polsi...” “Tuttavia”- seguitò l’avvocato-“ siamo in presenza di una persona che, mostrando somma ingratitudine, al nostro buon cuore risponde colla villania, sputando nel piatto dove mangia” “Bene!” “Bravo” “Giusto!” “Calmi, calmi, fatemi finire”- li quietò subito il sindaco- “Il maresciallo, con cui ho parlato ieri l’altro, ha ragione quando dice che oggi la legge non consente più alla forza pubblica di perseguire facilmente certi perdigiorno. E’ pur vero, però, che tutti noi siamo sempre liberi di querelarlo per ingiuria e portarlo ugualmente in tribunale” “Sì, vero!” “Sì, facciamolo!” “Aspettate, aspettate...Non credo sia una buona soluzione. Innanzitutto, bisognerebbe accertare la sua vera identità, cosa non facile, vero maresciallo?” “Verissimo”-confermò il maresciallo-“All’inizio, appena arrivato qui, lo avevamo fermato per controlli. Non aveva documenti. Abbiamo provato anche a fare qualche ricerca, ma senza risultato” “E poi, un processo dura anni e gli esiti non sempre sono favorevoli ai querelanti, specie se il reato è di minima importanza. Agli occhi della legge, intendo dire”-concluse il sindaco “E allora che dobbiamo fare? Dobbiamo continuare a farci mandare in quel posto ogni volta che lo incontriamo? Qui c’è gente che ha collezionato già due o tre di quegli inviti, per non parlare delle nostre signore” domandò irritato Filippo Tripoli, un quarantenne tarchiato e con un gran barbone nero che di

professione faceva il muratore. “Calma, sig.Tripoli, calma. C’è una soluzione a tutto. Però è una soluzione che comporta, da parte vostra e anche del maresciallo, la massima collaborazione su ciò che ho intenzione di fare nella mia qualità di sindaco” “Parli!” “Ho intenzione di emettere un’ordinanza di espulsione nei confronti del nostro amico.” Il maresciallo per poco non saltò dalla sedia, mentre il professor Malaspina ricominciò, dal fondo della sala, a far risentire il suo vocione: “Ma è illegale, un abuso! Un sindaco non può espellere nessuno e meno che mai un cittadino italiano!”. “E chi lo dice che è italiano?”- lo interruppe il cav. Bartoloni, funzionario in pensione di un ente previdenziale-“Per quel che ne sappiamo, potrebbe essere pure cinese...”. “Comunque è un abuso!” replicò piccato il professore- “In Consiglio io e il mio gruppo daremo battaglia, può star sicuro!”. “Lui e il suo gruppo?” disse sottovoce uno stupito idraulico all’edicolante-“Ma se sono solo lui e suo cugino...”. “Ssst...Se ti sente...Ricordati che i nostri figli sono in classe con lui, ricordati”. “Carissimo professore”- ribattè olimpico il sindaco al suo avversario politico-“ sarà una fictio, una messinscena. Firmerò un provvedimento di allontanamento dal territorio comunale che non avrà alcun valore giuridico ma che avrà certamente il grande effetto di liberarci del nostro ormai sgradito ospite”. “Se voi tutti sarete d’accordo”- proseguì l’avv.Bencivegna tra il brusio crescente degli astanti- “la finta ordinanza finirà nel cestino un attimo dopo che il nostro uomo avrà lasciato il paese e tutto tornerà come prima”. Parlò per primo il farmacista, il dr. Marzorati:

“ A me viene da ridere a pensare che un paese intero si stia mobilitando per una simile idiozia. E’ solo un povero ritardato che avrà sentito quell’espressione chissà dove e ora la ripete ad ogni piè sospinto . Ma è possibile che nessuno di noi abbia altro a cui badare qui?” “In effetti, dottor Ermanno, non è solo per gli insulti” gli rispose il vecchio Gerlando, il tabaccaio-“Qui viviamo di impieghi e qualche negozietto ma soprattutto di turismo, a parte quei quattro gatti che ancora si ostinano a coltivare la terra. Ora, se il mendicante quest’estate comincia ad insultare quei pochi turisti che vengono fin quassù a trascorrere le ferie, noi siamo rovinati”. “Esatto ,caro Gerlando, esatto!”-ribadì il sindaco-“Questo centro conta molto sui turisti che a luglio ed agosto affittano le nostre case, spendono nei nostri negozi e mangiano nella trattoria di Peppino e Gisella: non possiamo certo permetterci di farceli scappare. Anche perché, lo sappiamo bene, la maggior parte di loro è gente piuttosto distinta e permalosa, capace di cambiare località di villeggiatura per molto meno. Allora, siamo tutti d’accordo?” Sì, erano tutti d’accordo. Pure il professore, che d’estate affittava due piccoli appartamenti di sua proprietà nel centro storico... 5 . “Non è giusto. State commettendo un oltraggio a Dio e agli uomini. Quel poveraccio non merita per così poco di essere mandato via e con un provvedimento illegittimo, per giunta” “Padre, si calmi. Esamini bene tutta la faccenda e vedrà che sono stato costretto ad adottare simili misure” “Sì, la storia del turismo...Tutte cavolate, figuriamoci. Magari i turisti si divertirebbero pure con un personaggio del genere. Che ne sappiamo noi? A Roma ci sono dei ristoranti dove ne dicono di cotte e di crude ai clienti e le file per entrarci sono lunghe chilometri. La verità è che “Fangulo” , come ormai lo chiamate tutti, ha proferito un fangulo di troppo, quello indirizzato a lei”. Era davvero adirato, padre Aurelio. Andava su e giù lungo per la stanza del sindaco gesticolando e agitando le mani in aria. Invano il farmacista, presente anche lui all’incontro con l’avv.Bencivegna, tentava da diversi minuti di farlo placare: “Padre, si sieda. Non è facendo così che risolveremo i problemi di “Fangulo”.

“Dr. Marzorati, quel poveretto ieri è venuto da me piangendo. Non aveva capito un accidente quando il vigile gli ha notificato l’ordinanza. Non sa leggere. Quando gli hanno spiegato che doveva andar via per sempre da qui, è scoppiato in lacrime. Come si fa a rimanere insensibili di fronte al dramma di quel disgraziato? Mo’ sapete che ho intenzione di fare? Appena Fangulo sarà andato via, lo sostituirò io, mandando a quel paese tutti gli abitanti di questo buco del mondo ogni volta che ne incontrerò uno”. “Suvvia padre, non dica stupidaggini”-intervenne il sindaco-“Piuttosto, lei non gli aveva parlato dopo la storia di Elide?”. Padre Aurelio si arrestò al centro della stanza, portandosi le mani ai fianchi e sforzandosi di ricordare: “Sì, ma non è servito a nulla. Lui non comunica a parole con nessuno , nemmeno con me, a parte quel vocabolo che tutti sappiamo, e fu un’ impresa soltanto fargli capire il motivo di quella conversazione. Però ricordo bene un particolare: ho avuto come l’impressione che per lui fangulo sia una specie di saluto universale, una formula omnicomprensiva con cui interloquire con tutti. Una sorta di parola magica buona per ogni occasione e migliore dei grazie e dei buongiorno, insomma . Se è così, essa non avrebbe nulla di offensivo, perché chi la pronuncia le attribuisce significati ben diversi da quelli che le attribuiscono gli altri” “Questo spiegherebbe molte cose”-disse Marzorati al sindaco-“Anzi, forse ora credo di aver capito chi è l’artefice di tutta questa pagliacciata”. Il sindaco, improvvisamente interessato, poggiò i gomiti sulla scrivania e si avvicinò al suo dirimpettaio. Anche padre Aurelio si avvicinò al farmacista, pure lui curioso di conoscere le teorie dell’amico sull’origine dei fangulo. “Fangulo” –cominciò ad illustrare il farmacista-“ ad occhio e croce parrebbe essere un’espressione dialettale tipica della Campania o della Puglia. Nel resto d’Italia quella parolina solitamente si pronunzia in un altro modo. Ora, posto che napoletani qui non se ne sono mai visti, a parte una coppia di Portici che viene ogni anno a Ferragosto...” “Il notaio Capece e la moglie, persone squisite” precisò il sindaco. “Esatto, sig. sindaco. Dicevo, posto che napoletani da qui non ne sono mai

ati, chi è l’unico pugliese che bazzica la nostra contrada?” Alla domanda seguì l’imbarazzato silenzio degli altri due, che si guardarono reciprocamente in viso cercando, l’uno nell’altro, la possibile risposta. Lo smarrimento del sindaco e del parroco suscitò viva sorpresa in Marzorati, arciconvinto di aver formulato un quesito estremamente facile: “Ma come? Non vi ricordate? Sindaco, proprio lei che gli ha appioppato sul groppone un bel po’ di multe negli ultimi due o tre anni...” L’avv. Bencivegna, fulminato sulla via per Damasco, si diede allora una gran botta sulla fronte con il palmo aperto della mano: “Ma certo! L’ambulante! Oronzo... Oronzo...Oronzo qualcosa...Non mi ricordo il cognome ma di lui ora mi ricordo benissimo”. “Oronzo La Pergola”. Il comandante dello striminzito corpo locale dei vigili urbani (3 persone in tutto), entrato in quel momento nella stanza, aveva subito capito di chi si stava parlando. “La Pergola, signor sindaco, un bel tipetto. Lo conosce bene anche il maresciallo. Ha un’attività ambulante di vendita di salumi e formaggi e viene in questa zona ogni due settimane circa. Lo abbiamo multato diverse volte, se ricorda, soprattutto per carenze igieniche. Ce l’abbiamo nel libro nero ed alla prima occasione ho intenzione di inviare una segnalazione all’autorità che gli ha rilasciato la licenza”. “E farà benissimo, comandante. Elementi come quello devono capire che qui non è aria per i loro imbrogli”. “Sì, ma ora quando dovrebbe tornare?”chiese il farmacista. “Non c’è bisogno di aspettare il suo prossimo aggio, se volete parlare con lui. Abbiamo il suo numero di cellulare”. 6. “Pronto? Sì, sono io. Non si sente bene, sono al mercato, c’è nu casino qui: parlate più forte. Ah comandante, è lei. Come? Il mendicante? Quale

mendicante? Ah sì, chillu scemo. Che avrei fatto io? ....Sì signora, è caciocavallo freschissimo...Assaggi, assaggi... E’ na delizia...Sta a 12 al chilo...Cosa? Ma che fa, mi manda aff... Cosa? Io? Ihhhhhhhhhhh, che fesseria. E mi chiama per questo, comandante? E io che pensavo fosse per quella storia delle mozzarelle di bufala ...Sì..ehm..quelle scadute...E certo che abbasso la voce, comandà...Maronna, per nu fangulo.. Ma che mi dite...Aggia combinato tutto sto burdello chillu scemo. Ehhh, come fu, come fu. Fu che l’ultima volta che venni su da voi, mi misi col camion vicino a dove elemosina sto scimunito. Ad un certo punto della mattinata, ci fu una cliente, una vecchia, che mi fece perdere un sacco di tempo a chiedere prezzi e ad assaggiare e che alla fine se ne andò senza aver comprato manco un etto di prosciutto. Mentre si allontanava le mandai un cordiale...Insomma, ha capito. Poi, girandomi verso sto babbione, vidi che mi fissava con estremo interesse, con gli occhi spalancati e cercando di ripetere la parola che aveva appena sentito...Già sapevo che non parla mai, anche se non è proprio muto: ci ho un cugino dalle mie parti che è tale preciso a lui. E così mi è venuta l’idea di insegnargli almeno a dire fangulo. Può sempre servire nella vita... no comandà? Però io ci ho pure spiegato che era una forma di saluto. Di saluto o di ringraziamento, ih ih...Sì, lo ammetto, mi sono divertito un po’. Che vuole, era una di quelle giornate dove si a il tempo a scacciare le mosche e non si vede un centesimo. Maronna mia, e chi se l’immaginava che sto fetentone combinava tutto sto macello... Io? E che c’entro io? Io gli ho fatto solo del bene: prima non diceva manco ahi quando gli pestavano un piede. Almeno adesso...” 7.”E ora che facciamo?” domandò il comandante dopo aver chiuso la conversazione con La Pergola. “Come che facciamo, facciamo che si ritira tutto e si lascia in pace quel poveretto!”sbottò padre Aurelio “Certo, mi pare evidente”-proseguì il farmacista-“che sono venuti a cadere i presupposti della sua cd. “ordinanza”, caro sindaco, visto che il nostro uomo non voleva offendere nessuno. Anzi”. Il sindaco a quel punto principiò a tormentarsi il pizzetto sale e pepe, guardando un punto fisso sulla parete di fronte a lui. Stette così per un paio di lunghissimi minuti, mentre le altre persone dentro la stanza cominciavano a rivolgersi reciprocamente occhiate interrogative.

Alla fine Gilberto Maria Bencivegna, stimato avvocato cassazionista nonché capo della locale amministrazione comunale, emise la sofferta sentenza: “Mi dispiace, non possiamo tornare indietro. Potremmo indire un’assemblea cittadina e spiegare alle persone come sono andati i fatti. Ma, ammesso e non concesso che i buoni cristiani di questo borgo decidano di metterci una pietra sopra, resterebbe l’incognita dei turisti. Voi li conoscete bene quelli: è tutta gente con la puzza sotto al naso e la testa piena di corbellerie. Vengono qui con l’idea di ritrovare il paesello di montagna delle fiabe, quello col torrente, il ponte di pietra e il castello diroccato su in cima, e l’accattone puzzolente e maleducato in questo quadretto idilliaco è una nota stonata, una macchia di sugo su un lenzuolo bianco che non si aspettano affatto di trovare e che rischia di farli andar via. Non possiamo assolutamente permettercelo. Già la scorsa estate qualcuno di loro si era lamentato coi vigili per la sua presenza”. A quel punto il farmacista, accortosi che padre Aurelio era prossimo ad esplodere, salutò velocemente il sindaco e il comandante, prese sotto braccio il prete e lo trascinò fuori dal municipio. “Ma mi lasci, ho ancora da dire un paio di cosette da dire a quel trafficone che si permette di fare la morale agli altri...” “Come trafficone? Quindi, padre, lei crede alle storie che racconta il professore...Questa mi giunge nuova”. “Caro dottore, io non mi occupo di politica, io curo anime. Ma se posso dire la mia, da cittadino, il professore mi sta cordialmente sulle scatole, ma non tutto quello che va raccontando sulla sindacatura dell’avvocato Bencivegna è totalmente destituito di fondamento. Non mi faccia dire altro”. In effetti, pensò il dottore, il tenore di vita dell’avvocato era notevolmente migliorato da quando aveva deciso di buttarsi in politica: adesso viveva in una bella villa fuori dal paese (un vecchio casolare di contadini completamente ristrutturato) e cambiava macchina quasi ogni anno. Che ciò dipendesse dal suo successo professionale era da escludere, perché non aveva poi molti clienti, nonostante fosse un buon avvocato, e l’indennità di carica non era di sicuro sufficiente a giustificare i suoi agi. Quindi? Il farmacista ripensò a certe strane gare d’appalto di qualche anno prima per lavori edili non propriamente indispensabili (e , tra l’altro, fatti pure male) o

all’affidamento del servizio idrico e di raccolta della nettezza urbana a due grosse ditte di città i cui titolari erano da sempre parecchio chiacchierati. Oppure ancora a certe licenze edilizie a gente di fuori che forse nessun altro comune avrebbe rilasciato. Sussurri di perdigiorno da piazza, per carità, a parte le solite chiassate di Malaspina. Bah, si disse alla fine, non erano problemi suoi: lui quel sindaco non l’aveva mai votato, nonostante il professore non fosse proprio la migliore alternativa. Si rese conto, tra l’altro, che stava perdendo fin troppo tempo dietro al parroco e al barbone, con la farmacia affidata alle inesperte e maldestre mani di Sergio, un giovane neolaureato figlio di un suo vecchio compagno di liceo che definire imbranato sarebbe stato insultante per gli imbranati. “Padre, si rassegni. Abbiamo fatto per il nostro amico tutto quello che si poteva fare. L’ultima cosa che potremmo ancora tentare, in mancanza di un ripensamento di Bencivegna, sarebbe quella di sbandierare ai quattro venti l’illegittimità dell’ordinanza, ma con il rischio di ricadute su tutti noi che non credo sia il caso di correre...Io me ne torno alle mie occupazioni e consiglio a lei di fare altrettanto”. Padre Aurelio annuì stancamente: “Sì, forse ha ragione. Ma questa storia non credo che riuscirò a dimenticarla facilmente. Ho intenzione di chiedere al vescovo il mio trasferimento ad altra sede, perché non so se ho ancora voglia di fare il parroco in un posto del genere”. Osservando la sua figura dinoccolata allontanarsi in direzione della chiesa, il farmacista convenne, proprio lui che i preti non li aveva mai troppo amati, di aver finalmente conosciuto un sacerdote degno della propria tonaca, malgrado certe umanissime tentazioni a cui, a sentire i pettegoli, nemmeno uno come padre Aurelio riusciva a rifuggire. 8. E fu così che alla fine Fangulo, sceso giù al fiume e riunite mestamente le proprie povere cose, si preparò a lasciare quel piccolo paradiso sulla terra, un lembo di quiete che a lui, figlio dei vicoli affollati di Bari vecchia, doveva essere sembrato, dopo tanto peregrinare, la realizzazione di un sogno ad occhi aperti. Da quanto tempo vagava in lungo e in largo? Non se lo ricordava più. Tra le nebbie dei suoi ricordi, però, da qualche tempo affiorava nitida l’immagine di un bambino che correva scalzo e lacero sul selciato colloso di una strada stretta tra

edifici dai muri scrostati e traboccanti di lenzuola stese ad asciugare. Una strada riempita giorno e notte dalle voci concitate di tanta gente, adulti e bambini, sporca e malvestita come lui. Voci che avevano lo stesso suono delle parole ascoltate dalla bocca di quel signore grasso che si era piazzato vicino al suo angolo di marciapiede un paio di settimane prima. E quella parola, poi. Dove l’aveva già udita? Avrebbe voluto poterla ripetere subito, per svegliare la memoria, ma non c’era riuscito. Non era mai stato bravo con le parole, nemmeno da bambino. Meno male che ci aveva pensato il signore grasso ad insegnargliela. Era stato molto gentile, il signore grasso. Ma cosa significava? Doveva essere qualcosa di gentile, come il signore grasso. Per questo lui, facendo mille sforzi per non dimenticarla, da quel giorno l’aveva ripetuta a tutti, per far capire quanto gli pie vivere lì e quanto fosse grato a tutti per la loro generosità. Eppure a molti non era piaciuto scoprire che anche lui poteva parlare: lo aveva capito dalle loro facce. Facce arrabbiate. Soprattutto non era piaciuto a quello lì, a quell’uomo importante, quello che alla festa di fine agosto camminava dietro al prete e alla statua del santo con addosso una fascia colorata, che infatti lo mandò via in malo modo. Stava discutendo con uno sconosciuto molto elegante dentro una stanza del municipio e lui era entrato per farsi dare la solita monetina. Non c’era nessuno in municipio a quell’ora e così lui era potuto salire tranquillamente fino alla stanza dell’uomo importante. Ma stavolta l’uomo con la fascia l’aveva cacciato via subito, senza neanche aspettare che lui lo salutasse. Sembrava molto, molto arrabbiato. Forse è per questo che mi stanno mandando via, pensò Fangulo. Perchè sono entrato nella stanza dell’uomo con la fascia. Eppure l’aveva fatto altre volte e non era mai successo nulla. Lui aspettava sempre che gli altri signori del municipio andassero a mangiare per salire le scale e andare a trovare l’uomo con la fascia. E l’uomo con la fascia non si era mai arrabbiato prima. Anzi: gli sorrideva e gli dava pure qualche moneta. A proposito, le monete. Fangulo si inoltrò nel piccolo canneto che sorgeva lì accanto e ne uscì poco dopo tenendo in mano un sacchetto di plastica. Erano davvero tante. Non poteva andarsene in giro con tutti quei soldi, pensò.

Che fare? Ricordò allora che c’era un posto lì in paese, una specie di negozio, dove la gente si recava per portare o prendere soldi. Non si faceva altro in quel posto lì. Almeno così gli aveva spiegato padre Aurelio, quella volta che lo aveva incontrato dalle parti del negozio. Vedendolo incuriosito ad osservare l’andirivieni delle persone, alcune delle quali uscivano con in mano un bel mazzo di banconote, il prete gli volle spiegare cosa si fe là dentro. Come aveva detto padre Aurelio che si chiamava quel posto? Banca. Sì, banca. 9. Dopo la chiusura dell’ufficio postale, avvenuta un paio d’anni prima, la banca era rimasto l’unico posto del paese dove poter conservare i propri soldi. Era la minuscola filiale di una piccola banca di città presente solo in quella provincia e con pochissimi sportelli per giunta. Forse per questo la tenevano ancora aperta. Il responsabile si chiamava Alessandro Sarti e veniva da un paese vicino. Giovane e ambizioso, non vedeva l’ora di lasciare quell’ospizio di pensionati e trasferirsi nella sede centrale,con l’obiettivo di are, prima o poi, ad una banca più importante. Là dentro, gli unici depositi di un certo peso erano quelli del sindaco e del professor Malaspina, il quale però era benestante di famiglia. Meno chiara, invece, l’origine della prosperità economica del sindaco, improvvisamente esplosa subito dopo l’inizio del suo secondo mandato. Ma a Sarti ovviamente importava poco, anche se un’idea se l’era fatta, soprattutto dopo aver controllato, per puro sfizio, i mittenti dei cospicui bonifici che ogni tanto venivano accreditati sul conto corrente del primo cittadino Quella mattina Sarti aprì la filiale più tardi del solito, perché la sera prima aveva fatto le ore piccole in città giocando a poker con alcuni conoscenti. A trentacinque anni era ancora scapolo, benché fidanzato da anni con una maestrina del suo paese, e certe abitudini poteva ancora permettersele. Quello che non si sarebbe potuto permettere, invece, erano le conseguenze delle sue abitudini, ossia le notevoli perdite di denaro provocate dalla sua ione per il gioco. Ci aveva riflettuto a lungo e alla fine aveva deciso che era una cosa fattibile. Fattibile e con pochissimi rischi. D’altronde, non aveva molte alternative: se

voleva far carriera doveva prima scrollarsi di dosso tutti quei debiti di gioco e per scrollarsi di dosso tutti quei debiti la strada era una sola. Farsi presentare in città qualcuno del giro fu più facile del previsto e ancor più facile fu accordarsi: metà e metà. Metà a lui e l’altra metà da dividere tra i due balordi che aveva reclutato. Motivo per cui quella mattina Sarti aprì l’ufficio più tardi del solito non solo per la nottata da biscazziere appena trascorsa ma anche perché quello era il giorno convenuto con i complici, che prima di un certo orario non sarebbero mai potuti arrivare in posto simile senza destare sospetti. Così, invece, tutto sarebbe filato a meraviglia: nessun cliente o quasi dentro la banca e la cassaforte traboccante del denaro consegnato la sera prima dal portavalori per il pagamento delle pensioni. Senza tener conto che gli unici due dipendenti di Sarti dall’inizio di quella settimana erano uno ammalato e l’altra in ferie. Il giorno perfetto, insomma. I balordi giunsero in macchina giusto dieci minuti dopo l’apertura. Constatarono subito, con grande soddisfazione, che attorno non si vedeva anima viva. La banca sorgeva infatti alla periferia sud del paese, in una zona relativamente nuova, i cui abitanti a quell’ora o erano in città a lavorare o in centro a far la spesa. Entrarono col amontagna già calato sul viso e le armi in pugno. Dentro la banca trovarono solo due persone, a parte Sarti : la Matilde Grassi, una bella signora di mezza età moglie del medico condotto, e uno strano straccione con una faccia da clown ed un sacchetto di plastica in mano. La Matilde Grassi, impegnata in quel momento allo sportello, appena lì vide strozzo in gola un urlo disumano portandosi le mani alla bocca e alzandole subito dopo senza aspettare di farselo dire dai rapinatori. Il direttore, fingendo sgomento e paura, alzò anche lui le braccia al cielo, simulando un tremolio delle labbra da attore consumato. Solo lo straccione rimase immobile al suo posto senza muovere un muscolo, con il sacchetto di plastica in mano ed un’espressione ebete dipinta sul viso, fissa su uno dei due delinquenti.

Innervosito, il tizio in questione, mentre il compare si faceva aprire la cassaforte, ad un certo punto lo spintonò e gli puntò la pistola alla tempia,urlandogli di gettarsi a terra. Accadde allora un qualcosa che il poco di buono, dall’alto delle cinque o sei rapine che formavano già il suo “curriculum”, mai avrebbe potuto immaginare. Lo straccione prima gli sorrise, esibendo due lunghe file di denti guasti, e poi, come se fosse la cosa più naturale da fare quando si ha una Beretta puntata alla testa, lo mandò aff.... Sconcertato e imbestialito, nonché sordo ai richiami del complice che, sacco di denaro alla mano, lo invitava a lasciar perdere e a scappare via, il mascalzone colpì Fangulo al volto con un cazzotto, facendolo ruzzolare a terra, e poi, non pago, gli sparò pure un colpo di pistola. Il rapinatore però non sapeva che quegli attimi perduti per dar sfogo alla propria rabbia gli sarebbero costati cari. Qualcuno dei rari anti doveva aver notato qualcosa di strano dalla strada, premurandosi di avvisare i carabinieri col cellulare. Il maresciallo Arrighi e altri due carabinieri arrivarono a sirene spente proprio mentre i due banditi, usciti dalla banca, si accingevano a salire in macchina e filare a tutta velocità verso la statale. 10.Certo che la vita è proprio buffa, pensò il dr. Marzorati mentre aspettava in corridoio che iniziasse l’orario delle visite. Si può risultare indesiderati ad una comunità per una parola, una semplice parola di cui chi la pronuncia ignora tra l’altro il reale significato, e per la stessa ragione diventare poco dopo eroi nazionali. L’episodio dell’accattone che si era opposto fieramente ad un tentativo di rapina, sfidando dei malviventi armati e addirittura mandandoli a quel paese, era stato immediatamente rilanciato dai giornali e dai media nazionali, commuovendo l’opinione pubblica. Astutamente propalata dal maresciallo attraverso un amico giornalista che lavorava in un importante quotidiano, la notizia aveva subito fatto il giro delle principali agenzie di stampa e il giorno dopo stava in prima pagina sia sugli altri quotidiani che su tutti i principali telegiornali.

Un putiferio. Ressa continua di cronisti davanti all’ospedale dove “Fangulo”, vivo per miracolo benché ferito seriamente (il proiettile gli aveva sfiorato un polmone), era stato ricoverato, messaggi di plauso dal mondo politico e dalle cariche istituzionali, processione infinita di compaesani (eh sì, perché ora si definivano orgogliosamente suoi compaesani), grati che il pezzente, insieme ai suoi spiccioli, avesse salvato pure i loro risparmi e le loro agognate pensioni, proposte di cittadinanza onoraria, di alloggio, di lavoro, di candidatura alle future elezioni comunali e via di seguito. Ci fu pure qualcuno che non esitò a scomodare la toponomastica, proponendo al Consiglio comunale di cambiare una mai troppo amata via Scoreggi, intitolata ad un oscuro pittore del settecento, in via Fangulo e qualcun altro che osò paragonare il fangulo ai rapinatori alle pietre di Balilla o alla stampella di Enrico Toti. Per non parlare di Cambronne... E poi interviste a non finire a tutto il paese. Non potendo ancora incontrare “l’eroe” per il divieto tassativo dei medici, i giornalisti s’accanirono con i suoi “concittadini”, i quali , ben consci delle possibili conseguenze, si guardarono bene dal rivelare che il mendicante in effetti quel famoso “invito” lo rivolgeva a tutti... Inoltre, grazie a Fangulo, in aggiunta alla notorietà iniziò per quel piccolo borgo pedemontano un’ età dell’oro che i locali sperarono potesse durare il più a lungo possibile: la tv divulgò le bellezze del posto e i turisti cominciarono ad affollare le sue strette vie nei fine settimana. I commercianti si fregarono le mani dalla soddisfazione e qualcuno cominciò a parlare di alberghi e centri commerciali. Non il sindaco, però, occupato con tutt’altre gatte da pelare. Le sue fonti confidenziali in procura gli avevano fatto sapere che Sarti, arrestato dopo la chiamata di correo dei complici, stava contrattando coi magistrati la sua posizione processuale in cambio di esplosive rivelazioni sui rapporti tra l’amministrazione comunale ed un noto faccendiere romano da sempre legato agli ambienti della malavita organizzata. Tutto questo ovviamente i suoi amministrati non potevano saperlo, motivo per cui si stupirono non poco dello scarso entusiasmo del loro primo cittadino verso quell’ondata di celebrità che stava investendo la borgata. L’avvocato, al contrario del suo rivale, per tutto il tempo che i riflettori furono puntati sul suo campanile rifiutò categoricamente ogni contatto con la stampa, limitandosi a rilasciare una stringata comunicazione in cui si complimentava con l’”eroe”, si dichiarava orgoglioso, a nome di tutta la cittadinanza, di un simile concittadino e assicurava

che avrebbe preso provvedimenti per garantire al derelitto l’assistenza a vita a cura del comune. Malgrado la ritrosia e l’evidente (anche se incomprensibile ai più) fastidio per tutto quel baccano attorno alla vicenda e al paese, ci fu però un evento al quale non poté proprio sottrarsi, anche se il commesso che gli porse il telescritto lo udì chiaramente smoccolare un attimo dopo essere uscito dalla sua stanza: Fangulo avrebbe ricevuto la visita in ospedale nientemeno che del ministro in persona. 11.” Ma quando arriva sto ministro?” Padre Aurelio, che aveva raggiunto il farmacista nei corridoi dell’ospedale, recava informazioni fresche in proposito e si premurò di condividerle con l’amico. “Sta arrivando, sta arrivando. Quando sono partito dal paese, era appena sceso dall’aereo, a detta del maresciallo”. “L’orario delle visite è già iniziato...Speriamo che si sbrighi”. “Ma si figuri se staranno attenti all’orario con un ministro...Aspetti, vedo della confusione là in fondo. Eccoli, sono loro!” Accompagnato da una colorita e rumorosa corte di giornalisti, collaboratori, funzionari di Polizia e alti ufficiali dell’Arma, il ministro avanzò a larghe falcate lungo il corridoio, fermandosi a metà del percorso per ricevere i saluti del primario e del direttore dell’ospedale. Ovviamente con lui c’era anche il Prefetto ed ovviamente c’era anche un ingrugnito sindaco. Esauriti i convenevoli di rito, il ministro, seguito dal solito codazzo a cui nel frattempo s’erano aggregati abusivamente, malgrado le occhiatacce dell’avv.Bencivegna e del maresciallo Arrighi, il prete e il farmacista, entrò nella stanza di Fangulo, il quale in quel momento si andava lentamente risvegliando dal sonno indotto da una iniezione di sedativo praticatagli qualche ora prima. Dispostisi a cerchio i presenti attorno al lettino del ferito, mentre partivano, nonostante la muta contrarietà dei medici, i primi flash dei fotografi e le riprese dei cineoperatori, il ministro iniziò solennemente a pronunciare la solita giaculatoria da politico consumato, grondante di retorica peggio del bollettino di vittoria di uno Stato Maggiore:

“E’ con vivo compiacimento, caro signor...” Pausa “Come si chiama il nostro amico?” chiese l’alta autorità. Panico. Sguardi smarriti fra i partecipanti al convegno e ricerca spasmodica delle facce del sindaco e del maresciallo dei carabinieri. I quali, imperturbabili, dichiararono di non conoscere le esatte generalità dell’”eroe”, che in paese era conosciuto semplicemente come “il mendicante di Corso Umberto II”, omettendo ovviamente di precisare che negli ultimi tempi veniva appellato in tutt’altro modo... “E che facciamo? Mica posso chiamarlo così” obiettò il ministro. “Fausto! Io in parrocchia l’ho sempre chiamato Fausto, in onore di S. Fausto, patrono dei poveri” proruppe allora padre Aurelio “Ma perché, S. Fausto è il patrono dei poveri?”domandò sottovoce il farmacista al prete. “Lasci perdere ...”. “Ah bene”-disse rinfrancato il ministro riprendendo la sua omelia zeppa di sprezzi del pericolo, ammirevole senso civico e delle istituzioni, rettitudine, italianità, ardimento, malvagità proditoria e vile dei due furfanti e via di seguito. L’apionato sermone terminò giusto un attimo prima che qualcuno cominciasse ad intonare le prime strofe della canzone del Piave. -“E allora, signor Fausto, è con vivo compiacimento che, a nome del governo, ho l’onore di comunicarle che il nostro Capo dello Stato le ha conferito una prestigiosa onorificenza al valore civile, che prossimamente le verrà consegnata in una pubblica cerimonia nel palazzo della Presidenza. E’ contento? “concluse il ministro accostandosi al viso di “Fausto” Il quale, ormai quasi del tutto ripresosi dal torpore, cercò disperatamente, per quanto il dolore glielo consentisse, di rispondere alla domanda del ministro, emettendo all’inizio suoni incomprensibili (ffnn...nngg...).

Esausto per lo sforzo ma desideroso di non deludere quel signore così gentile che continuava a sollecitargli una risposta (“Cosa vuol dirmi, caro?)”, l’eroe, strabuzzando gli occhi per la fatica, riuscì alla fine ad articolare una parola di senso compiuto. E fu del tutto inutile, allora, il grido corale e disperato che subitamente si levò dalle bocche del sacerdote, del farmacista, del sindaco e del maresciallo, risuonando alto e lugubre nella stanza:”Nooooooooo!!! ”

Gli intrusi

Morriconi dr. Aurelio & Corradini Sonia. La targhetta sul citofono, accanto al cancello in ferro battuto che immette nel piccolo giardino, mi rivela finalmente la loro identità . Ecco chi sono i miei nemici, gli attentatori della mia quiete. Dopo due settimane di trambusto, con il continuo via vai del camion della ditta di traslochi che pendolava da chissà dove, ecco svelato l’arcano. Devono aver preso possesso della villetta iersera sul tardi, provvedendo subito a segnalare all’universo mondo la lieta novella del loro insediamento nel quartiere. Forse pensano di esser creditori di una qualche forma di omaggio collettivo, come le visite a palazzo e gli atti di sottomissione dovuti in ato ai nuovi sovrani, motivo per cui si sono affrettati ad apporre la targhetta. O forse la loro è stata solo una forma molto spiccia e rozza di demarcazione del territorio: “Qua ora ci siamo noi, questa non è più terra di nessuno.” Eh no, cari dr. Morriconi e gentile signora. Troppo facile. Ho scelto con cura questa zona della città dieci anni addietro. Volevo un posto tranquillo, senza traffico e senza famigliole piene di bambocci urlanti che scorrevano tutto il giorno le vie del quartiere come i briganti le campagne. Anche la casa, dopo il rione, è stata frutto di scelta accuratissima: una villetta ad un piano con il tetto d’ardesia, i muri di pietra bugnata ed un piccolo giardino delimitato da una cancellata ricoperta d’edera, confinante con altre due case identiche ma totalmente disabitate, sia a destra che a sinistra. Quando la trovai, dopo aver torturato per mesi il mio agente immobiliare, non credevo ai miei occhi. E neppure l’agente, che infatti si commosse. Quello era il paradiso sulla terra, l’Eden a cinque chilometri dall’inferno, l’estrema Thule della serenità domestica, il regno del Prete Gianni subito dopo il Caos. La strada finiva in aperta campagna. Dopo appena 500 mt dalla casa non c’era più nulla. Questo significava che difficilmente qualcuno che non fosse anche un residente

avrebbe mai avuto un valido motivo per venire da quelle parti. Traffico inesistente, dunque. Ma non solo: sia la gemella di destra che quella di sinistra della mia casa erano disabitate e tali sarebbero rimaste chissà per quanto tempo. Allora non sapevo per quanto, oggi purtroppo lo so: dieci anni. L’agente immobiliare all’epoca mi spiegò che il proprietario di una delle due case, un anziano ex direttore di banca, viveva in America e compariva lì soltanto una volta ogni tre-quattro anni. Vedovo e senza figli, soggiornava al massimo un paio di settimane, giusto il tempo di vedere i parenti, e poi tornava al sole della California. La proprietaria dell’altra villetta, invece, era una società immobiliare concorrente. Quando si principiò ad edificare in quella zona, molti immobiliaristi si affannarono ad acquistare le case convinti di poterle rivendere facilmente, perché nei progetti quell’area sarebbe stata dotata di negozi, uffici e ipermercati. Invece poi qualcosa andò storto, le autorizzazioni per i grandi esercizi commerciali furono negate e quel quartiere divenne un rifugio per pochi eremiti come me, disposti a percorrere in auto diversi chilometri prima di incontrare una pompa di benzina o un tabaccaio. Così la casa rimase sul groppone degli speculatori, riluttanti ad abbassarne il prezzo per non perdere il loro denaro ma anche incapaci di trovare qualcuno disposto a pagarla ed abitarla. Per dieci lunghi anni, i più felici della mia vita, non vi fu forma umana che violò la pace del mio romitorio. Non ombra d’uomo, di donna o di fanciullo calpestò il pavimento di uno dei due villini vicini al mio. Niente bambini frignanti, niente televisori ad alto volume, niente liti furibonde tra coniugi. Per dieci anni, nel silenzio di quella periferia dimenticata ho scritto le mie migliori storie, i libri meglio riusciti del mio repertorio. Posso dire che quella casa è stata l’artefice del mio successo editoriale. Mi è bastata la vendita del primo romanzo, Occhi nella notte, per finire di pagarla. Dopo la vendita degli altri 3, oggi potrei tranquillamente trasferirmi dove mi pare. Ma non lo faccio. Non c’è un chiodo, un muro, una trave di questa casa che io lascerò mai ad altri. E’ nata con me e morirà con me. Mi ci dovranno seppellire dentro. E’ la mia coperta di Linus, il ventre caldo della madre, il rifugio nella tormenta, l’ orifizio

di mondo scavato a misura della mia persona E’ il mio tempio e non permetterò ad un Morriconi qualsiasi di violarlo impunemente. 2 Eccoli là. Si tengono mano nella mano eggiando in giardino. Giovanissimi ed innamorati. Che tenerezza. Devono essere appena tornati dal viaggio di nozze, anche se lei mi pare abbia un principio di pancione. C’è un piccolo Morriconi in arrivo, dunque. Hanno tutta la loro roba ancora dentro gli scatoli. Lui non è andato al lavoro stamane. Presumo per aiutare la moglie a sistemare la casa. Chissà se lo sanno di avere un famoso scrittore come vicino di casa. Magari non hanno mai letto un libro in vita loro. O magari non gliene frega niente. Certo, un po’ mi dà fastidio. Mi aspettavo che si presentassero da me per conoscermi di persona. Sono piuttosto conosciuto nell’ambiente letterario ed anche i giornalisti spesso sono venuti ad intervistarmi. Possibile che quei due non mi abbiano mai visto in televisione? Oddio, i critici non mi amano. Secondo loro ho uno stile un po’ piatto e le mie storie non superano la soglia di un pubblico di media cultura. A me, però, dei critici non è mai fregato niente. Sono gli incassi che mi interessano e quelli mi hanno sempre dato ragione. No, non credo proprio che lo sappiano di vivere accanto ad un autore di bestsellers. Si sarebbero già presentati alla mia porta, sorriso di circostanza e finta emozione in viso. Un po’ mi dà fastidio, lo ammetto. Sarà per colpa della mia misantropia. A parte le librerie e ogni tanto la tv, infatti,non ci sono altri posti dove la gente può leggere il mio nome. La faccia, poi, è ancora meno nota del nome. I miei libri no, quelli credo che li conoscano in tanti, perlomeno i titoli. Comunque, che Morriconi e consorte sappiano o meno di abitare accanto ad una celebrità, m’importa poco. Devono sloggiare, con le buone o con le cattive Il problema è come farli andar via.

Mi faccio un caffè. Non c’è niente meglio di un caffè per concentrarsi e prendere le decisioni migliori. Chiudo la tendina della finestra da dove li sto spiando e vado in cucina a caricare la cialda nella macchinetta. Prendo litri su litri di caffè e mi ero scocciato di dover pulire continuamente la caffettiera. Così un anno fa ho acquistato una macchina a cialde. Dunque... Lettere minatorie? No, chiamerebbero subito la Polizia. Sai che figura ci farei se mi scoprissero. Imbrattamenti e danneggiamenti? Come sopra. Denunzie per rumori molesti? E se non fanno rumori molesti? Mica posso dire che per me è già molesta la loro presenza. Mi prenderebbero per matto. Ho trovato: i fantasmi. Gli racconto che la casa è impestata di fantasmi. Mi inventerò una storia plausibile, che so, qualche tragedia avvenuta lì magari tanto tempo fa. E’ il mio mestiere, no? E poi? Bisognerà farli materializzare questi fantasmi. Senza farsi scoprire. Bel problema. Intanto, però, pensiamo a rifilargli una balla credibile. Al resto ci penseremo dopo. 3 “Oh, maestro. E’ lei! Che onore. Entri, entri”. Mi conoscono, allora. E perché non sono venuti loro a farmi visita? Non esistono più le buone maniere in questo Paese. “Sonia, vieni. Guarda chi era che aveva bussato! E’ il maestro! Si sieda, maestro. Ci deve scusare, ma qui è ancora tutto in disordine. Che vuole, siamo arrivati solo ieri sera”. “Lo so, lo so”. Mi accomodo su una sedia da cucina momentaneamente distolta dal suo normale luogo di lavoro in attesa del disimballaggio di tutto il salotto. “Lei ci deve perdonare, maestro, se non siamo venuti noi a visitarla, ma sa...Di lei si dice che non ami molto le visite” E giù una risatina nervosa.

Ah, ecco perché. Questi non solo sapevano chi avrebbero avuto per vicino ma erano al corrente anche del mio brutto carattere. “Sonia! Ma che stai facendo? Vieni, non fare aspettare il maestro!" La voce chioccia della moglie non tarda a farsi sentire: “Sto facendo la doccia, caro! Intanto intrattieni tu il maestro!” Il breve siparietto con la moglie mi dà l’opportunità di osservare meglio il mio nemico: è di media altezza e corporatura, con un viso quadrato da bravo ragazzo, i capelli neri ordinatamente composti sul capo e un paio d’occhialetti che ricordano quelli degli esistenzialisti degli anni cinquanta. Il classico intellettuale di serie C che si divide tra i libri e la partitella di calcetto per tenersi in forma. Innocuo, se non fosse umano. Chissà se sarà pure credulone? Speriamo. Se ho beccato il razionalista convinto, avrò le mie gatte da pelare: non c’è niente di peggio di un intellettualoide da mensa aziendale convinto che a questo mondo esista solo ciò che si può toccare con mano. “Oh maestro, sono emozionatissimo. Abbiamo letto tutti i suoi libri, sa? Io e mia moglie siamo suoi grandi ammiratori. Sonia! Ma sbrigati, che il maestro si spazientisce!” Vista l’accoglienza estatica, ho assunto pose da santone e mi comporto di conseguenza: alzo lentamente la mano destra in segno di benevola assoluzione per il ritardo della discepola. L’aspetto esteriore mi aiuta nella commedia: da tempo ho lasciato crescere liberamente barba e capelli e siccome vado per la sessantina, la lanugine è ormai canuta e io sembro il clone di Sai Baba. Nel frattempo, la loquela del mio adorante seguace è diventata un fiume in piena che nulla riesce più a contenere: “Quanto m’è piaciuto Smarrirsi e ritrovarsi! E’ uno dei libri più belli che abbia mai letto. Però non ho capito una cosa: Alberto è tornato con Ingrid per espiare la sua colpa o perché si è accorto di amarla ancora?Lei si è mantenuto sul vago su questo punto”

Oddio, questo mi ha scambiato per Liala. Un romanzo incentrato sul travaglio esistenziale del protagonista, che molla tutto dopo la morte del padre e va a fare il mendicante in India, nel suo cervello d’incompetente è diventato una specie di fotoromanzo. Non oso neppure immaginare quale possa essere sulla faccenda l’opinione della mogliettina. “Ah, la scena d’amore tra Roberto e Judith in L’infinito cercare. L’avrò riletta cento volte!” Evocata dai miei pensieri, la garrula mogliettina fa il suo ingresso in scena inneggiando ad un o famoso del mio ultimo libro. Come da ordine naturale delle cose, se già il marito è uno svenevole apionato di ciarpame romantico , la moglie non può certo essergli da meno. La signora è una trentenne fisicamente molto gradevole: magra, bionda, con grandi occhi da cerbiatta e mani affusolate. Indossa una larga tuta sportiva e ha i capelli raccolti a coda di cavallo. Nel complesso, però, non sembra molto più intelligente del consorte. Il prosieguo dell’incontro mi conferma che ho a che fare con due tontoloni logorroici. Due bambini che giocano a marito e moglie. Rispondo a monosillabi alle loro domande, accetto il liquore che mi offrono e m’informo meglio su di loro. Il marito è dottore commercialista e lavora in uno studio prestigioso del centro, la moglie è una maestra elementare disoccupata. Sono sposati da neanche un mese e la casa gliel’hanno regalata i rispettivi genitori, comprandola dalla famosa società immobiliare. Ad una mia precisa domanda, infine, rispondono arrossendo che al momento non ci sono figli in arrivo: in cortile stavano soltanto giocando alla mammina in attesa, con lei che si era messa sotto il vestito un cuscino per simulare la gravidanza. Due perfetti idioti, insomma. Sarà un gioco da ragazzi spaventarli con la fola del fantasma. 4 Più ci penso sopra e più trovo la cosa divertente. Sto attraversando un periodo di sterilità creativa (ai giornalisti avrei detto “di riflessione e riposo”) e non c’è niente di meglio, in questi casi, che baloccare la mente con distrazioni come questa. Tra l’altro, la faccenda potrebbe darmi lo spunto per qualche nuovo romanzo.

Ogni tanto guardo fuori dalla finestra e li vedo affaccendati a pulire il giardino (ne aveva un gran bisogno) o portare dentro casa suppellettili prelevate dal portabagagli della macchina. Quando non sono fuori, li sento trafficare in casa per montare mobili e armadi. Niente da dire, i ragazzini sono animati da entusiasmo e ione sinceri. Li posso capire: sono stato sposato anch’io una volta, nel Permiano per l’esattezza... E’ finita presto ma fino a quando è durata è stata bella. Per entrambi. Perché è finita? Perché le cose di questo mondo finiscono tutte, prima o poi, e i matrimoni sovente prima delle altre. Eccetto quelle delle guardie scozzesi, non sapevo resistere adeguatamente alle lusinghe di una gonna. Ecco perché è finita. Oggi come oggi potrebbe durare all’infinito, perché da tempo ho rinunziato alle avventure amorose. Troppo tempo perso dietro un piacere effimero e troppo denaro buttato via inutilmente: le cene, i regali, i viaggi etc etc. Però anche un vecchio cinico e disilluso come me non resta indifferente di fronte allo spettacolo dell’Amore, quello con la A maiuscola. Sì, è vero, ad onta dei loro trent’anni, saranno un po’ adolescenziali e ridicoli nei piccoli gesti quotidiani e nelle manifestazioni esteriori dell’affetto - nei bacetti, nei sorrisi melensi, nelle strofinatine naso contro naso – ma chi non lo è stato ad un mese dal matrimonio? Le rogne vengono dopo. La gabbia descritta da Montaigne appena sposati in genere sembra fatta di zucchero filato.. Devo smetterla una buona volta, però, con questi sentimentalismi: non si addicono alla mia persona e mi distolgono dal perseguimento dell’ obiettivo, ossia la cacciata degli intrusi dal mio territorio. Nel pomeriggio, dopo un pranzo leggero e un sonnellino, preparo una scaletta dell’operazione: primo, lettura di testi sui fantasmi; secondo, confezione di una storia credibile; terzo, messa in circolazione della balla; quarto, disseminazione ad arte di tracce e segni della presenza dell’ ”entità”. Il resto, come spero, verrà da sé. 5 .Santorre di Santarosa. Dove ho già sentito questo nome? Ma certo, era un rivoluzionario liberale. Un protagonista dei moti risorgimentali del 1821. Mi ritrovo il nome di questo sfortunato antesignano dei Mazzini e dei Garibaldi scritto su un biglietto del treno dimenticato dentro una giacca.

Ora ricordo: il viaggio a Torino di due anni fa. Capitai in una carrozza con un professore siciliano che stava preparando un convegno sul Risorgimento e che per tutto il viaggio, avendomi riconosciuto, non fece altro che cercare di ottenere la mia partecipazione. Alla fine, per togliermelo di torno, feci finta di scrivere con una matita sopra il biglietto la data e il luogo dell’evento, mentre in effetti scrissi solo il primo nome che mi ò per la mente: Santorre di Santarosa appunto, ossia il personaggio di cui in quel momento il professore andava sproloquiando Decido quindi su due piedi che il mio misterioso fantasma sarà quello del barone Santorre di Santarosa. Se i due sposini dovessero obiettare che lo spettro si chiama come il nobile piemontese caduto in battaglia a Sfacteria (cosa difficile, visto che non mi paiono cime di cultura), tamponerò l’imprevisto adducendo lontane e intricate parentele tra i due. Devo avere da qualche parte un libro di storia locale che parla del feudo a cui apparteneva in ato questa zona della città. Lo trovo in un angolo remoto della libreria, dopo aver spostato per mezz’ora intere pile di libri. A dar retta al libro, scritto da un tale che insegna nei licei cittadini, l’area dove adesso sorge il quartiere apparteneva, fin dal basso medioevo, all’arcivescovado. Ma alla metà del seicento l’allora arcivescovo la diede in enfiteusi ad una certa famiglia Barca. Questi Barca, a quanto sembra, appartenevano alla piccola nobiltà terriera e si avvalsero, per la coltivazione delle terre loro assegnate, di braccianti e mezzadri fatti venire apposta dalla Lucania, zona di cui erano originari. Sempre a dar retta al libro, il nome dei Barca scompare letteralmente nel nulla durante gli anni venti del settecento, per ricomparire cento anni dopo a Vienna, dove un Simone Barca pare sia stato membro della segreteria del Metternich. Queste scarne notizie su una delle tante casate di possidenti inghiottite dai gorghi della storia per me sono più che bastevoli. Sostituendo i Barca con mio Santorre di Santarosa, avevo materiale a sufficienza per mettere in piedi una frottola gigantesca ma verosimile. La casa...certo. Cosa c’entrerebbe la casa col fantasma. Il fantasma casomai si dovrebbe aggirare dappertutto, entro i confini del suo feudo. Perché proprio la casa? Perché è stato ucciso lì, ecco perché. Dove ora sorge la casa dei Morriconi prima c’era il casino da caccia del Barone e lui è stato ucciso lì. Nell’anno di grazia

1720. Perfetto. 6 “E così’ voi non sapete nulla della leggenda del barone Santarosa?” Quattro occhioni spalancati mi fissano dall’altro lato del tavolo mentre le due teste su cui sono montati oscillano all’unisono con moto ondulatorio. No, non la conoscono. Le loro mani tengono strette le posate e non si decidono ad adoperarle. Che peccato: il filetto che hanno davanti è davvero tenero e saporito. Lo stanno facendo freddare. Mi detergo le labbra con la punta del tovagliolo, sorseggio un po’ di vino, tossicchio e mi preparo a snocciolare la mia panzana. “Vedete, quando acquistai la mia casa, un amico che si interessa di storia locale mi raccontò la storia dei terreni su cui oggi sorge il nostro quartiere. Tutta l’area attualmente occupata dalle nostre abitazioni e parte della campagna che ancora ci circonda, tra la fine del seicento e l’inizio del settecento appartenevano a Adalberto Maria Boschiero, barone di Santarosa, detto Santorre perché nato nel giorno di tutti i santi. “ Vedo che gli occhioni si splancano ancora di più e mi premuro di rassicurarli. Se voglio che credano a tutte le scemenze che sto per smerciargli, ho bisogno che si mettano un po’ tranquilli. Almeno per il momento. “Ragazzi,suvvia: stiamo parlando di una leggenda. Ci sono pochissime notizie storiche sul barone e tutto quello che si racconta di lui è frutto di fantasie contadine, nate accanto al fuoco delle fattorie nelle sere d’inverno e tramandate di padre in figlio” “Mi...mi scusi, maestro: ma è proprio necessario che lei ci racconti questa leggenda? Sa, a me e a mio marito non ci sono mai piaciute le storie di paura. Non guardiamo mai i film horror o quelli sui fantasmi, ci fanno un po’ impressione ...” “Non guardiamo nemmeno i polizieschi americani: troppa violenza” gli fa eco lo sposino.

Oh Gesù, che viole mammole. “Ma cara figliola, era tanto per parlare di qualcosa. Siete stati così gentili ad invitarmi a cena che mi è sembrato giusto intrattenervi con qualcosa di interessante. Ma se preferite non sapere ...” E giù un altro sorso del loro buon vino. L’unica cosa per cui mi mancheranno. “Però non si deve offendere, maestro. Se a lei fa piacere raccontarcela, ce la racconti” Sorrido benevolo e di sottecchi mi accorgo che si stringono le mani sotto il tavolo. “E va bene. Dunque, si dice che questo barone avesse un debole per le donne. Soprattutto per le donne altrui. Fino a quando s’invaghì della moglie di un bargello e ne fece la sua amante.” “Oh che storia romantica!” zirla la moglie. “Insomma, mica tanto signora. Per il barone la moglie del bargello era un’amante come un’altra e anche per la signora la storia col barone era solo un’avventura. La dama in questione, a quanto si narra, non pare fosse proprio uno specchio di virtù. Il problema è che al bargello la cosa ad un certo punto cominciò a non andar più giù. Era abituato alle scappatelle della moglie, soprattutto a quelle con i più giovani dei suoi gendarmi, ma qui la faccenda era un po’ diversa. Il barone non faceva nulla per nascondere la tresca e addirittura mandava la sua carrozza a prelevare a casa la donna per condurla ai convegni amorosi. Insomma, la gente vedeva e parlava. Vedeva, parlava e si faceva beffe del bargello. Il quale, essendo la massima autorità di Polizia del circondario, non poteva certo permettere che la sua persona diventasse oggetto di scherno.” “E allora?” chiedono ansiosi all’unisono Sospiro, sorseggio lentamente un altro dito di vino, lo pasturo un po’ dentro la bocca, emetto un giudizio estasiato sulla sua qualità e poi buttò giù brutalmente la notizia: “Lo fece fuori”

Silenzio “Anzi, li ammazzò tutti e due, barone e moglie. Dentro il casino da caccia del barone, luogo dove normalmente i due amanti si incontravano. Li fece fuori a colpi di schioppo, dopo averli seguiti e aver assistito al loro amplesso” “E ... questo casino da caccia dove si trova? Io nei dintorni ho visto solo i ruderi di una vecchia casa colonica” Sogghigno divertito: “Caro dottore, quello che ha visto lei è il rudere della villa del barone. E’ talmente malridotta che molti ormai la scambiano per una casa di contadini in rovina. Il casino da caccia, a quanto si dice, sorgeva proprio qui, dove oggi c’è questa casa”. Patapum! Si guardano smarriti. La moglie si alza e comincia a sparecchiare. Il filetto alla fine non lo hanno più mangiato “Non finite di mangiare?” chiedo “Ci siamo già saziati col primo, maestro. Visto che lei ha terminato, eremmo direttamente al dessert” mi risponde lei mentre impila nervosamente i piatti per portarli in cucina “Maestro, ma il barone .... voglio dire ... sì, insomma ... va ancora in giro da queste parti sotto forma di spettro?” chiede timoroso il consorte “Amico mio, non voglio spaventarvi ma ... vi siete chiesti perché questa casa non è mai stata abitata prima di voi?” Altro sguardo smarrito tra i due. Il primo ad aver la forza di parlare è il marito: “A noi ci hanno spiegato che è stata colpa del prezzo troppo alto e della zona: troppo periferica e priva di servizi”

“Ah sì? E le altre, allora? Si guardi attorno: sono tutte abitate. Molte solo in alcuni periodi dell’anno, è vero. Ma sono abitate.” Subito dopo mi alzo, mi commiato da loro e vado verso l’ingresso. “Grazie per la bella serata. No, il dessert non lo prendo, signora: sono a posto così. Il medico mi raccomanda sempre di moderarmi a tavola. Il colesterolo, ecc.ecc. Che vuole, non sono più un giovanotto come suo marito.” E’ chiaro che vorrebbero maggiori dettagli sul fantasma, glielo leggo in faccia, ma ho deciso per stasera di contenermi. Tanto, il più è fatto. Prima di uscire, davanti alla soglia aperta, mi concedo, però, un’ultima perfidia: “Ah, dimenticavo una cosa. Gli spiriti sono due: il barone e la sua amante. Buona notte” 7 Mai rientro a casa fu più dolce. L’unica nota stonata che lo rovina parzialmente è l’accorgermi dell’inaspettato ritorno dell’inquilino americano dell’altra casa confinante con la mia. Lo vedo affaccendato a scaricare valige su valige da un taxi. Noto che stavolta, però, ne ha portate davvero troppe per un soggiorno di un paio di settimane. Che anche lui si sia deciso a trasferirsi definitivamente lì? No, mi dico, non è possibile. A pensarci bene, però, l’ultima sua visita risale ad appena un paio d’anni prima. In genere, gli intervalli di tempo sono molto più lunghi. Devo dire, ad onor del vero, che in tutti questi anni la presenza di questo vicino non mi ha mai dato fastidio, forse perché consapevole della sua transitorietà. L’ ”americano”, tra l’altro, è un tipo solitario e silenzioso anche più di me, che non riceve mai visite e che, quando soggiorna qui, sparisce per giorni interi dalla circolazione Lo vedo impegnato con l’ultimo bagaglio e lo saluto prima che varchi definitivamente l’ingresso di casa sua. Mi risponde col suo solito sorriso agnostico, ad un tempo freddo e cortese. E’ il classico italo-americano settantenne: alto (chissà perché gli italoamericani

sono sempre più alti degli abitanti della loro patria d’origine), magro, dinoccolato, con pochi capelli bianchi in testa ed un paio d’occhiali dalla spessa montatura d’osso, come quelli di moda qualche decennio fa. Solo il viso rivela le sue radici meridionali: un viso olivigno, scavato da rughe profonde che gli fanno somigliare la faccia alla cartina a rilievo di una catena montuosa, incisa da valli e fiumi. Entro in casa con la fastidiosa consapevolezza di dover trascorrere le settimane seguenti circondato da destra e da sinistra. Mi sento soffocare. Prima di addormentarmi, per un attimo accarezzo l’ìdea di prendermi una lunga vacanza e trasferirmi per un po’ in montagna, a casa di Renata. E’ una mia vecchia fiamma con cui sono rimasto in buoni rapporti. E’ sola anche lei e vive in una bellissima baita su in Trentino. Mi basterebbe chiamarla. Sono sicuro che non mi direbbe di no. Poi convengo che sarebbe una soluzione da vigliacchi. No, non riusciranno ad allontanarmi da casa mia neppure per un giorno. Sono loro gli intrusi, i corpi estranei, le note stonate, le macchie sulla tovaglia, gli imbucati ad una festa alla quale non li ha invitati nessuno. Sono loro i colori sbagliati del quadro, non io. 8 Sto facendo colazione in cucina: latte e biscotti. Fuori è nuvoloso, ma non sembrano nuvole di pioggia. Avverto, però, uno strano silenzio intorno alla casa. Ovviamente sono abituato ai silenzi e alla solitudine, dentro e fuori casa mia, ma dopo il trambusto degli ultimi giorni mi ero rassegnato a sopportare livelli di frastuono per me inusuali. Oggi, invece, non si sente proprio nulla, neppure quei piccoli rumori che ci avvisano della prossimità di altri nostri simili. Non credo che dormano ancora nelle altre due case. Mi affaccio fuori. La casa dei Morriconi è chiusa e manca la macchina. Saranno andati in centro per acquisti. Oggi è sabato, il giorno dei carrelli della spesa stracolmi di cose inutili. La porta di casa dell’americano invece è aperta. E anche il cancello d’ingresso Strano, non era mai successo. Magari l’avrà dimenticati aperti ieri notte, mi dico. Sarà stato per la stanchezza del viaggio.

Che faccio, entro? Non mi piace intromettermi nella vita e nelle faccende altrui, così come non voglio che gli altri lo facciano con me. Se a qualcuno piace lasciar l’uscio di casa aperto, affari suoi. E se si è sentito male dopo aver posato le valigie? Ad occhio e croce, l’americano ha almeno una decina di anni più di me, ossia un’età dove la salute comincia a stare in equilibrio sul filo. Forse è meglio che entri. Mi fermo sulla soglia e lo chiamo ad alta voce. Niente. Attraverso il piccolo corridoio dell’ingresso e mi guardo attorno. La casa è identica alla mia, con la stessa disposizione delle stanze. A sinistra, dopo il corridoio, c’è la cucina, da cui si accede attraverso un arco aperto. A destra ci sono il soggiorno e una stanza per gli ospiti e di fronte una scala a pioli in legno che conduce alla camera da letto e al bagno. Comincio a salire i gradini della scala continuando a chiamare per nome il padrone di casa. In cima, mi fermo di botto. La porta della camera è aperta e si intravedono due piedi immobili che sfiorano la testiera del letto. Non ho mai visto un morto in vita mia. Neppure da ragazzo. Non ho visto il cadavere di nessuno dei miei parenti: né nonni, né zii, né genitori. Per un motivo o per un altro, li ho sempre seppelliti come semplici casse di legno, non come persone che ricordavo ridere, arrabbiarsi, respirare. Mister Ventura è il primo. Lo trovo sul letto con le braccia distese e gli occhi spalancati. Sul petto, il pigiama leggero a righe è sporcato da 4 grossi fori nerastri di sangue rappreso. A terra, vicino alla sponda del letto, vedo la copia di un giornale americano di un paio di giorni fa.

Non capisco l’inglese, ma noto subito le parole Ventura e FBI in un titolo della prima pagina. Scendo le scale a rotta di collo, mi precipito fuori e rientro velocemente a casa mia. Cerco disperatamente il mio cellulare dentro il borsello e nelle tasche delle giacche appese all’attaccapanni. Mentre sono impegnato a setacciarne una, scorgo sul pavimento un foglio di carta piegato in due, vicino alla porta d’ingresso. Lo prendo, lo apro, lo leggo: “Salutaci tanto il fantasma, coglione”

La guerra dei trent'anni

“Gambineri, interrogato.” Che c’è, Gambineri? Ti vedo perplesso. Qualcosa non va? Non sei preparato? No, sei preparato. Non sei preparato in storia, è vero Gambineri? Oggi ci doveva essere filosofia e ti eri fatto le due paginette di bignamino sugli empiristi inglesi del 600. E invece io ho cambiato programma e faccio storia. La guerra dei trent’anni, Gambineri. Sempre seicento è. Ma non è il seicento che pensavi tu. E io qui invece ti voglio inchiodare, brutto teppista figlio di papà, così ti schiaffo un 2 colossale e un bel debito formativo. Per la filosofia è troppo tardi, hai sfruttato un mio raro momento di bontà all’inizio del quadrimestre e ti sei sistemato la media. Però ieri ho parlato con quella di latino e greco, Gambineri, e sai che mi ha detto? Che zoppichi assai pure lì, Gambineri. E siamo già a fine maggio, Gambineri. E a fine maggio, tre materia come storia, greco e latino messe assieme sai cosa fanno? In una scuola normale farebbero la bocciatura, Gambineri. Ripeteresti l’anno. Così poi avrei il piacere di vedere il tuo paparino correre a scuola col macchinone sportivo per protestare col preside, telefonare al ministro e al provveditore e spendere un mucchio di soldi d’avvocati. Ma questi sono sogni, purtroppo, e tu lo sai bene, pezzo d’asino scansafatiche che non sei altro. Oggigiorno non si boccia più nessuno. E nemmeno si rimanda a settembre. Ci mancherebbe. Noi professori ogni anno vi dobbiamo regalare la promozione e dopo cinque anni pure il diploma, così vi togliete definitivamente dalle scatole e lasciate il posto ad altri analfabeti e lavativi come voi. Che bellezza, eh? La mia guerra personale con Virginio Gambineri non dura da trent’anni, ma è come se fosse. Ci siamo amati a prima vista, fin dalla quarta ginnasio. E’ vero, sotto le mie amorevoli cure ci è finito definitivamente solo l’anno scorso, in prima liceo, ma quando lui era in quarta mi è capitato di sostituire per circa un mese la loro insegnante di lettere, quella cariatide della Chillè, e così ho avuto modo di apprezzarne la viva intelligenza e l’amore per gli studi classici. Ho segnato il suo nome sulla mia agendina dei simpatici e antipatici e l’anno scorso, finalmente, ho potuto assaporare la gioia di averlo tutto per me.

Io li detesto, quelli come Gambineri. Ma oggi sono quasi tutti come Gambineri. Lui è solo più Gambineri degli altri. Non pensavo che sarebbe finita così, quando ho cominciato a insegnare. Io mi sono laureato nel 1979. Ho fatto un liceo che era peggio dell’accademia dei marines: siamo partiti in 35 e siamo arrivati in 9. Evidentemente nella mia scuola il 68 non era ancora arrivato. Ma fuori sì. La fantasia al potere. Lo svecchiamento della società. Un nuovo rapporto dei giovani con la scuola e la famiglia. Abbasso l’autoritarismo, viva il dialogo. Mao e la rivoluzione. Le botte per strada coi fascisti. Le manifestazioni col pugno chiuso. Le manganellate della polizia. Non mi son fatto mancare nulla. Ero nel collettivo studentesco e frequentavo quelli di Potere Operaio. Poi, Dio sa come, malgrado tutto quel casino mi sono laureato. Avrei continuato allegramente fra comizi, cortei e riunioni chissà per quanto tempo ancora se Patrizia non fosse rimasta incinta. Da quel momento, fine delle vacanze in sacco a pelo, degli spinelli, della barba lunga un chilometro e del ciarpame indiano venduto per strada. Bisognava trovarsi un impiego borghese. E quale impiego borghese, sufficientemente remunerato da assicurare il mantenimento di una famiglia, può trovare un laureato in filosofia? All’inizio ero pieno d’entusiasmo. Mi piaceva insegnare. Instauravo un bel rapporto coi ragazzi, proponevo nuovi sentieri d’apprendimento e loro mi seguivano. Gli facevo studiare i filosofi meno gettonati e approfondire le pagine di storia meno conosciute. E loro reagivano bene. E dire che erano gli anni ottanta, quelli dei paninari, degli yuppies , della crisi delle ideologie e della vacuità elevata a sistema. Niente, però, in confronto a quello che è venuto dopo. Oggi cambierei i miei 30 anni da professore con un posto da commesso dei grandi magazzini. Tanto lo stipendio è quasi lo stesso. “Vieni Gambineri, vieni. Facciamoci una bella chiacchierata” Eccolo che arriva. Maglietta da 100 euro con scritta demenziale, jeans sformati da 150 euro e scarpe da tennis da 200 euro. Con quello che spende lui per venire a scuola, un pensionato INPS ci campa un mese. Si avvicina alla cattedra con o sicuro, dopo le titubanze iniziali. Ha

riacquistato la sua faccia tosta. Forse crede d’aver trovato un modo per prendermi per i fondelli. Che fastidio, vero Gambineri? Non te l’avevano detto che a scuola ci sono anche le interrogazioni? O pensavi che avessero abolito pure quelle? Eh, lo so. Io non sono come gli altri professori. Come quel povero cristo di Bellomo, per esempio, il vostro preferito. Non mi faccio riprendere col cellulare mentre mi togliete la sedia sotto al culo, non vi permetto di trasformare l’aula nel Grande Fratello durante la lezione e se vi becco a girare filmini in bagno durante le ore di lezione vi prendo a calci nel sedere fino al casello dell’autostrada. Io sono “fascista”, giusto? Mi hanno definito così l’anno scorso quegli smidollati dei vostri genitori, perché ho avuto l’ardire di vietarvi l’uso dei telefonini in classe. Fascista. A me. E’ tutta da ridere. I miei professori, quelli sì che lo erano per davvero. Ce n’era uno che portava pure il fregio della X Mas attaccato al bavero della giacca. Però ti capisco, Gambineri. Per tutti quelli come te che non conoscono regole, io non posso che essere fascista. Come lo sono, per quell’evasore di tuo padre, il finanziere che viene a fargli le verifiche al cantiere, il funzionario comunale che gli vieta di costruire l’ennesimo complesso turistico in zona protetta e il poliziotto che gli appioppa una multa perché non può correre col Ferrari a 200 all’ora. Non erano queste le regole che volevamo cambiare 30 anni fa, Gambineri. Non io, almeno. Io volevo solo una società più giusta, dove i Gambineri e i figli degli operai potessero avere le stesse opportunità. Ma forse non le abbiamo spiegate bene, le nostre ragioni. Se alla fine il risultato sono quelli come te, la nostra guerra dei trent’anni l’abbiamo persa di brutto... “Dunque, Gambineri, parliamo un po’ della guerra dei trent’anni. Prodromi, varie fasi del conflitto e sue conseguenze sugli assetti politici dell’Europa di allora.” “Mi scusi, professore, prodro che?” Prodromi, Gambineri, prodromi. Premesse, sintomi, avvisaglie. Dal greco “prodromos”, che corre avanti. Comprendo che tu conosci solo il linguaggio da cavernicoli degli sms, ma qui siamo in un liceo classico, Gambineri, e al liceo classico ci stanno pure i prodromi.

“Allora, tutto cominciò con la defenestrazione di Praga...” Ecco, era qua che ti volevo. La defenestrazione di Praga. Gli ambasciatori dell’imperatore che volano dalle finestre e si spiaccicano al suolo. Di un intero capitolo, l’unica cosa che vi resta in testa è solo questa. Forse perché vi rode il non aver potuto immortalare l’avvenimento sui vostri stupidi videofonini. “Gambineri, la defenestrazione è solo un episodio, indicato come atto d’inizio delle ostilità per mera comodità didattica. Quello che vorrei sapere io è ben altro.” Mi guarda con quei suoi due occhi da pesce bollito e il vezzoso ciuffetto ribelle che gli cade sulla fronte e mi sorride. Mi sorride, l’onagro! Dalla cima della montagna di ignoranza su cui sta beatamente seduto, ha anche l’impudenza di ridere, questa sottospecie di australopiteco. Prima che gli faccia ingoiare il registro, foderine di plastica incluse, accade però un fatto stupefacente. “Ah, ma allora lei vuole saperla tutta, ma proprio tutta...” Mi sforzo di mantenere la calma. E va bene, Gambineri, il tuo show l’hai fatto, le tue squinzie adoranti dei primi banchi le hai fatte divertire, ma ora veniamo a noi. Lo guardo con lo stesso affetto con cui si guarda un callo fastidioso e poi gli anticipo la sentenza: “Sai, Gambineri, tu dovresti ringraziarmi per questa interrogazione. Perché io sono uno che ama fare le cose per bene: il due voglio mettertelo solo dopo averti dato una possibilità. Se stamattina avessi seguito l’istinto, te l’avrei appioppato senza farti muovere dalla sedia. Invece voglio essere corretto con te. Ti do un consiglio: approfittane” Ne approfitta. La sa tutta, pace di Westfalia compresa. La sua esposizione puzza più di Wikipedia che di libro di testo, ma la sa.

Mi ha fregato. L’infame ha subdorato il pericolo e s’è fatto pure la storia. Avrei potuto tentare di metterlo in croce con domande su altre parti del programma, ma ero troppo scioccato dalla disinvoltura con cui mi ha illustrato l’argomento del giorno. Lo vedo tornare al posto baldanzoso e rodomontesco tra i “dammi il cinque”dei suoi degni compari di merende e le occhiatine estasiate delle ragazze e vorrei tanto avere in mano un bazooka per spalmarlo al muro. Un bazooka non ce l’ho. Però ho un taglia-balse. Lo porto sempre con me dentro la borsa. E mi riaffiora alla mente un episodio teppistico dei miei vent’anni, quando tagliai le ruote della macchina di un assistente di filosofia teoretica troppo esigente, che mi aveva appena rimandato all’esame. Ma ne aveva rimandati tanti, quel giorno, che gli fu impossibile risalire al colpevole. La moto. L’Aprilia nuova fiammante di Gambineri. Potere Operaio ritorna in azione. Ma stavolta per una giusta causa.

Il tagliando

“Ma perché l’ha fatto?” Il vecchio si agitò sulla sedia e incassò ancor di più il suo testone canuto dentro il collo taurino. “Sembra un bambino imbronciato”, pensò l’Ispettore Polimeni. Poi l’indagato distolse lo sguardo e si mise a fissare il crest di legno del Commissariato appeso alla parete, dietro la scrivania dell’Ispettore. “Lo sa che ho fatto il militare nei carabinieri?”disse alla fine, quasi a voler intendere che lui mica era un delinquente. Aveva fatto uno sbaglio,questo sì, ma restava comunque una persona dabbene. Andrea Polimeni, in piedi accanto alla scrivania, lanciò uno sguardo disperato a Maria, seduta sulla sua sedia con l’incarico di redigere il verbale al computer. Non permetteva a nessuno di occupare il suo posto, ma Maria, anzi l’Agente Scelto Maria Teresa Tosi, era anche la sua fidanzata, oltre che una collega, e alle fidanzate, si sa, si consentono cose che agli altri vengono negate. “Avvocato, lei non ha niente da suggerire al suo cliente? Gli spieghi che il silenzio può solo danneggiarlo” proruppe infine l’Ispettore rivolgendosi verso un giovanotto lentigginoso seduto accanto al vecchio e intento, in quel momento, a consultare un misterioso malloppo di carte tirato fuori dalla borsa. L’avvocato Elio Rinaldi, però, era solo il sostituto del vero legale dell’indagato: un praticante fresco d’abilitazione spedito in tutta fretta dal suo capo a presenziare a quell’interrogatorio ma ancora del tutto digiuno di astuzie forensi e, soprattutto, di strategie difensive utili a tirar fuori un cliente dai guai. Rinaldi fissò l’Ispettore e allargò le braccia come a dire “Non ci ho cavato un ragno nemmeno io”. E in parte era anche vero. Polimeni si tormentò la corta barba nera e prese in mano la carabina ad aria compressa posata sul tavolo. Ripensò con nostalgia agli anni trascorsi nella

Squadra Mobile del capoluogo e di come fossero diversi i casi e gli indagati con cui aveva avuto a che fare fino ad un anno prima. Ma Maria era stata categorica: “Se ci dobbiamo sposare - gli aveva detto con tono che non ammetteva repliche non mi va di avere un marito senza orari”. Per non parlare dei pericoli. Si possono fare i poliziotti senza rischiare ogni giorno la pelle, basta scegliersi l’ufficio giusto. E quel piccolo Commissariato di provincia, un dirigente e venti poliziotti in gran parte vicini alla pensione, era l’ufficio giusto per entrambi. “L’ufficio giusto per crepare di noia” pensò sconsolato Polimeni. Blande liti di vicinato, smarrimenti, il furto delle ostie consacrate della parrocchia, un caso di maltrattamento d’animali: Epaminonda, un meticcio randagio a cui era stato fatto indossare, per carnevale, un buffo costume da clown. Ma la signorina Iole Conforti, battagliera leader dell’associazione animalista Miao&Bau, aveva sporto denuncia e a nulla erano servite le tardive scuse dei responsabili della bravata, tre buontemponi alticci per le troppe bevute del martedì grasso. Polimeni non ricordava altro di cui si fosse occupato in quei suoi primi dodici mesi di servizio nell’ ”Amaca”, come ormai chiamava il Commissariato, per l’irresistibile voglia di pennichella che lo coglieva tutte le volte che ci metteva piede dentro. Null’altro fino al ferimento di Incoronata Argentieri coniugata De Gaudio, una contadina settantenne colpita al sedere da un piombino sparatogli dal coniuge mentre, china dentro la stia dei polli, raccoglieva le uova di giornata. Perché il De Gaudio l’avesse fatto, restava ancora un enigma: a detta dei vicini e dei conoscenti, erano una anziana coppia come tante altre. Anzi, forse migliore delle altre: a memoria di ficcanaso, mai un diverbio tra di loro. La signora Dorotea Navarra, coetanea dei due e residente nella stessa frazione, sul punto era stata categorica. E la testimonianza della signora era da ritenere più che attendibile, vista la fama di indiscreta studiosa delle faccende altrui di cui godeva nel borgo. “Qui c’è una barca di reati, signor De Gaudio.”ammonì alla fine Polimeni. Non era vero, ma poteva servire a scuotere il vecchio . “Ci dia almeno una motivazione plausibile per il suo gesto, il pm ne terrà conto” esortò con fare suadente. Niente, l’anziano agricoltore rimase a guardarsi gli impolverati scarponi da

lavoro, gli stessi che indossava ogni giorno in campagna e dai quali, a sentire le malelingue, non si separava nemmeno nei giorni di festa. Maria, fino a quel momento silente, ritenne che fosse arrivato il momento di introdurre nella stanza una nota di dolcezza femminile, per stemperare il clima: “Da quanto tempo siete sposati con la signora?Avete figli?” domandò all’improvviso con voce flautata, incurante delle occhiatacce del fidanzato. L’indagato alzò lo sguardo e la squadrò come se la vedesse per la prima volta: “Da quando avevamo più o meno la sua età, signorina. Da troppo, dunque” “Perché?” Quel perché era un azzardo, Maria ne era consapevole, tuttavia bisognava tentare. “Quarant’anni di matrimonio non le bastano come perché?” gridò il vecchio “E no che non bastano, signor De Gaudio!” esplose Andrea “Ci dev’essere un motivo quando si spara a qualcuno, anche se con un’arma quasi innocua come quella che ha usato lei. A meno che uno non sia pazzo e lei non mi sembra affatto tale” “Lei è sposato?”domandò con voce stanca De Gaudio “No, fidanzato…” rispose imbarazzato l’ispettore incrociando lo sguardo di Maria Nello stupore di tutti i presenti, il vecchio a quel punto si diede una gran manata nelle cosce, si alzò dalla sedia e cominciò a camminare per la stanza. “Bene. Quindi lei non sa cosa vuol dire addormentarsi tutte le sere e svegliarsi tutte le mattine con la stessa persona accanto….” “No” rispose Andrea “Ma penso che sia una cosa bellissima, quando un uomo e una donna si vogliono bene e…” “Lasci perdere, ispettore, non è quello il punto” lo interruppe il vecchio.

“Devo scrivere?” sussurrò Maria .No, non ancora, le rispose Polimeni con un cenno della testa. “E quale sarebbe allora il punto?” chiese poi al vecchio “Il punto sarebbe il tagliando…” “Il tagliando?Di quale tagliando parla?” “Quando lei compra una macchina, non gli deve fare il tagliando dopo un po’ di chilometri?” “Una moglie non è una macchina”, si interpose Maria con tono piccato. “Siamo tutti macchine, agente, e tutti prima o poi finiamo dallo sfasciacarrozze…” “Mi faccia capire” riprese l’Ispettore” Lei, ritenendo che il suo matrimonio fosse ormai maturo per lo sfasciacarrozze, ha tentato di rottamare sua moglie?” “Assolutamente no, ispettore. Anche perché, se avessi voluto davvero farle del male, le avrei sparato col mio fucile da caccia. Regolarmente detenuto, si intende.” “Non per molto ancora, signor De Gaudio: quello che ha fatto è un motivo sufficiente, per noi, per revocarle la licenza.” “Pazienza, tanto la selvaggina qui va scarseggiando sempre più di anno in anno…” “Scusi, ma l’hanno informata che ora c’è il divorzio per chi non vuole più vedersi tra i piedi la moglie o il marito?” osservò ironico Polimeni. “Il divorzio è roba per ricchi. Costa troppo.” “Ma se non voleva divorziare e nemmeno liquidare sua moglie, si può sapere una buona volta cosa le è preso e perché l’ha impallinata?!!” “Ispettore, gliel’ho già detto…Il tagliando…L’ultimo l’abbiamo staccato il mese scorso: 8 lustri esatti di matrimonio. Quarant’anni nella stessa casa, a fare

entrambi lo stesso lavoro, a vedermela davanti a tutte le ore, a conoscerne pure i più intimi pensieri, i modi di dire, le fissazioni, a intuire un attimo prima quello che farà o dirà un attimo dopo, a sapere persino quante volte va in bagno durante la giornata…Basta! Ad un certo punto mi sono detto: qui ci vuole una pausa, tanto i figli ormai sono adulti e indipendenti. Ma le vacanze separate…manco a parlarne…e poi non possiamo permettercele, spedirla per un po’ di tempo da sua sorella non è possibile…son litigate da anni…. L’unica soluzione è qualche giorno d’ospedale. E così ce l’ho mandata! “ “E perché non c’è andato lei in ospedale, scusi?” replicò acida Maria. Quel tipo cominciava a starle decisamente sulle scatole, un po’ per solidarietà femminile e un po’ perché, con quei discorsi, rischiava di mettere strane idee in testa a Andrea, che sul matrimonio le aveva già di suo piuttosto confuse. Pareva la versione maschile di quelle tardone frustrate che imperversavano su un forum telematico a cui si era iscritta di recente. “Perché se ci fossi finito io Incoronata non mi avrebbe mollato un attimo, a costo di dormire su una sedia . Ma lo sa che per colpa sua ho rinunziato da giovane a trasferirmi in Inghilterra? All’epoca facevo l’aiuto cuoco negli alberghi ed ero pure bravo. A quest’ora magari avrei una catena di ristoranti a Londra e verrei invitato ai ricevimenti della regina…” “O dormirebbe sotto il ponte sul Tamigi…” “Maria…cioè..Agente Tosi, per favore…” intervenne Polimeni, facendo cessare il battibecco. “Sig. De Gaudio- continuò- ma come sperava di farla franca? Sua moglie in ospedale alla fine c’è andata per davvero ma lei poteva finire in galera, lo sa? Deve ringraziare che per il tipo di lesioni che le ha procurato non è previsto l’arresto.” “Ma doveva sembrare un fatto accidentale, per diamine! Avevo studiato tutto a tavolino. Per ora in campagna abbiamo il problema dei porcospini e il fucile ad aria compressa mi serve per spaventarli. Se non si fosse girata all’ultimo minuto per farmi vedere com’era bello grosso quel cavolo di uovo che aveva appena raccolto…” Polimeni scrutò l’uomo con attenzione:pazzo non era, ma neanche del tutto normale. Certo, bisognava considerare pure l’età e il logorio di una vita

matrimoniale così lunga. Ma che cavolo andava pensando? Una unione coniugale di lungo corso non è motivo sufficiente per fare un buco nel sedere alla moglie o al marito. O sì? Guardò di sottecchi Maria, tutta dedita, finalmente, alla stesura del suo verbale, e poi la carabina. Poi il vecchio, ormai sperso dietro i suoi vaneggiamenti, e poi di nuovo la carabina. Costa poco, si disse, e non ci vuole nemmeno l’autorizzazione. Chissà se c’erano porcospini nel giardino della casa dove sarebbero andati a vivere dopo sposati.

Il pianeta di Antoine

In vista della costa se, il Lockheed Lightning ebbe un breve delfinamento ed il pilota pensò che tutto quel blu sotto di lui probabilmente aveva risvegliato nel suo aereo il ricordo di una trascorsa esistenza da cetaceo. Antoine era sicuro che anche gli aerei avessero un’anima, che soffrissero e gioissero come gli uomini. Per cui non si preoccupò più di tanto, anche perché il velivolo, dopo aver giocato un po’ con i cirri leziosi di quel cielo sereno di luglio, si riassestò sulla sua rotta senza ulteriori capricci. Pilota e aereo stavano per salutare il loro mare, quando in coda Antoine si avvide di non essere da solo. Era una compagnia sgradita, però: un caccia tedesco, forse uno Stukas. Il Lockheed non aveva strumenti di difesa adeguati a fronteggiare un killer del genere. L’unica soluzione per Antoine era la fuga. Virò a destra, cercando di abbassarsi quel tanto che bastava a disorientare il nemico, ma ugualmente se lo ritrovò sulla sua scia dopo pochi secondi, pronto a far fuoco con le mitragliatrici di bordo. Antoine capì che era inutile tentare altre strade: il suo era un vecchio aereo per il trasporto postale, quello tedesco un capolavoro di tecnologia aeronautica, un aereo da combattimento con pochi rivali. Sarebbe stata la lotta di un ronzino contro un purosangue. Mentre crepitavano le prime scariche, Antoine pensò a cosa avrebbe fatto il piccolo principe al posto suo. Avrebbe chiesto l’aiuto del re, del vanitoso e dell'ubriacone ? Avrebbe chiesto al pilota tedesco di disegnargli una pecora? Ma no, il piccolo principe si sarebbe ben guardato dall’affacciarsi sulla terra nell’orrore di quegli anni. Se ne sarebbe rimasto sul suo asteroide ad estirpare baobab, a curare la sua rosa vanitosa e a spolverare i camini dei suoi tre vulcani. Il suo piccolo principe non aveva mai capito i grandi e i loro ragionamenti. Ed i grandi non avevano mai capito il piccolo principe. E la guerra, quella orribile guerra che insanguinava il mondo già da cinque anni, era la cosa più incomprensibile di tutte per il piccolo principe. L’aereo tedesco sembrava avere risorse inesauribili di munizioni. La fusoliera era già stata colpita, l’alettone destro pure. La carlinga, però, era rimasta

miracolosamente intatta, nonostante l’inferno di fuoco scatenatole addosso. Antoine cercò di immaginare la faccia del pilota nazista ed i suoi sentimenti. Probabilmente era giovane, uno di quei ragazzini ventenni lanciati da Hitler nella mischia per sostituire le perdite dei suoi reparti decimati dagli ultimi combattimenti sul Continente. Un figlio dell’eugenetica nazista: alto e biondo, con gli occhi azzurri e tanto fanatismo incosciente. Cosa avrebbe potuto dire ad un ragazzo così? Mostrargli il disegno dell’elefante nello stomaco del boa non sarebbe servito a molto: anche lui l’avrebbe scambiato di sicuro per un cappello. Stava per morire per mano di un ragazzo di vent’anni che ne dimostrava cento. Anzi, di un ragazzo di vent’anni orgoglioso di dimostrarne cento. Stupido! Chissà come si sentiva fiero nella sua divisa fiammante, chissà come si vantava degli aerei abbattuti. Lo immaginava darsi arie da uomo solo perché teneva in mano un bicchiere di birra calda e scambiava battute da postribolo con i commilitoni. Un pazzo furioso gli aveva ordinato di uccidere o di morire e questa era probabilmente l’unica cosa che contava per lui. Non avrebbe saputo mai del freddo che può sentire un fiore nelle notti d’inverno, del pianto di un balocco abbandonato, dei sogni di un gatto quando dorme. Antoine sì, queste cose le sapeva. Ma non poteva rivelarle al mondo degli adulti: erano un segreto tra lui ed il piccolo principe. E poi i grandi non avrebbero capito. I grandi ragionano con le cifre, mica se l’era scordato: mai dirgli che una casa è bella perché ha i gerani alle finestre. Una casa è bella se costa parecchio. Trasformano tutto in numeri, i grandi: lui non sarebbe stato il caduto Antoine De Saint-Exupery, pilota dell’aeronautica militare delle armate del gen. De Gaulle. Sarebbe stato il caduto nr tot dei piloti della Francia Libera. All’improvviso avvertì una fitta, proprio sotto l’orecchio destro. Come quella provocata dalla puntura di una grossa siringa. Si toccò il collo con la mano e la ritirò che era piena di sangue. Una scheggia. Una sola, miserabile scheggia di mitraglia, che in tutto quell’inferno era riuscita a forare la cupola della carlinga e finire nel suo collo. Il tedesco era un buon aviatore ma non un buon tiratore. Aveva già scaricato una quantità incredibile di proiettili senza riuscire a colpire le parti più delicate dell’aereo. La fusoliera era solo danneggiata e la perdita dell’alettone non rappresentava un problema insormontabile per un pilota esperto come Antoine. Se non avesse avuto il caccia alle costole in quel modo così asfissiante, avrebbe potuto provare un ammaraggio di fortuna. Ma quella ferita ora complicava tutto. Guardò la costa e vide una batteria antiaerea tedesca pronta ad accoglierlo se

fosse riuscito ad avvicinarsi. Rilassatevi ragazzi, avrebbe voluto gridargli: non ci arriverò mai dalle vostre parti. L’aereo tedesco, nel frattempo, stava tentando una manovra di allineamento ed Antoine riuscì ad intravedere per un attimo la faccia del suo assalitore. Era come l’aveva immaginato: un bambino cresciuto troppo in fretta. E male. Riuscì ad evitare la gragnola di colpi che stava per scatenarsi sulla fiancata del Lockheed con un avvitamento suicida che esaurì le già debilitate energie del suo aeroplano. Iniziò a precipitare. A quel punto Antoine mollò i comandi e si abbandonò esausto sul sedile. Non gli importava di morire, aveva visto la morte in faccia mille volte ed erano diventati quasi amici. Gli dispiaceva, però, non avere ora il tempo di dare una riata alla sua vita, proprio lì, vicino ai luoghi della sua infanzia. L’album dei suoi ricordi era un bazar affollato di oggetti, persone, libri, silenzi, sorrisi, ferite, rimpianti . Avrebbe voluto avere il tempo di dargli una riordinata. Ma non riusciva a pensare ad altro che a quell’ultimo viaggio verso il buio delle profondità marine. Quanto avrebbe scritto ancora se fosse riuscito a scamparla? Forse un romanzo, forse cento. Forse nessuno, però, perché quello che aveva da dire l’aveva già detto. Aveva visitato paesi e popoli lontani, cercando di trasmettere ai lettori il suo amore incosciente per il volo e per l’avventura. C’era riuscito? Probabilmente no, visto che il suo libro più apprezzato parlava di un pilota atterrato nel deserto e di un bambino venuto dallo spazio. L’epoca delle esplorazioni era alla fine, così come quella dei primi pionieri del volo. Erano finiti il mistero e lo stupore. Gli scampati al delirio di quel conflitto, all’uscita dal tunnel avrebbero trovato un mondo completamente diverso da quello che avevano lasciato. La gente avrebbe ricominciato a ridere, innamorarsi ,litigare, fare affari, ma senza l’ingenua meraviglia di prima. La tecnologia avrebbe ridotto le distanze, annullato le barriere, reso normale l’impossibile. Ma avrebbe anche ucciso i sogni E senza i sogni non ci sarebbe stato più posto in quel pianeta per aviatori coraggiosi e piccoli principi. L’impatto con l’acqua fu più dolce del previsto e per un momento Antoine sperò che la sua buona stella non avesse smesso di lavorare. Ma prestò l’aereo iniziò ad inabissarsi e capì che stavolta era proprio finita. Si sentiva ridicolo a morire così e avrebbe quasi voluto chiedere scusa ai branchi di pesci multicolore che si allontanavano spaventati al aggio veloce del grosso squalo di ferro. Mentre vedeva il fondo avvicinarsi e cominciava ad avvertire gli effetti della pressione, tirò fuori dalla tasca il medaglione di Consuelo ed una sua foto, scattata nel Sahara prima della guerra.

Consuelo…. Era sembrato a tutti un matrimonio di comodo: il pilota spiantato ed errabondo, rampollo di nobiltà decaduta e uomo dai mille mestieri, che sposa la ricca vedova per sistemare le proprie finanze. E invece lui l’amava davvero la sua Consuelo. L’amava alla sua maniera, però, con quel modo svagato ed impalpabile con cui amava tutte le sue cose. Consuelo diceva ridendo che avrebbero dovuto arrestarla per averlo sposato, perché non ci si sposa con i bambini. Prima dell’urto con la roccia del fondo chiuse gli occhi, cercandosi di immaginare lontano miglia e miglia da quel sudario d’acciaio. Ripensò alla sua casa nel deserto, alla villa di Le Mans, al Sudamerica, a sua madre, a Louise, a Leon, a tutta la posta che aveva volato con lui. Era come tenere in mano un mazzo di foto sbiadite che ad una ad una scivolavano via, lasciando il posto a quella successiva. Non davano il tempo di rimpiangerle. Pareva che dicessero ”Ehi Antoine, che vuoi adesso da noi? Ci dovevi pensare prima a recuperare le tue memorie” . Ma lui non le aveva mai sepolte. Vivevano ogni giorno con lui, riposte dentro gli angoli più caldi e riparati della sua mente. Erano come la bisaccia del viandante, quella da cui nessun vagabondo si separa mai. Peccato non avere carta e penna a disposizione. Sarebbe stato bello lasciare lì, custodito dalle creature del mare, l’ultimo manoscritto di Saint-Exupery. Gli sarebbe bastato scrivere anche un solo rigo. Il mare avrebbe corroso velocemente quel foglio e quelle poche gocce d’inchiostro, ma sarebbe stato bello lo stesso sapere di morire lasciando quell’ultima orma di sé. Antoine riaprì gli occhi appena in tempo per sentire il suo aeroplano toccare con violenza il fondo. Le ali si spezzarono e il rivestimento di vetro della cabina andò in frantumi. Si ritrovò sbalzato fuori dall’abitacolo ed immerso nell’oscurità e nel freddo. Ma non poteva essere ancora vivo. Era una cosa che non aveva senso. La profondità non sembrava eccessiva, ma era impossibile che un essere umano continuasse a respirare in quelle condizioni. Forse era già morto da parecchio e non se n’era reso conto, magari fin da quando aveva toccato la superficie dell’acqua. Il suo corpo giaceva di sicuro tra i rottami dell’aereo e quello era il suo spirito che si stava allontanando dalla carcassa.

Poi vide una luce in lontananza. Sembrava una piccola stella caduta da chissà dove. Si ritrovò a nuotare verso di lei con la leggerezza di una manta. Era una sensazione bellissima, come se all’improvviso avesse mutato natura e fosse diventato un pesce anche lui. Si liberò della tuta e della calottina da pilota e si diresse con lunghe bracciate verso il punto del fondale dove brillava la luce. Quando vi giunse, c’era davvero una piccola stella adagiata sulla sabbia. Era grande poco più di una arancia ed emetteva una intensa luce gialla, come una grande pepita d’oro. “Ah, eccola qua. Finalmente ti ho trovata” La voce che aveva parlato dietro di lui era inconfondibile. Antoine sorrise prima di girarsi. Aveva ritrovato il suo principe. “Ciao, pilota. Ci si rivede.” “E tu che ci fai qui? E come mai riusciamo a parlare sott’acqua? Sono morto, vero?” “Sei caduto di nuovo, vero?” “Eh sì, ma stavolta non è stata colpa mia. Mi hanno sparato” “Sì, lo so. Lassù stanno succedendo tante cose brutte. Non mi piace stare qui. Non fosse stato per Lucy non ci sarei più tornato.” “Lucy?” “La stella. E’ quella che sta proprio sopra il mio pianeta e mi illumina il lato nord. E’ molto carina ma anche molto capricciosa. Abbiamo litigato il mese scorso e se n’è volata via. Ed io sono rimasto con mezzo pianeta al buio. Solo che è ancora molto piccola e non sa volare bene. Così è finita qua sotto. Ma ora l’ho ritrovata. Le chiederò scusa e la riporterò con me.” “Porta anche me” “Ma non posso. Non c’è spazio per tutti e due. Lo sai che il mio pianeta è molto piccolo.”

“Portami lo stesso, ti prego. Solo qualche giorno, poi cercherò un pianeta tutto mio.” Il piccolo principe stette un po’ a pensarci su. Gli piaceva poter stare di nuovo con Antoine, ma non sapeva dove alloggiarlo. Di colpo si ricordò di un pianeta piatto come una crostata che si trovava non lontano dal suo. Era abitato da un brontolone che ava le giornate lagnandosi di essere l’unico a possedere un pianeta piatto. Ma non se ne andava perché non voleva lasciarlo disabitato. Diceva che non era corretto fare una cosa del genere ai pianeti, anche se sono piatti. Avrebbe proposto il cambio d’inquilino al brontolone, così Antoine avrebbe avuto un pianeta tutto suo ed il brontolone se ne sarebbe andato da un’altra parte senza provare rimorsi. Sì, avrebbe fatto così “Beh, se proprio ci tieni…..Ma poi non ti lamentare se ti annoierai.” E così dicendo, tese una piccola mano ad Antoine e con l’altra raccolse la sua stella .Poi entrambi risalirono veloci verso l’alto, uscirono dall’acqua ed iniziarono a volare. In alto, sempre più in alto. Ad un certo punto Antoine vide le nubi sotto di sé e poi vide la terra che si allontanava sempre più, avvolta da una abbagliante luce azzurra. Quel giorno alcuni fanti tedeschi, di ritorno dal turno di servizio ad una batteria antiaerea installata vicino a Marsiglia, raccontarono ai compagni di aver visto un uomo di mezza età ed un bambino vestito con una livrea dorata volare altissimi nel cielo tenendosi per mano. Furono aspramente redarguiti dal comandante e spediti in infermeria, dove li tennero in osservazione per una settimana. Antoine non è più tornato da noi ma ci ha lasciato i suoi libri. Nessuno, a parte tre poveri soldati presi per matti, sa davvero dove sia finito. Qualche anno fa, però, un pescatore ha ritrovato il medaglione di Consuelo e poi sono venuti dei tizi con una nave ed un sacco di attrezzature strane. Così hanno trovato anche l’aereo. Hanno cercato Antoine dappertutto, ma non potevano sapere che in quel momento lui stava tentando di estirpare i baobab dal suo pianeta. Sono cattivi i baobab e bisogna toglierli subito, appena spuntano dal terreno, prima che buchino tutto il pianeta con le loro radici enormi.

I bamboccianti

E' che da un po' non mi ricordo le cose, i nomi delle cose. O, se ricordo il concetto, non ricordo il significato. Saranno i quarant'anni. Da giovane ricordavo tutto: leggevo una cosa e zac...fissata nel cervello per il resto della vita. Bei tempi, quelli. La testa è come una grande pizza senza condimenti, prima di essere infornata: sta lì, bianca, elastica, cedevole al tatto, pronta ad accogliere qualsiasi stronzata uno ci voglia metter sopra. Nomi di persone, di scrittori, di battaglie, titoli di libri, di quadri, numeri di telefono, codici bancari, tutto ...Da giovani la nostra mente registra ogni nozione, la classifica, l'archivia e poi ce la restituisce a comando, meglio di un computer col megaprocessore. Bei tempi ... Voi direte: ma che te ne importa? Basta che ricordi come ti chiami, dove lavori e quanto guadagni. Eh già, la fate facile voi. Ma quando uno non ha altre qualità che quella di ricordarsi le cose , le cose difficili dico, quelle che sanno in pochi, se si accorge di perdere anche quella è finito. E' uno zero assoluto sulla faccia della terra. Un falegname può dire in giro che il tal mobile lo ha fatto lui, un industriale può pavoneggiarsi con gli altri magnificando i suoi successi finanziari, un meccanico ricordare esattamente tutti i componenti di una automobile, ma io ? Io so cambiare a stento una lampadina, non so nulla di bielle e pistoni e se giocassi in borsa finirei sul lastrico prima ancora di comprare la prima azione. Sono un uomo senza qualità... Oddio, l'uomo senza qualità...chi l'ha scritto? Musil. Sì, Musil. Robert Musil. Ma chi era? Non lo ricordo più ...L'enciclopedia, presto. Grande invenzione, l'enciclopedia. Non so come farei senza. E questo cos'è? Musarismo. Boh, lasciamo perdere. Eh no, e se un domani capita di parlare con qualcuno che sa cos'è il

"musarismo"'? Mica mi posso permettere di non saperlo. Va bene, posso posare il volume. Voi ridete, lo so, ma mettetevi per un attimo nei miei panni. Se uno fa il geometra non è tenuto a sapere altro che di progetti, fondamenta e impalcature. Ma se non fai un mestiere del genere, devi per forza are la tua vita raspollando in giro tutto quello che capita. Ne va di mezzo la tua reputazione sociale: oggi non si tollera che qualcuno non abbia una competenza specifica in qualche campo. Specializzarsi, specializzarsi. Dobbiamo avere tutti quanti una nostra peculiarità, un tratto caratteristico, un segno distintivo che ci differenzi dal resto della produzione. Avete presente una fabbrica di giocattoli? Prima dell'imballaggio, i pezzi di nuova fabbricazione scorrono veloci sul nastro trasportatore, mentre un operaio ci mette il nome: c'è il mostro spaziale. l'astronauta. il marines col mitra e via di seguito. Con gli uomini è la stessa cosa. C'è una fabbrica dove gli stampigliano il nome prima del lancio sul mercato, per renderli riconoscibili a se stessi ed agli altri: avvocato, operaio, ingegnere, professore, medico. Se un pupazzo viene diverso da tutti gli altri e non si può affibbiargli un'etichetta, sono dolori. Finisce in un angolo del deposito. Una volta non era così: in ogni paese c'erano dei matti dottissimi che non sapevano far altro che sapere le cose. Erano vere enciclopedie viventi. I contadini scuotevano la testa quando li incontravano, ma in fondo li rispettavano e ci mandavano i figlioli a ripetizione, sempre ammesso che questi ultimi riuscissero a sopravvivere al fetore insopportabile degli abituri in cui vivevano i loro mentori . Al mio paese, ad esempio, ce n'era uno famoso perché faceva lezione eggiando per la strada, anche nelle giornate di pioggia. Come Aristotele. Tranquilli, mi ricordo chi era Aristotele. Cioè...non bene. Comunque, questo tizio si chiamava Isidoro. Aveva ato una vita sui libri, fino al punto che le rotelle gli erano andate fuori posto. Abitava in piazza, nella casa lasciatagli dai genitori, in tre stanze piene di libri impilati, cumuli di vecchi giornali sparsi per terra e gatti randagi che raccoglieva in campagna. Diceva che gli tenevano lontani i topi. Un personaggio. Lo si vedeva d'estate e d'inverno camminare a larghe falcate vestito solo di un logoro impermeabile grigio, declamando ad alta voce Archiloco o spiegando la poesia provenzale ai soliti gruppetti di liceali che immancabilmente lo seguivano prendendo appunti. Un bel risparmio per le

famiglie. All'epoca quello era un borgo di poveri braccianti, per i quali privarsi dell'aiuto dei figli per mandarli a scuola rappresentava già un grosso sacrificio; figuriamoci pagargli il professore per le ripetizioni. Meno male che c'era Isidoro. In cambio i contadini non permettevano che cree di fame, visto che non lavorava e che aveva dilapidato in pochissimo tempo i quattro soldi ereditati dal padre. Morì di polmonite che non aveva neanche cinquant'anni e al funerale ci andò tutto il paese. Una bella soddisfazione. Le spese le sostenne il comune. Il sindaco disse che glielo doveva, perché senza Isidoro il figlio non sarebbe mai riuscito a diplomarsi. Sono tornato al paese l'altra estate, dopo un'assenza di parecchi anni, ed ho saputo da un mio cugino che l'attuale giunta stava pensando di intitolargli una strada. Bel gesto, fuori dal tempo: oggi sono pochi quelli che avrebbero il coraggio di intitolare una strada a qualcuno che nella vita non ha fatto niente.... Non ne nascono più di tipi così. E d'altronde, oggi uno così lo chiuderebbero davvero in manicomio. Io non ho avuto la sua coerenza, un lavoro me lo sono trovato. Ma è un lavoro che non richiede particolari conoscenze: faccio il commesso all'INPS. Un commesso all'INPS è la cosa meno "qualificante" che si possa immaginare. E' peggio del commesso dei grandi magazzini: quello almeno deve conoscere la merce in vendita. Un commesso all'INPS non deve saper nulla, invece, a parte l'ubicazione dei vari uffici dove indirizzare gli utenti. E' fondamentale che non sappia nulla, altrimenti gli altri impiegati che ci stanno a fare? Un commesso all'INPS viene pagato ogni mese per non sapere un cazzo. E' la dimostrazione vivente che anche l'inutilità ha un prezzo. Ma a me non è mai bastato. Volevo una mia "specifìcità" . Per questo ho cercato di acculturarmi. All’inizio, veramente, lo tacevo per far colpo sulle ragazze. Sapete, quando uno non ci ha il fisico e porta pure due fondi di bottiglia per occhiali, qualcosa deve pure escogitare. Recitare Verlaine o raccontare alla malcapitata di turno la storia dei monumenti di Roma, eggiando con lei sul lungotevere, sembrava un buon metodo per ridurre le differenze. Quando però mi accorsi che bicipiti guizzanti e pettorali torniti avevano sempre una spanna di vantaggio su Bernini e Raffaello, era già troppo tardi, ero fregato. Ormai avevo letto una tale quantità di roba che non potevo più tornare indietro. Ero diventato il punto di riferimento di tutti i compagni di classe: "Chiediamolo a Rizzuto, che lo sa sicuramente". Che volete, io ho fatto ragioneria e nemmeno bene. A ragioneria le materie umanistiche non le studia nessuno . Invece italiano e storia

erano le uniche discipline dove prendevo bei voti. Ma avevo scelto il posto sbagliato per i bei voti in italiano e storia... Dopo il diploma ci presi gusto e continuai . A casa erano molto orgogliosi di avere un figlio con la libreria piena di roba pesante. Di andare all'Università manco a parlarne, però: soldi in famiglia ne circolavano davvero pochini. E poi ragioneria è un diploma che si prende proprio per non dover andare all'Università. Così sono entrato all'INPS. Fare il commesso all'INPS è un lavoro che lascia molto tempo per leggere: si sta seduti tutto il tempo dietro una scrivania del corridoio piano terra, con l'unico compito di dire alle persone in quale ufficio devono andare per la loro pratica. Per chi non ama la lettura è una attività estremamente noiosa, ma per me è il lavoro migliore che mi potesse capitare. All'inizio i colleghi mi prendevano in giro, vedendomi sempre immerso nei libri, ma poi hanno cominciato a venire da me per sapere le cose, per loro o per i figli. Così si è sparsa la voce e in poco tempo sono diventato il genio dell'ufficio. Il momento più emozionante è stato quando il direttore in persona mi ha chiamato per risolvere una disputa col suo vice: quest'ultimo sosteneva che la sinopia era una malattia della pelle , mentre secondo il direttore era una pianta tropicale. "La sinopia non è altro che il disegno preparatorio degli affreschi. " Mi guardarono esterrefatti, ma di promozioni manco a parlarne: all'INPS sapere cos'è una sinopia serve meno che saper giocare a bocce. Comunque non ne feci un problema. In fondo, anche così ero riuscito ad avere una mia considerazione sociale, ad essere individuato in mezzo ai tanti, a non essere solo un manichino con la planimetria dell'ufficio sul tavolo. E' stato bello finché è durato. Un giorno mi sono accorto che non riuscivo più a ritenere a mente le nozioni nuove che andavo rastrellando dappertutto: vocabolari, libri specialistici, saggi, romanzi. Persino la settimana enigmistica. Sul momento non ci feci molto caso: ormai mi ero fatto la fama dell'erudito, con continui solleciti a presentarmi a questo o quel quiz televisivo, e nessuno avrebbe notato che il mio prezioso cervello stava cominciando ad avere le crisi di rigetto. Faccio presente che la mia cerchia di amicizie non ha mai incluso persone di elevata cultura. Non ho mai frequentato ambienti dove si possano conoscere quel tipo di persone. Non so se

la mia sia stata una scelta o una necessità. Forse l'ho fatto per evitare di dovermi confrontare con chi ne sapeva quanto e più di me. Ognuno nella vita deve cercarsi una nicchia dove rinchiudersi con altri come lui e poi provare a primeggiare tra i suoi pari. E' la regola. Sennò sei spacciato. Il guaio è stato quando ho iniziato a scordare anche cose che pensavo di sapere bene. E' una sensazione orribile, è come quando uno ha una collezione sterminata di francobolli e ne vede sparire ogni giorno qualcuno dai raccoglitori. Uno al giorno per tutto l'anno. E alla fine si accorge di non avere più la raccolta. All'inizio ho provato con le pillole per la memoria. Niente. Allora mi sono fatto una specie di scaletta settimanale, un piano di lettura: 6 giorni dedicati alle cose nuove ed uno al rio delle cose già lette. Per un po’ è andata bene, ma a lungo andare ho notato che questo sistema non bastava più. Vabbe’ , mi sono detto, dacci un taglio: la stima che ti sei guadagnato tra quelli che ti stanno attorno ormai è imperitura. Puoi campare di rendita. Se il tuo archivio mentale è pieno, meglio svuotarlo un po', così i pensieri e le conoscenze stanno più comodi. Si sta male nelle case affollate. Io non mi sono sposato per questo: avevo il terrore di ritrovarmi con un paniere di figli e una moglie urlante che li inseguiva per tutta la casa. Veramente, a voler essere sincero, non mi sono sposato perché Ida alla fine ha preferito sposare un altro ...Me lo disse un giorno che c’eravamo dati appuntamento al solito bar per lo spuntino della pausa-pranzo. “Sai” - mi disse sbocconcellando il panino con le verdure grigliate - “ieri ho pensato molto a noi. “Brava”- le risposi-“e cosa hai concluso?” “ Che il dr. Marcelli è un gran bel fico.” E poi scoppiò a ridere. Si sposarono l'anno dopo. Io ho partecipato pure al regalo: -"Rizzuto, tu che fai? Li metti o no i soldi per il matrimonio di Marcelli e della Fraschetti ?" Avrei voluto urlargli "Barbero, sei l'essere più immondo che strisci sulla faccia della terra. D'altronde sulla tua razza aveva già scritto una cosa simile Swift. I viaggi di Gulliver, hai presente`? Ma no, ma che devi avere presente." Però poi i soldi li ho messi. Ho guardato fisso negli occhi quel serpente del capo commesso e ho infilato le mani in tasca. Lui mi ha lanciato un sorrisetto sornione e ha registrato l' offerta nell'elenco dei dipendenti, accanto al mio nominativo. Che bastardo.

Ci sono stato male per un bel po', poi mi sono consolato pensando che così nulla avrebbe più potuto distogliermi dalla mia missione: apprendere tutto lo scibile umano. O almeno provarci. Avere una fidanzata comporta già un notevole spreco di tempo, quando uno ha cose più importanti a cui badare. Figurarsi una moglie. Ma a quel tempo riuscivo ancora a ricordare tutto. Oggi non ci penserei due volte: tra una moglie ed i libri sceglierei sicuramente una moglie. Sarebbe anche un modo per alleggerirmi di certe spese mensili che incidono non poco sul mio magro stipendio: le ragazze dell'est praticano tariffe piuttosto salate. A pensarci bene, con una moglie in casa e dei bambini da crescere l'avrei pure presa meglio la faccenda della smemorataggine. Un padre è sempre qualcuno per la moglie e i figli, no? In famiglia la visibilità è sempre assicurata. Si riveste comunque un ruolo importante. Ma tant'è, è andata così. Inutile starci a rimuginare sopra. Il problema è che adesso i miei vuoti di memoria sono giunti ad un tale livello di gravità che non è più possibile nasconderli agli altri. Tutti quelli che conosco mi assillano quotidianamente con i loro quesiti. In ufficio, poi, sembra che da qualche tempo non abbiano altro da fare che cruciverba. Il bello è che pretendono di completare quelli complicati, malgrado la maggior parte di loro possieda lo stesso livello culturale delle capre. Tanto ci sono io. Ed io ora devo fare sforzi sovrumani per accontentarli. Ho anche l'impressione di dire spesso delle castronerie madornali, spacciandole per verità di Vangelo. Tanto, loro bevono tutto quello che dico senza battere ciglio: -"Grazie Rizzuto, sei un fenomeno". Fenomeno un corno. -"Rizzuto, alto dignitario dell'impero bizantino. Dodici lettere. Comincia per p" -"Protosebaste" O protonotario? Bah. -"Rizzuto, ornamento del tetto degli edifici rinascimentali. Dieci lettere" -"Cassettone" O costolone? Che strazio. -"Rizzuto, dicasi di tempio greco con due file di colonne sul lato anteriore e posteriore. Dodici lettere" -"Anfi…anfi qualcosa...."

-"Ma dai, non mi dire che non lo sai!" No, non lo so! Perché, bisogna saperlo per forza? Se non lo so che succede, non sono più degno del vostro saluto? E certo, sono un Rizzuto qualsiasi, se non mi distinguo in qualcosa neppure mi vedete. Eppure vorrei gridarvelo in faccia che non sono solo una macchinetta sputasentenze. Sono un essere umano anch'io con le mie paure, i miei sentimenti e le mie debolezze. Rido e piango come voi. Cos'è, non vi basta'? Non vi basta sapere che il collega Rizzuto Pierluigi è un essere umano, per ritenerlo degno del vostro rispetto? Non è ricco, Rizzuto Pierluigi, non è un attore o un cantante famoso, non occupa posti di comando, non svolge una professione prestigiosa: è solo un uomo, uno dei tanti. Ma per voi non è sufficiente: Rizzuto Pierluigi per voi esiste solo perché "sa un sacco di cose". E ora non le sa più, Rizzuto Pierluigi. Come la mettiamo? La mettiamo che la sera quasi non vado più a dormire, nel tentativo di rivedere tutto quello a cui rispondo durante il giorno. Che volete, non ce la faccio a mollare, a dire che la batteria si è scaricata e non si può sostituire, a chiedere agli altri di volermi bene per come sono, anche se non ricordo più il nome dell'ultimo sovrano della dinastia plantageneta... E poi ...e poi non lo faccio solo per quei quattro imbecilli dei miei colleghi, per vederli fare a gara per offrirmi caffè e sigarette. Ci sarebbe anche la mia nuova vicina di casa, Sofia. Ha parecchi anni meno di me e pende dalle mie labbra. E' bellissima. Dice che senza il mio aiuto non riuscirebbe mai a finire la tesi sul gotico internazionale. Io veramente vorrei che non la finisse mai , la sua tesi. Perché so che poi tornerà nel suo piccolo paese sulla Maiella, si sposerà col fidanzato storico e non la vedrò mai più. Per ora è arrivata a metà: lo confesso, ho cercato di rallentare la sua corsa con mille espedienti, proponendole sempre nuovi argomenti da approfondire, ma non potrà durare in eterno. Il gotico internazionale non è manco tutto il gotico: fatte le distinzioni con il primitivo e il fiammeggiante, resta ben poco, a parte la descrizione dei monumenti e la citazione degli artisti. Qualche volta vorrei provare a chiederle di mollare i libri e uscire con me, andare al cinema o in pizzeria, che so. Ma temo che mi risponda picche: ha una paura tremenda che il fidanzato la faccia controllare. Roma pullula di suoi compaesani, a quanto pare. Che stronzo. Se stiamo in casa, invece, non c'è problema: sono il vicino della porta accanto, nessuno mi può vedere entrare e uscire dal suo appartamento.

Potresti provare a dichiararti a casa sua, direte voi. E' da escludere: ogni pomeriggio la trovo già con i libri aperti ed il computer . Il tempo veloce di un caffè si comincia. Quando finiamo, immancabilmente dice che si sente stanca morta e che vuole andare subito a dormire. Amen. Io rientro mesto a casa mia e mi rituffò nei libri, per prepararmi alla tenzone del giorno dopo. Non ce la faccio più. Una volta la lettura era un piacere, adesso è diventata una sofferenza. Una lotta per la sopravvivenza, per non scivolare nell'oblio dell'indifferenza altrui. Ma è una lotta sempre più difficile,ogni giorno che a. Ultimamente,poi, ci si sono messi anche i figli dei colleghi e dei conoscenti. E' stata la randellata finale, quella che mi ha convinto a farla finita una volta per tutte. Sì avete sentito bene: la faccio finita. Per così poco, mi dite? A voi sembra poco, per me è moltissimo. Sono l'ultimo discendente di una famiglia con l'albero genealogico zeppo di illustri nullità. Si trasmettevano la trasparenza sociale da una generazione all'altra. E chi subentrava pareva avesse sottoscritto il patto tacito di non smentire mai la tradizione di famiglia... Io sono l'unico che ha provato a pencolare un po', l'unico che ha tentato di non essere solo una scheda dell'ufficio anagrafe. Forse per questo il Fato ha deciso di punirmi... Come? Mi chiedete cosa c'entrano i figli dei colleghi con le mie disgrazie? Si, scusate, stavo divagando. C'entrano, i pargoli, c'entrano. Perché sono pargoli telematici, grandi esperti di moderne tecnologie di cui io non ho mai capito una mazza: navigano in intemet e guardano la tele satellitare. Prima di conoscerli avevo un'opinione alquanto rassicurante sui giovani d'oggi: pensavo che si intendessero solo di telefonini, musica demenziale e ganze da rimorchiare. Invece i figli dei miei colleghi, a quanto pare, fanno eccezione. E te pareva. Non toccano un libro, tranne quelli di scuola, ma sono super informati di tutto grazie all'audiovisivo. Io possiedo soltanto un 486 di seconda mano, con un programma di videoscrittura risalente all'ultima glaciazione. Non ci puoi installare niente, meno che mai internet: si impalla all'istante, si confonde. Non parliamo, poi, della parabola. E chi se la può permettere, con tutti i soldi che spendo per libri, affitto, cibarie e "scambi culturali" con i paesi dell'Europa orientale? Ma loro no, loro hanno il meglio del meglio che c'è in circolazione. Guardano Historv Channel, si

fanno le ricerche in rete e poi vengono a rompere i marroni nelle gite aziendali. Infatti, le gite aziendali. Le gite aziendali sono state la mia Waterloo. Dovete sapere che noi le gite aziendali le facciamo soprattutto nei centri medievali dell'Umbria e delle Marche. Una volta ero il re indiscusso di queste scampagnate fuori porta: mi mettevo in testa al gruppo e cominciavo a narrare la storia di chiese, palazzi e monumenti. Un fiume in piena. Persino i capi stavano ad ascoltarmi in religioso silenzio. Ultimamente non se n'erano fatte più, per mia fortuna. Poi lo scorso aprile quel cretino dell' economo ha avuto l'infelice idea di organizzarne una nella provincia di Viterbo. Ora, dico io, che cazzo ci andiamo a fare nella provincia di Viterbo? E' vicina Viterbo, ridicolmente vicina. Ma vacci per i fatti tuoi, se ci vuoi andare. E invece no. Ovviamente tutti hanno accolto la proposta col solito entusiasmo idiota con cui gli impiegati accolgono questo genere di proposte. Ma sì, dai, è tanto che non ne facciamo. Costa poco, così ci portiamo anche le famiglie. Le famiglie, appunto. Dovete sapere che il termine "famiglia", per persone sposate da più di 15 anni come la stragrande maggioranza dei miei colleghi, è solo una perifrasi per indicare la figliolanza. Per i rampolli della piccola borghesia impiegatizia la gita aziendale è diventata, infatti, la versione povera del debutto in società, l'occasione attesa a lungo dai genitori per esibirli in maniera indecorosa, vantandone la bravura a scuola o 1'abilità negli sport davanti ai superiori e arando il terreno per future assunzioni all'interno dell'ente: -"Sa,dottore, il mio Giangiacomo è proprio un ragazzo d'oro . E’ bravissimo a scuola, tutti 8. L'anno prossimo si diploma, non è che lei ..." -"Ma certo, signora, non si preoccupi ...Ne riparleremo a suo tempo". Dunque, dicevo, la gita a Viterbo. lo non ci volevo andare: quella domenica avevo promesso a Sofia di aiutarla a completare un capitolo difficile. Sarebbe rimasta apposta a Roma, invece di tornarsene a casa come ogni fine settimana. Ma all'ultimo ho dovuto cedere alle insistenze dei colleghi: -"E no, Rizzuto, proprio tu non puoi mancare". Ho peccato di vanità, lo so. Ed ho anche fatto arrabbiare Sofia: quando il venerdì

è scesa per le scale col borsone a tracolla, non è neanche ata a salutarmi come fa di solito. Vabbe’, mi sono detto, mi farò perdonare il prossimo lunedì: le porto un bel mazzo di fiori di campo. Lei adora i fiori di campo. Non l'avessi mai fatta quella stramaledetta gita. Ad un certo punto, quello stronzetto del figlio del rag. Rosati, tale Enrico, un sedicenne brufoloso con una orrenda felpa colorata, si fermò davanti ad una casa ed esclamò, come se fosse la cosa più naturale del mondo : -“Oh che bel profferio ha quella casa. E' una caratteristica della zona, a quanto sembra". Profferio? Panico. Il termine l'avevo già letto da qualche parte, ma dove? Niente, zero, out. La casa col "profferio" era una normalissima casa del centro storico, di quelle con l'intonaco giallo e le tegole sbrecciate. Provai ad allontanarmi dal gruppo senza dare nell'occhio, per non essere costretto a cimentarmi in un imbarazzante dibattito su profferli e architettura povera dell'alto Lazio, ma quella pettegola della Gazzoni, una cinquantenne con i capelli cotonati ed un vestito a fiori che stava attirando su di lei tutte le arnie del circondario, mi accalappiò prima che riuscissi ad eclissarmi: -" Ma Rizzuto, dove va?Abbiamo bisogno di lei, qui. Dobbiamo visitare la chiesa di Santa Smeralda" Ma va a quel paese tu e Santa Smeralda. Io rischio la reputazione oggi. E' questione di vita o di morte. Lo capisci o no, vecchia carampana? No che non lo capiva, la vecchia carampana. Quel profferio mi aveva messo sull'avviso, aveva la spia dell'allarme rosso: Enrico Rosati era un tipo tosto, un avversario con cui era meglio, visto il mio attuale stato, non ingaggiare battaglia. Io li riconosco a naso i tipi tosti. Un tempo non mi facevano impressione, sapevo sistemarli a dovere. Ma adesso ...Che poi il fetente mi teneva pure d'occhio. A quanto pare il padre doveva avergli riferito che ero il pozzo di scienze dell'ufficio e lui, giovane e arrogante virgulto deciso più che mai a sbalzare da cavallo il vecchio guerriero, mi aspettava al varco per farmi fare una figura barbina e prendersi i complimenti del genitore. Eh no, Corvo Rosso, non avrai il mio scalpo. Almeno stavolta... Però alla fine ci sono entrato, nella chiesa di Santa Smeralda. Vuoi perché sono

un tipo accomodante, vuoi perché la Gazzoni quando si mette in testa una cosa non la ferma nessuno, vuoi perché la chiesa era soltanto una povera chiesa di campagna,con qualche modesto dipinto di scuola caravaggesca, alla fine decisi di affrontare il Minotauro. Ossia l'Enrico. Il quale,però, in quella occasione molto cavallerescamente si astenne dallo sfoggiare saccenterie moleste, restando incollato al suo cellulare per tutto il tempo della visita. E bravo Rosati Enrico, così si fa. Si deve portare rispetto agli anziani della categoria, anche se non ricordano più le mille cose che hanno letto nella loro vita. Lo so, tu sei fresco come un fiore appena sbocciato e potresti sbranarteli in un boccone, ma sii paziente. Ne devi ancora digerire di carne e verdura, Rosati Enrico, prima di darti arie. Sta buono lì, gioca con la tua diavoleria high-tech e non scassare i profferi al proffimo. Avevo parlato troppo presto. Nella mia ingenuità, mi ero convinto che Rosati Enrico stesse affilando le lame in vista della visita a Viterbo, l'unica città del tour dove valesse la pena affrontare il nemico in campo aperto. Invece Rosati Enrico, approfittando vigliaccamente del clima di distensione tipico delle cene conviviali, sferrò l'attacco decisivo al ristorante, durante il dessert. Complimenti, Rosati Enrico. Dovresti fare l'accademia militare. Dubito, però, che certe tattiche tu le abbia apprese sui libri. Più probabile che le tue doti belliche siano il frutto di ore e ore ate al computer su qualche videogioco di "strategia in tempo reale" (credo si dica così). Dio, che momento. Lo ricordo come fosse ieri. All'improvviso, mentre tutti eravamo impegnati ad ingollare panne cotte e tiramisù, Rosati Enrico si voltò verso la signorina Gisella Carrera, una zitella che a tutto il suo tempo libero nei musei (nel vano tentativo di accalappiare qualche vecchio professore rimbambito), e le domandò, con la sua disgustosa erre moscia:" Mio padre ha detto che lei ultimamente ha visitato la mostra sui bamboccianti che si è tenuta alla Galleria Dora Pamphili. Era interessante? Sa, glielo chiedo perché avrei voluto visitarla anch'io" Ebbi un violento accesso di tosse. E poi un conato di vomito soffocato all'ultimo nanosecondo, con il bolo di panna cotta pronto ad erompere come la lava dell'Etna e finire il suo salto sulla faccia del collega che mi stava di fronte (per la cronaca: Bonelli Federico, ufficio deleghe e riscatti)

I bamboccianti ... Guarda un po' te cosa è andato a tirare fuori dal cilindro quel bamboccio ..Sempre storia dell'arte, poi. Ossia l'argomento che in quel momento ricordavo meno bene di tutti. A parte il gotico internazionale, ovviamente... Mai che nascesse una discussione di filosofia o di letteratura. Di queste cose non fregava niente a nessuno. Si scolavano in tv le lezioni del solito critico alla moda, senza capirci un tubo, e poi disputavano a vanvera su questo e su quello. Ma se l'avessero fatto per conto loro, poco male. Il problema è che alla fine venivano sempre a chiedere un mio parere. La situazione era davvero tragica. Non ricordavo nel modo più assoluto chi fossero stati i bamboccianti e nemmeno il periodo storico in cui erano vissuti. Pensai di approfittare della circostanza che la Carrera stava rispondendo al piccolo demonio per allontanarmi con una scusa, salire in camera e consultare la mia enciclopedia tascabile. Ma poi mi accorsi che il satanello guardava di sottecchi. Mi stava controllando, il lurido. Avvilito, raccolsi col cucchiaino gli ultimi scampoli di panna cotta aspettando l'arrivo dell'uragano: -"Sig. Rizzuto, lei cosa ne pensa dell'arte dei bamboccianti? Non crede anche lei che siano stati i veri precursori della pittura naif ?" Bang, Rosati Enrico aveva sparato e ora stava con l'impugnatura della pistola appoggiata alla spalla e la canna rivolta verso l'alto, come un duellante del settecento. Doveva solo attendere la caduta del suo avversario, sbrigare le formalità di rito con i padrini e tornarsene a casa in carrozza. Perché non sono diventato un super esperto delle formazioni della Roma, dalla fondazione al primo scudetto? Ho degli amici in grado di sciorinarle tutte, comprese le riserve. E qualcuno addirittura è capace di recitare a memoria pure le formazioni-tipo della squadra nazionale, dal 1898 al mondiale di Corea. Riscuotono un enorme successo nel loro ambiente, sono stimati e riveriti. Al bar gli danno grandi pacche sulle spalle e li invitano al tavolo a giocare a scopone. A nessuno viene in mente di non considerarli persone di riguardo solo perché non sanno chi furono i bamboccianti... Ho fissato con odio Rosati Enrico, lo ammetto. Poi ho guardato lentamente ciascuno dei commensali, quasi a cercare da loro uno spunto, un suggerimento, che so. Niente. Mi guardavano anche loro in trepida attesa, come se avessero compreso la delicatezza del momento. Decine di occhi fissi su di me. Alcuni

parevano persino sgomenti, consapevoli di stare per assistere ad un avvenimento epocale: il crollo fragoroso del mito ventennale di Rizzuto Pierluigi. -"Beh, non direi .... ehm, mi sembra azzardato come accostamento, ecco..." Nel locale scese il gelo: anche gli altri clienti sembrava avessero interrotto le loro conversazioni per sentire la mia risposta. Poi all'improvviso, la luce. O almeno così mi parve in quel frangente: - "Lo so! ...lo so!", cominciai a gridare ad alta voce, agitandomi scompostamente sulla sedia. Il direttore si alzò dal tavolo e mi venne incontro con una faccia tra lo stupito e lo sdegnato: -"Rizzuto, ma che le prende? Si sente male? Si calmi su, sta dando spettacolo" -"Certo, sig. direttore, certo...mi scusi ...I bamboccianti, caro il mio pivello saputello, non possono essere considerati gli anticipatori dei naif, perché sono loro contemporanei e questo lei dovrebbe saperlo, visto che frequenta il liceo..." E giù la forchetta sul tavolo, a suggello del mio coup de theatre. Se il godimento si potesse rappresentare con sembianze umane, in quel frangente avrebbe avuto la faccia di Rosati Enrico: -"I bamboccianti...contemporanei dei naif? Ma che va dicendo, guardi che si sta confondendo con qualche corrente artistica del novecento. Quale, lo sa lei…” Il resto della gita fu soltanto un calvario interminabile. Tutti che mi evitavano come la puzza di piedi, lanciandomi palesi occhiate di disprezzo. Ecco perché adesso mi trovo qui, chiuso in cucina con il tubo del gas in bocca e il manuale di storia dell'arte aperto alla pagina (unica e piuttosto striminzita ) dedicata ai bamboccianti. I bamboccianti.... Stupidi pittori della prima metà del XVII secolo originari dei Paesi Bassi. Prediligevano scene di vita quotidiana. Una vita di studio e di sacrifici bruciata in pochi attimi per colpa di quattro imbrattatele di second’ordine.

Fossi caduto su Rembrandt, Velasquez, Luca Della Robbia... No, sui bamboccianti. Non riesco ad accettarlo. Da quando sono rientrato da Viterbo trascorro le giornate in casa, bighellonando per le stanze e guardando la tv. Avevo un bel po' di ferie arretrate e le prese tutte in una volta. Il capo del personale non ha battuto ciglio. Quando gli ho presentato la domanda, ha alzato su di me un umiliante sguardo comionevole da cernia bollita: -" La capisco, Rizzuto, la capisco. Si riposi".- Avrei preferito una coltellata... Ho scritto un biglietto per Sofia. Chissà se lo leggerà. Non la vedo da una vita. Forse è ancora offesa con me. Le ho scritto che mi ammazzo perché da un po' di tempo non mi sento bene e penso di avere una patologia incurabile. Mica posso confessarle che mi ammazzo per i bamboccianti…Le ho scritto anche che credo di essermi innamorato di lei. A rileggerlo, però, mi viene un dubbio: metto "non sto bene" oppure un più esplicito "sto male”?” Non bene è una litote ...Gesù, ma cos'è esattamente una litote? Calma, lo so. No, non lo so più. Lo sapevo ma l'ho dimenticato. Il vocabolario, presto...

Coincidenze

“In carrozza!” Si dice ancora così, come all’epoca in cui i vagoni ferroviari non erano altro che landò senza cavalli. Ormai manca poco al capolinea. Anche per stasera ho finito. Tra poco raggiungeremo la città e potrò andarmi a riposare negli alloggi del personale. In genere faccio le ultime corse, quelle serali. Certe volte chiudo il turno a casa mia, che sta in un paese non lontano da quello da cui parte la linea, e certe altre sono costretto a dormire fuori casa. La mia tratta è una di quelle secondarie, che porta studenti e pendolari da un piccolo centro di provincia alla metropoli, ma a me va bene. Non invidio i colleghi degli intercity, quelli che girano per tutta l’Italia. Guadagnano di più, ma hanno poco tempo per sé stessi e le loro famiglie. Io una famiglia non ce l’ho, a parte una madre sorda e ultimamente anche un po’ dura d’arterie, ma preferisco lo stesso avere più ore da dedicare alle mie cose. Anche se non ho storie sentimentali da coltivare, preferisco curare il giardino e occuparmi delle mie collezioni di francobolli piuttosto che stare notte e giorno a respirare aria di rotaia. Certo, fino a qualche anno fa era diverso. Quando sono entrato in ferrovia, ero ancora fidanzato con Simona e progettavamo di sposarci. Poi un giorno mi ha lasciato- così, senza un motivo- e da allora non ho più avuto rapporti impegnativi con le donne. Simona lavorava in una banca del paese. E’ andata via da lì sei mesi dopo la rottura del fidanzamento e adesso non so dove si trovi. Non so neppure se si sia sposata, nel frattempo. Fare il capotreno non era il massimo delle mie aspirazioni ma ho imparato ad

accontentarmi. Conosco quasi tutti i eggeri e raramente mi creano dei problemi. Tra l’altro, i treni di questa linea sono relativamente nuovi ed anche i binari sono stati rimodernati da poco. L’unico intoppo di questi viaggi sono le coincidenze. C’è un solo binario, purtroppo, e bisogna spesso fermarsi per attendere l’arrivo di un altro treno in stazione o per dare precedenza a quelli più importanti del nostro. Ma la gente ormai ci ha fatto l’abitudine e non si lamenta. Tanto, tra una discussione ed una giocata a carte, una maniera di ammazzare il tempo si trova sempre. Stasera, però, ho notato un nuovo arrivo, proprio in occasione di una coincidenza. Una ragazza molto carina, di nemmeno trent’anni credo, che è salita alla seconda fermata ed è rimasta tutto il tempo a leggere un libro. E’corvina di capelli e indossa un maglione beige a collo alto ed una gonna marrone, di quelle lunghe al ginocchio. A dispetto del maglione ampio, esibisce un seno piuttosto generoso. Ha anche un viso interessante, a metà strada tra l’intenso e lo sbarazzino. Ho la sensazione di averla già vista da qualche parte, ma non ricordo quando e dove. Non ho ancora fatto il controllo dei biglietti, malgrado l’approssimarsi della fine corsa, e decido di cominciare il mio giro. In genere non ce n’è bisogno, perché sono tutti abbonati che conosco bene, ma ogni tanto lo faccio ugualmente. Non si sa mai, potrebbe sempre salire un ispettore. “Biglietto, signorina” Alza gli occhi dal suo libro e mi sorride. Bella è bella, non c’è che dire. Però ha una strana malizia nei suoi grandi occhi neri. Non è malizia di donna, è qualcos’altro che non saprei spiegare. Le sorrido anch’io e perforo il suo biglietto, restituendoglielo prontamente. “Senta…” Percepisco la sua voce quando già sto per lasciare lo scompartimento e proseguire nel mio lavoro. E’ l’unica donna là dentro e quindi non può essere che lei. “Mi dica”

Si avvicina con modi flessuosi, da gatta. Ma non c’è niente di erotico nella sinuosità del suo incedere, perché i movimenti del corpo sono di una naturalezza tale da escludere qualsiasi artefazione di origine seduttiva: “Mi sa dire per favore a che ora è la coincidenza per Novara?” “Novara? Credo che non ci siano più corse per Novara, ormai. Se ne parla domattina” “Oddio…E ora come faccio?” “Se vuole, posso darle l’indirizzo di un piccolo albergo dalle parti della stazione centrale. E’ pulito e poco costoso” Dalla sua espressione, però, capisco che la prospettiva di dover spendere del denaro non l’alletta per niente. “Sennò- continuo -non c’è altra alternativa che trascorrere la notte alla stazione. Ma è una soluzione che non mi sento di consigliarle” “E’ pericoloso, vero?” “Beh, signorina, la stazione di una grande città non è mai un posto adatto a delle ragazze sole, specie di notte. Se proprio non vuole andare in albergo, le suggerisco di sistemarsi vicino agli uffici della Polfer, che sono sempre aperti. Con permesso” Mi allontano da lei con un forte senso di rammarico, per non esserle stato d’aiuto. Pensare che avrebbe dovuto trascorrere un’intera nottata dentro una stazione come quella di Torino mi faceva stare male. Ma cosa avrei potuto fare di più? Non me la sentivo di offrirle del denaro, non sapendo come l’avrebbe presa, e non avevo parenti o amici dove dirottarla. Impensabile, poi, provare a portarla con me negli alloggi aziendali. Avrei potuto chiedere a qualche collega di ospitarla, ma con i colleghi di Torino non avevo mai scambiato in vita mia più di un ciao e ciao, al massimo un paio di veloci caffè, e non si affida una bella figliola come quella a persone che non si conoscono davvero bene. Il treno intanto sta già entrando in stazione. Binario 20, ovviamente, uno di quelli destinati ai collegamenti interprovinciali.

Scendo dalla vettura di testa, attendo lo svuotamento dei vagoni, saluto velocemente il macchinista e mi avvio con le scartoffie verso la dirigenza movimento. Quando esco dagli uffici della dirigenza è già l’ora di cena o quasi. Decido di pranzare alla mensa ferrovieri: non è certo un ristorante da guida Michelin, ma si mangia un ottimo minestrone. Mi accomodo in uno dei tanti tavoli vuoti. La mensa di sera è poco affollata, perché il personale viaggiante a quell’ora è sui treni o a casa e quello degli uffici è già andato via da un bel po’. La vedo seduta in fondo alla sala che lotta contro una fettina di carne. Contrariamente al minestrone, infatti, le bistecche della mensa ferrovieri sono famose per non aver mai ceduto in vita loro alla tenerezza … Prendo il portavivande con sopra posate e minestra e mi avvicino: “Ci vorrebbe il machete, lo so…” Solleva gli occhi dal piatto e mi sorride ancora. Stavolta però non è un sorriso affettato, ma di aperta simpatia. Le chiedo se gradisce un pò di compagnia o se preferisce mangiare da sola. “Ma certo…” “Ma certo cosa?” “Ma certo siediti, che domande” Siamo già ati al tu, dico tra me. Buon segno. Si chiama Rita, ha 29 anni. E’ impiegata in una azienda di software di Brescia e si trovava nel paese da cui è ato il mio treno per far visita ad una anziana parente. E’ diretta a Novara per lavoro, perché la ditta l’ha distaccata lì per 3 mesi. Ha già l’alloggio pronto che l’aspetta, arredato di tutto punto. “Hai trovato una ditta che mette i dipendenti a proprio agio, a quanto vedo”

Fa una smorfia di disappunto, inghiotte il suo boccone e poi mi spiega che avrebbe preferito mille volte essere pagata come si deve e doversi cercare da sola la casa in affitto piuttosto che prendere i quattro soldi al mese che le dà il titolare. Tra l’altro è ancora precaria, anche se il contratto finora glielo hanno sempre rinnovato senza problemi “Pensa che col padrone ho avuto pure una storia e non ci siamo lasciati male. Eppure continua a pagarmi peggio di molti altri suoi dipendenti. Qualche volta lo rovino, giuro: ho un filmino che se finisse nelle mani della moglie…” “Allora sarà per questo che ti ha sempre rinnovato il contratto” dico ridendo. Mi risponde, gelida, che lei ha una competenza tecnica specifica in un settore dell’informatica dove gli esperti ancora latitano. “Me lo rinnova perché gli servo, altro che storie. Tu, invece? Ti piace il tuo lavoro?” A quel punto le sciorino spudoratamente la cronologia dettagliata della mia vita, non senza chiedermi di tanto in tanto come mai stessi stendendo senza ritegno tutti i miei panni davanti ad una perfetta estranea, per quanto carina. Lei, comunque, dà l’impressione di interessarsi parecchio alle mie vicissitudini, specialmente alla storia con Simona: “E’ stata una cretina a lasciarti. Sei una brava persona e sei anche molto carino” Mi fermo col cucchiaio a mezz’aria e la guardo imbarazzato: “Grazie ma…Come fai ad essere così sicura che io sia un bravo ragazzo?” “E tu come fai ad esser sicuro che io non sia una terrorista di Al Qaeda? Ti conosco solo da un paio d’ore, è vero, ma la mia prima impressione su di te è stata più che positiva. E le mie prime impressioni non si sbagliano mai” Lo dice, però, fissandomi intensamente e umettandosi lascivamente le labbra dopo aver bevuto un po’ di vino dal bicchiere di plastica che teneva in mano Mi sento il sangue ribollire. Quello è chiaramente un messaggio erotico e se l’ho capito pure io, che di psicologia femminile non ho mai compreso un accidente…

Finiamo a letto tre ore dopo, in un piccolo albergo dalle parti della stazione. Uno di quelli puliti e discreti che non fanno troppe domande, abituati come sono alle coppiette clandestine. Rita ha un corpo meraviglioso, sembra la Venere di Velasquez, ed io quasi mi vergogno a mostrarle il mio. Lei se ne accorge e prova a rilassarmi facendo degli apprezzamenti sul mio coso. Io lo so che sta fingendo, perché è di normalissime dimensioni, ma gradisco ugualmente l’intenzione. Durante la notte, dopo aver fatto l’amore, non riesco a prendere sonno. Rita dorme sdraiata su un fianco, completamente nuda. Dalle fessure della persiana entra una lama di luce che le illumina parzialmente le natiche e la schiena ed io mi chiedo cosa ci sta a fare una donna come quella nello stesso letto con uno come me. Qualche avventura ce l’ho avuta anch’io ogni tanto, intendiamoci. Si è trattato quasi sempre di ragazze straniere che bazzicano i dintorni della stazione di Torino. Non possono definirsi vere e proprie prostitute, perché non vanno col primo che capita e in genere fanno altri lavori durante il giorno, ma pretendono che alla fine gli si lasci puntualmente qualcosa. Questa qui, però, è una cosa totalmente diversa, mi dico. Questa è una donna bellissima e dalla vita normale che ha scelto me come suo compagno per una notte. Solo per una notte? Armando non t’illudere, Armando non t’illudere, mi vado ripetendo. Sei il solito romantico rincitrullito: una ragazza a cui tenevi tanto ti ha mollato e tu speri di poterla ritrovare in ogni gonna che ti si avvicina a meno di dieci metri di distanza. Domattina un bacetto, il caffè insieme al bar, un grazie tante per la bella serata e via, ognuno per la sua strada. Il treno di Rita parte alle otto. Io,invece, ho la mattinata libera. Come previsto, al suo risveglio mi abbraccia con trasporto, si veste in fretta e mi invita al bar per un caffè prima del commiato. Avviandoci verso la stazione, le prendo cavallerescamente il borsone dalle mani “Grazie- mi dice lei-stavo per chiedertelo: pesa un accidente” “Infatti, pesa parecchio. Senti…”

“Dimmi” “No, sai…Pensavo che magari ci si poteva rivedere qualche volta. Sempre che tu sia d’accordo” La sua risposta è la più crudele che potessi attendermi: “Meglio di no, Armando. E’ stata una notte bellissima e tu sei una persona meravigliosa, ma io sono fidanzata e non ho alcuna intenzione di mandare a rotoli il mio rapporto. Lasciamoci col ricordo di un momento magico della nostra vita che non si ripeterà mai più”. Me lo dice senza alcuna enfasi, neppure di circostanza, col tono asciutto di un comunicato stampa. Mi accorgo solo allora che c’è qualcosa in fondo alla strada, proprio sullo spiazzo antistante l’ingresso della stazione , che ha attirato prepotentemente la sua attenzione, distraendola da tutto il resto: cani. Pastori tedeschi, per la precisione. Pastori tedeschi della Polizia. Mi giro verso Rita per risponderle ma mi accorgo che lei ha cambiato strada e sta correndo a perdifiato in una via laterale a quella che stavamo percorrendo. Non capisco … Improvvisamente sento il latrare dei cani alle mie spalle e le voci concitate dei loro conducenti. Mi sono addosso, mi buttano a terra e mi ammanettano. Con un lato della faccia schiacciato sul selciato, vedo uno degli agenti che apre il borsone di Rita e ne tira fuori un sacco di strane bustine bianche, nascoste sotto una divisa da ferroviere con tanto di copricapo, una copia dell’orario ufficiale dei treni ed altri indumenti maschili…

La preda

E’ lui. Lo so. Lo sento. Ne avverto l’odore, l’afrore nauseante del macellaio. Ci siamo cercati per anni, in giro per l’Italia. Venti delitti in venti regioni. Uno per ogni angolo della Penisola. Gli mancava la Sicilia e in Sicilia siamo. Dopo l’assassinio della commessa calabrese, toccava all’isola. La pratica sarda l’ha già evasa da un pezzo. Grazie pezzo di merda, mi hai fatto tornare a casa per prenderti. Non è andato molto lontano, però. Ha attraversato lo stretto e si è fermato a Messina. Fa il dirigente di una multinazionale dell’informatica. Si chiama Paolo Ricci, è un quarantenne veneto, divorziato. A vederlo, non gli si darebbe un soldo bucato. Eppure. Eppure mi sa tanto che il mio verme è proprio lui. Sono qui, ai piedi del Duomo, quello con l’orologio dove a mezzogiorno suona l’Ave Maria di Schubert e ruggisce il leone di gesso. La piazza è come la ricordavo ai tempi del liceo. La mia scuola è proprio di fronte al Duomo, sulla via Cavour. Sono cambiate molte cose da allora. E’ tutto il giorno che gli vado dietro, da quando è sbarcato. Ha preso una macchina a nolo e si messo a girare senza una meta precisa, fermandosi solo a Cristo Re per ammirare il panorama. E’ un santuario che si trova sulla strada che recinta Messina dall’alto, quasi a proteggerla dalle colline sovrastanti. All’una ha pranzato in un piccolo ristorante di Ganzirri e si è rimesso in macchina. Ora sono già le 10 di sera ed è più di un’ora che sta seduto in quel bar di fronte al Duomo, sull’altro lato della piazza. Cerco di non perderlo di vista. Ha attaccato bottone con un tizio pelato in maglietta blu e jeans. Chissà cosa avranno da dirsi. Potrebbe essere la sua vittima siciliana. Non fa differenze tra uomini e donne, gli vanno bene tutti. Sta uscendo. Ha pagato, ha salutato il tizio ed è entrato in macchina. Riparto anch’io con la mia Smart, subito dietro di lui. Si è immesso nella via Garibaldi, la parallela alla cortina del porto, e si dirige verso il lato nord della città. Si ferma all’altezza del Jolly Hotel.

Ecco dove ha prenotato. Scendo dopo pochi minuti. Esibisco il tesserino al portiere e chiedo in quale stanza alloggi il cliente appena salito in camera. Stanza 104 Salgo. La 104 è l’ultima stanza del corridoio del terzo piano. Attorno non c’è anima viva. Dove colpirà? E quando colpirà? Credo, però, che ormai non sarà per stanotte. Prendo l’ascensore per tornare nella Hall. Decido di sorvegliarlo da fuori, perché la stanza 104 dà sulla strada. E se colpisse dentro l’albergo? Alla fermata del secondo piano, entra una donna Le rivolgo un rapido sguardo. E’ bruna, carina, sui trent’anni. Porta una gonna scura al ginocchio ed una camicetta celeste. Ha un neo vezzoso sulla guancia destra. Mi sorride. Esce prima di me e si allontana dall’albergo. Io mi fermo un attimo al bar per un caffè. Prima di risalire in macchina lancio un’occhiata veloce alla finestra della 104. La luce è ancora accesa. Ripenso a quella donna. A rifletterci bene, era troppo chiara di carnagione per essere una bruna naturale. Una parrucca? Forse. O magari si era tinta i capelli. Bah. Bevo un sorso di minerale da una bottiglia di plastica e mi accendo una sigaretta. Fuori ormai circolano pochissime macchine. Di cristiani a piedi manco l’ombra.

Però…però. C’è una biondina che fa la fotografa, lavora per un’agenzia di stampa. Ricordo di averla intravista in occasione di qualcuno dei delitti del mio serial killer. Anche lei ha un neo sulla guancia destra . Getto il mozzicone dal finestrino ma non faccio in tempo ad aprire la portiera. Ho qualcosa di freddo poggiato sulla tempia.

Convergenze parallele

1-Tesi Mimmo lo dice sempre: non c’è niente di meglio di una buona birra per allevare i filosofi. Quando sentenzia robe così non lo capisce nessuno, almeno fino al giorno in cui i discepoli non provano sulla propria pelle la profonda verità delle parole del maestro. Allora sì che ci si ricorda di Mimmo e delle sue perle di saggezza. Come sta accadendo a me dentro questo bar- pizzeria superaffollato alle otto di sera di una giornata di merda. Se ci fosse qua Mimmo, ordinerebbe per me una bella birra ghiacciata e poi mi intimerebbe di berla lentamente fissando un punto ideale sulla parete dietro il banco. Che c’è davanti, la foto del nonno del titolare, con tanto di baffi all’Umberto? E tu la fissi. La fissi, la fissi, sempre sorseggiando il biondo nettare, e alla fine del boccale t’accorgi che sei diventato più vecchio e più saggio, che senti la tua merda puzzare meno e quella degli altri un po’ di più, che capisci il significato delle cose o perlomeno credi di averlo capito. Grande Mimmo, il nostro intellettuale da asporto. Nel senso che lo usiamo quando serve e per le più disparate patologie dell’animo. Ci mettiamo a braccetto con lui e facciamo un paio di vasche in piazza. Giusto il tempo di raccontare le nostre miserie e attendere il responso. Che però spesso non è chiaro come uno vorrebbe. Come una moderna Sibilla cumana Mimmo, debitamente foraggiato di sigarette e rivista porno, sospira un po’, osserva ammirato il culo dell’ultimo ingresso nella top-ten femminile di paese, si spara due Marlboro una dietro l’altra e poi emette il verdetto. Mai consolatorio, nemmeno quando è comprensibile. Non vendo pannicelli caldi, ci dice sempre. D’altronde, con la vita che ha fatto, i pannicelli caldi Mimmo li avrà visti si e no al massimo fino allo svezzamento. Drogato a diciassette anni, in comunità fino a trenta, cacciato per furti e risse, arrestato per truffa almeno tre volte, emigrato in Argentina, cacciato pure dall’Argentina, sposato con una spogliarellista da locali con il tanfo di vomito e piscio all’ingresso, separato dalla spogliarellista a suon di volanti che accorrono, urla, botte e ricoveri d’urgenza al pronto soccorso, arrivato alla non più verde età di sessant’anni ha scoperto la sua vera vocazione:

invalido civile al 100 per cento. Un invalido in motorino, un Benelli catarroso degli anni settanta sempre sul punto di esalare l’ultimo respiro, ma pur sempre un invalido agli occhi del nemico pubblico numero uno di Mimmo: la legge. Mi manca, Mimmo. Anche se è per colpa sua che mi sono trasferito in città: “Non puoi dire d’aver vissuto se non hai mai navigato negli oceani di pietra”. Bene, Mimmo, alla fine nell’oceano di pietra ci sono venuto. Sfidando le lacrime di mia madre e i rimproveri muti di mio padre, gli sfottò degli amici e il rancore di Barbara, la mia ultima ragazza. Chissà cosa s’era messa in testa, poverina. Pensava d’aver trovato l’approdo definitivo, dopo aver attraccato in tutti i porti della provincia… Sì, Mimmo mi manca ma se stasera l’avessi davanti forse lo prenderei a cazzotti. Gli direi che nel mare di pietra ci sono tempeste di ferro e mattoni ogni giorno e ogni giorno la vita te la riporti a casa sana e salva a prezzo di immani fatiche. Gli direi che facendo il commesso in una libreria è piuttosto complicato godersi il proprio spicchio di oceano, specialmente quando tre quarti di quello che guadagni finiscono nelle tasche di un tizio che ti ha affittato un’ umida stamberga da dividere con altri due “marinai”. Gli direi anche che, se davvero fosse un bravo maestro, consiglierebbe di veleggiare nel mare di città con compagni di navigazione meno chiassosi e disordinati di quelli che mi è toccato avere... E’ per questo che quando voglio sfuggire ai rumori e ai miasmi di una casa troppo piccola e abitata da due pazzi convinti che la vita sia un perenne pigiamaparty, vengo qua, in mezzo ad un'altra Babele. Una Babele che un apionato frequentatore di bettole come Mimmo dovrebbe conoscere bene e bene apprezzare. Perché lui sai benissimo che questa è una Babele che in fondo ci scivola addosso come un rivolo d’acqua fredda, con la quale non abbiamo l’obbligo di interloquire . Si sceglie un tavolo, si ordina un boccale di quella buona e si ano due o tre ore a raccontarsi addosso la proprie mirabolanti avventure di Superman del salto del pasto, del salto del sesso e del salto del sonno. Soprattutto il salto del sesso è quello che a trent’anni fa più male, quello dove cadendo non trovi mai il materasso morbido ad aspettarti. Magari uno come Mimmo ormai non ci farebbe più caso, ma alla mia età questo salto qua è uno sport molto faticoso da praticare. -“Oh, mi scusi. Per poco non le rovesciavo addosso la pizza…Sono un’imbranata, mi perdoni”

“Fa nulla…fa nulla. Non si preoccupi” Fa nulla un par di palle. Dovresti stare più attenta, ragazza mia. Per poco non mi mettevi la tua capricciosa calda di forno per cappello. Capisco che ci vorrebbero le bombe a mano per farsi largo in mezzo a questa canea, ma da qui a non vedere un tavolino con tanto di sedia e regolare stronzo seduto sopra …Mimmo, che le funzioni cerebrali femminili le colloca da tutt’altra parte rispetto a quello che insegna l’anatomia, la definirebbe una tipa con la fica in vacanza. Ma che sta facendo? Ondeggia col vassoio tra le mani alla disperata e inutile ricerca di un posto vuoto. Forse in un altro locale, donna. O in un’altra città. O in un altro pianeta. Ora s’è fermata in mezzo alla stanza e si guarda attorno smarrita. Questa qua stasera non mangia. In fondo non è male, a osservarla meglio: bassotta ma ben proporzionata, gonna corta di lana, stivali neri, maglione verde accollato, capelli corti castano scuri e un viso da metà classifica. Una di quelle ragazze che non erebbe alle finali dei concorsi di bellezza ma che il primo turno lo supererebbe senza tanti affanni. Di primo acchito, una Meg Ryan dei poveri. Dei molto poveri. Che faccio, la invito? Per come sto messo stasera, va bene anche la Meg Ryan de noantri. Ma poi che vado a pensare. Quella se gli fai una proposta sconcia è capace di chiamare seduta stante il 113. Ci ha la faccia da 113. E se vogliamo proprio dirla tutta, non so nemmeno se mi piacerebbe sentirmi rispondere sì. Ho il fondato timore che il mio socio in affari, quello che abita al piano di sotto, stasera potrebbe decidere di restarsene rintanato in casa, perché le visite in casa altrui lo stressano… 2-Antitesi Peggio del Vajont. Una diga che rompe gli argini e riversa a valle tonnellate d’acqua, trascinando con sé tutto quello che incontra sulla sua strada. Chi me l’ha fatto fare? Per compiere una buona azione, per fare il buon samaritano del brunch serale, sono inchiodato da tre ore ad ascoltare le farneticazioni di questa matta. Si chiama Lidia, ha ventisette anni e lavorava in un’azienda di non so cosa. Era una specie di career woman fino a quando non ha avuto la pessima idea di scoparsi il capo. Donne!

Malgrado ostenti un accento nordico, viene dalla bassa Italia pure lei (Benevento, se non ho capito male), ha una laurea in scienze della comunicazione (con un trenta e lode in logorrea applicata, ne sono certo) ed è doppiamente disperata. Disperazione numero uno, per la cui dissertazione ha impiegato ore una e minuti quaranta: oltre ad aver perso il lavoro, si è lasciata pure col fidanzato ufficiale, a quanto ho capito ultimo di una lunga serie, che fa il modello free-lance. Un marcantonio di un metro e ottanta bello come il sole (dice lei) ma tanto, tanto, tanto stronzo. Sai che novità. Il tizio, tale Armando, prima l’ha illusa con fiori, cioccolatini e bacetti a iosa e poi s’è fatto trovare nel letto con una cubista brasiliana. Nemmeno tanto strafiga, per essere una cubista. Sempre secondo lei. Mi ha fatto pure vedere nel telefonino una foto dove la messalina carioca sta insieme al lurido e al padrone della discoteca dove lavora. Uno schianto di femmina, per la cronaca. Recito mentalmente la formula rituale di solidarietà della confraternita del maschio allupato (alla quale tutti gli esseri umani di sesso maschile sono iscritti, pure quelli che non lo sanno) e provo a fermarla. Niente da fare, freni rotti e macchina allo sbando. In questi casi si può solo sperare nel guard-rail. Guard-rail che alla fine per fortuna si materializza nella persona del cameriere e di un caffè. Perché nel frattempo il fiume in piena non si è mica scordato della sua pizza. La mia birra, invece, rimane desolatamente a metà, annichilita anch’essa da una simile potenza di fuoco. Luminosa e insolente nel suo splendido colorito biondo oro, andava ora assumendo lentamente una penosa tonalità da itterico all’ultimo stadio che chiede soltanto di essere abbandonato in un angolo del lazzaretto, con la spuma ridotta a poche bollicine che galleggiano tristi come le scialuppe vuote del Titanic. E’ solo una pausa di pochi minuti, comunque, il tempo di ricaricare la mitragliatrice e ripartire. Una veloce asciugatina alla immancabile lacrimuccia spuntatale sul viso, una sorsata lunga di caffè e via: disperazione numero due. La disperazione numero due della matta è meno traumatica della prima ma forse foriera di angosce di più lunga durata: l’amica con cui divideva affitto e appartamento se n’è andata, avendo trovato impiego più solido e meglio remunerato nel Paese di Babbo Natale. Il problema è che alla sua padrona di casa importa una sega di tutto questo e se lei non trova al più presto qualcuno con cui dividere le spese di un bivano arredato vista parco che da disoccupata

non si potrebbe più permettere, sarà costretta a dormire sotto i ponti. Trovo questa disperazione più meritevole di empatico coinvolgimento della prima, avendo sempre tenuto in vile considerazione i cosiddetti “problemi di cuore”, che tali sono solo per quelli che non ne hanno di più seri. Con un blitz degno dei fucilieri assaltatori provo ad incunearmi nelle linee nemiche… pardon…nel monologo della matta e le domando se ha già avviato qualche ricerca. Si blocca all’improvviso, forse stupita del fatto che anch’io sappia parlare, sgrana gli occhi e scuote mestamente la testolina : “Tutto inutile finora, ho messo degli avvisi ma si sono presentate solo un paio di studentesse un po’ svitate, non so se capisci cosa intendo dire…” Sto per dirle che lo capisco benissimo, avendo davanti a me una così, ma mi fermo in tempo: “Beh, non ti scoraggiare. In una città come questa non è difficile trovare delle ragazze in cerca d’alloggio.” Seguono cinque minuti buoni di assoluto silenzio in cui la matta sembra estraniarsi da tutto, immersa nei suoi pensieri. Ne approfitto per riprendermi dal bombardamento e finire la mia birra, che ormai sembra diventata una stretta parente dei brodi vegetali. Ad un tratto la vedo alzarsi e dirigersi verso l’ingresso. Mi chiedo se finalmente si sia decisa a sgombrare il campo e a portarsi appresso le sue chiacchiere e le sue disperazioni. Errore: sta solo andando a fumarsi una sigaretta. Torna dopo un po’ a o di carica, afferra borsa e giaccone e mi intima di seguirla. Che vorrà da me? Non mi sembra il tipo che si porta a letto qualcuno appena conosciuto ma mi potrei pure sbagliare. E’ più probabile che voglia solo essere accompagnata a casa, vista l’ora tarda. Mi pare d’aver capito che abita vicino. Speriamo che sia davvero così, perché se domani arrivo in ritardo al lavoro il titolare mi spenna. C’è da fare l’inventario dei libri.

Fuori dall’Octopussy, locale techno a cui mancano nel menu solo le pizze all’Ipad, comincia a piovigginare. Mi alzo il bavero del giubbotto e le cammino al fianco. All’improvviso ho l’impressione che l’aria fresca le abbia fatto bene, sembra più calma e persino più allegra. Mi sorride e mi chiede se ho la macchina nei paraggi, perché la sua sta dal meccanico. Sì, la macchina ce l’ho ma non è certo un bolide degno di ospitare il sedere di una dama, seppure tocca come questa. E’ una vecchia Punto grigio metallizzata comprata di quinta mano quando mi sono trasferito qui. Traccheggio un poco nella speranza che rinunci a farmi fare il tassista. Già in lei ho colto, tra uno sproloquio e l’altro, certi sguardi di muta riprovazione al mio abbigliamento; ci manca solo il catorcio per completare l’opera. Son sicuro che mi abbia schedato come “tamarro” o, peggio, pappone, forse per via della camicia aperta stile “Febbre del sabato sera” e dell’anello. Oddio, tutti i torti non ha, perché vestito così devo assomigliare a Mimmo con trent’anni di meno, basette e baffi a parte. Ma ad ogni modo, che si crede questa qua? Ue’ pupa, ci ho il classico io. Fatto a Bisceglie, vero, ma sempre classico è. Sono uscito col minimo, embè ? Stavo sulle scatole ad un paio di professori. Però la filosofia mi piaceva, soprattutto i filosofi empiristi. Certo, meglio di Mimmo nessuno, ma anche Locke era niente male. Ma che gli spiego a questa, tanto non capirebbe. Anche adesso, mentre camminiamo sul marciapiede, vedo che ogni tanto mi fissa l’anello e fa una strana smorfia. Ahò, bella, questo è un ricordo di famiglia, un portafortuna da cui non mi separo mai. E’ un po’ troppo vistoso? E che ci posso fare. Toglierlo neanche a parlarne: questo anello ha salvato la vita sul fronte russo a mio nonno e ora deve salvare la mia sul fronte piemontese. La pioggia aumenta d’intensità, è giocoforza ricorrere al catorcio. Corriamo verso la macchina tirandoci sopra la testa i rispettivi giubbotti. Quando la vede , si ferma un attimo scioccata sul marciapiede, probabilmente per un veloce rio di tutte le vaccinazioni fatte in età infantile. Tranquillizzata dalla certezza di averne in corpo un numero sufficiente a

neutralizzare i virus più comuni, si accomoda sul sedile mezzo sfondato del lato eggero, dopo che la portiera s’è finalmente aperta con il lugubre cigolio ben noto a tutti i proprietari, presenti e ati, del caro rottame. Questo a il convento, milady. “Allora, ti accompagno a casa?” “No, dai. Facciamoci un giro per la città. Torino è molto affascinante di notte, sai?” E’ affascinante anche la benzina che ho nel serbatoio? Veloce domanda e altrettanto veloce risposta: per fortuna sì, ho fatto il pieno il giorno prima. Comincio a girovagare per il centro: via Roma, piazza Castello, via Po. Mentre attraversiamo a velocità di crociera le strade deserte e illuminate della città, mi rendo conto solo ora di vivere in un posto molto più interessante di quello che vuol apparire. Come la portinaia parigina di quel romanzo che ho letto a scrocco in libreria. O come una signora malvestita e mal truccata che, nuda, rivela forme perfette e inaspettate. Così Torino, nuda solo di notte, diventa irresistibilmente attraente. Persino la mia compagna di una sera, nel gioco intrigante di luci e ombre creato dentro il buio dell’abitacolo dallo sfavillio dei lampioni e delle insegne, mi appare più carina rispetto al primo giudizio. Anche perché s’è finalmente zittita e il silenzio le giova: la guardo di sottecchi mentre guido e mi piace il modo in cui si è accucciata sul sedile, come una gatta che ritrova il suo giaciglio dopo un lungo girovagare in giardino. Arrivati sul fiume mi chiede di accostare. Le faccio presente che in quella zona di notte non è consigliabile fermarsi. Fa niente, dice, solo pochi minuti. Si accende una sigaretta, apre il finestrino, aspira con identica voluttà fumo e brezza della notte e poi, come se fosse la cosa più naturale del mondo, mi domanda se mi andrebbe di andare a vivere da lei. Mentalmente comincio a vagliare varie ipotesi: 1.Chiamo un’ambulanza e la faccio ricoverare, per il suo bene.

2.Accetto senza fiatare, considerato che, tutto sommato, follia per follia è sempre meglio lei di Mirko e Slobodan, i miei due coinquilini slavi, un originale e inconsueto mix tra metallari, punk a bestia, indiani metropolitani, new romantic anni ottanta e seguaci di Rajneesh che solo Dio sa, con il casino di vita che fanno, come non sono ancora finiti dentro l’ennesima retata anticlandestini della Questura . 3. Chiedo prima quanto verrebbe la mia quota d’affitto, per evitare di cascare dalla padella della catapecchia di periferia alla brace “vista parco”, e come intende risolvere, visto che si parla di un bivani, il problema di una donna in mutande e reggiseno che attraversa all’improvviso una stanza dove c’è un uomo che non scopa ormai da mesi… Scelgo, dopo un breve rimuginare, la terza soluzione, non tanto per le mutande e il reggiseno quanto per conoscere il costo esatto della coabitazione con la mezza psicopatica che mi siede accanto. La cifra che snocciola, comprensiva di spese di luce e gas, è di poco superiore a quanto pago attualmente nella catapecchia e pertanto compatibile, tutto sommato, con le mie magre entrate. Dico di sì e mi appresto a interpellarla sull’altra faccenda quando mi precede e mi mette in mano un foglietto su cui poco prima ho visto che scribacchiava qualcosa. Lo leggo, lo rileggo, faccio uno sforzo per non mostrare sbalordimento, mi volto verso di lei, la guardo: sembra serissima e io mi pento profondamente di non aver optato per la prima soluzione. 3-Sintesi Perché capitano tutte a me? Trovo una tipa che ha bisogno di subaffittare un appartamento ma alla condizione di condividere oltre il tetto pure i suoi disturbi mentali. Ma si è mai sentita una roba simile? Una volta al mese…E che è, una pillola? “Buongiorno, mi dia una scatola di scopate mensili.” “Le vuole al primo, al 15 o al 30 del mese?” “Al 30, così le faccio coincidere con la rata del mutuo “ “Tessera sanitaria, prego” “Perché ? Sono deducibili?” “Ma certo, si legga l’ultima circolare dell’assessorato alla Sanità.” Dopo la faccenda del contratto, la pazza s’è chiusa in uno strano mutismo e continua a fissare il parabrezza senza spiccicare una parola. Lo dico io che non è normale. Una normale cercherebbe di giustificarsi e magari direbbe “Lo so che ti

sembrerà strano ma lo faccio per evitare problemi più seri, non è mica che tutti i giorni faccio proposte del genere al primo tizio che incontro.” Invece niente: zitta e pipa. Sarà imbarazzo? Se è così non lo dà a vedere. Quello più imbarazzato casomai sono io, che mi concentro alla guida per evitare di guardarla. Eppure ormai non dovrei più sorprendermi di niente, specialmente dopo i tre mesi di fuoco trascorsi un paio d’anni fa con una impiegata delle poste in trasferta che parlava d’amore al cellulare con lo sposino nello stesso istante in cui si rotolava tra le lenzuola col sottoscritto. Ma che faccio, accetto? In fondo, con l’aria che tira non è una proposta proprio da buttare. E se poi la donzella s’appiccica? Se mi comincia a rompere i santissimi e a immischiarsi nei fatti miei? “Dove sei stato? Cosa hai fatto? Ti ho visto per strada con quella, che credi? E non dirmi che è tua sorella perché non la bevo!” Brrrrr…Mamma mia. Meglio gli slavi. No, che cazzo dico : tutto è meglio degli slavi. “Va bene…” Doveva essere un assenso stentoreo, mi viene fuori la vocetta di Titti. Lei si volta e sgrana gli occhi: “Hai detto sì per quello, confessa…” Poi si porta le mani sul volto e riprende a singhiozzare rumorosamente : “Che schifo, siete tutti uguali. “ Pianto una frenata suicida in mezzo alla strada. La macchina, stupita e offesa per uno sforzo che non avrei dovuto neppure azzardarmi a chiederle, s’impenna sul didietro come furia cavallo del west e poi ricade pesantemente sulle sue ruote posteriori, emettendo dal motore un rantolo mortifero e agghiacciante. Le sue giovani e ipertecnologiche colleghe intanto ci sorano strombazzando, certamente intenzionate a denunziarmi al più presto al telefono azzurro delle Punto.

Sbotto: “Ma guarda te che mi doveva capitare! Ma da quale manicomio sei scappata? Ma per chi mi hai preso? A me non frega un cazzo di venire a letto con te, stronza! Non ti sfiorerei manco con la punta delle dita, guarda. Non sei neppure il mio tipo. E ora scendi. Via ,sciò! Ci sono gli altri mentecatti che t’aspettano. A quest’ora si staranno preoccupando.” Apro la portiera e la spingo fuori dalla macchina. La vedo raggiungere il marciapiede sul lungofiume e poi allontanarsi dalla parte opposta al mio senso di marcia. Riparto come una furia, incazzato nero. Cioè, provo a ripartire, perché la Punto all’inizio non vuole saperne. Dopo due o tre tentativi, finalmente l’invalida si commuove e con le forze residue che le restano cerca di riportarmi a casa. Ne ho conosciute di dementi, ma come questa...Questa le supera tutte: medaglia d’oro olimpica. Dove sarà adesso la scema? E se le capita qualcosa? A quest’ora di notte camminare a piedi per Torino equivale ad una eggiata senza stivali dentro la foresta del Borneo. Speranze di cavarsela non pervenute, come la temperatura di Helsinki all’epoca del colonnello Bernacca. Smoccolo, do una manata allo sterzo e faccio inversione. Il conducente di una Lancia Thema ha qualcosa da ridire sulla moralità di mia madre. Gli agito il medio dal finestrino mentre torno sui miei i. Cammino piano guardando a destra e a sinistra. Niente. Avrà preso il tram, mi dico. Ma quale tram e tram. Non a un cazzo da ore. Già m’immagino la Polizia che viene a cercarmi sul posto di lavoro chiedendomi a che ora l’ho accoppata e perché. Formalità, tanto per riempire i verbali e servire la minestra pronta al PM. Manco l’alibi mi domanderebbero. Già mi vedo trascinato in manette dentro una volante, con la Romilde, la quarantenne sorella zitella di Osvaldo, il mio datore di lavoro, che strepita come un’ ossessa, magrissima come un filetto d’acciuga e brutta come un’insolazione a ferragosto: ”Te l’avevo detto, balengo, pistafum, che questo qui, sto terrone, era un poco di

buono! E meno male che ogni sera mi controllavo l’incasso! Eh, ma te…’Sembra un bravo ragazzo, assumiamolo’. ‘Mbranaaa! Mi poteva violentare, ma ci pensi?” Ma chi ? A quella? Meglio l’onanismo a vita… Eccola là! Sta affacciata sul parapetto a guardare il fiume sottostante. Mica vorrà buttarsi di sotto? Fa un freddo boia, anche se ha smesso di piovere. Fermo la macchina dal lato opposto della strada e mi accendo una sigaretta. Ci sono due tizi che l’hanno puntata. Li osservo mentre le si avvicinano confabulando tra loro. L’avranno scambiata per una drogata o una prostituta. Ecco qua,ci siamo. Più cerchi di tenere i casini lontani da te, più loro si divertono a farti le improvvisate. Stasera una coltellata non me la toglie nessuno. Bene che vada, una indigestione di calci e cazzotti. Danno l’impressione di essere abbastanza robusti i due testa di cazzo. Però hanno pure qualcosa di familiare, sarà forse l’abbigliamento da “urban cowboys.” Uno dei due tracanna qualcosa da una bottiglia e ride mentre l’altro ha iniziato a infastidire Lidia con proposte che immagino turberebbero parecchio la buonanima di nonna Adele. Saranno tutti e due ubriachi fradici, cosa che complica non poco le cose. Ma tant’è, ormai sono rassegnato a godere per lungo tempo dell’ospitalità dell’hotel Molinette. Il nosocomio intendo, non il carcere. Scendo, attraverso la strada e mi avvicino a larghe falcate al trio . Lidia mi sembra sempre più infastidita e spaventata. Si guarda attorno nervosa, probabilmente nella inutile ricerca di qualche divisa, fosse pure quella di un metronotte. Avvicinandomi, comincio a rilassarmi e lascio cadere nella tasca il cacciavite che, per precauzione, avevo prelevato dal cassetto del cruscotto: i due dongiovanni da strapazzo sono quegli imbecilli di Mirko e Slobodan. Guarda un po’ com’è piccolo il mondo. “Luca, fratelo! Vieni qua, abraciame” mi dice il secondo, che pare un filino meno sbronzo dell’altro. Mirko, impegnato fino a quel momento nell’assedio alla virtù di Lidia, si volta verso di me: “Olà, Luca. Vieni che te presento un’amica…” Barcolla paurosamente, ha un alito che ammazzerebbe un Tyrex e per poco non mi cade addosso.

Ci vado giù duro: “Toglietevi subito dai coglioni e lasciate in pace questa ragazza.” Si guardano in faccia perplessi e mi lanciano un’occhiata offesa. Temo per un attimo che la loro indole teppistica abbia il sopravvento sulla paura che possa farli buttare fuori dalla casa e dall’Italia con una semplice telefonata. Con tutto quello che so sul loro conto... Ma non succede nulla. Un’alzata di spalle, un cenno di saluto con la mano e si allontanano. “Oh Dio Luca, che paura!” La Meg Ryan dei poveri si è spaventata sul serio. Si precipita nelle mie braccia frignando (stasera, se fossero finite tutte nel Po, con le sue lacrime avremmo rischiato l’esondazione) e stringendomi forte. “Su su, dai. E’ tutto finito. Erano solo due cretini, li conosco ”. Avrei potuto far la parte dell’eroe senza macchia e paura, il S. Giorgio che accorre a liberare dal drago cattivo l’inerme fanciulla, ma francamente non mi andava di raccontare stronzate. Ne avevo raccontate già troppe nella mia vita e forse è per questo motivo che da tempo vado in bianco con le ragazze. Le donne oggi hanno un misterioso sistema di comunicazione tra loro, una sorta di memoria condivisa: qualcosa che galleggia nell’etere come le onde radio e le informa in tempo sulla natura balorda o meno delle nuove conoscenze maschili . Prese per i fondelli le prime cinque o sei, puoi star sicuro che le tutte le altre ti riconosceranno al volo o quasi. Ricomincia a piovere, le metto il mio giubbotto sopra la testa e la faccio rientrare in macchina. Propongo di fermarci a prendere qualcosa di caldo. ”Così ti tiri un po’ su”, le dico. “No, portami a casa, ti prego.” Per strada, non posso fare a meno di riprendere il discorso interrotto un’ora prima. “Senti, ti chiedo scusa per la mia reazione. Ma mi hai fatto proprio arrabbiare. Io cerco solo una sistemazione migliore, tutto qui. Non c’era bisogno che mettessi quella stupida clausola.” “Hai ragione, Luca. Sono davvero un’idiota “ fa lei tirando su col naso “Non so

cosa mi è preso. Sarà che in amore ne ho già ate troppe e non voglio più sorprese. Qualche giorno fa ho rivisto in tv un film americano degli anni settanta, Lo stesso giorno, il prossimo anno, e lì m’è venuta l’idea. E’ la storia di un uomo e una donna che fanno l’amore una volta l’anno, sempre lo stesso giorno e nello stesso posto. Sono entrambi sposati e per il resto dell’anno conducono un’esistenza normalissima. Fila tutto liscio fino a quando l’uomo, rimasto vedovo, chiede alla donna di sposarlo...Ecco, mi sono detta: hai visto dove sbagliavi? Meglio così, meglio programmare prima la data, l’orario e la persona, come per la visita dal dentista. Nessun coinvolgimento, nessuna illusione, nessun disinganno. Mentre chiacchieravamo seduti al tavolo, in pizzeria, ho pensato ‘ questo è il tipo giusto. Non mi potrei mai innamorare di uno così’ . “Grazie tante. Secondo me è per la camicia alla John Travolta. Ti ho sorpreso a fissarla, stasera, e avevi la faccia di una appena uscita dallo sciacquone del water” le dico. Scoppia a ridere e si porta una mano alla bocca: “Gesù, è vero, è terribile. Senza offesa. Per non parlare dell’anello ... Ma il tuo modo di vestire non c’ entra niente …E’ che …non so …Poco fa hai detto che non sono il tuo tipo. Be’, potrei dire anch’io la stessa cosa. Ma non mi domandare il perché.” “E tu ad un tizio appena conosciuto che non è nemmeno il tuo tipo vai a proporre per contratto - perdona la volgarità - una trombata al mese? Urge conteggio accurato delle rotelle!” Stavolta non è una risata, è il Niagara delle risate. Isterica all’ultimo stadio, mi dico: a come niente fosse dal dramma alla farsa. Meglio così, però, almeno ha smesso di bagnarmi il sedile. “Hai ragione, che dirti?” replica appena riemerge dal pozzo d’ilarità in cui s’era tuffata” Senti, facciamo finta di nulla. Mo’ mi accompagni a casa e chi si è visto si è visto.” Chissà perché avverto una leggera fitta. Dispiacere? Può darsi, ma per la perduta occasione di abbandonare quella merda di quartiere, quella fetenzia di appartamento e quella schifezza di coinquilini. ‘Sei sicuro, Luca, che sia solo per quello?’ domando a me stesso.

‘No, cazzone che non sei altro, lo sai che non è solo per quello’ è la sua sorprendente risposta. ‘Ma che vai a pensare, idiota, lo sai che a me piacciono le stangone con minimo la quarta di reggiseno e un paio di gambe che ci vuole l’ascensore…’ replico piccato. ‘E io ti dico invece che questa tappa qua ti piace. Ti conosco troppo bene’ controreplica l’ologramma. ‘Ma allora sei proprio cretino, guarda. Basta, non voglio più discutere con te, torna nella scatola e restaci fino a nuovo ordine…’ ‘Aaaha…ho fatto centro, allora. Lo sapevo. Chiedile il numero di cellulare, prima che sia troppo tardi.’ ‘Ma che male ho fatto per avere per coscienza uno come te?!!!’ “Luca, ti sei ammattito? Ma con chi stai parlando? E’ da tre isolati che ti dico di fermarti, sono arrivata.” Leggo sul viso di Lidia una sincera inquietudine per il mio stato di salute mentale. Le parti si sono invertite. Stai a vedere che ora il pazzo sono io. D’altronde, me la sono andata a cercare. Rosso come un peperone dalla vergogna, accosto rapidamente cercando con gli occhi uno slargo o un incrocio per l’inversione di marcia. “Non c’è bisogno, Luca. Questa è una strada abbastanza tranquilla. Torno indietro a piedi” mi fa lei. “Ti controllo dallo specchietto retrovisore, allora.” “Ok, il mio palazzo è quello con la facciata ocra. Be’, allora ciao.” E mi stampa un bacetto sulla guancia. Scendo dal posto di guida e corro ad aprirle la portiera, non tanto per cavalleria quanto per paura che, non essendo pratica di malati terminali a motore, se la apre lei c’è il rischio che lo sportello le resti in mano.

‘Ma che fai, la lasci andare così? Sbrigati, che si sta già allontanando. Come la ritrovi? In quel condominio ci saranno come minimo sessanta appartamenti. Manco sai come si chiama di cognome.’ Non s’arrende, il testina. Mi arrendo io:’E va bene, basta che la smetti di starnazzare e ti togli una buona volta dai piedi.’ “Lidia!” le urlo “Lidia fermati!” “Sì? Che c’è?” La raggiungo: “Ci siamo dimenticati di scambiarci i numeri di cellulare… Sempre che tu voglia darmi il tuo, s’intende.” Ci fissiamo per qualche secondo, io con l’espressione più ebete che riesco a confezionare, lei mordicchiandosi un labbro. Begli occhi però, non ci avevo fatto caso: non si capisce dove il castano chiaro, colore prevalente, lasci il posto al verde e la mistura risulta comunque gradevolissima. Ma mica bastano gli occhi. Poi mi sorride. Niente da dire, gran bel sorriso: denti regolari, né troppo piccoli né troppo grandi. Ma mica basta il sorriso. Poi si alza sulla punta delle scarpe, avvicina le sue labbra alle mie e mi bacia. Non c’è dubbio, bacia bene. Ma mica basta saper ba…ma vaffanculo, va’. Mentre siamo ancora allacciati l’uno all’altra penso:

1. che invecchiando i miei criteri di giudizio in fatto di donne si sono rammolliti: van bene tutte; 2. che probabilmente è solo una conseguenza dell’astinenza e la Meg Rayan bonsai per adesso mi pare Marilyn; 3. che quello stronzo dell’alter ha ragione e vuoi vedere che, a mia insaputa, questa qua mi piace davvero?; 4. che se l’ipotesi tre è corretta, e Dio non voglia lo sia, qualcosa mi dice che sto per ficcarmi in un guaio più grosso di quello scoppiato a Chinatown. Massì, vivendo vedendo. Intanto credo che inoltrerò una richiesta di sostituzione immediata all’Ordine nazionale degli alter ego.

La lanterna

Cap. I. La lanterna. La cosa che mi colpì più d'ogni altra fu ritrovare la lanterna. Stava ancora lì, sopra il negozio di Rosario, e pencolava tristemente dal suo sostegno ad ogni alito di vento, come gli impiccati della ballata di Villon. Rammentavo che da piccolo mi divertivo a tirarle i sassi insieme alle bande di monelli della strada, ma non riuscivo mai a centrarla: colpivo solo le sue parti in ferro, senza neppure sfiorarne i vetri. Gli altri mi schernivano per questo ed il atempo da teppistelli si tramutava spesso in una rissa collettiva. Fino all'arrivo di Salvatore Barreca, detto don Totò "a vardia ", la guardia municipale, che, richiamato dalle grida del vicinato, puntualmente accorreva dalla piazza per mettere fine alla gazzarra. Povero don Totò, nel silenzio della strada illuminata fiocamente dalle prime luci del mattino mi sembrò di vederlo spuntare da un momento all'altro, con la divisa sbottonata ed il ventre prominente di chi non lesinava sui carboidrati. Teneva cinque bocche da sfamare ed una moglie bisbetica che gli allietava le serate a casa. Durante il giorno di lui si occupava, invece, il sindaco, con sonore "cazziate" che risvegliavano l'attenzione di tutti entro i trecento metri dalla casa comunale. Fino a quando, stanco per la sua scarsa marzialità e la colpevole tolleranza verso le piccole magagne dei cittadini, il prof. Ruggeri, ex ufficiale fascista della milizia e sindaco di .... per vent'anni di fila, oltre alla cazziata gli volle infliggere anche una sanzione disciplinare. Una cosa leggera, un biasimo scritto, ma don Totò, che fino ad allora aveva superato indenne le procelle del suo matrimonio e gli urlacci da tenore del primo cittadino, al colpo non resse: la mattina dopo lo trovarono morto sul limitare del bosco, con in mano la lettera di rimprovero del sindaco. Infarto del miocardio, sentenziò il dott. Sammataro, un termine che suscitò non poche discussioni tra gli astanti, molti dei quali non capirono cosa c'entrasse il cardio del dottore con la morte del vigile. All'improvviso, un gatto attraversò velocemente quel budello serpentiforme,

scendendo a rotta di collo verso piazza dei Mille. Mi riscossi dai miei pensieri e ne seguii con lo sguardo la corsa guizzante, fino a quando l'animale scomparve dietro ad una delle stradelle che si versavano nella via. Infastidito dall'intrusione di quell'unica cosa viva nella calma irreale della strada, mi sedetti sui gradini di una casa disabitata fissando in alto il dondolio della lucerna. Cercai le chiavi dentro la tasca dei pantaloni, le trovai e iniziai a arle da una mano all'altra. Non ero ancora pronto ad entrare. All'arrivo, in piena notte, avevo stentato a riconoscere il paese. La stazione vecchia era ormai in disuso da anni; quella nuova, un parallelepipedo di cemento e plexiglas che vomitava ed inghiottiva continuamente persone e bagagli, non aveva nulla della stazione: al posto della biglietteria c'erano delle macchinette automatiche e la sala d'aspetto era arredata con orrende poltroncine di plastica verde. In alto, appesi ai muri, decine di monitor colorati segnalavano continuamente gli arrivi e le partenze dei treni. La stazione era ancora in piena attività, nonostante l'ora tarda, ed anche questo mi fece sentire un estraneo: ai miei tempi, a quell’ora là dentro restavano solo i ferrovieri di servizio e l'unico treno che si fermasse dopo le 10.00 era il locale per Palermo. Me lo ricordavo bene, perché spesso andavo a appartarmi con Teresa dentro i vagoni merci incustoditi, stando attento a non farmi vedere dal capostazione. Adesso i treni erano molti di più e la stazione serviva anche i eggeri di numerosi centri vicini, essendo rimasta la sola nel raggio di diversi chilometri. Avevo mangiato un pessimo tramezzino e bevuto un caffè insapore nello scintillante bar-pasticceria appena fuori la stazione, prima di incamminarmi a piedi verso il centro. Negli anni della mia adolescenza in quella zona c'erano solo fichi d'india e casali diroccati. Ora una larga strada collegava la stazione con la periferia del paese ed ai suoi lati sorgevano piccole palazzine di cemento armato dai colori sgargianti e dalle forme ardite. La leggerezza dell'unica valigia mi permise di lasciarmi presto alle spalle tutta quella modernità pacchiana ed insolente. Quando i piedi iniziarono a toccare il selciato duro ed irregolare delle vie del centro, quasi inavvertitamente cominciai a rallentare la marcia, fermandomi ad ogni incrocio per richiamare alla memoria strade e persone. Nel dedalo di vie e viuzze che confluivano verso la piazza ripresi a sentirmi a mio agio. Non potevo dire di sentirmi a casa, quel posto non era più casa mia da molti anni ormai, ma di sicuro i rimandi della memoria lì mi aiutavano a sopportare meglio la condizione di reduce senza gloria. In piazza chiusi gli occhi, cercando per un attimo gli odori delle mie estati,

quando la domenica, all'uscita dalla messa, correvo a perdifiato nello spiazzo prospiciente la chiesa matrice, vanamente inseguito dalla mamma, mentre mio padre si attardava a parlare con i conoscenti sulla scalinata d'ingresso, tenendo per mano Carmela. Quando li riaprii, vidi di fronte a me la sagoma inconfondibile della chiesa, imponente in tutta la sua arroganza barocca, ma non mi parve più lo stesso edificio di trent'anni prima. Le avevano rifatto il trucco, la facciata era stata rimessa a nuovo di recente ed un indiscreto giallo ocra aveva sostituito il rassicurante marrone chiaro del vecchio intonaco. Anche la pavimentazione della piazza era stata restaurata ed una teoria ininterrotta di lampioni in stile d'epoca le spandeva tutt'intorno una fastidiosa luce al neon, illuminandola a giorno. La superai risentito, quasi avessero dovuto chiedermi il permesso prima di avviare i lavori. La via degli Speziali, la strada della mia infanzia, sfociava proprio alle spalle della cattedrale, precipitando dall' alto come un torrente in piena impaziente di tuffarsi nel suo lago. Cap.2 Seduto sui gradini della casa paterna, ora sentivo che lentamente le immagini del ato stavano iniziando a rifluire copiose nella mente, assumendo contorni sempre più nitidi. I pochi dagherrotipi sfocati ed anneriti di qualche ora prima, adesso erano diventati una messe di foto a colori difficile da riordinare. Pensai per un momento ai secoli di vita che aveva addosso quella strada: le sue pietre parlavano il castigliano di coloro che le avevano incastonate sull’acciottolato e sui muri delle case con certosina pazienza ed abilità, ed essa avrebbe potuto raccontare molte storie, belle e brutte. Storie come quelle che narrava la nonna, quando nelle sere d'inverno mi sedevo accanto a lei. Donna Assunta, la madre di mio padre, magra, piccola e dura come il legno d'ulivo essiccato, all'imbrunire, finite le faccende domestiche, si sedeva nella poltrona del salotto, ai piedi l'immancabile braciere di rame, e mi chiamava a sé. Lasciavo volentieri i miei giochi, perché sapevo che la nonna avrebbe raccontato le storie della guerra tra Garibaldi ed il re di Napoli. Una guerra di cui la vecchia non conosceva altro che le leggende fiorite attorno ad una battaglia combattutasi in un pianoro non lontano dal paese. Una scaramuccia di poco conto, ma che nell'immaginario popolare era diventata più importante di Waterloo, con

contorno di grandi gesta eroiche, fantasmi irrequieti e tesori nascosti. Spesso donna Assunta ripeteva episodi già raccontati, senza rendersene conto, ma a me piacevano lo stesso, così si fissavano meglio nella mia mente di bambino. Come la storia di Nino Bixio e della Marianna, un,antenata della nonna: nei giorni dell'invasione delle camicie rosse, la Marianna, all'epoca appena diciottenne, aveva offerto un fazzoletto ricamato di lino al luogotenente di Garibaldi, affinché si tergesse il sudore. Lui, il Bixio, in quel momento stava attraversando a cavallo il paese insieme a Peppino e a tutti gli altri, diretto a Milazzo per affrontare le ultime difese borboniche e completare la conquista dell'isola. Giunti al centro della piazza- diceva la nonna - il colonnello Bixio fermò la cavalcatura, si abbassò verso la ragazza per prenderne il dono e le sorrise. Allora Marianna scappò via vergognosa, inutilmente trattenuta dal padre, fervente ammiratore dell'eroe dei due mondi. A questo punto donna Assunta si fermava e con una espressione misteriosa nel viso riprendeva il lavoro al tombolo, senza dire più nulla. Inutile chiederle di proseguire. Solo molti anni più tardi seppi che Marianna e la nonna avevano avuto qualcosa in comune nella loro vita: il saluto di un soldato in partenza. Un fiero garibaldino la prima, un sottotenente di complemento la seconda. Si chiamava Michele Russo, era figlio del notaio Russo e rampollo di una delle famiglie più in vista del paese. La mitraglia austriaca lo abbatté sull'altopiano di Asiago in una fredda mattina del 1916. Chi, invece, sapeva e raccontava storie ancora più belle di quelle della nonna (storie da seguire con attenzione, senza perdere neanche una battuta) era il maestro Egidio Lamanna. Nelle giornate di primavera, il maestro ci portava a fare lunghe eggiate in campagna o in giro per le calli del centro storico. Per rendere meno sgradite queste scarpinate sotto il sole ed evitare che trenta ragazzini di dieci anni cominciassero presto a dar segni d'insofferenza, il maestro mitigava le fatiche della marcia parlandoci dei Vespri Siciliani, di Federico II e dei suoi figli sfortunati, della regina Giovanna e della controversia liparitana. Bastava che dicesse "ora statemi a sentire", che immediatamente cessavano tutte le risate, i gridolini, i dispetti reciproci e le birichinate di quella torma vociante di alunni. Erano lezioni di storia molto originali, che il Lamanna infarciva di un'enfasi da poema cavalleresco e che non rispettavano affatto la realtà degli avvenimenti, perché il maestro ambientava tutte quelle vicende nel nostro paese,

conferendogli così una importanza che non aveva mai avuto: i fatti erano realmente avvenuti, ma con quei fatti i vicoli del centro ed i modesti palazzi della piccola nobiltà locale non avevano mai avuto nulla da spartire. Era sempre stata un'umile borgata di agricoltori e piccoli artigiani, che la grande storia si era appena degnata di sfiorare solo in due o tre occasioni. Il preside si arrabbiava parecchio per questo modo così poco ortodosso di narrare la storia patria, minacciando il Lamanna di segnalarlo al Provveditore. A noi, però, la faccenda ci riempiva d'orgoglio (malgrado il sospetto che la regina Giovanna lì non avesse mai messo piede) e ci faceva apprezzare angoli del paese che altrimenti non avremmo stimato di uno sguardo. Al Lamanna, poi, importava poco di critiche e ramanzine: diceva che le date, gli eventi ed i personaggi erano riportati in maniera corretta, cambiava solo lo scenario. In futuro sarebbe bastato rimuoverlo, come in palcoscenico. Tra l'altro, alle diversità di vedute con colleghi e superiori c'era abituato: aveva partecipato alla lotta di liberazione nel cuneese, partigiano nelle Brigate Matteotti. Si trovava di stanza col suo reggimento ad Alba il giorno dell'armistizio e preferì restare lassù a combattere contro i tedeschi, invece di provare a tornare a casa come molti suoi commilitoni. Ma ciò, lungi dal procurargli notorietà e rispetto nel paese natio, lo rese inviso alle autorità locali, visto che le cariche pubbliche allora erano occupate quasi tutte da ex simpatizzanti del vecchio regime, prontamente riciclatisi dopo lo sbarco degli alleati. Eppure avrebbe potuto ugualmente terminare in modo tranquillo la sua onesta carriera di insegnante elementare se in un giorno piovoso dell'autunno del 1960 non fosse caduto nel spire di Amalia Belfiore. La moglie dell'ingegnere Belfiore era una catanese bruna e procace, ben nota all'ombra dell'Etna per la cattiva abitudine (per il marito) di non sapersi accontentare del talamo familiare. Anche il consorte, comunque, non si faceva mancare i diversivi, finché un brutto giorno ebbe la pessima idea di trasferire famiglia e attività al paese d'origine della madre. La donna, morendo, gli aveva lasciato case e terreni a condizione, però, che se ne occue personalmente. E così l'ingegnere aveva fatto il grande o, portando con sé l'inquieta moglie ed una bambina di pochi anni. Amalia per un po' si guardò intorno, divorata con gli occhi da tutti gli uomini del posto nelle rare volte che usciva di casa, poi decise che quel simpatico maestro quarantenne, che vedeva are ogni mattina dalle sue finestre diretto a scuola, meritasse da lei qualcosa di più del semplice cenno di saluto che gli rivolgeva con sussiego.

Lo scandalo fu enorme. Amalia scoprì sulla propria pelle la notevole differenza che correva tra una città evoluta e smaliziata e un piccolo centro di provincia di poche migliaia di anime. Il maestro dovette chiedere il trasferimento; l'ingegnere e la sua famiglia ritornarono precipitosamente a Catania. La moralità del paese era salva e don Silvestre, il parroco della matrice, la domenica dopo la partenza dei reprobi poté dire con sollievo che il demonio ed i suoi accoliti avevano lasciato per sempre quelle terre, scacciati dalla fede e dalla rettitudine dei suoi abitanti. Cap. 3 Chissà! Riuscivo a ricordare fin nei dettagli episodi accaduti a persone estranee, a parte la nonna, e non riuscivo a ricordare i volti dei miei familiari. La sera, in prigione, quando si chiudevano le luci e nell'aria restavano solo i lamenti e le bestemmie di un'altra giornata da belve in gabbia, tentavo disperatamente di ricostruirne i visi ed i gesti. Ma, per quanti sforzi fi, tutto ciò che mi appariva erano soltanto dei profili indistinti, dei simulacri acefali, senza nome e senza storia. Neppure adesso, seduto sulla soglia di una casa che era stata mia per tanti anni, la memoria riannodava i fili spezzati, restituendomi quella parte di vita che stava chiusa oltre il portone alle mie spalle. Forse per questo non mi decidevo ad entrare, per la paura che tutto quello che c'era lì dentro potesse riaffiorare nel mio cervello troppo velocemente, senza darmi il tempo di controllarlo, catalogarlo e poi osservarlo col distacco di chi guarda un film già visto. Da una finestra del palazzo di fronte si affacciò un uomo di mezza età, con in mano una tazza di caffè. Mi guardò sospettoso, ma non fece domande e rientrò in casa. La sua fugace apparizione mi mise di buon umore: cominciavo a sentirmi dentro un quadro di De Chirico, unico essere umano tra le muse inquietanti di una notte barocca, e l'improvvisa comparsa di quel tizio in canottiera mi tranquillizzò. A farci caso, però, si iniziavano già a sentire i primi rumori del nuovo giorno. Erano appena ate le sei e dalle strade adiacenti e dalla piazza sottostante si avvertiva lo scalpiccio di i nervosi e i motori delle prime automobili. Non lì, però, non nella via degli speziali. La strada era ancora del tutto silenziosa, come se per un arcano sortilegio ogni forma di vita si volesse astenere dall'interferire con le mie meditazioni, aspettando ansiosa che mi decidessi ad entrare o ad

andare via. Trovai strano tutto ciò, anche se sapevo che le case del centro storico erano ormai per lo più abbandonate. Possibile che proprio quella fosse la via più desolata di tutte, a parte il misterioso residente di qualche minuto prima? Eppure, ripensandoci, il suo viso aveva un che di conosciuto. Ma chi poteva essere? Mi sforzai di ricordare chi abitasse in quella casa trenta anni prima. Ma certo…no, non era possibile… oggi dovrebbe avere oltre ottant'anni e l'uomo che era apparso dalla finestra non ne dimostrava più di cinquanta. Ettore Scuderi, il carabiniere. Baffo nero da gendarme umbertino, capelli imbrillantinati e pettinati all'indietro, naso adunco. Aveva figli maschi, lo Scuderi? No, aveva due figlie femmine, all'epoca ancora molto piccole. E allora? Proprio in quel momento, dal portone della casa di fronte uscì un milite vestito di tutto punto, giberna compresa. Mi guardò intensamente senza dire una parola, poi s'incamminò veloce verso la piazza. Dio mio… Mi alzai di scatto ed abbandonai per un attimo la via degli Speziali, per una rapida puntata nella strada parallela: c'era gente vestita con abiti moderni e macchine di ultimo tipo parcheggiate sopra il marciapiede. Strano, quella vista avrebbe dovuto rasserenarmi, invece mi fece provare un inspiegabile senso di delusione. Ritornai veloce sui miei i. Proprio davanti casa mia, sotto il fanale ballerino che ben conoscevo, qualcuno aveva alzato la saracinesca di un negozio. Una volta era il negozio del padre di Rosario Scirè, un mio carissimo amico d'infanzia. Un negozio di elettrodomestici. Era ancora un negozio di elettrodomestici, ma esponeva merce piuttosto datata, a giudicare dalla vetrina. E non si vedeva traccia del titolare. Stavo dentro un incubo o i tanti anni di lontananza e di attesa avevano creato una patina di delirio nella mia mente? La strada mi appariva identica a come l'avevo lasciata tanti anni prima, attorniato dai carabinieri e con le manette ai polsi. Cose e persone erano rimaste intatte, o almeno così credevo di vederle. Rabbrividii al pensiero di quello che mi poteva riservare l'interno della casa.

La via adesso cominciava ad animarsi. Immobile davanti all'ingresso del negozio, assistetti attonito ad una sfilata silenziosa e grottesca di conoscenti e vicini di casa (stupito, tra l'altro, di ricordarne perfettamente l'identità), abbigliati secondo la moda di allora: Santino Busacca, il farmacista; la vedova Martino con i tre figli; la professoressa Nasca ed il marito, generale dell'esercito in pensione; Lillo, Angelo e Filippo, tre compagni degli anni del liceo; Elena Campisi, una lontana cugina, la mia prima ragazza; Benedetto, il figlio minore di Pino Quattrocchi, il meccanico. Salivano e scendevano lungo il marciapiede e andomi accanto mi lanciavano brevi occhiate inespressive, per poi riprendere il loro cammino. Lessi, però, anche una muta condanna nei loro sguardi ed avrei voluto urlargli addosso che le cose non erano andate come gli avevano fatto credere, che non ero l'immondo parricida descritto dai giornali e mio padre non era il genitore amorevole descritto dalla pubblica accusa al processo. Non feci nulla, invece: le parole mi rimasero in gola e l'unica cosa che desiderai fu di vedere finire al più presto quel lugubre corteo di fantasmi. Poi la vidi, stava ferma sul lato opposto del marciapiede, in alto, quasi alla fine della strada, accanto all'edicola votiva della Madonna del Rosario. Era vestita con una maglietta azzurra che le avevo regalato per un suo compleanno ed un paio di jeans sdruciti che conoscevo bene. A tracolla portava la solita sacca di tela grezza, con tutte le sue cianfrusaglie. I lunghi capelli ricci e neri, gli occhi grandi e mesti. Sembrava sorpresa ed adirata allo stesso tempo, ma anche lei mi fissava senza parlare. Lo so, Teresa, cosa vorresti dirmi. Vorresti chiedermi se n’è valsa la pena. Se tutto quello che è successo si poteva evitare. Se si poteva fare qualcosa per impedire che ci rovinassimo il futuro. No, Teresa, non si poteva. Tu non lo puoi sapere, tu sei nata e cresciuta in una tranquilla famiglia di impiegati. Non hai amato e non hai odiato i tuoi genitori, semplicemente perché tuo padre e tua madre non hanno mai fatto nulla per farsi amare o odiare. Si sono accontentati di farsi soltanto voler bene. A te è toccata in sorte una famiglia semplice, capace di emozioni semplici. A me no, Teresa: a me è toccato esser figlio di un genio. Di un genio e della sua serva. Un genio marcio, che sapeva nascondere il suo putridume al giudizio implacabile degli altri e della loro morale, per disvelarlo senza freni dentro le mura domestiche. Non sono pentito di averlo ucciso, Teresa, se è questo che mi chiedi. Non sono pentito di aver liberato la mia esistenza dal ribrezzo di vivere ogni giorno accanto a lui. Neppure per lei sono pentito Teresa: ho fatto quello che andava

fatto. Lei ha sempre visto e sempre accettato. Colpevole anche lei, Teresa: colpevole di essersi convertita al culto di qualcuno che non meritava tanta devozione. Complice silente di un mostro di infamia e scelleratezza. Lo rifarei di nuovo, Teresa. Cap. 4 Non potevo più stare lì, avevo bisogno di cambiare aria, di allontanarmi dall'odore mefitico del mio ato. Scesi lungo la strada senza voltarmi più, lo sguardo spento di Teresa appuntato sulla schiena (lo sentivo, lo potevo percepire) e mille occhi conosciuti ed ostili che mi ferivano al aggio. Mi misi a correre, come il gatto di qualche ora prima, e raggiunsi in pochi minuti la piazza. Respirai profondamente, andandomi a sedere in una delle panchine in ferro battuto poste sul lato destro della chiesa, attorno alla cancellata della piccola villa comunale e sotto l'ombrello dei suoi platani secolari. Il sole era ancora basso e l'aria sapeva ancora dei profumi della notte. Più tardi sarebbe stata un'altra giornata di polvere e sudore, come è regola in quel periodo dell'anno. Le campane della chiesa cominciarono a suonare, per annunziare alla gente la messa delle 6,30, e alcuni anziani iniziarono la quotidiana ascesa della superba scalinata, le borsette consunte strette al braccio le donne, 1’irrinunciabile bordone scuro e nocchiuto gli uomini. Arrancavano a fatica, con i malcerti, ma raggiunsero tutti, come sempre, l'ingresso del luogo di culto, convinti che solo l’ ostinata ripetitività di quel frusto cerimoniale avrebbe garantito la salvezza delle loro anime. Potevo andarmene, nessuno mi aveva riconosciuto e nessuno si sarebbe accorto della mia partenza. Gli spettri di poco prima non contavano. Mai come in momento mi pentii di aver ricomprato la casa. Dopo la grazia, avevo venduto molto bene alcuni quadri dipinti in cella. Io per primo non avrei speso un quarto della somma ricevuta per il meno caro di essi, ma tant'è …Ad alcuni apionati di arte moderna erano piaciuti parecchio. Coi soldi ricevuti decisi di riprendermi la casa paterna, ceduta da mia sorella ad un assicuratore di Enna. Fu più facile del previsto: il proprietario ci andava ormai di rado ed accettò subito la mia proposta di acquisto.

Costò meno di quanto mi aspettassi. Costò molto di più decidersi di andarla a visitare. E tirare fuori dal buio di un vecchio raccoglitore i ritagli di giornale che parlavano di me. Era stato il delitto dell'anno. Anzi, i delitti. La vicenda dei due genitori uccisi in casa a rivoltellate dal figlio ventenne per un raptus di follia o, peggio, per biechi motivi d'interesse, solleticò parecchio l'attenzione giornali e della televisione dell'epoca, avidi come sempre di storie efferate con cui riempire le pagine di cronaca ed i notiziari. La relativa notorietà dell'uomo, poi, aumentò a dismisura la morbosa curiosità dell'opinione pubblica. Guido, mio padre, era uno stimato avvocato penalista nonché deputato regionale del partito di maggioranza. Mia madre Isabella una casalinga benestante ed annoiata. Le congetture sul movente si sprecarono, alcuni arrivarono persino ad ipotizzare il delitto politico, commissionato da alcuni rivali di partito al figlio mentalmente instabile. Io tacevo, e continuai a farlo per tutta la durata del processo . Ed anche dopo. Quel giorno di settembre non ero né pazzo, né voglioso di mettere le mani anzitempo sulle ricchezze di famiglia. Non avevo mai amato mio padre, conoscendone bene i lati oscuri: l'arrivismo, l'indole violenta, la crudeltà. Anche sull'origine del suo benessere nutrivo da tempo dubbi laceranti: i soldi in casa erano arrivati dopo la morte della nonna, uccisa da un medicinale scaduto, ingerito per errore. Si parlò di fatalità, imputando il decesso alla disattenzione della vecchia, incapace ormai di badare a sé stessa. Ma pochi giorni addietro le avevo dato io stesso quella medicina, controllandone prima la scadenza. Poi mi dissi che forse nell'armadietto la nonna conservava più di una scatola di quella roba per il fegato. E tenni i dubbi per me, senza mai riuscire a fugarli del tutto Anche fuori dalla famiglia ci fu, poi, chi ebbe modo di conoscere la profonda perfidia di mio padre: il maestro e Amalia Belfiore. Nessuno poteva sapere della loro relazione a parte mio padre, legale del marito di lei. Non gli ci volle molto ad interpretare certi sguardi che si lanciavano i due quando s'incrociavano per la strada. Era un buon osservatore, capace di registrare tutto quello che gli accadeva attorno, stivarlo nei suoi silos mentali e tirarlo fuori al momento opportuno. Andò così anche con Amalia ed Egidio. Volete altro? E sì, certo che volete altro: la morte dei genitori per mano di un figlio è un crimine orrendo, il più orrendo che si possa immaginare. E 1'orrore che genera negli altri può essere attenuato soltanto da un orrore uguale e contrario. Come quello suscitato da un padre che insidia la propria figlia…

Cap. 5 Dietro le persiane di legno dalla vernice scrostata, Carmela scrutava ansiosa il lato opposto della strada sperando di vederlo ritornare. Ma vide solo la vecchia lanterna, unica superstite di quello che era stato il primo sistema di illuminazione pubblica del paese, ed il negozio di telefonini di sua figlia. Aveva dormito male quella notte, distesa sul vecchio sofà del salotto. Si era alzata alle sei del mattino, un caffè amaro per far svanire l'intorpidimento ed il mal di testa e un libro per ingannare l'attesa. Poi si era affacciata un momento alla finestra e l'aveva visto. Stava giù in strada e guardava nervosamente a destra ed a manca, come se si sentisse circondato da una folla minacciosa. Carmela non riuscì a trattenere le lacrime: aveva sperato di non dover leggere nei suoi occhi il tarlo della follia, ma quel comportamento smentiva la diagnosi ottimistica dei medici che lo avevano in cura da tanti anni. Paolo non era ancora pronto a tornare ad una esistenza normale, forse non lo sarebbe mai stato. Ripensò a quei giorni, mentre il fratello spariva dalla sua prospettiva scendendo velocemente verso la piazza: l'assassinio dei genitori, per mano di criminali non furono mai trovati ed a causa, forse, degli atteggiamenti intransigenti del padre nella sua attività di politico; il ritorno a casa dalla scuola; la vista di Paolo fermo davanti ai corpi ancora caldi, gli occhi fissi alla lanterna del palazzo di fronte, che lo scirocco gentile di settembre faceva ondeggiare pigramente davanti alla finestra aperta. Lo stupore, le urla, il dolore. E poi ambulanze, polizia, gente. Il dramma accelerò la caduta di Paolo negli abissi della demenza. Si convinse di essere stato lui l'autore dei delitti. Arrivò a dire di averlo fatto per vendicare le morbose attenzioni che, secondo lui, il padre le dedicava senza ritegno. Lo accusava perfino della morte della nonna… Una sconfinata ammirazione si era già da tempo corrotta in un odio incomprensibile: il senso di inadeguatezza riscattato con la competizione; la naturale severità del genitore scambiata per disprezzo, il tenero affetto verso la figlia per ione incestuosa. Da quel momento in poi iniziò a costruire attorno a sé un mondo parallelo, totalmente scollato dalla realtà che lo circondava. Si allontanò dalla finestra, entrò nel bagno e davanti allo specchio colse sul suo viso una traccia di intima soddisfazione: la tutela di Paolo non sarebbe stata

rimessa in discussione per molto tempo ancora. La sua e quella di tutti i suoi beni.

L'amico di famiglia

Ma che sta facendo? Proprio ora che cominciavo a prendere sonno. Ma l’ha visto che ore sono? Ehi, rimbambito, sono quasi le due. Alla tua età le persone dormono già profondamente da almeno tre ore. Ha aperto il frigo. Ha preso la bottiglia del latte e ci sta versando qualcosa. Ci risiamo. Hanno ricominciato. Sta preparando qualche scherzetto a Matilde per domattina. In casa il latte lo beve solo lei. Ecco, ora ha spento la luce della cucina e sta tornando a nanna. Si spera. Che ci avrà messo dentro? Qualche lassativo, sicuramente. Perché la gente si sposa se poi, dopo trent’ anni di matrimonio, deve ridursi così? Questi due prima o poi la combineranno grossa. Quando sono arrivato in casa io, ancora si davano i bacetti. Ma già un paio d’anni dopo se ne dicevano di tutti i colori. Le meno scabrose erano cerebroleso e megera. Cosa sia accaduto tra di loro nel frattempo non lo so. So soltanto che da allora non a giorno che non ne escogitino qualcuna per danneggiarsi a vicenda. Scenate no, non ne fanno più. Dopo che i vicini hanno chiamato una volta i carabinieri, hanno tacitamente deciso di non litigare più e di are ai fatti. All’inizio erano piccoli dispetti, robetta da niente. Che so, lei gli faceva sparire lo spazzolino o gli stirava male le camicie mentre lui le disprezzava la cena o la canzonava per una nuova acconciatura. La faccenda ha iniziato a farsi seria quando i due figli, ormai adulti, sono andati via di casa. All’epoca, cinque anni fa, erano tutti e due sui sessanta ma lavoravano ancora. Tempo per rompersi le scatole a vicenda non ne avevano poi molto, insomma. Subito dopo, però, sono andati quasi contemporaneamente in pensione e lì sono cominciati i dolori. Porte sbattute mentre lui fa il riposino pomeridiano, caldaia chiusa mentre lei fa la doccia, cera spalmata sul pavimento senza preavvisare (quella volta Tommaso non è finito all’ospedale per un pelo), armadio svuotato e vestiti dati alla Caritas all’insaputa della loro proprietaria. Per non parlare della collezione di pupazzetti in cristallo di Boemia a cui lei teneva tanto, finita in frantumi una domenica di febbraio dell’anno scorso, o del

computer portatile di lui, rotto a martellate in cortile mentre “il cerebroleso” stava al bar con gli amici. La cosa più singolare di questa guerra senza esclusione di colpi è che nessuno dei due mostra mai la minima reazione di fronte alle prodezze dell’altro. E’ come se stessero giocando una infinita partita a biliardo: quando uno dei due manda le bocce in buca, l’altro si limita ad aggiornare il punteggio e a studiare la prossima mossa. Vi chiederete perché mi preoccupo tanto, considerato che fortunatamente pistole e coltelli ancora in giro non se ne vedono. Perché voglio bene a tutti e due, che diamine. Mi hanno sempre trattato bene e non mi hanno mai fatto mancare nulla. In casa mi ha portato il loro figlio più piccolo, Achille, che mi trovò sul ciglio di una strada mente tornava a piedi da scuola, ma i suoi genitori si affezionarono a me molto più di lui, che dopo non mi ha mai degnato di uno sguardo. E poi lo faccio anche nel mio interesse, che credete. Se continuano di questo o, finiranno per trascurarmi ed io sarò costretto a cercare un’altra casa ed altri padroni. Guarda, guarda… Qualche goccia di latte è caduta a terra mentre riponeva la bottiglia in frigo. Se non sapessi che quel vecchio scimunito ci ha versato qualcosa di poco simpatico, mi precipiterei a leccarle. Però un’annusatina voglio dargliela lo stesso. Porco cane…Mandorle amare. O mamma mia, quello stavolta fa sul serio. C’è un veleno che odora così, l’ho sentito dire una volta alla televisione. Ma è impazzito? Matilde non ci farà caso sicuramente, soffre sempre di rinite in questo periodo. Devo avvertirla. E come? Salgo sul letto e la sveglio a miagolate? Mi mollerebbe una pedata e ricomincerebbe a dormire. O mamma mia, padrona morta e padrone in galera. No, devo fare qualcosa. Devo aprire questo cavolo di frigorifero e far cadere la bottiglia a terra. E’ una di quelle di vetro. Come dite? E’ impossibile che ci riesca? Tzè…voi non immaginate neanche di cosa sia capace un gatto quando deve salvare cuccia e croccantini.

L'odore della paura

1.Angelo Matranga odiava il servizio al centralino. Sei ore ate dentro un gabbiotto con l’unica compagnia di un piccolo televisore in bianco e nero e l’unico conforto di qualche collega caritatevole che ogni tanto gli lasciava un saluto ed un caffè. Aveva fatto di tutto per essere già fuori, alla sua età, da quella divisa e da quella vita, ma le cose non stavano andando come aveva sperato. La laurea in architettura si era arenata sullo scoglio di un professore troppo esigente, allontanando per ora, insieme al titolo, anche il sospirato ingaggio presso uno degli studi più importanti di Palermo. Ma Angelo era un tipo coscienzioso, ligio al proprio dovere, malgrado non avesse amato quel lavoro fin dall’inizio. Mai un richiamo, mai una insofferenza. Sempre il primo a salire sulla volante e l’ultimo a scendere. Sempre il primo a relazionare a fine turno, picchiettando sulla tastiera del vecchio celeron 400, mentre gli altri colleghi di pattuglia già davano l’assalto alle docce. L’Ispettore Superiore Zanetti, il responsabile dei servizi di controllo del territorio, non faceva che lodarne l’efficienza e la serietà. Avesse saputo la voglia matta di fuga che gli covava dentro, sicuramente non avrebbe sprecato tanto fiato per encomiarlo sperticatamente di fronte a Veneziani. Quest’ultimo, dal canto suo, non si faceva mai condizionare dai giudizi che gli ispettori esprimevano sul resto del personale. Preferiva appurare certe cose di persona, studiando accuratamente i soggetti. Ma su Matranga condivideva appieno la loro opinione. Angelo Matranga capì subito che quella telefonata segnalava qualcosa di grave.

2.“Si spieghi meglio,Matranga: la ragazza ha detto che tipo di pericolo la minacciava?” “No, dottore: ha detto soltanto “sono qui,sono dentro”. A bassa voce, come se

non volesse farsi sentire . Il tono era angosciato. Poi ha interrotto la telefonata.” “Qui le chiamate vengono ?” “Sì dottore, ma per ora la strumentazione è guasta…..” “Il numero compare nella memoria del telefono?” “No dottore, è un apparecchio….ehm…un po’ datato.” Bene, pensò Veneziani,attrezzature all’avanguardia. Come al solito. Il guaio era che quella telefonata presentava tutte le caratteristiche per potersi accreditare come la prima rogna della sua gestione. Doveva arrivare, prima o poi. Sostituiva da una settimana il dirigente di un piccolo Commissariato alla periferia di Milano. Una zona tranquilla,tutto sommato, abitata da impiegati e piccoli commercianti: qualche scippo, pochi furti in appartamento. Rapine col contagocce, tasso di prostituzione nella media. Nulla più.. Il merito di quella relativa tranquillità non era, però, dell’ufficio di Veneziani ( un buco con pochissimo personale e 2 sole autovetture, risalenti all’epoca del Regio Corpo Guardie di PS) : in quel quartiere sorgeva anche una grossa caserma della Legione Carabinieri di Milano, con decine di effettivi ed un parco macchine di prim’ordine….. Lui, invece, a quell’ora della notte aveva a disposizione soltanto i due operatori dell’unica volante e il centralinista. Avrebbe potuto far saltare dal letto il resto del personale, ma per mandarlo dove? “Matranga, che ne pensa?” “Dottore, secondo me è in atto un’aggressione. Ma se non sappiamo dove….” “ Ha ragione, Angelo. Però dobbiamo fare qualcosa.” “Chiamo la volante e dico ai ragazzi di intensificare i controlli nel quartiere?” “Sì, ma non basta. Usciamo anche noi.” “Ma…”

“Me ne assumo io la responsabilità. Prepari la macchina, forza.”

3. La notte di Milano era una notte fredda di inizio novembre, bagnata dalla pioggia caduta copiosa durante la giornata. Attraversando le vie del quartiere, tra gli alveari dei palazzi anni sessanta e le insegne luminose dei pub aperti fino a tardi, Veneziani venne preso dalla struggente malinconia del sole della sua isola. Gli capitava di rado, perché Milano, in fondo, gli piaceva. Gli piaceva l’anonimato di quell’enorme deposito di uomini e cose, dove le persone sono solo ombre che ti ano accanto sul marciapiede ed ognuno è libero di condurre la propria esistenza come meglio gli aggrada. Ma in quel periodo dell’anno si ricordava con nostalgia del clima mite delle proprie latitudini e delle belle giornate che l’autunno spesso regalava ai suoi conterranei. L’agente scelto Matranga guidava in silenzio, cercando di tenere una andatura che consentisse al funzionario di osservare con calma le finestre degli edifici. Tutto sembrava tranquillo. La maggior parte dei palazzi era al buio, solo pochi avevano qualche finestra illuminata. Fanatici di internet, pensò Veneziani. Decise di fare una sosta al bar. “Si fermi al primo bar ,Matranga. Ci prendiamo un caffè e scambiamo due chiacchere col barista.” “Nella zona c’è un solo bar aperto a quest’ora, quello di piazza…Gli altri sono ritrovi notturni.” “Bene,andiamoci.” Il bar era vuoto, o quasi. Solo un avventore,palesemente ubriaco, si trascinava da una parte all’altra del locale biascicando parole incomprensibili. “Che faccio, dottore? Gli elevo la contravvenzione?” L’encomiabile zelo di Matranga venne frustrato subito da Veneziani, impaziente di parlare col titolare e tornare sulla macchina “Lasci perdere,anche perché dovremmo denunziare pure il signore dietro il banco, che continua a mescere grappa e brandy a quel disgraziato. Vero signor

….? “ Pausetti, Livio Pausetti.” Il titolare era un tipo basso e magro, visibilmente preoccupato per la brutta piega che stava prendendo la nottata. “Ermete,fuori ora! Fuori! Vattene via di qui,che sei fradicio di alcool. Dovete scusarmi, Commissario. Sa, è un mio cugino e non so dirgli di no.” “Per questa volta i. Ma se la becco di nuovo a somministrare alcolici ad etilisti cronici come quello……” “ Non accadrà più, glielo prometto. Che cosa prendete? Offre la casa.” “No,grazie. Paghiamo noi. Due caffè e qualche informazione.” “Sono a vostra disposizione. Ditemi.” Il barista fu loquace e collaborativo, ma fornì indicazioni scarsamente utili. Ragazze giovani nel quartiere ce n’erano tante, come faceva a sapere quale cercavano? Tipi strani ati dal suo locale verso l’una? A iosa, quanti ne volevano. Facce sconosciute? Sì, qualcuna, come sempre. “Niente,dottore. Rischiamo di girare a vuoto per tutta la notte”. Il giovane agente riprese il suo posto alla guida sempre più convinto che stessero soltanto sprecando benzina. “Facciamo un altro giro di perlustrazione. Chissà. E chiami i ragazzi della Pisa 9.”

4. Li aveva sentiti arrivare mentre era in bagno. Stava finendo di pettinarsi i capelli prima di andare a letto. Fu un piccolo scatto della serratura a metterla sull’avviso. Un rumore impercettibile, che avrebbe anche potuto essere uno di quei tanti rumori che producono gli oggetti nelle case vuote. Ma lei si era insospettita. Uscita nel corridoio ancora con l’ accappatoio addosso,si era avvicinata in silenzio alla porta d’ingresso, notando con orrore che qualcuno la stava lentamente aprendo verso l’interno.

Erano loro, di sicuro. L’avevano trovata. Dove fuggire? Là non c’erano stanze che non avrebbero potuto sfondare. E di certo Ante non era venuto da solo. Ante Draskovic, sergente delle milizie croate all’epoca della guerra civile. Quel giorno si era nascosta sotto una barca capovolta, sulla riva del lago. Gli altri non avevano fatto in tempo a fuggire. Erano arrivati all’improvviso, sui loro camion sgangherati. Protervi e violenti come al solito. Altre volte erano ati dal villaggio, ma si erano limitati a saccheggiare, picchiare qualche vecchio e violentare le ragazze. Anche lei, che allora aveva appena 17 anni. Quella volta, però, l’aveva intuito subito che avevano altre intenzioni: si erano portati dietro dei lanciafiamme. Per primo uccisero il pope. Gli recisero la testa con un’accetta e ne straziarono il corpo con le mitragliatrici. Poi fecero mettere in fila tutti, donne,vecchi e bambini, abbattendoli uno ad uno con un colpo di pistola alla tempia. Tutti,fino all’ultimo. Lei restò rintanata sotto la barca, immobilizzata dal terrore, fino al termine della mattanza. Poi li udì dar fuoco alle case e far festa fino a sera, ballando e cantando sguaiatamente sopra i poveri cadaveri dei suoi paesani. Verso la mezzanotte, era ormai così sicura che non l’avrebbero più scoperta che stava quasi per addormentarsi. Quando se lo trovò davanti, non ebbe neppure la forza di gridare: aveva sollevato la barca e la guardava con un sogghigno feroce che non avrebbe scordato per tutta la vita. Di statura enorme, la mimetica sporca, i capelli biondo paglia, gli occhi chiarissimi, glaciali, inespressivi, una profonda cicatrice che gli deturpava tutto il lato sinistro del viso. Lo riconobbe subito: Ante, il meccanico di un villaggio vicino. Lui la guardò e scoppiò a ridere, indicandola agli altri. La seviziarono per tutta la notte. Se ne andarono l’indomani, all’alba. Erano talmente sbronzi che si dimenticarono di lei. Ma lei non si dimenticò di loro.

5. Aprirono la porta senza provocare cigolii ed entrarono nell’appartamento a o felpato. Ante, Sinisa e Franjo. Di nuovo insieme dopo tutto quel tempo. Chissà che bella sorpresa sarebbe stata per quella troia di una serba rivederseli

davanti dopo tanti anni. La casa era al buio. Accesero una piccola torcia elettrica, stando attenti a non fare rumore. Un appartamento molto piccolo ed arredato spartanamente. Si erano sprecati quelli dell’ONU e le autorità italiane. La puttanella avrebbe potuto mettere in crisi il governo croato deponendo contro di loro, eppure non avevano trovato niente di meglio di quel bugigattolo per una testimone così importante. Se la ricordava ancora, tremante e spaurita di fronte a lui, mentre gli altri gli gridavano di accopparla subito. Ma il grosso del lavoro era stato fatto, aveva pensato, ed ora ci si poteva divertire un po’ in santa pace. Quella troietta ortodossa sarebbe stata l’ideale per il sollazzo suo e dei suoi macellai. Le serbe scopano bene. Ad accopparla ci avrebbe pensato dopo. La mattina,quando ripartirono, non ricordò più se l’avesse ammazzata o meno, o se l’avesse già fatto qualcun altro. Le diede solo un’occhiata di sfuggita, mentre si accingeva a salire sul camion, e la vide riversa a terra, nuda. Pareva proprio morta. Invece la troia era solo svenuta per il super lavoro della notte precedente. Finita la guerra, la puttana si era presentata al comando russo delle forze di pace per denunziare il massacro del suo villaggio, facendo nomi e cognomi di quelli che aveva riconosciuto. Ma i russi tennero il dossier nel cassetto per un bel po’ di tempo: all’epoca le stragi di civili serbi non andavano di moda. Nel frattempo, però, fecero qualche ricerca, scoprendo che quell’eccidio era stato ordinato da un colonnello dell’esercito regolare che, in seguito, si era dato alla politica, scalando i vertici del partito di maggioranza. Quando il colonnello entrò nell’esecutivo croato, i servizi segreti di Mosca ritennero che fosse arrivato il momento buono per mettere in imbarazzo il governo di quel paese. Una vendetta postuma per tutti i guai che avevano causato ai loro amici di Belgrado. I procuratori dell’Aia iniziarono l’istruttoria, chiedendo al governo italiano di accogliere Elena Simovic e di proteggerla, utilizzando gli strumenti previsti dalle nuove leggi sull’immigrazione. E per un anno erano riusciti a farla sparire. Ma ora l’avevano trovata. Non era stato facile, ma alla fine ce l’avevano fatta. Le avrebbero tappato la bocca per sempre, così il loro capo non avrebbe avuto più nulla da temere. E nemmeno loro. Senza la testimone chiave, la Croazia non avrebbe mai acconsentito all’ estradizione dei presunti responsabili. Dov’era adesso? Probabilmente stava dormendo. Andiamo a completare l’opera, si disse Ante.

6. “Arezzo 5.” “Pisa 9.” “Dove siete?” “Angelo, siamo fermi all’angolo di via ……..con via………” “Avete notato qualcosa di sospetto?” “No,ci siamo dovuti fermare per un incidente stradale. Un tamponamento tra una seicento ed un motorino.” “Feriti?” “Sì, il ragazzo sul motorino. Ma niente di serio.” “Il dottore dice di riprendere la perlustrazione non appena arriveranno i ragazzi della stradale.” “Se arriveranno…..Voi niente?” “Niente. Ok, o e chiudo.” “Ciao, Angelo.” Veneziani cominciava a condividere l’idea del suo subalterno sull’inutilità di quel girotondo. Non poteva chiedere rinforzi, non glieli avrebbero mandati per così poco. Avrebbe potuto chiamare la centrale dei carabinieri, ma anche loro difficilmente avrebbero distolto uomini e mezzi dalle normali occupazioni. Una telefonata tanto breve e tanto criptica non bastava per mobilitare militi e poliziotti dietro un’ipotesi. Eppure era certo che qualcosa di serio stava accadendo, o era già accaduto. Magari proprio sotto il suo naso.

7.Dov’erano? Forse ancora nel salotto, lo intuiva dalla distanza dei i. Tra poco avrebbero iniziato a perlustrare tutto l’appartamento e si sarebbero accorti

che lei non era a letto come forse si aspettavano. Quanto tempo sarebbe ato prima che iniziassero a mettere a soqquadro tutto ? Pochi minuti, di sicuro. La casa era piccola: due vani, servizi e quel ripostiglio dove aveva trovato rifugio. Aveva provato a chiedere aiuto col cellulare, ma lo aveva spento subito, timorosa di essere scoperta: erano troppo vicini e troppo furbi, capaci di captare il minimo fruscio.. Quell’armadio a muro dentro lo sgabuzzino, in mezzo alle pile di vestiti appesi alle grucce, era il massimo che le si offriva per cercare di sfuggire alla sua sorte. Ma non s’illudeva certo che non avrebbero messo il naso anche lì dentro. Li conosceva bene, erano la peggiore soldataglia che i croati avessero messo in campo durante la guerra: gli ustascia del battaglione Stepinac, formato da individui di ogni risma. Una unità paramilitare utilizzata per i lavori sporchi. Quando i croati iniziarono la controffensiva nella regione dei laghi, prima dei trattati di pace, le belve dello Stepinac si lasciarono dietro immensi cimiteri di uomini e cose. Ma all’inizio quei morti non interessarono a nessuno: erano serbi, appartenenti alla stessa etnia di coloro che avevano assediato Sarajevo e sterminato bosniaci e croati . Non meritavano pietà. Quei poveri pescatori del suo villaggio, però, non avevano fatto male ad una mosca. Decise che gliela avrebbe fatta pagare. Quanti dubbi, quante paure prima di risolversi a raccontare tutto. Per anni non aveva avuto risposte. Poi quella convocazione a Zagabria, all’ambasciata italiana. Il viaggio a Milano, la sistemazione in periferia, il lavoro di segretaria in uno studio professionale. La nuova identità, le nuove abitudini. Sempre aspettando una telefonata dall’Olanda. E ora, tutto rischiava di svanire in pochi attimi, insieme alla sua vita, prima che lei riuscisse a render giustizia ai suoi morti. No, non poteva finire in quel modo. Non poteva dargliela vinta ancora. Nel buio del suo nascondiglio,sorprese le lacrime scenderle abbondanti sul viso. Ma non era un pianto di paura. Era rabbia.

8. “Angelo, si fermi un attimo. Torni indietro.” “Fin dove dottore?” “Fino alla palazzina che ospita al piano terra quel negozio di computer. Saranno un cento metri.” “Sì, ho capito quale. Quella con la facciata color terra di siena.”

“Esatto.” “Cosa ha visto di interessante lì?” “ Posso sbagliarmi, ma mi pare di aver visto che il portone è aperto e le luci della portineria sono accese. Il che è strano. Un portiere non lascia l’ingresso aperto,a quest’ora. A meno che non stia dormendo. C’eravamo già ati da qui?” “Sì, ma stavamo conversando, dottore. Non ci abbiamo fatto caso. O forse prima era chiuso.” Posteggiarono l’auto qualche decina di metri prima dello stabile. Veneziani raccomandò al ragazzo di tenere pronta l’arma di ordinanza. Anche lui avrebbe dovuto tenersi pronto ad usarla, ma preferì rinviare fino all’ultimo la decisione di estrarla dalla fondina. Veneziani e le armi non erano mai andati d’accordo. A parte che come tiratore era un pianto.

9. Perché quando c’era da divertirsi lo mettevano sempre in disparte? Branko Petrovic cominciava a covare un cupo risentimento verso i suoi amici. Anche in guerra lo escludevano sempre da certe situazioni. Dicevano che era un imbranato, buono solo a scannare persone col suo coltellaccio. Quando si doveva far parlare qualcuno, specie una donna, e servivano sistemi più raffinati, lo mandavano puntualmente da qualche altra parte. Come adesso. Loro a sarsela al 6° piano con la zoccola serba e lui a malmenare portieri e far la guardia dentro quel buco. La dritta che avevano avuto da quella banda di sloveni si era rivelata quella giusta. La schifosa viveva in quel caseggiato. Nettandosi le unghie col coltello, i piedi sopra la scrivania della portineria, guardava con disgusto quel finocchio che si contorceva a terra, la bava alla bocca, il viso una maschera di sangue. Avrebbe potuto finirlo in qualsiasi momento, ma stavolta voleva divertirsi pure lui. Non c’era stato neppure bisogno di imbavagliarlo, era tanto terrorizzato che a momenti non riusciva neppure a respirare. L’avevano tirato dal letto a forza, calci e pugni per farsi aprire la garitta della portineria, prendere dalla cassaforte il doppione delle chiavi d’ingresso dell’appartamento di Elena (una precauzione adottata da diversi condomini della zona) e farsi dire a che a piano abitava. Facile come rubare il latte ad un bambino. D’altronde, loro non erano gli ultimi arrivati in quel genere di cose. Ne avevano combinate di ben peggiori in Croazia.

Senti come guaiva quell’invertito. Ancora il bello per te deve arrivare, pensò Branko. Ma perché cazzo l’avevano lasciato lì a marcire? Sarebbe bastato sopprimere il portiere dopo avergli estorto le informazioni. Tanto, la maggior parte degli alloggi del palazzo era adibita a uffici. Nessun ficcanaso sarebbe mai venuto a curiosare, a quell’ora . Glielo avevano fatto apposta. Bastardi. Furioso, stava per alzarsi dalla sedia e mollare qualche altra pedata al quel povero mucchio di ossa e carne rintanato nell’angolo, quando sentì qualcosa di freddo pungerlo all’altezza della nuca. Istintivamente, fece la mossa di portarsi la mano dietro la testa, quando ricordò all’improvviso che quella particolare sensazione poteva essere provocata da una cosa sola. Uno scherzo imbecille di quei tre, pensò subito. Hanno già finito, allora. Una voce sconosciuta ed ostile gli spense sul viso quella smorfia crudele di soddisfazione che in Croazia parecchi conoscevano bene. “Polizia. Alza le mani lentamente e senza fiatare, coglione.”

10. Si stavano innervosendo, lo sentiva. Lo capiva dal rovistare nervoso tra gli oggetti della casa. Non l’avevano trovata a letto e adesso la cercavano dappertutto. Parlavano a voce bassa, ma riuscì ugualmente a comprendere il senso di qualche frase. Ante stava dicendo agli altri di stare calmi perché lei era sicuramente nascosta da qualche parte lì dentro. Li sentì avvicinarsi al ripostiglio ed aprirne la porta. L’angoscia le attanagliò tutto il corpo. Stavano buttando all’aria tutto quello che c’era nella stanza. L’armadio, disse uno. Franjo, Franjo il rosso. Impossibile dimenticare quella voce gutturale. Aspetta, gli disse un altro. Ho sentito un rumore in cucina. Andiamo a vedere. Misha, pensò Elena. Il gatto soriano. Quella peste di felino forse gli stava allungando la vita di qualche minuto. Udì rumore di stoviglie rovesciate e piatti rotti. Avevano fretta, ormai, e non si curavano più di non far chiasso. D’altronde, al piano di sotto non c’era anima viva: un appartamento era sfitto ed un altro era locato ad uno studio dentistico. Accanto a lei, invece, viveva la vedova di un generale dell’esercito, tanto imbottita di sonniferi che non si sarebbe svegliata neppure con la fanfara dei bersaglieri. Tra poco sarebbero tornati indietro. Il tempo di rendersi conto che quello che cercavano non stava in cucina.

Eccoli, infatti. Aveva di nuovo avvertito dei i vicino alla porta del ripostiglio. Ma stavolta non erano loro. Ne era sicura. Non erano le loro calzature. E poi, questi parevano muoversi con troppa circospezione. Che qualcuno, vedendo la porta aperta,si stesse introducendo per sorprendere eventuali ladri? Poveretti, pensò Elena. Magari fossero ladri. In quel momento accadde qualcosa di inimmaginabile. Udì distintamente un urlo. Poi diversi spari e l’inequivocabile scalpiccio prodotto da chi discende a precipizio le scale di un androne. Cos’era successo? Avevano sparato ai visitatori misteriosi. Ma non li avevano colpiti, non tutti almeno. Una speranza, finalmente. Ora i suoi carnefici non si sarebbero potuti trattenere più dentro casa. Avrebbero dovuto abbandonare la caccia, perché il fuggitivo stava andando di sicuro ad avvertire la Polizia. Strano, però, che se lo fossero lasciato scappare. Non era nel loro stile. Stava già iniziando a rilassarsi, sicura che non avrebbero perso altro tempo dietro di lei, quando sentì qualcuno accendere le luci del ripostiglio. La porta dell’armadio venne spalancata all’improvviso ed intravide tra gli abiti gli occhi chiari di un giovane con un giubbotto macchiato di sangue che la invitava ad venir fuori. “Signorina, esca. Non abbia timore. E’ tutto finito.”

11.“ Presto Matranga, venga qui. Questo poveraccio è ridotto male. Chiami un’ambulanza. Dica loro di fare in fretta ma senza sirene. A quest’ora della notte se ne può fare a meno.” “Sì dottore, mi dia il tempo di ammanettare questo stronzo. Chiunque essi siano,però, non sono ladri, dottore.” “Certo che non sono ladri. ami il cellulare di servizio.” Chiamò la Pisa 9 e la Sala Operativa della Caserma Palestro. Parlò con un certo capitano Benelli, chiedendogli di far intervenire con la massima urgenza almeno 3 gazzelle del nucleo radiomobile, anch’esse senza sirene. Fornì l’indirizzo e

raccomandò di far presto. Lo urtava dover chiedere ausilio ai “cugini” dell’Arma, consapevole che la cosa non avrebbe certo fatto piacere al Questore, ma nella zona essi erano i soli in grado d’intervenire tempestivamente ed in forze. “Allora, a che piano sono i tuoi compari? Cerca di sbrigarti, perché di pazienza ne ho sempre avuta poca”. “Vai a farti fottere, lurido sbirro……” “Complimenti per il tuo italiano, ti meriti un premio.” E gli accostò la Beretta alla tempia. Branko Petrovic non era abituato a vedersi puntare armi addosso. In genere era lui che le puntava agli altri. L’unica volta che gli era capitato, a parte le burle tra commilitoni, era stato durante un posto di blocco di una pattuglia se di “caschi blu”. Fissò negli occhi il poliziotto e quello che vide non gli piacque per niente. “Forza Matranga,andiamo. Sesto piano, interno 12.”

12. Dalla finestra della sua stanza, Veneziani vide sorgere una nuova alba senza esser riuscito a chiudere occhio per tutta la nottata. Non era per la ferita e neppure per il pianto della madre, la sera prima. Il pensiero di un ragazzo trentenne in coma in un altro reparto dell’ospedale non riusciva a dargli tregua. Povero Matranga: un poliziotto per caso e per necessità, un po’ come lui, con la vita appesa ad un filo e la concreta prospettiva di una morte da eroe, cui sarebbe seguito il solito, lugubre armamentario di medaglie, targhe ricordo e menzione alle cerimonie ufficiali. E amen. Avanti un altro. Gli avevano riferito che la fidanzata, accorsa dalla Sicilia, non si era mossa dalla sala d’aspetto del reparto rianimazione dal giorno del suo arrivo. Si dovevano sposare a settembre dell’anno dopo. Lui aveva già presentato la domanda di trasferimento. Cristo, pensò. Dove cazzo aveva sbagliato? Non aveva sbagliato. Forse aveva sottovalutato la pericolosità di ciò che lo aspettava al sesto piano. Ma cosa avrebbe dovuto fare? Attendere i rinforzi mentre quei maiali massacravano la Simovic? Quando salirono a casa della ragazza, non sapevano chi ci viveva e cosa ci avrebbero trovato. Sapevano soltanto che dei criminali stavano assaltando un’abitazione. E dei criminali spietati, a giudicare da come avevano

ridotto La Torre, il portiere. No, non si poteva indugiare oltre. Rivide mentalmente, come in un film, tutti i fotogrammi di quella sparatoria. La porta spalancata, il buio assoluto ed irreale della casa, con quel solo filo di luce che proveniva dalla cucina e le sagome dei tre balordi . E poi l’intimazione , la sorpresa dei tre, la loro reazione subitanea, i lampi accecanti degli spari, quel dolore lancinante alla spalla. Quando quell’inferno finì, a terra erano rimasti due di loro ed il povero Matranga. Il sangue gli fuoriusciva copioso dalla ferita al ventre. Spalancò la finestra della cucina e vide che l’ambulanza era già arrivata. Erano arrivate anche le gazzelle e la volante del suo ufficio. I poliziotti ed i carabinieri puntavano pistole e mitragliette addosso ad un tizio alto e robusto, fermo davanti al piazzale del condominio con in mano un revolver a canna lunga. Mentre i soccorritori salivano al sesto piano, trovò il nascondiglio della ragazza. Era una brunetta minuta,con due splendidi occhi neri da cerbiatta. Capì subito di non dover temere nulla da lui. Ma non ebbe neppure il tempo di chiederle il nome: svenne addosso al Sovrintendente Di Michele, il capo squadra della Pisa 9, appena entrato in casa armi in pugno. Quando lei gli fece visita , dopo un paio di giorni, portò una copia del Corriere dove spiccava in prima pagina la notizia dell’arresto del ministro croato. Quello che lo colpì in Elena, a parte l’innegabile avvenenza, fu la sua malinconica serenità. Le chiese come mai fosse riuscita a nascondersi in tempo. L’odore della paura, rispose. Dopo la guerra le era come rimasto addosso. Appiccicato alle narici. Addosso a lui, invece, rimase il ricordo delle labbra di lei, appoggiate dolcemente alle sue in un tenero, castissimo, bacio di gratitudine.

Una botta di vita

Beh, certo: il punto di vista cambia. Cambia la visuale da dove si giudicano cose e persone. Si vede tutto sotto una luce nuova. Non voglio darmi arie, ma è così. Quando si crepa, si osserva il mondo da una prospettiva diversa. Per farvi capire, è come se fino a quel momento aveste osservato l’ambiente che vi circonda dal piano terra e all’improvviso qualcuno vi trasportasse al 30° piano, in cima al grattacielo. L’orizzonte si allarga, la porzione di vita e di natura che potevate abbracciare prima si dilata. Tutto diventa, allo stesso tempo, più piccolo e più grande, più vasto ma più lontano. No, non c’entra niente il paradiso. Non ho ricevuto un paio d’alucce e non mi hanno assegnato una nuvoletta per dimora, se è questo che state pensando. Non so nulla di quelle cose lì, se vi può interessare , anche se io in vita mi sono sempre comportato bene: rispettoso dei genitori, studioso, educato, diligente. Ho fatto per più di vent’anni il ragioniere in un calzaturificio e il titolare era molto soddisfatto del mio lavoro. Sempre puntuale in azienda e sempre gentile con tutti, padrone e colleghi. A 25 anni mi sono regolarmente sposato con la fidanzatina della scuola e ho messo al mondo due bei bambini. Ho avuto una vita normale, insomma, anche un po’ noiosa. Non si fosse messo in mezzo quel furgone su quella strada di campagna in quella sera di pioggia...credo che, salute permettendo, avrei raggiunto serenamente l’età dei capelli bianchi. Per questo all’inizio non capivo come mai mi avessero lasciato qui sulla terra. Non ho nulla da scontare, almeno credo. Eppure qui non si è presentato nessuno, nemmeno l’ultimo dei cherubini. Sulle prime l’avevo presa male. Sapete, io sono sempre stato un buon cattolico: a messa tutte le domeniche e le feste comandate. Da ragazzo ho fatto anche l’animatore in parrocchia. Mi sono sentito abbandonato, tradito. Mi sono sentito solo. Una solitudine che non si può descrivere, qualcosa che un vivente non potrà mai provare. Per un momento ho anche pensato anche che lassù non ci fosse niente e che avessero ragione gli atei. Poi tutto mi è stato chiaro. Ho capito che i morti non vanno da nessuna parte e

che la maggior parte resta imprigionata nella foto del cimitero, quella che i parenti attaccano alla tomba. Nessun uomo, per quanto buono e giusto, è degno di salire lassù, accanto a Lui. E’ la nostra presunzione a farci credere, in vita, che le nostre anime si possano meritare un simile onore. Il compito che viene assegnato a ciascuno di noi dall’Altissimo è, invece, proprio quello di restare eternamente sulla terra, a vigilare sui vivi e sulle loro idiozie. E’, insomma, un po’ quello che facevano gli dei domestici degli antichi romani, i lari e i penati. C’è chi resta nella propria casa (e non sono i più fortunati, come qualcuno potrebbe pensare), chi vaga in giro per il mondo e chi, infine, viene costretto a rimanere confinato al cimitero, dentro il proprio loculo. Non è una punizione, però, è soltanto un modo diverso di servire i voleri di Dio. I cimiteri, infatti, sono luoghi privilegiati per assistere i vivi e i morti. Sì, perché anche i morti hanno bisogno di qualcuno come loro che li conforti, che li sostenga. Non tutti i defunti, infatti, sono in grado di affrontare con serenità la loro condizione. Per esempio, i morti più antichi, quelli morti da almeno quarant’anni, soffrono in genere di profonde depressioni. Io ne ho uno così proprio di fronte alla mia tomba, dall’altro lato del vialetto. E’ il morto più antico di tutta quest’ala del cimitero, caduto a vent’anni nella battaglia di Adua. Si chiama Luca e non c’è verso di strappargli un sorriso. Si doveva sposare al ritorno dall’Africa. Aveva tutto pronto per la cerimonia. La sua fidanzata si è poi maritata col suo migliore amico. In vita conoscevo le famiglie di entrambi: i pronipoti di Luca oggi sono proprietari di una ditta di trasporti mentre quelli della fidanzata sono quasi tutti insegnanti o impiegati. Ma nessuno di loro è mai venuto a portargli un fiore. Credo che l’ultima sia stata la madre, fino a tutti gli anni trenta. E’ per questo che è caduto in depressione, come tutti i morti dimenticati. Io sono capitato proprio in mezzo alle tombe più vecchie, perché qui avevamo una vecchia concessione di famiglia. E siccome è raro che un morto recente capiti da queste parti, lassù ne hanno approfittato per assegnarmi l’incarico di provare a tirarli su di morale. Mica facile. Io non sono mai stato un tipo brillante, nemmeno da giovane. E poi, parlavo poco da vivo, figuriamoci da morto. Tra l’altro, con questi qui anche un capocomico avrebbe i suoi problemi. Oltre a Luca, c’è Virginia, morta di influenza spagnola nel 18, una trentenne perennemente silente, il cavalier Roversi, deceduto nel 1950 alla veneranda età di 98 anni, il dr. Tanzi, un medico

condotto del paese, ammazzato dai partigiani nel 1945 (era stato podestà 10 anni prima) e la professoressa Bulgari, la più giovane (si fa per dire) dei traati, perché morta a metà degli anni sessanta. Di tutti costoro, l’unica che scambia volentieri quattro chiacchere con me è proprio lei, ciarliera da morta come da viva (almeno a voler dar credito ai racconti di mio padre, che l’aveva avuta come insegnante alle medie). Ma lei non ha bisogno di aiuto: la figlia settantenne viene ogni domenica a portargli i fiori freschi e a pregare sulla sua foto. Sono gli altri che avrebbero bisogno del conforto di qualche parente, fosse pure il nipote di un lontano cugino. Invece qui non si vede mai nessuno, a parte mia moglie e la figlia della professoressa. E siccome i miei compagni non sono come i defunti di quel poeta americano e non hanno alcuna voglia di raccontare la propria storia, sta andando a finire che il più depresso della comitiva tra non molto sarò proprio io, quello che avrebbe dovuto alleviare la loro malinconia. Il problema, poi, non è solo quello del fallimento della mia missione. Mi hanno seppellito sopra qualcos’altro, ne sono sicuro. Fin dal primo giorno, infatti, ho sentito delle voci provenire dal sottosuolo. Parlano in latino e piuttosto animatamente. Io non ho fatto studi classici e non capisco una virgola di latino, ma qui vicino a il fiume Trebbia e io so che sul fiume, tanti secoli fa, i romani furono pesantemente sconfitti da Annibale, quello degli elefanti. A me non darebbero poi tanto fastidio se si limitassero a lamentarsi per poche ore al giorno. Invece stanno sempre a parlare a voce alta (doveva trattarsi di gente piuttosto rozza) e mi disturbano non poco, anche se i metri di terra che ci separano sono davvero parecchi. Una volta ho provato a zittirli, ma mi hanno risposto a parolacce. Manco fossimo in un condominio. Anche se erano parolacce in latino, si capivano lo stesso. Gli insulti sono l’unica cosa che non ha bisogno di traduzione. Insomma, per farla breve non ne posso più. Vorrei tanto che mi togliessero da qui e mi spedissero da qualche altra parte. Mi sentirei più utile e mi annoierei meno. Le domande di trasferimento, però, difficilmente vengono accolte. Il podestà mi ha detto che una volta lui ci aveva provato, ma che non c’era stato niente da fare. Sono irremovibili: il ruolo che ti assegnano quando esali l’ultimo respiro è quello che ti porterai dietro fino alla fine dei tempi. Ogni tanto pare ,però, che facciano una eccezione per i defunti che vogliono

tornare a dimorare nella propria casa, accanto ai propri cari. Ma a me questa soluzione non interessa affatto. Mia moglie da qualche tempo viene a trovarmi accompagnata da un tizio che non conosco, forse di un paese vicino. E’ un uomo di mezza età e di bell’aspetto, alto e ben piantato, con una folta chioma di capelli neri (forse tinti). Lei piange sempre e sempre mi porta fiori freschi di campo (i miei preferiti), ma io l’ho capito che adesso piange per abitudine. Ve l’ho detto, il punto di vista cambia, si vedono negli altri cose che prima non si potevano notare. Persino i miei figli, le rare volte che vengono a trovarmi (la madre non vuole, per paura che si commuovano troppo), ultimamente hanno dipinto in viso un atteggiamento distaccato, come di chi sta celebrando un rito che è obbligato ad officiare. E siccome so che i morti muoiono davvero solo quando muoiono dentro le persone che li avevano amati, adesso prendo carta e penna (si fa per dire) e scrivo a chi so io. Voglio essere trasferito nelle favelas di Rio, accanto agli ultimi della terra. Non potranno dirmi di no, perché quello è un posto dove non vuole andare nessuno. Sono stato grigio da vivo, voglio colorarmi da morto, conoscendo la disperazione di chi ogni notte ci ha i sorci per compagni di letto. E poi...il Brasile, i suoi odori, le sue spiagge, i suoi balli, il suo carnevale, l’allegria triste della sua gente. Ho sognato per tutta la vita di poterlo visitare. Almeno da morto mi piacerebbe togliermi lo sfizio. Voglio una botta di vita, insomma.