Maurizio Marino
Il talento degli idioti
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Indice dei contenuti
ato: radiografia magnogreca mezza inventata Presente: anatomico amaranto Resoconto di una fuga Avamposto dei poeti Flashback al fotofinish La fortezza dei perdenti Lettere dal castello Le collisioni occasionali
ato: radiografia magnogreca mezza inventata
La sera era scesa indolente e fredda, come una macchia di nero sui resti lucenti del giorno. Me li ricordo gli uomini: il culto del posto fisso, il culo d'averlo ottenut. Poi le canotte bianche come cliché sui loro corpi avvolti da peluria scacciafreddo. No, niente eroi depilati e ubriachi. Solo padri di famiglia mentre rientravano a casa per la cena ripetendo a memoria un gesto atavico: di quando quelli di prima, quelli del ato, facevano ritorno al villaggio dopo l'agguato teso a qualche bisonte, e i ferri ai fianchi dell'animale l’avevano reso una giostra dolorante e impazzita, una spaventosa carnevalata, l'obbrobrio della cattiveria oscena ma umanaprima dell'arte della culinaria, della leccornìa. Che ne sapevo che l'utopia era l'unico metro per misurare il futuro del reale. Bukowski non voleva vedermi scrivere. Tanto per. Bukowski voleva che scrivessi col sangue addosso o niente. Per non parlare di Henry Miller: sentite qua: non ho né soldi, nè risorse, né speranze. Sono l'uomo più felice del mondo. Così diceva Henry. La letteratura gli era cascata addosso. Per salvarlo, cazzo. Ma la mia tastiera era lenta e mi frenava il ritmo dei pensieri a mille. Pure io avevo in serbo la mia diffamazione. Contro di voi. La mia tastiera era lenta quasi come la mia terra. In Calabria tutto era fermo e i paesini-fantasma erano un corteo verso la loro epifania. Mi serviva una carogna su cui intonare il mio canto. Condofuri non ti dice molto se te ne stai nel tuo nord: ma Condofuri da qui era la tirannia del bianco, sai la spuma maestosa del mare di Gibran? Ecco, solo meno esotica. A Melito le onde, dopo la burrasca, avevano abbattuto il muro che proteggeva i binari della stazione; altro che Garibaldi. E Palizzi? Lì la schiera di nubi
sopravanzava e la schiena del cielo si fondeva con la pancia dello Ionio all'orizzonte. Le granite di fichi erano ricompense quasi metafisiche. Gli alieni, se c’erano, si godevano la scena. Assieme ai turisti estivi. Il dondolo perenne se li cullava mentre la scema del villaggio girava nuda e pazza per Bova marina e i capricci delle onde si confondevano con le risate sdentate dei ragazzi che la attorniavano. Allora lei li guardava impaurita e si metteva a correre; e loro la rincorrevano, sdentati e infoiati, correvano e ridevano. E lei era la scema del villaggio.Uno si ficcava le dita nel naso come per cacciare fuori mucillaggini di verità. Gli albatri facevano a pugni coi sogni dei poeti. Le case erano cumuli di evoluzione incompiuta. I camini spenti erano l'invidia dell'ominide. Le macchine sfrecciavano sul ricordo di antilopi svolazzanti come foulards di Gucci. I lavoratori erano il mastice tra gli schiavi egizi schiacciati dai massi caduti dalla piramide e la libertà. Ma era un lavoro per modo di dire, era un lavoro tanto per dire. Venite in Calabria, gente. Ascoltate i nostri accenti lugubri. Cavernicoli siamo. Eccoci. Mi ricordo che sul corso c'era sempre quel tale, solo, urtante, quello vicino al duomo, con le dita delle mani gonfie, che si avvicinava come per toccarti, e tu non sapevi mai dove scappare o come dire mi dispiace, tanto lui era lì che insisteva, e quando eri già in macchina ti bussava al finestrino, non voleva nemmeno soldi, ma scusarsi con noi tutti, noi perfetti. Tutto questo dovevo scriverlo. Ma ero un matematico. Un burocrate, pure. I monti della Sicilia da Scilla, alle cinque e mezza della sera, erano una millefoglie sparsa a strati da una figura angelica, assopita, forse stanca di contemplare la calma edenica che barcollava ubriaca per tutto lo stretto. Gli sbuffi del vento, come un Leviatano bianco, su quella pozzanghera di mare duravano tre giorni e mezzo. Poi lasciavano spazio soltanto a bizzeffe di nuvole a forma d’animali stilizzati, di mostri barocchi, che sostavano su corridoi d’ossigeno, come amano per scale di elio a sfidare rimasugli di attrito sparsi per Vitulia, nome antico di Calabria: bianche, pompose, le amanti assonnate si posavano per farsi scopare da quella terra ispida, maschia e rugosa: le montagne rizzavano al cielo per un contatto con quelle minne bianche. I solchi profondi
migliaia di burroni s’intestardivano a cercare la zona infuocata degli inferi: lì, due fontane, Lete e Mnemosine, una per dimenticare, l’altra per ricordare, pisciavano i loro atomi di idrogeno e di ossigeno. A fine estate gli ombrelloni erano coni d'ombre gotiche come guglie nordiche che s'arrampicavano nell'aria silente, per la spiaggia scillese, col tramonto oltre le isole Eolie, oltre Vulcano e Stromboli, gravidi di leggende, con quei crateri nudi imperticati fino al cielo. I bigliardini a settembre erano stadi a porte chiuse. I bocciati riparavano; era un verbo che incolpava. L'adolescenza era la speranza di crescere, una sospensione del tempo umano, un limbo scavato tra le risate senza ganasce e l'accrescimento della parola io per soffocare sul nascere il gendarme del dolore. Scoprire l'evidenza di un’inferiorità era escogitarsi uomo. Nella notte - refrain per inferni mistici - il telescopio di un acaro avvistava pianeti nuovi e buchi neri e galassie e vie simili a quella Lattea: una testa si girava sul cuscino! Essere sognatori non significava essere addormentati. Infine lo Ionio sputava – come ogni volta – la sua alba, nocciolo bollente e zaffata di speranza, ed ecco, ora era di nuovo giorno, ancora una volta. I professori andavano diritti alle aule con la loro scacciacani per spaventare il pensierino libero: la noia ci scioglieva, ma noi eravamo clown. Al posto della scuola volevamo trampolini elastici e guerre di bergamotti, e il dolore spariva come il pennacchio di fumo d’una nave all’orizzonte di Comfortably numb.
Quello che abitavo da piccolo era davvero un posto strambo. Il mio mondo era strambo e strano. Era un mondo abitato dagli dèi degli ultimi: nell’olimpo vicino casa piovevano lance di povertà, con la folgore luccicante a squarciare i vicoli e le case ammassate dentro al rione, come una lampada che a intermittenza accendeva speranza e speranza spegneva. I bergamotteti profumavano acri. La sera scendeva sulle nostre teste a zonzo, mezze secche di stanchezza, di gioco. Sentivo il giorno trascorrere troppo in fretta, e l’asfalto nero s’arrendeva di tanto in tanto all’arancione dei campanari disegnati a macchie lungo il ritorno dei bambini, a saltelli su una gamba, col mattone rosso, e rotto, portato a talismano fino a casa.
Leonardo rimbombava strano: era un nome troppo ingombrante. Era un nome per sbaglio, approntato all’ultimo momento, come un memento discere. Il nome Mimmo invece suonava bene, suonava veloce. Il tempo di nominarlo e già era finito. Sembrava un nome fatto apposta per rubare: e infatti lui obbediva e scavalcava ogni sera il muretto e spariva per minuti inghiottito dal giallo delle limonare. Poi riappariva scaltro e rapido, sul bordo del muro, col coltello in una mano e il sale nell’altra. Balzo e a terra. Mangiavamo limoni le sere di quell’estate, e tutto era incanto. Quell’estate era piena di urla azzurre per il mondo. La coppa era nostra. L’onore svettava alto. Ci sentivamo importanti a essere italiani. Il nostro mantra era Zoff Gentile Cabrini Oriali Collovati Scirea Conti Tardelli Rossi Antognoni e Graziani. Il traguardo degli eroi era un tappeto rosso srotolato nell’afa di Spagna; la Germania col cazzo che vinceva. Le ginocchia dei ragazzini imitatori erano nere, e la sporcizia il misuratore del divertimento. Più erano nere più era stato divertente. Pablito Rossi lo sapevo io chi era: il epartout per inventare storie e far scoppiare stermìni di felicità nel cielo ingombro di ricordi assiepati a gregge. Le sedie arredavano le piazze, le auto merce rara. Tutta la mia famiglia quell’anno i mondiali se li era persi. Se li era persi perché erano morti tutti qualche mese prima. Ogni famiglia era vero che era infelice a modo proprio. Ero rimasto solo. I lampioni noi ragazzi li prendevamo a fiondate, per scherzo, fino al buio solenne, quello senza rimedio e senza l’odore delle leggi, quando i colori finivano inghiottiti dentro a una nube di silenzio, ingigantito dall’urlo ingiusto delle madri che decretavano la fine del divertimento: erano loro le custodi del tempio del giorno; a loro spettava chiudere la saracinesca per imprigionare il sole, e i giochi, e la spensieratezza: per volontà materna tutti quegli animaletti erano obbligati adesso al sicuro nelle tane profumate di pane, coi padri arresi a cadavere sul pouf scassato a ginocchiate, con l’ahi ahi dolorante delle schiene in trazione verso la messa a fuoco del canale del televisore, le canotte bianche, a coste strette abbinate ai pantaloni di flanella larghi, grigi, con le pinces per contenere meglio il gghiombero, peso provocato dal trofismo della vaddera, nome comune locale per ernia inguinale. Dopo la chiamata definitiva, quelle stesse madri vestite tutte a fiori facevano combriccola attorno alle balconate più che potevano, e i panni appesi il vento se
li faceva maschera appena incocciava i volti dei bambini nascosti dietro qualche lenzuolo-fantasma in bilico prima del knockout onirico, e le donne se lo pigliavano ancora quel mezzo minuto d’aria, e di luce ormai a precipizio, prima dell’apnea della notte. I mariti rieccoli indaffarati a centrare il canale: con la mano del braccio allungato tastavano la manopola e con l’altra s’appoggiavano sul cubo magico, sul Tiresia telematico. Cercavano uno sguardo d’intesa con qualcuno: "è sintonizzato?" chiedevano, e nessuno rispondeva mai un sì convinto, perché sintonizzare era una voce verbale del futuro, e loro erano lenti, avvolti in un ato che rievocava la guerra, e la fame, e la povertà. Piano piano erano arrivati i soldi grazie al lavoro in ferrovia e le case cominciavano a pullulare di tv a colori, e la stanza deputata ad accogliere quella felicità nuova era la camera da letto: i televisori a colori stavano in camera da letto, perché in cucina rimanevano quelli vecchi, quelli del telegiornale, e i telecomandi si posavano con cura sui comò, guai a mollarli in mezzo al letto: non si gioca con le armi, e con i telecomandi. Stavamo coi piedi impantanati nelle pozzanghere sparpagliate per il campetto dopo la pioggia a diluvio oppure nelle strade sterrate e polverose, per ore, con un pallone sgonfio, a dribblare: chi imitava Bruno Conti e chi rifaceva l’urlo di Tardelli, chi si stancava troppo e allora reclamava sempre il ruolo del portiere o dell’attaccante per sbaglio, e chiedeva la maglia numero nove, a imitazione di Paolo Rossi, e non tornava mai a dare una mano al centrocampo, come Paolo Rossi. Il mantra mnemonico era sempre lo stesso: Zoff Gentile Cabrini Oriali Collovati Scirea Conti Tardelli Rossi Antognoni Graziani. I telegiornali erano antichi e tristi con quelle immagini dalla guerra o dal parlamento, e non capivo come fero gli adulti a guardarli: se ne stavano in silenzio, assorti in quella noia della cucina. E appena un bambino si metteva a parlare a voce alta, a frignare, a sbraitare, a sputare pastina, a vomitare, a lamentare mal di pancia, appena un bambino esisteva, ecco che i padri si facevano più seri e tristi di prima, e i figli non avevano diritto di parola, pena il ceffone, la testa a scatafascio dentro quel cazzo di piatto, con le lacrime che rovinavano il finale, o qualche bestemmia che smuoveva l’aria sacrosanta della notte. Ero rimasto solo e dovevo provvedere a tutto: la salvezza mi sembrava più di chi se ne andava. I superstiti sono i più sfortunati. Almeno però non guardano i telegiornali dei padri.
Ricordo pure che la signora sotto casa mia aveva quattro figli, tre femmine e finalmente, per ultimo, l’attesissimo maschio; avevano una gallina che Cate, la figlia femmina più piccola, prendeva spesso per le ali. Voleva costringerla a volare, e la gallina non aveva nessuna intenzione di accontentarla. Allora la signora usciva in cortile e schiantava spesso un urlo nel cielo ormai scuro, ormai calibrato per i sogni, e la sua voce nell’atto di emissione gracchiante e ritmata del nome Ca-te-riiiii-naaaaaaaa era il titolo di coda dei chiacchiericci e delle dicerie, e i balconi diventavano di lì a un momento un festival di serrande mollate in faccia al paradiso notturno, al mantra nero a pois gialli, a pigolii gialli, che facevano tempesta di ansia delle nostre quattro certezze di umani a testinsù.
È pazzo, è pazzo. Scappa, scappa. Fermalo, prendilo. Mi scappa, mi scappa.
Le brillantine profumavano l’aria della domenica per la messa delle undici prima del rito del ragù: i maccheroni si lavoravano col ferro, si vincevano le figurine a tricchitracchi. L’ostia la eggiata l'abito da maschio i cannoli con zucchero e ricotta e i bignè al caffè la sosta in piazza il sole a spaccateste i parenti ritardatari le salsicce sudate e le cravatte larghe e mosce - come cazzi appena usati - sulle pance debosciate, torte mimose e babà con la crema truccata e con la ciliegia abbottonata della festa e vino scadente che i maschi avevano il compito non scritto di far girare nel bicchiere a leggerci qualche magia, qualche somma verità, con l’aggrottamento delle ciglia, le macchie di ragù sulle camicie dei bambini prima di compiere il rito del tovagliolo spampanato davanti ai maschi, il peperoncino sparpagliato per la tavola come indicazioni per una caccia al tesoro e l’acqua del lavandino riempita e messa in frigo e poi corroborata, come fosse un cocktail per astemi, dal ghiaccio appena nato dalle formine a cubetti e bevuta per preparare la bocca al caffè propedeutico al commiato, ovvero il gran riposo o abbiocco o riposino del papà: tutti gli altri indaffarati ma sempre col silenziatore per non disturbare il sonno della digestione, quello serio ancora più della coricata della notte. Shhhh, silenzio, dorme papà.
Occorreva un talento particolare che io, Leonardo Vittorini, anziché mandare tutti a farsi fottere, riuscivo a sfoderare fiero anche nella più cieca stortura. Era
il talento degli idioti l'arma della salvezza. E tutto svaporava in una risata. A ridere però non erano buoni tutti. Solo quelli che alla vita credevano sì, ma per modo di dire. E io alla vita credevo, appunto, per modo di dire. Credevo come quando ti puntano una pistola alla tempia e ti urlano "crediiiiiiiiiiiiiiiiii". E tu che fai? Puoi deluderli? No, certo. Allora vivi. Pur credendo poco alla vita, tu vuoi vivere. Da solo? Da solo. E allora? Che conta in quanti? Ah, parli del fatto dei tuoi morti? Boh, oggi pure ci sono solitudini immense, anzi, oggi di più di allora. La verità è che mi sforzavo di pensarmi in una famiglia immensa e strepitosa, coi parenti vicini che mi si stringevano attorno per donarmi calore e forza. “Vai Leonardo, ti aiutiamo noi, tranquillo.” Ma era una balla per lenire le sgrattugiate della vita. Così dovevo pure tacere e ringraziare. Oh ma grazie del vostro lurido e schifoso aiuto finto. Grazie famiglia che non sai nulla di me: grazie zii e zie, cugini e cugine per la vostra lontananza di sicurezza. Sì sì, i vostri sono stati sfottò travestiti da recite. Mi tenevate come comprimario, come comparsa per i vostri show felici. Ma è colpa mia: sono un disadattato cronico. Anche da piccolo lo ero. Anche prima della tragedia. Adesso, certo, anche di più. Vi nascondevate per regalarvi l'oro. Le feste erano scuse per regali a comando: c'era la stanzetta segreta. Poi uscivate con le facce normali, di chi non aveva ricevuto nulla. Ma io non volevo regali. Solo qualche dettagliata verità. Quando la scuola ricominciava, con un gruppo di compagni di sfighe ritornavo al mio odio perenne. Sbattevo la porta e scappavo via. Scavalcavo le inferriate del cortile del liceo e mi mettevo a correre – e loro con me – con lo zaino che mi ciondolava appresso come una coda di scimmia, di primate, e dietro di me sentivo il fiato corto, il fiato grosso dei bidelli e di qualche sconosciuto che ava di lì per caso e mi rincorrevano tutti, ci rincorrevano tutti, fino a placcarci, senza farci mai male. Le volte che non riuscivano ad acchiapparci arrivavamo alla stazione in pochi minuti e facevamo in tempo a prendere il rimasuglio di treno per andarcene da soli in qualche posto silenzioso. Scendevamo a Lazzàro. E poi a piedi arrancavamo fino a Motta Santo Niceto. Là c’era uno dei nostri nascondigli preferiti: il castello. Da lassù il cielo era una festa azzurra, e l’Etna era di fronte, proprio di fronte a noi. Quel castello era la nostra piccola magia segreta, il nostro divario dal mondo, la distanza incolmabile tra noi e gli altri: soltanto lì eravamo veri, nella solitudine astratta e limpida di quel cielo sopra di noi. Il castello era infatti sprovvisto di soffitto e, tuttavia, le mura intorno gli conferivano l’aspetto di una
fortezza. Una fortezza invalicabile che ci proteggeva, per esempio, dai professori e dalla scuola. Odiavo la scuola. Era fasulla e oscena. Il mese precedente, a settembre, era piovuto per giorni, e quando era iniziata la festa di Reggio il blu era riapparso per grazia della Madonna, e dai balconi del corso avevano steso i drappi e i lenzuoli amaranto, e un manto di perdono richiesto era calato su uomini e donne coi bambini in braccio a osannare la pietà della Madonna, quella divina e salvifica femminea mea domina. Così facendo si scongiurava il male: s’appostavano a pregarla, e non importava se il miracolo era antidemocratico, se andava a caso da qualcuno, e non da tutti in parti uguali. Importava l’egoismo buono del credente, il suo modo d’implorare unico e insuperabile. Armando raccontava che mentre portavano in spalla quell’immagine sacra, tra sforzi e sudore e visi straziati di fatica, con le forze che cedevano e con gli occhi imploranti la grazia, ecco che un manto ricopriva gli animi, come se aleggiasse davvero lo spirito santo travestito da brivido lungo le schiene. Questa cosa mi faceva venire la voglia di essere credente anche se non sapevo mai bene che cosa pensare di quella festa. Se lasciarmi catturare dalla fede o se ignorarla: e mi chiedevo perché in quei giorni tutti mi sembrassero più buoni. Quell’anno persino il mio Zeus era rimasto senza pioggia, e il mio scetticismo sobrio mi aveva spinto lontano, fino al castello, pur di evitare il mal di scuola; tanto sapevo che a mezzogiorno sarebbe ato il treno del ritorno che sbuffava lento e sulle rotaie s’accumulava calore di meridione e le poche nuvole bianche litigavano col vento di Siria che le azzuffava e le sfiancava fino ad allungarle come pachidermi stanchi: colti di soprassalto dallo stridìo dei freni, i eggeri salivano sul treno prima di saper aspettare la discesa di quelli che c’erano già. In venti minuti s’arrivava a Reggio Calabria: qui la storia di dieci anni prima aveva portato i moti, con le barricate come trincee in città, al posto dei negozi, al posto della vita; dieci anni prima c’era il coprifuoco; ero nato da poco che manco me lo ricordavo il filo spinato alla fine di Sbarre Centrali, tutta diritta e lunga come un'anaconda impolverata e buona, ma talmente lunga da essere considerata una repubblica a sé, col filo spinato. Reggio aveva giurato fedeltà al fascio, e infine erano giunti i carri armati e s'erano appostati sul Lungomare desolato. Tempo dopo avrei trovato riparo leggendo Il Manifesto. Ma per adesso, l’argomento per eccellenza del reggino dei primi anni Settanta era per l’appunto la perdita dolorosa del capoluogo, con tutte le conseguenze del caso. Invece i
problemi del ragazzo reggino medio degli anni Ottanta erano ben altri: scuola uguale schifo e compiti uguale merda. Se eri spento, la scuola ti azzerava ogni tentativo di desiderio. Se hai un campetto sotto casa puoi studiare male quanto vuoi ma a giocare t’assicuro che impari bene. Altri problemi ineluttabili: la discoteca, come raggiungerla, come starci il più a lungo possibile, come tentare di ballare rimanendo seri e senza ballare sul serio, come approcciare le femminidi senza manifestare elementi di atteggiamento tipici del mondo animale e ostentando, al contrario, una quasi indifferenza mentre dentro di noi gli ormoni scuotevano quel che rimaneva di un essere umano, oramai divenuto, in seguito a quella collisione dei sensi, un’ameba sorridente che aspirava meccanicamente la sua sigaretta. Un’ameba fumatrice: ecce homo. In estate Papyrus batteva Limoneto sei a uno: questo era lo scarto tra le due discoteche fuori città. Lunedì martedì mercoledì giovedì venerdì e domenica: Papyrus, Sabato: Limoneto. Il Papyrus era più adatto ai fanatici della conversazione: coloro capaci di conversare in pista, al banco del bar, davanti agli altoparlanti che sterminavano i loro timpani: e loro imperterriti continuavano a conversare. Ballare si ballava poco: bastava formare un cerchio come se fossimo al girogirotondo e muovere i piedini a tempo, destr-sinistr-destr-sinistr-destrsinistr. Il Limoneto invece era più verace, più ruspante, più tamarro: andava affrontato con sicurezza, senza paura delle risse o che ci fottessero le vespe, e senza timore di agitare i corpi dentro il cerchio colorato dagli stroboscopi. Richiamava il verbo limonare.
Sono Leonardo Vittorini e sono diventato preside per cambiare nei fatti la scuola. Abolirò la parola materie. È obsoleta, sa di medioevo. Ci saranno argomenti da trattare, questioni da affrontare, ricerche da compiere, ma materie no. I miei alunni lavoreranno senza apprendere a memoria: le poesie, certo. Quelle sì. Ma non si studierà per la verifica. Si verificherà mentre si apprende. Ma si apprenderà quello che serve a essere uomini; non quello che serve a essere memorizzatori. Ma non basta. Voglio abolirla, la scuola. Voglio cancellare la scuola. E sono divenuto preside apposta: perché i presidi
hanno a che fare con la solitudine. E io ero abituato a stare solo. Non mi faceva paura tutto quel silenzio. Ecco, il silenzio era la mia sola famiglia. Lì s'arroccava il mio dna.Adesso serviva altro silenzio.
Il rione di sant’Anna era fucina perfetta per piccoli giocatori di qualsiasi cosa. Calcio, biglie, campanaro, scivolo della villa Carbone (luogo per noi di difficile risoluzione quando qualcuno di un altro rione ci domandava che cosa fosse quella villa: non capivamo come potessero viverci ragazzi senza genitori, soli, senza nessuno, a parte Luigi che si occupava di loro), basket col canestro saldato ogni quindici giorni dal saldatore ufficiale di Sant’Anna, il signor Puntillo, motocross, gare di bici, corse sui cento e/o duecento metri, corrispondenti al famoso giro del palazzo di Sergio, tennis da strada con le linee perfettamente tracciate e la rete che veniva sorretta da due ganci ai due margini della strada ma che doveva essere abbassata per consentire il aggio delle auto dirette da via del Gelsomino a via della Ginestra e viceversa (in caso di punto in corso si faceva cenno all’autista di attendere: e l’autista incredibilmente attendeva senza battere ciglio). In ogni caso la vita era gioco e ogni santo pomeriggio, sole vento nuvole pioggia acquazzone, si giocava, e se l’insegnante il giorno dopo veniva a dirmi qualcosa su interrogazioni e voti, speravo che avrebbe capito che m’erano morti padre, madre e fratelli: poveretto a chi gli muore la famiglia, foragabbu, u maricchieddu, u viristi? che la tua famiglia fosse morta però lo sapeva, e se ti muore la famiglia a dodici anni i fantasmi non li cacci a pedate dalla frontiera delle tue paure, anche se sono ati mesi o anni, questo era logico, e a me sfruttare questa sfortuna per farne una piccola fortuna in termini di comprensione scolastica sembrava giusto. Ma mica m’ero messo a scrivere questo alone biografico per legittimare i parenti a prendere per il culo! Ma no che non li odiavo. Era solo che loro avevano un rituale borghese che a me puzzava di porchese: adesso pensano che parlo dei loro morti e dei loro vivi, e non vogliono, sentono che nessuno possa toccare la loro dignità borghese, porchese. Ma io vengo dalla strada. Non ho il piglio dell’uomo salottiero. A che serviva scrivere compitini a casa? Scrivono i poeti, pensavo, ma per davvero, dico quelli come Bukowski, e ci basta lui. Ma io, sinceramente, dài, chi diamine ero io, per scrivere? E scrivere che cosa poi? Ero un matematico, io. E un calciatore, e un giocatore di biliardo. E di nomi cose città animali.
Per me scrivere allora non era ancora quello che sarebbe diventato molti anni dopo: tirar fuori frasi smozzicate dal culo del mondo ad opera di poveri appestati, di poeti veri; non è che poi uno vada dietro, a quelli così, pensavo. Ché se li vedi in foto sai che non hanno percorso la strada, quella corretta, quella come si deve, quella perbene. E come fanno allora quelli-che-vivono-perbene a farceli studiare, questi non-perbene, che cosa ci vedono nei poeti-non-perbene quelli-che-vivono-perbene? Questo pensavo, e il treno tornava lento anche quel giorno delle interrogazioni a scuola e avevo ancora un po’ di tempo per starmene coi miei pensieri. Che dite? Se la conoscevo la parola pensiero? macché, non la conoscevo, che ne sapevo che pensiero è peso? A me serviva un cazzo di motorino. Era arrivato pure un parente diverso da quelli sciagurati: uno zio che io veneravo come un Superman, ed era venuto a fermarmi, con la sua autorevolezza buona: era il mio eroe, mio zio: gli ammiravo la forza e il coraggio, gli ammiravo la leggerezza delle battute, gli ammiravo il suo ato, la sua tradizione, il suo cognome roccioso. Lo aspettavo da Messina nei giorni di festa, quando arrivavano lui, mia zia Ada e mia cugina-sorella Marina. Erano i giorni del riscatto, della resurrezione. Il motorino no. La macchina a diciott’anni, quella subito, mi aveva detto. Ma niente scherzi, ragazzo. Il motorino no. Non puoi morire. Il verbo morire ha un suo dosaggio a famiglia. Il vostro dosaggio è già stato usato. In motorino alla fine c'ero andato lo stesso. E quell'anno era morto un ragazzo di nome Enea, in un incidente. Ma se anche m’avesse sfiorato l’idea di morire, invece che accelerare, qualcuno avrebbe potuto dirmi, anzi, mi avrebbe detto di sicuro: senti, giovanotto, se hai deciso di farlo metti il culo sul barilotto di dinamite ma fallo lontano da noi, vai in mille pezzi, ma fuori da qui, via, gli osanna alla morte restino solo nella tua testa, noi da qui li facciamo pezza vecchia, i tuoi osanna. Chissà se zio lo avrebbe letto tutto questo. I fintamici mi avrebbero detto di sicuro questo: “Noi siamo stanchi della tua morte, lasciala alla letteratura. Noi siamo in festa, tesoro. Non è età, vai a giocare, non c’importa dei tuoi mali, di quello che ti è capitato: se aspetti l’anno Duemila scoprirai Dave Eggers, lui sì che ha fatto i conti col male, non vorrai dirci che sei tu, Dave Eggers?” Speriamo di no: manco per il cazzo. Ma anche adesso che ero adulto, mica ero Dave Eggers. Non lo ero, t-e-s-o-r-o. Sentivo davvero l’urgenza di scrivere,
come avrebbe detto Henry James? volevo davvero fare lo scrittore? E perché? Dovevo per forza sputare fuori del dolore in forma scritta? Non potevo lasciarmi trascinare da Fibonacci? Dai matematici? Dai numeri triangolari? Dai numeri quadrati? Da grande ero diventato matematico eppure alla fine avevo scritto un libro: ma almeno avevo proibito a me stesso qualsiasi cerimonia di presentazione tipo non so se avete presente quando uno scrive un libro e quelli che lo conoscono si sentono in dovere di comprarlo e allora si va in un caffè letterario, ma non troppo letterario, poco letterario: c’è qualcuno che sfoglia un giornale ogni tanto ma di solito si sfoglia poco, si mangia, si mangia un cornetto alla crema di solito, oppure un cornetto vuoto: leggere non si legge mai. Però è figo il caffè letterario: tutti ci vogliono andare. Il mio libro marciva lì ora. Ecco, quando qualche vecchio amico s’avvicinava sentendosi in dovere di parlarmi di questo mio minuscolo libro come fosse la Bibbia, credevo che la mia faccia fosse eloquente, per il misto d’espressività tra nausea e indifferenza: ma subito pensavo che esisteva la parola rivincita: avevo pensato infatti che nei successivi libri, sempre se avessi avuto il coraggio di scriverli, avrei tolto i veli alla vita fasulla e avrei scritto fatti e nomi e circostanze vere. Ma certo che sì, altrimenti come avrei potuto raccontare e sperare che qualcuno alla fine avrebbe creduto in me: non aveva creduto in me nemmeno la professoressa Anita, quella giovane, che leggeva tanto, che sottometteva gli alunni, che aveva un atteggiamento austero, che era devota ai suoi santi, che lavorava a scuola come se fosse un lavoro normale, come se lavorasse in ufficio, che non guardava gli alunni in faccia, che non capiva le loro paure e le loro ansie, e le loro debolezze e i loro desideri, e i loro sogni, e che odiava chi aveva bisogno del sostegno o chi mandava al recupero come fosse un tossico e lei mai avrebbe fatto la crocerossina, e che quando aveva letto il mio manoscritto aveva detto: sono rimasta perplessa, mi dispiace, non ho capito, che cos’è? Ricordo che eravamo in treno ed era caduto un silenzio freddo che io avevo stemperato con una risata antipanico. Avevo persino immaginato di sentire una voce che mi domandava, pensi che abbiamo voglia di immedesimarci nei ghirigori di un ex professorino di matematica, ormai in anno sabbatico prima di diventare preside? Nella mia schizofrenia avevo percepito bene pure un oh, come parla forbito, mio dio, è tutto forbito forbituccio, ma dove devi andare col raccontuzzo da impiegatizio? E mica ero Isabella Santacroce, quella sì che aveva cambiato
connotati alla letteratura quando aveva scritto Destroy, e l’aveva recensita anche Baricco. Ma io non era come lei e non avevo alibi sadomaso e non vivevo a Milano, né a Tokio, né ad Amsterdam. Provenivo nientemeno che dal rione Sant’Anna. Mi ricordo che mi avevano dato pure un premio letterario, ma era troppo evidente che era un premio amichevole, e io avevo ringraziato il presentatore quando dal palco aveva chiamato Leonardo Vittorini: ero io, avevo vinto qualcosa, signori, non mi capitava dalla coppa di biliardo all’italiana-goriziana di un torneo sociale di tanti anni prima. Ma la gente quella sera aveva troppa fame per aspettare altri minuti, per rispettare altri stereotipi: mentre un filosofo mi presentava paragonandomi a mia insaputa ad Heidegger la gente scalpitava, guardandosi attorno e muovendo le dita delle mani congiunte a tempo coi movimenti peristaltici dovuti ai succhi gastrici. Così, il mio primo libro era diventato una mappa ideale e inconsapevole degli errori di fondo di un matematico prestato alla letteratura, di un futuro preside con la colpa di fare letteratura: mi ero ricordato del preside del film La scuola, quando il professore di italiano (Silvio Orlando) aveva detto qualcosa di poco pragmatico e allora il preside lo aveva ripreso: non faccia poesia, professore! Non vi dico la bile di una fintamica dopo la pubblicazione: la sentivo in tutta la sua elegante acredine, mentre l’accompagnavo in macchina, recitare il suo salmo accorto di encomi per il di lei accompagnatore, cioè io: ma subito dopo era tutto un crescendo di narrazioni per far risaltare la grandezza dei cugini e dei figli dei cugini e degli amici dei cugini e, poi, per far risaltare le stesse consanguineità declinate però al femminile. Era stato tutto tremendo. Il viaggio di pochi minuti nella mia testa era durato ore, giorni, anni. “Ma sei tu quel personaggio? E chi è allora? Ma che ci facevi là, in quel castello? Davvero fumavi canne e ti giocavi la scuola? Eri tu quello? Non eri come noi? Sai, noi siamo così, siamo, come ben sai, una famiglia unita, che ha sudato per quello che ha voluto, mai una raccomandazione, non credere.” Avevo dodici anni, avreste dovuto amarmi. E invece amavate sparlare. Troppi commenti. Ancora vi aspetto. Tutti. Aspetto le vostre scuse alle nostre malattie. I vostri inchini alla nostra dignità. Il vostro pentimento alla felicità mozzata. Chi li voleva i vostri regali. Pecora nera non ero ma sentivo che lo stavo diventando giorno dopo giorno.
Leggevo e scrivevo per fare quello che occorreva fare: ero l’orfano idiota che cercava rivalsa letteraria.
Ti porpatì sti stràtandu em betti mai.
Chi cammina per la sua strada non cade mai.
Ma in grecanico era più bella. Ti porpatì sti stràtandu em betti mai. E forse era più vera. Perché a dirla in italiano pareva non tanto bella, non tanto vera. Pareva triste camminare per la propria strada, pareva troppo triste. In grecanico pareva logico camminare per la propria strada, senza cadere mai.
Ti porpatì sti stràtandu em betti mai.
Negli anni del liceo invece cadevamo spesso per la nostra strada. No, non voglio stressarti, amico lettore. Se hai altri cazzi per la testa, ti capirò. Non è tempo di leggere, questo. A volte io andavo direttamente alla stazione, senza are per il cancello dove gli studenti più grandi avevano scritto a caratteri cubitali Lasciate ogne speranza o voi ch’entrate. Al massimo avo accanto per recuperare il paninazzo Maradona oppure il paninazzo Platini della prima paninoteca reggina dal nome un tantino velleitario: Socrate! Ed eccomi pronto alla fuga direzione Motta, castello di Santo Niceto. Il castello in onore di san Pier Niceto, il Pier vincitore. Solo che a me sembrava dimora ideale dei perduti. Lì mi aspettava Dio. O chi per lui. Ero solo, pure io. Quando scappavo verso Roma, me ne partivo stando accanto al finestrino lato mare, pensare a palate mi faceva bene, cercare un posto in cui mimetizzarmi, o
essere invisibile al mondo. Cuore, e cervello, e nervi e ossa me li spampanava un’angoscia seria, un’angoscia adulta, se non stavo da solo. Una signora accennava un saluto, niente scuola oggi, giovanotto?, e io ora che le potevo dire? Il solito mezzo sorriso idiota e un piccolo scuotimento di testa, cercare con gli occhi la via di fuga dalla parola più deprimente: dialogo, c-e-r-c-a-r-e f-u-g-a-dal-d-i-a-l-o-g-o. E dove fuggire? La signora mi guardava la mano, la mano nascondeva la sigaretta e quando la stringevo col palmo quasi la spezzavo, non si piegava, si spezzava, si faceva coriandolo di finta canapa, io buttavo un gridolino di dolore (da breve ustione) colla piega della bocca che mi si allungava a risolino, la cicca la mollavo a terra, la signora osservava, poi diceva che le pareva una sigaretta, perché la mia vergogna le aveva fatto credere che invece fosse una canna. Allora ripensavo ancora a Cinaski. A volte su quei treni entravano a valanga i paninari. Abbigliamento dei paninari: Moncler con le toppe a mastice antifuga di piume d’oca (sì, vere piume d’oca, non chiedetemi come le mamme fero a entrarci in negozio e chiedere oche spennate a mezze maniche), che erano d’un azzurro azzurroso, e le mamme forse non se ne accorgevano; jeans Stone Island o Levi’s 501 ma alcuni come Sergio stavano coi 501 calati a mezzoculo, a mo’ di tozzi romani, segnando una incolmabile scissione tra paninari e tozzi, uno spartiacque ideologico e campanilistico (Roma vs Milano) segnato dalla marca e dal limite della cintola: più giù stavano i jeans più si era tozzi (filoromani-tozzi) più salivano più si diveniva paninari (filomilanesi-sanbabilini). Che fare? Dilemma eterno e diaspora insanabile. Le Vans disegnate a scarabocchi, umiliate, a sfregio contro il loro valore, come i Ray Ban con le lenti scartavetrate per togliere l’esibizione, un no logo prima del tempo, ma per snobismo: togliere l’esibizione della marca per poter esibire il sine nobilitate. Il gel alle tempie scolpiva l’idea gallosa della vita, in un fumoso strafottentissimo fragore d’edonismo, d’accecante edonismo. E questa era la maggioranza. All’opposizione invece ci stavano quelli rigorosamente vestiti di nero, con le cuffie posizionate sui Clash e l’aria nera, e gli stivaletti neri Dr. Martens, con la punta di ferro, ma nascosta dalla pelle soprastante, e il chiodo che doveva essere elemento cardine della divisa di questi intransigenti cultori del dark, e dei seguaci dei punk inglesi, e dei metallari, in una infinita ripartizione di gruppi e di credo religiosi, di vestiario e di gusti musicali, oltre che di una evidente
compresenza di fattori filosofico-esistenziali: cazzo: un chiodo vero, intorno agli occhi la matita, nera, grossa, se ne stava seduto accanto a me così il mio non ancora amico Carlo. Non eravamo ancora amici per un motivo semplicissimo; l’appartenenza a mondi giovanili opposti (paninaresimo/darkismo) ci costringeva a mantenere distanze ben corpose, pena l’imbastardimento dei gruppi originari d’appartenenza. In questa fauna adolescente spiccava uno strumento di struggente nostalgia: il walkman per camminata sconclusionata e ciondolante del dead youngman walking. Dalle cuffie logore del walkman fuoriuscivano quel giorno i piatti della batteria di A forest dei Cure. La signora dormiva, il viso gli pendeva come il naso di Vitangelo Moscarda, e gli occhi erano aperti appena appena, giusto lo spazio tra il mondo dei primi e quello degli ultimi, tra i borghesi e i malati sociali, tra i sani e i visionari, con gli incubi pronti a entrare appena quegli occhi li chiudeva a colla. Ma lei li teneva mezzi vivi, ancorati al mondi dei vivi e vegeti, dei sani. E questo già sortiva degli effetti in noi: effetti spaventosi. Pareva quasi morta, comunque agonizzante. Al braccio se l’avvolgeva tutta, quella borsetta, la signora e, per paura che gliela fottessero, si rassicurava pure a stare con l’occhio vigile; la borsetta era il suo feticcio; se la mollava, se e quando la attaccavano, se e quando gliela volevano fregare, era soltanto per imitare il geco, che abbandona la sua coda per fregare il gatto, gliela fa ballare, quella coda, proprio sotto agli occhi e il felino finisce per impazzire, acquolina in bocca, l’afferra, ma è solo rimasuglio di polpa del geco già fuggito in alto, con le manine a ventosa, gli occhi a palla, spiritati, e gentili: come quelli della signora, ora sveglia, la fronte imperlata, il sogno sfiorava la bua dell’incubo, al di là del mondo, nel ventre della burla, dove cadevano apiti i portatori di antimateria. La sua borsa firmata era la sua coda ricresciuta in un attimo, come quella del geco vittima del gatto. A me e a Carlo, nonostante la dicotomia maggioranza-opposizione (ovvero paninari vs dark) la signora faceva l’effetto-umorismo di cui parla Pirandello (attenzione, l’effetto-umorismo è che oltre a ridere del fatto in questione, riesci pure a provarne comione, altrimenti è solamente comicità) e avevamo cominciato a ridere con la corazza seriosa che cercavamo di mantenere. E allora
la cosa si faceva più grave, perché il divieto di ridere nella testa del paninaro produce una spinta verso l’alto uguale e contraria al doppio della spinta verso il basso esercitata dal dark nel tentativo di frenare la risata. Attenzione, FATE ATTENZIONE: in arrivo al primo binario due ragazzi trasportatori di vagoncini per il futuro con dentro parole come calciatore di talento e calciatore di meno talento, sicilianità, amicizia, moto, ragazze, sigarette, pub, discoteca, ridere, e mastice per unire ai due il terzo ma non per importanza, un tal Marco, e giù parole come vento, cazzare (nel senso di randa) e cazzeggiare, libri, auto, sigari paterni, subbuteo, modellismo, serate appresso a minuziose diversificazioni e precisazioni su temi ricorrenti quali: secondo me quella è decisamente più bona di quell’altra, e via discorrendo, fino a fughe col Ducati Monster per Taormina, ivi compresa mia crisi di panico per iperventilazione causata da eccesso di vento in faccia, dal momento che il casco in questione era, sfortuna volle, sprovvisto di visiera ma molto molto molto cool, e conseguente impasticcamento con EN una compressa da 1 mg. al momento del bisogno, cioè in quel preciso momento, con doveroso sfregolare delle pareti interne della bocca per autoproduzione di saliva come sopperimento all’assenza di bottiglietta d’acqua. Fate largo alle anime sgorbie, al prolasso delle loro ingenue intelligenze, erano solo tre ragazzini, e occhio alle vibrazioni che le stringhe dell’universo emanavano quando si scontravano i multiversi della teoria M. Teoria che? Ah scusate, il matematico e fisico che vivevano in me prendevano a volte il sopravvento. Che poi a pensarci bene queste vibrazioni erano come le faglie che stridevano e mollavano energia su per il mondo e noi tutti in corsa, agghiacciati dall’orrido che sollevava la terra, la deformava, ce la fregava sotto ai piedi, e gli occhi si disfacevano dal terrore cieco, un terrore bianco che ci appostava per appestarci l’anima: eppure quel terremoto esisteva come atto liberatorio, per calmare il subbuglio caotico dentro le viscere, l’orgasmo terrestre, nostro malgrado. La velocità della luce Crea non l’aveva mai saputa spiegare; era un professore di fisica e matematica e non sapeva spiegare la velocità della luce, e la forza di gravità. Ce l’aveva detto un poeta che la luce quando noi battiamo le palpebre fa sette giri e mezzo del pianeta Terra. Professor Crea: potevi dircelo. Saremmo venuti di corsa a scuola, ogni mattina, ci saremmo divertiti da matti e invece no,
doveva deriderci e umiliarci fino a farci scomparire di vergogna e di noia. Pace all’anima tua. Avremmo preferito il mito di fisica di Buccafurri, docente dell’istituto geometra della città, che quando si spazientiva scaraventava la cattedra metri più in là, contro ogni calcolo o probabilità; pigliati il foglio e vieni avanti, urlava con voce stereofonica per tutta Reggio Campi. Quella sì che era vita da discenti. A noi occorreva il professor Buccafurri perché era uno che sbraitava cose del tipo: ci vediamo al tempo dell’uva. Era uno che nuotava con uno scudo magico che lo difendeva da squali e balene. A noi la noia della scuola ci uccideva, eravamo morti che aspettavano di poter impennare per due ore come antidoto allo studio. Impennare serviva, altro che studiare. Impennare e ridere. Impennare e aspettare Buccafurri. Ma subito dopo tra me e me dicevo, okay, vacci piano, orfanello nano, smettila di ridere. Ora ti cercano. Non si scappa da scuola. La scuola ci salva, vi salva dalla strada, la tua coscienza vuole ordine, interrogazioni, compiti, lezioni scoccianti. Lo sapevo che ero abbastanza schizofrenico da sentirla la vocina che mi correggeva, che m’aggiustava. Il treno sferragliava lungo la costa e il sole spietato ingialliva le case di quei paesini in fila, le facciate rivolte al mare. Che ci facevano quelle case lì? Chi le aveva costruite, e quando? Quando s’erano formati quei rimasugli di civiltà intorno a tovaglie imbandite di natura alberi prati colline e mare e sabbia e distese di felicità, di felicità intatta? Quando era arrivato l’uomo, dico, l’uomo, e quale uomo, dico, l’homo habilis l’erectus e il sapiens e il sapiens sapiens, che era già uomo di dopo, l’uomo già vero uomo, delle civiltà antiche, l’uomo babilonese, punico, egizio, finalmente l’uomo greco, civile, l’uomo con l’ecista a capo della barca, e chi l’aveva guidata la barca-città, nel mare infernale, nel mare di nessuno e di Ulisse, quali colonizzatori avevano attraccato, e perché, perché era terra di vitelli? Era Vitulia, che poi s’era fatta Italia, questa appendice malata? O era, questa terra, di re Italo, questa Reghion alleata di Atene, contro Locri? Perché quegli uomini-scimmia erano arrivati dall’Africa ando prima dalla Turchia o dal Caucaso a scombussolare quel silenzio immacolato, per quale utopia erano giunti qui a inondare la storia di sacrilegio, e di stupro, e di sangue sgorgato, e chi aveva spiegato in classe il feudalesimo con le terre in mano ai potenti, ai baroni, e mai nessuno fino a Calvino che avesse fatto salire un barone in cima a un albero, e chi aveva voluto la povertà? Tutta questa povertà. E le madri che ruolo avevano dentro a quel mondo maschilista dove padre era uguale a terrore?
E l’omertà? I ceffoni avevano odore di omertà. Te li tenevi. Si diventava pieni di omertà, e di povertà. A me mio padre, in tutta la sua vita di padre, non m’aveva mai dato un ceffone. Ero sceso dal treno mentre una tipa con le cuffie alle orecchie aveva messo Start me up dei Rolling Stones sparati altissimi per non sentire altro che melodia elettrica: ma mica le sentivo le canzoni. Leggevo i titoli sulla facciata della custodia della cassetta mangianastri. Forse le pigliava il magone e l’infelicità non pattugliava languori poetici. Il languore di Verlaine? Di Verlaine era quel languore, vero? E i dolci ricordi nemmeno trottolavano più a sirene spiegate e la frustrazione dentro di lei galleggiava al limite della sopportabilità, come un furfante qualunque, e allora capiva che era il momento degli U2 con Sunday bloody Sunday, e poi con Born in the U.S.A di Bruce Springsteen e la ragazzina paninara accanto a me pensava a Wild boys dei Duran Duran e la tipa di prima sul treno s’era girata poco prima del mio arrivo a dirmi pure una cosa del genere: che se davvero ci sono parole per tutti al mondo, come dice Cinaski, ecco che era il mio turno, questo pensava, che era il mio turno, e tutti a deriderla, poveretta, non sa che cosa dice, è pazza, è pazza, e l’altra, la paninara, così paninara e griffata, aveva fatto la faccia di chi vuole dire una cosa del genere, e cioè che l’università ci vuole, dopo la scuola, l’università e i voti nel libretto, e i soldi dell’affitto in una città come si deve, e via di qua, via: questo è l’obbrobrio, il collasso che il mondo del nord non s’accolla, (sognava di farsi eggiare in Golf cabrio da un sanbabilino), chi ci piglia a noi, col nostro accento che sfiata i polmoni e coi nostri volti arresi alla pochezza del benessere oppure occhi persi, malati di solitudine, occhi soli dopo che i figli se ne sono andati via, occhi da pazzi di paese, da pazzi in piazza, l’avete visto voi quello? A proposito dei Duran Duran, eravamo in guerra fredda: fautori di Simon Le Bon e company e fautori di Spandau Ballet, allo stesso modo delle fazioni dei Madonnari e quelle dei Lauperiani. Pazzia e solitudine a Reggio city, un povero pazzo rimasto per un figlio di qualcuno partito: il primo restava, il secondo fuggiva. Adesso a questo pensavo; pensavo alle persone che pensano questo, e il pensiero è sempre una matassa di lana grezza, è il pensum dei romani, non il cogitare già lavorato, già affinato. Avevo fatto cenno col dito lungo tra bocca e naso di far silenzio, ma col sorriso e
le labbra a bacio che recitavano mutismo. Eravamo soltanto ragazzi: ma più che altro sembravamo alieni in maschera, e guardavamo sbilenchi il mondo adulto: gli anni Ottanta calavano addosso a noi bambini perfetti, che sbavavamo davanti alle vetrine per paninari perché l’estetica degli oggetti batteva l’etica dei valori a tavolino, ecco gli anni Ottanta, signori, mi stavo accollando l’onore di presentarveli. La sigaretta appesa al labbro ci faceva un po’ Gighen, un po’ Nick Kamen (era soltanto la nostra convinzione, ahinoi!) e gli adulti erano indaffarati a fottersi il mondo ed erano buoni solo se erano capaci di farlo. Non importava come. Importava che nessuno ci aveva spiegato le cose perché le cose si sapevano. Si nasceva imparati e nessuno sapeva che il pallone a calcio, se non vuoi allungarlo troppo e perderlo, devi portarlo avanti col tocco esterno del piede. E nessuno ci aveva insegnato che i confini di un rione non avevano esattamente delle colonne d’Ercole che palesavano l’obbligo di rimanere entro quei confini medesimi. Se diventavamo subito ragazzi, nessuno ci insegnava come comportarci. Le nostre colonne d’Ercole andavano dalla fontanella prima della piazza fino all’angolo del palazzo dove vivevano le zie di Santo Mammasanta Ielo, che scrutavano con religiosa pazienza tutti i movimenti degli abitanti del perimetro rionale e con dovizia dei particolari ne annotavano ogni mutamento sospettoso. Ci scoprivamo maschi e le femmine erano poche e il sesso cominciava a pulsare. C’era un furgoncino ai bordi d’un campetto da calcio, cioè non era proprio da calcio, ma lo diventava facilmente con una carriola per spargere la calce per tutto il perimetro, bene per tutto il rettangolo, e poi dentro il rettangolo per le linee interne, per l’area di rigore, il pallino del dischetto, il corner a forma di corner, e l’area piccola e la mezzaluna nell’area grande e la luna piena a centrocampo, quella difficile senza un como per giganti. C’era un furgoncino che usavamo come spogliatoio prima delle partite. I più spavaldi, non ricordo nemmeno più chi, lo usavano come nascondiglio, in comune, del giornaletto scostumato sotto al sedile di dietro, con le foto a colori più consumate di quelle in bianchennero: raccontavano – sempre i più spavaldi, i grandi, come li chiamavamo noi – che andavano al cinema Moderno, quello dei film scostumatissimi, e, sul più bello, un certo Vanni accendeva un petardo e lo scoppiava in quel silenzio orgasmico, per sfidare il limite del loro infarto. Nel furgoncino spogliatoio a qualcuno era venuta la brillante idea di portare un giornalino scostumato nuovo. Lì si facevano gli erotico stomp in un attimo, il
tempo d’una scossa, e lo spurgo era di massa, quello offriva la casa, prima che le mamme urlassero la cena dal balcone. E si riabbassavano le serrande sul mondo di notte. Quando si rialzavano, l’alba aveva illuminato il campetto che di domenica veniva invaso per la partita seria: quella contro Crocifisso, San Giorgio extra, Villa Carbone. Tutto era molto serio, comprese le mie scarpette slacciate mentre mi dirigevo con spaventoso ritardo al campo e sentivo appena svoltato l’angolo Roberto Pax Paciowski inveire contro di me, eccolo, guardatelo, arriva, sì, con calma, non abbiamo fretta, col tuo comodo: ma subito dopo che avevamo smesso di ridere tutto diventava serio, terribilmente serio, cominciava il prepartita e significava schemi di gioco e posizioni in campo e magliette numerate, tutte diverse, quella della Lazio e quella della Reggina e quella tutta bianca e quella della tuta Adidas: allora io manifestavo la mia idea di gioco e se tenere Sergio il biondo (detto il tozzo) largo a destra per qualche galoppata e cross al centro per l’insaccata di testa del poliedrico Paciowski in maglia biancoceleste per ribadire il suo amore per la Lazio, oppure cerniera di centrocampo più robusta con avanzamento di dieci metri di Santo Mammasanta Ielo, stopper di rango nel ruolo da mediano; la fascia sinistra era roba di Roberto Roby Erremoscia. Ogni tanto in quel cerchio di centrocampo, convinto di giocare la finale di coppa del mondo, vagheggiavo di lanciare per quaranta metri l’attaccante: soltanto che la palla arrivava a Tiberio in una nube di terra e lui la vedeva are troppo veloce per le sue gambe, per il suo cuore, e la perdeva, noi ci incazzavamo ma poi ci tornava alla mente una ferita: gliela guardavamo terrorizzati, era proprio lì, al centro del petto (si diceva fosse stato il treno a argli di sopra quando era bambino: magari ci credevamo!). In quel momento non ero più Leonardo Vittorini, ero Michel Platini, e quello non era il campetto di terra di Sant’Anna, quello era il Santiago Bernabeu di Madrid: ma l’imitazione era limite d’azione, ci aiutava a vivere per mitizzazione. Dopo la partita avevamo il tempo di lavarci e di correre felici verso la piazza di Sant’Anna, con quattro macchine che avano in un’ora e qualche sedia accanto al bar, per i commenti sul calcio della sera prima. Da lì fuggivamo in direzione pizzeria Alhambra dove Roberto Pax Paciowski si esibiva nella degustazione degli arancini al ragù: quella scena – giuro – per noi aveva per titolo una sola parola possibile: felicità. Un ragazzo pensa a bruciare le tappe, a salvarsi il culo, non vedere l’ora di finire
la scuola, e così via. Invece tutto è un grugnito idiota, scenico, con i boxer messi fuori dai jeans a ostentare un paninarismo da figli di papà, col culo pieno, pienissimo, e le ville borghesi, e i molti morti ammazzati. Le pizzerie sudavano sangue di molti morti ammazzati. E le strade contavano molti morti ammazzati, come pietre miliari, a misurare la forza della cosca sull’altra cosca, sangue dello stesso sangue; malu sangu era la morsa stretta attorno alla parentela, che cresceva con le armi in casa, e i paninari con i cinturoni El Charro come cowboy smarriti nella città inospitale, cattiva, da Far West. Le sparatorie si moltiplicavano e Reggio diventava la terra di piombo, Reggio diventava un cimitero di quelli ammazzati e già morti ancora prima di morire. La poesia era altrove. I padri i telegiornali ormai se li sceglievano con i telecomandi. E i telegiornali spesso informavano il mondo che la ‘ndrangheta è Reggio, Reggio Calabria. Vivere a Reggio di Calabria a volte pensavi fosse il peggio che ti sarebbe potuto capitare, col lungomare spento, di sera, perché le luci non esistevano, e il nero piombo continuava a pressare le tempie alla brava gente, e i rioni avevano vicoli bui e balconi con padri che giocavano al lancio del giavellotto con la spazzatura, le buste cadevano a pioggia certe notti che l’aria era più calda e i fanali delle auto di tanto in tanto accendevano in faccia ai topi il terrore, e i gatti s’infilavano negli spazi che trovavano, e un urlo paterno zittiva mezzo mondo, o soltanto mezzo quartiere, ed era già tanto, era già troppo. I topi non avevano templi, almeno non i topi italiani. Avevano strade tutte per loro. E copertoni pronti a piallarli. I muri dei palazzi erano sempre incrostati. Dalle terrazze sporgevano i ferri come guglie gotiche, come mostri meccanici: qui i vicini farfugliavano anche di notte, quando il calore s’aggrumava, si faceva peso, e sporgeva per intero dal ventre di quel nido d’uomini ammucchiati a casaccio, non si sa come, non si sa. I cani ululavano una sera sì e una no, e quando era la sera no, l’ululato si sentiva lo stesso. Faceva più paura, però, il silenzio, quello lungo, che durava anche anche ore, ed era una follia lenta, calcolata, era il silenzio calato dall’alto da un dio immacolato, e sordo. Un dio deturpato dai millenni, la bocca tappata dalle fuliggini, la gola che sporgeva a gozzo come d’un gallo smarrito e vecchio, e i silenzi in quella via non li sopportava nessuno. E aspettavano che asse il delirio della notte, che la quiete funesta restasse senza sospiro, alla fine, scorticata da qualche frastuono umano. E poi, eccola, la solita alba, sarebbe arrivata di nuovo, eccola che stava
arrivando, ancora un po’ di buio, e di paura. Ma prima dell’alba ci salvava una piccola pace rumorosa, molto prima dell’alba: nel buio pesto, quando il fornaio sollevava la serranda del panificio, e dopo un po’ accendeva il forno. Restava tutta la notte, il forno, e tutti noi stavamo più sereni, ci tranquillizzava quella camomilla di fracasso. Sapevamo che il mestiere di fornaio era pure un poco quello di guardiano. Senza le parole del giorno la notte arrancava come poteva, coi suoi cimeli e le sue tenerezze, fino all’alba che arrivava col silenziatore attaccato alla carabina per evitare il sobbalzo della sveglia. La colazione me la facevo da solo. Le ragazze pensavano all’amore, e alle toppe Naj Oleari. Come si faceva l’amore? L’amore era spesso quello dei baci che rimanevano murati dalla distanza dello spessore dei maglioni, troppo larghi, troppo lanosi. Le spalline sporgevano molto oltre la linea naturale dei loro corpi, e i jeans a vita alta facevano i culi immensi. I maschi si perdevano per giorni appresso a quei culi, come ostaggi di un'idea fissa. Parlavano pensando a quei culi che sculettavano nell’attimo prima dell’accensione a pedali del motorino, e poi nell’attimo dopo aver messo sul cavalletto il medesimo, e poi ancora mentre camminavano verso il Cordon Bleu, oppure dopo ancora quando le ragazze le accoglieva un’ovazione di sguardi maschi dalle transenne di Piazza De Nava. Ci volevano quelle ragazze per renderci normali, intendo per darci una parvenza di felicità normale e possibilità normale, con i loro gesti di una normalità necessaria, una salvezza che rassicurasse, un tranquillante chiamato etichetta per adulti: sentirci adulti era la normalità cui auspicavamo. Ci volevano quelle come Luana (se non ricordo male il nome), che era troppo bella e che era finita tra le braccia di Roberto Roby Erremoscia, facendolo sentire adulto, beato lui. Ogni volta che Luana arrivava nel rione qualcuno di noi spargeva la voce e dopo tre minuti una folla di curiosi aspettava che tutto finisse per misurare l’annegamento d’amore. Lei apriva il portone e ci vedeva. C’aveva la faccia rivolta in basso e gli occhi semichiusi, i capelli un po’ arruffati, forse la spuma li sorreggeva, ma ci vedeva uno per uno, eravamo gli amici di Roberto Roby Erremoscia. Il braccio sinistro le faceva un arco che finiva con la mano contro il fianco e il
destro rimaneva sollevato, sorreggeva un guanto nero che usciva dall’inquadratura. Due collane intrecciate di perle, una bianca e una nera, e un crocifisso sottilissimo intorno al collo. Già, il collo. Il giro del vestito, semprenero, era ampio e dava luce a quella pelle che sbucava nitida e bianca. Ma l’essenza che sorregge questa immagine nella memoria di me che scrivo questi fatti, e davanti ai miei occhi bambini che li hanno visti da vicino, prima di tirare le fila del discorso da adulto, è nella grazia che non si può vedere, o raccontare. Esiste, da sempre, nella storia degli esseri umani, e lei quella grazia sì, sapeva di averla. Ah, c’era pure un rivolo di tatuaggio che fuoriusciva di poco dalla spalla, il rossetto faceva coppia col dito smaltato uguale. La mano nel fianco era coperta dal guanto. Sembrava Madonna prima di Papa don’t preach. Quando diceva che era in un mare di guai. Noi la guardavamo e predicavamo eccome: di vederla mezza nuda. L’atto di aver sfilato l’altro guanto richiamava un momento di leggerezza, uno spogliarsi di quel tanto per dire sono umana, anch’io sono terrena. Ma per noi non lo era. Non era terrena una con addosso tutta quella grazia che ci scollava i pensieri dalla terra, ci sollevava contro ogni forza di gravità, e ci sospingeva in alto, là, dove vigeva la legge del poeta, dello scienziato, oppure del pornomane, del reietto. Studiare? I ragazzi non capiscono un cazzo di materie, spiegateglielo perché dovrebbero studiare cose che chiamate materie, che cosa sono le materie? Vanno a scuola come carcerati a tempo. Io odierò la scuola, ripetevo spesso. Non c'era da studiare. Mi arrampicavo in cima a una scalinata e da lì ammiravo quel mondo di formichine scolarizzate che percorrono la stradina casa-bar-scuola con il loro malloppo sulle spalle. Il professor Crea, il matematico Crea, pace all’anima sua, trovava pure il capro espiatorio della questione assenze del sottoscritto: e dava la colpa della fuga a un supplente che ci metteva strane idee in testa e che ci faceva leggere e amare Il barone rampante. Leggere in classe Il barone rampante di Italo Calvino? Boiaaaaaataaaaaaa!, così diceva. Diceva che era una boiata. E poi tutti zitti, docenti conniventi, nessuno sapeva difendere i supplenti. I supplenti non li difendeva nessuno.
Nemmeno trent’anni dopo quando le cariatidi avrebbero resistito sulla scena, malconce e madide, sfatte, i bagni chiusi da mesi o occupati da ragni discesi dall’angolo del soffitto per sodomizzare mosche innocenti, annusatrici di urine, i laboratori preda dei tecnici inetti con senso di superiorità derivato loro da un totale obnubilamento del pensiero, divieto d’ingresso per tutti gli altri: nemmeno allora qualcuno avrebbe difeso i supplenti. Trent’anni dopo, una scuola in mano a presidi divenuti Dirigenti Scolastici (io sì che l’avrei fatto bene quel mestiere se soltanto dall’ufficio scolastico si fossero degnati a darmi una scuola tutta mia anziché lasciarmi a zonzo quell’anno, a girovagare) che avrebbero diretto la scuola ma sarebbero rimasti inani a pensare, col pensiero piccino, smarrito dentro a qualche o falso, dirigenti che tronfi avrebbero roteato il collo starnazzando saluti osceni, da mentecatti, gli occhi pazzi e pieni di vergogna per il ruolo che avrebbero occupato, increduli di cotanto potere da ostentare nei collegi, addosso ai puri, pochissimi, sapienti e puri: la maggior parte invece avrebbe covato piccoli segreti fessi, una schedina, un’amante, un viaggio, un progetto retribuito. Cose così. Io almeno sono pazzo per finta: sono pazzo perché non mi arrendo. Non posso tollerare l'ignavia. Sarà perché vivo solo. E quindi cerco il modo di dedicarmi agli altri senza rompere troppo le palle. Sì, sono scostumato. Me ne fotto del vostro volto borghesotto. Lèggere diventava ogni giorno diazepina senza effetti collaterali: mi rilassava e mi purificava da imbrattamenti di troppa realtà: e mi alleggeriva i nervi, e il dolore si sfarinava, piano piano, e diventava accettabile. Non ci sarei entrato più in quella scuola. No, addio, posto di merda. In culo. Da fuori, la scuola, per uno come me, era molto meglio. Il luogo ideale da fotografare a parole. Quei fasulli sapientoni dei prof si trascinavano come derelitti, li vedevo come scimmie al rallentatore. E il tempo era afoso anche le mattine dopo la fuga. Tempo di scirocco bianco a piombo sulle loro esistenze, e ora che avrei fatto? Preferivo ficcarmi in un casino, avrei potuto starmene almeno là fuori col sudore, o qualche spanna più in alto, dentro al palazzo dei videogiochi, e invece no: troppo facile, volevo solo l’oltraggio, e non me ne importava nulla della maggior parte di loro: ma non lo facevo neppure per un posto in prima fila, o per sentirmi al centro dell’attenzione; lo facevo per sopravvivere, per non sentire il tamburo martellante, la cornacchia nera, l’imbonitore a caro prezzo, il rimedio estremo che aveva trascinato in gattabuia quelli che prima c’erano, che erano
come noi, vivi. La pioggia non cadeva con un crepitio che durava e variava secondo la fronda più rada men rada, e non c’erano tamerici salmastre ed arse, e nessuna Ermione.
Scrivo queste corbellerie autobiografiche per sentire la pestilenza di chi le legge salire a raffiche dense e fragorose: risate. Una di loro ha voluto testimoniare di getto la sua gioia per l’acquisto del libro a tempo da record. Adesso il formato digitale giace – secondo le sue parole – al centro del desktop. Spera di trovare il tempo di leggere: per ora ha troppi impegni.
Ho raccolto dei compiti in classe che un docente di italiano e latino mi ha donato ed è nato La fortezza dei perduti. L'ho fatto per rianimare la scuola. Gli alunni hanno bisogno di urlare il loro dissenso. Avevo bisogno di guardare in faccia l'ipocrisia degli adulti. Mi piaceva vederli in fila come a un funerale dopo la messa, a fingere le loro condoglianze col viso sgomento. E adesso stava succedendo. Altri invece mi avevano sorpreso. Avevano finto che non fosse successo. I miei amici, un tempo più intimi, adesso s’erano arresi: chi è quel Vittorini? Boh! Mi avevano cancellato dalla loro vita. Ci avevo intravisto, in quell'atto, un talento simile al mio di quando rido per salvarmi dal nemico. Anche loro avevano quel talento particolare che ti salva dalla realtà: quel talento degli idioti. Avevano finto di non conoscermi per salvarsi dalla commedia di dovermi dire “bravo, lo sto leggendo con piacere”. Ma non si poteva dire bravo a uno come me. Io ero solo l’idiota, io ero il bubbone, il tarlo che offende, il graffio doloroso, io ero l’appestato e il capro espiatorio, io ero l’alibi per ogni brav’uomo, ero la prova provata che tutti gli altri erano il bene, io ero l’errore, la bugia, lo sbaglio, io ero la certificazione che la vita sfodera guai, io ero l’untore di idee, e non era consentito il pensiero libero, era consentito il pensiero precostituito. Avevo provato ad applicarla pure io la regola del talento degli idioti: era necessario salvarci, tutti. Ognuno cercava il modo più adatto: chi un ideale e chi una donna, chi un televisore e chi i viaggi, chi i libri e chi la musica, chi le collezioni di rancori e chi le collezioni di scarpe e borse, chi la pazienza di mantenere i segreti e chi la sfrontatezza di rischiare, chi un ombrellone in prima
fila e chi un materassino al largo. Per mettere a frutto la regola dell’idiozia bisognava recitare un ruolo, fino al punto di confonderlo con la vita. Solo che alla fine non c’ero riuscito a assoggettarmi alla finzione, pur sapendo che nessuna verità è più vera della finzione stessa. Ma il mio fingere era come il trucco del mago quando per farci sentire parte integrante dello spettacolo ci svela almeno un segreto, almeno una magia. E noi ne siamo contenti. Ecco che pure io svelavo l’inganno, mostravo il mio lato debole: il mio talento per sottrarmi al sentimento del dolore era alla mercé di tutti.
Questa tortura da decenni, questo recitare ruoli, assegnare numeri, sprecare tempo dentro un lento inutile e scocciante frammento che chiamano cortesia. Non ha senso se il velo di Maya rimane appiccicato alla sfera della Terra, se nessun docente o pusillanime era in grado di tirarci fuori dalla caverna. Se nell’ora di italiano si parlava del pessimismo di Leopardi, e di quant'era alto: un metro e quarantuno! Fallimento. E poi della madre così distante: ah già, si chiamava Adelaide. Fallimento. Mi colpiva a morte la derisione dei poeti, il labbro mi cominciava a tremare, mi sballottava gli occhi a mille all’ora questo fatto di rovinare la poesia a colpi di lezioni frontali e interrogazioni e voti e quadrimestri o trimestri (pentamestre era parola del futuro) e programmazioni e consigli e scrutini. Ero nato storto, e mi conveniva mettermi nel varco della storia e recitare versi a vanvera finché non mi pigliava la nausea e me ne scappavo con La pazza della porta accanto sottobraccio. Ora che ci penso, i miei compagni erano abbastanza normali. Come i miei parenti. Quel giorno avevano compito e non avevano maestri. Si chiudevano un po’ a riccio e scavavano fra cianfrusaglie. Tiravano fuori parole da pezzetti di fogli tanto per scrivere qualcosa, per poter salvare la faccia. Il compito era Isola di Ungaretti. Non menava acqua perpendicolare e tutto era fermo, e stavolta senza vento. Neppure mezzora di pioggia per lavare i pensieri: l’acqua muta avrebbe fatto uno scroscio a catena che li avrebbe aiutati a concentrarsi sul compito. Invece silenzio. La professoressa d’italiano mi piaceva, era una tosta, e il cognome sbucava forte
e intenso da quella barbarie di noia: Pipino, come Pipino il breve: se lo allungavi quel cognome diventava peperino, come quando si sfiancava paonazza a trattenere lo sgomento per l’alunno lì in fondo, il nazista, che riluceva di gioia davanti a una croce uncinata; il diario di questo nostro poco-compagno e moltocamerata era un’apoteosi nera, la recita pleonastica del duce e del baffo nazista. Lo guardavo come uno scienziato guarda l’universo mentre cerca di capire come annullare quella distanza spaventosa. Matteo l’ora precedente era andato interrogato in fisica e non aveva ricordato niente. Figura di merda. Io cercavo con gli occhi un aiuto. Il figlio del tabaccaio sul corso era muto, l’altro era di famiglia buona e se ne sbatteva con l’aria da principe e il cervelluzzo vuoto. Una dicevano di arsela a mazzi tanto per trionfo, per far sfavillare lustrini e medagliette. L’altra era considerata tamarra (voleva dire che un paninaro doveva starne alla larga) e una volta per sbaglio mi si era messa sottobraccio, e m’aveva portato nel corridoio e poi m’aveva fatto eggiare, e io ero paonazzo, imbarazzato: la cazzo della timidezza. Forse lei sperava nella protezione. Forse era l’unica sana, l’unica bella. Ogni tanto la vedevo ma non ci salutavamo, ci fingevamo perfetti sconosciuti, avrei voluto dirle, ma ti ricordi di quella volta a scuola? Ma me ne andavo dritto divincolando lo sguardo come m’ero divincolato il braccio quella volta appena avevo potuto. Andavo a prepararmi il pranzo. I prof sapevano che vivevo con una zia. Gli assistenti sociali non esistevano. Non ricordo neppure più il nome di quel compagno che era stato con noi in classe pochi mesi. Si assentava così spesso che le A sui registri dei prof erano A senza pietà. Erano segni di Zorro indelebili. Ma con la A al posto della Z. Le poche volte che questo compagno entrava, saliva un brusio di sfottò per tutta l'aula. Tutti a menarla col fatto che non c'era anche se c’era, che si assentava troppo e che andava bocciato, quello scemo, e quest’anno non lo salvava neppure il suo dio, ché doveva essere strano pure quello, sempre se ci credeva, a un qualche dio. Soltanto una si disperava per lui. Adesso mandava al diavolo pure le leggi fisiche e pensava a come fare per aiutarlo: non li tollerava i compagni imbecilli. E il suo amore per lui, per questo Mister Sconosciuto, per questo Emerito Signor Nessuno, si spampanava. O forse era solo simbiosi, sintonia, insomma quel prefisso che indica la parola insieme più qualcosa dopo.
Sgombrare, sgombrare. Non è tempo per allinearsi a mo’ di burattini. Amatevi. Se anche una come Marta sapeva perdere la testa per Mister Nessuno succedeva che il mondo si apriva, e il cielo si faceva rosso nel giorno di fuoco dell’Etna che scalpicciava e sputava nero che s’ammantava sui balconi per chilometri, fino al nostro Aspromonte. Densa coltre nera che sfornava dal talento del vulcano più alto, più bello. Sembrava che Mongibello piangesse proprio nel giorno più triste, e piangeva la sera, con quel rivo di sangue che gli s’incanalava sul dorso; da Reggio sembrava l’incandescenza del ferro che strideva su quel neronotte, su quell’antracite, sul mondo d’ardesia dove gli dèi lacrimavano, gli dèi degli ultimi, nell’olimpo di adesso da cui piovevano lance di povertà, con la folgore luccicante dentro la città di Reggio, sui suoi rioni, come una lampada che a intermittenza accendeva speranza e speranza spegneva. La sera scendeva sulle teste a zonzo, mezze secche di stanchezza, di gioco, su quel sud del mondo che stava sopra all’equatore per trentotto volte come Seul, Smirne, Atene, San Francisco e Cordoba, e ci ricordava di che pasta eravamo, e quanto poco ci pesava l’attesa; lo stampino del codice genetico recitava pazienza per noi montanari con l’affaccio sbagliato, quello per marinai mancati. Gli anni trascorrevano troppo in fretta, e l’asfalto nero s’arrendeva ancora di tanto in tanto all’arancione dei campanari disegnati a macchie lungo il ritorno dei bambini, a saltelli su una gamba, col mattone rosso, e rotto, portato a talismano fino a casa. L’estate era urla azzurre per il mondo. La coppa quattro anni dopo non era più nostra. Il Messico ce l’aveva strappata ad alta quota, con troppa facilità: Galderisi e Fanna non l’avevano salvata, non l’avevano trattenuta dagli strattoni di fame di vittoria di nazioni più forti, quelle coi campioni di talento, quelle con i gol segnati con la mano di Dio, nanu Galderisi non ce l’avrebbe fatta. Dio, a detta di Maradona stesso, era stato responsabile di quella mano che aveva spinto il pallone in gol. Erano i quarti di finale. Ancora Belgio e Germania e poi la coppa l’avrebbe sollevata l’altro nano, il nano più bravo del mondo, amico di Fidel e di Gianni Minà. Marta innamorata era una morta che camminava; se qualcuno le domandava qualcosa del tipo come stai o dove ti trovi ora, lei riaffiorava da un mondo dei morti e si riappropriava della menzogna di noi umani che da sempre giocavamo al gioco dell’inganno, alla farsa calcolata, allo studio: bene, grazie. Abbozzava
pure il sorrisetto scemo, il vizio assurdo – ma non quello tragico di Cesare Pavese – l’aveva fatta innamorare per buttarla in trappola, a un o dalla morte, con l’etimo fasullo di morte e amore: l’uno sembrava negare l’altro. Ma innamorata di chi? Di quello sempre assente o di qualcuno di noialtri? Allora avevamo buone speranze, quelle di esser pronti alla vittoria finale, alla normalità adulta. Macché, era scappata con lui. Con Mister Nessuno. Ed eravamo tornati a occuparci di calcio. Non li avevano trovati più, Marta e il ragazzo senza nome. Il tempo era ato. Avrei voluto mettermi a cercarli come il giovane Leopardi con Antonio Ranieri e Fanny. Ma Ranieri era bello, e Fanny - era chiaro – era tutta sua. Volevo trovare quel aggio, quel varco dove stavano le anime perse, le anime di quelli che non vivono più, che per noi sono morti. Volevo vedere se c’era un aggio, un luogo deputato a sede di anime non più in terra. Cercavo le anime dei miei morti. Poteva essere che anche la scienza fosse vicina. Che tra quei multiversi di cui gli scienziati parlavano ce ne fosse uno abitato da anime. Dovevano essere finiti lì quei due, Marta e il ragazzo senza nome. Cercavo la collisione tra due universi, quella che produceva energia, quella che gli scienziati indagavano: lì poteva annidarsi una nuova conoscenza, una nuova scoperta. Ci sarebbe stato un nuovo Cristoforo Colombo. Marta e il ragazzo sconosciuto se l’erano preparata bene la fuga. Il mondo era di loro innamorati. Il futuro era tutto loro. Il futuro di quei due era avventura baci battiti fuga paura preparativi sensazione di essere già adulti e certezza di essere vicini alla felicità.
Così era ato altro tempo.
E altro ancora.
E non avevo trovato varchi.
Presente: anatomico amaranto
Molti anni dopo m’ero ritrovato adulto, con tante lauree inutili, con tanti titoli e pochi soldi. Me ne restavo in spiaggia mentre un kite gironzolava nel mare aperto come un coriandolo di carnevale perso nel blu estivo, nella macchia ignorante, dove cielo e terra si incontrano e si dividono, e magari producono scintille di poesia, per scavare un botro, in cerca d’un varco buono, d’un dono, anche se non divino, almeno di qualcuno, pazzo come me, come lui, ma almeno qualcuno, anche a costo che si sappia che ora giaceva in qualche sgabuzzino del cosmo, chiuso a chiave da chissà chi, o solo da lui stesso, il pazzo che s’era rinchiuso e poi aveva gettato la chiave nel fosso più fondo, fino a quel botro di prima, e la vedevi, luccicava, la fiammella divina, che non ci faceva dire che lasciamoogne speranza, ma ci faceva sentire un suono, da lontano, come d’oboe, allungato come nenia nel mondo, unchiùgentile, come quello di Pascoli, se ti scostavi dalle tamerici, se t’impelagavi nel pantano cosmico, nella radura da cui allungare l’orecchio, e sostenere il peso del suono, dell’oboe come tuono lento, come tuono perso, e quel suono, e quel tuono erano, oppure sono, la scintilla della chiave, la musica sparpagliata nell’universo che rimaneva, suo malgrado, muto, perché privo d’ossigeno a segnare la strada, a dettare il canale, a far rigare quel suono dentro il tutto. Lo so, è un rompimento di palle leggermi mentre vaneggio. Fate come quella che mi dice bravo pensando a quanto sono scemo. Leggetemi per annientarmi. Per dirmi “come cazzo scrivi?” Un amico mi raccontava il ato. I borghesi compravano terreni. Li compravano spesso poco sopra la spiaggia vergine, il panno bianco e morbido e senza pretese, che sterminava lungo lo Ionio fino alla curva della morte; da lì in poi la strada si snodava verso le officine meccaniche dove costruivano i treni belli per eggeri belli e settentrionali. I borghesi compravano terreni per case che si facevano ville (e ci mettevano sempre due statue a forma di leone ai lati del cancello, chissà perché, forse per simboleggiare la superbia come un’allegoria dantesca), lungo l’arco naturale del paesaggio. E compravano ville anche sulle colline oltre la spiaggia e la strada diventava piano piano superstrada e le ville erano le tane per esseri umani
speciali, quelli che ce l’avevano fatta, quelli sani e perfetti, con le loro case precise in città, coi loro figli fanatici, divorati dal regginismo familistico e opportunistico, che nel comparaggio glieli sistemava in qualche ente appropriato ai loro cervedduzzi. Come cazzo scrivo? I borghesi compravano terreni. Succedeva tutto giorno dopo giorno e durava l’arco di questo decennio senza regole, soltanto le regole dei primi, dei ricchi, degli arrivati, degli arrivisti, degli arrampicatori, e mai dei baroni rampanti, e sempre dei bari, e mai di quelli finiti nelle bare, quelle per molti morti ammazzati, nella guerra fra padroni, fra mafiosi, con la colla della ‘ndrangheta appiccicata sotto le suole delle scarpe, sotto le gomme delle macchine, sotto i portatori di bare dei molti morti ammazzati dalla mafia, dalla ‘ndrangheta. Qua era tutto ‘ndrangheta. I negozi vendevano soltanto i giubbotti di marca. I primi arrivati, i borghesi, alzavano il primo piano in qualche notte di betoniere e operai non molto specializzati, alla faccia di ogni prevenzione antisismica. Nella poltiglia di una città a cemento armato niente fuga verso un sogno lontano da quei grigi. Grigio batteva verde mille a zero qui a Reggio. A Reggio di Calabria, come recitava qualche carta topografica. Chi cazzo le scrive le carte topografiche? Sul lungomare, per fortuna, la bellezza straripava: quell’ortobotanico s’allungava parallelo alla costa, accanto al mare, per più del chilometro conclamato dal poeta, con quegli alberi dalle radici giganti che smuovevano il marciapiede, lo scardinavano, lo agitavano e lo sollevavano di peso: sembravano i piedi di tanti Polifemo, che magari sceglievano il travestimento da albero, per starsene fermi a scrutare quel quadro di fronte, la Zancle vistosa, che ti faceva andare la testa di qua e di là, dall’Etna a Punta Faro, avanti e indietro; doveva proprio essere così per gli alberi del lungomare, mentre se la savano davanti a Zancle, davanti alla città più dotta e più grande, con la parlata a cantilena, e i dottori sfornati dai palazzi dei saperi universali, universitari. Il mio anno sabbatico (forzato) dalla scuola me lo avo così: me ne andavo in giro a osservare la città. Mi pareva di fare l’unica cosa necessaria. Un giorno avevo assistito a un incidente. Un ragazzo in motorino, appena davanti a un tornante, non aveva visto un’auto che gli tagliava la strada e non aveva decelerato in tempo: era finito abbracciato a un albero e l’auto s’era dileguata. Il ragazzo neppure si lamentava, e non ava più nessuno, poi di corsa urlando era arrivato un uomo enorme, a piedi scalzi, gli occhi sereni, senza nemmeno il
tormento di fare presto: se l’era sollevato. Era un omone con la barba lunghissima, i capelli legati dietro, aveva preso ragazzo e motorino assieme, tutt’e due se li era presi, così com’erano, incastrati, accartocciati, lamiere e carne. E se li portava adesso a piedi, il ragazzo svenuto e il motorino mezzo appiccicato, il tempo galoppava. L’uomo era incespicato una due tre volte, e correva, e incespicava, il motorino era rimbalzato a terra, e la miscela di benzina e olio stava lasciando la sua scia acre, e il busto e la testa del ragazzo erano finiti in avanti, quasi col mento a terra, più gli avanzavano dal baricentro più l’omone li tratteneva, e le lamiere conficcate come frecce lo facevano un san Sebastiano, bello e virile, e morente. Io ero rimasto immobile, paralizzato. In lontananza m’era parso di riconoscere quell’uomo, mi sembrava un viso familiare, magari un viso televisivo: l’omone buono di qualche film o un collega di tanti anni prima; non avevo capito chi fosse. Poco più in là m’aveva distratto la lenta movida. Appena m’ero voltato di nuovo tutto era sparito. Loro non c’erano davanti ai miei occhi. La notte i ragazzi uscivano a raffica dai lidi, la città s’ingolfava, dall’alto era uno sputo sull’unghia dello stivale; erano tutti belli, i tamarri spariti per magia. All’angolo della strada un uomo cercava qualcosa, scavava nel bidone, sembrava a quattro zampe, con la testa ficcata dentro, almeno dall’alto, forse solo dall’alto sembrava così povero, così rovinato. S’era accorto di me che lo fissavo e se n’era andato vergognato, la povertà cominciava a farsi largo a spallate forti, possenti: uomini fino a poco tempo prima possidenti, erano ora bradipi che trascinavano se stessi come quelle macchinine radiocomandate che bevono le ultime gocce di energia dalle batterie semiscariche. I ragazzi uscivano e scherzavano, col loro chupito in mano, tutti tremendamente trendy, tutti vergognosamente dinamici, con le loro bestemmie nel prontuario giovanile della sopravvivenza, giovani marmotte in cerca di vanagloria alcolica. La polizia aveva fatto un giro e poi era andata via, in lontananza degli uomini stranieri giocavano a pallone, e una donna s’era scansata per non beccarsi in faccia la pallonata, e le altre ridevano, con i denti di piombo, e gli uomini ridevano pure; anche loro con i denti di piombo. Erano in là con gli anni, e le risate, per quanto belle e vere, suonavano un po’ a tonfo, forse per colpa di quel piombo, rispetto a quelle, poco lontano, dei ragazzi usciti dai lidi: questi quando
ridevano non avevano la risata stemperata dalla nostalgia, dal dolore del ritorno; quando ridevano, questi, belli e giovani, dall’alto, per me che li guardavo, erano cuccioli di cani che abbaiano e giocano a chi tira più forte il guinzaglio; quando ridevano la loro risata sonora era uno strappo, un oltraggio. Eroi depilati, e ubriachi. Eroi felici. Gli adulti, quando ridevano, invece, ridevano col frenammano tirato. A Reggio il modello era la televisione, e gli assessori ne parlavano continuamente. In tivvù tutto era spaventosamente bello, sale chirurgiche attrezzate per il benessere, le donne sfoggianti gel al botulino come la mamma di Enea, femminide sguaiata che si era prostrata al cospetto del potente per togliergli la bua del mondo, e così aveva ottenuto il premiuzzo, qualche ciondolo, a volte qualche casa, e poi di corsa dall’assessore, con la cravatta troppo lunga, una regimental che lo criminalizzava, con quelle scarpe lucidissime ma di chi ignorava pure Sciuscià. Adesso quella mamma era entrata nella schiera delle modelle e degli eroi televisivi, dei presentatori di quart’ordine, e dei calciatori intervistati manco fossero scienziati: gli scienziati venivano ignorati manco tirassero calci a un pallone. Lo sapevano i calciatori che la luce mentre l’arbitro fischia l’inizio ha già fatto sette giri e mezzo di pianeta Terra? Era tutto un alè oh oh mentre il corso cominciava a puzzare, e i soldi cominciavano a scarseggiare, e non era più il tempo delle fioriere del pentapartito e della città dolente, e il tapis roulant aveva chiazze di gelato e un topino era uscito allo scoperto. Io camminavo e, per i miei amici che di mattina ogni tanto mi vedevano da lontano, ero pazzo. Ero pazzo a camminare: eppure nella mia pazzia sensata sentivo i discorsi confondersi e poi d’improvviso ricomporsi, e poi ancora confondersi e poi ricomporsi, e nell’attimo della ricomposizione ogni parola appariva lucidissima nelle mie orecchie, e subito dopo diventava melma rumorosa. E così via, attimo dopo attimo, trovavo le ragioni del mio camminare. Non aveva senso, lo so. Ma io dovevo trovare le ragioni di quel mio vano peregrinare per quella città che non aveva risposte per me, solo cumuli di macerie. A volte, vicino ai cassonetti della spazzatura in pieno centro si radunavano sette otto gatti: e lì iniziava il loro simposio, il simposio dei felini, come una danza rallentata, nella notte più nera, con la luna svaporata da qualche parte, e i topi nel loro mondo parallelo, e l’Orsa maggiore sempre lì, come una sicurezza nel cielo a casaccio.
Michele e Cecilia erano tornati da poco dal loro viaggio in India. A Scilla, col verde della montagna a rasserenarci, mi raccontavano del tempio dove vivevano i topi, adorati dai fedeli. Mi avevano spiegato che Michele aveva attraversato scalzo l’intero edificio. Io mi stringevo in un brivido d’orrore, e Michele sorrideva sminuendo il gesto eroico, erano pochi metri, solo pochi metri. Chi vedeva il topo bianco poteva esprimere un desiderio. In un altro tempio le finestrelle a centinaia servivano a far are gli alisei, lì dentro. Fuori lo smog rendeva proibitivo respirare. Quando insegnavo con tutti i crismi (non ero ancora preside) ricordo che mi avevano appioppato un progetto gratis che i colleghi più anziani non avevano voglia né tempo d’addossarsi. Il progetto era “Intervista con gli alunni: didattica e innovazione”. Loro pensavano fosse una boiata; tutto ciò che era innovazione a scuola in effetti sembrava una boiata. Avevo scoperto invece che intervistare i ragazzi era utile, li apionava, li faceva sentire unici, forse troppo. Ne avevo trovato uno che si chiamava Enea. Mi aveva colpito il nome. Enea si attardava spesso nell’Enea-pensiero. Se ne usciva subito con cose del tipo: ma ha senso parlare di poesia al giorno d’oggi? Due ore così, a spiaccicare al vento mezze conversazioni surreali, soltanto per il gusto di guardare quelle facce. E allora, direbbe Alda, sì, Alda Merini, la pazza della porta accanto, sai che direbbe? Direbbe che sì, che ora il poeta deve parlare, deve prendere questa materia incandescente che è la vita di tutti i giorni, e farne oro colato. Mi diceva proprio così. Poi continuava. Diceva che tutti vogliono vivere comodi, ignari dei viaggi, senza sogni, con l’anima in pace, senza grilli per la testa. Enea lo sapeva che cosa facevano. Aspettavano che asse. Senza molti drammi, con il minimo necessario di tragedie, imboscati. Ad alcuni avevano dato il posto quando ancora si poteva, ai tempi dei socialisti. Mi creda, prof, è colpa dei socialisti, diceva. E dei fascisti no?, pensavo io ad alta voce. In classe la professoressa di lettere aveva sollevato la testa dall’elenco col sorrisetto malizioso, “la colpa è di tutti”, farfugliava lei ben sapendo che se è di tutti non è di nessuno. “E poi, caro professor Vittorini, non sappiamo nemmeno se esista, caro professore, una qualche idea nelle loro teste, caro professore, che non sia risolino.” M’accompagnava fuori della classe con questo rimprovero: d’essere stato ingenuo a pensare che avrei trovato terreno fertile. La guardavo, m’incuriosiva
quell’eleganza sciatta, quella capacità di indossare abiti che sembravano messi addosso a casaccio, senza logica, senza legame, eppure tutto nell’insieme era in qualche maniera giusto, era in qualche maniera bello. Era un puzzle raffinato e perfetto anche l’universo, come quei vestiti della professoressa, messi lì addosso a lei da un colpo di dadi, forse. Mi sentivo piccolo e ingenuo mentre la professoressa dava una pacca sulla spalla a Enea per darmi prova che era lei che lo controllava, lei lo gestiva, lei era competente, io no. Avrei dovuto aspettare la mia riscossa: sarei stato preside. Prima o poi. Erano scesi in palestra con i vestiti buoni, senza nessuna voglia ginnica, poi il primo orientamento dell’anno, poi di nuovo in classe, poi in auditorium per il discorso sulla mafia, poi in classe, poi bagno, poi snack, poi drin: finalmente. Così, almeno fuori, forse lo vedevo, Enea. Quello strano, quello che pensava a cose un po’ fuori dalla norma per un ragazzino di diciassette anni, quello che pretendeva di dare consigli ai docenti su come insegnare. Bella questa! E chi era questa pulce, come osava? Avevo ripensato a quell’omone. Al suo viso strano, alla scia di persone poco lontano. Ma erano davvero altre persone? Me le stavo immaginando, sicuro che non era vero. Eppure mi pareva tutto assolutamente accaduto. Un uomo che ava la vita a correre in soccorso degli altri: ma non aveva famiglia? nessuno ad aspettarlo? e un lavoro? una casa? amici? un cane? una tartaruga acquatica, almeno? Mi piaceva l'idea di fare come lui: di impazzire.
È vero che insegnavo matematica ma avrei voluto dire loro che c’era troppa ricchezza, c’era troppa povertà, il mondo globalizzato era uno scandalo, una vergogna. E questo scandalo ce lo aveva raccontato Dante con il suo occhio da marziano quando ci parlava di sco e della sua lotta contro il lusso sfrenato, la ricchezza senza limiti. La terza guerra mondiale era già in corso per chi combatteva ogni giorno in tutto il mondo per sopravvivere. Svegliarsi con l’angoscia di sapere che ogni sette secondi un bambino stava morendo di fame, ogni sette secondi… uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette… Questa era la terza guerra mondiale! Avrei voluto dire pure che c’era un tempo scandito dal tic tac di una lancetta. Milioni di
miliardi di tic tac, milioni di miliardi di onde che si infrangono sugli scogli, come le onde sugli scogli della casa dei doganieri di Montale. C’era un tempo che era tutta la nostra vita da sempre, da quando esistiamo. Da prima che esistessimo: Montale ce lo ricordava, c’era un ordegno universale, come ce lo ricordava Leopardi quando ci mostrava la nuvoletta del ricordo di Silvia. Contro le cose imparate a ogni costo a memoria. Avrei voluto ricordare loro che se ne sarebbero andati tutti dai nostri paesini: i politici avevano dimenticato di salvarci, di salvarli. Sarebbe finito quest’anno e l’imbuto dentro cui stavano per tuffarsi li avrebbe fatti colare dentro la bottiglia di speranze che chiamano nord. Ma rimaneva dentro di loro qualcosa, uno spazio tutto per loro, quello dell’attaccamento alla vita, anche se c’era la fuga: ce lo diceva Ungaretti quando era rimasto una nottata accanto al compagno massacrato con la bocca digrignata con la congestione delle mani volta al plenilunio, aveva scritto lettere piene d’amore e non era mai stato tanto attaccato alla vita.
Ora glielo avrei detto che c’era uno spazio che ci avrebbe salvato dalle cose brutte: e dov’era questo spazio? In fondo al mare, un porto sepolto, magico, di speranza. Oppure il mondo di carta dei libri, quello del rifugio della lettura dentro un treno scagliato a tutta velocità e noi lì a leggere e a spostare lo sguardo lontano dal finestrino. Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza. E la virtù e la conoscenza del mondo stavano in una forma strana, una linea che si curvava in cima e che si perdeva in un puntino in basso, un piccolo semplice punto interrogativo, una roba così: ? Quel «?» era la cosa più importante che c’avevamo. Se lampeggiava in noi allora eravamo salvi. Non importava che poi le risposte fossero sbagliate e Montale lo sapeva che i poeti spesso davano risposte a metà, incomplete, come rami secchi, ma non importava. Importava, come diceva Calvino, allontanare da noi tutto ciò che era orrore. Avrei voluto dire leggi, siediti comodo, leggi, ascolta la voce dei libri, impara ad amarla, quella voce. Non lasciarla morire sulla carta, non farne un falò di vanità e di lettere in Times New Roman. Ma la prof competente mi
aveva spinto fuori con un arrivederci, caro professor Vittorini.
Sottrarsi non è salvarsi, aveva scritto Seneca. Siamo belli perché siamo pieni di difetti: non perché siamo onnipotenti, ma perché siamo fragili, perché ci tremano le gambe, perché siamo goffi, perché abbiamo paura, perché abbiamo bisogno di amore, per questo siamo belli, aveva detto un politico che per un po’ avevo stimato. Ora stavo per dire: scusatemi se non ho saputo spiegarvi sempre le cose, se non ho saputo svelarvi sempre le emozioni che stanno dietro alle cose. Spiegare era per me togliere le pieghe, lisciare le cose difficili, come un fazzoletto pulito, svelare è togliere il velo. Non volevo torturarli con la poesia. La poesia, la narrativa, il cinema, l’arte esistevano perché esisteva la paura, l’orrore, la violenza, la sofferenza. Erano l’altra faccia della medaglia della nostra esistenza. Non avrebbero potuto accettare tutto così come veniva: pensateci, dovevo dire prima che quella porta si chiudesse, se accettate tutto così come viene, senza porvi domande, senza vibrare, senza stupirvi per l’amore di Paolo e sca nella bufera infernal, allora rimarrete prigionieri senza sogni. Gli avrei urlato in tempo che il sogno di un prigioniero per Montale era quello di osservare le cose oltre il solito zigzag di storni di uccelli. Sognate, cavolo! Sognate! Inventate iridi al posto di ragnateli e petali sui tralicci delle inferriate. Non fatevi sgominare da una banda insulsa di pensieri piccoli, di pensierini comuni. Rendete unica la vostra vita: non fatela a brandelli, non polverizzatela dentro il frullatore per omogeneizzati di un mondo che ci vuole tutti uguali, soldatini del benessere. Inventate qualche parola, qualche verso: partecipate alla costruzione del mondo. Non vendetevi per salvarvi dallo sterminio d’oche. Per diventare cuochi anziché terminare nel paté. Dovevo dirglielo. Ma non c’ero riuscito. All’uscita avevo visto Enea avvicinarsi a Elena come per baciarla. Lei s’era scansata, come urtata per un attimo. Ma poi lui s’era intristito e mentre si girava per andarsene lei l’aveva preso per il braccio e l’aveva baciato ridendo. E più rideva più baciava.
Elena a scuola era camaleontica: sapeva come cavarsela perché se infrangeva le regole di continuo non avrebbe avuto futuro. E lei era attratta dal futuro, forse c’aveva un magnete nel cuore e il futuro doveva avere la consistenza del ferro. Enea le regole fino in fondo no, non le capiva. Prima le capisci, le regole, meglio è per te, gli dicevano tutti. Elena invece riusciva a stare dalla parte pari della vita, quella senza spigoli, quella liscia, levigata da quelli che erano venuti prima di lei e l’esperienza era un parquet bellissimo con la cera adatta, quella per parquet appunto, che qualcuno prima di noi s’era preso la briga di buttare giù, con precisione, con maestria, con pazienza, ma Elena faceva finta di non capire e stava bene nella società. Stava bene con gli altri. Se qualcuno prima di lei l’aveva ata, la cera, l’aveva fatto per evitare movimenti bruschi, piroette, balletti, corse di noi del futuro, e ci stava mandando a dire di andarci cauti, a i felpati, pena lo scivolone: che poi era annientamento sociale, perdita del ruolo che c’era stato dato, caduta nell’oblio o, peggio ancora, additamento a vista. La guardavo attonito, e mi sembrava un concentrato di saggezza nella sua voluta ingenuità.
Enea invece no. Anche se stava per compiere quei diciotto anni, da lì a qualche mesetto. Sembrava che l'etichetta-diciotto appiccicata addosso a lui fe un fracasso di novità da un momento all'altro. Stava di fatto che diciotto anni volevano dire qualcosa, oltre a patente, auto di papà, o moto di grossa cilindrata e donne, scopate facili, discoteche fino a tardi. E dopo? Domandavo attendendo una risposta onirica. Dopo, diceva lui, c'era aria di gavettoni, serate a sbronze, fughe dal mondo della responsabilità, secchiate d'acqua addosso al mondo perfetto. Tutto bello, oppure l’altra strada, la dea ragione a guidare. Ma questo risultato era schizofrenico. Come a scuola: appena ci entrava prevaleva il suo lato nero; appena ne usciva gli scattava una felicità a tempo. Cronometrava i giorni di scuola come un prigioniero nelle mani di una tribù di cannibali. Il pentolone con l’acqua che bolliva attendeva Enea per farne un centrifugato di anomalie, un patetico showman del nichilismo, uno sempre col no in bocca. L’anarchico che parla dei poeti. Che cosa vuoi che contino i poeti, quei maldestri, quegli incapaci di agire, inetti, come minorenni, bambini che giocano con le parole perché hanno paura di usarle per combattere, per vincere.
Ma questo era ormai il tempo dell’efficienza, delle competenze, parole così, insomma, il tempo dell’affannarsi a fare, per dimenticare il gruzzoletto di karma che ci portavamo in tasca, quello che un giorno avremmo consegnato, nostro malgrado, al box degli oboli, perché la morte si sconta vivendo.
“Cosa farà da grande, signorina Elena?” sfottente la prof di qualche materia. “Che ne so: parlare per tutta la notte con Leopardi, Montale, Ungaretti, Merini, Szymborska, Dante.” “Ma tu sei fissata con questi poeti, ma che ci trovi di così irresistibile?” aveva gracchiato Carla.
Carla, la sua compagna di banco, usava la parola irresistibile, come una tentazione da vetrina. Solo che gli scrittori non avevano prezzo anche se l'editoria era una fabbrica camuffata che spesso propinava roba scadente ma l’incartava alla grande e gli adulti abboccanti, come quegli ex paninari di mamme e papà davanti a una cintura scarpa borsa o a un jeans stretto o a una giacca abbottonata al manichino, compravano, tutti compresi nel ruolo di compratori, con volontà di comprare comprare comprare e aver bisogno di spendere e di poter dire che spendendo dunque esistevano.
Questo era dunque il progresso? Tutto qui? Tutto un accatastare e piangere lacrime di coccodrillo per gli africani che ci piovevano addosso il senso di colpa: avevano voglia di vetrine nitide, niente occhi piangenti please, le mani d’elemosina li imbestialivano, non potevano comprare come avrebbero voluto, quella povertà e desolazione li distraeva dall’obiettivo, quelli che scrutavano il futuro con l’occhio disperato non avevano diritto a vivere: vivere era soltanto la marachella per sgominare i fantasmi della fame e del presente, quella che sarebbe riapparsa con il tonfo di un gommone contro la banchina, e gli uomini salvi per miracolo, che se ne facevano non so della nostra copertina rigida, quella del libro appena uscito, quella costosa, quella bella rilegata con tanto di immagine che faceva sbavare. Loro avevano fame. Loro sbavavano per fame.
E poi, per dirla tutta, leggere, quello no; era tutta colpa dell’efficienza che bussava alle loro porte a ricordargli che lei era lì insieme con i morti dei gommoni, coi figli piccini in braccio, senza peso. Sul corso, nel mio anno sabbatico, li avevo sentiti quelli perbene: le loro parole preferite erano crisi, soldi, euro, assegni, crisi, euro, un tot al mese, crisi, debiti, colpa degli stranieri, colpa della sinistra. La sinistra aveva dirigenti che fingevano di occuparsi di loro, quasi nell’esercizio di copia e incolla di atteggiamenti usanze riti camminate a braccetto, ostentazione di pancia e potere, e questi atteggiamenti erano sciorinati naturalmente dai dirigenti di destra, nientedimeno, da che pulpito: il modello Reggio non era già più esportabile. Sarebbero arrivate altre elezioni e dirigenti di sinistra e di destra e di centro e di estrema destra e di estrema sinistra e di estremo centro, tutti, insomma, che avrebbero azionato la loro macchina elettorale: sms, telefonate, inviti via Facebook, incontri ravvicinati, in un costante crescendo di curiosa attenzione verso le vite dei cittadini. In libreria ormai i libri li trovavo appesi come indumenti a simboleggiare il nostro io partecipo: e soprattutto il nostro io compro. Quello era un libro imperdibile. Oh se era imperdibile. Oppure la conversazione da salotto per eccellenza era: meglio il libro o l’ebook? C’era sempre quello che per primo ti annaffiava con le sue idee di progresso e l’altro che barcollava ma rimaneva ancorato al ato, al punto che, fosse stato per lui, non avrebbe rinunciato alla pergamena, a costo di farselo da solo, il palinsesto, a cancellare un testo per scriverne sopra uno nuovo. Ma adesso era già futuro e i libri erano custoditi dentro scatolette piatte, perfette: e il ato era stato papiro e poi pergamena, cioè natura lavorata dall’uomo; futuro erano i lettori di libri in versione digitale, tavole perfette per bisognosi di futuro. Adesso agli uomini occorreva futuro, più veloce che si poteva. Ma lì, dentro i libri, anche in digitale, esisteva la fuga, lo spazio che si dilatava, il coriandolo impazzito dentro la calza della professoressa, il coriandolo che solleticava la docente al momento della sentenza, la corteggiava e poi la frastornava fino a che la faceva ridere, ma ridere non si poteva, non era corretto ridere in classe, era indecente, la serietà era di chi non ride - urlavano i seriosi che brandivano fieri la seriosità e la scambiavano per serietà. I faceti andavano messi al rogo: rovinavano le nostre scuole, secondo loro. Bisognava tornare al ato, dicevano. Occorre l’autorità. Non lo vedevano che l’autorità era morta?
Era morta l’autorità dei padri nelle famiglie e dei professori nelle scuole. E loro la rivolevano. Non capivano che non sarebbe più tornata. Né capivano che la cultura aveva il compito di uccidere l’autorità. Non di farcela sognare, come tanti nostalgici dell’ubbidienza.
I libri non pesavano spesso molto; e il loro spessore digitale, quello della tavoletta, era minimo, come lo spessore del testo. E poi ancora le sentivate le voci? vuoi mettere? Niente a che vedere con l'ultimo, quello che avevano preso pochi giorni fa e l'avevano letto fino a un certo punto e poi l’avevano mollato perché, niente, questi scrittori di oggi, sì, per carità, talentuosi quanto si voleva, ma poi, dopo il primo, diventavano insopportabili: autoreferenziali. E allora raccontavi di esserti convertito/a alla religione dei classici, ai libri senza tempo, agli scrittori che non ti avrebbero deluso/a. E la menavi con la storia della maturità e della necessità di rileggere, perché leggere non era bastato. Perché quella lettura giovanile era condizionata dallo sguardo della giovinezza. E ora invece lo sguardo maturo, lo sguardo occhialuto era uno sguardo senza tempo. Ma io Hermann Hesse non ce l’avrei fatta a rileggerlo.
All’uscita di scuola Enea s’era messo a cercare Elena ma non l’aveva vista. Era fuggito con lo scooter, poi era sceso di corsa. Era inciampato contro il bordo del gradino e s’era strofinato al muro d’un palazzo. S’era graffiato un gomito e i jeans con la griffe già sdruciti s’erano allargati al ginocchio; s’era rialzato trattenendo il dolore con la smorfia del collo tirato, coi tendini stirati, poi aveva sollevato lo scooter da terra e l’aveva rimesso su, pronto a correre per la strada parallela. Gli ciondolava pure a lui, la solita coda di primate. Mentre imboccava la strada del lungomare, per poco non mollava un bestemmione al cielo, perché girandosi non aveva visto Elena e pensava che non l’avrebbe più rivista, così pensava, e subito dopo era partito a razzo stirando quel trabiccolo furioso al limite tanto che quando sfrecciava era più rumore che velocità. Gli era parso di vederla ora, Elena: con uno, lì fuori, all’angolo. Aveva frenato lasciandosi dietro una scia di copertone, come una certezza stampata sull’asfalto. Ma ora non ci pensava più di tanto alla cosa da fare.
Il sud era un vomito di grigi che rendeva poveri quegli uomini, in quello sputo di piombo addosso alla terra priva di verde, e i parchi se li figuravano soltanto gli architetti, e architettura era la facoltà della città eppure la città non aveva una architettura precisa perché i cementificatori avevano imbarbarito il liberty, pur di fare soldi, e le case a un piano e a pianterreno con la porta del negozio adesso erano frammiste a scenari condominiali terrificanti. Quartieri in mano a costruttori edili che affogavano la città nel tugurio grigio dell’imbarbarimento. E quello scooter sfilava tra macerie appena costruite. Poi la frenata. Elena era lì. Le cose presenti al sud: omertà, buche, indicativo, avvocati, ti presento un amico, tornatevene da dove siete venuti. Le cose assenti al sud: scontrino fiscale, piscina, luci stradali e cartelli stradali e strade e palazzi terminati, e congiuntivo. Era sceso dallo scooter. A scuola non si insegnava a ridere. Non esisteva una didattica del gioco. A scuola non si insegnava il piacere. Non esisteva una didattica della meraviglia. A scuola i docenti maschi, spesso vestiti un po’ da ragazzini fuori tempo massimo, avevano problemi seri come orario e giorno libero; i coordinatori, a volte, sentivano di essere coordinatori del mondo e amavano coordinare, che per loro era sinonimo di comandare; amavano comandare più di quanto non amassero insegnare: amavano soprattutto rimproverare Enea. Era sceso dallo scooter per andare a vedere la verità. Il sud aveva una cosa che non tutti hanno: la raccolta differenziata per cervelli che intendevano svignarsela. Sembrava un decreto ministeriale, e forse lo era. La fuga raccomandata da qualcuno: la fuga programmata, col timer azionato dai padri presenti, quelli che sapevano sempre tutto, che quando si giocava a calcio sapevano tutto di calcio, oppure a calcio a cinque, anche sapevano tutto di calcio a cinque, o ancora a calcio a otto, che alcuni chiamavano calciotto, sapevano anche di calcio a otto, o di calciotto. Era andato a vedere se era vero che Elena era lì, con uno. Figli del sud in fuga al nord, un goffo tentativo di rivalsa contro la questione meridionale, quella dei libri di storia quando leggiamo del divario nord-sud, quando leggiamo che lì, al nord, gli imprenditori si erano già messi a costruire fabbriche e noi, qua al sud, nel baratro, nel tracollo. Almeno l’emigrazione ci dava una patria e un dialetto nuovi di zecca. Al sud i paesini si svuotavano ogni
anno di più; era difficile allenare i ragazzi alla vita e poi vederli andar via. In tutta quella fuga s’era buttata a capofitto pure la ‘ndrangheta: “almeno ce ne cacciamo un po’dalle scatole” faceva Enea. Elena era lì, era lei. Adesso era sicuro. Oppure no, forse era soltanto la cazzo di gelosia, quella nebbia bianca che gl’imperlava la fronte, e gli lavorava la testa, gliela riempiva di frottole, e lui lo sapeva che finiva che voleva spaccare tutto, imprecare, urlare, la gola rauca lo fregava, si riprendeva per un momento, il tempo di sbarellare pazzo contro tutti. Aveva rimesso in moto, stavolta. In silenzio. Il cellulare trillava a raffica. Nessuna risposta. Nemmeno su Whatsapp, nemmeno su Viber. Alla fine s’era accesa la notifica di Messenger, ma nemmeno l’aveva letta.
C’era una strada che portava lontano.
Enea, prendila adesso. Non aspettare un attimo.
Enea aveva preso la strada che portava lontano.
Non ti voltare indietro, mai.
Non si sarebbe voltato manco ad ammazzarlo. Ne era certo. Mai e poi mai. E invece sì. Le certezze se l’inghiotte in un attimo il tarlo che ci fotte: la notifica gli vibra nella tasca, con la sinistra prende in mano il telefono, lo guarda. Un’auto arriva addosso a Elena che nemmeno la vede: la butta contro un albero. Il gioco della gelosia era diventato un sipario con la parola morte.
Un omone l’aveva presa e portata come si trovava, quasi intatta, con le pelle diafana, e un rivolo di sangue, come il fiotto dell’Etna nelle sere che erutta, ancora accartocciata alle lamiere. L’omone la prende, e spariscono in un niente. Enea vede tutto. Scende dallo scooter. S’inginocchia, il telefono gli cade per terra. C’era solo un grande bianco nella sua testa. Un respiro profondo. Si sente come morto. Ma pensa che lei, Elena, sia morta. E per giunta qualcuno se l’è presa. Va per chiamare il centotredici e legge il messaggio di Elena: Ciao Enea, o da Carla. Mi chiami? Si volta, disperato, e vede ancora a terra un libro, incartato, con dedica a me, a Enea. A Enea, con amore pazzo. Si dispera, a singhiozzi compone il numero della polizia. Gli risponde uno con calma biblica, gli dice: "sono Enea. Elena non so, forse è morta. Aiuto. Aiuto. Aiuto." O forse no. Non è andata così. Forse è stato lui. La gelosia ha fatto i capricci. La gelosia, adesso pensa che la colpa sia della gelosia. Adesso ripensa al momento ma l’immagine gli sfugge. La sua mente dimentica per fargli prendere tempo, per cautelarsi. Per raccontare qualche palla.
È stato lui. L’ha uccisa. Invece di andarsene via, e urla pure che è stata la macchina, una macchina che correva veloce. Ma non ci sono macchine né segni di frenata. Non c’è nessuno più. Ma se è stato lui allora Elena dov’è finita? Sparita!
Resoconto di una fuga
A scuola la mattina dopo il parapiglia. Appello della classe. Casino. La professoressa li fissava, lo sguardo vitreo, l'aria da disfatta, da tragedia: dov’era scappato? Come osava scappare da scuola? Nessuno sapeva niente? Sparito e loro nulla di nulla? tutti zitti zitti. Un coperchio di piombo li sopravanzava. Sembravano mummie bambine. La madre di Enea urlava al telefono contro uno della polizia e si sentiva dal nostro lato un dolore rachitico e trattenuto, avrebbe voluto mostrarne di più ma non c’era riuscita, la voce a strattoni, usciva di sbieco e si tuffava nel timpano assente del preside che dirigeva, lobotomia era la sua parola. Voleva riuscire a piangere a singhiozzi, anche lui, il preside-dirigente, ma non ci riusciva. Non aveva la possibilità di farlo, non ne aveva la stoffa, per piangere sulle disgrazie altrui. Né la voglia o la fantasia. Per uno che neppure conosceva, poi. Per un alunno. Ne avano a centinaia da quella fabbrica di talenti a riposo, lasciati a riposo nei secoli dei secoli. Quando era entrato da loro s’erano alzati tutti all'unisono e le sedie avevano suonato un inno nazionale di fracasso. Aveva rimarcato il discorsucolo del cazzo per ribadire che le assenze da scuola denotano una totale irriverenza verso la Istituzione Scuola e lui, il preside, in qualità di, per l'appunto, colui che presiede, aveva l’onere di dirigere la Scuola in quanto Istituzione e aveva pure il dovere di dirimere, aveva detto proprio così, le questioni spinose e questa era una questione davvero spinosa. Dopodiché avevano telefonato di nuovo a casa di Enea. Nessuna risposta. Un ragazzo in fondo aveva ridacchiato. Il preside-dirigente s'era imbufalito. Ma poi s'era accorto che doveva mantenere la calma, e allora s’era calmato per davvero. E subito aveva bofonchiato una roba del tipo: si risolverà tutto, buon lavoro, ragazzi. E allora tutti avevano capito che non si sarebbe risolto un bel niente. Grazie Preside, grazie Dirigente, buon lavoro a Lei.
Anche Enea era finito nel suo baratro. Dov’era diretto? Mi ricordava quei due ragazzi, Marta e il senza nome. Anche loro spariti, avevano beffato noi e la nostra vita normale. Erano diventati tanti Fummatiapascal. Non sapevamo ancora niente di Elena. La credevano viva e vegeta, forse a casa, forse scappata con lui. Ognuno diceva la propria verità sulla scelta di Enea e di Elena: c’era chi diceva che non era pazzia se non andavano più a scuola, se avevano deciso di non frequentare più voleva dire che aveva avuto i loro motivi e non volevano neppure farli conoscerli a nessuno, questi motivi, ma sì: perché dovevano interessarsi a una cosa più grande di loro, in fin dei conti avevano diritto a una scelta e poi, se non si sbagliavano, ma sì che si sbagliavano, erano pure maggiorenni, e invece non lo erano affatto, e potevano decidere ciò che desideravano per se stessi e loro chi erano a questo mondo per giudicare? Più o meno era questo tutto quello che avevano detto i compagni di classe di Enea e di Elena, e i genitori dei compagni di classe e i docenti e tutti esclusa l’amica di Elena, Carla, che piangeva. E poco altro ancora. Carla era come se si fosse eclissata: una paranoia le aveva arrovellato il cervello e s’era messa persino le cuffie mentre la prof parlottava ancora sulla porta con altri prof sul caso Enea ed Elena e i ragazzi facevano un mormorio che cresceva fino al baccano e pareva di stare in una catena di montaggio di parole per l’occasione e di corbellerie serissime. Avrei voluto dire la mia, trovare le parole che non invadessero ma mi aveva colpito la mia solita silente apnea dei momenti importanti. Allora avevo preso il mio bagaglio a mano e via, in auto, di corsa, senza sapere dove. Ogni tanto sembrava che la Calabria se la voleva levare il vento, che quando fischiava da sud-est, ed era così caldo e umido, aveva una gittata lunghissima. Sicuro che proveniva dai polmoni caldi di un qualche gigante appisolato a ronfare dalle parti della Siria. Pigliava un mal di testa da non poter dire. Tutto diventava febbre gialla: se prendevano il traghetto in quel momento li assaliva un impeto di maremoto. C’erano posti al mondo come nascondigli per pazzi, come custodie di segreti pericolosi: Enea era in cerca di un luogo così. Sicuro. Lo sentivo, ci potevo giurare. La strada mi spariva sotto al sedere e ripensavo ai docenti che interrogavano peggio che se fossero tutti ladri: volevano sapere di preciso ogni cosa.
Sembravano della polizia, sembravano. E i ragazzi finivano per farci la figura dell’infame. Mi ricordavo i giorni in classe: Elena vieni? Marco interrogato. Oggi sentiamo, vediamo un po’, elenco in ordine alfabetico, tutti con gli occhi bassi, e la più spavaldo a sfidare la morte e dire a nome di tutti: No, prof. La prossima volta è meglio. Elena, ma da quanto tempo non t'interrogo? Io devo interrogarti. A me non risulta alcun voto sul registro. Io sono tenuta a prendere provvedimento. A me questa storia che tu non studi non mi va giù. Che dobbiamo fare, ragazzina? Alla prof di matematica non andava giù. Ma Elena aveva già scelto. E adesso era lontana, fuggita col suo Enea. La classe era solida, dicevano i professori; era una bella classe, per carità, ci mancherebbe, erano figli di professionisti, così li chiamavano i genitori di quegli alunni, professionisti, con un pizzico di invidia, loro là, a scuola per sempre, e i professionisti invece in un mondo per adulti. La classe era pure affiatata, pensavano i professori, tutti per uno e uno per tutti, più o meno, poi si sa che ci sono le eccezioni e il limite di questa classe era che di eccezioni ce n’erano proprio tante e di anno in anno avanti con minacce di bocciature, materie da recuperare, voti altalenanti, liti e lacrime. Come in ogni classe del mondo, no? C’erano quelli che se la tiravano perché avevano i papà più o meno ricchi, anzi facoltosi; e poi c’erano quelli umili perché non avevano dove poggiare il loro cognome: perché il loro cognome non aveva una tradizione su cui starsene sicuro. Così, al primo colpo di vento, se non si stava attenti a coprirsi bene bene, finiva che il cognome se ne volava e recuperarlo diventava un casino. Per alcuni vivere era facile, perché non avevano il problema di trovare una base sicura per il loro cognome: male che andasse lo avrebbero posato lì dov’erano e ci avrebbero pensato i papà. Ma per gli altri. A Elena importava poco l’origine dei cognomi e sapeva che quasi nessuno aveva idea del fatto che molti illustri scrittori a scuola avevano fatto cilecca e le poche volte che s’era messa a parlarne con Carla di questo fatto era finita quasi in tragedia perché Carla aveva cominciato a urtarsi e a strillare “basta con questa poesia”.
E di conseguenza Elena li amava ancora di più, i poeti. E forse i poeti amavano lei. Pensava spesso al varco di Montale. Adesso che erano fuggiti, a scuola s’erano messi in testa che il professor Vittorini, cioè io, aveva scambiato parole con loro su un misterioso varco. Quello nudo e terribile della storia, come un portarifiuti del ato in cui cadevano i fatti a miliardi con le persone che quei fatti li avevano vissuti, e non rimaneva più nulla. E quel varco era il tutto il nostro aldilà, col repertorio di anime e di nulla eterno. Il nostro universo, se nessuno quando guardava il cielo se l’era chiesto, almeno una volta per sbaglio, era una membrana e le stringhe erano assiepate su questa membrana: voleva dire che eravamo appiccicati all’universo come formichine a un foglio che vaga nello spazio. Non era molto anatomico il blu dell’universo, era frutto di collisioni, di incontri che si facevano scontri, come nelle vite umane. Allora Enea e Elena avevano cominciato con le domande a bruciapelo: e com’ era nato tutto? E poi, professor Vittorini, lei pensa ce ne sia uno solo, oppure sono due o tre, quattro forse, o quanti? Era questa la teoria della lettera M? La teoria della membrana? Ma anche della meraviglia? La realtà era di gran lunga più strana di qualsiasi fantasia. E a scuola si stavano convincendo che la loro verità era giusta. Avevano indagato su di me. Non ero mai piaciuto al preside e ad alcuni colleghi. A loro piaceva che io parlassi coi ragazzi senza perdere la calma. E parlavo con loro di tutto: una miriade di universi paralleli in cui esistevano una miriade di realtà: in una addirittura era possibile che nemmeno fossimo nati. Per dio, nemmeno nati no. Come poteva essere? Se non eravamo nati chi eravamo? Sogni di dio, certo. Sogni che dio faceva la notte: ma se sognava noi, sognava qualcosa di esistente, sognava cose che di giorno vedeva. Oppure i suoi sogni erano premonizioni, e noi eravamo terribilmente premonizioni di dio? La materia era fatta di piccole stringhe e da queste stringhe si emanava materia come musica, come un violino o una chitarra dalle cui supercorde sbucava materia. Sembrava assurdo, era una teoria bella, elegante, semplice. Ma questa teoria poteva spiegare la nascita dell’universo? Gli scienziati potevano tornare indietro fino ad arrivare ai dieci alla meno trentacinque secondi dopo il big bang?
Avevano interrogato tutti gli alunni. Alla fine Carla aveva riferito alcune frasi che ricordava di aver udito dalla mia bocca: Scappa Enea, Scappa. Valla a fondare la tua Roma. Vai, non aspettare ancora. Ci sarebbero gli esami di Stato, certo. Ci sarebbe l’università, finita la scuola. E ci sarebbe pure quel cazzo di politico che ha un figlio e gioca con la tua vita. Non c’è spazio per te. Quel cazzo di politico fa così da millenni. Ci gioca con quelli come te. Promette, promette. Ma non ha niente da darti. Non avrai un lavoro qui, questo è sud, amico mio. Qui i dirigenti fanno finta. Il sud ha posti riservati, col nome sulla targhetta, e un appellativo, che serve sempre. Il politico e il notaio hanno occupato spazio. Hanno preso in proprio quei mestieri. Li hanno sottratti alla libertà. Non c’è posto per quelli come te, Enea, fino a quando ci saranno i politici, e i notai, e i rettori. I rettori odiano quelli bravi. I rettori, a loro che gliene fotte di te se campi o muori. Loro stravedono per i signorsì. Esci alla svelta da questa città, sei penoso qui dentro, esci: salvati. Così aveva detto Carla. Il processo in contumacia era cominciato, pensavo mentre guidavo. E pensavo pure al bidello che mi osservava, il collaboratore che collaborava poco, e che pensava che io fossi un dio o un idiota a farmi un mazzo così, con quei libri nella borsa. Ma la cattiveria non è divina, la bontà lo è come lo è fare qualcosa per gli altri. Non blaterare, ché l’intelligenza di tacere viene prima di ogni citazione. Siamo custodi del silenzio, ma lui era il re dell’omertà. Enea prima di sparire mi aveva confidato che avrebbe voluto inventare una macchina che mangiava lo spazio davanti e lo buttava indietro, e noi così avremmo potuto finalmente andarcene un po’ in giro lassù a cercare altri come noi, e diversi da noi. In mezzo agli altri spariva: la paura se lo mangiava, sua madre l’aveva dimenticato, non so come avesse fatto: sembrava impossibile, una mamma che dimentica il figlio? Impossibile, direste. Lo so, eppure era successo: suo padre, quando aveva sospettato il tradimento della moglie, aveva fatto la cazzata dell’anno. L’aveva afferrata dai capelli, strattonata come una bambola di pezza, con le urla che gelavano il palazzo, i vicini per le scale con le facce bianche. La sirena della polizia aveva fatto da colonna sonora. Il matrimonio s’era rotto. Se mai era stato sano. E Enea s’era ritrovato solo, a fare i conti con un mondo di adulti indifferenti, troppo presi dai loro parametri, intenti a scartabellare fascicoli d’odio, malumori, e pretese.
E io lo sapevo che lui era solo. Forse perché era un mio simile. Aveva scelto la strada dell’odio, per come possa odiare un ragazzino. Alla fine, però, c’era riuscito, e quelli intorno a lui s’erano allargati, come per paura d’afferrarlo da quella pozza d’acqua marcia dentro cui viveva. Il mondo non se le sporca le mani per quelli come noi. Mi sentivo come lui. La nomina a preside aveva allontanato da me i colleghi, i parenti. Qualcuno bofonchiava che ero troppo buono: che nella scuola ci stanno i furbi, che sarei stato marionetta parata a festa, con la foto del presidente della Repubblica appesa alla parete dietro di me. Ma sempre marionetta. Enea non poteva essere fuggito. Il mal di scuola non poteva esserselo mangiato. Sentivo che potevo ritrovarlo: non sapevo ancora che un signore era ato prima di me dalla strada dov’era accaduto il fatto, dove Elena giaceva contro l’albero, col corpo esanime, nell’attimo di fare i conti col suo fato. Il mal di scuola era terribile, una piaga dentro l'anima, che assorbiva tutto e cresceva a dismisura: faceva urlare di stanchezza. La scuola appesantisce, incancrenisce: i docenti sono pustole che ignorano la bellezza. Ma tutto questo bastava a farne il resoconto di una fuga?
Non sapevo che pensare: ero ato dal lungomare e avevo visto la polizia ferma. Ero fuggito senza motivo. Forse sapevo dove stavo andando. Ma era un sapere quasi non voluto. Lo sapevo come si sanno certe verità scomode. Avevo preso la scia dello Ionio, col vento di scirocco sonoro. Il sudore sulla pelle stingeva la paura, la scoloriva. La macchina rombava impaziente: le ore avano e io giravo in lungo e in largo. Ma niente. Nemmeno un tassello. Li cercavo come si cerca un amore, senza parametri, senza modelli di riferimento. Vale il concetto di “a prima vista”.
Avamposto dei poeti
Si chiamava Piero ed era l’omone che aveva portato via Elena, senza vita. E l’aveva portata in braccio, con una forza sovrumana, fin lassù, dentro le mura del castello. Ma che cazzo dici? Impossibile. Nessuno sa fare cose del genere. Troppi film. C’era un indiano che fungeva da guardiano. Il castello di Niceto non aveva soffitto e il cielo orientale lo copriva di tutte le tonalità del mondo e l’aria dello Ionio profumava di scavi del ato, come quelli per riportare a galla i delfini guizzanti da troppo lontano, o i draghi, col fuoco sputato per centinaia di mosaici, a Caulonia. Delfini e draghi, e mura. I treni della zona andavano a nafta. Lì vivevano uomini come alieni. Chi erano? Nessuno li aveva mai visti? Perché avevano scelto di starsene là, in gran segreto? E Piero aveva scelto pure lui di stare lassù, isolato. Non si sa da quanto era arrivato. C’era qualcosa di segreto, di strano, di rischioso. Era contronatura fuggire dal mondo normale, dalle leggi, dalle tradizioni, dagli ospedali, dalle scuole, dalle farmacie, dai negozi: per fare che? Elena era ancora morta? Non era una crisi di panico che gli sarebbe ata senza medicina. Che senso aveva vivere senza stratagemmi, senza finzioni? Che ci facevano là, erano uomini? Ed Enea, dov’era? era giunto pure lui lassù, all’inseguimento, col cuore scoppiato di terrore, con la voce della polizia dall’altro capo del telefono a domandare chi fosse stata colta dalla morte. Qualcuno a scuola sicuro che aveva parlato: avevano incolpato me. Ci potevo scommettere. Sicuro che avevano detto che ero stato io a trascinarli lassù. Qualcuno m’aveva visto la sera dell’incidente, mentre camminavo per il lungomare di Reggio prima che quell’auto la centrasse. Sempre che l’incidente fosse avvenuto davvero. Perché le parole biascicate da Enea al telefono per avvisare la polizia non s’erano capite. Forse aveva detto incidente, forse. Ma era vero? E dov’erano ora? A Reggio adesso lo sapevano. Quella notte avevano cominciato a cercare i due ragazzi come dei fuggitivi qualsiasi. Avevano avvisato la polizia che era già al corrente dei fatti per via di quella telefonata di Enea. Avevano trovato tracce di
sangue sul bordo del marciapiede deformato dalle radici degli alberi giganti. E la mattina a scuola, dopo che me n’ero andato, qualcuno aveva sospettato? E i compagni aveva provato a contattare sia Enea che Elena? Avevo provato pure io, ma niente: i telefoni erano spenti. Faceva un caldo strano, il solito scirocco ma più caldo. Il cielo era rosso, come il fiotto addosso all’Etna. Mentre quelli dibattevano sulle colpe e sulle pene, nel frattempo, al castello, era successo il gran fatto: la tradizione della morte s’era arresa. No, vi prego: non chiedetemi come. So solo che in un attimo tutto era cambiato: aveva respirato di nuovo, Elena. Aveva ricominciato la respirazione dell’aria, di quell’aria, già, come? mi chiedete. Non so. Non ho risposte. Le parole di Piero aveva cominciato a guarire: il potere taumaturgico di un luogo, di una persona. Non so, non ne ho idea. So che alla fine pure io c’ero arrivato, trascinato da una corrente buona. So che quando c’ero arrivato m’ero sentito come Dante appena arriva in Purgatorio. Il guardiano, come Catone. E con me un altro indiano, la mia guida, come un Virgilio, ma più imbalsamato. Il castello aveva spazi immensi: percorrendo un cunicolo si finiva in un sentiero coperto che portava all’altra fiancata della collina da dove arrivavano voci buone, come nenie d’amore, di persone adulte e di bambini, un’armonia mai sentita prima. Enea seguiva a distanza Piero, senza farsi vedere, e aveva camminato mezzora senza paura delle bisce e delle blatte e infine, come un’immagine sfocata, adesso gli pareva di vederci un aggio, era un fatto strano, come di chi apre un varco e noi ci ficchiamo, ma Enea lo vedeva soltanto da lontano, e non poteva fare in tempo a mettersi dentro, e nemmeno lo voleva. Solo che lì, proprio lì, in lontananza, aveva visto questo varco, un botro, un aggio, un vortice che aspirava tutto: e gli era sembrato di vederci entrare persone, e bambini, e cani mentre abbaiano, e donne tante, tantissime donne, e uomini e fatti umani, e storie, e vita che ora era solo ato, e solitudini, uomini abbandonati dalle loro donne, e prigionieri di guerra mentre si cacavano addosso, e malati di leucemia, col freddo del sangue svuotato dalle difese immunitarie sotto zero, e microbi sparpagliati come ad una festa pazza, un rave party per microbi, e bambini orfani di genitori, adulti senza dignità barcollanti nella povertà, scarpe aperte davanti, come sandali invernali, e preti pentiti con la masturbazione nelle dita, un mafioso che piangeva a dirotto con lo sguardo
muto, una donna salita a piedi da Bova, con la pancia gonfia dell’ingravidamento, i capelli sciolti, un infermiere impazzito dal dolore dell’indifferenza di fronte alle bare bianche, un padre che portava in braccio la figlia e guardava in alto come per cercare conforto, e dall’alto piovevano fiocchi di seta, così pareva: pareva seta che si confonde col cielo, e poi leggera si posa dando pace. Ci aveva visto entrare la morte, con gli occhi di nebbia, per non mostrarsi contenta, col mastice per i grumi di dolore, e la fanghiglia e i cimiteri, coi morti accatastati: la vita fabbrica di morte. Come nella scena di Un borghese piccolo piccolo, col cimitero stracolmo, morti in lista d’attesa, bare che cadono dall’alto, e scoppiano per accumulo di gas. L’orrido che ci meravigliava, eppure si ripeteva di continuo, perenne ordito della vita, e degli dèi. Pensava agli indiani come Mandip, con quel lavoro assurdo, come uno schiavo, e sua moglie e i suoi due figli nel Panjub, ad aspettarlo per anni, mentre lui da qui mandava soldi a casa: fare studia figli in scuola d’inglish, diceva fiero. E ora era là, davanti a quel botro, al mondo di là. E pure Enea guardava davanti a sé, immobile, e lo voleva compiere l’oltraggio di vivere un istante oltre il tempo normale, per fare in tempo a ficcarsi a precipizio dentro il pertugio dei poeti, linfa o brodo primordiale, pozza di vita o pozzanghera per anguille con cui i ragazzi giocano, talvolta, almeno nelle poesie. Come aveva giocato mio fratello prima di caderci dentro, da ragazzino, col suo camice nero, e gli occhi avvitati dal dolore, dalla febbre immensa e distruttrice, barbarica raccoglitrice di giovinezza. Allora Enea aveva preso forza e con le gambe molli adesso era tornato a correre verso quel punto ignobile dove la vita, d’incanto, se la risucchiava il nulla e mentre correva pensava che non doveva aver paura e doveva concentrarsi e sentire l’aria che gli stirava la peluria sulla faccia e lui correva col fiato rumoroso adesso, e la meta era un po’ più vicina ma disperatamente lontana ancora. E quando era giunto, l’indiano mi aveva fatto cenno di guardare: e avevo guardato. Era uscito un tappeto persiano coi drappi indaco poggiati sul terreno, e lì sopra gatti, bellissimi, come in uniforme, come alieni che navigano da miliardi di anni per le porte dell’universo. E Piero, con la risata spenta negli occhi grandi, languidi, con la serenità di un guru, che mi osservava come a dirmi che mi conosceva, e i gatti intorno fermi, come uomini a cui è stata tolta la parola. Io non so dirvi bene che cos’è successo: forse è una mia pazzia, forse non è successo niente, e la mia mente ha fatto la maleducata, e ha aperto la porta
sbagliata, per spiare dalla fessura, senza chiedere permesso. Come fanno le religioni. Come fanno le filosofie. Non ho la forza di Dante, e so che non ho visto alcun inferno, se non quello terreno. E Paolo e sca non c’erano. E nemmeno Gianciotto. Che ha fatto quello che il padre di Enea non è riuscito a fare. Non ho visto Minòs che orribilmente ringhia, non ho visto la schiera di Didone, o la schiena di Caronte, non ho visto nessun purgatorio, e quello non era Catone l’Uticense. Quella era un povero indiano, messo lì da qualche capobranco. Sicuro che ce l’ha messo la mafia, a vigilare la notte. Sicuro che non è successo niente di strano. Però, una cosa è successa. Che Enea era là, ed Elena era viva.
Il sole tramontava dietro l’Appennino e lasciava strisce cerulee come cieli concentrici che s’allargavano verso il mare da dove giungeva l’impeto della notte colorato di nero; Enea ancora correva come gli aveva detto Piero e adesso tutto era vicino e sua madre la sentiva piangere più di disperazione per la sua assenza, com’è giusto che piangano le madri per l’assenza dei figli, e questo gli faceva bene, e suo padre era tornato a casa, e s’erano parlati, e non erano volati piatti, certo, era finita, ormai era finita fra loro, ma sentiva pace, una terribile pace piovergli addosso sulla pelle scarna, con la magrezza dei morti, il manto di silenzio ora scandiva il tempo e Piero non c’era più o c’era, ecco che ora c’era di nuovo, e quel vortice come un tornado che però lambiva un cerchio di cinque sei metri al massimo, adesso catturava i viventi intorno: bisce, e cani, formiche e fili d’erba, un ragno che nel momento del risucchio appariva immenso nel cielo e un calendario coi numeri dei giorni come insegne luminosissime e i denti cariati e le collanine d’oro delle comunioni e le scarpe lucidissime di cuoio e i rosari e i crocifissi e le anime dei poeti, i vetri di bottiglie rimasti lì vicino, e le canzoni di quelle persone: s’era ficcato a tuffo nel buco del tempo, sembrava una porta ma trasparente. Il vento s’era appiattito fino alla calma assoluta. Ed Enea s’era ritrovato in un posto lontano, in un tempo lontano. A tu per tu con le anime dei poeti. Era il castello dei pazzi quella dimora sbucata in faccia all’Etna? O ero pazzo soltanto io, come sostenevano i miei pseudoamici? Era una vera e propria fortezza quella fortezza dei dementi, di uomini senza più niente di quell’umanità normale che avevamo noi? Erano perduti nel rigore di quella bellezza? Sembrava che perdendo tutto si fossero salvati. Come si erano salvati? Com’era svanita la
parola morte? Era quello il loro paradiso laico, dunque: il luogo dell’immortalità, della felicità. Oppure erano solo dei pazzi a cui la vita aveva sottratto la normalità per un accrescimento di dolore, per un livello da codice rosso? Qui non c’era la vita normale. Nessuna pensava a scrivere in chat o ad andare in palestra o a fare quel cursus honorum per diventare laureati e poi schiavi o disoccupati o impiegati o tutto il resto. Non scrivere più sulle chat di Internet era per Enea come essere usciti dalla vergogna delle parole. Non voleva più pensare a quel mondo, dove ognuno ambiva a mostrare la propria verità, la propria utilità. Adesso invece quel silenzio gli mostrava una strada nuova, percorribile, diversa. Basta sproloqui, basta utenti con diritto di enfasi: il pudore occorreva, la timidezza, l’eleganza del silenzio. Occorreva cercare il silenzio che bussava alla porta degli acufeni fino a quell'insopportabile sibilo come in certe notti a tv spenta. E lì, in mezzo a tanto fracasso di mutismi, fare mente locale, liberare il cervello da quei quattro fantasmi in maschera e trombetta ati di lì per caso a mugugnare qualche parolina addosso alla nostra insonnia bianca. Questo pensava mentre Piero lo osservava da lontano, assieme a quei pazzi, dentro quella sfera ignobile e meravigliosa che la società non poteva tollerare. Erano in tanti lì, perduti in quello sputo di collina, col vento che li lambiva come una frescura per sanarli, per aggiustargli la testa, e sbattere al tappeto le frottole della mente quando parlava a sproposito e vedeva l’inimmaginabile. L’arsura della terra era sgominata dall’irrigazione perfetta dei campi, mentre le bocche intonavano le loro nenie di pace, il loro lungo mantra salvifico, in quella terra per monaci buddisti, che tuttavia era abitata per sbaglio da quei bellissimi dementi. Lo yoga era il giogo, o iugum latino, che aggiogava se stessi per giungere infine alla caverna dei sensi, dove arrivava lieve il richiamo dell'OM: insomma, un casino! I cocomeri come melograni per ciclopi subissavano il paesaggio rovente di boccate di verde. Le lucertole tornavano a giganteggiare in quel cucuzzolo di mondo al punto che gli uomini che vivevano sulla costa, laggiù, sembravano tanti rifugiati sfuggiti a quei sauri verso tranquille oasi marine, come immunità,
come forme d'esilio saurofobico. Piero s’era seduto infine accanto a Enea e gli aveva raccontato che i bolscevichi d'ottobre di un altro millennio avrebbero preso prima o poi un nuovo palazzo d'inverno e che la vita di prima avrebbe avuto progresso a forma di schermata degli occhiali a realtà aumentata, con chirurghi che avrebbero operato con due joystick nelle mani guardando monitor a led e le auto sarebbero andate senza piloti e i fotovoltaici li avrebbero montati sulle schiene degli umani come zombi risvegliati a colpi di mouse per azionare la velocità, non quella di Crea, una velocità diversa, la velocità verso Dio: senza pericolo della bua extragalattica, l'umanità intera avrebbe smesso di seppellire plastica. I funghi sarebbero cresciuti giganteschi come escrescenze della terra per riparare le teste dal solleone in tempesta e i lestrigoni del ato, che avevano appena finito d'abboffarsi di carne umana, non sarebbero stati sostituiti da altri lestrigoni, e dietro i cancelli altra carne umana non si sarebbe accalcata in cielo in forma di fumo e non avrebbe formato un coperchio di piombo addosso alla terra. Enea non lo capiva. Piero continuava in quel discorso bellissimo e assurdo: che sono i paraplegici, i poveri, gli ultimi, la soluzione all'infelicità, che da loro dovevamo imparare tutto, perché loro hanno un punto di vista diverso dai vincenti, dai tronfi, dai potenti. Quel castello era l’inno al carnevale, l’atto di depersonificazione, il rovesciamento dei ruoli. A nessuno importava nulla di quell’intelaiatura di mondo così vergognosamente diverso. E loro là stavano costruendo la felicità. Una congrega di bambini intonava un canto lievissimo e la pelle si accartocciava dai brividi di piacere, e il bottone dell’immortalità era il surplus che gli uomini della normalità non avrebbero accettato. Il mio compito di preside addolorato adesso era finito. La mia testimonianza sarebbe rimasta però a lungo muta. Sembrava un nuovo Gesù, ma non l’avevo mai detto a nessuno. Solo tu, lettore, lo leggerai. Non sbandierarlo, affinché non cada nel covo di chi si diverte a disprezzare: e neppure si tenti di osannare, ché nessuna religione se ne impossessi.
M’ero avvicinato e avevo visto Enea col libro di Elena in mano. Quello del regalo. Era buffo perché era un libro che mi era familiare. Non capivo. Poi ero andato ancora più vicino come per leggerne il titolo. Ed ero caduto nel futuro: il
titolo era proprio quello, La fortezza dei perduti di Leonardo Vittorini. E quella fortezza era una scuola, un ospedale, un campo per giocare, un campo per coltivare, un terrazzo per osservare la linea del mare su cui il cielo poggia se stesso. E poco altro. Una scuola all'aperto, senza diplomi e senza voti: solo imparare ridendo e scoprire, per quanto possibile, come fermare la morte. In quello Piero era il migliore. L'aveva imparato da tanto, non sempre ci riusciva: quella volta aveva provato a fermare la morte di uno per me importante. Era una giornata soleggiata di primavera. . Aveva cercato di fermare la morte dei miei cari. La fortezza era il rifugio per costruire una nuova civiltà. I ragazzi avevano cominciato a costruire il loro futuro. Ma non tutto era andato come doveva. Qualcuno li aveva notati.
Quel posto era ormai pieno di folli: migranti e barboni e disoccupati e adulti che avevano perso il loro lavoro di sempre e non sapevano più che cosa fare della loro triste e inutile vita, e donne vittime di odio maschile, odio pazzo e furibondo: erano tutti uomini col magnete che cattura speranza, conficcato nel cuore. Nei migranti africani il bianco degli occhi splendeva contro il nero della pelle. Il biancore sgorgava pure dai denti perfetti. Sembravano arrivati per mostrarci la nostra mediocrità. Li guidava quel Piero. E li guidava verso la civiltà che nessuno voleva vedere: verso la felicità. Non serviva più la vita in ufficio o in case come loculi da vivi: serviva qualcosa di meno, una piccola civiltà idiota, che sa accontentarsi di poco, perché sa che i botulini sparati dentro i visi non assecondano alcuna felicità. Serviva altro, e loro andavano verso la direzione opposta a quella della tradizione. Solo così avremmo capito il bosone detto la particella di Dio. Ci serviva la scienza nella vita di ogni giorno. Apprendere per esperienza. Non più per finzione.
Flashback al fotofinish
Avevamo pranzato da poco. La cucina faceva ancora odore di stoviglie appena lavate. La telefonata era arrivata puntuale. Questa è la storia secca e vera di vite che s'intrecciano e svaniscono in un attimo o in un sacco di tempo. Questa, se vogliamo, è l'atmosfera che respiriamo tutti noi da che nasciamo a che moriamo. Dal vagito di prima vita al sospiro finale davanti al crinale della storia. Questo è l’enorme raggiro o una meravigliosa giostra che gira avvitata ai bulloni della storia. Col gettone, l'ultimo, nella mano stretta dell’uomo che ripensa: appena lo infili è il giro finale. Poi il gran botto. Chissà se ci si rivede. Intanto contano gli anni ati. Conta il ricordo del mondo dentro uno scarabocchio sepolto. Contano le lacrime a fiume strozzate nella gola e gli anni sui libri senza capirci un accidente e le urla sclerate di mamma e papà e i caroselli della sera nell'aria tappezzata di ato. Conta quella serenità lenta che sapeva di vita poco competitiva e le cose si potevano riparare e ognuno era idraulico e falegname e carpentiere di se stesso. Si dovevano riparare, le cose. E nessuno si sarebbe concesso il lusso di buttarle via. E a dirla, questa cosa qua, non sarebbe stata retorica. E l’età del brevismo era solo nella fantasia di qualche mente balorda, di qualche Philip Dick: brevismi e pecore elettriche. E niente più. Mamma, che succede? Sei tu? Conta che la città era buia di notte, ma più buia della notte. Anche in centro. Anche sul lungomare. E in tutto quel buio gli spazi si ingigantivano e le possibilità degli uomini si restringevano. Contano anche i cartoni di Alan Ford. Conta Mazinga e Arnold, Fonzie, e Goldrake, e Ricky Cunningam. Contano i Fantastici 4. Conta Superman in prima serata. E conta che l'ultimo alla fine la chiudeva, la porta. Le cose che contavano da piccoli erano queste. E poco altro.
Conta che il Natale arrivava con un fragore: e quando scoppiava ci ritrovavamo col culo fermo su decine di sedie attorno a una tavolata senza fine, zii e zie e nonni e nonne e cugini e cugine e amici e quello che era rimasto solo, e s’era aggregato con la solita telefonata dell’ultimo momento. C’eravamo tutti, magnificamente uniti, e quello sconosciuto che non sapevi mai che ci fe lì con noi. Se era davvero solo e pazzo, come noi bambini pensavamo. Perché la solitudine puzzava di pazzia, allora. Non sapevamo ancora quanto si sarebbe allargata nelle nostre vite, con le la varianti single, singolo, singletudine. Conta che eravamo lì, adesso: e non c’era tempo per l’infelicità. Quella lo sapevamo che prima o poi, con una telefonata, sarebbe arrivata. Ed era arrivata in una giornata soleggiata di primavera. Il corridoio lungo aveva fatto da imbuto all'urlo di dolore di mia madre. Avevamo pranzato da poco. La cucina faceva ancora odore di stoviglie appena lavate. La telefonata era arrivata. Puntuale. Chiudete ‘sto cazzo di libro, se vi annoiate di sentire dolore. Chiudetelo, ora. Ma magari non ci siete arrivati nemmeno. Telefonate ai parenti. Alle personcine sane. Il tempo cammina svelto in un conteggio pazzo all'indietro, un countdown senza risultato. Affiorano chili di ricordi, ogni gesto è riesumato dall’abisso del nero, compare a frammenti la figura di qualcuno, mio padre: la piccola danza svelta delle dita attorno al polso per avvolgerlo con l’orologio laccato d'oro, i i secchi della malattia, la sedia in corridoio con le braccia aggrappate alla fisarmonica rossa, il sorriso mortificato di chi si sentiva fuori uso, le note prese nell'aria con un'occhiata. Ogni mezzora ulula un treno nella ruga malata di quel mondo, più giù del mondo buono. Studiavo geografia, quel sabato pomeriggio. Lo sapevo che sabato tradisce per etimo qualcosa di diverso dal solito, uno scarto dalla routine, una vacanza dal tutto bene. Certe sere tese e lunghe sul cielo del sud sono svolazzi di nubi ate per caso. Quel cielo spampanato addosso ai morti osserva dall’alto i paesini della costa e, se da lassù qualcuno, un dio, un cameraman, stringe l’obiettivo, si possono vedere a una a una tutte le famiglie, cogli scheletri, tanti, nell’armadio, e poche zaffate di felicità. Noi eravamo rimasti con la felicità incartata, manco il tempo di dire grazie agli dèi, zero, tutto finito, ma non c’eravamo scoraggiati. Anzi, c’eravamo dati da fare. La polizza per il futuro aveva a che vedere con i libri, avevamo pensato.
Mamma, chi è al telefono? Ero solo un ragazzino. Stavo appeso ai lembi del cappotto di mia madre soltanto per vincere lo schianto della sconfitta. La tradizione è il solo odore di casa che non impregni di olezzo gli abiti buoni. Quelli per la diplomazia, per la guerra. Tra pochi mesi l’Italia avrebbe vinto il mondiale di Spagna. Se adesso ero un adulto che saliva in cima a una collina in cerca di un ragazzo perduto, avreste dovuto vedermi alle prime corse da bambino, agli affanni delle prime litanie, al labbro salato di sangue, alla saliva mischiata alle lacrime, già, esattamente come tutti voi, e il fatto che pensassi pure all’assenza di mio padre, a quanto mi mancasse man mano che crescevo, erano dettagli irrilevanti per lo scorrere dei fatti. E poi invece, ripensavo pure a quando ancora c’era e io, bambino, rimanevo seppellito dal senso di colpa, se per un dito avevo mancato la presa, se per un secondo non l'avevo avvolto con un abbraccio lungo, o se m'era scordato di chiamarlo: come se la parola magica papà pesasse un poco troppo. Lo cercavo come si cerca il dio dell'intelletto. Non per fede. Con la ragione che illumina i tramonti stretti e neri degli inverni di città. L'aiuto vero, il lume oltre il monte come una speranza di calore, una leggera memoria di salsedine, di colori. Lo cercavo nell'agguato della medicina che sbagliava, di tanto in tanto. Sembrava ata l'eternità tra me e mio padre. Mi ricordavo degli spasmi di risate accese per il condominio, niente master e niente università e zero aspettative se non quelle di soddisfare il capufficio ignorante e villano e niente viaggi e niente inglese e niente mutuo e zero competitività e zero competenze.
Era un mondo fatto di risate e pianti senza mezzi termini. Le battute a bruciapelo aggredivano la confusione dei silenzi oltraggiosi, erano manna dal cielo per gli inquilini che ignari campavano per sbaglio sotto le stesse mura senza idea di futuro o progresso o miglioramento della specie. Si era contagiosi nel divertimento. E nel lutto. Era una giornata soleggiata di primavera. Il corridoio lungo aveva fatto da
imbuto all'urlo di dolore. Addio famiglia bella. Addio mamma e addio papà. Addio fratelli: i giochi le botte gli scherzi gli sputi i dispetti gli abbracci. Addio. si rimane soli in un attimo e per un sacco di tempo. La telefonata era arrivata puntuale. Il pianerottolo s’era riempito di gente vestita per la festa della morte. Ed erano arrivati tutti. Ma io me ne stavo con i miei simili: Erminia, una vicina di casa che mi aiutava a capire il latino e che da piccola – dopo che s’era lavata la testa con l’acqua ossigenata col risultato di una zazzera arancione - raccoglieva mozziconi di sigaretta e di nascosto si metteva a fumare: come una specie di Rebeca in Cent’anni di solitudine, solo che quella aveva il vizio di mangiare terra, lei di assaporare tabacco. Magari si offende se legge di sé queste cose. Erano arrivati in tanti per coccolarmi dal peso del dolore. Poi era arrivata la signora del forno coi capelli lucidi e neri che parevano blu, come una vicemadre a stringermi forte per trasmettermi il talismano dell’amore, prima che mi cogliesse la malattia che mi sbatteva a terra e mi faceva roteare davanti agli occhi dei normali, nel pianerottolo, pazzo, a schiaffi e pugni contro me stesso, per smentire quell'abbraccio dovuto. Allora avevo pensato che adesso sì che sarei rimasto solo: già, almeno così pensavo: ma forse era solo un modo di fingere, il modo più grande, quello dei grandi quando t'abbracciano se poi, dopo un po', se ne scordano, presi dai loro mali, dai loro pensieri seri. Questa è la storia secca e vera di vite che s'intrecciano e svaniscono in un attimo o in un sacco di tempo. Questa, se vogliamo, è l'atmosfera che respiriamo tutti noi da che nasciamo a che moriamo. Dal vagito di prima vita al sospiro finale davanti al crinale della storia. Questo è. Un enorme raggiro. Una meravigliosa giostra che gira su stessa parsimoniosa e rossa di emozioni. Col gettone, l'ultimo, nella mano stretta. L'ultimo. Appena lo infili è il giro finale. Poi il gran botto. Chissà se ci si rivede. I millenni galoppano nella mente di Dio. Il suo orologio da polso non sbaglia un colpo. Batte millesimi di secondo e centesimi e decimi e secondi e minuti e ore e giorni e notti e mesi e anni e decenni e poi a cento e a mille e a milioni. Fino al salto indietro. Che memoria deve avere Dio. Se risale ancora arriva a più di tredici miliardi di anni fa. Bang. L’inizio, il mistero più grande della cosmologia: la singolarità, la singolarità cosmica nella quale le equazioni divergono.
Le notti fuori finivano subito. Il tempo crollava a tonfo come la saracinesca di un pub. Le bottiglie di birra facevano aiuole dei marciapiedi intorno e arredavano il grigio della strada, e lo vitalizzavano e il malto rimaneva per ore nell'aria, nell'ubriacatura fino al mattino. Fino al drin metallico che faceva sclerare. Il tempo della scuola, quello di giorno, durava così tanto. Quanti anni dentro a quel banco? M’era rimasta l'Italia in due, tra le mani. Non avevo capito subito. La voce di mamma al telefono era forte per sopperire alla distanza. Magari parlava al telefono coi parenti di Trento e allora urlava, ma avrei voluto andarle andato incontro, sì, le ero andato incontro nel mio sogno di qualche mese dopo blaterandole cose del tipo “Chi è? Papà? Papà non si sente tanto bene? Non si sente tanto bene? Non si sente tanto bene? Tanto bene. Tanto bene. Bene. Bene. Bene”. Lei non diceva sì se non con la testa e mentre la piegava avevo già capito. Solo che non era solo papà. erano tutti spariti da me. I papà e le mamma che non si sentivano tanto bene, ora lo sapevo che voleva dire: che erano appena morti. E l’adolescenza s’era fermata: aveva perduto la sua corsa lenta verso l’età adulta. I colibrì sbattono le ali a miliardi di volte nel loro giro del mondo e i maratoneti rigano le città per 41,843 chilometri e le voci si incrociano nelle vie e nelle piazze e nelle fibre ottiche e nei reticoli senza fili che stringono a sé la babele digitale del futuro che bussa da un pezzo. I ragazzi timidi a scuola diventano fessi perché il boato si dilata dentro quello spazio bianco. E allora vengono additati. E tutto diviene buio. Ma buio è per gli arabi un nome proprio femminile: Layla è notte. E Nur è luce e Fatima è colei che svezza. I ciarlatani, i buffoni, gli sfacciati, i logorroici hanno una luce artificiale addosso. Una patina per celare il pathos fasullo. Quelli da una parte. Dall'altra i timidi, nella loro prigionia elegante, con la luce naturale, e non importa più se è Layla o Nur. Tu non ricordi la casa dei doganieri…la forbice, con la nebbia, recide pure il tuo volto, sul rialzo a strapiombo sulla scogliera…serve Montale per levigare con la musica i cocci aguzzi, i fremiti, gli spasimi, i nervi rotti. Dentro il guscio di mutismo non fa così male, la vita. Solo da adulti si scappa dentro la vita: e si sceglie il mondo che ci ha già scelto:
e ci si dedica a chi non esiste, agli invisibili, dentro bolle per invisibili, e Piero è l’eroe buono che salva i bambini, che culla i dementi, che accoglie i migranti, che li rifugia nella fortezza lontana, che nessuno vede, che nessuno immagina, la fortezza per pazzi, la fortezza dei dementi. Un giorno entra un uomo a i lentissimi in un ospedale, come se un mal di mare lo potesse assalire. E ci sono i bambini, distesi sui letti, coi corpi immoti, senza sguardo, nati con l’errore del parto addosso, le madri sofferenti, o meste, pallide, senza linfa, e l’universo accanto. E lui pensa che bisogna fare qualcosa, non si può stare ad aspettare che loro facciano qualcosa. Poi esce e trova persone come lui, va nel mondo a cercarle. Il suo nome è Piero. Lui ha perso tutto: famiglia, amici, soldi, lavoro, tempo, crudeltà. Soprattutto non conosce la parola crudeltà. Girovaga in cerca di qualcuno da aiutare. E aiuta quelli soli, quelli indifesi, quelli con famiglie grandi ma distanti. Quelli che hanno perso il lavoro o la moglie: la moglie, soprattutto. O quelle senza più marito, scappato sul più bello, verso la vecchiaia, quando tutto ormai è fatto, sembra fatto. E loro, i mariti, fuggono con la ventenne di turno. Allora lui salva i bambini e salva i matti: no, non li rinsavisce, li salva, gli dà coraggio, li aiuta a coltivarla quella mattìa, che non diventi mattanza contro di loro. Aiuta i moribondi a non morire: oppure, se non ci riesce, li aiuta a morire. Insegna come in una scuola senza aule, senza regole: ma insegna davvero. Insegna il respiro, insegna a vedere, non a vedere come vediamo noi, insegna a vedere davvero, lontanissimo, vicinissimo. Insegna a svuotare la mente, a togliere tutto, ogni virgola, ogni centesimo di pensiero. Insegna a sollevare l’anima da terra, a volte il corpo, per gli studenti più caparbi. Insegna l’amore. Insegna il pensiero. Insegna a osservare le vie delle formiche, insegna a guardare in faccia il big bang, ad ammirare le rane del Borneo che respirano con la pelle, oppure le talpe che respirano sottoterra dove l’ossigeno finisce e rimane solo anidride carbonica e loro, le talpe, hanno in qualche modo modificato i loro polmoni per tollerare tutto quel dolore, quella sofferenza: come i mariti abituati al tradimento delle loro donne. L’universo degli esseri umani è un’intricata membrana di energia: la teoria M come mistero, magia, madre, membrana, maestosità. È una teoria: una undicesima dimensione: come prendere un millimetro e dividerlo per dieci seguito per dodici zeri. Uno spazio molto piccolo. Un trilionesimo di millimetro. Più vicino dei vestiti al nostro corpo. Eppure non riusciamo a percepirlo. Fluttua come una sottile pellicola di gomma o a una bolla che vibra a seguito di una
esplosione nell’iperspazio. Da ogni angolo dell’undicesima dimensione spuntano universi paralleli. Per Kurt Vonnegut era stato semplice far viaggiare il suo Billy Pilgrim nello spazio e nel tempo. Agli umani non rimaneva che restarsene nell’angolo dentro lo sgabuzzino in fondo, supponendo di sfiorare qualche mondo parallelo, senza mai vederlo. Beato Billy Pilgrim. Ero solo un matematico col vizio di scrivere. Scrivere, mettere insieme parole, oppure solo leggerle, o scandirle all'unisono col ticchettio della tastiera, o riascoltarsi a declamarle, tutto questo, insomma, è suo, soltanto suo. Leggersele nella mente, quelle parole. Oppure urlarle o scimmiottare Omero, o darsi arie alla Gassman, fingersi Catullo davanti allo specchio e nella disperazione cieca dell'abbandono. Dilaniarsi con un personaggio come Didone quando Enea era già fuggito e ritrovarsi lettore di Properzio per riscrivere quello che ci hanno detto sull'amore. Vagare nel non-tempo della poesia. Acquattarsi a tu per tu con Foscolo. Implorarlo di leggermi un suo sonetto. O aspettare notte per staccare qualche terzina dalla beatitudine dantesca e ritmarla nel delirio endecasillabico, come un rap scazzatissimo. A quell'ora, quando i ricordi mi intorpidiscono la mente, e la ragione lascia via libera al corteggiamento dei sensi. All'ora in cui la luna è per Leopardi l'altra metà del dialogo col pastore. Il pastore che parla alla luna, ci pensate? Il pastore ignorante che vive una condizione esclusiva, alta. Il pastore dell'intelletto, il pastore filosofo di Leopardi. Con Stefania giocavamo a barricarci dagli adulti: a nomi, cose, città, a carte, a chi mangiava più pastina, a chi correva più veloce con le gambe (io) e a chi correva più veloce con la penna (lei, la temibile mancina), e ridevamo a carcarazza, come sapeva dire bene la mia insegnante pomeridiana, che mi sorprendeva ogni volta che recitava versi che pensavo non avrei mai imparato a memoria, perché non sapevo ancora che non si impara a memoria ma si impara con la memoria del cuore, dall’etimo di ricordare. Fatto sta che si rideva sul serio per ore, con i muscoli dell’addome a dire basta, esanimi, sguaiati, coi volti paonazzi, tumefatti dalla sepoltura del reale. Poi, sul più bello, finiva la comica e giungeva la tragedia travestita da piatto con pastina al formaggino: quel piatto diveniva oggetto del contendere, e mentre piangevamo tenendolo entrambi stretto per non perderne il possesso, da lontano
sentivamo l’eco di un pazzo (pazzo perché parlava troppo bene, dunque era da sfottere) che sciorinava il suo prezioso logos, quando ricreava il mondo ogni volta che parlava. Escogitava per ipotassi e si rimaneva estasiati, in famiglia, di fronte a quell'irrimediabile non capire. Era il dio del verbum, questo folle senza nessuno, e aveva l’abilità dantesca di mischiare termini alti e termini bassi e quel cazzo di logos si spargeva nel nostro mondo autentico, col nostro dialetto magico, con le nostre parole come un mantra, tanto che quando se ne andava, dopo che la zia gli aveva preparato pure il caffè, ripeteva una cantilena di parole pappagallesche e vere: s’annunca ti minu, quandu ti pigghiu, miscita u cafè, e nesciti i ddocu, ti rumpu u culu, a cummari e u cumpari Lafaci. Ci allietava le orecchie e noi bambini, amatori inconsapevoli del significante, stavamo davanti, inebetiti, senza mai cogliere in pieno la raffica dei significati che andavano a sproloqui logicissimi. Ci salvava quel misto di eleganza e cafonaggine: ci rendeva incolumi di fronte ai baroni, e ai malviventi. Prendevamo il lessico di tutti, e lo mettevamo nella fondina dove abitano le parole. Quelle parole così perfette spazzavano piccoli gusci di nuclei di certezze, irridevano i balbettamenti della gente alle prese con gli azzardi di congiuntivi sbilenchi, in corsa verso un patatràc linguistico. I racconti del pazzo riempivano le sere in famiglia una volta all'anno; capitava a Natale di solito, assieme ai bisbigli magici delle donne affaccendate e le loro urla arabe certe volte sgombravano il pulviscolo, come lance sottili che radevano l'aria mentre il compare di fronte gli fotteva collanine o comodini. I ladri andavano in cantina ed erano colpi di cesoia con cui scardinavano l'eleganza del silenzio, il mistero del nulla, il sibilo degli acufeni pressante e indefesso. Ah, parlare! Ma non è proprio così: io mi scassavo le balle a sentirli sempre perché loro erano la mia famiglia ma solo fino a un certo punto. Non li riconoscevo sangue del mio sangue, non potevo. Per me quel pazzo era sangue del mio sangue più di loro. Anche se loro erano bravi con me, non accettavo di far combaciare quegli affetti fino in fondo. E loro l'hanno sempre saputo. Le parole erano manna dal cielo. Ma io parlavo poco. Quasi niente. Una volta mio zio Mario Superman mi aveva regalato una splendida auto radiocomandata azzurra con sirena rossa: e s’era messo a raccontare che qualcuno gli aveva detto qualcosa e né lui né gli altri due accanto a lui avevano capito nulla. Soltanto io avevo le orecchie tese e fresche ma zio Superman disse pure che tri surdi e nu mutu… loro i sordi, io il muto, non potevano farcela a capire.
Per dispetto alla timidezza metto in scena questo alone biografico, come un commiato voluto e cercato. Quasi uno sprone per chi arriva dopo. Anni e anni dopo nelle classi la timidezza li avrebbe tenuti aggrappati per paura di osare: gli altri sempre pronti, sempre coraggiosi, frase giusta al momento giusto. I timidi con quella cazzo di natura che non predispone alla fuga dal branco. Si massificano, i timidi, si massificano nella speranza di un bagliore medio. Che gli altri dicano quello è come noi. Il branco postula. I timidi annuiscono. E mio zio aveva sempre creduto più di me a un tempo del riscatto. La riscossa era alle porte, pensava lui. Stava per arrivare il tempo in cui il brutto non avrebbe graffiato più alla mia porta. Il tempo in cui le cose sarebbero andate meglio per me. A volte prendono il verso giusto senza un perché. E così nascono storie su cui puntare tutto il gruzzolo. Metterci dentro se stessi. E lo sapeva che si poteva vincere o si poteva perdere. Senza mezzi termini. Ma come si faceva? Come si riusciva a scriverla una storia credibile in mezzo a mille, a milioni, a miliardi. Me li ricordo i suoi libri, tutti quei gialli Mondadori, con le Muratti morbide poggiate accanto, e gli occhiali da vicino, e l’accendino col gas ricaricabile, e i trucchi da mago per darmi un po’ di sollievo: queste parole sono dedicate soprattutto a lui. Gli zii Superman sono ottimi vicepadri. C'è qualcuno che riesce a farlo? Che cos’è allora scrivere? Un lavaggio in lavatrice, una centrifuga di parole, di fatti, di vite da narrare, di vite già pronte, per una sola scelta. L'unica. Irripetibile. La scelta. L'azzardo di scegliere nella totalità delle cose. Gli eventi uno dopo l'altro cadono, incespicano. Uno dopo l'altro. Come aveva fatto Gadda a scegliere quel bendidìo, lo sapeva? A sacrificare sull'altare del romanzo tutti gli altri personaggi. Pirobutirro aveva vinto. No, non si poteva scegliere se non col talento secco dell'ingegnere mancato che si fa umanista, che si fa letterato. A un certo punto il crocevia non è più tale: diventa via. Una. Sola.
La si percorre col talento che è scarto dalla norma per una accelerazione di volontà e non si può arretrare, indietreggiare è oltraggio alla legge fisica che vige nell’oltrefisico, nello spazio fuori dalla nostra atmosfera. Ma come fai a rischiare senza paura di fracassarti culo a terra dentro il mondo di qua, con le leggi fisiche sacrosante e terrene? Con l’attrito e la forza di gravità che ci incolla le idee sporgenti e ce le annienta un secondo luce più in là del barlume, dell’avvenire. Il lombrico ha un talento pazzesco: potrebbe essere immortale perché non si ossida, respira dalla terra da cui succhia l’umido, l’acqua, e poi ha entrambi i sessi e può fecondare ed essere fecondato, il lombrico. Questo vecchio ingegnere ecologico che scava cunicoli lunghi parecchi metri e in fatto di sesso la sa lunga e che se si rompe in due una sua metà può vivere lo stesso.
Enea invece aveva sacrificato la sua metà senza essere lombrico. Aveva ucciso Elena. E gli umani non hanno l’esperienza dei lombrichi, non esistono come loro da centinai di milioni di anni. Gli uomini, quando si separano con cruenza, non si sanno ricomporre. Mai. Forse. Se era stato lui.
La fortezza dei perdenti
Mentre salivo lungo il tragitto mi faceva tenerezza la piccolezza umana che strideva con quell'affresco di tecnologia siderurgica che l'uomo aveva creato per ridurre in poltiglia i ventri delle montagne. Per trafiggere le icone oggettivate della phisis venivano montate trivelle ciclopiche che convogliavano partendo dagli antipodi nel punto più interno del ventre della montagna bifronte, a decretarne l’avvenuto trao. Tra l’ammirato e lo sconfortato avevo osservato a lungo la piccolezza umana di fronte alla grandezza dell’acciaio che imperversava sbudellando quelle piramidi sempreverdi in una rovinosa diatriba uomo-natura. Si sanciva la supremazia della velocità come un redde rationem per futuristi smaniosi di liberarsi dall’acredine che il ato procura. Da quel tragitto avevo compreso anche quanto fosse allo sfacelo la scuola. Ma questo era un argomento che tenevo già nel giardino delle mie idee, sperando che una trivella siderurgica non me lo annientasse. Avevo preso una stradina stretta e sterrata, che curvava di continuo come per annodare la collina e avevo cominciato a salire. Eccolo il serpente d’asfalto per arrivare su una vetta delle due colline che si intravedevano da giù. Non c’era anima viva intorno a parte un indiano che mentre gli chiedevo informazioni s’aggiustava la giacca, se l’era messa dopo il lavoro, dopo ventuno ore di lavoro, mi aveva detto, con tanto di partita iva, tre ore tra sonno in pullman e cibo, sommate facevano ventiquattro. Me l’ero caricato in macchina per un aiuto indifferente come il cireneo aveva fatto con Gesù. Avevo proseguito perché sentivo che dovevo cercare. Dovevo andare su, in alto. Fino alle stelle. Mentre salivo pensavo che mi piaceva un sacco quel Billy Pilgrim di Mattatoio n. 5: mi piaceva sapere che per salvarsi dalle bombe su Dresda si rifugiava in un mattatoio. Però poi, un po’ come Leopardi che vagava nell’infinito, anche Billy vagava, ma
senza nemmeno volerlo. Poteva andare da qualsiasi parte e in qualsiasi tempo. L’indiano s’era quasi addormentato. E mi piaceva Vonnegut e come usava la macchina per scrivere, come se avesse tra le mani un telescopio puntato verso mondi alieni. Oppure adesso pensavo ai bambini di Golding, lo scrittore del Signore delle mosche. Pensavo a quei bambini sull'isola deserta dopo il disastro aereo, certo! I bambini come Percival, che piangeva mentre gli altri si tuffavano e finivano a panciate sulla distesa d'acqua che li circondava, in mezzo al Pacifico meraviglioso e terrifico. E pensavo che i personaggi dei romanzi dovevano esistere in un luogo vero, fatto di anime di persone. Adesso l’indiano mi russava accanto. Pensavo ancora a loro, ai bambini di quel romanzo. Senza mamme e senza papà, quei bambini più grandi mentre giocano al gioco dei grandi, ed eleggono Ralph come capo. A quelli pensavo e sorridevo. Mischiare realtà e finzione in quel galoppo di preghiere senza una fede sicura. Col rischio di cadere o di poltrire troppo a lungo nel pied à terre di un marciapiede col pulviscolo irrisolto nella mente, e i tacchi delle donne a battere il tempo delle competenze. C'era anche un tempo lento e immutabile che era il tempo della giovinezza, che gli adulti non volevano accettare ma poi quando si è adulti i ricordi cominciano a premere contro le tempie e a indaffarare i neuroni che li trasportano, i ricordi. Così comincia a crescere il traffico della memoria a lungo termine e si sfoltisce via via il traffico della memoria a breve termine. Succede che gli adulti non scartano più dalla vita, dalla routine comata e uniforme: diventano forma. Da vecchi, invece, succede che, piano piano, si lascino risucchiare dal gorgo molliccio senza opporre forza, e succede che prenda vigore invece il sogno sulla realtà, la vaghezza di nube del ricordo sulla strada segnata dall'esperienza. Li vedi giochicchiare con i bambini, inginocchiarsi a terra, accartocciati e felici, quei vecchi, tra dinosauri di gomma su cui galoppano supereroi biondi con colini per il tè sulla testa a mo’ di casco. Adesso l’indiano s’era risvegliato. Ma io non riuscivo a rivolgergli parola. La spia del ricordo s'accendeva a sprazzi. Ricadevo nel mio ato, al tempo di quand’ero studente. La pioggia era giunta d’improvviso a raffreddare la città rovente di scirocco e di malaffare. Il liceo di marmo al solo pensiero avanzava
grande al mio cospetto: e io mi sentivo immobile mentre, mio malgrado, mi si avvicinava. A ogni o il portone era più grande. E io volevo indietreggiare. Non accettavo quel fosco tugurio di derisioni, capricci, gavettoni, urla scomposte. Più si avvicinava a quella che mi pareva una lunga scortesia degli altri, più mi cresceva l'ansia. I finestroni sbarrati di nero, le porte scorticate da frasi sceme e con buchi come spioncini che col are dei mesi diventano voragini, brecce. Dentro le classi a volte gli sbadigli erano mascelle di coccodrillo e le lacrime appannavano gli occhi o quel che restava delle fessure per vedere: i professori vecchio stampo commentavano la Divina commedia dalle note, e volevano la parafrasi per farci odiare la letteratura, e ci riuscivano. Odio puro, odio con tutto il cuore, letteratura uguale danza furibonda col sonno. Sbadiglio chilometrico nell’atrio delle idee. I professori vecchio stampo si ammazzavano a ordinare, nel frattempo, per togliere le pieghe della difficoltà? Ma nemmeno per sogno! Ecco, spiegavano ma nel senso peggiore del termine. Spiegare era il verbo antipoetico per eccellenza. Era come andarsi a cercare la soluzione dei cruciverba. Dopo che Dante aveva messo tutto sottosopra, ma un sottosopra perfetto, gli insegnanti ci dicevano di fare la parafrasi, di rovinare un patrimonio dell'umanità, di spiegare ciò che non si deve spiegare. Spiegare cosa? Le canzoni di Jim Morrison? Vuoi parafrasare An american prayer? Oppure quelle degli Smiths, vuoi spiegare Panic?
Salivo consapevole che li avrei trovati, Elena e Enea. Adesso provavo a parlare all’indiano che tuttavia non mi capiva. Poteva essere che ero impazzito? Che m’ero inventato tutto? Ero impazzito, e avevo deciso, se un pazzo può farlo, che era meglio stare vicino ad altri pazzi, agli ultimi, quelli senza nessuno? Chi mi dava consapevolezza che lui era dove pensavo? Adesso stavo andando pure io in cerca di un posto che era il posto delle cose perse, dei desideri che pensi con troppa forza fino a che ti bucano qualche capillare e dal naso fuoriesce il sangue, sogni rossi dove nutrire l’anima; andavo a trovarmi un posto magico, lontano dalla città, vicino al mare, ma non sulla costa, in alto, lassù, tra le anime perse, tra le anime nude, lì dove vive Orlando
che rincorre ancora la sua Angelica e Giacomo Leopardi che deride i critici e i preti assieme all’amico Pietro Giordani e dal paterno ostello porge gli orecchi al suon della voce di Silvia. E allora salivo e salivo: tanto ma tanto, non so quanto, ma come per bussare alla porta di Dio. E quando c’ero arrivato ero sceso dalla macchina assieme all’indiano e avevo trovato il mio scrittore, Giorgio Saviane, mentre parlava con Gesù e con un antropomorfo, e da lassù mi pareva di vedere il mare verticale come l’aveva visto il primitivo dall’alto, e c’era Gadda, proprio lui, Carlo Emilio Gadda insieme a un gruppo di milanesi felici, ridevano e usavano gli stuzzicadenti per levare via da quelle bocche altere residui di ossobuco proprio come li aveva descritti lui, e Gesualdo Bufalino, nitido, con gli occhiali spessi, con l’accento siculo, mentre recitava Diceria dell’untore e i ragazzini intorno lo applaudivano, e lui si commuoveva, e c’era una radura da cui sporgeva una terrazza nel vuoto, e, affacciati, se ne stavano in tanti: ero trasecolato perché erano come intenti a godersi la serenità. Sembravano uomini senza esperienza del dolore, della morte. M’ero messo a piangere. Avevo provato a riaccendere il cellulare ma niente. Troppo scarico. O troppa carica magnetica. M’ero seduto per non cadere a terra e di nuovo ero ripiombato nel mio ato. A mia madre faceva paura la casa in silenzio. Andavamo spesso da zia Tania, in una casa piena di figli e figlie e amici e vicini e gente che arrivava non si sa da dove. Un dolce putiferio per scordare i mutismi della nostra pseudofamiglia. Avevano telefonato a casa per dare la notizia che era morto. Per svuotare la casa di ventuno grammi d'anima E così mamma e io avevamo traslocato per pietà che si fa comione da zia Tania. Un modo di sopravvivere dovevamo pur trovarlo e l’avevamo trovato nel frastuono di altre vite. Le cugine ci avevano accolti come profughi di guerra. Non si poteva negare un boccone d’amore. C’eravamo sistemati in una stanza tutta per noi: quella di Mira che stava a Milano e lì insegnava e conosceva scrittori e artisti, beata lei, e dunque lei sì che era un modello da seguire, anche se La fortezza dei perduti manco l’aveva voluto vedere, magari aveva detto che ero un povero coglione a scrivere, quanti ne avevo sgamati che fingevano di amarmi, e chi ce l’aveva la forza di fare come lei, di inventarsi una vita? Era un’altra che a modo suo aveva
scelto di puntare il telescopio verso altri mondi, proprio come Kurt Vonnegut, lo scrittore che aveva inventato Billy Pilgrim, il viaggiatore nel tempo. Per me era più facile scrivere che vivere. Ma due cose mi piacevano più dela scrittura: il calcio e il biliardo. Il calcio e il biliardo, più delle equazioni e della scrittura, m’avevano aiutato a superare le notti mute, con la luna sghemba, affaticata di fati poetici. Giocare era costruire. Il calcio e il biliardo avevano un potere taumaturgico. Così doveva essere per gli scrittori che scrivevano chiusi nella loro camera, e vagheggiavano d'essere un qualche dio del nulla. Costruivano storie di personaggi che si perdevano in mondi di carta, mondi paralleli eppure veri. Tentavano la prima persona. Poi cambiavano idea. Lasciavano spazio ai fatti in sé, all'oggettività. Come se tutto il vero dovesse essere ricomposto sulla pagina, pena l'esclusione dalla vita. L'inciucio con la scrittura sicuro che gli costava in termini di tempo: non era facile stare alla sedia per ore. L'istinto sgomitava per farsi largo, per fuggire fuori, all'aria aperta. Le dita rimanevano telecomandate da un impulso alla disciplina ferrea. Un impulso rigido e piacevole al tempo stesso. Chi scrive lo sa. Per me era tempo di biliardo: e di stecche di legno per scavare la mia biglia sotto, dopo del brandeggio, e arrivare al cuore dell’impatto con l’altra e scaricarle addosso tutta la potenza dimezzata dall’effetto: allora la biglia avversaria si metteva in moto mentre la mia si ricomponeva lenta. Alla fine del giro sulle sponde giungeva al birillo rosso, quello di più valore, quello scongiurato dal mio rivale. Questa era la mia storia che pensavo da tempo. La storia di uno qualunque con cui la vita aveva giocato e io per risposta avo il tempo a incanalare fiato dentro un barattolo con un buchino a cui colleghiamo un filo: il fiato si perdeva ancora prima di arrivare all’altro capo, all’altro barattolo, in questa metafora del primo cellulare della storia, col filo da un bambino all’altro, o del primo libro, da un lettore all’altro, per annusare l’avvenire. Trovare il cuore delle cose. Imbastire trame, dialoghi. Perché alla fine questo serviva. E non altro. E non fughe spasmodiche. Concretezza serviva, di ciò che diciamo. Sennò ti sgamano subito. Solo se il discorso si sistemava nella sintassi dell’anima, la realtà trovava la nuvola soffice e letteraria per non sfracellarsi nell’irrimediabile banalità. Era ora di lasciar perdere. Era ora di dedicarsi agli altri. Gli adulti a che potevano servire? Tutti ad ammazzarsi a competenze, a
competizioni, a vincere o morire, a disperarsi per un niente, e invece dovevamo trovare il coraggio di dire no alle cose perbeniste già tutte scritte. I giorni da zia avano senza un centro. Sentivo di non possedere nulla. Se volevo salvare una cosa dovevo saperla nascondere. Sennò non l'avrei ritrovata. Troppe mani in quella casa toccavano troppi oggetti. La moltitudine della vita a casa dei parenti era un faccia a faccia con la mia solitudine. Lo scontro titanico del tutto di quella casa contro il minimo batterico della mia, di casa. Gli anni dai parenti avano senza un centro perché si stava in apnea, dentro gli umori di tutte quelle donne. I caffè, le sigarette, le carte, i pranzi interminabili perché nessuno aveva voglia di tornare alla normalità, il chiacchiericcio, i caffè, le sigarette, le carte, telefonate, cene, ancora carte, ancora sigarette. Le notti in bianco a cincischiare e ridere, a fare taglia e cuci, ad adornare la vita che senza tutto quel marasma ci sembrava troppo poco. Ma almeno quel mondo caotico non mi segregava nella solitudine, come invece stava accadendo al mio Enea. Quel ragazzo contava più dei programmi di scuola, cavolo. Dov’erano i suoi insegnanti? Non volevano vedere oltre l’argomentino da ripetere a memoria? L’avevano fatto scappare e io ero solo lo scrittore dei fatti, testimone oculare dell’accaduto e non potevo modificare la storia. Quanto avrei voluto modificare storie accadute. Da dove proveniva l’universo, che cosa aveva innescato il big bang? E dov’era ora mio fratello? La singolarità? L’universo era nato dopo collisioni tra membrane? Dunque il big bang conseguenza delle collisioni tra due membrane? Ma le membrane vibravano e le vibrazioni producevano increspature delle membrane che creavano concentrazione di materia dopo il big bang. Gli universi paralleli come onde si propagavano. Potevano estrapolare le leggi della fisica indietro nel tempo? Si cercava di tornare all’epoca della collisione. E Kerouac, potevo parlare di lui? On the road. Era il romanzo con cui aveva buttato giù tutto quello che poteva, che doveva. In tre settimane. Scriveva come gli veniva. Sui rotoli di carta igienica c'ha lasciato quel pezzo di letteratura mondiale. Non sapeva quanta adrenalina l'alcol gli mettesse in corpo. O se l'idea di viaggio racchiudeva, cristo, anche questa possibilità. Ma sapeva che era il suo tempo. Sentiva che poteva farcela. Sentiva che era arrivata la boccata buona. I
tasti gli tintinnavano sotto le dita. Diceva la verità della sua vita. Sennò si fermava e restava in silenzio. In bilico con la memoria alterna. Ogni tanto ricordava. Ogni tanto dimenticava. Scartabellava e frullava. Forse era come me. Si dimenava se non realizzava il suo portento. Il suo viaggio era un acceleratore di schizofrenia. Come il mio. Kerouac s’era fatto un viaggio senza regole. E in quel viaggio c’aveva trovato una non-forma. Pure Pirandello con Vitangelo Moscarda era uscito dalla forma. E Vitangelo se n'era scappato nella follia. Come l'Enrico IV. Così avevo visto meglio. Avevo acuito i sensi. La lotta era stata pari. Non avevo lasciato che salisse in cattedra il comando lento. Il trapanare la mente a fuoco basso. Avevo guardato con attenzione dentro di me. E mi s’era arrovellata la mente mille notti. E altre mille avevo dormito piano piano, quasi in incognito, così che i sogni non spuntassero a infastidirmi col loro carico di segretezza e di incubi. Avevo sacrificato il tempo. L’avevo centellinato per un'idea sbagliata. Avevo allentato con le letture. E il tormento era capitato. E aveva fatto un frastuono troppo forte che m’aveva incendiato le orecchie di rosso e l’Etna faceva barricate di poesia con la sua pipa lunga, mentre se ne stava addormentato, lui, il vulcano, il Mongibello o doppio monte latino-arabo, come un vecchio a cui penzola la sigaretta semiaccesa dalle labbra, e quello russa e sputa: alla fine non sai nemmeno chi sta sognando chi.
La scuola era lontana. E a casa di Elena il futuro metteva ora paura. Erano rimasti senza di lei. Avrebbero voluto parlare o sapere se era viva, almeno. Per loro, a casa di Elena, la colpa era di Enea. Era stato lui. Era pazzo come il padre. Nessuno aveva voglia di essere limitrofo alla malattia, alla pazzia di Enea. Per loro, per i genitori, era stato Enea a ucciderla. E poi il suo cellulare era spento ormai. Nessuno sapeva né voleva cercarlo. Quasi nessuno. Perché c’era un tipo che diceva di averlo visto. E la famiglia di Elena era una famiglia bene di Reggio. Una famiglia borghese. Non come quei mortazzi di fame di Enea, quei genitori carogne che lo avevano lasciato solo a farsela nel culo. Il padre violento, un femminicida mancato: la madre gonfia di botulino, troppo presa dagli specchi. Gente da assistente sociale, si diceva nei resoconti del perbenismo reggino.
Da scuola i colleghi amici mi avevano avvisato con un sms: volevano sapere come fare. Ero tra gli indiziati. Erano sicuri che io fossi innocente ma dicevano che altri colleghi volevano vederci chiaro e stavano in combutta con la polizia. Ma lo sapevano che per quanto strano non avrei mai fatto niente di male e mi avevano supplicato di dire la verità. Di farmi vivo. Ma io non potevo. Proprio ora, no. Non potevo. La testa mi diceva che dovevo ritrovare i due ragazzi. Che dovevo portarli a casa sani e salvi. Che solo questo contava. C'era un castello: il castello dove ora ero diretto. Quello mi diceva la mia testa. Non era pazzia andare a pigliarli lassù. Non mi stavo inventando mie verità. Avevo la conferma come se mi fosse stato detto da qualcuno. Ma mi sfugge da chi. Elena aveva la pelle bianca quasi trasparente. Ed era piccola e ferma sulle caviglie forti, con la vita sottile, e il collo a giraffa, e i fianchi larghi come le sue idee, forse per trovare forza, per sopportare. Aveva preso in un attimo tutta la forza e s’era messa in piedi. Piero s’era dileguato. Il vento correva forte, come in cerca di una meta. Ma era troppo lontana. Enea sembrava fatto di cioccolata e dimostrava più anni di quelli che c’aveva con la barbetta incolta, le giacche lente, appese, sulle spalle come su una gruccia. Elena era sempre ben vestita: anche se le cose che metteva parevano prese quasi a caso dall’armadio. Mentre correva da lei, a Enea scorrevano parole per la testa, come una lettera, come un’orchestra di suoni e di lettere:
Mia Elena,
sono quassù: sono da te, adesso. Dovresti vedermi. Pensi che esistiamo in quel modo terreno? No, noi esistiamo come una bolla che fluttua in un oceano di altre bolle. Esistiamo qui. Ora.
La fisica si prepara a volare di fantasia per svelare tutti i misteri. Sono pazzo. Gli scienziati si preparano a creare un universo in laboratorio. Come il giorno del gran botto. Quello di quando a qualche Entità cadde di mano un bicchiere, forse, qualcosa, insomma, e fu un boato che ancora dura. Capito? Pensa quanto è breve, o quanto è lungo, il tempo. Non aspettateci. Non siamo scappati. Siamo altrove. Ma siamo più vicini di quel che si crede. Rinasciamo. Ci accoglie questo castello magico. Ti ricordi di quel professore che una volta ce l’ha nominato? Stiamocene qua. Io e te. Lasciamo tutto insietro. Qua è futuro. Facciamoci una vita nuova, diversa dalle solite. Che facciamo sennò? Ci diplomiamo per far che? Inventiamo il nuovo mondo.
Ero arrivato al castello. Era identico a quando ci andavo da ragazzino. L’indiano era sceso sorridendo. Le stelle facevano luce a giorno. Sentivo freddo. Avevo paura. Mi graffiavano le sterpaglie. Sentivo strisciare bisce. Temevo che le blatte m’aggredissero, confondendosi col nero della terra. Volevo parlare con Dio, se pure un poco ci credevo, con quel Dio a cui cadde il bicchiere, e dirglielo che lo cercavo visto che l'acceleratore di particelle a Ginevra spalmava una speranza in più d'avvicinarci a ciò che non capiamo. L’indiano mi stava di lato. Muto.
La ragione che premeva sempre su ogni altra possibile risposta alla fine non toglieva forza al dubbio in positivo: che lì ci fosse qualcuno, da qualche parte: avevo urlato il nome Enea, non mi aveva risposto nessuno. Ero talmente spaventato che per un momento m’era parso di vederlo davvero, Dio. L’immagino gigantesco e neppure: arrivo a stento forse solo all’unghia del dito da cui miliardi di anni prima era scappato un bicchiere di mano e s’era fracassato: e quel crash era stato il nostro Big Bang! Lo so che Lui è la rotta di Achab, o il primitivo che accende il fuoco per sbaglio e noi umani siamo lo sbaglio montaliano o siamo divini nel vederlo a tutti costi col barbone bianco: col dito contro il dito. Siamo piccoli insetti che camminano su un bordo di marciapiedi. Ignari di cibarci come la formica. E quando litighiamo sembriamo sulla giravolta impazzita dei criceti. O nel silenzio tumefatto delle cavie poco prima della morte inconsapevole e necessaria. Siamo il cardine su cui Dio s’impianta se da quel ventre dell'universo lontano si stempera un fuoco di calore e dona altra forma-forza che pure sarà simile a noi umani. Navighiamo a vista per le sembianze che vediamo e che ingiuriamo universo. E quell'indiano aveva le mani ferme, non le muoveva veloci come le mie. Sembravano rallentate da un accidente. Oppure come se il tempo scorresse più veloce e tutto intorno si stava al rallentatore. Qui, in questo luogo antico e alto – me lo figuravo come un nostro Tibet – stavo guardando quello che occorre per starsene in vita e immaginare la palla che gira intorno alla fiammella, come chi la osservava da un satellite o dalla luna. Da qui, c’era tempo per scrivere e gli interlocutori erano soprattutto poeti. Questo era l’avamposto dei poeti. La luna era svampita sul di sopra del mondo. E io mi ritrovavo catapultato dentro un canto soave su una montagna di betulle ripide in fila verso il cielo liquido. Questo ricordavo mentre una voce bassa e rauca cantava una nenia che mi rasserenava; le dita di un musicista s’accollavano il peso del mondo e sembravano impantanate in un attrito alieno, come atterrate su un altro pianeta
con troppa forza di gravità oppure con poca. Alla fine l’indiano aveva parlato, in un italiano perfetto. Un tale che si chiamava Piero aveva salvato Elena, non so come, ma l’aveva fatto. Mi aveva detto: strano per voi, direste un matto, o forse un angelo: ecco, per voi umani normali è un angelo.
Poi aveva aggiunto che chi torna a casa da qui torna dalla morte.
Lettere dal castello
Cara Elena, sono io, il tuo Enea, se adesso che mi vedi, senti male e vorresti far finta di essere capace di continuare senza di me, allora sappi che le parole rompono: ti tirano l'angolo della maglietta e ti disfano l'onda dei capelli che il vento di Scirocco ti sta muovendo da due ore. E, allora, se non vuoi imparare a stare con me, fatti venire in mente il tuo dio. Anche se senti male. Ogni tanto ripensa al cielo mentre continua a sputare pezzettini di vetro che per voi umani sono stelle e intorno polvere e pulviscolo come pianeti. Fatti aiutare da un regista, da un visionario, di quelli come Federico Fellini, che ti dia qualche dritta su come inquadrare la scena. Fatti aiutare da Fabio Mollo. La camera dall'alto schiaccia le gambe di voi umani fino a farvele nane. Le teste più grandi del corpo vanno avanti e indietro per il mondo, senza cognizione dell’universo. Come formiche scalciate dal piede che va di corsa e tutto si esaurisce in una nuvola di polvere, e niente di reale sembra intorno. Quando vedrai gli altri umani, i professori e i compagni e i genitori e il preside, potrai raccontare che hai visto anche tu qualcosa, che ti sei travestita per non farti riconoscere, come un nonno che si finge babbo natale per i nipotini, e la parrucca si sposta da un lato e quasi gli cade, e un nipotino se ne accorge e va per dire qualcosa ma poi si ferma e si lascia cullare da quella piccola menzogna. Mettiamola così: ci sono tutti, lì, a guardare. Si aspettano tanto da noi. Non deludiamoli almeno nella notte lunga che lascia nei balconi del mondo mezza luna a forma di spicchio d'arancia. Ogni tanto ripenso alla scuola e li vedo, li vedo con le loro sicurezze, e poi guardo qui davanti a me questi angeli che salvano il mondo e hanno la bussola in mano. E finalmente la vedo luccicare dal palmo semichiuso. Gli umani giudicano e laggiù è tutto nero che fa paura, per colpa di notti nere nerissime, come le Memorie di Adriano, e questo è il posto di Dio, secondo me,
che non vede anche quando vede. Oppure è il posto di chi ci sta sognando. Oppure è il posto del ricordo solo che noi adesso lo stiamo vivendo. Soltanto che il nostro presente per altri è ato da milioni di anni.
Cara mamma, sono Elena, era di sabato: forse perché la parola sabato contiene un nucleo di significato nel significante, perché contiene l’assenza che è tipica delsabbatico, come un presagio nel nome, un nomen omen. Il sabato è un barbone che s’annida nelle nostre coscienze borghesi e ce le lava mentre a noi rimane il puzzo di crocchette e di fame sotto al mento. Sabato Piero m’ha salvato. Ero uscita di casa. Ho preso il telefono in mano, ho scritto un messaggio, ava un’auto, ho fatto un volo contro un albero. Poi tutto bianco. Poi mi sono risvegliata. Come fosse stata una cosa da poco. Il sereno ha ali ampie e chiede spazi immensi e affetto e fiducia intorno. Il sereno vuole un qualche dio. Ti spunta in testa l'idea d'una mezza religiosità e ti senti così sereno quando trovi per un istante la maglia rotta nella rete dell'esistenza montaliana. Ho trovato dei pazzi qui, o degli alieni. Non so. Mi hanno rapita, ma era un rapimento buono. Non vogliono soldi. Vogliono curarmi dall'indifferenza del vostro mondo. Qui ci preparano a un futuro nuovo.
Caro professor Vittorini, sono Enea. Lo sa che sto imparando a guardare dal un rettangolo trasparente la strada che avanza? Il regista ti ficca dentro un carrarmato e quello da cui guardi il film è l’occhio di morte di un cingolato. Poi una esplosione. E la fuga dei ragazzini-soldato verso la morte. Tranne uno. Che per salvarsi fugge di notte verso il nero del mare. Gli monta in groppa e comincia a nuotare. Eccola la fuga del soldato verso il mare. Di notte. A nuoto. Verso luci lontane. L’onda si dilata e il grandangolo la rende più onda. Più ampia. Alla fine la stanchezza. Come un pannostraccio. Il soldato da nuotatore si fa relitto trascinato dalla corrente. E la
paura ci perseguita mentre perseguita lui. Fino all’ultima onda: la spiaggia. La salvezza. Il sospiro di sollievo. Lui e noi, all’unisono. Guardare Valzer con Bashir è tirare un sospiro di sollievo: dire che nonostante tutto ne vale la pena. Come una pagina di Lucano, più o meno si hanno quelle sensazioni lì. “Quando i soldati, occupato il Foro, ricevettero l’ordine/ di piantarvi le insegne, lo stridore dei litui il clangore/ delle trombe con i rauchi corni intonarono un’empia fanfara./ S’infranse la quiete del popolo, i giovani balzati dai giacigli/ afferrarono le armi infisse presso i sacri Penati/ come la lunga pace le offriva; si gettano sugli scudi/ fatiscenti fino al telaio, sui giavellotti con la punta ottusa,/ sulle spade corrose dal nero morso della ruggine.” Quis furor, o cives, quae tanta licentia ferri… Agiti bene, professore: eccolo Freud. I sogni, i numeri, le cordicelle del pensiero aggrappate alla notte. Il defibrillatore cerebrale aperto, la valvola di sfogo sfriziona aria di sogni dai buchini onirici, raccattapalle attentissimi prendono servizio appena chiudiamo gli occhi, per condurci al porto Rem. Sono felice di vivere quassù. Ci troveranno, vero? La polizia è già sulle nostre tracce. Che cosa faremo?
Cara Elena, sono Enea e tu, sì, tu, se poltrisci mezzora con la schiena rotta, su un divano più piccolo del trepposti classico, tu se ti fermi dietro il tuo film lontano, dietro il ricordo di un nome che sbuca piano piano dalla memoria (grazie al gioco dell'alfabeto), tu se mi aspetti lo stesso anche quando faccio tardi, tu se stai ferma e presente come un macigno, tu, se la polveriera spara a cannonate e apri le tue mani goffe e dici che era a salve. Tu quando la mattina prima dell'alba è già troppo tardi ed esci allo scoperto per aiutarmi col caffè, tu le volte che abbiamo rovinato tutto per un silenzio di troppo. Tu che ridi quando esagero con le mie seghe mentali o quando mi coglie uno dei miei tanti infarti giornalieri. Tu che non sai stare dal lato sbagliato. Tu appena mi rimproveri e io cado dalle nuvole. Tu che non sai abbracciare caldo, ma stringi con la forza ossuta della tua magrezza. Tu che sei contenta per un motivo da niente e poi vai a leggere d'un fiato Steinbeck. Lo leggi, se era lui,
come quando ti metti in testa di finire un lavoro pesante, da manovale: e allora mi scosto dall'uragano, dentro una pagina di giornale che leggo a metà. Anzi, ora ce la faccio pure a leggerla tutta: da quando hanno diminuito le righe e ingrandito i caratteri. Tu che hai risolto qualche macigno come una inezia mentre io incespico sui miei umori neri e mi riprendo in tempo per la partita delle ottoemmezza. E so che ti piacciono le case tappezzate di cielo blu. Ti piacciono le case senza terremoti. Le finestre grandi. Ti piace ridere guardando le partite a calcetto con quelli ormai andati d'età. Quelli che tirano sbilenco se mettono un po' d'effetto. Ti piace il morbido del divano, la sera e le voci dei bambini che urlano il loro “disobbedisco” alla vita adulta. Ti piacciono i teatri durante le prove: c'è l'attore che scandisce bene, si sente il solista della situazione, pare che dalla voce gli esca qualche tiro angolato senza respinta della barriera di manichini. In partita è tutta un'altra cosa. Ecco, a me manca il talento della partita vera. Sono qui ora. Parlami pure come Montale con la sua Mosca. Noi moduliamo il nostro fischio di richiamo per quando sarà l'ora. Sono carico di parole portate in braccio oltre ogni bufera che sgronda, e mi piace tenermi aggrappato alla memoria del crac di noci. Se sai chi va e chi resta, non ti sgomenti il nostro stare all'erta, affacciati al balcone delle idee, al respiro d'aria buona che sgronda dalle cimase dei tetti. Lo sappiamo che Montale invece era fermo a osservare il male che tarla il mondo, la piccola stortura d'una leva che arresta l'ordegno universale. Zitti anche noi, col nostro segreto in pugno, con le tue parole di quel mattino di vetro, con la solarità scrosciata del giallo di quei limoni. Questi mi sembrano alieni. Forse angeli. Non so. Ma non ho paura. Sanno quello che fanno. Ho capito che il primo obiettivo è la mafia. Ce la faranno?
Cari poeti, cari scienziati, sono Leonardo Vittorini. Saltate pure, è noiosa questa parte. Mi sono ficcato in questa dolcezza inquieta, nella navicella d'una fanghiglia mobile d'un rigagno assieme a Camillo Sbarbaro. Quelli che deridono la poesia, dammi retta, guidali. Anche se vanno a centottanta all'ora, sono fermi: non hanno mai ballato nel tango smorzato a raffiche dallo scirocco. Non hanno dileguato la ragione in cambio d'un istinto. Presidiano cubi invivibili senza libri.
Ah l'uomo che se ne va sicuro. A che servono i poeti? Come si scappa a scroscio, a o stretto e secco. Come si scampa all'onda ripida, alla nenia mattutina. Scende un lombrico sulle righe di ferro spaurite e segna il sentiero di bava, con l'urlo del suo pandemonio. Nessuno dilapida il tempo in quest'affaccio a mare, dove pazienza regna e l'attesa lenta rode la corda d'un orologio. S'ammutolisce il giorno. Non servono a niente i poeti: i porti li hanno dissepolti le gru del mare nel rimorchio di qualche carretta. I poeti servono a spaccare il capello in quattro alla parola. A non altro. Non le riempiono le tasche, né hanno gloria. La delfica deità di Dante li lascia dementi, gli arrancatori, mentre se ne vanno sicuri con qualche formula magica nel marsupio e saltano a piedi uniti con le loro certezze e i loro firmamenti accesi. I raccomandati arrancatori sociali sono l'antipoeta. Eppure hanno assonanze gratis. Un poeta le paga ogni giorno dal suo solo salario, dal conto in banca rosso, dal bofonchìo d'una tosse, dalla sorte rosea, dal siero terso di maggio, dal mugghiar come fa mar per tempesta. Si resta senza poeti e si muore. Si resta senza dribblatori,senza fioretti, si resta spenti stasera.
Caro Cesare Pavese, sono il professor Vittorini Leonardo, e dedico a te questo gesto di salvezza a cui ho assistito oggi, a te che invece hai pizzicato la corda in culo al mondo e la corda in culo al mondo ha risuonato cupa il verso nero del mare lento. Te la sei rotta in due, la schiena, Pavese, a tradurre gli americani: c'hai vinto il premio di un viaggio al confino che ti saresti ben risparmiato. Le langhe che suono hanno, che suono fanno? Le langhe lo battono il tempo del mare nero, del male dentro? Al confino, al confino. Coi libri dentro alla giacca hai alzato gli occhi che ti erano rimasti tristi nonostante il nome fiero. Non so se ti ricordi di Tito tra i Cesari il più bello. Non so se ti ricordi di Svetonio che scrive la vita di Tito. E Tito che fa? Rivive, sopravanza. Ti riscrivo per tenerti in vita. Ci resta la speranza d'un fiato di parole. Oltre la porta c'è una stanza dove s'annida il nero. Lontano resta il bisbiglio di uomini in dialetto e i lenti. Li senti, Cesare Pavese? C'hai gli orizzonti coi tuoi racconti, e le parole in fila ai versi lunghi. Eri a Brancaleone per un errore. Ti sei trafitto gli occhi con tutto quel nero davanti.
Tanto che manco lo guardavi, il mare.Te ne sei andato dal barbaglio accecante delle Langhe,dai bianchi soffocanti delle nebbie per aver parlato con Ginzburg, con Spinelli e il regime t’ha scoperto. In punizione, fino a Brancaleone.Il confine è qui: pullula di mare. Di notte si sveste e cresce con l'amore della luna. Senza falò, per pudore. Così nessuno ci vede. Te ne sei andato, Cesare Pavese, insieme a quelli come te: il nero s'impiglia sempre dentro a un non so che, Pavese. Il millenovecentotrentacinque, Cesare, è stato lungo e lento, a Brancaleone. A partire dall'estate e forse non è più finito. Hai letto, quell'anno? hai scritto, Pavese? quanto t'è durato? i calabresi c'hanno provato ad allietartelo. Ma niente. Il tedio prende sempre il sopravvento, Cesare. Lo spleen t'ha arrovellato. Ha bruciato fino al condono. E te ne sei tornato alla tua terra. Un tuo amico, Davide Lajolo, t'ha ricordato nelVizio assurdo. C'hai portato a so con Dos os, Pavese. Niente pettegolezzi, come c'hai lasciato scritto sull'ultimo pezzetto di carta. Quella notte d'agosto del millenovecentocinquanta. Una bustina di sonnifero di troppo, per terra.
Caro poeta Corrado Calabrò, sono un povero vecchio malato, ho perso tutto, sono solo al mondo, la cancrena mi sta divorando, muoio ogni giorno eppure mi ricordo che t'ho visto, t'ho visto con uno dei tre fiammiferi di Prévert in mano. Poi con Valéry che lascia agli dèi l'onere del primo verso. Se fuggo dalle tue parole è solo per rispetto verso quell'interruttore che è la poesia: la chiami commutatore: fa cadere la cataratta della quotidianità. Non è il tango sacro dei fronzoli di noi tutti in coda verso l'ostia d'una tua parola. Sempre così succede. Che in un momento si crea una fila indiana lunga lunga di mani strette strette e di sorrisi. Ce ne siamo andati, Corrado, zitti zitti, con le parole smozzicate dentro una mano ruvida. Una volta t'ho visto in quel tuo reading strano, un reading universitario, tra gente sempre pronta a riverire. Mi sarebbe piaciuto dirti piano quanto c'hai fatto piangere col tuo angelo scanzonato. Tu dici che la pelle come cartimpecorita pungeva davanti a quello scollinare
dell'oceano o al verde opaco d'uno sguardo stretto di bolina. Se è vero come dici che il mare va preso come viene cerco la mano incosciente del tuo dio che mi metta di prua e a faccia al vento (che non sembri un castigo) come uno che rimane in sordina per gran tempo e poi spunta e poi s'affaccia e grida forte il suo das di parole dalle tue finestre di silenzio. Non è per gioco che riscrivo la tua poesia. Ce l'hai raccomandato prima: ho obbedito come un bambino che usa il suo pennino di inchiostro simpatico per un contatto in più, per l'illusione di creare il mondo. Appena finisce l’effetto del pennino, tutto scompare. Tutto torna come prima. Caro Enea, sono papà, scusa se ritardo a dirti ciò che penso, lo sai che scrivo male, sono ignorante a tempo pieno e tuttavia oggi ti scrivo perché sento di essere tirato dentro: sennò si perde il mondo nell'orlo del barattolo sottovuoto. Non mi sono perso io. Io torno. Appesi i pianeti se ne restano alle stringhe degli scienziati. O forse no. Così almeno ho capito. Appesi come scarponi con le punte arrotondate dal girogirotondo. Appesi girano come le balle. Girini danzano la loro danza anfibia. Molluschi grattano. Insetti s'affaticano coi loro tormenti nei paesi dei torrenti secchi. Insetti senza gru telecomandate. Dico bene? Una pizzapane fumante annebbia il monitor. Le idee già non hanno nitore. Un televisore ultrapiatto raglia la nostra nostalgia per i transistor e il bianchennero tiranno non è un chiodo fisso contro il progresso. Più tardi torneranno i decadenti coi loro albatri poetici. Adesso l'ultimo suv scodinzola per aria il suo CO2, la bua del mondo dura un secondo nell'eterno giro. Il gettone s'è incastrato nella fessura. Un bimbo allunga la mano dal finestrino. Saluta il suo futuro mentre un vecchio si volta e spegne la tivvù e se l'inghiotte il buco nero di ogni sera, se l’inghiotte la leucemia di notte. Te lo ricordi il nonno? Ricordatelo per sempre. Ma stanotte non è neroplumbea. Non pesa. Se sa di qualcosa sa di pentole. Pentole a fuoco lento da tempo immemore per addormentare i mormorii di fame. Non è neroplumbea. Non pesa. Se brucia brucia su qualche nota di Capossela mentre sventra la sensatezza
perfetta del giorno che pesa. Stanotte non è un intonaco per tappare pareti luride e bucate da inettitudine. Stanotte se s'affaccia s'affaccia a poco a poco tra tintinnii di posate che usano i bambini tanto per usare, tanto per osare: ogni dlin è uno sgominare bande di silenzi in fila per due comandati dai soldati pensieri, dai pensieri assoldati. La sera se odora non odora di fatal quiete: è casomai un tango inventato sopra inquiete tenebre e lunghe. Se graffia, la mia notte, quando graffia, è il graffio sulla padella, lo smacco del fato sulla tavola apparecchiata, lo schiaffo in faccia al giorno appena andato. Si riconosce eccome, la notte quando è una notte unanime come nelle finzioni borgesiane: all'incrocio quando il viavai si fa più lento e tace dentro l'audacia d'un sogno ruvido come la grattugia sul reale.
Cari amici, cara società civile, cari presidi e medici e professori e impiegati e sindaci, sono Enea. Questo è il mio spazio; oggi almeno lo sento tutto mio. Lo spazio libero, aperto, la pioggia in faccia, i tamburi, quella lì che balla come fosse tarantolata. Non si entra a scuola. Non si può entrare a scuola. Non ha senso. La vita è qua. Boicottate la scuola. O fottetevi tutti. Salite quassù, oppure andate via. La mafia ha già stravinto. Adesso tocca a noi rifare tutto. L'Africa ci aiuta. C'è il mondo qui fuori. Il mondo di fuori è meglio del mondo di dentro, oggi. Un mondo tutto colorato contro le aule incrostate di sapere stantìo. Mi sono scocciato del mondo di dentro. Se il mondo di dentro mi annulla allora me lo cerco fuori il mio spazio. Sono uscito di casa con le cuffie che sembravo tutto concentrato come i calciatori che escono dai pullman prima di una partita. Che poi più è importante la partita, più quelli hanno cuffie enormi. Io no. Ero con le cuffiette da treno e sembravo assorto dentro ai miei pensieri sfumati, alle mie sensazioni, alle lampadine che si accendono per un istante. E invece stavo attento a tutto. Non mi ero autoradiato dal mondo. Il mondo all'unisono con me. Quando mai mi succede. Di solito mi dileguo per non soccombere agli altri. I decibel mi disorientano e me ne fuggo contento verso quintali di solitudine. E poi riappaio. Quando non ne posso proprio più.
Oggi invece era una di quelle volte che tutto mi sembrava più sintonizzato. Lo so che suona buffo e che domani avrò dimenticato ogni parola di questa litania che insisto a scrivere. E scrivo a ruota libera di tutto. Come se per un calcolo dei dadi il caso fosse finalmente abolito. E il destino me lo configuro come una giacca col taglio giusto addosso, come un sarto che sappia dove conficcare l'ago, come un chirurgo che taglia e centellina ogni cesura. Mi piace poi dare un suono a questa danza di parole che chiamo lettere dal futuro. Voi dov’eravate mentre succedeva lo scoppio? Nei vicoli del cielo l’orda dei poeti sghignazza con vesti di porpora sulle groppe delle nubi rossastre, nei pomeriggi lenti che esplodono quando la palla-sole sbuffa asfittica nel mare a strapiombo. Qua ho imparato l’arte di correre e di respirare. Qua canto l’OM in forma di nenia. La corsa la sperimenti un po’ per volta. All’inizio non riesci nemmeno a muoverti. All’inizio la corsa è pesante, i i sono pesanti. Se provi a parlare ti scoppia la stanchezza dentro. I cani che pisciano cercano solo te, gli altri ti guardano come a voler dire ma fermati che sei ridicolo e tu guardi il mondo come uno che sta per morire, che potrebbe farcela ma è difficile, sinceramente, salvarsi. La corsa è così. Vedi arti accanto alberi colli cielo perfettamente aderenti alla sincronia col mondo. Un fruscìo ti accompagna, senza che i i battano un colpo. Solo fruscìo di vento e fruscìo di musica e fruscìo di respiro sincrono sulla lettera effe dello sfiato, labbra esposte in avanti, avambracci a novanta gradi, minimo attrito, massima leggerezza. Braccia gambe tempo avanti e indietro ritmo corsa eleganza. E tu invece all’inizio fuggi, sembri un criminale che non vuole costituirsi anche quando tutti ormai ti osservano, e sanno che sei stato tu, e invece di dire okay mi arrendo, tenti l’ennesimo strappo, col volto paonazzo, sembri Woody Allen nell’ultima scena di Manhattan mentre corre e corre per paura che gli scappi la ragazzina diciottenne nelle cui labbra tremanti s’annida ancora la parola speranza. Qui ho trovato il mio scrigno di pace. Gli abitanti di questo castello sono uomini, ma non più quelli che conosci tu, quelli del tuo mondo. Qui gli uomini ridono, e il castello la sera è illuminato dalle voci di questi uomini, dalle risate lievi e belle dei bambini e delle donne che ridono per ore e ci
accompagnano fino a notte, sempre ridendo, sempre. Non è come da voi, col caos della vostra vita, con i politici di prima che si sono mangiati la città, e nessuno penserebbe di gettare in mare i migranti. Qui i migranti ci guidano. Senza di loro saremmo morti. Loro sono i primi. Qui, al castello, loro ci guidano, assieme ai bambini. Da loro impariamo l’umiltà, e la gioia. Non ci sono competenti pagati. Né salario. Qui viviamo nella giusta vita. Io questo cercavo. Ma non è nemmeno un comunismo del futuro. È la vita senza competizione. È la vita con altre priorità. Qualcuno quassù ne salva tanti ogni giorno. Voi non lo sapete. Non lo potete sapere.
Cari nessuno, da qui il colore del mare quando slittava verso sera o all'alba con lo scodinzolio garbato e lo sbuffo singhiozzante dei treni a rilento si vedeva bene. Era un’altra cosa. Mi piaceva la storia chilometrica di fatti che ci accompagnavano. Mi piaceva la parola famiglia per la sua radice indoeuropea che ritroviamo in fame e fama: perché famiglia è dove si mangia e si parla. E non c'entra nulla la fede perché quella è un'altra radice. Fa- di familia non è fi- di fides. Mi piacevano i singhiozzi dei bimbi che si fermano prima del piagnisteo, l'odore della sconfitta, aver già letto Erri De Luca. Mi sentivo un po' come l'albatro di Baudelaire: goffo in mezzo agli altri e capace di volare appena scrivevo. Mi piaceva rimanere in estasi per un momento o una vita, con la meditazione in corpo e il respiro lento con la pancia come un otre. E poi espiravo piano e rallentavo il battito cardiaco. E sentivo dentro scorrere il sangue e nella mente pensare ai pianeti come a globuli rossi di un qualche gigante, un po’ come pensava Gesualdo Bufalino: era convinto che vivessimo su un pianeta che era il molare di un ciclope. Mi piaceva osservarmi dall'alto. Ma da molto, troppo in alto. Ero matematico e poeta non per un malore, per la malora del mondo. Per il sacrilegio di aver rubato il fuoco alla divinità del cratere e mi piaceva averlo portato a zonzo e essermi fatto vedere da tutti. Come un personaggio in cerca del suo autore.
Mi piacevano le storie di ciglia che si chiudono lente nei sospiri assiepati dentro un mezzo amore che nasce o non nasce: sono troppi i fattori, i vettori da cui dipende. Non piovevano più fiocchi di seta e neppure rane dal cielo e il cinema era spento: i nitori del mondo erano rimasti prede d'un vento carico. Scirocco s'imbellettava tutto e cedeva al lascito da est. Scirocco era Siria travestita da occidente. Non legava la polvere col nitore grossolano dei decibel e dei megapixel, non legava lo sporco bianco di scirocco col candido netto dei led accesi in soggiorno su canali assurdi dove si comperavano case a cifre esorbitanti. Fuori dall'orbita terrestre navigava qualche pusillanime che ci derideva e noi incravattati dispensavamo pratiche e strette di mano. I politici mostravano altri candori nei denti sbiancati e lasciavano l'umanità normale su palafitte con infissi e porte di capitolato. Capitomboli a raffica erano le notti nei nostri pensieri. Nicciani e nichilisti, ci sforzavamo di intuire. Ma che cosa si poteva intuire con l’atmosfera che ci ricopriva e le stelle erano bagliori di boati nucleari ridotti a buchi neri? Arresi come scimmiette su un’astronave verso l'avvenire. Tutto svanirà appena il medico avrà ficcato l’ago nell’arteria femorale del paziente: sperava di ritornare sano e salvo? la febbre era ata? S’era quasi rimesso in sesto, bastava un po’ di fortuna: l’ago avrà fatto spazio per il liquido fluorescente che illuminerà le arterie. L’aneurisma ha un nome dogmatico, non lascia scampo, ha una ideologia rigida: se scoppia è uno scoppio terroristico. E il paziente è morto, era il papà del professore. I millenni galoppano nella mente di Dio. Il suo orologio da polso non sbaglia un colpo. Batte millesimi di secondo e centesimi e decimi e secondi e minuti e ore e giorni e notti e mesi e anni e decenni e poi a cento e a mille e a milioni. Fino al salto indietro. Che memoria deve avere dio. Se risale ancora arriva a qualche miliardo di anni fa. Bang. Questa è la storia secca e vera di vite che s'intrecciano e svaniscono in un attimo o in un sacco di tempo. Questa, se vogliamo, è l'atmosfera che respiriamo tutti noi da che nasciamo a che moriamo. Dal vagito di prima vita al sospiro finale
davanti al crinale della storia. Questo è. Un enorme raggiro. Una meravigliosa giostra che gira su stessa parsimoniosa e rossa di emozioni. Col gettone, l'ultimo, nella mano stretta. L'ultimo. Appena lo infili è il giro finale. Poi il gran botto. Chissà se ci si rivede. Le collisioni delle membrane. Ecco cos’è il big bang. Ecco chi siamo noi umani. Il prodotto di quello scontro. Scontro tra due mondi paralleli. Ma in che modo? L’universo ha materia, stelle e galassie. Non è uniforme, la materia. Le membrane sono increspate. In fisica la teoria M è lo scontro magico delle membrane, la collisione occasionale di quelle bolle da cui è nato l’universo: si è creata la materia. Allo stesso modo, da collisioni occasionali di persone, nasciamo noi, esseri umani, fatti di materia. Siamo il frutto di collisioni occasionali di bolle, di mondi, di universi. Quello scontro-incontro produce materia. Ma è soltanto di materia che siamo fatti? Gli africani hanno occhi buoni. Sorridono sempre.
Cari professori, sembravate addormentati dentro alla cappa di morte dell’aula docenti, nemmeno un sorriso, eravate purgati, eravate anime senza fiato, vi preoccupava la guerra con l’arte di apprendere e di dare, almeno avreste potuto provare una batracomiomachia buona, senza topi né rane. Una spensierata ambizione bibliofila. Cazzi! Le parole come un vade retro alla guerra, alla violenza. Macché! Tutte enormi puttanate. La lettura come appagamento momentaneo. Flebile ma colma. Vitaminica necessità di sapere. Quando mai! Padroneggiare il lessico. Farlo proprio. Correggere lo scrittore supponente che scalcia e scalpita verso il di più. Ecco, questo sì. E invece correggerlo al di meno. Giusto! Togliergli parole. Ammutirlo! Affare fatto! Ammutinarlo, meglio. Gli potevate lasciare almeno un mutismo di virtù mentre si andava crogiolando al sole elettrico della lampada coi fogli scompaginati che volavano all'accendersi del ventilatore. E con i social network a drogare tutti, a gonfiare sacche d’odio, bitumi di cattiveria per ore di cattività, tutti inutili commentatori a cercare capri espiatori per punizioni preventive. La rete ha detto, ipse dixit.
Non contano i trucchi, gli inganni, le bugie, non contano gli incubi biondi, i film patetici, non conta la tv, non contano i pettegolezzi, non conta la finta socialità. Meglio una sana misantropia. Non contano le giornate perse davanti a una partita con mezzo tiro sbilenco in porta e i motorini lanciati dagli spalti. Conta il mare mozzafiato che ci terrorizza e ci rasserena. Contano poco i comizi, le cravatte. Conta che non c'è mai tempo abbastanza per ripartire. Ma ogni volta uno si prefigge di ripartire. Dice che ce la farà. Ce la metterà tutta. Indietro non si torna. Avanti. Un-due un-due un-due un-due un-due un-due un-due un-due. Contano le cose che non ci siamo mai detti. E non contano le parole camuffate, le mezze parole, i mezzi sorrisi, le cerimonie per sondare il terreno. Contano gli anni dietro al sogno di scrivere l’alfabeto che ci porti a Dio. Lo legge prima o poi? Contano i film si con l'immagine che tende al blu anche se hai sonno e fa freddo e sei stanco e vuoi dormire. Contano i fumetti di Andrea Pazienza e i naufraghi di Capossela, contano i drammi vissuti con dignità e non contano le farse pilotate dalle bugie. Le bugie sono l'accalappiacani delle nostre utopie. Conta l'aria di decadenza intorno al principe Fabrizio di Salina nel Gattopardo. Contano i gatti in casa per l'aria strafottente. Ecco. I gatti, sì. Nell'istinto forsennato si celebra la ragione, la legge fisica, il talento dell'agilità.
Si rischia, senza una buona dose di letteratura e di gatti, di rimanere assediati da manipoli di figuranti. Finiremo col tentennare come i brumisti di Ungaretti, la notte, in preda alla noia. Per fortuna che ci sono quelli che poi si tolgono i vestiti d'adulti e tornano bambini. Alle otto abbiamo la partita a calcio con Assad, Said e tutti gli altri. Viva l'Africa calabra.
Le collisioni occasionali
Io ex insegnante di matematica col pallino della poesia, in aspettativa forzata perché in attesa di essere nominato preside dall’ufficio scolastico per le nomine, mi chiamo Leonardo Vittorini, ero stato professore occasionale di Enea solo per qualche mese, e ora l’avevo ritrovato, assieme a Elena. Lo Ionio aveva sputato la sua alba già da un pezzo: nocciolo bollente, zaffata bianca, che porta gli uomini a so, senza senso, su e giù per la città, in cerca d’un rifugio da quel rossore sbocciato già da miliardi di anni. Per i nottambuli come Enea, l’alba solo questo era: un amico non richiesto, troppo solare, sempre vigile, scherzoso, sorridente, che ti offre la sua scacciacani lucente per spaventare il pensierino libero che nessuno ha il coraggio di portare a zonzo di notte. Adesso tutto era risolto. Il refrigerio dei poeti era il rimedio. Sul corso c’è sempre quel tale, solo, urtante, quello vicino al duomo, con le dita delle mani gonfie, che si avvicina come per toccarti, e tu non sai dove scappare o come dire mi dispiace, tanto lui è lì che insiste, e quando ti sei divincolato e sei già in macchina, lui ti bussa al finestrino, non vuole nemmeno soldi, sembra voler scusarsi con noi tutti, noi perfetti. Lassù, in alto, a strapiombo sul mare, c’era l’antidoto alla paura, col cellulare che non vibrava nella tasca e il caldo di fuori era megafono aperto dall'inferno che spediva suoni di metallo e di arsura e il freddo era un cimelio buono da spolverare prima di riporlo nelle sere borghesi lucide come le custodie dei segreti degli ominicchi di Sciascia. La caccia forsennata a Enea e a Elena, con la pazienza in tasca, gli occhi che luccicavano, un indiano che credevo muto e che aveva parlato perfettamente l’italiano, era finita in un abbraccio. Da lontano Piero ci aveva guardato. Poi aveva fatto un cenno di saluto con la mano. Eravamo saliti in macchina, avevo azionato la messa in moto con cura, lento, come se il tempo si fosse dilatato, avevo l’mp3 e forse il tempo si
dilatava a piacimento di ciascuno di noi, in proporzione alle distanze, alle grandezze: Saturno distava soltanto un miliardo di chilometri dal nostro pianeta, e il sole c’impiegava una mezzoretta a far giungere i suoi raggi fino al pianeta strano. Saturno era davvero strano per essere un pianeta. Sarebbe stato più adatto a fare la navicella spaziale. Saturno era deforme, troppo schiacciato ai poli, doveva essere per la velocità delle sue rotazioni, oppure per la poca densità. E poi aveva troppe lune, alcune conosciute da Enea e dagli abitanti del castello. Forse sapevano pure di Titano, della luna immensa, grande quanto il nostro pianeta. Con i venti che soffiavano a milleottocento chilometri orari, era magnifico, Saturno: sicuro che Piero lo sapeva quant’era magnifico, tirato a lucido, con i suoi fiumi di metano irrespirabili per noi umani, e i suoi anelli spaventosi, grumi sulla giostra cosmica, a girare assurdi e prigionieri della forza di gravità. Alla fine, avevo riattaccato il cellulare al caricabatterie da viaggio. I tornanti erano finiti. La strada s’era addrizzata. In fondo al rettilineo, dal retrovisore, scorgevo appena il castello merlato, imponente, mentre svaniva piano piano e sentivo voci di bambini felici che rimbombavano ancora nella testa, e Elena m’aveva sorriso ed Enea m’aveva guardato perché sentiva ridere pure lui lieve, eppure era impossibile sentire da così lontano: ma lui mi sorrideva come per approntare una piccola empatia, ché lo capissi che noi due ora eravamo come loro. Ma Elena no, lei non doveva sapere, perché solo così poteva stare là a combattere. Lei soltanto poteva farcela. Per gli altri, rimasti giù, era follia pensare di vivere in un modo nuovo, dando più meriti all’intuito e lasciando stare in pace l’intelletto. Occorreva diventare idioti, per farlo ci voleva del talento. Il talento degli idioti avrebbe sconfitto il vecchio modo di vivere: occorreva ripensare l’umanità come cosa nuova. Il talento delle parole, la bellezza dentro alle cose, la bontà non più vista come buonismo, i telegiornali avrebbero dato anche buone notizie, e gli uomini avrebbero ricominciato a sperare. Elena avrebbe insegnato in una scuola nuova, completamente diversa, e nessuno avrebbe imparato per fare un favore ai docenti. Tutti avrebbero continuato ad amare la poesia e la danza e il gioco e la pittura e la musica, dio mio, la musica.
Qui sotto il suo resoconto di guerra per sperare nella pace: Io Elena, nata a Reggio Calabria città malata, città magnifica, farò di tutto. Quando l'alba avrà occhi meno forti a guardarla e le tempeste le sentirò lontane con orecchie indifferenti, e l'anima acciaccata e dolorante come le gambe tremanti, farò di tutto. Quando un abbraccio spaventoso mi porterà una notizia di dolore o quando nasconderemo il nostro naufragio tornando ancora ai ricordi di quando sconfiggevamo il mondo. Ci sarò ancora, e farò di tutto per la mia speranza, per dire a me stessa almeno che tutto è stato fatto ma non basta. E continuerò fino alla fine, come i professori mentre recitano in classe le poesie di Foscolo, e sempre ci sarà qualcuno che penserà che è inutile recitare poesie di Foscolo, eppure sempre ci saranno professori che le reciteranno. Ecco, pensando a loro io farò di tutto. Diventerò un’insegnante contro la vostra volontà. E guarderò imbarazzata molti colleghi mentre faranno subito un bell'interrogatorio che avranno escogitato di chiamare test d'ingresso. Si lamenteranno di doverlo correggere ignorando persino l'esistenza della parola autocorrezione. Sbraiteranno tutto l'odio che provano per chi ha orario migliore e meno ore buche e meno prime e meno ultime. E vorranno uccidere il collega che avrà un rapporto normale con la classe. Penseranno ad accaparrarsi i progetti perché nella loro testa saranno profitti e non penseranno a voi come pensano ai loro figli. Al massimo come ai loro nemici. Saranno stressati da subito perché non amano insegnare non avendo nel loro cuore spazio sufficiente per amare. Piagnucoleranno con quelli più rumorosi e si osserveranno a lungo quelle Hogan, a cui daranno l'assurdo nome di civiltà. Il loro benessere dipenderà dai rimproveri riusciti e non dai sorrisi comprensivi. Avranno studiato il latino soltanto per ripiego e avranno gettato già alle ortiche le idee di Seneca o le pazzie raccontate da Petronio. Buon anno scolastico, nonostante tutto questo. La strada della Limina si allungherà dentro quella striscia pianeggiante su cui scorre la fiumara. Il pullman rimarrà inghiottito per pochi minuti dalla galleria lunga e stretta e qualcuno starà in apnea aspettando la boccata d'aria e d'ossigeno che ora s'intravedrà laggiù in fondo. Nel aggio dal mar Ionio a quello Tirreno si proporrà agli occhi di chi osserva uno scenario profondamente diverso: dapprima roccioso e brullo, poi a uliveti spampanati per la piana, come
un risarcimento per aver compiuto il viaggio da mare a mare, da popolo a popolo, da paese a paese. La mia prima lezione di lettere sarà quella di portarli a Bova una notte d'estate a fissare il cielo, per qualche ora, con quella luna davanti, e la cintura d'Orione, e le Orse, per qualche ora. E funzionerà sentirli inermi, e capire che ogni paura angoscia panico non altro sono che una minuzia rispetto a quella visione. Gli scrittori devono rimanere tali. Per De Gregori ogni volta che i poeti parlano è una truffa. Gli scrittori quando fanno gli uomini deludono. Forse qualcuno no, qualcuno rimane scrittore anche quando fa l'uomo. Forse Erri. Gli altri deludono. Alcuni sono così tronfi che pure a rivolgere loro una domanda o a chiedere loro un consiglio è cosa sbagliata. Non hanno consigli, non hanno risposte. Sono troppo presi da loro stessi. Non hanno occhiali da scrittore; il loro punto di vista è troppo al di sopra. Io, quando farò la scrittrice, vorrà dire che non avrò niente da dire. Dovrei ricordarmene qualora accadesse. Sì, lo so che non accadrà. Ma chi se ne frega. A Gaza uccidono i bambini e gli scrittori parlano di cazzate, usano internet per fare i divi del cavolo. Cioè, del cazzo. L'amnesia del vento non mi avrà dato scampo e la costa di fronte avrà cominciato la solita trafila di specchi e di riflessi, invitando Morgana a rivelarsi, per deridere noi e la nostra meraviglia e il nostro stupore. Ma l'aggeggio che trasporta l'immagine di Messina su quel marmo nero, che ieri non potevamo chiamarlo neppure mare, s'è guastato sul più bello. E siamo andati a dormire con la solita speranza accantonata nel cofano dei sogni. Il sindaco di Reggio al posto dei compari di prima proverà a chiedere aiuto ai bambini per sapere che cosa manca alla nostra città per essere una città felice. Le nostre città sono infestate di posteggi al posto di cortili, le nostre scuole elementari hanno dimenticato le ore di sport per far posto ai frigobar nei corridoi. Le uniche competenze che ci servirebbero sono un pallone mezzo sgonfio e corse a perdifiato. Ci vogliono playground gratuiti al posto dei lidi per minorenni alcolizzati. Ciascuno di noi è fatto di idrogeno primordiale, nato nel Big Bang quasi 14 miliardi di anni fa. Mettere gli occhiali da luna, aspettare treni in ritardo, scannerizzare i dialoghi di due tizi mentre si preoccupano delle cose del mondo e mai, neppure sbaglio, hanno la tentazione di levare le pupille al cielo. La cintura
di Orione è elegantissima stasera. Treno in ritardo di quaranta minuti. La ionica è un valzer lento, troppo lento. Qualcuno vivrà, dimenticato nel torpore dello Ionio, in quella terra di nessuno, perso come un naufrago della storia, in un castello appollaiato, con lo schermo dello stretto in faccia, l'Etna imponente di fronte, e quelle mura desolate, un universo sepolto dai secoli, e le erbacce intorno, e i cumuli di rami foglie corvi serpi bisce gechi lucertole e salsedine e vento e sterpaglie, e silenzio, solitudine, e stelle in alto e il fiotto di sangue dell'Etna, e il silenzio ancora, e cani che latrano ai bordi, e alcuni latrano mentre pisciano sulle mura del castello, inondando la Storia di urina, e ranocchi a gracidare e lamenti come di bambini, ma ancora no, nessuna traccia di esseri umani, solo di conchiglie sparse dappertutto, lassù, come è possibile che ci siano conchiglie in montagna, eppure ce ne sono, anche enormi, le lumache le segnano di bava, e il vento di scirocco le asciuga all'istante, lì, su quella collina paziente, ci sarà qualcuno, su quella collina, che ricorderà il deserto dei Tartari, col suo Drogo, in attesa del soffio nemico, in una guerra di nervi col tempo. I bambini che fanno educazione fisica (vera) a scuola, guardano un'ora al giorno in meno la tv. In Danimarca, per esempio, gli insegnanti corrono con i propri alunni per circa venti minuti e poi leggono insieme per la stessa quantità di tempo. In Italia pigrizia tv grassi animali distributori di panini con salame schifo. Oggi un signore indiano mi ha raccontato la sua vita. Quasi mi sono vergognata della mia. Lavora qui e lavora tanto e con i soldi che guadagna deve mantenere il fratello in Francia (costretto a letto per sei mesi per il crollo di un tetto che lo ha centrato alla schiena) e la moglie in India, oltre al padre malato. Adesso cercheremo di aiutarlo a imparare meglio la lingua italiana. Mentre parlava pensavo ai suoi sacrifici e alla sua semplicità. Ci saranno bambini che sorrideranno dai letti degli ospedali: e forse neppure questa lezione ci basterà. Ci sarà spazio per seguireI cento i: mi sembrerà doveroso, in barba ai programmi; cioè, la terza guerra d'indipendenza sarà importante, certo. Ma sarà più importante la guerra quotidiana alla mafia e i docenti usciranno dalle aule-docenti e andranno a vivere nelle classi senza pareti di cemento e senza aridità, senza musi lunghi e disimpegno. Non si potrà insegnare odiando il proprio lavoro. La scuola avrà materie nuove e facce sorridenti: e vaffanculo alle competenze! Fine del mio resoconto.
Magari Vittorini sarà il preside. Magari. Adesso però aveva la magagna di dover spiegare che cos’era successo. Gli avrebbero fatto un processo al collegio docenti. L’avrebbero offeso. Ridicolizzato. Come in un racconto kafkiano, avrebbe tentato di dire la verità ma dalla bocca sarebbe uscito un urlo muto, soffocato dalle risa dei vincenti: lui avrebbe tentato invano di dire “credetemi, ve lo giuro”, ma loro no, non lo avrebbero mai creduto perché avevano dalla loro parte la sicumera dei tronfi, col repertorio delle solite certezze. Ma io mi sarei battuta per la scuola che voleva Vittorini, non per la loro scuola schifosa. Avrei fatto di tutto. Farò di tutto.
Vostra Elena
Il sole continuava a essere lampada per naufraghi strutturali, palatura pomeridiana per occhi abboccanti. Enea ed io c’eravamo incamminati per la discesa mentre la sera arrivava indolente e fredda, come una rasoiata di nero sui resti fumanti del giorno. Piero era svanito nel nulla così com’era arrivato. Il castello fra qualche tempo l’avrebbero restaurato. Le bisce sgusciavano più zitte di prima, col loro segreto fesso, col loro segreto estremo. C'era una volta un cane gigantesco e rosa. Camminava avanti e indietro per il borgo mettendo paura agli abitanti. Quando correva l'affanno del fiatone assordava i bambini. Poi un giorno gli si ruppe la coda in mille pezzi. E quei pezzi furono subito cuccioli rosa. Il vento soffiava da sud, e lontano due giovani si davano baci apionati. La foschia toglieva luce alla scena. Si videro solo bambini che accorrevano urlando, e cani rosa a perdita d'occhio. E vento da sud contro un castello. Poi un fischio, come da un piccolo drone simile a Enola Gay. Poi un frastuono. La bomba intelligente uccide il talento degli idioti.
Rimangono solo fogli sparsi per la collina. Quelli del libro La fortezza dei perduti.
Quella stessa sera, mentre la sirena della polizia ci illuminava di blu a intermittenza, Enea aveva deciso che avrebbe studiato nella scuola del preside che gli stava accanto. E io sapevo già che quella scuola non avrebbe avuto pareti, non avrebbe avuto voti, non avrebbe avuto vittime. Ma intanto dovevo fare i conti con quelli, al collegio: e sapevo già che sarebbe stata dura. Avevano del talento, il vero talento di chi sa farci are per idioti. Pazienza. Avrei saputo accettare ancora, come sempre di vivere in mezzo a loro? Avrei continuato a sorridere grazie al mio talento degli idioti? La sera era scesa indolente e fredda, come una rasoiata di nero per sporcare di sogni le nostre coscienze diurne.