Il piccolo Lord
s Hodgson Burnett
In copertina: Luigi Troubetzkoy, ritratto di bambino, 1875-76, Milano, Collezione Privata
© 2015 REA Edizioni
Via S. Agostino 15
67100 L’Aquila
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a cura di Antonella Finucci
Questo e-book è un’edizione rivista, rielaborata e corretta, basata su una traduzione del 1952 reperita tramite il Servizio Bibliotecario Nazionale. La casa editrice rimane comunque a disposizione di chiunque avesse a vantare ragioni in proposito.
Indice
IL PICCOLO LORD FAUNTLEROY
SORPRESE
GLI AMICI DI CÉDRIC
GIOCHI
GLI ADDII DI CÉDRIC
II. FAZZOLETTO ROSSO
IN ALTO MARE
IN INGHILTERRA
IL CASTELLO DEL CONTE DI DORINCOURT
IL VECCHIO E IL BIMBO
I DONI DEL NONNO
LA MAMMA ASPETTA
ALLA MESSA
CÉDRIC CAVALLERIZZO
EGGIATE
UNA LETTERA VARCA L’OCEANO
LA CORTE DEL CONTE
LA SORELLA DEL CONTE DI DORINCOURT
UNA SERATA DI GALA
NOTIZIE IMPREVISTE
NOSTALGIE DEL SIGNOR HOBBS E DI DICK
IL SIGNOR HOBBS PERDE LA BUSSOLA
DICK SCOPRE LA CONGIURA
NUVOLE SUL CASTELLO DI DORINCOURT
DUE VISITE DEL CONTE
IL SOLE RITORNA
CUORI IN FESTA
IL COMPLEANNO DEL PICCOLO LORD
IL PICCOLO LORD FAUNTLEROY
Cédric, all’inizio della nostra storia, aveva sette anni, ed era un amore di bimbo: roseo, biondo e ricciuto. Era nato a New York, ma suo padre, il capitano Errol, era d’origine inglese. Quando il Capitano morì il bimbo aveva appena quattro anni e di lui ricordava solo che era alto, forte, biondo e bello; che aveva lunghi baffi e occhi azzurri dallo sguardo dolcissimo, e che spesso gli faceva fare il giro della stanza a cavalluccio sulle spalle. Durante la malattia del capitano, Cédric era stato allontanato da casa e al suo ritorno tutto era finito... il papà non c’era più e la mamma, ch’era pure stata malata e che ricominciava appena ad alzarsi, era seduta sulla poltrona, pallida, dimagrita, senza le sue allegre fossette nelle guance e tutta vestita di nero. — Diletta — disse il bimbo, chiamandola con lo stesso tenero nome con cui la chiamava il padre. — Diletta mia, come sta il papà? La mamma non rispose, ma i suoi bellissimi occhi color della viola si riempirono di lacrime; il bimbo allora le balzò sulle ginocchia e, viso contro viso, ripeté la domanda : — Sta bene il papà? — Sì, sta bene ora, sta tanto bene... ma se n’è andato per sempre! Ci ha lasciati soli e noi non lo vedremo più — rispose la povera donna, soffocata dai singhiozzi, stringendo disperatamente al cuore la sua creatura. Il piccino non fece altre domande e non chiese il perché di quelle lacrime, ma si dette ad accarezzare e baciare la madre con più tenerezza che mai. Aveva capito... il suo caro papà, grande e bello, forte e buono, era morto! Veramente che cosa significasse esser morto non lo comprendeva bene, ma capiva che il papà non sarebbe tornato più e che questa era una gran disgrazia. Sentì, piccolo com’era, che toccava a lui consolare la povera mamma, e si ripropose di essere sempre buono, di volerle sempre tanto bene e di non farle mai più domande
indiscrete. La guardò a lungo: era pallida, sciupata, eppure ancora tanto bella, col viso dolce incorniciato dai capelli biondi e con la corporatura esile e slanciata; i suoi occhi viola erano ancora gonfi di lacrime e continuò ad accarezzarla e baciarla. Il capitano Errol aveva sposata quella donna contro la volontà del padre, il nobile e ricco conte di Dorincourt. L’aristocratico gentiluomo, collerico, austero, egoista ed autoritario, aveva altri due figli, maggiori del capitano. Secondo la legge inglese, il titolo e l’eredità sarebbero spettati al maggiore; in caso di morte del primo l’erede sarebbe stato il secondo, e così via. Per il capitano non c’era nessuna probabilità di ereditare: egli sarebbe stato quasi povero rispetto ai fratelli. Ma la natura era stata prodiga di doni per l’ultimogenito del conte, mentre s’era mostrata avara e quasi matrigna con gli altri due. Come si è già detto, Errol era alto, biondo e bello, aveva occhi azzurri espressivi e dolci e l’aspetto attraente. Nel gesto signorile, nell’inflessione della voce, nella parola e in ogni suo moto s’indovinava la nobiltà dei sentimenti e la generosità del cuore. Ed era anche intelligente. I fratelli in-vece sembrava fero a gara per aumentare le deficienze naturali: negligenti negli studi, sgarbati, egoisti, non pensavano che a scialacquare. Il primogenito poi, l’erede, era un vero inetto di cui il conte padre arrossiva, e quando faceva il paragone fra lui e il capitano si diceva che solo quest’ultimo avrebbe portato con onore il suo nome. Queste riflessioni però lo irritavano oltremodo, tanto che, in un accesso di collera aveva fatto partire Errol per l’America. Ma dopo sei mesi la nostalgia di quel suo figliuolo buono e bello gli attanagliò tanto il cuore, tanto che gli scrisse richiamandolo in Inghilterra. Nello stesso tempo il capitano aveva scritto al conte annunziandogli il fidanzamento con l’orfanella che poi aveva fatto sua. Le lettere s’incrociarono e alla notizia così imprevista, così inattesa, il conte andò su tutte le furie; rispose subito al figlio dicendogli che non voleva più saperne di lui e che gli proibiva di scrivere anche ai fratelli. Il capitano ne fu addoloratissimo; amava la patria, il castello e suo padre, ma per nessuna ragione avrebbe abbandonato la sua Diletta che, sola al mondo, aveva fiducia nel suo amore.
Si erano conosciuti per caso: la giovinetta era damigella di compagnia d’una vecchia signora ricchissima che la trattava molto male. Un giorno s’erano incontrati per le scale; piangeva, la povera figliuola, per un rimprovero immeritato, e il giovane ne ebbe comione. Cercò di consolarla, si videro spesso, e la comione si tramutò in un sentimento più profondo e vivo, tanto che Errol se ne innamorò. Il diniego del conte, la sua collera, lo addolorarono senza dubbio: conosceva il padre, lo sapeva autoritario, orgoglioso e inflessibile, sapeva che mai avrebbe ottenuto il suo consenso e che doveva lavorare per vivere. Ma non mutò pensiero; cercò un impiego a New York, lo trovò senza troppa fatica, e andò ad abitare con la sua dolce compagna in una graziosa casetta. Lì era nato il loro bimbo, atteso con tanto amore. Cresceva a vista d’occhio, forte, sano e allegro : aveva la robustezza e l’audacia del padre e della madre i capelli biondi e ricciuti, i grandi occhi viola e la grazia pensosa. Vispo e sorridente, ricambiava la tenerezza di cui era circondato con altrettanta tenerezza, e quando cominciò ad uscire con la bambinaia in carrozzella, non c’era nessuno che, incontrandolo, non si fermasse ad accarezzarlo. Tutti l’amavano; perfino il droghiere che aveva bottega sull’angolo della strada, l’essere più scontroso e intrattabile di questo mondo, era felice quando poteva accarezzare quel bimbetto roseo e biondo. Fra il papà e la mamma, cortesi per principio e per educazione, Cédric cresceva come un fiore. Non aveva mai sentita una parola sgarbata, e non supponeva che ne esistessero, né avrebbe saputo essere scortese con nessuno. Non aveva mai visto un gesto che non fosse affettuoso in quella sua casetta dove regnava sovrano l’amore. Quando Cédric capì che il suo papà affettuoso e caro non sarebbe più tornato, si propose di consolare ad ogni costo la mamma e faceva di tutto per riuscire nel suo intento. Le stava sempre vicino, non la lasciava sola nemmeno un momento, giocava ai suoi piedi, le leggeva il giornalino dei piccoli, l’accompagnava a eggio e quando riusciva a farla sorridere si sentiva il cuore colmo di gioia. — Mary — disse un giorno la signora Errol alla vecchia domestica, che le era rimasta fedele dopo la sua disgrazia — Mary, io credo che, nonostante sia così piccino, questo bimbetto capisca il mio dolore e faccia di tutto per consolarmi e
rallegrarmi. — E come non ridere — diceva poi Mary parlando con gli amici — come non ridere quando con un faccino serio, come fosse un giudice, s’imbarca in quei suoi discorsi tanto buffi? La sera dell’elezione del presidente, per esempio, mi è entrato in cucina tutto preoccupato e mi ha detto, con la più grande serietà di questo mondo, — Mary, io mi sono interessato molto a queste elezioni, io sono repubblicano, anche Diletta mia è repubblicana, e voi Mary? — Signorino mio — rispondo io — me ne dispiace tanto tanto per voi, ma io sono democratica. — Come ci restò male! Mi guardò a lungo, poi disse: «Oh! Mary, Mary! Voi manderete il paese in rovina. Pensateci bene!». Da quella sera, tutte le volte che lo porto a letto, cerca di farmi diventar repubblicana. Era stato il signor Hobbs, il vecchio droghiere, ad iniziare il bimbo alla vita politica. Gli aveva parlato a lungo della guerra che l’America aveva sostenuto contro gli Inglesi per riacquistare la libertà, degli atti d’eroismo degli Americani, delle cattiverie degli Inglesi. Gli aveva narrato episodi d’ogni ge-nere e aveva sempre chiuso i suoi discorsi politici ripetendogli la Dichiarazione d’Indipendenza con tutta l’enfasi di cui era capace. Il piccino l’ascoltava ed era tutto un fremito, col cuore in tumulto, l’occhio scintillante e il visetto rosso d’emozione. Era riuscito ad esaltarlo così bene, il droghiere, che all’ultima elezione il bimbo era convinto che, se lui e il signor Hobbs se ne fossero disinteressati, il paese sarebbe andato in rovina. Tutti i giorni Cédric andava nella bottega del signor Hobbs, sedeva su di un alto sgabello e le discussioni avevano inizio. Il droghiere leggeva il giornale, informava il suo amico sulla maggiore o minore attività del presidente e se questi aveva fatto e faceva il suo dovere. Dimenticavo di dire che il giorno dell’elezione, di cui Cédric s’era molto occupato, il bimbo, sistemato sulle spalle del suo amico, aveva seguito il corteo e aveva potuto ammirare le bandiere, i fuochi d’artificio e le luminarie e ascoltare la musica e non perdere una sola parola dei discorsi. Ne era rimasto estasiato e ne parlava sempre con orgoglio.
Un giorno il piccino, dopo aver giocato a lungo coi compagni, entrò nella bottega, così piena di fascino per lui. Era ricolma di cose buone, quella bottega: c’erano noci, mandorle, arance, fichi secchi, nespole, mele e pere e il bimbo aveva, verso il proprietario di tutto quel ben di Dio, la più grande ammirazione. Si aggiunga a tutto questo il cavallo e il carretto che il droghiere possedeva e si comprenderà facilmente l’ammirazione e la stima sconfinata che il piccino nutriva per il signor Hobbs. Entrò dunque, quel pomeriggio, nella bottega, saltò su di un alto sgabello e, mani sui fianchi e berretto calcato sulla nuca, chiese : — Ebbene, che c’è di nuovo oggi? Il droghiere era addirittura furioso in quel momento: quel giorno il giornale parlava in prima pagina di un ricevimento alla corte di Londra e lo illustrava. — Facciano pure — gridò buttando via il giornale — facciano pure! Verrà il giorno in cui saranno spazzati tutti via, duchi, conti, marchesi... tutti! — Ne avete conosciuti molti di conti, signor Hobbs? — chiese Cédric con la sua vocina. — Io!? ci mancherebbe altro! Non ne vorrei vedere uno seduto sulle mie casse di biscotti nemmeno per tutto l’oro del mondo! Birbanti, tiranni, egoisti! — Forse — azzardò il bimbo, che provava una certa simpatia e una vaga comione per quei disgraziati aristocratici tanto malmenati dal signor Hobbs, — forse non vorrebbero esser conti se sapessero quello che sapete voi. — Non lo sanno? Non lo sanno? — esclamò il droghiere più che mai inferocito. — Ne sono fieri! Canaglie! Proprio in questo momento critico, Mary entrò nella bottega e disse con un viso e con una voce strana: — Signorino, vi cerca la mamma. Il bimbo scivolò dallo sgabello, salutò il droghiere e seguì la domestica.
— Che c'è Mary? Devo accompagnare a eggio mammina? — No, no. — Ha l’emicrania forse? — No, cuor mio, non pensate a questo, ma succedono delle cose molto strane oggi. Davanti alla porta di casa Cédric vide ferma una lussuosa carrozza e, attraversando il corridoio, sentì la voce della madre che parlava con qualcuno. Seguì in camera Mary, che gli fece indossare il bel vestitino bianco con la cintura rossa e gli acconciò i riccioli mormorando : — Un riccone, un gran signore, un conte! Chi l’avrebbe mai detto! Il bimbo non chiese spiegazioni, fece di corsa le scale e irruppe nel salottino dove era atteso. Di fronte alla signora Errol sedeva un vecchio gentiluomo, dal volto severo e dignitoso, che lo guardò come per scrutarlo e, mentre la madre lo stringeva fra le braccia ripetendo «Oh creatura mia, anima mia», si alzò lentamente e disse con un lampo di compiacenza nello sguardo, esclamò: — Dunque è questo il piccolo lord Fauntleroy?
SORPRESE
La settimana che seguì a quel giorno memorabile, fu così ricca di notizie sorprendenti, e di avvenimenti strani, che Cédric credeva di sognare. Quello che gli spiegò la mamma era un fatto così complicato che il bimbo se lo fece ripetere un’infinità di volte per venirne a capo. Era una storia ingarbugliatissima di lords, conti, eredità e successioni che il povero piccolo seguiva con tale sforzo d’attenzione da divenire rosso in viso. Il nonno, che Cédric non aveva mai visto né conosciuto, era un conte, e conte sarebbe dovuto divenire il primogenito, uno dei due zii di Cédric. Ma il maggiore, in seguito ad una brutta caduta da cavallo, era morto e il titolo ava quindi al secondo figliuolo, l’altro zio di Cédric. Ma anche lui era morto, era morto di tifo, a Roma. Conte allora sarebbe dovuto diventare il capitano Errol, il padre di lui, di Cédric, ma il capitano era morto e dunque, siccome non c’era nessun altro che potesse ereditare titolo e ricchezze, toccava proprio a lui, a Cédric, diventare conte: per ora, intanto, era lord, Lord Fauntleroy. Il povero piccino penò non poco ad orientarsi in quel labirinto di successioni, di eredità e di parentele. Finalmente gli parve d’aver capito e disse con aria trepida e pensosa : — Diletta mia, io non vorrei proprio esser conte! Il signor Hobbs li odia e certo non gli piacerebbe questa storia; poi nessun altro bambino è conte… non si potrebbe fare in modo che non lo sia nemmeno io? Non era proprio possibile, no! E per tutto il pomeriggio il bimbo, accoccolato ai piedi della madre, ascoltò e discusse riflettendo sul da farsi, senza concludere nulla. Non riusciva soprattutto a capacitarsi di dover lasciare New York. Il pensiero di allontanarsi dal signor Hobbs non gli dava pace: — Penso al signor Hobbs — ripeteva —mi mancherà e io mancherò a lui. Che dirà quando verrà a sapere una cosa simile? — Bambino mio — gli disse la signora — il nonno vuole che tu vada a vivere con lui nel castello. Egli è rimasto solo, poiché tutti i suoi figliuoli sono morti, ed
è giusto che tu, che sei il bimbo del suo figliuolo più giovane, l’unico che gli resti col suo nome, vada a star con lui. Pensa, bambino mio, che il tuo papà sarebbe assai contento, e io, amor mio, sarei proprio una mammina molto egoista se ti dicessi di non partire. Il bimbo sospirò. Era rassegnato ormai e per quella sera rimase accanto alla madre e non andò dal suo amico.
* * *
Il signor Havisham, che era avvocato, segretario e confidente del conte di Dorincourt e che era espressamente venuto dall’Inghilterra per condurre il piccolo lord allo storico castello, conosceva tutte le tristi vicende del suo signore, sapeva quanto i due primogeniti avevano ferito l’orgoglioso vecchio e che colpo era stato, per lui, il matrimonio del capitano Errol con l’orfanella americana. Anche lui, come il suo padrone, giudicava molto male la vedova ed era convinto che la donna si fosse fatta sposare dal figlio del conte adoperando moine e lusinghe, senza amarlo. Il pensiero di doversi trovare a tu per tu con una donna volgare, venale e falsa, non gli piaceva davvero e avrebbe fatto volentieri a meno di quel colloquio. Ma gli ordini del conte erano chiari e tassativi e l’avvocato li doveva eseguire. Quando la vettura infilò la strada e si fermò davanti alla modesta casa della vedova, egli non poté fare a meno di pensare: « Dunque qui è nato e cresciuto l’erede d’una delle più nobili, ricche e antiche famiglie inglesi!». Ma appena introdotto nel salottino, la triste impressione dileguò quasi del tutto: niente di volgare nel piccolo nido accogliente. Tutto era semplice e di buon gusto, dalla poltroncina a braccioli al portafiori posato davanti al ritratto del capitano. — Il buon gusto di Errol ha prevalso qui — pensò nell’attesa. E poi, quando dalla porta laterale vide sollevarsi una portiera e avanzare una figura bionda e delicata, quando strinse una piccola e bianca mano e si vide fissato da due immensi occhi blu, malinconici e sereni, rimase stupito e si ritrovò pensare, suo
malgrado: « Anche qui si nota il buon gusto del capitano». La dolce creatura vestiva di nero e le ricche trecce bionde, naturalmente ondulate e raccolte sulla nuca, avevano bellissimi riflessi d’oro. I pregiudizi del signor Havisham svanirono all’istante: quella che gli stava davanti non gli parve la madre di un bimbo di sette anni, ma una giovanissima fanciulla. Subito decise di correggere e temperare le frasi che voleva adoperare parlando, e fece la sua ambasciata con correttezza, modificando anche le parole che il conte gli aveva suggerito. Con tatto delicato fece anche capire alla signora quanto il conte fosse prevenuto verso di lei. — Ma dunque me lo portate via! — esclamò la madre dopo aver ascoltato tutte quelle spiegazioni. — Io sono così sola, non ho che lui al mondo! — Mi dispiace immensamente addolorarvi, signora, credetemi — continuò l’avvocato, cui premeva porre fine prima possibile a questo doloroso colloquio — ma il conte ha deciso di tener pres-so di lui solamente il bimbo. Voi abiterete in una stupenda villa vicinissima al parco e potrete vedere vostro figlio ogni giorni, ma non potrete andare al castello né varcare il cancello del parco. La povera vedova si sentiva annientata, le tempie le battevano forte: s’alzò, s’accostò un momento alla finestra e appoggiò la fronte ai vetri, poi tornò a sedersi. L’avvocato temeva una crisi, una scenata, ma non avvenne nulla. La donna era diventata pallidissima ma disse solo, con voce bassa e calma: — Mio marito amava molto il padre e la casa natale, sono certa ch’egli sarebbe stato felice di poter educare il bambino al castello; perciò, sicura di far cosa gradita a lui, accetto le condizioni del conte; solo gli raccomando di non cercare di togliermi il cuore del mio piccino. Non vi riuscirebbe del resto. E d’un’altra cosa lo prego, di amare Cédric. L’avvocato rimase perplesso: non si sarebbe mai aspettato una richiesta simile, né poteva promettere amore da parte di quel vecchio egoista che in tutta la sua vita non aveva amato che se stesso; quindi disse semplicemente : — Vostro figlio sarà felice, signora. Pensava intanto che, se il bimbo avesse avuto bellezza e salute da lusingare l’orgoglio del vecchio conte, forse questi l’avrebbe amato davvero; ma rimase molto male quando sentì Mary dire alla signora che l’aveva incaricata di cercare
Cédric : — Sarà dal droghiere, appollaiato sullo sgabello a parlar di politica come sempre; vado a chiamarlo. - Il signor Hobbs conosce il bambino da quando è nato e gli vuole molto bene — spiegò la signora. — Ma in Inghilterra i piccoli lords non frequentano le drogherie — pensò il signor Havishan e, molto contrariato, attese. Quando la porta si aprì e l’ometto comparve, il visitatore rimase di stucco: mai, in vita sua, aveva visto un bimbo più bello! Vestito di bianco, coi riccioli d’oro che gli scendevano in lunghi anelli sulle spalle, rosso vermiglio in volto dall’emozione e dalla corsa, le labbra aperte al sorriso, i grandi occhi blu dolci e sereni e l’andamento elegante: Cédric era incantevole e sembrava fosse nato per render miti anche le fiere del deserto, con la sua bellezza. Si gettò al collo della madre, che gli aveva teso le braccia e che ripeteva baciandolo: — Oh! Cédric, creatura mia, amor mio. E mentre i due si scambiavano i più teneri baci, l’austero gentiluomo s’era alzato lentamente dalla poltrona e con un lampo di compiacenza negli occhi aveva detto scandendo le sillabe: — Dunque è questo il piccolo lord Fauntleroy? Il giorno dopo, appena gli fu possibile, Cédric andò nella bottega del droghiere. Il povero piccino era perplesso: il signor Hobbs odiava cordialmente gli inglesi, i conti, i duchi, i marchesi, e non sapeva come se la sarebbe cavata. Quindi entrò e prese posto sopra una cassa di biscotti. — Buongiorno — disse quasi umilmente. — Buongiorno — rispose il droghiere ch, come al solito, stava leggendo il giornale. Poi, visto che l’altro non apriva bocca — Che c’è? — chiese — cos’è
successo? Cédric prese il coraggio a due mani e: — Vi ricordate, signor Hobbs — disse, con la voce che gli tremava, suo malgrado — vi ricordate di che cosa si stava parlando ieri, quando Mary venne a cercarmi? — Mah... dell’Inghilterra, mi sembra. — Già, e poi? — Di duchi, di conti e di marchesi. E io devo aver detto di quei tiranni tutto quello che si meritano — replicò il droghiere corrugando fieramente le sopracciglia. - E avete anche detto che non ne vorreste mai vedere uno seduto sulle vostre casse di biscotti. — L’ho detto e lo ripeto: provino a venire e saranno ben ricevuti! — Eppure — disse Cédric abbassando gli occhi e la voce, mentre il visuccio gli diveniva di porpora — ce n’è uno seduto qui, in questo momento. — Ma che dite?! - Io sono un conte, signor Hobbs. Il povero vecchio istrice ebbe un tuffo al cuore, impallidì fino a diventar livido, mentre un pensiero terribile gli attraversava la mente. — Il piccino è pazzo — Si avvicinò a lui fra lo spaventato e l’attonito. Posò, con quanta leggerezza gli fu possibile, la sua grossa mano sul piccolo capo di quell’angioletto e cercò di rendere più dolce la sua grossa voce tonante: — Vi fa male il capo? Avete preso molto sole? Dove siete stato fin’ora? - No, signor Hobbs — rispose il bimbo sollevandogli in viso i begli occhi pensosi — sto benissimo e quel che vi dico è vero. Mary ieri è venuta a cercarmi
perché era giunto dall’Inghilterra un signore, un avvocato, uno che sa bene tutta la storia e l’ha raccontata alla mamma, che poi l’ha raccontata a me, e io tra poco devo andare in Inghilterra a fare il conte. Così vuole mio nonno. — Vostro nonno?!! Ma chi è vostro nonno? Cédric tirò fuori dalla tasca dei calzoncini un foglio. — L’ho scritto qui — disse — perché è un nome molto lungo e non l’avrei mai ricordato — e lesse lentamente. — John Arthur Molyneux Errol, conte di Dorincourt. — Ma che storia è mai questa!— esclamò il droghiere al colmo dell’emozione. -Ecco, è un po’ difficile a capirsi, ma la mamma me l’ha spiegato per bene e ora lo so ripetere! Conte sarebbe stato il mio papà perché i suoi fratelli maggiori sono morti entrambi; ma siccome anche il mio papà è morto, conte dovrò diventare io che sono vivo. Il droghiere sudava come se fosse stato davanti ad un forno e chiese, non sapendo bene che si dicesse: — Ed ora voi chi siete? — Sono lord Fauntleroy. O almeno così mi ha chiamato ieri l’avvocato, quando mi ha visto entrare in salotto. Ha detto così: « Dunque è questo il piccolo lord Fauntleroy? » Allora i sentimenti trattenuti del povero droghiere esplosero in un’esclamazione energica, mentre buttava all’aria il fazzoletto con cui da un’ora si stava massaggiando il cranio e gridò come un ossesso : — Che il diavolo mi scortichi se c’è una sola parola vera in tutta questa storia. Cédric amava ed ammirava il suo vecchio amico: per lui, tutto quello che il degno uomo faceva era perfetto. Trovò quindi naturalissima l’espressione. Del resto il bimbo non frequentava nessuno e non potendo fare confronti, non poteva accorgersi che in fatto di educazione il suo amico lasciava molto a desiderare. Capiva, sì, che era molto diverso dalla madre, ma questa era una signora, mentre
il droghiere era un uomo e il bimbo pensava che una signora non può agire e parlare come un uomo. Guardò quindi il Signor Hobbs senza scomporsi e chiese: — È molto lontana l’Inghilterra? — C’è di mezzo l’Oceano Atlantico. — Questo è un male, chi sa quanto tempo dovremo stare senza vederci! — I migliori amici debbono separarsi a volte. E noi siamo amici da molto tempo! -Da quando siete nato! —Ah! — esclamò Cédric — allora non pensavo certo che sarei diventato conte! —Non si potrebbe impedirlo? —Non credo; mammina dice che papà sarebbe stato molto contento ch’io lo fossi. Comunque, se proprio debbo esser conte, vi assicuro di esser buono: non sarò un tiranno e se ci dovesse essere un’altra guerra, io parteggerei per l’America e cercherei d’evitarla. La conversazione fu lunga e seria fra i due. Il signor Hobbs, riavutosi dal colpo, non si mostrò feroce come si sarebbe potuto immaginare; il pover’uomo accettava gli avvenimenti e cercava di rassegnarsi. Fece a Cédric innumerevoli domande sui conti e sulle loro abitudini e, siccome il piccino non sapeva dargli nessuna risposta, se la dava da sé. Nella foga del discorso, si lasciava andare, sul conto degli aristocratici, ai giudizi più impensati e attribuiva loro abitudini tali che avrebbero stupito molto quei degni signori, se avessero potuto sentirlo. Ma Cédric non se ne turbava: ascoltava, seduto sulla cassa di biscotti, dignitoso e attento come se fosse stato su un trono.
GLI AMICI DI CÉDRIC
Il giorno dopo l’avvocato ebbe con Cédric una lunga con-versazione. La signora Errol era stata chiamata in cucina e il bimbo era rimasto solo con lui in salotto. Erano seduti di fronte in silenzio, fu Cédric a prendere la parola per primo. —Sapete una cosa , signore? Io non capisco bene che cosa sia un conte. —Davvero?! —Sì, davvero. E penso che, se un bambino deve diventar conte, è bene che sappia di che si tratta. Non trovate anche voi? —Certo! — replicò l’avvocato. —Vorreste — disse allora il bimbetto, parlando col massimo rispetto, — vorreste avere la cortesia di spiegarmelo? I conti chi li fa? —Un re o una regina, quando qualcuno ha reso un grande servizio allo Stato o ha compiuto qualche atto eroico. —Come il presidente degli Stati Uniti. —I vostri presidenti sono eletti, credo. —Sì quando uno è molto buono, molto istruito, e ha compiuto grandi azioni, viene eletto presidente. Allora si fa un gran corteo con bandiere e luminarie e poi ci sono i fuochi d’artificio, la musica e i discorsi. Io a volte l’ho pensato di fare il presidente, ma non ho proprio mai pensato di fare il conte. Certo, se avessi saputo che cosa è un conte — aggiunse cortesemente il bimbo — l’avrei pensato. – È una cosa ben diversa da un presidente, un conte — disse l’avvocato. —Allora non ci sono cortei, né fiaccolate, né musiche, né discorsi? Un conte — disse il signor Havisham incrociando le mani, — è un personaggio importantissimo.
Anche un presidente: il corteo è lungo fino a cinque miglia, c’è la musica, ci sono i discorsi, gli spari. Io sono stato a vederlo col signor Hobbs. È una cosa bellissima. Un conte — proseguì l’avvocato — è generalmente di antico lignaggio. Che cosa vuol dire? Vuol dire di una famiglia vecchissima. Oh! Ma allora è come la venditrice di mele: avrà più di cent’anni ed è un miracolo se sta ancora in piedi. Quando piove ha dolori alle ossa. Pensate, è tanto povera che anche l’inverno è obbligata a star fuori. A me fa molta pena, e anche agli altri bambini. Una volta a Billy regalarono un dollaro e io lo pregai di comprare due o tre soldi di mele al giorno. Acconsentì volentieri, ma dopo una settimana era stanco di mangiar mele. Per fortuna regalarono a me mezzo dollaro proprio il giorno in cui Billy aveva smesso di comprar mele e così le comprai io. Oh! È proprio d’antico lignaggio. L’avvocato sorrideva stropicciandosi il mento, ma non sapeva come cavarsela. —Credo che non abbiate capito — disse. — Antico lignaggio vuol dire che una famiglia è conosciuta nella storia del suo paese da centinaia e centinaia d’anni e che il suo nome è stato portato in alto da persone che hanno compiuto atti di valore, in modo da essere ricordati per molto tempo. —Come George Washington allora! Il signor Hobbs dice che sarà ricordato per sempre sempre. —Il primo conte di Dorincourt — continuò solennemente l’avvocato — risale a quattrocento anni fa. —Davvero?! E l’avete detto alla mia mamma? Lei ama le storie straordinarie! —Un conte — continuò l’avvocato, interrompendo Cédric che si dilungava a tesser le lodi di Washington, dei soldati della rivoluzione e della Dichiarazione d’Indipendenza — un conte è quasi sempre molto ricco. —Oh che bella cosa! — esclamò Cédric. — Io sarei molto contento se avessi molto denaro.
—Perché? che cosa ne fareste? —Oh, tante cose! Prima di tutto comprerei a quella povera vecchia d’antico lignaggio una cucinetta e una tenda per coprire le sue mele. E anche uno scialle le darei, così che si possa coprire quando piove. E nei giorni di cattivo tempo le regalerei un dollaro così potrebbe rimanersene a casa, vicino al fuoco. A me le ossa non fanno male, ma dev’essere molto doloroso avere il mal d’ossa. Non credete? E non credete che starebbe meglio se potessi comprarle tutte queste cose? —Forse. E poi che altro fareste? —Comprerei a mammina tante cose belle: un ventaglio, un ditale d’oro, una carrozza per quando va a eggio, un bel vestito rosa... anche se si veste sempre di nero. Infine, se fossi ricco, la porterei in un negozio e le farei scegliere quello che più le piace. —Poi c’è Dick... — aggiunse il bambino dopo una pausa. —Chi è Dick? —Un mio amico, un lustrascarpe bravissimo. Noi siamo amici da molti anni. eggiavo un giorno con mammina e avevo una bellissima palla di gomma; ad un tratto la palla mi scivolò di mano e si mise a ruzzolare e rimbalzare per conto suo. Io scoppiai in lacrime; ero piccolino, sapete, avevo ancora le sottanine. E Dick, che stava lustrando le scarpe ad un signore, butta la spazzola e grida: «Fermi tutti». E con un salto si ficca fra le gambe dei cavalli, dove la palla era ruzzolata, la raccoglie, la pulisce e me la rende dicendo: «Giovanotto allegro, ecco la vostra palla; non s’è fatta male». Da quel giorno siamo diventati amici; tutte le volte che o mi fermo a chiacchierare con lui, mi parla dei suoi affari. L’ultima volta però le cose gli andavano male. — E che fareste per lui? -Gli comprerei una bella insegna, molte spazzole e molte scatole di lucido. —E per voi non comprereste nulla? -Oh certo, tante cose! Ma prima vorrei dare a Mary qualche dollaro per Brigitte.
—Chi è Brigitte? —Una sua parente che ha il marito disoccupato e tanti bambini: viene spesso dalla mamma e piange sempre. Anche al signor Hobbs comprerei un bell’orologio d’oro con la catena. Ed ecco cosa farei se qualcuno mi prestasse molti dollari. —Sono dolentissima di avervi lasciato solo — disse la signora Errol all’avvocato, rientrando in quel momento in salotto - ma di là c’è una povera donna che ha il marito malato e non può pagar la pigione. Non sa come fare la poveretta! —Il signorino — rispose il signor Havisham, — mi ha parlato dei suoi amici. —Anche Brigitte, la povera donna di cui vi ho detto, è una sua amica — disse la signora sorridendo. Cédric sgusciò dal salotto come un ragazzo e corse in cucina. —Il conte — disse l’avvocato alla Signora, — mi ha ordinato di appagare ogni desiderio del nipote e mi ha affidata una somma considerevole che il piccolo lord può spendere come meglio crede. L’avvocato non aveva voluto ripetere le parole del conte: “Riempitegli le tasche di quattrini, accontentatelo in ogni desiderio ed egli dimenticherà la madre”. —Se voi lo permettete — continuò il signor Havisham — io darò a sua signoria cinque sterline affinché aiuti quella povera donna. —Cinque sterline! — esclamò la signora, giungendo le mani — Ma è un patrimonio per quella povera gente! —Il conte è ricchissimo, signora — proseguì il signor Havisham, — e quando questa ricchezza erà nelle mani di vo¬stro figlio, egli saprà farne buon uso, ne son certo. Volete chiamarlo? Cédric entrava in quel momento; era pensoso e disse come parlando a se stesso: —Si tratta di reumatismo articolare acuto e, a quel che dice Brigitte, i dolori sono terribili e non possono pagare la pigione. Almeno se Patty avesse un vestito
potrebbe andare a guadagnare qualche soldo, ma quello che ha è tutto a brandelli. Mi chiamavate, signore? —Vostro nonno — cominciò a dire il signor Havisham, ma non seppe continuare e guardò involontariamente la signora, come per pregarla di parlar lei. Questa s’inginocchiò sul tappeto e strinse al cuore le mani di Cédric. —Bambino mio — disse — il nonno è ricco e ti vuol bene. Egli è tanto, tanto buono e desidera che tu gli voglia bene. Ha dato molto denaro al signor Havisham per te e tu puoi spenderlo come meglio credi. Sei contento? —Oh, sì ! — rispose il bimbo arrossendo di gioia. — E posso darlo subito a Brigitte? L’avvocato gli tese cinque monete d’oro. —Brigitte, Brigitte — gridò il bimbo precipitandosi in cucina — Brigitte, non andar via, ecco il denaro per pagare la pigione, me l’ha mandato il nonno. Questo è per te e per Michele. —Ma signorino — gridava la povera donna — dove avete preso tutto questo denaro? Lo sa la signora? —È necessario ch’io vada di là a spiegare la cosa — disse la vedova Errol sorridendo — Permettete. —Ha pianto — raccontò poco dopo Cédric al signor Havisham — diceva di esser felice ed ha pianto!
GIOCHI
Il giorno dopo il signor Havisham, mentre si avviava in carrozza alla casa della vedova Errol, alla svolta della strada vide un gruppo di bimbi eccitatissimi, in procinto d’iniziare un gioco. Due di loro si erano sfidati alla corsa e uno dei campioni era proprio il piccolo lord Fauntleroy, il quale faceva, lui solo con le sue grida, più chiasso di quello di tutti i suoi compagni insieme. Gli sfidanti , pronti per la corsa, attendevano il segnale della partenza: — Uno, attenti — gridò il caposquadra — due, pronti; tre...via! Il signor Havisham aveva fatto fermare la vettura e s’era affacciato allo sportello: vide Sua Signoria che, pugni stretti e riccioli al vento, correva sulla pista. — Forza Errol, forza Billy! Viva Cédric! Viva Billy! — gridavano i bimbi divisi in due partiti, battendo le mani e facendo un baccano indescrivibile. — Vincerà il piccolo lord — pensò l’avvocato. Le grida dei ragazzi raddoppiarono, i battimani si fecero più intensi, il piccolo lord aveva raggiunto il traguardo esattamente due secondi prima del suo avversario. — Tre evviva per Cédric — urlò la folla dei bimbi, — tre evviva per Cédric Errol. Il signor Havisham s’affacciò allo sportello e — Bravo, piccolo lord Fauntleroy — gridò a sua volta, e dette ordine al cocchiere di proseguire. Poco dopo, mentre scendeva dalla vettura, il signor Havisham vide i rivali sotto braccio che, seguiti dai compagni, discutevano animatamente. — Io credo — diceva Cédric al suo avversario — io credo di aver vinto perché ho le gambe più lunghe delle tue: tu corri bene quanto me, ma io ho tre giorni di
più; è qualche cosa tre giorni; non sembra anche a te? Certo che sembrava anche a lui, anzi egli era così convinto degli argomenti del vincitore che, con la sua nota presunzione, credette quasi d’aver vinto lui e continuò la eggiata soddisfattissimo. Il fatto è che Cédric voleva sempre veder tutti contenti e il suo nobile cuoricino gli aveva suggerito quel ripiego perché la sconfitta non umiliasse il compagno. E c’era riuscito. Il signor Havisham non poté non ammirarlo. Più l’avvocato del conte di Dorincourt conosceva Cédric e più il bimbo gli piaceva. Né troppo timido né troppo sfacciato, Cédric era incantevole nella sua semplicità. La bontà d’animo del piccolo, quel suo bisogno istintivo di consolare ed aiutare i sofferenti, lo commuoveva oltremodo e, senza volerlo, faceva il paragone fra il piccolo lord, che si mostrava felice solo quando poteva far sorridere qualcuno, e il vecchio conte che in tutta la vita non aveva amato altro che la sua persona. Lo vedeva, sdraiato sulla poltrona, tormentato dalla gotta, sempre solo benché circondato da un considerevole numero di domestici. Tutti lo temevano, nessuno lo amava. Mai si era occupato dei suoi dipendenti; le loro disgrazie lo lasciavano indifferente perché egli era il conte di Dorincourt per sé stesso prima che per gli altri. Il danaro, che gli veniva dalle sue enormi rendite, serviva solo al suo piacere ed era sua suprema gioia intimidire tutti quelli che avevano la disgrazia di ricorrere a lui. La vecchiaia e i dispiaceri che gli erano venuti dai figli avevano sempre più inasprito il suo carattere. Non poteva fare a meno, l'avvocato, di paragonarlo all’innocente bambino che parlava con umanità sincera dei suoi amici e ripeteva a se stesso che il giorno in cui il bimbo sarebbe stato padrone delle immense ricchezze del conte, un gran bel cambiamento sarebbe avvenuto a Dorincourt e nei dintorni: sì, un gran cambiamento!
GLI ADDII DI CÉDRIC
Mentre in casa fervevano i preparativi per la partenza, Cédric, accompagnato dal signor Havisham, volle salutare i suoi amici. La prima visita la ricevette la venditrice di mele, quella vecchietta d’antico lignaggio. La povera signora rimase addirittura sbalordita quando il bimbo le disse che le aveva comprato uno scialle, una cucinetta e una tenda e, soprattutto, quando le consegnò, oltre tutto quel ben di Dio, una somma in denaro che per lei era una vera ricchezza. — Io vado in Inghilterra a fare il lord — le disse Cédric con la sua incantevole semplicità — e capirete che non sarebbe piacevole, tutte le volte che piove, pensare alle vostre ossa che vi danno i tormenti. Io non so che cosa sia il mal d’ossa perché io non provo mai nessuno di questi dolori. Immagino però che devono essere terribili e perciò vi prego di aver cura di voi. Son sicuro che d’ora in poi starete meglio. La povera vecchia non seppe neanche ringraziare per bene, tanto era fuori di sé per la gioia, e ci mise un bel po’ a convincersi di non aver sognato. — È una buona donna — disse Cédric all’avvocato — una volta mi feci male a un ginocchio ed lei mi regalò la sua mela più bella. Me lo ricorderò sempre; certe cose non si dimenticano, giusto? L’incontro con Dick fu più movimentato, perché quando il bravo lustrascarpe sentì il racconto che l’amichetto gli fe¬ce, adoperando le stesse parole che aveva usato per la fruttivendola, egli con una mossa energica del capo buttò in aria il berretto e sghignazzò: — Vi frulla il cervello, vero? E vorreste farlo frullare anche a me! Il futuro conte sospirò dal più profondo del cuore e disse tristemente: Nessuno mi crede sulle prime. Anche il signor Hobbs mi credeva pazzo; eppure è così; fra pochi giorni parto per andare a fare il lord in Inghilterra e poi farò il conte. In principio mi dispiaceva di esser lord e di dover diventar conte; ora invece no, la trovo una cosa piacevolissima. Adesso è conte mio nonno, e
nonostante questo è molto buono e mi ha mandato molto denaro per mezzo del suo avvocato e io posso farne quel che voglio. Ecco, questo è per te. Così dicendo il piccolo lord dette a Dick la somma necessaria per acquistare la merce di cui aveva bisogno, più un vestito, un berretto e una mezza dozzina di vasetti di marmellata. Il lustrascarpe non poteva credere a tanta fortuna ; gli tremavano le ginocchia e gli brillavano gli occhi e solo stringendo le mani intorno a una busta piena di dollari capiva di non aver sognato. — Addio — gli disse il piccolo lord porgendogli la mano. -Addio Dick — e sebbene si sforzasse di parlare con fermezza, la voce gli tremava, e qualche cosa gli dava noia agli occhi. — Spero che gli affari vi vadano sempre bene: mi dispiace molto lasciarvi, ma forse verrò a trovarvi quando sarò conte. Vi prego, scrivetemi tante lettere indirizzandole a lord Fauntleroy. Dick si stropicciò gli occhi, erano umidi anche i suoi : il povero ragazzo non riusciva ad articolar parola. Finalmente balbettò: — Mi dispiace assai che andiate via — e, volto al signor Havisham: — Grazie anche a voi, signore! È un bambino straordinario... — Non poté dire altro perché un grosso nodo gli faceva groppo alla gola. Strinse più volte la mano al piccolo lord, pensando che non l’avrebbe rivisto mai più. Ma il più commovente fu, naturalmente, l’addio al signor Hobbs. Quando, alla vigilia della partenza, Sua Signoria gli portò trionfalmente un magnifico orologio d’oro con la catena, il droghiere non fu capace di articolare una parola e cominciò a soffiarsi energicamente il naso. — C’è inciso qualcosa nell’interno — disse il bimbo — sono stato io a suggerirlo all’orefice. Al signor Hobbs, il suo più caro amico Lord Fauntleroy. Guardandolo, pensatemi. Il signor Hobbs continuò a soffiarsi il naso più rumorosamente che mai.
— Non c’è pericolo che vi dimentichi — affermò poi con energia — voi piuttosto fra quei signoroni aristocratici... — Non vi dimenticherò, signor Hobbs, ve lo assicuro, e spero che verrete a trovarmi in Inghilterra. Il nonno, quando gli avrò parlato di voi v’inviterà certamente e voi non rifiuterete il suo invito anche se è un conte, non è vero? — Verrò per amor vostro — si degnò di promettere il signor Hobbs. Così fu deciso fra i due, che se il conte avesse pregato, con una lunga lettera, il degno droghiere di voler onorare della sua presenza il castello dei conti di Dorincourt, il suo adorato droghiere avrebbe messo da parte le sue idee repubblicane e si sarebbe imbarcato per andare in Inghilterra.
II. FAZZOLETTO ROSSO
L’ora della partenza era giunta! Cédric, ritto davanti allo sportello della carrozza, con un piede sul predellino, aspettava la madre. Ad un tratto ebbe un senso strano d’isolamento gli sembrò che d’ora in poi sarebbe stato solo nel mondo e nella vita, senza più l’affetto del signor Hobbs né di Dick; provò freddo al cuore e si fece pallido come un morticino. Anche la signora Errol era pallida e aveva gli occhi umidi mentre saliva in carrozza. Cédric sentì che per tutti e due il momento era doloroso, strinse forte le belle mani della mamma e sussurrò : — Abbiamo amato molto la casetta che lasciamo e l’ameremo sempre! Non dimenticheremo niente e nessuno, non è vero, Diletta? — Mai, amor mio, cuor mio — rispose la povera signora — Non dimenticheremo mai niente e nessuno. Poco dopo erano sul piroscafo. È impossibile descrivere la confusione che c’era lì intorno: una folla immensa, composta di bimbi, di donne e di uomini d’ogni età e d’ogni ceto si assiepava sulla erella. Si vedevano visi ridenti e visi malinconici, si udivano risate e singhiozzi. I marinai svolgevano le corde, gli ufficiali impartivano ordini, i facchini caricavano e scaricavano bauli e valigie. Cédric guardava interessato la folla, i marinai, gli ufficiali, gli ultimi preparativi, quando gli si parò dinanzi Dick ansante, affannato : — Ho fatto appena in tempo! Col solo guadagno di ieri ho potuto comprarvi questo — gridava sventolando un fazzoletto — portatelo con voi laggiù. — Parlava in fretta e stava ancora parlando quando si sentì il suono d’una campana e il lustrascarpe fece appena in tempo a saltare a terra che la erella fu tolta e il piroscafo cominciò a dondolarsi lentamente.
— Addio — si sentiva ripetere — buon viaggio, scrivete. — Addio Dick e grazie — urlò il piccolo lord con quanto fiato aveva — addio! — e rimase ancora a sventolare il fazzoletto di seta rossa, un bellissimo fazzoletto con impressi sui bordi ferri e teste di cavallo. Il piroscafo lentamente prese il largo. La signora Errol abbassò il velo sul viso, piangeva.
IN ALTO MARE
La traversata divertì molto il piccolo lord. Un giorno però la signora Errol pensò che era necessario dire al bambino che non avrebbero potuto vivere nella stessa casa. Cédric all’inizio non parve capire, ma quando fu certo che la decisione del nonno era irrevocabile, cadde in uno stato di abbattimento tale che il signor Havisham s’impensierì seriamente; pensò che era una vera fortuna che madre e figlio si potessero vedere tutti i giorni, data la vicinanza della villa al castello. Una separa-zione più completa non sarebbe stata possibile e la salute del bimbo ne avrebbe risentito. Dopo la prima dolorosa impressione, il bimbo parve rassegnato ma non convinto, e l’avvocato lo vide più volte assorto e in preda ad una malinconia niente affatto infantile. La povera madre aveva adoperato tutti i mezzi per persuaderlo. — Figliuolo mio — gli aveva detto — il nonno è tanto solo e tu devi fargli compagnia. Sei troppo piccino per capire certe cose, ma pensa che tu potrai venire tutti i giorni da me a raccontarmi le meraviglie del castello… tuo padre mi diceva che è bellissimo. La signora, d’accordo con l’avvocato, aveva avuto la prudenza di non dire al figlio il motivo che la bandiva dal castello, poiché il piccoletto, se lo avesse saputo, non avrebbe potuto amare il nonno con serena fiducia. — Non mi piace affatto — disse un giorno il piccolo lord all’avvocato — non mi piace affatto dover vivere separato dalla, mamma. Ma in questo mondo ci sono molte noie e molti dolori che bisogna saper sopportare: Mary lo dice sempre, lo dice anche il signor Hobbs e mammina desidera che io vada a stare col nonno perché, vedete, tutti i suoi bambini sono morti e questo è molto doloroso! Quando un uomo perde tutti i suoi bambini è infelicissimo, io devo consolarlo e rallegrarlo; non sono suo nipotino per nulla. — E credete di poterlo amare? — Certamente! tutti i nipotini amano il nonno.
— E credete che egli vi amerà? — Più che certamente, del resto egli mi ama di già! Non vi avrebbe dato tutto quel denaro per me e non vi avrebbe detto di accontentarmi in tutto se non mi amasse. La storia del piccolo lord era conosciuta dai eggeri e tutti facevano a gara nell’interrogarlo. Era semplicemente delizioso Cédric quando, mani sui fianchi, berrettino sulle ventitré, eggiava e conversava, ma la sua preferenza era per i marinai e da loro si faceva raccontare storie d’ogni genere. Fra i più vecchi, uno di nome Ierry lo ammaliava addirittura coi racconti più strani che la fantasia umana avesse potuto ideare. A dargli retta egli aveva fatte oltre tremila traversate con altrettanti immancabili naufragi. Era sempre capitato in isole sconosciute ai geografi, asilo di cannibali che l’avevano abbrustolito più volte e pare che qualche parte del suo corpo fosse stata mangiata più d’una volta. La pelle della testa, poi, gli era stata strappata più di quindici volte. — Ecco perché è calvo — diceva Cédric alla madre. — Non tornano i capelli quando la pelle della testa è stata strap¬pata tante volte. E si può perdere anche la memoria.
IN INGHILTERRA
Dopo undici giorni dall’addio del piccolo lord al lustrascarpe, il piroscafo attraccò a Liverpool e il giorno seguente una carrozza trasportava i nostri viaggiatori dalla stazione della strada ferrata alla palazzina che la vedova Errol avrebbe dovuto abitare. Il sole era tramontato da un pezzo e la strada, fiancheggiata da alberi secolari, era quasi buia, sicché non si poteva veder nulla; ma ad una svolta un fascio di luce, che usciva da una gran porta aperta, illuminò un buon tratto del viale. Dopo pochi minuti la carrozza era ferma e i viaggiatori varcavano la soglia della palazzina. I servi, che attendevano nell’atrio, videro entrare per primo il bel bimbo biondo che corse ad ab¬bracciare e baciare Mary. La fedele domestica non aveva lasciata la sua signora ed ora l’aveva preceduta alla palazzina. — Grazie, Mary — disse la mamma di Cédric — vicino a te mi sentirò meno sola. I servi guardavano con curiosità la madre e il figliuolo: ricordavano la collera del conte pel matrimonio del capitano e compativano con tutta l’anima la vedova e il piccolo lord. Questi, abituato a servirsi da se, si tolse il cappottino e si mise a guardare i quadri e le corna di cervi, che ornavano le pareti. - È molto bella questa casa — disse — ed è anche grande, sono contento che tu debba abitar qui, mammina. Certo era davvero grande e bella, specialmente se paragonata alla modesta casetta d’America. Anche la camera dove Mary li accompagnò era bellissima: ampia, con mobili di grande stile e con un bel fuoco nel caminetto, dava un senso d’intimità riposante che sollevò molto la povera signora. Acciambellato sul tappeto, davanti al caminetto, un magnifico gatto d’Angora, bianco come la neve, dormiva. Cédric si mise subito ad accarezzarlo.
— Ve l’ha mandato la governante del castello, una buonissima signora — spiegò Mary. — S’è occupata lei stessa dell’arredamento della villa. Mi ha raccontato oggi che ha conosciuto il capitano e l’amava molto; infatti non la finiva più di tesser le sue lodi. Le ho detto, a mia volta, che ha lasciato un figliuolo che è il più bel bambino di questo mondo. Appena furono pronti, Cédric e la madre scesero nella sala da pranzo. Anche qui i mobili scolpiti, le poltrone comodissime e i quadri d’autore avrebbero dovuto attirare l’attenzione del bimbo, ma il gatto l’aveva seguito, e Cédric non s’occupava che del bel gattone sdraiato sulla pelle di tigre davanti al fuoco. La signora Errol parlava sommessamente con l’avvocato, in modo che il piccino non potesse sentire. — Lasciatelo con me questa notte — sussurrò. — Certamente — rispose l’avvocato — andrò io a parlare col conte. — E d’un’altra cosa vorrei pregarvi: dite al conte ch’io non intendo prendere il denaro che mi ha offerto e di cui mi avete fatto cenno a New York. — Quale denaro? Non vorrete parlare dell’assegno mensile che ha deciso di arvi? — Proprio di quello. Mi parrebbe di vendergli mio figlio. Accetto la casa perché mi permette di vedere il mio bambino, ma ai miei bisogni basterà la mia piccola rendita; d’altra parte, non posso accettare il denaro da un uomo che mi odia fino al punto di non volermi vedere e che mi separa dal mio bambino, che è poi il figlio del figlio suo. — Sarà un affar serio — osservò il legale — sarà un affare molto serio! Non vorrà capire e andrà su tutte le furie. Lo conosco bene. — Capirà benissimo invece. Gli cedo Cédric ma rifiuto il denaro. — Sarà un affar serio — ripeté l’avvocato, — ci proverò, ma... — e uscì per recarsi dal suo signore.
Lo trovò, secondo il solito, in biblioteca, col piede gonfio per la gotta, appoggiato sullo sgabello e col viso più impenetrabile che mai. — Eccovi di ritorno, Havisham ! — disse mentre questi s’inchinava ossequioso. — Raccontatemi dunque! Com’è andata? — Lord Fauntleroy è alla palazzina con la madre e sta bene. Tanto lui che la signora hanno fatto un ottimo viaggio. — Sappiate, Havisham, che non voglio sentir parlare affatto della madre: voi dovete comunicarmi solo ciò che riguarda il bambino. Com’è? — Non è facile giudicare un bambino di sette anni. — Un monello sciocco e maleducato dunque! Lo prevedevo! Sangue americano! — Non credo ne sia stato danneggiato e, sebbene non mi intenda di bambini, direi che vostro nipote è bello. — Alto, ben fatto, sano? — Da ciò che appare sì. — Ed è bello, avete detto? Gli occhi del segretario luccicarono: rivedeva l'incantevole piccino biondo intento a giocare col gatto d’angora e rispose : — Ripeto, non m’intendo di bambini, ma questo mi piace. Certo è molto diverso dai nostri bimbi inglesi. — Lo credo: sarà sfacciato e petulante come tutti i ragazzi americani. L’avvocato non contraddiceva mai il suo nobile padrone, specialmente quando era tormentato dalla gotta, ma questa volta s'arrischiò di dire: — Credo non sia precisamente così: è un miscuglio di precocità, d’ingenuità e d’innocenza. — Impertinente e sfacciato; ecco che cos’è.
Fin dal principio del colloquio il conte aveva offerto al legale un bicchiere di Porto e il signor Havisham, mentre si portava il bicchiere alle labbra e sorseggiava lentamente, disse : — Ho un messaggio della signora Errol per voi. — Non voglio saper niente di quella donna. — Ma è necessario — s’affrettò a soggiungere l’avvocato. — Si rifiuta d’accettare il denaro che le avete assegnato. Il conte trasalì. — Che significa questo? — Dice che non ne ha bisogno e che siccome le vostre relazioni non sono affettuose... — Non sono affettuose... altro che affettuose... io l’odio... una venale americana... — Mi dispiace, milord, ma non potete dirla venale! Non chiede nulla, e rifiuta quel che le offrite. — E’ una commediante, ma non la spunterà: che lo voglia o no, avrà il suo assegno. — Non lo spenderà. -Non me ne importa nulla; mi importa che poi non potrà mai dire che io la faccio languire in miseria. Chi sa di quali arti si è servita per inimicarmi il bambino. — Sul mio onore — disse il segretario mettendosi una mano al petto, — sul mio onore posso giurarvi che il bambino vi crede l’uomo più buono del mondo e che ignora perché la madre debba vivere sola alla palazzina. Il conte scosse il capo con un sorriso sprezzante. — E un’altra cosa devo dirvi, e perdonatemi se mi permetto — continuò l’avvocato. — Non gli parlate leggermente della madre se vi preme che egli vi
ami. —Ma via, non è che un bimbo di sette anni. — Sì ma in questi sette anni è stato sempre al fianco della madre. Il bimbo l’adora — concluse il signor Havisham.
IL CASTELLO DEL CONTE DI DORINCOURT
Il giorno seguente, nel tardo pomeriggio, la carrozza che doveva condurre al castello il piccolo lord prese la strada del viale. La bellezza dei cavalli, i finimenti lucidi, e specialmente stemma che fregiava gli sportelli, avevano destato l’ammirazione del bambino e, giunti al cancello, i due leoni di marmo che sembrava stessero a guardia dell’ingresso, gli strapparono un piccolo grido. Il cancello era stato aperto da una giovane donna seguita da due bimbi che s’inchinò a Sua Signoria e disse ai suoi figlioletti di fare altrettanto. — Certo mi conosce — pensò Cédric — e le tese gentilmente la mano; gli occhi della donna brillarono di gioia. — Che Dio benedica il vostro cuoricino — disse — siate il benvenuto fra noi e buona fortuna! —Mi piace quella donna — disse Cédric — si vede che ama i suoi bambini; vorrei poter venire a giuocare con loro. Il signor Havisham, che l’accompagnava, giudicò superfluo dirgli che non era permesso ai piccoli lords giuocare coi figli del guardiano del parco. La carrozza correva fra due file di alberi secolari che ombreggiavano il viale e coi rami curvati ad arco formavano una lunghissima volta di foglie verdi. Cédric non aveva mai visto niente di più bello di quel parco principesco, dove ogni tanto s’incontravano delle immense radure con aiuole ricche di fiori esotici e profumati. Qualche coniglio si mostrava un istante o correva a nascondersi, coppie di pernici si levavano in volo, gazzelle agilissime fissavano la carrozza col loro occhio intel-ligente e dolce e innumerevoli uccelli cantavano tra i rami. Ma quello che maggiormente meravigliò il piccino fu una coppia di daini sdraiati su una radura. -È ato un circo qui? — chiese stupito all’avvocato.
— Di chi sono quei daini e dove abitano? — Sono di vostro nonno e abitano nel parco — rispose l’avvocato. Lord Fauntleroy batté le mani. — Che meraviglia! — esclamò — Ma quanto è lungo questo viale? — Poco più di cinque miglia — rispose l’avvocato, sorridendo dello stupore del fanciullo. Finalmente apparve il castello: grande, grigio, merlato, imponente. Torri e torrette lo abbellivano; finestre ogivali, bifore e trifore rispecchiavano l’oro del tramonto, l’edera s’abbarbicava qua e là alle mura e sul davanti un largo spazio con terrazze e aiuole di fiori completava il bellissimo quadro. — Com’è bello! com’è bello! — ripeteva incantato il piccolo lord. — Questo è il castello delle fate. Erano arrivati. Nella gran porta d’ingresso spalancata, due file di camerieri in livrea lo guardavano col massimo rispetto; davanti a loro una vecchia signora, vestita molto semplicemente di seta nera, gli sorrise. — Ecco lord Fauntleroy, signora Millon — disse l’avvocato che stringeva nella sua la manina del piccolo lord. — Lord Fauntleroy, ecco la signora Millon, la guardiana del castello. Cédric le tese la mano. — M’hanno detto che siete stata voi a mandare il gatto alla mamma per me; ve ne ringrazio assai. — Avrei riconosciuto Sua Signoria dovunque l’avessi incontrata — esclamò la governante dopo averlo guardato con tenerezza — è il ritratto del capitano. Questo è per me un gran giorno, piccolo lord.
IL VECCHIO E IL BIMBO
— Lord Fauntleroy, milord — annunziò solennemente il cameriere gallonato, sollevando la pesante cortina. Sentiva che era un giorno solenne quello in cui il conte riceveva per la prima volta il suo erede. La tenda ricadde alle spalle di Cédric e il bimbo si trovò nella biblioteca del castello. Nel primo momento il piccolo lord credette che la stanza grandissima fosse deserta. Si guardò intorno: le pareti erano ricoperte di scaffali colmi di libri e nel mezzo c’erano mobili lussuosi. Tende ricchissime nascondevano le finestre e il sole che volgeva al tramonto non riusciva ad illuminare la stanza. Ma Cédric non si scompose; fissò l’ampio camino dove ardeva un bel fuoco e scorse lì accanto la figura severa di un vecchio sprofondato in un’ampia poltrona: subito s’avviò da quel lato. Il conte non aveva detto una parola, non s’era mosso, non aveva neanche sollevato le palpebre, ma Dougal, il grosso cane lupo che gli stava accucciato accanto, aveva levato il muso e si dirigeva lentamente verso il fanciullo. — Dougal, qua Dougal, subito — tuonò la voce del conte, credendo che l’erede avesse paura. Ma il piccolo cuore di Cédric non era pauroso, posò la mano sul collo del grosso cane e avanzò verso il vecchio. Vide, quasi affondata tra i cuscini della poltrona, la nobile figura altera dagli occhi infossati, dai capelli bianchi, dal gran naso aquilino, poi vide il piede gonfio posato sullo sgabello. Anche il vecchio finalmente guardò il piccino e gli parve che l’incantevole bimbo biondo, vestito di velluto nero col colletto di trina bianca, avesse portato la luce nel gran salone in penombra. Il visetto roseo, incorniciato di capelli, sorrideva affettuoso e i grandi occhi blu fissarono il conte con un’espressione co¬sì tenera che al vecchio egoista parve di sentirsi carezzare il cuore.
— Siete voi il conte? — disse Cédric, stringendo con la manina grassoccia e morbida quella asciutta e grinzosa del nonno. — Io sono il vostro nipotino che il signor Havisham è venuto a prendere in America. Sono lord Fauntleroy. Il conte rimase senza parola dinanzi a quella semplicità gentile e spontanea. Capì che doveva rispondere qualche cosa e dopo qualche istante di silenzio domandò: — Siete contento di vedermi? — Tanto — rispose il piccolo lord. Vide una poltrona vicina al conte e ci si mise a sedere. Le gambette non toccavano il suolo e la personcina scompariva nel sedile troppo grande per lui. Guardò ancora il nonno con attenzione rispettosa e disse: — Ho cercato tanto d’immaginare il vostro viso; credevo che somigliaste al mio papà. — Ebbene? — chiese il conte. — Io ero molto piccolino quando papà morì, perciò non posso ricordarlo bene, ma non credo che gli somigliate. — E ve ne dispiace, naturalmente. — Oh no; certo mi avrebbe fatto piacere, ma un nonno piace sempre a un nipotino. Io credo che si amano sempre i parenti e si ammirano. Il conte non rispose, ma pensò tra se che non aveva mai ammirato nessuno nella sua vita. — E poi — aggiunse Cédric — voi siete stato tanto buono con me che mi è impossibile non amarvi. — Ah ! — fece il conte sorpreso — io sono stato buono con voi? — Certamente —continuò Cédric —e vi ringrazio per Dick, per Brigitte e per la venditrice di mele. — Dick, Brigitte, la venditrice di mele... ma chi è questa gente?
— Sono miei amici, ma voi non li conoscete ed è necessario che vi spieghi. E il piccolo lord si mise a narrare con molta enfasi, nei più piccoli particolari, la storia di Dick, di Brigitte, della venditrice di mele, del signor Hobbs e concluse: — Voi avete reso felice non solo me, ma anche i miei amici, credetemi. Dick, coi primi denari che ha guadagnato dopo il vostro regalo, mi ha comprato questo bel fazzoletto — e mostrò al nonno il famoso fazzoletto rosso con le teste di cavallo, spiegando: — è per il collo, ma si può portarlo anche in tasca, sapete. Si mise poi a parlare del signor Hobbs e senza avvedersene si lanciò in una vera conferenza politica. Disse dell’elezio¬ne del Presidente, del corteo, della musica, dei discorsi, delle bandiere, delle fiaccolate dei fuochi d’artificio e più infervorato che mai si mise a narrare gli episodi della guerra d’indipendenza. Ma sul più bello divenne rosso e tacque improvvisamente. — Ebbene — disse il conte — che cosa vi piglia adesso? Perché non continuate? — Scusatemi — la voce del bimbo era umile— scusatemi, io dimenticavo che voi siete inglese e che forse qualcuno dei vostri parenti può essere rimasto ferito o morto. — Rassicuratevi, non c’era nessuno dei miei ma a quel che sembra, dimenticate che siete inglese anche voi. Cédric lo guardò attonito; era desolato di dover contraddire il nonno, eppure rispose, e il visetto gli era diventato rosso: — Oh no, io sono americano. — Voi siete inglese, perché vostro padre lo era. — Perdonatemi se vi contraddico, ma io sono nato in America e sono americano e ho promesso al signor Hobbs che se ci sarà un’altra guerra fra gl’inglesi e gli americani io starò con gli americani. Il conte sorrise. Odiava l’America e gli americani, ma pensò che da un buon americano poteva derivare un discreto inglese. Intanto fu annunciato che il cibo era pronto. Cédric saltò dalla sedia, s’accostò al
nonno e guardandogli il piede fasciato: — Volete permettermi d’aiutarvi? — disse gentilmente — vi potete appoggiare sulla mia spalla. Una volta il signor Hobbs, s’era fatto male a un piede; gli era caduto sopra un barile di patate e s’appoggiava a me per camminare. Il conte guardò quel cosino e gli chiese : — Credete di potermi aiutare? — Sì che lo posso, ho buoni muscoli, sapete. Dick diceva che per un ragazzo di sette anni ho buoni muscoli. Alzò il braccio e strinse il pugno per far risaltare i suoi muscoli. — Proviamo — disse il conte. Cédric gli porse il bastone e volle aiutarlo a sollevarsi dalla poltrona; il vecchio si alzò e sebbene la gotta non gli risparmiasse dolorose fitte, non fece udire lamenti, s’appoggiò al bastone e posò l’altra mano sulla spalla del bimbo cercando di non appesantirsi troppo da quel lato. — Appoggiatevi pure — diceva il piccolo lord — io camminerò adagio, vedrete che arriveremo bene, se la strada non è troppo lunga. — Non credete di farmi male — proseguiva il piccino, — appoggiatevi liberamente. Voleva far onore ai suoi muscoli il piccolo lord, ma il visuccio gli era diventato rosso, il cuoricino gli batteva a precipizio e grosse gocce di sudore gl’imperlavano la fronte; anche se non si dava per vinto. — Vi fa molto male il piede? — chiedeva al conte — L’avete mai messo nell’acqua calda e senapata come faceva il signor Hobbs? Anche l’arnica fa molto bene. Il cameriere che li seguiva era stupito dagli sforzi che faceva quell’ometto per sopportare il peso non indifferente per lui ed anche il conte lo guardava di sfuggita con un’espressione singolare che nessuno gli aveva mai veduto.
Finalmente raggiunsero la poltrona a capo tavola e il conte levò la mano dalla spalla di Cédric. Dritto, dietro la poltrona del conte, stava un secondo cameriere che per poco non era rimasto a bocca aperta a quello spettacolo. Cédric s’asciugava la fronte col fazzoletto dell’amico lustrascarpe. — Siete stanco? — gli chiese il conte — Avete fatta molta fatica a sorreggermi? — No, no — s’affrettò a rispondere il bimbo. — Ho avuto solo un po’ caldo! Fa caldo stasera, sapete! Il posto di Cédric era dall’altra parte della tavola, dirimpetto al nonno ed egli lo scorgeva appena attraverso una fantasmagoria di cristalli, di argenteria, di fiori. Tutto vi era grandioso, ancor più che in biblioteca e il bimbo scompariva addirittura in quella enorme poltrona dallo schienale altissimo. La vita solitaria non impediva al vecchio conte di circondarsi di ogni magnificenza: entrando in quel grande salone si sarebbe supposto di dover assistere ad una serata di gala e non alla cena di un vecchio di settanta anni, malato di gotta per giunta, e d’un bimbo di sette anni, ingenuo e semplice. Il piccolo lord si guardava intorno estasiato. Il conte quella sera, a tavola parve trovar tutto di suo gusto; poiché bisogna sapere che, per il povero cuoco, preparare il desinare del conte era una vera e seria preoccupazione. Nulla era ben fatto secondo lui e spesso i rimproveri erano aspri e pungenti. Ma quella sera tutto andò bene; il conte era occupato ad osservare il nipote, e pareva non accorgersi d’altro. — Com’è bello qui! — disse il piccolo lord — che bella casa avete! Certo sarete superbo di possederla. — Vi piace? — chiese il nonno. — Tanto! E non solo è bella, è anche molto grande ! Non credete voi che sia troppo grande per essere abitata da duo persone sole? Se non si fero molta compagnia sembrerebbe loro di abitare in un deserto. — E... credete che noi ci faremo buona compagnia? Chiese il conte.
— Ne sono sicurissimo: io e il signor Hobbs ci facevamo tanta compagnia. Il signor Hobbs è il mio migliore amico, dopo Diletta, s’intende. — Chi è Diletta? — È la mia mammina — disse Cédric — la chiamo così perché così la chiamava il papà. Brigitte, Michele, Dick, il signor Hobbs sono miei amici, ma la mia mamma è la mia più grande amica ed io l’amo con tutto il mio cuore — Tacque. Pensava che per la prima volta, da che era al mondo, sarebbe andato a letto senza il suo bacio, senza la sua carezza; aveva proprio bisogno di piangere, ma si fece forza e quando il conte s’alzò da tavola per tornare in biblioteca, gli offrì di nuovo la spalla ; il conte vi si appoggiò un po’ meno pesantemente della prima volta. Quando il maggiordomo li lasciò soli, Cédric sedette sul tappeto vicino a Dougal e rimase in attitudine pensosa e mesta. — A che pensate, Fauntleroy? — chiese il vecchio. — Penso a mammina —rispose Cédric. S’alzò e si mise a eggiare a fronte alta e con o risoluto, ma il povero piccolo cuore gli doleva dentro. — Venite qui — disse il nonno — che avete? Il bimbo ubbidì. — Io non ho lasciato mai la mia casa — spiegò Cédric, — e il pensiero che questa sera dormirò solo, mi fa un’impressione strana. D’altra parte ho sette anni, non sono più un bambino e poi posso veder la mamma quando voglio. Eccola. Mise la mano in tasca e ne tirò fuori un minuscolo astuccio di velluto viola; premette una piccola molla, la scatoletta s’aprì e apparve una soave figurina di donna; s’accostò al nonno e ripeté, mettendogli il ritratto sotto gli occhi : — Ecco Diletta mia. Il conte corrugò le sopracciglia, ma suo malgrado dovette guardare il ritrattino e vide un dolce viso di donna somigliantissimo al volto del piccolo lord.
— E l’amate molto? — chiese. — Oh tanto, tanto, tanto! Il signor Hobbs è mio amico, Dick, Mary, Brigitte, Michele sono miei amici, ma la mamma è molto di più... Mio padre me l’ha lasciata ed io l’amerò sempre e quando sarò grande lavorerò per lei. — E cosa contate di fare? — domandò il conte incuriosito. — Potrei associarmi al signor Hobbs e fare il droghiere, però mi piacerebbe molto anche fare il Presidente. — Vi manderemo invece alla Camera dei lords — disse il nonno sorridendo. — Ebbene, se non posso essere Presidente e se è un buon affare entrerò dove mi consigliate, non dico di no. Tacquero entrambi e dopo una mezz’ora, quando il signor Havisham entrò in biblioteca, il conte gli fece cenno con la mano, raccomandandogli il silenzio. Dougal e il piccolo lord dormivano.
I DONI DEL NONNO
La mattina nella sua bella camera di bimbo Cédric udì nel dormiveglia un sommesso sussurrar di voci, un allegro crepitìo di fiamma. Due donne parlavano fra loro, ma a voce tanto bassa che appena poteva udirsi il loro bisbiglio. — Mi raccomando, Dawson; bisogna che il bimbo non sappia perché deve star lontano dalla madre. — Sua Signoria sarà ubbidita, ma signora, fra noi si può parlare; è una vera infamia strappare dalle braccia di quella povera vedova la sua creatura. Ieri sera a cena Giacomo e Tommaso dicevano che non hanno mai visto un bimbo così grazioso ed educato. Seduto dirimpetto a Sua Signoria discorreva con lui e lo guardava come se fosse il suo più caro amico. Ma anche il signor conte lo guardava in un modo…! È certo che quando io e Giacomo siamo andati a prenderlo per portarlo a letto, Sua Signoria ha detto a Giacomo: « Badate di non svegliarlo». Era proprio un amore con quel visino rosso e quei riccioli biondi sparsi sul collo. Cédric in quel momento aprì lentamente gli occhi, guardò le due donne, riconobbe la signora Millon e le sorrise. — Buon giorno, signorino, avete dormito bene? — chiese la governante. — Buon giorno, — rispose Cédric — dove sono? — Nella vostra camera, signorino; vi ci hanno portato iersera mentre dormivate. Ecco, Geltrude si occuperà di voi. — Grazie, signora, di volervi occupare di me, — e Cédric stese la mano a Geltrude. La governante sorrise. — Chiamatela Geltrude, signorino.
— Signora o signorina? — Semplicemente Geltrude — rispose la domestica — e che Dio benedica la vostra animuccia. Volete che vi vesta ora? — So vestirmi da solo, ho sette anni, ma agganciare i bottoni mi riesce difficile qualche volta, e allora mi aiuterete — disse Cédric con la sua solita grazia. — Farete come meglio vi aggrada, signorino; io son qui ai vostri ordini. Appena vestito ò nella stanza vicina per far colazione. Anche questa stanza, come la camera da letto, era spaziosa, rivestita di tappezzerie chiare, e lieta di sole. La colazione appetitosa era pronta, e il servizio così grazioso che il bimbo non poté far a meno dall’esclamare, allargando le braccia : — Non vi sembra, Geltrude, che io sia un bimbo fortunato? Guardate quante cose belle ho intorno a me! — Nei primi giorni vi fa questo effetto, ma poi vi abituerete, signorino, e vedrete com’è tutto bello qui. — Veramente bello ma — aggiunse con un sospiro — io sarei tanto più contento se potessi avere con me la mia mammina. Stavamo sempre insieme e la mattina ero io a metterle lo zucchero nel caffè e latte, sapete? — Ma voi — disse allegramente Geltrude — potete andare da lei tutte le volte che volete e pensate come sarete contento di poterle raccontare tante cose. Il castello è bellissimo; è il più grande della provincia. C’è poi nella scuderia un cavallino che vi piacerà assai... — Davvero? — rispose Cédric — a me piacciono molto i cavalli, mi piaceva anche Jim, il cavallo del signor Hobbs. — Vedrete come son belli quelli che stanno nella scuderia! Ma, voi non sapete ancora che cosa c’è nella stanza accanto. Mangiate dunque, e ve la farò vedere. Geltrude parlava con una cert’aria di mistero che incuriosì Cédric. Il fanciullo finì in fretta di mangiare e balzato in piedi pregò Geltrude :
— Mi fate dunque vedere? E la donna sempre con aria misteriosa lentamente si diresse alla porta e finalmente aprì. Il piccolo lord s’arrestò di botto sulla soglia e rimase per qualche istante in silenzio col visetto rosso di gioia. La stanza che gli era apparsa era gremita di giocattoli. Mai fantasia di bimbo avrebbe potuto immaginarne di più belli e in numero maggiore. — Ma questo è il paese dei balocchi — esclamò Cédric — E di chi sono? — domandò movendo estatico lo sguardo da uno all’altro. — Vostri. — Miei?! È il nonno che me li regala! Il nonno mio, tanto caro e buono, che cerca di rendermi felice! Oh quanto l’amo, Geltrude! Voi non potete immaginarlo. — Sì — rispose la domestica, — è Sua Signoria che ha pensato a tutto, e se sarete buono e ubbidiente, e soprattutto se sarete sempre allegro, avrete tutto quello che vorrete. Per l’intera mattinata Cédric non fece altro che are in rivista i suoi giocattoli con crescente entusiasmo. — Pensate, Geltrude, prima ancora di conoscermi, il nonno ha voluto rendermi felice. Com’è buono il mio nonno, non è vero? Credete che al mondo ce ne sia un altro buono come lui?! La donna non rispose: sapeva, ed era certa di non sbagliare, che non c’era al mondo un essere più violento e più intrattabile del suo padrone. — Povero bambino — mormorò tra sé — speriamo che duri la sua illusione! Tommaso, il cameriere particolare del conte, aveva narrato a Geltrude e ai compagni quel che aveva sentito dire da sua Signoria al signor Havisham. — Riempitegli la camera di giocattoli e la tasca di denari, appagate ogni suo
desiderio, dategli tutto quello che lo può divertire ed egli dimenticherà la madre. Ma il cuore di Cédric era così attaccato alla madre che il conte, fin dal primo colloquio col bimbo, capì che non gli sarebbe stato facile raggiungere il suo scopo. Aveva perciò ata una pessima notte e se n’era rimasto solo in camera, per tutta la mattina. Solo nel pomeriggio fece chiamare il nipote. Subito il Conte udì la vocetta squillante ed il o leggero del bimbo e se lo vide davanti biondo, ridente, felice. — Desideravo tanto vedervi —disse il piccolo abbracciandolo, e la sua voce era una musica giocosa — volevo ringraziarvi; non sono stato mai tanto felice! Quanto siete buono! — E così v’è piaciuto quello che avete trovato in camera? — Tanto, tanto — e il volto del bimbo era radioso — proprio non vi so dire quanto. C’è un gioco soprattutto che mi piace infinitamente. Somiglia un po’ al gioco della palla, volevo giocare con Geltrude, ma non m’è riuscito. Lei naturalmente non ha mai giocato alla palla, è una signora, ma, voi lo conoscete di certo. — Credo di no; è un gioco americano, qualche cosa come il cricket, mi pare. — Non conosco il cricket, ma il signor Hobbs m’ha portato spesso a vedere il gioco della palla; è una cosa, bellissima. Volete che vada a prendere il mio giuoco e che ve lo faccia vedere? Forse vi farà dimenticare il vostro male. Vi fa soffrir molto il piede? — Più di quello che vorrei. — Temo di annoiarvi allora. Che ne pensate? Sarà una distrazione o una noia? — Andate a prenderla la vostra scatola — disse il nonno. Dopo un istante Cédric tornava correndo con la sua scatola stretta al cuore. — Posso avvicinare questa tavola alla vostra poltrona? — chiese il bimbo. — Chiamate Tommaso.
— Oh non c’è bisogno, posso fare da me. — E allora fate pure. Il tavolino fu presto accanto alla poltrona del conte e Cédric si fece un punto d’onore d’istruir per bene il nonno prima d’iniziar la partita. — Ecco — disse — gli omini neri saranno i vostri e questi bianchi i miei. Dobbiamo considerarli uomini veri. Ora state bene attento: ogni giro intorno al campo conta per un punto, questi sono i quattro varchi da cui la palla deve are e questi sono i limiti. La lezione fu lunga e minuziosa, tanto più perché interrotta dalla descrizione particolareggiata di una partita alla quale il piccolo lord aveva assistito in compagnia del signor Hobbs a New York. Poi, essendosi il conte mostrato uno scolaretto intelligente e diligente, la partita poté avere inizio. Era qualche cosa di pittoresco e di singolare vedere il bel vecchio aristocratico intento al gioco, accettare con sorriso benevolo le istruzioni e le correzioni dell’incantevole piccino che, vivace, animato, con gli occhi e le labbra sorridenti, era più bello che mai. Gioiva dei suoi successi come dei successi del vecchio e la sua attenzione era così viva e intensa come se invece che ad un giuoco egli fosse intento ad un lavoro. Proprio mentre una voce infantile esclamava: — Avete sbagliato due volte! Avete perduto due punti! Ma avrete più fortuna quest’altra volta, speriamolo. — Tommaso annunziò : — Il signor parroco, signor conte. Il buon prelato rimase estasiato: vedeva il conte seduto al solito posto col piede gonfio poggiato sullo sgabello, curvo a manovrare degli omini neri accanto ad uno splendore di bimbo biondo e non credeva ai suoi occhi! Quel vecchio che era stato sempre il terrore dei suoi dipendenti, ora si divertiva come il più tenero, il più affettuoso dei nonni, col suo nipotino. Era un vero miracolo! Il buon parroco conosceva a fondo il conte ed era per lui un vero sacrificio varcare la soglia del castello. Il nobile signore faceva di tutto per amareggiare il
poveretto e le meschine elemosine che gli elargiva erano accompagnate da tanto sarcasmo, specie quando lo tormentava la gotta, che piuttosto che beneficenze, potevano dirsi oltraggi... Quel giorno il signor parroco temeva più che mai di presentarsi a Sua Signoria perché sapeva che era sofferente più del solito, da qualche tempo, e sapeva che il giorno prima era giunto il nipote, l’erede, l’americano, del quale il nonno aveva detto tutto il male possibile, prima ancora di conoscerlo, solo perché era americano. Avrebbe fatto volentieri a meno di presentarsi al castello ma la causa che doveva perorare era veramente pietosa e il povero parroco, raccomandandosi al Cielo, s’era fatto annunziare. Stava appunto per varcare la porta della biblioteca, quando sentì la vocetta infantile gridare: «Siete uscito due volte dal campo, avete perduto due punti» e vide il conte giocare con un incantevole bimbo biondo. Il parroco rimase di stucco e avanzò mentre il conte diceva: — Siete voi, Mordaunt? Buongiorno; come vedete sono occupato. — Gli tese la mano e mostrandogli Cédric disse, con un lampo d’orgoglio negli occhi : — Lord Fauntleroy. Fauntleroy, questi è il parroco. Cédric si inchinò e gli strinse la mano: — Sono felicissimo di conoscervi. Il parroco tenne qualche istante nella sua la piccola mano e, attratto dalla grazia semplice ed affettuosa che spirava da quel bambino, rispose: — Anch’io sono felicissimo di conoscervi, lord Fauntleroy. Avete fatto un lungo e faticoso viaggio per venire fra noi, non è vero? — Lungo sì, faticoso no — rispose Cédric —E poi ero con Diletta mia, la mia mammina, e quando abbiamo vicino la mamma si sta sempre bene. - Prendete una sedia, signor Mordaunt — disse il conte; — che desiderate? Il parroco non sapeva come cominciare ed esitò alquanto prima di rispondere e volgendo lo sguardo al piccolo lord, disse:
— Mi rallegro con vostra Signoria. Parve che il conte non gradisse i rallegramenti e ripeté: — Di che si tratta dunque? Di che nuovo malanno mi venite a parlare? — Si tratta di Higgins, quello della fattoria del Cantone. Ha avuto molte disgrazie quest’anno: prima è stato malato lui e non avendo guadagnato nulla non ha potuto pagare l’affitto, poi... — È sempre in arretrato quello —disse il conte. — Ma è anche disgraziato — continuò il parroco. — Dopo di lui sono stati malati i bimbi con la scarlattina ed ora è a letto la moglie. Se Nevick persiste nella sua idea di sfrattarlo, morranno tutti sulla strada; non c’è scampo. Cédric s’era avvicinato al nonno; soffriva il povero piccino al racconto di tante miserie, guardò il conte coi suoi occhioni e disse: — Anche Michele era disgraziato e quando s’ammalava tutto gli andava anche peggio. — Aggiungete — continuò il parroco, che sentiva d’avere un potente alleato — aggiungete che se dovesse andarsene, tutta la famiglia morrebbe di fame proprio! È bene ripeterlo. Dice però che se gli accordate una dilazione, è sicuro di mettersi in regola. — Dicono tutti così — ripeté brusco il conte. Il povero Cédric scosse mestamente il capo : — Proprio come Michele! Anche lui non aveva potuto pagare la pigione e Brigitte piangeva, e voi mi avete dato i soldi e tutto s’è accomodato — E gli occhi del bimbo si fissarono in quelli del nonno in modo così supplichevole, che il conte trasalì. — Dimenticavo che voi siete un filantropo — disse — Vediamo, cosa fareste voi? — Se io fossi il suo padrone lo lascerei tranquillo e gli darei tutto quello di cui
hanno bisogno i suoi bambini. Ma io sono piccolo.... e allora.... — Tacque per un istante, poi soggiunse: — Ma voi, voi siete ricco, voi gli potete accordare quello che desidera. — Lo credete? — Certo. Voi siete ricco e potete regalare quello che volete. Ma Nevick chi è? — Il mio agente. — Allora scrivetegli subito. Volete che vada a prendere la penna e il calamaio? Adesso sgombero subito la tavola. In men che non si dica Cédric presentò al nonno carta, penna e calamaio sul tavolino sgombro. — Ecco tutto pronto; ora potete scrivere. — Dovete scrivere voi — disse il conte — sapete scrivere? — Sì ma se nessuno mi corregge — disse arrossendo un pochino — faccio ancora degli errori... — Non importa — disse il conte. — Sedete e scrivete. — Che cosa gli debbo dire? — Basterà che gli diciate che per ora Higgins non deve essere mandato via. poi firmate: Fauntleroy. Il piccolo lord si mise subito a scrivere. « Carissimo Signor Nevick, vi prego di non mandar via per ora il signor Higgins; ve ne sarò obbligatissimo. Rispettosamente vi saluto, Fauntleroy ». — Ci sono molti errori? — chiese presentando al conte il suo capolavoro. — Non dico di no. — Lo dicevo io! Correggetela per piacere.
Il conte prese la matita e cominciò a correggere, dopo di che Cédric si mise d’impegno a copiare il biglietto che questa volta poté essere consegnato al signor Mordaunt. Il parroco ricevette quel foglio dalle mani del bimbo, che non finiva mai di fare le lodi del nonno, raccontandogli tutto il bene che il conte aveva fatto a Brigitte, a Michele, a Dick, alla fruttivendola di antico lignaggio. — Già, — disse il conte — ecco come ha speso i soldi che avevo dato per lui ad Havisham. Li ha dati a dei mendicanti. — Non erano mendicanti — protestò Cédric — Michele era un bravo artigiano. — Ammetto che non fossero mendicanti, ma rispettabili lustrascarpe, fruttivendole ed operai — disse il conte e guardò sorridendo il nipote, che raccontava al parroco la storia dei suoi amici americani con l’ingenua, solita, semplicità. Quando il parroco si accommiatò, uscì dal castello con il piccolo foglio di carta, ma anche e soprattutto con l’immagine d’un incantevole bimbo biondo che aveva con un atto carità reso memorabile il giorno del suo arrivo, e la speranza che per i dipendenti del conte la vita, d’ora in poi, sarebbe stata meno dura.
LA MAMMA ASPETTA
— Posso andare dalla mamma? — chiese Cédric al nonno quando il Parroco fu uscito. Il conte tacque per qualche minuto. — C’è qualche cosa nella scuderia che dovreste veder prima — disse. — Ve ne ringrazio molto — e il volto del bambino arrossì — ma vi prego di lasciarmi andare dalla mamma. È da stamattina che mi aspetta. — Bene, ordineremo la carrozza. — Lasciò are qualche istante, poi disse, come se pensasse ad altro: — Si tratta d’un cavallino irlandese. — Un cavallino irlandese? e di chi è? — Vostro. — Mio!? come tutte le altre belle cose che m’avete regalate? — Sì — replicò il conte — desiderate vederlo? — Certo che lo desidero e molto, ma oggi non ho tempo. — Ma dunque, è proprio necessario che andiate oggi da vostra madre? Non potete andarci domani?! — Oh ! No! — disse Cédric — è tutta la mattina che io penso a lei e che lei pensa a me. Bisogna che vada. — Ebbene, ordinate la carrozza. Pochi minuti dopo il nonno e il nipotino scendevano in vettura il lungo viale del parco diretti alla villa dove la vedova Errol aspettava il figlioletto suo con trepida impazienza.
Il vecchio conte non parlava, ma il bimbo era tutto uno scoppiettìo di domande sul suo cavallino irlandese; era alto? Di che colore era? Quanti anni aveva? Che cosa preferiva mangiare? Come si chiamava? A che ora l’avrebbe potuto vedere il giorno dopo?! — Come sarà contenta mammina, e quanto vi sarà grata per tutto quello che fate per me! Lei lo sa bene che i cavallini d’Irlanda mi piacciono assai, ma non pensavamo certo che io ne avessi mai potuto avere uno. C’era un ragazzo nella quinta strada a New. York che ne cavalcava uno tutte le mattine e noi avamo sempre davanti alla sua casa per vederlo. S’appoggiò ai cuscini, fissò il nonno e continuò: — Penso che un altro uomo buono quanto voi non ci sia in tutto il mondo. Voi non pensate che a far del bene a tutti; è questa la vostra occupazione? Il conte non seppe rispondere nulla, ma rimase pensoso, mentre Cédric continuava a guardarlo coi grandi occhi innocenti, pieni d’ammirazione. — Avete fatto felice tanta gente, — continuò il piccolo, — Michele, Brigitte e i loro bambini, la venditrice di mele, Dick e lo stesso signor Hobbs perché l’orologio che gli ho regalato l’ho comprato col vostro denaro. Adesso, questo signor Higgins, la moglie e i loro bambini; anche il signor Mordaunt era felice e poi la mamma, e infine me... Ecco le ho contate sulle dita: sono ventisette persone di mia conoscenza che avete rese felici. Non sono poche ventisette. — E sarei io che ho fatto tutto questo? — chiese il conto. — Sicuro, — disse Cédric —eppure c’è gente — soggiunse con un po’ d’esitazione — che s’è ingannata giudicando i conti; lo stesso signor Hobbs si era ingannato. Ma io gli scriverò subito per fargli cambiar parere. — E che cosa gli direte? — Gli dirò che voi siete l’uomo più generoso e più nobile del mondo. — Ma insomma che cosa pensava dei conti il vostro signor Hobbs?
— Ecco... — Cédric esitò — Il signor Hobbs non ne aveva mai visti e credeva, lui che legge tanti giornali, che i conti fossero tutti egoisti e tiranni. Ma se vi potesse conoscere non lo direbbe più. Glielo scriverò io che voi rendete tutti felici... Vi assicuro che quando sarò grande farò il possibile per somigliarvi. —Per somigliarmi? — esclamò il conte attonito, e un lieve rossore gli salì al viso. — Sì, per rassomigliarvi se mi sarà possibile. Però — aggiunse modestamente — forse non ci riuscirò, ma ad ogni modo voglio mettermi alla prova. La carrozza continuava a correre lungo il viale fiancheggiato dagli alberi secolari e Cédric rivide le felci e le campanule, i conigli e le pernici, i daini e i cervi; tutto gli sembrava più bello della prima volta e riguardava tutto con gioia nuova. Ma il vecchio conte non vedeva nulla: il cuore chiuso ed altero gli batteva nel petto a precipizio e riandava col pensiero alla sua giovinezza sciupata in feste balorde, alla maturità senza gioie e a questa sua vecchiaia deserta d’ogni affetto. Tutti lo giudicavano egoista e cattivo, tutti lo temevano, qualcuno perfino l’odiava ma il nipotino lo credeva l’essere più perfetto e voleva imitarlo. Aveva chiuso gli occhi nel bisogno istintivo di concentrarsi mentre il bimbo, credendolo sofferente, taceva. Oltreato il cancello del parco e raggiunta la palazzina, la carrozza s’arrestò e Tommaso venne ad aprire lo sportello. — Siamo giunti? — chiese il conte. — Sì — rispose il piccolo lord, porgendogli il bastone — Appoggiatevi a me e scendete. — Io non scendo — rispose il vecchio. — E perché? Mammina sarà triste di non potervi salutare. Di certo vi starà aspettando. — Non lo credo — rispose il conte — Ad ogni modo mi scà. Arrivederci, Fauntleroy. Manderò a riprendervi.
Fece un cenno del capo a Tommaso che richiuse lo sportello e, mentre la carrozza riprendeva la via del castello, il conte vide Cédric correre verso la palazzina e avvinghiarsi al collo d’una esile figurina bionda, tutta vestita di nero, che gli veniva incontro a braccia aperte.
ALLA MESSA
Mai il piazzale della Chiesa dei conti di Dorincourt era stato così affollato. I fittavoli c’erano tutti, insieme alle loro famiglie, e tutti avevano indossato per la circostanza i loro abiti più belli. Inoltre c’era il medico con la moglie e i figli, il farmacista, il droghiere, la sarta, la modista, la merciaia, insomma tutto il villaggio e, come se questo non bastasse, erano venuti perfino dai villaggi vicini per vedere il nuovo piccolo lord Fauntleroy. Nella settimana precedente, la sarta e la modista avevano avuto un gran da fare e la bottega della merciaia non era rimasta vuota un minuto. La merciaia, la signora Dibblet, essendo cugina d’un cameriere del conte, sapeva ogni particolare e tutti, col pretesto di comprar qualcosa, entravano nella sua bottega per aver notizie. E la chiacchierona ne aveva per tutti: sapeva come erano ammobiliate le camere del piccolo lord, sapeva quali e quanti giocattoli il conte aveva fatto comprare per lui, sapeva del cavallino irlandese bardato d’argento e sapeva anche che il piccolo lord era un amore e che il conte era proprio disumano nel tener lontano da quel bel bambino la sua mamma. E poi la storia di Higgins aveva fatto il giro della provincia e il poveretto aveva dovuto raccontare almeno cento volte com’erano andate le cose. Tutto questo spiega perché quella mattina le case erano rimaste vuote e perché gli abitanti del villaggio, uomini, donne, vecchi e bimbi erano davanti alla chiesa, curiosi e impazienti di veder giungere il piccolo lord col conte. C’era un via vai indescrivibile quando si vide una figurina snella e bionda, vestita a lutto, salire il sentiero che portava alla chiesa. Una donna si voltò a guardarla : — Quella è la madre! — disse forte. — Com’è bella! Tutti si voltarono verso di lei e quando una vecchia le
fece la riverenza dicendo : — Che Dio vi aiuti, milady — e anche gli uomini la salutarono levandosi il cappello. — Vi ringrazio — disse la signora sorridendo gentilmente e ricambiando il saluto; poi in fretta entrò in chiesa. Aveva appena varcato la soglia che si udì il rumore delle ruote e la ricca carrozza stemmata si fermò davanti alla chiesa. Il cocchiere saltò a terra, aprì lo sportello e un bimbo vestito di velluto nero col colletto di trina bianca apparve alla vista di tutti. — È il capitano, così com’era da piccolo — si sentiva ripetere da quelli che l’avevano conosciuto. Cédric ora tendeva al nonno la manina grassoccia e gli offriva la spalla, mentre il conte, aiutato da Tommaso, scendeva dalla carrozza. Era chiaro che se il conte riusciva ad intimidir tutti, il piccino non lo temeva. — Appoggiatevi a me — disse al nonno. — Come questa gente vi ama ed è felice di vedervi! Guardate con che aria affettuosa tutti vi salutano?! — Levatevi il cappello, salutano voi — suggerì il conte. — Me!?... — Il bimbo si levò il cappello e i biondi riccioli baciati dal sole parvero d’oro. — Dio benedica Vostra Signoria — disse la vecchia donna che aveva salutata la madre. — Dio vi benedica e vi accordi una lunga vita. — Vi ringrazio, signora — rispose il piccolo lord. Poi, accanto al nonno, entrò in chiesa seguito dallo sguardo di tutti. Appena preso posto nella tribuna del conte, vide la sua mammina che gli sorrideva; lui ricambiò il sorriso contento, poi cominciò a guardarsi attorno con la curiosità propria della sua età. Ai lati d’un pilastro, sul quale risaltavano scolpiti due messali, in ginocchio, a mani giunte in atto di preghiera, due figure di marmo attrassero l’attenzione del
bimbo. Una lapide, ai loro piedi, riportava questa iscrizione:
Gregorio Arturo Mario Primo conte di Dorincourt qui riposa in Pace Insieme all’eletta compagna Donna Ghiselda Pia. * Una preghiera.
— Chi sono quelli? — chiese sommessamente il bimbo al nonno. — Sono vostri antenati, morti centinaia d’anni fa. Cédric continuò a guardarli con grande rispetto. Intanto la Santa Messa era iniziata e quando i coristi intonarono le melodie liturgiche, la voce del piccolo lord si unì al coro. Col libro di preghiere fra le mani, il bel visetto raggiante di felicità e di salute, gli occhi viola fissi in quelli della madre, Cédric cantava e la sua voce infantile somigliava al trillo d’un uccellino. La madre lo guardava con amore, e la preghiera che elevava a Dio era per il suo piccolo. «Fate, oh Signore, che egli si conservi sempre innocente e puro e che la ricchezza non lo corrompa; fate che egli ami tutti. Ora e sempre». E quello che adesso invocava nella preghiera, l’aveva detto al figlio la sera avanti.
— Cédric mio — gli aveva raccomandato — conservati sempre così: buono, affettuoso, sincero, ed obbediente. Allora tu non solo non farai male a nessuno, ma potrai fare in modo che qualcuno diventi migliore. Solo questo è necessario: che qualcuno diventi migliore per merito nostro. Quando uscirono dalla chiesa un uomo s’accostò al conte, col cappello in mano in atto di grande umiltà. — Ecco Higgins! — disse il conte — Scommetto che è venuto a vedere com’è fatto il nuovo lord. L’uomo arrossì vivamente e chinandosi col massimo rispetto disse : — Se non è troppo ardire da parte mia, vorrei ringraziare il signorino; mi hanno detto che è stato lui ad occuparsi di me. —Siete voi il signor Higgins? — esclamò Cédric tendendogli la mano. — Dovete ringraziare il nonno e non me; voi sapete quanto è buono, non è vero? Gli è dispiaciuto molto quando ha sentito che i vostri bimbi hanno avuta la scarlattina, e anche a me è dispiaciuto. Il povero Higgins, a sentir dire che il conte era buono rimase a bocca aperta e non seppe far altro che girare e rigirare il cappello fra le mani. Il vecchio ebbe negli occhi un lampo d’ironia maliziosa o volgendosi ad Higgins disse: — M’avete giudicato male a quel che pare; d’ora in poi le informazioni sul mio conto dovete chiederle a mio nipote. — e rivolgendosi a quest’ultimo : — In carrozza, Fauntleroy. Cédric saltò nella vettura che riprese la via del castello.
CÉDRIC CAVALLERIZZO
La prima volta che Cédric fece la sua cavalcata mostrò tanto ardimento che il nonno, sempre più orgoglioso delle doti del bimbo, dimenticò perfino la gotta. Wilkins, il palafreniere, aveva portato la piccola bestia, sellata di tutto punto, davanti alle finestre della biblioteca, affinché il conte vedesse coi propri occhi il contegno del bimbo in questa circostanza. Temeva che il nipotino si lasciasse vincere dalla paura e desse segni di debolezza ma non fu così. Cédric, festoso e ridente come non mai, si diresse verso la graziosa bestiola, le accarezzò il collo e la superba criniera lucida e, poi, aiutato da Wilkins, montò in sella e cominciò a eggiare in su e in giù sotto le finestre della biblioteca e, dritto, coi suoi riccioli al vento, volse al nonno l’incantevole visetto e gli sorrise col più amabile dei suoi sorrisi. — Non potrei andar solo ora? Non potrei trottare? — chiese dopo una diecina di minuti. — Credete di esserne capace? — chiese il conte. — Mi proverò. Ad un cenno del signore, Wilkins inforcò il cavallo e prese le briglie di quello di Cédric ma il piccolo lord si accorse subito che camminare non era la stessa cosa che trottare. — Oh!... oh!... oh!... come mi scuote!... Scuote anche voi? — No, milord, tutto sta a farci l’abitudine, sollevatevi sulle staffe. Nonostante le scosse egli si teneva ben diritto sulla sella. I due cavalieri, al piccolo trotto, presto scomparvero agli occhi del
conte che li aveva seguiti con lo sguardo. Quando tornarono Cédric era senza cappello, le guance rosse come spicchi di melagrana matura, le labbra aperte al sorriso e gli occhi brillanti; pareva proprio un vincitore. — Fermatevi — disse il nonno — e il cappello? — Gli è caduto, milord, ma il signorino non ha voluto ch’io scendessi a recuperarlo. — Lord Fauntleroy ha avuto paura? — chiese il conte. — Paura lui?!... No, signor conte; credo che non sappia cosa sia la paura! Ho insegnato a cavalcare a tanti bimbi, ma non ne ho ancora visto uno come il piccolo lord. — Siete stanco? — chiese allora il conte a Cédric — volete scendere? — Veramente scuote più ch’io non credessi, ma vorrei continuare ancora un po’; andrò innanzitutto a raccogliere il cappello e poi mi riposerò. Cédric era proprio l’erede che il conte aveva sempre sognato. L’intrepido contegno del bimbo, la sua grazia innata, tutto l’insieme blandivano il vecchio cuore del conte e l'orgoglio, tante volte umiliato dalla condotta dei primogeniti, prendeva la rivincita. Gli tornavano in mente le parole che una vecchia popolana aveva detto qualche giorno prima a riguardo di Cédric: « Un conte nato, è un conte da capo a piedi, un vero Dorincourt». Intanto il piccolo lord, guidato dal palafreniere, aveva ripreso a trottare: quando tornò Wilkins portava il cappello di Cédric mentre il bimbo con tutti i suoi riccioli al vento e il visetto più rosso che mai esclamava: — Ecco, ho proprio fatto una bella trottata ! Da quel giorno lui, Wilkins e il bel cavallino irlandese divennero amici intimi. — Non ho mai visto un bimbo così ardito, — diceva Wilkins ai suoi colleghi, — si teneva dritto a cavallo e mi chiedeva : « Wilkins, sto dritto? », «Dritto come una freccia, signorino, dritto come una I», e lui a ridere! È proprio un caro bambino!
Durante le eggiate a cavallo Cédric aveva avuto occasione di conoscere molta gente e tutti gli avevano detto con affettuosa simpatia: «Dio benedica il vostro cuoricino!». Un giorno, davanti alla scuola, egli volle assolutamente scendere da cavallo per farvi salire un povero ragazzo zoppo per riportarlo a casa. — Non mi è stato possibile dissuaderlo — diceva Wilkins — raccontando il fatto — ha voluto che mettessi a cavallo il piccolo Giovanni; s’è messo le mani in tasca, ha calcato il cappello sulla nuca e s’è messo a camminargli affianco. Quando siamo arrivati, la madre è venuta fuori tutta spaventata per vedere cos’era successo, e allora il signorino s’è inchinato a salutarla come avrebbe salutata una lady «Buongiorno, signora, — le ha detto — ho riportato a cavallo vostro figlio, perché gli faceva male la gamba. Credo che il bastone non gli basti per appoggiarsi e dirò a mio nonno di fargli fare le grucce. Verrò a portargliele. Arrivederci, signora». Pensate come ci rimase quella buona donna! Giunse le mani e disse tutta turbata: «Vi ringrazio, vi ringrazio tanto». Pochi giorni dopo videro il conte e Cédric in carrozza andarono verso la casa del ragazzo: giunti sull’uscio, Cédric scese con le grucce sulla spalla e disse alla madre: — Il nonno vi manda le grucce per il vostro bambino e m’ha incaricato di salutarvi. Speriamo che guarisca presto. Risalendo in carrozza riferì al nonno: — L’ho salutata per voi; ho fatto bene? Il conte sorrise e accarezzò dolcemente la testa bionda di Cédric.
EGGIATE
Il conte di Dorincourt stava meglio. La gotta non lo tormentava quasi più, il suo umore irascibile s’era modificato in maniera sorprendente e il medico si congratulava con l’illustre cliente d’un miglioramento così insperato. Cédric gli aveva detto più volte : — Mi dispiace tanto, nonno, di lasciarvi solo quando vado a fare le mie belle eggiate a cavallo; sarei proprio felice di avervi sempre vicino! Il conte non aveva risposto, ma una mattina accanto al bel cavallino irlandese stava sellato un grosso cavallo e fu un bello spettacolo vedere il vecchio e il bimbo cavalcare al piccolo trotto attraverso i campi. — Tutta questa terra è mia, —disse il conte — e un giorno naturalmente sarà vostra. — E quando? — chiese Cédric. — Quando io sarò morto. — Allora non la voglio, perché voi dovete vivere sempre. — Grazie, ma un giorno sarà proprio così e voi sarete padrone d’ogni cosa mia. Vedendo poi che il fanciullo stava pensoso e taciturno, gli chiese : — A che pensate? — Penso che un giorno la mamma mi disse che le persone molto ricche qualche volta dimenticano i poveri. E questo è male; e poi quando si hanno molte terre bisogna sapere tutto quello che succede a chi le lavora, occuparsi di tutto e se le cose vanno male, mettervi riparo. Come farò a saper tutto? Voi come avete fatto? — Se ne occupa Nevick — rispose il conte. — Ma voi cercate di essere migliore di me quando comanderete.
Nei giorni seguenti nonno e nipote continuarono la loro vita solita, alternando alle eggiate le lunghe conversazioni. Seppe così il vecchio conte, che la nuora visitava i poveri, insegnava il cucito e il ricamo alle giovanette, e si faceva benvolere da tutti. Anche se non lo dava a vedere, nel suo intimo era contento che la madre del suo erede fosse ben vista dal popolo, e che la sua persona esile e bionda fosse così signorile e distinta da far invidia a una duchessa. Si rammaricò soltanto che tutti avessero visto, come l’aveva vista lui stesso, la mamma di Cédric tornarsene a piedi dalla chiesa alla palazzina: ciò non era dignitoso e pensò che avrebbe provveduto. Difatti pochi giorni dopo, quando Cédric doveva recarsi dalla madre, trovò pronta, invece della grande carrozza stemmata, un elegante calessino con un cavallino ancor più elegante. — Questa carrozza — disse il vecchio conte — dovete regalarla a vostra madre; ditele che non deve andare più in giro a piedi. E badate che siete voi a regalargliela. Il bimbo dalla gran gioia non seppe neanche ringraziare il nonno e giunto dalla madre gridò al colmo dell’entusiasmo : — Diletta mia, ci credi? Questa carrozza è tua, te la regalo io e tu non devi andare più a piedi. Su, in carrozza dunque ! Non capiva più quel che diceva e la signora Errol, che si trovava in giardino a coglier fiori, dovette salire in carrozza coi fiori in mano. La povera donna non poteva rifiutare un regalo che suo figlio le faceva; avrebbe turbata la gioia del piccolo e accettò pur sapendo che il dono veniva da un uomo che la odiava.
UNA LETTERA VARCA L’OCEANO
Il giorno dopo il piccolo lord si presentò al conte con un foglio in mano: era una lunga lettera diretta al signor Hobbs. — Ci devono essere molti sbagli, correggetemela per piacere — aveva detto Cédric presentando al nonno il suo capolavoro. Ce n’erano infatti, e molti, ma il conte, con una pazienza ammirabile, li fece scomparire. Poi rese al bimbo il foglio e il piccolo lord la ricopiò con cura e la ripresentò al nonno prima che la lettera affrontasse il lungo viaggio a cui era destinata. Ecco quello che il bimbo aveva scritto. “Caro signor Hobbs, è necessario che vi parli del nonno che è il miglior conte del mondo. Non è vero che i conti sono tutti tiranni come avevate immaginato e vorrei farvi conoscere il mio nonno; vi assicuro che diverreste subito suo amico. Egli ha la gotta e soffre molto, ma ha tanta pazienza! Io l’amo ogni giorno più e tutti l’amano; è un uomo tanto buono; non pensa che a far felici coloro che lo circondano. Sa tutto, gli si può domandare tutto: solo non sa giocare a palla e perde sempre. Mi ha re-galato un bel cavallino irlandese e tanti giocattoli, e anche alla mamma ha regalato una vettura col cavallo. Io ho tre camere tutte per me e una è piena di libri e di giocattoli; il castello è tanto grande che voi vi ci perdereste; il parco è meraviglioso, ci sono degli alberi grandissimi e ogni sorta d’animali e fiori meravigliosi. Il nonno è ricchissimo ma non è tiranno né egoista come voi credevate che fossero i conti. Io ho imparato a cavalcare e andiamo a eggio insieme; pensate che tutti gli uomini che incontriamo si levano il cappello e le donne dicono: Dio vi benedica. Il nonno aveva un contadino che non lo poteva pagare, ma lui non l’ha mandato via, e la governante gli ha portato il vino e tante cose buone per i suoi bambini malati. Sarei tanto contento se la mamma potesse vivere con noi al castello sempre vicina a me, ma la cosa non è possibile, pare. Sarei anche contento di rivedervi. Vi prego di scrivermi. Vostro affezionato piccolo amico
Cédric Errol P. S. — Nel sotterraneo del castello c’è la prigione, ma è rimasta sempre vuota; il nonno non ci ha rinchiuso mai nessuno. P. P. S. — Lui è tanto buono che mi ricorda sempre voi: tutti l’amano”.
Il conte lesse la lettera, poi chiese al nipote : — Sentite molto la lontananza di vostra madre? — Oh sì, tanto! — Il bimbo gli s’avvicino e gli mise la manina sul ginocchio — E voi no? — domandò a sua volta, guar¬dandolo fisso negli occhi. — Io non la conosco — rispose freddamente il conte. — Lo so — disse Fauntleroy — e non capisco perché non la conosciate. Ma la mamma mi ha detto di non domandarvi nulla ed io ubbidisco. La sera, prima d’andare a letto, vado alla finestra e guardo la sua: tutte le sere vi mette un lume ed io lo vedo e capisco quello che mi vuol dire. — E che cosa vi dice? — «Dormi bene, bambino mio! Dio vegli su te tutta la notte». Me lo diceva tutte le sere; anche al mattino mi diceva: « Dio ti protegga tutto il giorno ». Così io mi sentivo sempre al sicuro. — Certo, non ne dubito — replicò il conte. Poi aggrottò le sopracciglia e rimase a guardare a lungo il nipote, come se pensasse a qualche cosa di molto grave.
LA CORTE DEL CONTE
Dopo una settimana Cédric, di ritorno da una visita fatta a sua madre, entrò in biblioteca con un visetto rattristato e un’aria malinconica che faceva pena a guardarlo. Chiese al conte : — Nevick sa tutto quello che succede? — È suo dovere saperlo — rispose il conte. — Perché? Si è mostrato negligente? — C’è una contrada fuori del villaggio, dove le case cadono in rovina, l’acqua penetra nelle stanze per le fenditure dei tetti, le strade umide e fangose mandano un fetore insopportabile. Tutti sono malati e i bimbi muoiono. Diletta mia è andata a trovare una donna malata e ha visto tutto. Piangeva nel raccontarmelo e prima di baciarmi è andata a cambiarsi il vestito e a lavarsi. Anche il piccolo lord aveva gli occhi rossi mentre perorava la causa dei suoi poveri. — Le ho detto — continuò guardando il nonno attraverso le lacrime, — che certamente voi non sapevate nulla e che ve l’avrei riferito io. Nevick avrà dimenticato di farvi sapere questa brutta cosa. La piccola mano posava sulle ginocchia del conte e i begli occhi viola pregavano più e meglio d’ogni parola. No, la colpa non era di Nevick: il conte ricordava bene che un giorno, in un eccesso d’ira, gli aveva parlato di quel gruppo di case miserabili chiamate in paese «La corte del conte» e lui l’aveva anche maltrattato. Ma ora, guardando il visetto rattristato del nipote, disse: — Mi farete diventare proprietario di case modello. — Andiamo nonno — insisteva il bimbo — andiamo subito a ordinare che buttino giù quelle casacce. Tutti vi vedranno volentieri e vi vorranno più bene che mai.
— Andiamo a fare una eggiatina in terrazza per ora — rispose e, guardando il bimbo negli occhi umidi, aggiunse: — Sarà fatto come volete, piccolo lord. E di lì a qualche giorno il fatto incredibile avvenne. Una mattina una schiera d’operai giunse sul posto e cominciò a demolire le case già cadenti e muratori e manovali si misero a riedificare alacremente ciò che era stato abbattuto. — Lord Fauntleroy pensa che la proprietà ne sarà avvantaggiata — disse il conte, che si era recato un giorno a presenziare al lavoro. E il bimbo divenne subito amico dei muratori, i quali si rallegravano a vederlo prendere tanto interesse a quello che facevano. E raccontavano alle mogli i discorsi del piccolo lord. — Che caro ragazzo! — dicevano, e dovunque ava il dolce saluto «Dio la benedica» lo rendeva veramente felice. Il conte sorrideva e pensava: — Sto diventando un vecchio pazzo, durante tutta la vita nessuno mi ha mai comandato e ora questo bimbo riesce a fare di me quel che vuole. Ed era vero! La signora Errol gli aveva fatto parlare della «Corte del conte», sicura del buon successo, e ora che i lavori fervevano, ne gioiva dal più profondo dell’anima. Intanto il vecchio e il bambino continuavano a cavalcare insieme, a eggiare insieme sulla terrazza, mangiavano insieme, si trattenevano insieme in biblioteca. —Vi ricordate — disse un giorno Cédric mentre il conte, seduto maestosamente sulla poltrona, lo stava guardando —-vi ricordate che fin dalla prima sera vi dissi che saremmo stati buoni compagni? — Lo siamo infatti — disse il conte, e dopo aver guardato a lungo il nipotino, disteso sulla pelle di tigre accanto al fuoco, chiese: — Ditemi, desiderate qualche cosa? Qualche cosa che vi manca e di cui avete bisogno? — Oh sì! — e gli occhi del piccino si fissarono in quelli del nonno con ansia — la mamma!
— Ma la vedete quasi ogni giorno! — Sì, ma ero abituato a vederla sempre: tutte le mattine, quando mi alzavo, m’abbracciava e mi baciava e la sera faceva lo stesso. Io l’amerò sempre tanto e non la dimenticherò mai. E neanche voi dimenticherei, se dovessi vivervi lontano. Vi penserei sempre. — Vi credo — disse il conte dopo averlo di nuovo guardato a lungo.
LA SORELLA DEL CONTE DI DORINCOURT
Il conte di Dorincourt aveva una sorella che non rivedeva da trentacinque anni. La gentile signora, fin da giovinetta, non aveva mai approvato le azioni del suo nobile fratello e gli aveva sempre detto chiaro e tondo quel che pensava di lui. Andata sposa, poco prima della morte dei genitori, a lord Lorridaile, si era completamente disinteressata del fratello, tanto più quando questi aveva proibito al capitano di frequentare la casa della zia. La buona donna fremeva di sdegno tutte le volte che le giungeva qualche notizia poco edificante sulla condotta del conte e aveva sofferto più di quello ch’essa mostrasse per la morte del capitano Errol. Quando poi seppe che, dopo la morte dei due primogeniti, il conte aveva fatto venire al castello l’unico erede del nome, e che aveva separata la madre dal figlio, l’indignazione della buona signora non ebbe più limite. — È la più mostruosa delle infamie questa, — diceva parlando col marito — strappare dalle braccia d’una povera madre un bimbo di sette anni e volerlo educare personalmente! Se lo prende a benvolere, lo vizierà rovinandolo, come ha fatto coi suoi due primogeniti; se poi non gli va a genio gli farà sembrare la vita un inferno. Quasi son tentata di scrivergli. — Non servirebbe a nulla — disse sir Harry. — È vero! Conosco troppo bene il conte di Dorincourt, mio onorevolissimo fratello, per non sapere che ogni mia parola lascerebbe il tempo che trova, ma sta commettendo un’infamia. Non era stata sola lady Lorridaile a sentir parlare del bimbo. Nei dintorni del castello, fra i contadini, nei paesi limitrofi, non si parlava d’altro ormai che del bimbo bello e buono che si era impadronito del cuore del vecchio insensibile e arcigno trasformandolo in un vero nonno, affettuoso verso il nipote e addirittura comprensivo e comionevole per tutti i dolori umani. Sir Thomas, un proprietario vicino, aveva incontrato un giorno il conte che cavalcava insieme al piccolo lord e s’era fermato a discorrere.
— Era orgoglioso come un re, — raccontava poi sir Thomas — e in fede mia non c’è da stupirsene, perché quel bambino è meraviglioso: non ne ho mai visto uno simile. Si teneva dritto come una freccia sul suo bel cavallino irlandese. Tutti questi discorsi erano giunti fino a lady Lorridaile: sentì parlare di Higgins, della lettera che il piccolo lord aveva scritto e firmato affinché Nevick sospendesse lo sfratto, del bambino zoppo che Cédric aveva riaccompagnato a casa a piedi, facendolo montare sul suo cavallino, delle grucce che era andato a portargli insieme col nonno, delle case della «Corte del conte», e di tanti altri episodi, e il desiderio di conoscere il piccolo lord si faceva in lei sempre più vivo, quando un giorno, con sua grandissima meraviglia, ricevette una lettera del fratello che l’invitava insieme al marito a trascorrere qualche giorno al castello. — Ma è incredibile! — esclamò. — Comincio a credere anch’io che questo bimbo faccia dei miracoli. Dicono che mio fratello l’adori, che non può starne lontano e che ne sia orgogliosissimo. Per questo sente il bisogno di farcelo vedere. — E rispose accettando l’invito. Giunse al castello in un tardo pomeriggio insieme al marito. Era ancora bella, lady Lorridaile, nonostante gli anni; alta e ben proporzionata, coi capelli bianchi che le incorniciavano il bel viso roseo e fresco, cogli occhi grandi, espressivi e dolci. Quando entrò nel salone, il fratello l’aspettava seduto secondo il solito nella sua poltrona, accanto al fuoco; e in piedi vicino a lui, stava il piccolo lord. Il bambino volse verso di lei il suo dolce visetto e la guardò con espressione così affettuosa che la nobile lady non poté far a meno d’esclamare, mentre ab-bracciava il conte: — Edoardo, è questo il piccino di cui tanto si parla? — Sì, Costanza, è lui —rispose il conte, con un lampo di compiacenza nello sguardo, e volto a Cédric disse: — Lord Fauntleroy, questa è vostra zia. — Come state, zia? — disse subito il bimbo tendendole la manina. La signora posò la mano sulla spalla del nipote, lo guardò un momento, poi si chinò su lui e se lo strinse al cuore.
— Chiamatemi zia Costanza — disse — io ho voluto molto bene a vostro padre e voi gli somigliate tanto. — Me lo dicono tutti — rispose Cédric — e questo mi fa tanto piacere, zia Costanza. La signora l’abbracciò di nuovo. — Non ho mai visto un bambino più bello — disse al fratello quando furono soli. — Certo — replicò il conte — è un bel bimbo. Stiamo sempre insieme, ed egli mi crede il più perfetto uomo del mondo, filantropo, altruista e chi più ne ha più ne metta. Non vi nascondo, Costanza, che io corro il rischio di divenir pazzo di lui. — E sua madre che pensa di voi ? — chiese lady Lorridaile. — Non gliel’ho mai chiesto — rispose il conte. — Ebbene — disse la signora — sarò franca come sempre ; la vostra condotta è riprovevole; è mia intenzione conoscere la povera vedova; spero non ve ne offenderete. Tutti ne dicono bene e i poveri l’adorano. — Adorano lui — rispose il conte indicando Cédric. — In quanto alla signora Errol, se il cuore ve lo consiglia, potete andare a visitarla ma lei non deve metter piede nel parco e tanto meno nel castello. Per quanto dure fossero le parole del vecchio, la sorella comprese che egli era cambiato: il bimbo lo credeva buono ed egli voleva esserlo in realtà. Non solo, ma avrebbe voluto rifar tutta la sua vita perché qull bimbo lo vedesse nobile di cuore da sempre. — Edoardo — disse lady Lorridaile, tornando da una visita fatta alla signora Errol — Edoardo, ho conosciuta tua nuora: è la più amabile creatura ch’io abbia mai visto, la sua voce è una musica e il suo cuore e l’anima sua sono alti e puri; il bimbo le somiglia anche moralmente. Se voi non la volete al castello, io me la porterò a casa mia per qualche tempo.
— Non verrà per non lasciare il figlio. — Ebbene, porterò con me anche lui — disse la signora ridendo. Sapeva bene che il conte non avrebbe potuto separarsene e sperava giorni migliori per la povera madre.
UNA SERATA DI GALA
Gran ricevimento quella sera al castello! Il conte aveva voluto farlo in onore della sorella e la vecchia lady l’aveva ringraziato sorridendo: sapeva bene lo scopo vero di quella festa! Il vecchio voleva mostrare alla nobiltà inglese lo splendido nipote, il futuro conte di Dorincourt. Le magnifiche gallerie, le sale sontuose illuminate a giorno che sembravano serre di fiori, le tavole scintillanti d’argenterie e di cristalli. Una folla elegantissima d’invitati s’aggirava nel castello e le dame, adorne di gioielli, sembravano fate in un palazzo incantato. Cédric credeva di sognare; guardava lo spettacolo per lui nuovo, ritto accanto al nonno che lo presentava agli amici, mentre lady Lorridaile faceva gli onori di casa con quella nobile compitezza, che è propria delle grandi dame. — Miss Herbet — annunziò a un tratto il cameriere, e la vecchia lady andò incontro alla nuova venuta, abbracciandola. Miss Viviana Herbet era una signorina bionda, bellissima, vestita d’un vaporoso abito bianco, adorno di perle. Cédric s’incantò a guardarla: che fosse davvero una fata o una principessa o un angelo? Mentre la contemplava rapito, una dolce voce musicale lo scosse: la bianca visione s’era rivolta a lui e gli chiedeva: — Perchè mi guardate tanto, lord Eauntleroy? — Perchè siete bella assai — rispose il bimbo —siete forse una fata? I giovani lords che la circondavano risero un pochino e la giovanetta arrossì lievemente e sorrise, e quel sorriso, quel rossore, accrebbero il suo fascino e Cédric, continuando a guardarla estatico, disse di nuovo: — Siete proprio bella! Non ho mai visto una persona così bella, fuorché Diletta mia, s’intende. Io non posso pensare che qualcuno al mondo sia bello come la mia mammina.
Miss Viviana abbracciò Cédric e gli rispose baciandogli la fronte: — Lo credo bene — e gli occhi splendidi si posarono dolcemente sul bel viso del piccolo lord. La conversazione fra Cédric e la fata bionda si animò, anche gli altri vi parteciparono, e la nobiltà inglese fu minutamente informata della rivoluzione, della guerra d’indipendenza, dell’ultima elezione del presidente e conobbe la storia di Brigitte e Michele, del signor Hobbs, della venditrice di mele d’antico lignaggio e di Dick. — Ecco, questo fazzoletto me l’ha regalato Dick — disse il bimbo togliendolo dalla tasca. — Dick sarebbe contento di sapere che l’ho portato in questa serata. — E nonostante il fazzoletto fosse piuttosto sgargiante e non adatto alla situazione, nessuno osò sorridere. Quel giorno il signor Havisham era stato atteso invano per tutto il pomeriggio, e la cosa era strana, perché in un giorno simile la sua presenza sarebbe stata necessaria. Giunse quando il pranzo era terminato e avvicinandosi al conte disse : — Un avvenimento inatteso mi ha impedito di venire; vi spiegherò più tardi. Aveva un’aria inquieta mentre parlava e il suo sguardo si era posato più volte sul piccolo lord con espressione enigmatica. Ma nelle sale c’era tanta serenità e tanta animazione; il piccolo lord trionfava al fianco di miss Viviana: tutti sorridevano intorno a lui. Più tardi però il bimbo ebbe sonno: — Siete stata tanto buona con me — sussurrò a Miss Herbet — ed io ve ne ringrazio. Mi sono divertito tanto. Sedette su di un divano e si sforzò di tenere gli occhi aperti, ma la palpebre gli pesavano e senza accorgersene si addormentò. Gli parve di sentire un bacio sulla fronte, gli parve di udire una voce dolcissima sussurrargli: — Buona notte, lord Fauntleroy, dormite bene. E Cédric, senza aprire gli occhi mormorò: — Buona notte! Come siete bella...
NOTIZIE IMPREVISTE
Mentre gli ultimi invitati lasciavano il castello, il conte, seduto nella poltrona al suo solito posto, guardava il signor Havisham che, dritto in piedi, gli stava di fronte con aria turbata e lanciava occhiate strane verso il divano su cui dormiva il piccolo lord. — Si può dunque sapere che avete, Havisham? Perché guardate il bambino in questo modo? Mi sembrate un uccello del malaugurio. Che c’è? Parlate! — domandò inquieto il conte. — Mi dispiace immensamente di dovervi dare una triste notizia, milord, e cercherò di esser breve. Se quello che mi è stato detto è vero, il bimbo che dorme non è lord Fauntleroy, ma solo il figlio del capitano Errol; il vero lord Fauntleroy sarebbe il figlio del vostro secondogenito Bévis, e si troverebbe con sua madre in un albergo di Londra. Il conte strinse i braccioli della poltrona come se volesse spezzarli e gridò: — Che volete dire? Siete pazzo? Che fandonia è questa? Le vene del collo, delle tempie, delle mani erano gonfie e tese come corde, il viso da pallido era diventato paonazzo e l’occhio lanciava fiamme. — Non è una fandonia purtroppo — proseguì l’avvocato sospirando. — Una donna è venuta questa mattina nel mio studio e ha detto che vostro figlio l’ha sposata e mi ha mostrato il certificato di matrimonio. Sembra che si siano divisi dopo un anno e che vostro figlio le abbia assegnato una pensione. Ora, a quanto m’ha detto, ha consultato un avvocato, e intende rivendicare i diritti di suo figlio. Il bimbo ha sette anni, e se quello che dice è vero, è lui... il vero lord Fauntleroy. Il volto del conte si contrasse; una vera tempesta si agitava nel vecchio cuore : — Bévis è sempre stato il disonore della famiglia, ma questo è troppo! — esclamò con un accento che fece trasalire l’avvocato. — E la donna com’è?
— Bella — rispose il signor Havisham, — ma — e allungò il labbro di sotto con profondo disprezzo — di basso ceto e volgare. In quanto al bimbo sembra che nelle sue vene non scorra una goccia del sangue dei Dorincourt, tanto le sue maniere sono ordinarie. Il conte si strinse le tempie fra le mani. — Se a questo miserabile fatto non fosse legato il nome di mio figlio Bévis, mi rifiuterei di credervi. — Devo aggiungere — proseguì l’avvocato — che la donna è di un’avidità ripugnante: non pensa che al denaro, non parla d’altro. — È il castigo di Dio — esclamò il conte col volto livido — Non ho voluto veder l’altra, non ho voluto neanche guardarla e ora... S’accostò al nipote che dormiva sereno, gli scostò i riccioli dalla fronte come per vederlo meglio, poi suonò e al cameriere accorso disse con una lieve alterazione della voce: — Portate a letto lord Fauntleroy.
NOSTALGIE DEL SIGNOR HOBBS E DI DICK
Dopo la partenza del piccolo lord per l’Inghilterra una tristezza senza nome s’era impadronita del signor Hobbs. Nei primi giorni il poveretto sperava di vedere da un momento all’altro il bel visuccio di Cédric affacciarsi sull’uscio della bottega per dirgli con la voce squillante: — Buon giorno, signor Hobbs; che c’è di nuovo oggi? Ma i giorni avano ed egli s’era dovuto convincere che fra lui e Cédric c’era l’Oceano Atlantico. Allora, con la pipa tra i denti, andava fin sotto le finestre della casa che il suo amichetto aveva abitata, guardava il cartello con la scritta «Appigionasi», scuoteva tristemente il capo e se ne tornava in bottega, ogni volta più triste ed avvilito. Voleva proprio molto bene a quel bimbo biondo, il vecchio istrice, e il vuoto che il fanciullo aveva lasciato nella bottega e nel cuore non era colmabile. L’unico atempo era la lettura del giornale, ma il suo ascoltatore più paziente e più comprensivo se n’era andato; altra occupazione era il conteggio, ma... pare impossibile, anche in questo rimpiangeva Cédric che lo aiutava spesso a fare le addizioni. Ricordava poi le lunghe discussioni sull’ordinamento socio-politico angloamericano, e non avendo con chi confidarsi ora, scuoteva il capo desolato. Lo stato d’animo del signor Hobbs andava di male in peggio, finché, pensa e ripensa, ebbe un’idea. Non era fertile d'idee la mente del signor Hobbs, ma questa volta ne ebbe una che gli parve ottima. Si disse che, non potendo vedere Cédric, gli sarebbe stato di conforto parlarne con qualcuno che come lui l’avesse conosciuto e l’amasse. Si ricordò che il bimbo gli aveva parlato di Dick e decise risolutamente d’andar da lui. Tentennò ancora per qualche tempo, ma alla fine un giorno, lasciata per un momento la bottega, s’avviò alla ricerca di Dick.
Il ragazzo stava lustrando le scarpe; vide un signore basso e grosso, dal cranio perfettamente lucido, che da qualche minuto stava osservando la sua insegna e gli chiese con un garbato sorriso: — Una lustratina, signore? Il droghiere posò il piede sullo sgabello e continuò a guardare l’insegna come se stentasse a leggere quello che v’era scritto. DICK TIPTON CIABATTINO E LUSTRASCARPE IMPAREGGIABILE / PREZZI OTTIMI — Avete una bell’insegna, nuova anche! Deve costare una bella sommetta. Si vede che, benché ragazzo, guadagnate molto — disse il signor Hobbs per entrare in argomento. — Me l’ha regalata un mio amico — rispose Dick sospendendo il lavoro e guardando a sua volta l’insegna — un bambino, il più bel bambino con cui ci si possa incontrare. Ora non è più a New York; sono venuti a prenderlo per portarlo in Inghilterra; pensate che è un lord... — Lord Fauntleroy — disse lentamente il droghiere — Lord Fauntleroy... e più tardi conte di Dorincourt. A Dick cadde di mano la spazzola, dette un guizzo e fu lì lì per cadere; ma si riebbe subito ed esclamò con gli occhi brillanti di gioia: — Ma dunque lo conoscete! — Da quando è nato! Siamo amici intimi — e, tirato fuori l’orologio, lo mostrò al lustrascarpe e lesse. LORD FAUNTLEROY AL SUO PIÙ CARO AMICO SIGNOR HOBBS. GUARDANDOLO, PENSATEMI. — Oh non c’è pericolo che lo dimentichi! Anche se non m’avesse regalato l’orologio me ne sarei ricordato lo stesso: non è di quegli amici che si possono dimenticare. — È proprio il più caro bambino del mondo! — disse Dick con entusiasmo. —
Era così piccolo quando gli raccattai la palla di gomma che gli era caduta fra le zampe dei cavalli e non l’ha mai dimenticato. Tutte le volte che ava, con la madre o con la bambinaia mi salutava, e quando le cose andavano male, a parlare con lui ci si sentiva sollevati; come se ci si fosse confidati con un uomo grande. — Proprio così — replicò il droghiere, — e fa pena pensare che ne facciano un conte! Avrebbe brillato in una drogheria o anche in un negozio di stoffe! Quando penso a questo.. — e scosse il capo più tristemente che mai. Il discorso andava per le lunghe, era già tardi e i due nuovi amici convennero che per sollevarsi l’animo era necessario rivedersi per parlare ancora di lui. E allora il signor Hobbs, per la prima volta in vita sua ebbe un’idea per l’attuazione della quale non gli fu necessario riflettere una settimana intera. Invitò Dick per la sera seguente nella sua bottega. — Parleremo di lui — disse, e strinse la mano al lustrascarpe con uno sguardo eloquente. Per il ragazzo orfano, povero, randagio, l’invito di un droghiere, proprietario oltre che d’una bottega ben messa, anche d’un cavallo e d’un carretto era un vero avvenimento. Accettò, e la sera dopo, appena chiuso l’esercizio, puntuale, si trovò nella bottega del suo nuovo amico. Il signor Hobbs si mostrò cordialissimo, gli offrì una seggiola e mostrandogli una botte piena di mele lo pregò di servirsi. Dick accettò di buon grado e la conversazione fra i due fu animata e cordiale. Non finivano mai di far le lodi del futuro conte. — Vedete? — disse il droghiere accennando in alto con la mano — Ogni giorno sedeva lì, mangiava qualche biscotto, rompeva qualche noce e buttava i gusci nella strada ed ora... tutto è finito! Egli è di là dall’oceano fra duchi, conti e baroni e noi forse non lo rivedremo più. Quando penso a questo... e scuoteva più che mai la testa. — Sarei proprio contento — disse poi ad un tratto — di sapere qualche cosa delle abitudini dei conti e di come sono fatti i castelli. Ne sapete qualcosa voi? — Io no — rispose Dick — ma c’è un mio amico che compra ogni settimana un giornale da un soldo dove appunto si parla di questa gente. C’è un racconto intitolato: «Il delitto d’una nobildonna, ossia la vendetta della contessa Maria». — Compratelo — esclamò con enfasi il signor Hobbs — Compratelo e
portatemelo; ve lo pagherò. Comprate tutto quello che parla di conti e di castelli, o anche di baroni e di marchesi. Veramente lui di quest’altra gente non mi ha mai detto nulla, ma.... Anche questa volta s’era fatto tardi e il droghiere invitò a cena il suo nuovo amico; mangiarono nel retrobottega sardine, tonno, burro e marmellata; poi il signor Hobbs tolse il tappo ad una bottiglia di birra, ne riempì due bicchieri e alzando il suo: — Alla salute del piccolo lord! — disse — e possa egli dare una lezione a tutti: duchi, conti e marchesi. Il giorno dopo, neanche a dirlo, il giovane lustrascarpe portò al suo nuovo amico i giornaletti promessi e tutti e due si dettero un gran da fare a leggere e commentare a modo loro. Le loro conoscenze al riguardo si arricchivano ogni giorno più ma su di un punto erano ancora all’oscuro. La corona dei conti la portano sempre? La questione era importantissima e nel parlavano spesso senza venirne a capo. — L’ho chiesto anche a lui — disse il signor Hobbs — ma non lo sapeva ; credo però che se la levino qualche volta per mettere il cappello. — E anche quando vanno a letto se la leveranno — aggiunse Dick. — Pensate voi che potrebbero dormire con quell’affare in capo? Ma il bravo droghiere non poteva contentarsi di nozioni così vaghe e decise di arricchire la sua biblioteca. Senza pensarci troppo — aveva presa l’abitudine di decidere alla svelta ora, — prese la strada più breve e si recò in una libreria. — Un libro di conti — disse al commesso che gli si era inchinato gentilmente. — Cosa? — chiese il giovane sorpreso e stupito. — Un libro che parli di conti e di castelli. — Ma...non ne abbiamo.
— Almeno uno che parli di duchi e di baroni. — Non ne abbiamo. — E di contesse? — Meno che mai — e il commesso sorrise. — Che il diavolo mi scortichi allora — disse il vecchio ricorrendo alla sua espressione favorita e, volte le spalle, si avviò per uscire. Stava per varcare la soglia quando il commesso lo richiamò; aveva trovato un libro che forse faceva al caso suo. Il degno uomo, felice dell’acquisto, tornò in fretta nella bottega dove Dick l’aspettava. Subito il ragazzo cominciò a leggere ad alta voce, ma dopo le prime pagine, il droghiere cominciò ad agitarsi; grosse gocce di sudore gl’imperlavano il cranio e la fronte, ch’egli asciugava energicamente, mentre Dick alla sua volta leggeva con un leggero tremito nella voce per quanto volesse ostentare sicurezza. Il libro che il servizievole commesso gli aveva fatto acquistare aveva per titolo «La torre di Londra», e Dick stava leggendo un episodio raccapricciante dove l’autore parla della Regina Maria, la sanguinaria, e delle gentili abitudini della medesima, consistenti nel torturare, abbrustolire e tagliare la testa alla gente ogni volta che a Sua Maestà venisse uno schiribizzo. Il signor Hobbs era sulle spine, si contorceva, sbuffava; si tolse di bocca la pipa, la brandì in aria con la mano levata mentre con l’altra afferrava il braccio di Dick stringendoglielo fortemente. — Egli è in pericolo! — gli gridò sul viso ansando — egli è in pericolo! Se una donna, solo perché è regina, può fare di queste brutte cose, chi sa quello che gli può accadere! Chi sa che gli sta succedendo. — Certo, certo, — rispondeva il povero Dick stropicciandosi il braccio illividito, senza saper bene quello che si dicesse e con una gran tremarella in corpo anche lui, — certo, ma la regina del libro si chiamava Maria, e quella che regna ora si chiama Vittoria. Non è la stessa. - È vero — replicava il droghiere — è vero, ma, nessuno è al sicuro laggiù, fra gente che non festeggia neanche il quattro luglio!
L’agitazione dei due era al colmo; entrambi arono una cattiva nottata e fu una vera fortuna che giungesse in quei giorni una nuova lettera di Cédric. Essi la lessero e la rilessero commentandone ogni parola e ci misero delle ore per la risposta.
IL SIGNOR HOBBS PERDE LA BUSSOLA
Gli interminabili colloqui avevano sollevato lo spirito del droghiere e anche Dick si sentiva molto meglio. Un giorno il ragazzo confidò al nuovo amico anche la storia della sua vita breve e triste. Non ricordava affatto i genitori, il povero lustrascarpe: di lui s’era preso cura il fratello Ben ma poi, quando il piccolo aveva cominciato a guadagnar qualche soldo, ecco che il fratello s’innamora come uno stupido e si sposa. — Mio fratello — diceva Dick — non ragionava più! Mina era bella, specialmente se vestita bene. Ma che donna infernale... quando andava in collera, e ci andava sempre, sembrava una tigre, un gatto selvatico, e allora strappava e rompeva tutto. Una vera furia. Poi le nacque un bimbo, più strillone e più rabbioso della madre e a me toccava cullarlo quando piangeva e guai se m’allontanavo un momento!.. Una sera che il bambino piangeva, Mina mi scagliò un piatto che colpì il figlio al mento. Sicuramente ne porta ancora il segno! Povero Ben! Non lo poteva vedere perché guadagnava poco e le scenate si ripetevano ogni giorno, fino a quando lui, stanco di quella vita, partì senza dir nulla a nessuno. Una settimana dopo anche Mina era partita e non se n’è saputo più nulla. Ben ogni tanto mi scrive, ma non ha fortuna! Ora sta con un allevatore di cavalli. Quella Mina l’ha proprio rovinato! — sospirò Dick. — Perché si è sposato? — sentenziò il signor Hobbs, — chi dice donna dice danno e malanno! — Così dicendo s’alzò per cercare sul banco il tabacco della pipa. — Toh — esclamò sorpreso — Ma questa è una lettera! Come ho fatto a non vederla prima? Si vede che il postino l’ha messa sul banco insieme col giornale...è sua, capisci? — e la sventolava pieno di felicità. — Apritela, dunque! — disse Dick. — Ma certo, ma certo... ho più fretta di te — bofonchiò il droghiere tagliando la busta. E lessero insieme :
“Mio caro signor Hobbs, Vi devo dare una notizia che vi meraviglierà molto; io non sono più lord, è stato tutto un brutto scherzo; è venuta una signora che è la moglie dello zio Bévis, secondogenito del nonno, ed ha un bambino, perciò è lui lord Fauntleroy, e non io. In Inghilterra si fa così e siccome io sono il bambino del figlio minore del nonno non posso ereditare nulla: sono Cédric Errol solamente come in America. Mi dispiace molto di non essere più lord e di non poter diventare conte perché il castello mi piace molto e anche il parco, ma il cavallino resta mio. Imparerò a fare il palafreniere, così potrò guadagnare qualche cosa per la mamma. Il nonno è molto arrabbiato per questo e non vuol vedere la signora e neanche il bambino. Io credevo che questa signora prendesse alla mamma la villa e la carrozza e, a me, il bimbo portasse via tutti i giocattoli, ma il nonno ha detto di no. Dice che non succederà. Il nonno è molto adirato e temo che si ammali. È molto scosso. Ho scritto questo a voi e a Dick perché so che la cosa v’interessa. Rispondetemi, ve ne prego. Sono il vostro piccolo amico, Cédric Errol non più lord Fauntleroy”
Questa volta il povero signor Hobbs perdette addirittura la bussola, cadde pesantemente a sedere ed esclamò con ira mal repressa: — Il diavolo ti scortichi! A chi fosse diretta l’imprecazione è rimasto un mistero sempre probabilmente a quei disgraziati aristocratici, responsabili, secondo lui, della disgrazia di Cédric. — Ebbene — disse Dick che era rimasto male, ma s’era subito ripreso — ebbene non è più conte! Tanto meglio! Non desideravate questo? — Tanto meglio, tanto meglio! — balbettò il bravo droghiere! — Ma non è del titolo che m’importa ; lo spogliano, povero piccolo, lo capite questo? La mia
opinione è che quella gente ce l’ha con lui perché è americano. Questi inglesi ci hanno odiato e ci odiano dopo la guerra d’indipendenza ed ora si vendicano su di lui, povero piccino! Sono certo che tutte le autorità si sono messe d’accordo per derubarlo e per toglierli il titolo che gli appartiene. Ve lo dicevo che era in pericolo! Ed ecco cos’è successo... Lo spogliano, lo derubano, povero bambino! Ripeteva sempre le stesse parole, il droghiere, e si sfogò con Dick fino a un’ora molto tarda; poi Dick andò a casa e il signor Hobbs, accompagnandolo per qualche o, s’incantò a guardare dinanzi all’abitazione di Cédric il cartello dov’era scritto «Appigionasi». Poi scosse furiosamente la testa e andò a letto molto agitato.
DICK SCOPRE LA CONGIURA
Dick aveva fra i suoi clienti un giovane avvocato intelligente ma alle prime armi, il quale, in attesa di far carriera, leggeva i giornali con vera ione, e dopo averli letti li regalava al lustrascarpe. Quella mattina, mentre Dick gli spazzolava coscienziosamente le scarpe, il giovane, che era di buon umore, gli disse, mostrandogli il foglio illustrato che aveva in mano: — C’è in vista un processo coi fiocchi fra i pretendenti alla contea dei Dorincourt a Londra! Guardate che bella signora è l’erede. Un po’ troppo vistosa in fede mia... Ma che avete? Dick aveva spalancato gli occhi come uno spiritato o guardava la donna che pareva sorridergli provocante dall'illustrazione. — Ma questa la conosco! —esclamò. — Davvero? — rispose l’avvocato. — L’avete incontrata al teatro, ai monti oppure al mare? Il ragazzo non rispose, mise in ordine in un attimo spazzole e lucido e via di corsa dal signor Hobbs. Balzò in bottega come una palla, buttò il giornale sul banco del droghiere e disse ancora tutto trafelato: — Ecco qua! Il signor Hobbs a vederlo giungere a quell’ora insolita e per di più così affannato, si spaventò: — Che c’è? — gli chiese. — Parla dunque ! Dick s’era ripreso e, gesticolando come un candidato politico che perora la sua causa in piazza, disse o meglio gridò: — Ecco qua, la vedete? È questa che cerca di rovinare Cédric, dopo aver
rovinato Ben: è Mina, mia cognata! Il diavolo mi porti via se gliela faccio riuscire. Vedete com’è bella però! Adesso, adesso t’accomodo io, cognatina mia cara! Ah ! Il piccolo lord si chiama Tom e ha una cicatrice sul mento?! Son loro! Ora, ora ci penso io! — Sei impazzito? — gli gridò il povero signor Hobbs che stentava a raccapezzarsi. — Spiegati con più calma, non capisco nulla e mi fai girar la testa. Dick sedette, ma fremeva tutto e spiegazzava malamente il giornale; cercò di parlare con quanta più calma possibile, ma si vedeva che era furente. — Ecco qua — disse, — questo ritratto che vedete qui è di Mina, di mia cognata, l’ho riconosciuta subito; guardate che capelli e che occhi! Ora, qui c’è scritto che il bambino, quello che vuol prendere il posto del nostro amico, si chiama Tom ed ha una cicatrice sul mento. È proprio quella che gli rimase quando la madre lanciò il piatto a me e colpì lui. È il figlio di Ben capite? Come può essere lord? È mio nipote, capite? Bisogna smascherare questa tigre, bisogna difendere il nostro Cédric. — Ve lo dicevo io che era tutta una congiura — esclamò il signor Hobbs al colmo dell’indignazione. — Povero Ben ! Non gli poteva capitar di peggio. Scriverò a lui e vedremo come si può sbrogliare questo pasticcio. Stettero per più d’un’ora a consultarsi a vicenda. Ad un tratto Dick si dette una gran manata alla fronte, poi vi puntò l’indice. —Che bestia sono — disse — a non averci pensato prima; il giornale me l’ha dato un avvocato e gli avvocati sanno tutto. Andiamo da lui, raccontiamogli il fatto e penserà lui a mettere le cose a posto. Il signor Hobbs trovò che Dick aveva proprio avuto un lampo di genio, approvò il progetto dell’amico e, presa l'ultima lettera di Cédric decisero di andare dal legale subito subito. Detto fatto, il droghiere infilò il soprabito e affidata la bottega ad un vicino, in
compagnia dell’amico Dick, si recò dal l'avvocato. Il lustrascarpe gli raccontò la storia di Mina, di Ben e di Tom con enfasi incredibile, la storia del piccolo Cédric, lord in pericolo, era ormai di dominio pubblico, ma anche essa fu raccontata nei più minuti particolari; il giovane legale prese visione dell’ultima lettera di Cédric. — Per il compenso del tempo che impiegherete a mettere in chiaro questo garbuglio — disse il signor Hobbs — ci son qua io, Silas Hobbs, droghiere di generi di primissima qualità. E dette all’avvocato il suo biglietto da visita. Questi aveva ascoltato molto attentamente il racconto di Dick, parve concentrarsi per qualche minuto, infine disse — C’è del verosimile in tutto quello che m’avete raccontato e sarebbe una bella soddisfazione per me se riuscissi a districare questo groviglio. Basta, non perdiamo tempo. Scrivo immediatamente all’avvocato del conte di Dorincourt, mettendolo al corrente di quanto mi avete raccontato, e scrivo anche a vostro fratello, Dick, mandandogli il giornale. Speriamo che anche lui riconosca in questa donna la moglie. Speriamo che tutto vada bene, dunque. Ad ogni modo il tentar non nuoce. Poche ore dopo partirono da New York due espressi, uno diretto a Londra, all’avvocato del conte di Dorincourt, l’altro a Ben.
NUVOLE SUL CASTELLO DI DORINCOURT
Pochi giorni dopo il gran pranzo dato dal conte per suoi amici, tutti i giornali inglesi parlavano della strana vicenda dei presunti eredi della contea di Dorincourt. Si diceva che la vedova del secondogenito del conte era venuta a rivendicare i diritti del figlio. Si asseriva che la vedova numero due era un’andalusa bellissima dagli occhi neri e dalla chioma corvina, insomma chi la credeva americana e chi gitana. C’era poi chi diceva che il piccolo lord, che il conte aveva presentato ai suoi amici, era un imbroglione emerito il quale, istruito a perfezione dalla madre, avrebbe ingannata la buona fede del signor Havisham. Altri si limitavano a dire che il conte non intendeva ragioni e che avrebbe fatto decidere la vertenza dai tribunali. Nei giornali d’America il fatto stupefacente si narrava in mille modi diversi e con un lusso di particolari incredibile. Nessun giornale era d’accordo con l’altro nel propinare le notizie. Il signor Hobbs li comprava tutti, li leggeva tutti, non capiva niente e la testa gli girava come un mulino a vento. C’era chi diceva che Cédric aveva un bel nome negli ambienti letterari, che era fidanzato, che aveva già moglie, ma la verità non la diceva nessuno. Nessuno diceva che il piccolo lord era un angelico bimbo biondo di sette anni, che aveva per amici due americani, il droghiere Silas Hobbs e il lustrascarpe Dick Tipton. Il povero droghiere aveva un turbine nella testa, le sue conferenze con Dick erano sempre più lunghe e sempre più inconcludenti. — Bisogna fare qualche cosa — dicevano — bisogna aiutarlo, bisogna difenderlo. Ma dopo molto studio e molta fatica non seppero far altro che scrivergli le due lettere seguenti: Dick scriveva : “Caro amico,
ho ricevuto la vostra lettera e vedo che le cose vi s’ingarbugliano; voi però rimanete forte perché al mondo ci sono tanti ladri che vorrebbero levarvi ciò che è vostro, perciò difendete i vostri diritti. Però, se codesta gente non vuol sentir ragioni, piantate tutti e tornate in America: qui ci sono io e vi prenderò per mio socio, poiché gli affari vanno benone. Se poi qualcuno ce l’avesse con voi, dovrebbe fare prima i conti con me e state sicuro che penserei io a metterlo a posto. Datemi subito vostre notizie. Sono il vostro amico, Dick Tipton”
Il signor Hobbs, che cominciava ad avere qualche vaga idea sulle distinzioni sociali, pensò che non poteva trattare un bambino che stava per essere conte con la stessa familiarità con cui trattava Cédric Errol. Ecco dunque come scrisse : “Mio caro Signore, ho ricevuto la vostra onorata lettera e ho visto che le cose vi vanno male; sono certo che tutto questo brutto affare è un sopruso bello e buono e perciò vi dico: parlate con un avvocato e cercate di non farvi togliere niente di quanto vi appartiene. Se la disgrazia è inevitabile, vale a dire se non siete né lord né conte, tornate in America certo di trovare in me un buon amico, il quale vi prenderà per socio appena avrete l’età giusta e che, aspettandovi, vi offre la sua casa e il suo cuore. Sono il vostro amico, Silas Hobbs”
Intanto al castello e nei dintorni la confusione era grande: si diceva, ed era vero, che il conte non aveva voluto ricevere la vedova numero due e che questa per ben due volte se n’era tornata all’albergo col figlio, minacciando fulmini e saette.
— C’è Havisham che mi rappresenta — aveva detto il conte al cameriere, — che parli con lui. Il signor Havisham, aveva a lungo interrogato la donna e s’era convinto che i suoi sospetti non erano infondati: la donna era caduta in più d’una contraddizione, sia sulla data di nascita del preteso nuovo erede, sia sul luogo della nascita stessa. Forte di queste contraddizioni, il legale aveva proposto al conte di far giudicare la vertenza dai tribunali. Il conte aveva aderito di buon grado e si chiudeva in biblioteca a confabulare con l’avvocato per delle lunghe ore. I servi, a loro volta, si intrattenevano a conversare nei salotti, nelle gallerie, in cucina; si vedevano qua e là per il castello camerieri in livrea discutere a bassa voce come cospiratori, trascurando il servizio. Il povero Wilkins nella scuderia s’intratteneva a parlare di Cédric coi colleghi e poi andava dal suo cavallino irlandese e gli raccontava ogni cosa, con tanta minuzia di particolari da far sorridere. Gli sembrava che la povera bestia dovesse capire e le ripeteva tutto, lisciandole la criniera: — Dio solo sa come andrà a finire questa storia. In mezzo a tanto trambusto Cédric era il solo che rimaneva sereno: quando il nonno gli raccontò la strana, impensata vicenda, il bimbo si fece pensoso e palliduccio. — Mi sembra uno scherzo — disse come stentando a trovar le parole, — mi sembra proprio uno scherzo di cattivo gusto. Tacque perplesso, poi aggiunse con voce malferma e esitante: — E la nuova signora prenderà a Diletta la casa e la carrozza che le avete regalato? — No —disse il conte con accento così imperioso che Cédric trasalì, — no, mai. Egli parve sollevato, fissò in viso il nonno con quei suoi incantevoli occhi viola, mosse le labbra come per parlare, esitò un momento e in fine disse: — E... l’altro bambino... sarà il vostro bambino come lo sono stato io fin ora? L’arido vecchio cuore del nonno si sentì serrato come in una morsa, attirò a sé il
bimbo, se lo strinse al petto e levando il viso e gli occhi al cielo come per chiamarlo a testimone di quanto stava per dire: — Finche vivrò, sarete il mio bambino, il mio figlioletto caro e, San Giorgio mi perdoni, ma mi sembra di non aver avuto altri figli che voi. Nessuno vi prenderà nulla di quel che è vostro e tutto quello di cui posso disporre sarà vostro, state pure tranquillo. Sembrava parlasse a se stesso piuttosto che ad un bimbo di sette anni. Il viso del piccino si rasserenò e gli occhi gli brillarono. — Come sono contento — disse — io credevo che non potendo essere più conte né lord, l’altro bambino sarebbe stato vostro figlio, e me ne dispiaceva tanto, lo devo ammettere! Ma se voi mi volete bene come prima, se continuerò ad essere il vostro figliuolo, cosa mi può importare chiamarmi Cédric Errol o lord Fauntleroy? Non vi rattristate nonno, io sono contento lo stesso, vogliatemi sempre bene, e basta. Nel villaggio e nei dintorni le chiacchiere e i pettegolezzi avevano raggiunto la massima potenza e la signora Dibbles, la merciaia, che nella sua qualità di cugina d’un cameriere del castello, aveva informato il pubblico di quanto riguardava il piccolo lord fin dal primo giorno che Cédric era giunto al castello, forniva, in abbondanza, ora come allora, le notizie che riguardavano Cédric e il piccolo lord numero due. — Se volete sapere il mio parere, — diceva la chiacchierona — io vi dico che questo è un castigo che il cielo manda a quel vecchio senza cuore, perché io dico che non si può concepire una cosa simile: allontanare dalla madre un bimbo di sette anni per puro capriccio. Ma per quanto insensibile, s’è affezionato al bambino ed ora soffre di quel che succede. Pare pazzo! Ben gli sta! Aggiungete poi che Tommaso, il quale se n’intende, dice che questa donna che sta all’albergo non è nient’affatto una signora! In quanto all’erede poi.... e lasciava la frase sospesa.
DUE VISITE DEL CONTE
Nel frattempo il conte e il signor Havisham discutevano sul da farsi. Come s’è detto, il conte non aveva mai voluto ricevere la vedova del figlio Bévis, ma l’avvocato l’aveva persuaso d’andare da lei all’albergo e il conte s’era lasciato convincere. Entrò, accompagnato dal suo segretario, nella stanza dove la donna se ne stava sdraiata su di una poltrona, ma non la degnò d’uno sguardo né d’una parola. Questa, nel vederlo, divenne pallida come un cencio di bucato ma la sua natura ardita ben presto prese il sopravvento e la donna si pose a rivendicare i suoi diritti con sfacciata arroganza. Quando finalmente tacque, il nobile vecchio aggrottò la fronte e disse : — Se voi siete la vedova di mio figlio, avete la legge dalla vostra e nessuno potrà mai negarvi quel che vi spetta; ma mentre son vivo io, né voi né vostro figlio entrerete nel parco e tanto meno nel castello. Siete proprio quella specie di donna che mio figlio avrebbe potuto scegliere. E uscì altero e imponente, mentre il cuore dentro gli sanguinava. In quello stesso giorno, mentre la signora Errol stava scrivendo, una cameriera venne ad annunziarle una visita. - È il conte in persona, signora — disse la donna eccitata. La signora andò in salotto calma, serena e sorridente; vide il bel vecchio maestoso che l’attendeva in piedi e gli tese la mano. — La signora Errol, penso — disse il conte inchinandosi. La donna fece un lieve cenno affermativo col capo e a sua volta chiese: — Il signor conte di Dorincourt? — Sì, son io — rispose il vecchio e il suo occhio indagatore guardò quella ch’era
la mamma di Cédric e aggiunse, con voce che mal celava lo spasimo interno: — Sapete perché sono venuto? — Immagino che si tratti della signora di cui il signor Havisham mi ha parlato. — Proprio così. Sono venuto per dirvi che io farò tutto il possibile perché il titolo e l’eredità rimangano a vostro figlio. — Cédric — disse la vedova con la sua dolce voce musicale, — Cédric deve avere solo quello che gli spetta di diritto. Se la signora che si trova all’albergo è la vedova di vostro figlio Bévis, è il suo bambino che ha il titolo di lord Fauntleroy, non il mio. — Si direbbe che non v’importa affatto che vostro figlio sia o no conte di Dorincourt. — Oh no, so benissimo quale gran titolo sia quello di conte di Dorincourt! Ma a me preme principalmente che mio figlio sia, come mio marito, buono, fedele, onesto, leale. — Tutto il contrario del nonno dunque. — Non ho avuto finora la fortuna di conoscere bene il nonno del mio bambino, ma so che mio figlio lo crede il miglior nonno del mondo e so che lo ama molto e ne è riamato. — Oh sì— disse il conte come parlando a se stesso —oh sì ! Egli mi ama ed io l’amo! M’ha preso tutto il cuore fin dal primo momento; è la mia felicità, la mia vita. Mi pesava ormai la vita, ne ero stanco e lui me l’ha fatta amare di nuovo. Che degno erede sarebbe stato! Non potete immaginare quanto ne ero orgoglioso. Ma ora... ora sono tanto infelice! La signora era commossa; indicò al vecchio una poltrona e gli disse, con un tono veramente amichevole: — Sedete; in questi giorni avete avuto così tante e così diverse emozioni che le vostre forze si sono indebolite. Egli sedette, guardò il dolce viso che gli sorrideva affettuoso, guardò i grandi
occhi color della viola, tanto simili a quelli del bimbo ch’egli adorava, fece uno sforzo e disse col solito tono brusco, per celare la commozione. — Forse perché mi sento tanto infelice sono venuto da voi ; la vista di quella donna ha mutato i sentimenti che io avevo per voi; sono stato un cattivo vecchio ostinato e pazzo, ma c’è un legame, un forte legame fra noi; il bimbo ci ama e noi l’amiamo. Per lui dimenticheremo il ato. Tacque ancora, poi continuò: — Qualunque cosa succeda, penserò io all’avvenire di vostro figlio. Si alzò, si guardò attorno. — Vi piace questa casa? — chiese. — Molto, milord. — Posso venirci? — Ma... signor conte — lo interruppe la vedova — che dite mai? La casa è vostra e se la mia presenza vi disturba, me ne starò in camera quando verrete. — Non dite questo, signora. Si guardarono in viso. Ne l’una né l’altro aggiunsero una sola sillaba: il vecchio s’inchinò accommiatandosi e la signora che l’aveva accompagnato fin sulla porta, rimase a guardare la carrozza finché poté vederla. — Che buona piega prendono le cose! — disse Tommaso al cocchiere.
IL SOLE RITORNA
La lettera dell’avvocato di New York era giunta. La mattina seguente, contro ogni regola d’etichetta, il signor Havisham si presentò al conte senza farsi annunziare e in un’ora addirittura improbabile; pareva avesse l’argento vivo addosso, lui così comato e metodico; s’accostò al suo signore e, senza neanche chiedergli scusa per quell’irruzione, gli consegnò una lettera. Il vecchio era depresso ma, man mano che i suoi occhi scorrevano sul foglio, la fisonomia riprendeva quell’aria altera che gli era abituale e la fronte gli si spianava. Quand’ebbe finito di leggere, disse: — Presto, Havisham, non perdete tempo; che cosa pensate di fare? — Ci ho già pensato, milord — rispose il legale — ecco quello che mi sembra meglio. Non confidare a nessuno il contenuto di questa lettera in modo che quella diabolica donna non sospetti nulla e creda che si stiano espletando le pratiche per il riconoscimento dei suoi diritti. Scrivere o telegrafare ai fratelli Tipton affinché vengano immediatamente a Dorincourt. Bisognerà inviar loro il danaro necessario per il viaggio, perché si tratta di gente poverissima, come vostra Signoria sa. Una volta giunti qui, metterli a confronto con questa donna. Se il ragazzo, e io ritengo la cosa più che certa, è nato prima che la donna avesse conosciuto vostro figlio, e se per conseguenza logica è il figlio di questo Ben di cui parla la lettera, l’edificio di carta cade da sé e fra non molto tutto sarà chiarito. Fece come aveva detto; a Mina lasciò credere che tutto procedeva in suo favore, e l’insolente donna lontana da ogni sospetto posava ogni giorno più da contessa. Ma una mattina la cameriera le annunziò il signor Havisham ed altri signori, e nello stesso momento entrarono, insieme al conte e al signor Havisham, Dick e Ben. — Ehi, Mina! Con quanto lusso vi siete installata qui! Come mai? — le gridò Dick.
Quello che seguì è indescrivibile: la donna parve una furia e inveì contro il cognato che la derideva. — L’ho sempre detto, Mina! Siete una gran bella donna, ma quando v’infuriate sembrate un gatto selvatico. Ben era livido. — Smettila — urlò alla moglie, — smettila o ti strozzo davvero — e rivolto all’avvocato: — Mi mandi via signore — disse — altrimenti commetto qualche sciocchezza — ma l’avvocato lo fermò per un braccio. — Un momento — disse— la conoscete? — Per mia disgrazia sì — e rivolto alla sciagurata chiese : — Dov’è il bambino? In quel momento l’uscio laterale s’aprì e un ragazzo sugli otto anni, forse attratto dalle grida, entrò in salotto. Ben gli sollevò il mento e ne guardò la cicatrice. — Il medico che l’ha curato è vivo e sano, sai? — disse alla donna — può testimoniare chi gli ha lasciato quel bel ricordo. — Poi rivolto al bimbo : — Sono tuo padre, Tom; prendi il cappello e andiamo. Tom non rispose affatto, prese il berretto, mise la sua manina in quella grossa e callosa di Ben e insieme uscirono. Il povero bambino, che aveva cambiato compagnia chi sa quante volte, non si voltò neanche a salutare la madre e seguì fiducioso ed ingenuo l’uomo che gli aveva detto: — Sono tuo padre. La donna continuava ad inveire contro Dick ma il legale, con un tono secco, autoritario e sdegnoso, che non ammetteva, replica, le disse:
— Se non la smettete di far baccano, faccio chiamare immediatamente le guardie e vi accompagno di persona in carcere. È l’unico luogo che merita ospitarvi. Mina divenne livida, girò le spalle all’avvocato, rientrò in camera sbattendo l’uscio senza proferir parola, e si chiuse là dentro. — Non ci darà più noia — disse il signor Havisham — ma in fede mia una lezione la meriterebbe. La notte stessa la disgraziata partì e nessuno ne seppe più nulla. Il conte sembrava ringiovanito, scese maestosamente le scale dell’albergo e mentre risaliva in carrozza ordinò : — Alla palazzina! — Alla palazzina — ripeté Tommaso al cocchiere, che partì al trotto. Alla palazzina il conte discese e, senza farsi nemmeno annunciare, entrò nella stanza dove la signora stava leggendo. Entrò a fronte alta, con o spedito come se gli anni avessero preso il volo dalle sue vecchie spalle, e alla nuora che s’era levata in piedi e s’inchinava, chiese: — Dov’è lord Fauntleroy? — Ma è lord Fauntleroy? — chiese alla sua volta la vedova — Lo è proprio? — Lo è — rispose il conte — è lui l’erede del mio titolo, della mia ricchezza e del nome mio — Poi mettendo la mano sulla spalla di Cédric — Fauntleroy — disse col suo tono brusco e imperioso — chiedete a vostra madre se vuol venire a vivere con noi nel castello. Cédric guardò il nonno con gli occhi lucidi poi s’avvinghiò al collo della madre: — Diletta mia, staremo sempre insieme, io, te e il nonno ! Vieni dunque, vieni subito! — ripeteva pazzo di gioia. La signora Errol levò i suoi dolci occhi a guardare il suocero, che la fissava calmo e grave. Si capiva che era assolutamente deciso a non sopportare né contraddizioni né ritardi e che quello
che aveva detto doveva aver luogo. Molte cose aveva capito, il vecchio signore, in quei giorni dolorosi e non voleva perder tempo. — Siete sicuro che non vi riuscirò importuna? — chiese la signora. — Sicurissimo — e le tese la mano ch’ella si portò rispettosamente alle labbra, prima che il suocero potesse impedirlo. Si può essere nobili, conti, inglesi; si può essere rigidi e freddi, comati e impenetrabili, ma il cuore reclama ciò che è suo e riprende con usura i suoi diritti. E il vecchio conte di Dorincourt, con una voce che non gli parve sua, esclamò : — Figliuola cara, non perdiamo tempo! Finalmente mia sorella Costanza sarà contenta di me. E, con affetto paterno, attirò a sé la giovane nuora e la baciò in fronte.
CUORI IN FESTA
Ben era subito partito col figlio per la California e il conte, volendo fare qualche cosa per l’innocente ragazzo causa di tanto scompiglio, gli fece rimettere dal signor Havisham una somma che gli permise di divenire proprietario di un allevamento di bestie. Anche per Ben la vita cambiava aspetto e l’avvenire si apriva sereno dinanzi a lui e Tom, che s’era fortemente affezionato al padre, lo aiutava ed era tanto buono che Ben soleva dire: — Mio figlio mi ha fatto dimenticare tutti i dolori della mia vita. Dick non tornò in America col fratello, perché il conte volle ch’egli entrasse in un collegio per compiervi la sua educazione. Il signor Hobbs, neanche a dirlo, era venuto in Inghilterra con Dick lasciando la sua bottega ad un rappresentante; era tentennante fra il desiderio di veder Cédric conte con la corona in testa e di averlo in America padrone della sua drogheria. Ora però che aveva messo piede nel Castello di Dorincourt, egli capiva molte cose e non ripartì con Ben. Il piccolo lord l’aveva tanto pregato di restare per la festa del suo compleanno, che il bravo droghiere non aveva saputo dire di no. Anche il signor Hobbs, ora che tutto s’era appianato, riconosceva che l’essere conte valeva assai più per Cédric che il possedere una drogheria. Il castello che Cédric gli fece minutamente visitare, il parco principesco, la scuderia e tutte le altre tenute di cui sentiva parlare lo riempivano d’orgoglio e dopo pochi giorni era diventato più aristocratico del conte, tanto che si sbilanciò nel dire che non gli sarebbe dispiaciuto d’esser conte anche lui. Le visite che faceva spessissimo al castello lo impressionavano; tutto era grandioso là dentro, ma quello che maggiormente l’attirava era la galleria dei ritratti.
— È come un museo — disse a Cédric. — No, non credo — rispose il bimbo che non aveva mai visto un museo — il nonno non lo chiama museo, dice che questa è la galleria dei miei antenati. — Vostri antenati!? — Sì, il padre e la madre del nonno, e poi il loro padre e la loro madre, e così di seguito fino a... ma, in fede mia, io non so più il loro nome. Fu necessario ricorrere alla governante, la quale conosceva i nomi e le gesta dei vari conti e i nomi dei pittori che avevano eseguiti i ritratti. Il signor Hobbs trovò così interessante la galleria che ava delle ore in estasi ed esclamava, parlando tra sé: — Tutti conti! Tutti e un giorno lo sarà anche lui! Intanto molte cose erano cambiate al castello: i fittavoli del conte non odiavano più il loro padrone; lo vedevano eggiare nel parco fra la nuora e il nipote, e gli sguardi ostili che lo avevano seguito fino a pochi giorni addietro s’erano mutati in sguardi di rispettosa e affettuosa simpatia. Il parroco non tremava più quando qualche caso pietoso lo faceva salire al castello; sapeva che accanto al conte, l’angioletto biondo gli avrebbe fatto ottenere quel che implorava per i suoi poveri, e saliva il viale contento. Ed anche il vecchio conte era felice come non lo era mai stato nella sua giovinezza turbolenta; la dolce serenità del suo bimbo gli aveva rinfrescato l’arido cuore e non cercava di meglio che beneficiare di tutto ciò! In quanto al signor Hobbs, non si poteva dire che fosse diventato amico del conte come Cédric aveva previsto, poiché anzi, quando s’incontravano, le loro conversazioni non erano certo animate e il povero droghiere non sapeva proprio cosa dire davanti a quel vecchio nobile e dignitoso. Le poche idee che aveva gli sfuggivano e le parole erano rade e stentate. Ma il bravo droghiere si rifaceva nella galleria dei ritratti e davanti agli antenati di Cédric riprendeva il suo sangue freddo e la sua burbanza e conversava con loro.
IL COMPLEANNO DEL PICCOLO LORD
Una grande festa era stata preparata nel castello e nel parco per il compleanno del piccolo lord. I contadini, i fittavoli, i dipendenti del conte vi erano al completo: avevano chiuse le case per prendere parte alla festa danzante all’aperto, e nessuno aveva voluto privarsi della gioia di vedere il piccolo lord che, felicissimo, guardava il parco gremito di gente, vecchi, bimbi, ragazze, spose, giovanette timide e giovani arditi. Seduti a gruppi sull’erba, sotto gli alberi, lungo i viali ombreggiati tutti desideravano e speravano una cosa sola: vedere Sua Signoria, salutarlo, acclamarlo. La nobiltà era stata ricevuta al castello e gli aristocratici amici del conte si congratulavano con lui, con lady Fauntleroy e con lady Lorridaile, dell’avvenimento. Ed ecco giungere miss Viviana, bellissima, in un abito di trine e di merletti. Cédric le si accostò raggiante e lei lo abbracciò con tenerezza, come se fosse un fratellino, dicendo: — Caro, caro lord Fauntleroy, quanto ho trepidato per voi e come sono contenta ora! — Grazie, miss Viviana! — rispose il bimbo — oggi c’è anche Diletta, la vedrete fra poco; ma ora voglio presentarvi ai miei amici d’America. Eccoli. La cara figliuola strinse la mano al signor Hobbs e a Dick, e s’intrattenne con loro conversando cordialmente degli americani e dell’America. Il castello era addobbato a festa: bandiere e bandierine si muovevano al vento da tutte le torri. Nel parco c’erano tavole imbandite e buffet forniti di ogni ben di Dio, la musica suonava e le danze si susseguivano una dopo l’altra, con manifesta gioia dei ballerini. Quando il vecchio conte scese fra la nuora e il nipotino seguito dagli amici, ci fu
un grido unanime: — Viva il conte di Dorincourt, viva lord Fauntleroy! Il conte ringraziò con la mano e volto a Cédric : —- Fauntleroy — disse — ringraziate tutta questa gente dell’affetto che vi dimostra; su via, fatevi onore. Il povero piccino rimase sconcertato, guardò la madre che gli sorrise con un lieve cenno affermativo, guardò lady Lorri¬daile, guardò miss Viviana, tornò a guardare il nonno. — Debbo proprio parlare? — chiese. — Certo — fu la risposta unanime — certo. Un giovine lord lo issò su di un piccolo tavolo, mentre il conte, levata una mano, chiedeva silenzio. Tutti tacquero; non si sentiva che lo stormire delle foglie degli alberi e il chiacchierio blando delle fontane del giardino, quando si sollevò, dolcissima, la voce del bimbo. — Credo che vi siate divertiti alla mia festa e che, come me, siate contenti; vi ringrazio di esser venuti tutti; noi saremo sempre buoni amici e qualunque cosa succeda potete rivolgervi a me che cercherò di esser buono come il nonno e che farò di tutto per farvi stare sempre contenti. — Evviva il conte di Dorincourt. Viva il piccolo lord! — gridò la folla battendo entusiasticamente le mani, mentre il bimbo saltava dal palco improvvisato e tornava accanto al suo nonno. E qui non avremmo nulla da aggiungere alla nostra storia e potremmo scrivere la parola « Fine » se non dovessimo occuparci del signor Hobbs. Il vecchio droghiere fu talmente affascinato dalle bellezze del castello e provava tanta tristezza all’idea di lasciare il suo amichetto che decise di vendere la bottega in America ed aprirne una a Dorincourt. Così fece e gli affari prosperarono. Leggeva tutte le mattine «La gazzetta della Corte» e non si occupava più di repubbliche. Anche dopo qualche anno quando Dick, che il conte aveva tenuto in un collegio,
tornò in America e gli propose di tornar con lui, rispose: — Grazie, ma preferisco restare qui, vicino al piccolo lord. Certamente l’America è un buon paese per quelli che cercano fortuna, ma ci manca qualche cosa.... Non vi sono nobili, né lord, né conti.