Il Nuovo Quarto 433814

Andrea Zanotti

Libro I IL NUOVO QUARTO (Mondo 2.1)

www.scrittorindipendenti.com

Titolo | Il Nuovo Quarto

Autore | Andrea Zanotti

ISBN | 9788891153784

Prima edizione digitale: 2014

© Tutti i diritti riservati all’Autore

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Fantasy:

Forze Ancestrali di Andrea Zanotti

La Regina Nulla di Andrea Zanotti

I Pretoriani Bianchi di Andrea Zanotti

La Città degli Automi di sco Bertolino

La Forgia del Destino di sco Bertolino

La Fiamma Eterna di sco Bertolino

L’Eredità di Ys di sco Bertolino

Fantascienza:

Mutation di Irene Grazzini

Raccolte di racconti:

Mondi in divenire di Andrea Zanotti

Nota dell’autore.

Perché Mondo 2 vi starete chiedendo?

O almeno quelli che non hanno letto il Mondo 1…

Nessun timore, questo romanzo, primo della trilogia legata al Mondo di Alenna, può essere letto a sé stante, anche se per una migliore comprensione di tutti i retroscena e i collegamenti relativi alla cosmogonia del territorio che vi accingete a esplorare, si suggerisce di leggere anche la trilogia del Mondo 1, di cui Forze Ancestrali è il primo volume (gratuito).

Il mio progetto prevede infatti la creazione di “InfinitiMondi” collegati fra loro da una realtà non-ordinaria, ossia dal pantheon di Divinità che presiedono questo universo.

Ignorare gli eventi del Mondo 1 non impedisce la comprensione e il godimento di quanto avvenga nel Mondo 2, ma toglie quel valore aggiunto legato all’epopea degli “InfinitiMondi” che vorrei creare.

È parimenti possibile leggere prima il 2 e poi l’1 scoprendo e godendo appieno delle vicende di questo e cogliendo alcuni particolari sotto forma di flashback.

Per chi fosse interessato a non perdersi nulla, segnalo il cofanetto “Mondo Uno” che comprende l’intera trilogia, rivista e corretta grazie alle segnalazioni

dei lettori e all’opera impareggiabile di altri autori indie amici.

Quindi cosa aggiungere se non: buona lettura!

“La legge morale è un’invenzione dell'umanità per deprivare il forte a vantaggio del debole. La legge storica la sovverte di continuo. Nessuna verifica estrema potrà mai determinare se un punto di vista morale sia corretto o erroneo.” Cormac McCarthy – Meridiano di Sangue

Prologo – Le origini dei Quarti

“La sala delle cerimonie era gremita. Tutti i maggiorenti del Regno erano presenti per quella che si annunciava come la più grande festa mai indetta nella storia. Re Kevlan si alzò in piedi. Il suo volto era provato, ma nessuno vi fece caso. La gioia di aver sconfitto l'Astronascente era il sentimento imperante. La distruzione di tutto ciò che gli uomini conoscevano era stata troppo vicina perché qualcuno potesse notare lo sguardo torvo del sovrano. Era tempo di festeggiare, questa era la convinzione di tutti. «Miei sudditi, miei Generali, Evocatori e Invocatori, figli miei, vi ho riuniti per celebrare la nostra vittoria e per comunicarvi i miei voleri.» disse il Re. Il brusio nella sala cessò all'istante e i sorrisi nei volti dei potenti del Reame si fecero tirati quando infine si accorsero dell'ombra che appesantiva l'espressione del Sovrano. Nessuno, se non i diretti interessati, aveva notato nella formula d’apertura utilizzata dal regnante il mancato riferimento ai Sacerdoti degli Antichi e alle gerarchie ecclesiastiche. «Questa guerra è stata di grande giovamento.» sentenziò il monarca accennando ai Principi di alzarsi. I suoi quattro figli Malika, Folko, Rebecca e Gustav abbandonarono i rispettivi scranni e salirono i gradini che li separavano dal padre. «Figli miei, la decisione che ho preso è irreversibile ed è finalizzata a evitare ogni futuro conflitto. Il Regno non dovrà mai più essere costretto ai patimenti sperimentati in questi lunghi anni.» Re Kevlan pareva schiacciato da un peso insostenibile. La sua figura un tempo

possente, mostrava ora le crepe di una vecchiaia precoce, frutto delle preoccupazioni più che del trascorrere del tempo. Il mantello rosso rubino gli gravava sulle spalle come un macigno. Folko, il maggiore dei figli ed erede designato, fece per andargli incontro, pronto a sostenerlo in questo momento di difficoltà. Brusco il Re lo allontanò, ritrovando in quel gesto l’abituale alterigia. Il carisma risorto durò solo un istante. «Sono ancora in grado di reggermi sulle gambe, figlio.» Il giovane, rispettoso, chinò lo sguardo. «Il tempo delle riflessioni è giunto al termine. Sento avvicinarsi il momento della morte, della mia liberazione, ma non intendo essere la causa di nuovi spargimenti di sangue.» Lo sguardo che lanciò ai figli non lasciava dubbi. Tutti sapevano le inclinazioni dei Principi. Tutti conoscevano le fazioni che si muovevano al loro seguito e che erano rimaste sino ad allora nell'ombra solo a causa della lunga guerra che aveva visto l'esistenza stessa del Regno minacciata dal Mago folle Isyl. «Il Regno verrà diviso in Quattro Quarti, la decisione è presa. Ognuno di voi sarà Re, e assieme vi farete carico della protezione dei Quarti. Una fortezza impenetrabile sorgerà ad Askeen per conservare e vigilare sulla prigione di cristallo che intrappola lo Sterminatore di Mondi, Isyl.» Le espressioni sui giovani volti dei Principi coprivano l'intero arco delle emozioni: dal disappunto del primogenito Folko, alla gioia della piccola Rebecca, che mai avrebbe sognato di divenire Regina. In sala un brusio di approvazione precedette lo scroscio degli applausi. Re Kevlan era soddisfatto: tutti i presenti avrebbero tratto giovamento da quella decisione.

«Padre» fu Folko il primo a reagire, forte dell'essersi visto sottratti i tre quarti del Regno «dividere il Reame rischia di indebolirlo.» Le parole furono fagocitate dal chiasso circostante, ma il Re riuscì a percepirle e la sua espressione tornò a rabbuiarsi. «Non è questo il luogo per discutere su decisioni ormai prese.» rispose, alzando le mani e tacitando al contempo Principe e uditorio. Nella sala delle cerimonie calò nuovamente il silenzio. Il sovrano fece un cenno al Generale Kosmo che trasmise l'ordine ricevuto ai subalterni. Il rumore cadenzato di stivali chiodati inondò la stanza. Da tutte le uscite, guardie armate affluirono a o di marcia. Perplessi, i presenti si strinsero istintivamente al centro della sala, per far largo ai militari che mano a mano li accerchiavano. «Sudditi, non ho ancora finito.» tuonò Re Kevlan additando nuovamente al Generale. «Questa guerra mi ha insegnato un’altra cosa fondamentale, che intendo trasmettere ai miei eredi.» I quattro Principi non sapevano che altra sorpresa avesse in mente il padre, ma condividevano l'agitazione che si stava impadronendo dei convenuti. Kosmo, in risposta all'ordine del Sovrano, aveva invitato il Patriarca della Chiesa degli Antichi, il Sommo Nicodemo, a raggiungere i figli del sovrano sul palco. L'anziano gerarca avanzò lentamente, il bastone d'oro riccamente lavorato ad aiutarne l'incedere incerto. «Il culto degli Antichi viene sin d'ora vietato. Ogni pratica legata ad esso viene messa al bando e ogni uomo o donna che verrà scoperto a professare qualche cerimoniale a favore degli Dei verrà condannato alla pena capitale. Procedete pure!» L'ordine del Re venne eseguito con efficienza.

I soldati si intrufolarono nella folla dei presenti, ognuno con il proprio obbiettivo ben presente nella mente. Raggiunsero i prelati della Chiesa degli Antichi e li trucidarono lì, davanti a tutti. Il caos scoppiò dopo le prime esecuzioni, sostituendo la paralisi che aveva bloccato i presenti, esterrefatti. Alcuni dei preti tentarono una fuga sgraziata, le vesti che svolazzavano in modo imbarazzante intralciandone i movimenti già goffi. Altri addirittura tentarono di resistere alla carica dei soldati con la forza, esplorando un campo per loro sconosiuto. Furono in ambedue i casi pantomime infruttuose, degne di guitti destinati al martirio. Nicodemo urlò contro Re Kevlan parole che solo il sovrano e i suoi figli poterono udire. Prima di morire, voleva capire cosa avesse originato quella follia. Il Re si lasciò sommergere dall’ira che aveva covato per il ventennio di guerra che aveva tormentato il suo popolo. «Dov'erano i tuoi Dei, vecchio, quando l'Astronascente devastava intere regioni del mio Regno? Dov'era Ulnar, il loro Signore quando Isyl annientava le miei legioni? E la Dea della Pace, Lena, dormiva sonni tranquilli mentre le mie schiere trovavano la morte travolte dai demoni partoriti dalla mente del Mago folle? Dimmelo e io risparmierò la tua miserabile vita!» Il Re era paonazzo e nei suoi occhi la follia aveva sostituito ogni parvenza di raziocinio. Tutt'attorno la mattanza proseguiva. Le urla lancinanti dei sacerdoti sgozzati come bestie non riuscirono ad impietosire gli Antichi che quegli uomini avevano venerato per tutta la vita. «Non è nei poteri di un uomo, nè in quelli di un Re, pretendere di giudicare l'operato degli Dei.» disse il Patriarca, scatenando ancor più la rabbia del Sovrano.

Re Kevlan estrasse la lama e con un affondo trafisse l'uomo di fede. Pur impalato il vecchio riuscì a trovare le forze per maledire il proprio assassino, l’uomo che aveva servito fedelmente per decadi. Gustav, il più pio fra i figli di Re Kevlan, fece un o avanti, per soccorrere Nicodemo, ma il Generale Kosmo lo trattenne. «Lasciami stare.» ordinò il Principe cercando di sciogliersi dalla presa del possente Generale, ma questo fu inflessibile. «L'operato del Re non si discute.» Le urla andavano sopendosi annegate nel sangue. I convenuti si erano radunati in gruppetti, stretti gli uni agli altri, terrorizzati, mentre le guardie erano tornate a presidiare le uscite, lasciandosi alle spalle i corpi macellati dei rappresentanti degli Antichi. Quando il silenzio fu totale, il Re riprese la parola. «Figli miei, i Quarti saranno devoti unicamente agli elementi. Evocatori ed Invocatori saranno i nuovi sacerdoti dell'unico credo possibile. Aria-AcquaTerra-Fuoco, sono loro ad averci aiutato a sconfiggere il flagello di Isyl e solo loro concederanno ai Regni di vivere senza guerra. Questo è il mio voler…» In quell'istante i presenti videro il Re sbiancare, portandosi una mano al petto…”.

«Quante volte ti ho detto di non perdere tempo con quel moccioso e le sue storie bislacche?» tuonò il fabbro recuperando il figlio per un orecchio e trascinandoselo appresso. Il bambino si dimenava, ma non per il dolore: il suo rammarico era di non poter ascoltare la fine della favola. Il padre si fermò, gettò un’occhiata minacciosa a Tobias, il ragazzino-cantastorie. Questo era intento ad intrattenere un nugolo di perdigiorno, molti bambini

pidocchiosi e ragazzacci di strada. Tobias continuava a raccontare, senza badare minimamente alle occhiate truci dell’uomo. I suoi occhi spaziavano su altri Mondi, su altri tempi. Mulinava fra le mani un mazzo di tarocchi sdruciti, le cui immagini avevano perso brillantezza da anni. Il fabbro si accontentò di sollevare di peso il proprio figlioletto e se lo portò in bottega brontolando. «Tu ce l’hai un lavoro, non hai bisogno di buttare il tuo tempo in storie assurde.» Tobias mulinò in rapida successione la carta dell’Imperatore, quella del Bagatto e quella della Torre in fiamme, senza mai cessare di parlare, ma inanellando una serie di frasi senza senso, indifferente al vociare dei presenti che pretendevano la fine della storia. Depositate al suolo le carte, nella polvere, il bambino parve rinsavire e accontentò i presenti. “Pochi minuti dopo il Sovrano giaceva al suolo, privo di vita, trafitto da un male improvviso che puzzava di castigo divino. Per sua fortuna la morte lo colse rapida e non fu in grado di assistere a quanto errate fossero le proprie conclusioni. I Quarti erano nati nel sangue e questo sarebbe divenuto il loro naturale elemento, arrossando i territori fra continue lotte di Regni, elementi e fratelli.” Tobias chiuse gli occhi, si sedette a terra e sovrappose al tarocco dell’Imperatore quello del Bagatto. L’Era del Mago sarebbe presto tornata e con essa l’apocalisse sarebbe infine giunta.

I. Quarto dell’Acqua - Il Traghettatore dei Mondi

«Fetore di sepoltura.» sibila il Maestro d’Ossa e sputa al suolo un grumo di catarro verdastro. «L'olezzo proviene da quel sacco fetido che ti ostini a trascinarti appresso, vecchio.» lo redarguisce Deifobo. Infuriato, lo stregone gli pianta addosso gli occhi iniettati di sangue «Non rivolgerti così al Santo, giovinastro privo di credo!» Le ossa dipinte sul suo corpo d’ebano paiono vibrare a indicarne la rabbia, i capelli bianchi, riuniti in sudice ciocche, si muovono al vento come serpi. Io non sento nessun odore in effetti, solo il profumo del grano. Il campo nel quale ci ha fatto piazzare il Traghettatore dei Mondi è una distesa dorata, a perdita d'occhio. Il moto delle spighe, cullate dalla brezza, lo fa apparire come un mare dal colore alieno. Certo, Deifobo ha ragione, quell’ammasso di ossa e sterco che il Maestro chiama Santo, è l’unica fonte di odore sgradevole, eppure qualcosa di sbagliato nell’aria colpisce anche me, come se gli elementi si stessero preparando a un evento inconsueto. Aria-Acqua-Terra e Fuoco, tutti col fiato sospeso. Il campo di grano nel quale siamo immersi è rigoglioso e florido come pochi se ne vedono nel resto dei Quarti. Si deve ammettere che il Templare Savio ha amministrato la sua Isola Feudo in modo eccellente. Impossibile pensare che questa terra si trovi nel bel mezzo di una guerra che dura ormai da un secolo.

È questa ricchezza, questo ordine perfetto che quell’uomo è riuscito a imporre alla propria terra, a lasciarmi perplesso, a impedirmi di capire perché si voglia imbarcare nell’impresa. Sono tante le cose che non mi tornano a ben giudicare. «Zitti tutti!» tuona Rovers, scuro in volto. Il capitano della Centuria non è molto loquace questa sera. Meno del solito. Se ne sta lì, ingobbito, avvolto nella mantella scura che cela la sua armatura completa. Fiuta l’aria, come una belva apprensiva. Il sole sta calando all’orizzonte e la flebile luce penetra a stento fra le spighe alte come giganti. In lontananza riusciamo ancora a intravedere il Traghettatore dei Mondi inerpicarsi su per l’angusto tratturo scavato nella pietra della collinetta. Le sue movenze sono scattose, il logoro saio che lo riveste pare rigido, come fosse ghiacciato. Non dimenticherò mai i suoi occhi, due tizzoni ardenti, e lo sguardo, un vuoto fatto di fiamme inespressive. Il Duca dell'Isola Feudo di Roskeim, Savio Palwen III, il nostro committente, forte della sua recente conversione al folle culto dell'Unica Dea, pare essere tranquillo. La sua nomina a Candido Templare di Lena gli dona una risolutezza invidiabile. Povero folle. L'unica cosa importante è che la montagna d'oro che ci ha promesso sia concreta e reale, ben più di qualsiasi fantasticheria misticheggiante. La Centuria è al tuo servizio Savio, ma presto dovrai chiarirci diverse cose, che tu lo voglia o meno.

Intanto cerchiamo di portare a termine questo dannato viaggio. «Il Santo dice che non dovremmo fidarci, e mi chiede se la mia vita valga meno dell'oro che ci ha promesso il Duca.» «E tu rispondigli, no?» lo rimbrotta Deifobo. Il Maestro d'Ossa lo fissa con aria interrogativa, la bocca sdentata aperta come un allocco. «Dannazione, vecchio, certo che quell'oro vale più delle tue misere ossa!» gli ride in faccia il Biondo. Rovers lo raggiunge, il muso austero solcato da rughe di rabbia, e lo solleva di peso dal bavero del mantello. «Ho detto di tacere.» Bisognerebbe mozzargli la lingua, per riuscire nell’impresa di zittirlo. Dietro di lui il resto della Centuria è in silenzio, gli occhi puntati sulla sommità della dolina. Nonostante l'imbrunire, la figura del Traghettatore spicca come una macchia più nera dell'oscurità circostante, quasi le tenebre al suo cospetto si svilissero, lasciandogli il primato. «Il Maestro ha ragione.» interviene quieto il Templare «Un tempo questa era terra di sepoltura.» «Il Santo non mente.» ribadisce orgoglioso quello. Elyn, pallida come uno straccio, lo scruta di sbieco. Le leggo in viso la quantità di domande che vorrebbe porre: Chi è il Traghettatore? Perché dobbiamo viaggiare? Perché in questo modo? Verso dove? E mille altre. L’indole da studiosa non l'abbandona neppure in questo momento di massima tensione. I suoi occhi brillano di curiosità e intelligenza. Una donna splendida.

«Vale anche per te Duca. Silenzio e ascoltate tutti.» Ancora il capitano, monolitico nelle decisioni, come sempre. Ora la sento anch'io: una litania aspra ci viene consegnata dalla brezza che spira dalle spalle del Traghettatore. Porto lo sguardo sulla figura ammantata di tenebra e vedo i gesti che l'uomo misterioso sta compiendo con le mani. Traccia nell'aria dei glifi dalle linee perfette, che rimangono visibili per secondi, lasciandosi dietro una scia cremisi. Al mio fianco Morte sembra sul punto di parlare, la bocca spalancata in un’espressione di stupore che mai avrei immaginato potesse assumere. Lo immagino a proferire le sue prime parole da quando lo conosco, mezza dozzina d’anni oramai. Siqquara bestemmia i suoi dei, il tozzo corpo muscoloso che freme dall’ansia, come si trovasse in procinto di combattere un avversario invisibile. «Cosa diavolo sta facendo quello?» chiede Zitara rompendo lo stallo imposto dal comandante e rimediando da questo un’occhiataccia furiosa. Il nostro esploratore Fëanor Miratur, dotato di sensi acutissimi, è spiazzato, osserva la scena ma brancola nel buio, come tutti noi. Questa volta neppure la sua vista d’aquila riesce a dissipare l’ombra che ammanta la cima della collina. Il Maestro d'Ossa è già partito a cantilenare in quella lingua che nessuno ha ancora capito se sia di sua invenzione, oppure appartenga a qualche luogo sperduto di questo mondo. Scuote con vigore il sacco che chiama Santo, spargendone tutt’attorno il fetore e accennando un o di danza sgraziata. Ci stringiamo in formazione, senza nessuna ragione oggettiva, spinti da una sensazione di pericolo incombente. «Non temete, l'Immacolata ci protegge.» tenta di rassicurarci Savio.

ReCorvo, Morte e Siqquara hanno impugnato le armi. Poi la voce del Traghettatore dei Mondi irrompe sul campo rotolando dalla collina come una valanga. Penetrante e imperiosa ci arriva direttamente nella testa. Inintelligibili, ma dal sapore di un’invocazione arcaica, proibita e pericolosa, le parole ci pungolano la mente. «Il tributo in anime è stato versato, buon viaggio.» In risposta ai suoi gesti, linee e segmenti si tracciano nel campo di grano sottostante, piegando con delicatezza le spighe e dando origine a un pittogramma composto da simboli geometrici complessi. Cerchi dalle curve perfette, in cui si inseriscono armoniosamente ottagoni e stelle stilizzate. Non abbiamo neppure il tempo di interrogarci sul loro significato che crolliamo al suolo, privi di sensi.

Rumori concitati mi strappano dal sonno. Mi guardo attorno, cercando di individuare le fiere capaci di emettere quei ragli. La testa mi duole e la vista stenta a rischiararsi, le palpebre che si muovono asincrone. Sono nel fitto intrico di una foresta, anche se non riesco a riconoscere la specie degli alberi che mi circonda. Il verde scuro domina tutto, mozzandomi il respiro. Non solo quello, anche l’umidità opprimente fa la sua parte. Mi sento soffocare, mentre l’ansia incalzante spazza via i torpori del sonno. I rumori comunque provengono da quel marasma di giunchi, liane e fogliame dalle dimensioni gigantesche.

L’ambiente mi è sconosciuto, totalmente. Una luce blanda illumina la zona, penetrando a stento fra le chiome di quelle piante dalle fattezze anomale. Sottili raggi che filtrano tra il fogliame come schegge di luce proiettate da un diamante. Fanghiglia e putredine tappezzano il suolo in uno strato di fogliame misto a acquitrino, a perdita d’occhio, lasciando nell’aria un odore di terra in decomposizione. Improvvisamente riesco a focalizzare ciò che mi sta accanto. Li vedo, i miei compagni, i membri della Centuria, e un briciolo di speranza si fa largo nel mio animo. Il Maestro d’Ossa, Rovers, ReCorvo, Zitara e Siqquara, Fëanor Miratur, Morte, Deifobo e Elyn. Ci sono tutti. Appaiono disorientati. Anche i loro occhi vagano nel vuoto, persi in quella coltre di verde rigoglioso, alla ricerca di qualcosa di familiare. Come me, non trovano nulla. Morte fiuta l'aria inalando ampi respiri che gli gonfiano il collo tatuato. Le fiamme verdi che ne avvolgono la metà paiono guizzare in risposta a quella ricerca. «Stringetevi a me, saranno qui a momenti.» afferma con calma il Templare, sguainando la spada benedetta dalla lama candida come avorio. Chissà se è affilata, o è solo uno stucchevole oggetto di culto? Il comandante pare riprendere il controllo. Getta a terra l’elmo, quasi volesse liberarsi con quel gesto dai fumi che gli annebbiano la mente. «Di che diavolo parlate, Duca? E dove ci ha portato quel maledetto Traghettatore?»

Già, il Traghettatore manca all’appello. Quella canaglia ha assolto al proprio compito e si è dileguato. Si starà già godendo la ricompensa. Solo ora mi accorgo che il pittogramma composto dall’uomo misterioso nel grano, ha segnato anche quella giungla, aprendo varchi dalle linee geometriche in quell'intrico di vegetazione. Noto che anche Fëanor lo sta analizzando. Il ringhio animalesco che mi ha risvegliato si fa più vicino, più pressante. «Siamo nel Nuovo Quarto, Capitano Rovers. Le nostre indagini partiranno da qui. Non c’è nulla da temere. Lena è con noi!» afferma sbrigativo Savio, muovendo la lama con gesti misurati e precisi e intonando una preghiera che mi suona familiare. Il Nuovo Quarto? Non riesco neppure ad articolare quel pensiero che qualcos'altro attira la mia attenzione: qualcosa turba gli elementi, lo percepisco all’istante. Visto che nessuno nella Centuria, oltre me, è in grado di interagire con essi, non può che trattarsi del Duca. L’Acqua, ovviamente, sta chiamando l’Acqua in nostro aiuto! Il suo potere è forte, e cresce rapidamente. Dalla bruma che aleggia fra la vegetazione, compaiono dozzine e dozzine di occhi luccicanti. Eccoli i nostri aggressori, finalmente si fanno avanti. Bastardi! Con la coda dell’occhio vedo Zitara e Fëanor incoccare frecce nei rispettivi archi, Rovers armare la balestra e Deifobo estrarre un dardo duwan. «Non vorrai sprecare uno di quelli per dei luridi cagnacci?» lo ammonisce Rovers. «Non ci tengo a essere sbranato da un branco di sciacalli.» si difende il Biondo, abbassando comunque il quadrello di polvere elementale. «Deve ancora nascere l’animale capace di accopparmi!» barrisce ReCorvo

mulinando le sue asce gemelle. Torno a concentrarmi sul rituale del Templare, mentre le belve, con circospezione, affiorano dalla nebbia fiutando i confini del pittogramma tracciato dal Traghettatore. Più d’uno degli sciacalli ci piscia sopra. Il Duca, oltre a essere un ministro della Dea Buona, è un Rabdomante o un Rabdomastro. Non riesco a capire perché abbia celato la richiesta, come se si vergognasse del proprio gesto. Forse la sua antica arte è in conflitto con la nuova fede? Non è questo il momento per pensarci, ma quando arriverà vorrò delle risposte da Savio. Sguaino la spada bastarda e mi tengo pronto, cercando di allontanare quel dubbio dalla mente. Ad ogni modo le conoscenze del Templare sono superiori ai rudimenti che appresi a suo tempo all'Accademia di Askeen. La Cortina d'Acqua compare improvvisamente, come se provenisse da molto lontano. Ne percepisco l’irruenza e da questa comprendo che la foresta è dotata di un’anima resistente, capace di opporsi al suo arrivo. Il Maestro d’Ossa si stringe il Santo al petto, invocando i propri protettori. È uno spettacolo vedere l'Elementale dell’Acqua avvolgerci in spire protettive, disponendosi tutt'attorno a noi poco prima che l’assalto del branco abbia inizio. La Cortina è cristallina come l’acqua di una fonte di montagna, ma il suo potere è smisurato. Nulla potrà attraversarla, fintanto che ci concederà protezione. Le bestie non possono saperlo. Ignare, e folli, si scagliano sulle pareti trasparenti venendone respinte in un coro di latrati furibondi, i turbini d’acqua affilati come lame che ne incidono le carni facendole a brandelli. Le belve sbavanti e fameliche non si arrendono cercando un pertugio che permetta loro di raggiungerci. Percorrono con foga il perimetro del cilindro protettivo come una massa informe di pelo e canini sporgenti, compiendo rapidi

attacchi, fortunatamente inefficaci. Sono un branco numeroso e determinato. «Tu, saputella, ma gli sciacalli non sono bestie solitarie? E soprattutto non si nutrivano di cadaveri? Ci hanno scambiato per delle carcasse forse?» chiede Siqquara a Elyn, andosi l’ascia da una mano all’altra, i muscoli del corpo tornito pronti a scattare. La studiosa la fissa, gli occhi ricolmi di stupore. Nel comportamento degli animali non vi è nulla di naturale. Mossi da una furia cieca che li fa sragionare e li spinge a comportamenti contro natura, annichilendo l’istinto che avrebbe dovuto avvisarli della pericolosità della Cortina d’Acqua. L’uomo non è una loro preda abituale, per sapere questo non ci vuole certo l’erudizione di Elyn, la quale abbozza ugualmente una spiegazione, non capendo che la donna barbaro la stava solo prendendo in giro. Rovers sta elaborando un piano, glielo leggo in quei suoi occhi cerulei che ben pochi riescono a penetrare. Probabilmente Fëanor Miratur ha già scandagliato la zona circostante, valutando le vie di fuga. Prima che il capitano possa esporci le direttive, gli animali si fermano. Improvvisamente guardinghi drizzano le orecchie, le fauci sbavanti che per un attimo si serrano in attesa. Sibili e schiocchi precedono una gragnuola di colpi. Dal profondo del coacervo di vegetazione proviene una salva di frecce. Fra latrati e guaiti, numerosi sciacalli finiscono riversi al suolo, mentre i sopravvissuti contrattaccano tuffandosi nella selva. Osservo la scena, tentando di capire chi sia giunto in nostro soccorso. Il Traghettatore dei Mondi, forse? Ne dubito… Colgo delle ombre aggirarsi fra le piante, ma non riesco a carpirne l’identità:

sagome erette che ricordano dei ragazzini, data la loro scarsa altezza. Corrono fra le frasche ingaggiando combattimenti feroci con gli animali ed emettono grida altrettanto belluine. «Indigeni.» sentenzia il Duca Savio Palwen III, allentando il controllo sulla Cortina d’Acqua. Qualcosa mi dice che stia già rimpiangendo di aver lasciato la sua ordinata Isola Feudo.

II. Nuovo Quarto – Il clan dello Sciacallo

«Ancora quelle maledette navi di cristallo.» C’era odio nella voce gutturale del guerriero ombra. «Tha-ho, purtroppo anche questo arrivo era previsto.» L’ombra osservò Kiquathu con aria pensierosa. «Lo so, Divinatore, ma provo una forte rabbia.» Dal costone roccioso sul quale si erano posizionati, godevano di una visuale eccellente. Sotto di loro sorgeva quello che era stato il primo campo eretto dagli invasori: Nuova Cadolia. Alte palizzate erano sorte a protezione del nucleo centrale di quell’insediamento che andava assumendo sempre più i connotati di una vera e propria città. Tutt’attorno la vegetazione era stata rasa al suolo per concedere agli abitanti, e ai loro maledetti difensori dalle vesti candide, di non farsi sorprendere dagli attacchi dei clan. «Siamo stati folli a non sterminare quegli stranieri, quando eravamo ancora a tempo.» Kiquathu ricordava tutto. Riviveva ogni giorno il primo sbarco come monito a non dimenticare mai l’errore commesso. Con i suoi modi gentili e affabili, colei che si faceva chiamare la Sorella di Lena, Agape, aveva chiesto la possibilità per la sua gente di sbarcare e di posare il campo in riva alle acque cristalline.

Un’aura lucente incorniciava il suo volto splendido, i lunghi capelli bianchi che scendevano dolcemente sulla tunica immacolata. Né Kiquathu, né i suoi fratelli avevano mai udito una voce così armoniosa. Mai avevano posato gli occhi su una creatura tanto splendida. I primi ad averla vista, l’avevano creduta l’incarnazione stessa della Dea Madre Nulla. Avevano così acconsentito senza remore alle richieste, offrendo a lei e alla gente che l’accompagnava tutto ciò di cui necessitavano. Il Divinatore doveva ammettere di esserne rimasto affascinato. D’altronde non c’era nulla di paragonabile, fra il suo popolo. Mentre i maschi degli stranieri differivano da loro solo per la maggiore altezza e per la peluria che ne ricopriva capo, volto e torace, le femmine erano curiosamente diverse, in tutto, soprattutto la Sorella di Lena, che li comandava. Solo l’innata diffidenza di Kiquathu l’aveva tenuto lontano dagli insediamenti degli stranieri e quella era stata la sua salvezza. Anche gli sciamani e i saggi dei clan non avevano avuto da ridire, in quanto la Madre stessa non sembrava nutrire ostilità verso i nuovi venuti e non aveva dato alcun segno di disapprovazione. Così nuove navi di cristallo avevano fatto la loro comparsa all’orizzonte e gli sbarchi si erano susseguiti. I suoi fratelli, incuriositi e attratti da quelle magnifiche creature che gli stranieri chiamavano donne, si erano prodigati in tutti i modi pur di poter venire a contatto con i nuovi venuti. Questi ne avevano approfittato spudoratamente, fino a giungere a insidiarne la libertà. «Riesci a percepirla, Tha-ho?» «Che cosa, Divinatore?»

«L’empietà che muove quelle navi. Non vi è nulla di naturale nel loro incedere arrogante. Vedi come infrangono le onde? Vedi come fendono i marosi senza subirne la forza? Qualcosa di malefico le muove e le governa e, se osservi con attenzione, potrai vedere il volto del mostro che le dirige far capolino sopra di esse. I suoi occhi sono tizzoni ardenti.» Il guerriero ombra fissò lo sguardo sugli scafi affusolati delle imbarcazioni. Le pareti traslucide rendevano le sagome dei membri dell’equipaggio simili a spettri baluginanti, eppure non riuscì a scorgere ciò di cui parlava Kiquathu. Ugualmente non dubitava della veridicità delle parole del Divinatore. Non più. Nonostante il mare fosse agitato, le navi procedevano spanne sopra il pelo dell’acqua, senza beccheggiare né mutare rotta. Le vele bianche, innalzate su alberi vertiginosi, non erano smosse dal vento quasi fossero un semplice abbellimento e non gli strumenti che concedevano alle imbarcazioni di muoversi. «Anche questa volta sono comparse dal nulla. I guerrieri di vedetta garantiscono di non essersi mai distratti, eppure dove un istante prima c’era solo mare, giurano siano comparsi quei cinque scafi. Dal nulla, come fossero le acque stesse ad averli partoriti.» «Non rimproverarli Tha-ho, forse i tuoi guerrieri dicono il vero.» considerò accigliato Kiquathu grattandosi il mento liscio. «Come possono essere comparse dal nulla?» «Gli avvenimenti di questi tempi non trovano spiegazione razionale, prima lo accetterai e prima riusciremo a liberare il nostro popolo.» Il Divinatore osservò l’insediamento. Per le vie che tagliavano il villaggio creando una griglia ordinata, c’era fermento. Mercanzie di tutti i generi venivano caricate e scaricate dalle navi alla fonda, nella baia. Quelle genti erano indubbiamente operose, ma il ruolo affidato ai suoi simili non

poteva concedergli di guardare a questa loro attitudine con bonarietà: schiavizzati e vessati, trattati come esseri inferiori, ai suoi fratelli toccavano i lavori più miserabili ed estenuanti. Il guerriero gli lesse nei pensieri. «Perché la Regina Madre permette tutto questo?» Kiquathu lo colpì al volto con violenza, senza preavviso. «Nulla ci ha abbandonati, stolto! Anche questo è bene che tu lo capisca sin da subito. Sciacal è la nostra nuova guida e in cambio di fedeltà ha promesso di salvare il popolo.» Il guerriero ombra abbassò il volto glabro sul quale stava comparendo una chiazza rossa, causata dal colpo subito. Le navi di cristallo avevano gettato l’ancora nella baia antistante e sciami di scialuppe venivano calate fuori bordo. Coloni invasati e soprattutto soldati della Dea Buona, Lena, così la chiamavano quei dannati. Le loro corazze lucenti lanciavano barbagli accecanti, le criniere bionde che garrivano al vento: Cavalieri della Concordia, e per ognuno di essi almeno venti immacolati. Altre imbarcazioni cariche di oro, ferro e cibo, partivano dal pontile in senso opposto per raggiungere le navi all’ancora: risorse che gli stranieri rubavano alla loro terra. Infinite tonnellate di selvaggina sotto sale, come se la patria di quegli stranieri fosse un deserto arido, incapace di fornire loro sostentamento. I viaggi si facevano sempre più frequenti e numerosi e la terra in cui lui e i suoi fratelli da sempre abitavano, stava iniziando a portarne i segni. Nuove colonie venivano fondate sulla riva del mare e sempre nuove zone di foresta venivano date alle fiamme e spianate. Anche i buchi nel ventre della terra, che i nuovi arrivati chiamavano miniere, venivano scavati sempre più all’interno, turbando la quiete della vita della

giungla con l’andirivieni di carri e merci. Intere specie animali venivano annientate, sia per procacciare cibo ai nuovi venuti, che per soddisfarne i capricci venatori. Tonnellate di carcasse venivano spolpate e messe sotto sale per essere imbarcate e riportate nella terra nativa di quei maledetti. «Guarda le nuove leve degli invasori. Nuove spade pronte a mietere vittime, nuovi stivali chiodati con cui calpestare l’onore dei nostri fratelli e deturpare il suolo della nostra terra.» La voce del Divinatore era incrinata. La consapevolezza della difficoltà dei tempi in cui si trovava a vivere e delle responsabilità che gravavano sulla sua persona lo facevano apparire ancora più vecchio. Tha-ho lo guardò con ammirazione. «La rabbia di Sciacal non darà loro scampo. Raderemo al suolo anche questa città.» «No, non ancora, non è il momento propizio. I clan ribelli non sono abbastanza forti per condurre una guerra. I Nuovi Dei sono giovani e inesperti. Dobbiamo muoverci con astuzia. Sciacal ha detto che un evento capace di mutare il sentiero della storia è prossimo ad accadere e qualcosa mi dice che non manchi poi molto.» Lo sguardo del Divinatore corse all’entroterra. Sorvolò gli ordinati campi di lavoro dove i suoi fratelli erano costretti a sudare per le vesti bianche, a compiere strage di palme e banani per far spazio ai nuovi venuti e alle loro colture, fino allo sfinimento. Oltreò le miniere dove i propri simili sputavano sangue ogni giorno, ammalandosi e morendo, per arricchire gli invasori, chini sotto il peso di carrelli colmi di minerali. Li trascinavano tirando catene che penetravano loro nella carne, sfigurandoli al pari delle frustate che i padroni dalle vesti bianche infliggevano loro. Disgustato per una resa così vergognosa, distolse lo sguardo e proseguì oltre, sondando le distese di giungla vergine, ancora preservata dalle mire

espansionistiche degli stranieri. La Madre, la Dea Nulla che sempre li aveva guidati e protetti, si aggirava furtiva nei meandri della selva. Abitava ancora le piramidi-tempio che avevano innalzato in suo onore. Kiquathu riusciva a percepirne la presenza, eppure essa non interveniva in soccorso dei propri figli. Il Divinatore si allontanò da lei, lasciandola sola con i propri dubbi e con i propri rimpianti, forse. Lui non era in grado di comprenderlo. Percepiva la rabbia di Nulla, trattenuta a stento, ma non comprendeva verso chi questa fosse pronta a deflagrare. Giunse infine al pittogramma che aveva marchiato la selva, tracciando solchi nei quali non sarebbe mai più cresciuta vegetazione alcuna. Quel simbolo arcano era carico di potere. Impossibile asse inosservato. «Sono giunti.» sbottò sbalordito. «Chi, saggio Kiquathu?» «Stranieri, che non hanno utilizzato le navi di cristallo.» «Devo mandare i guerrieri a ucciderli, Divinatore?» «No, forse sono diversi da quelli che stanno schiavizzando i nostri compagni.» «Diversi? Vuoi trattare con loro?» Tha-ho vide gli occhi di Kiquathu perdere l’abituale luce e farsi vacui mentre sondavano l’orizzonte. Le pupille iniziarono a muoversi da destra a sinistra, le palpebre che si socchiudevano conferendo al saggio un’espressione ebete. Un’ombra comparve sul viso del Divinatore e gli occhi della testa di sciacallo che portava come copricapo brillarono di una luce vermiglia. «Sciacal è interessato a questi uomini, guerriero ombra. Dobbiamo prenderli, sottrarli ai nostri nemici.» la voce di Kiquathu pareva provenire da un pozzo.

Tha-ho si inchinò. «Se questo è il desiderio di Sciacal, andrò subito a cercarli.» arono secondi senza che nessun altro rumore all’infuori del respiro accelerato del guerriero ombra disturbasse i due, poi Kiquathu scosse con violenza il capo, tornando nel pieno delle proprie facoltà. «L’irruenza del Dio si è nuovamente impossessata del mio corpo…» disse il Divinatore con un filo di voce, stremato, il corpo scosso da fremiti incontrollati. «I tuoi presagi, saggio Kiquathu, sono stati confermati. Gli stranieri interessano a Sciacal. È meglio mettersi in marcia.» «I nostri fratelli a quattro zampe sono già sul posto, sento i loro ululati furiosi. Purtroppo la scia di potere lasciata dai nuovi venuti è stata così grezza da attrarre anche altre attenzioni.» «Credi ci saranno rischi?» domandò il guerriero ombra, la cui vita era dedicata alla protezione del Divinatore. «Sarà meglio allertare i guerrieri.» «Così sarà fatto.» Tha-ho si voltò e si incamminò giù per il declivio che lo avrebbe portato nella radura dove si era accampato il clan dello Sciacallo. «Ancora una cosa» gli urlò dietro il Divinatore «manda dei messaggeri agli altri clan ribelli. È giunto il momento di riunirsi.» Se la sua interpretazione delle parole arcane di Sciacal era corretta, fra quegli stranieri si nascondeva colui che avrebbe potuto liberarli dalle vesti bianche, e dalla cagna adoratrice di Lena che li guidava.

III. Cuore dei Quarti - La Fortezza di Askeen

Il Rabdomastro Malet ripose con delicatezza il volume che stava leggendo. La lettura era il suo unico rifugio da quando, due lune prima, lo avevano sorteggiato come nuovo rappresentante del Quarto dell'Acqua per la carica di Guardiano di Askeen. Quella fortezza, tetra e scura, sembrava permeata dalla malvagità del prigioniero che custodiva. Non c'era da stupirsi che neppure i più ambiziosi fra i Mastri, si offrissero volontari per quell'incarico, e che i più maledissero la scelta operata millenni prima da Re Kevlan. Inoltre lo stare a stretto contatto con le genti degli altri Quarti non poteva certo essere considerato un piacevole atempo. Per quanto ampia fosse la fortezza di Askeen, gli spazi sembravano angusti, dovendoli dividere con degli stranieri. Si era fatto tardi e Malet doveva andare a dare il cambio a Keter. La spocchia del giovane Aeromante non gli piaceva, ed era convinto che tale ritrosia non fosse solo dovuta al fatto che i loro Quarti di appartenenza fossero in guerra da più di un secolo. C'era qualcosa in quell'evocatore che non gli dava sicurezza. Nella loro attuale missione i quattro Guardiani avrebbero dovuto avere cieca fiducia l'uno dell'altro, eppure, al momento l'unico cui Malet tributava un certo rispetto era l'anziano Hokmah. La maggiore affinità che provava per il taciturno Geomastro era in parte giustificata dal fatto che avessero circa la stessa età, ma anche il pregiudizio che da sempre divideva le due scuole di pensiero aveva il suo peso. Evocazione o Invocazione? Trattare con gli elementi o dominarli?

Erano due visioni diametralmente opposte e anche ora, nel centro dei Quarti, esse trovavano i propri rappresentanti e come naturale conseguenza gli uni si allontanavano dagli altri per una sorta di istinto naturale che li faceva diffidare da chi la pensava diversamente. Così la Piromante Binah si era avvicinata a Keter, mentre Malet aveva fatto coppia con il Geomastro. Eppure lì, al centro dei Quarti, c'era in ballo la sicurezza del Mondo di Alenna e tutte le diatribe dovevano essere accantonate per un bene superiore. Tutta colpa di Re Kevlan che ci ha messo in questa condizione! I tempi in cui l'Impero riuniva tutte le terre sotto un unico credo omogeneo erano lontani. Poi il regnante folle aveva compiuto l'errore di dividere il Reame nei Quarti, per affidarne uno a ciascuno dei propri discendenti. Certo, era stato mosso da fini nobili, ma il risultato? Guerre per il potere, per estendere i propri domini e divisioni di usi, costumi, fede, nonché tradimenti e vessazioni. Malet non riusciva neanche a immaginare il tempo in cui gli uomini si muovevano sotto l'egida ed i vessilli di un unico Sovrano. Troppo sangue aveva dilavato quei ricordi che erano già sbiaditi nelle memorie dei suoi avi. Forse col tempo riuscirò ad apprezzare questa convivenza forzata. Il Rabdomastro indossò la palandrana blu che contraddistingueva gli appartenenti al suo ordine, e si incamminò verso l'uscita degli alloggiamenti. Percorse corridoi scavati nella pietra nera e illuminati da fiaccole la cui luce veniva inghiottita dalle pareti. Innanzi al portone della torre che costituiva la sua dimora, trovò ad attenderlo il comandante della guarnigione del Quarto dell'Acqua. «Rabdomastro Malet, buona sera.» «Comandante Allurian, non c'è nulla di buono nel fare la guardia di notte.»

rispose senza astio, procedendo a ampie falcate verso il mastio centrale. Il plotone lo seguì in silenzio attraverso la coorte interna della Fortezza. Annottava e sulle murate guardie silenziose percorrevano una ronda perpetua, sempre identica a se stessa, da millenni

«Siete in ritardo, Malet.» esordì con sgarbo il giovane. Indossava una sottile veste turchese dai pregiati finimenti in argento che ricordavano la sua provenienza. Intarsi eccentrici e simboli mistici tipici delle bizzarre e selvagge genti del Quarto dell'Aria. Un cerchio del medesimo materiale gli teneva raccolti i lunghi capelli biondi e crespi. Un ragazzo. Poco più che un ragazzo per difendere il mondo, pensò fra sé Malet. «Comprendo il vostro timore per la guardia notturna, ma ora sono giunto in vostro soccorso.» rispose, muovendo al sorriso i soldati dell’Acqua. «Anziano, ma ancora capace di fare del sarcasmo. Questo vi fa onore, speriamo solo che non sia l'unica arte in vostro possesso.» «Non perdiamo tempo, Sommo Keter, abbiamo entrambi del lavoro da sbrigare. Io devo preservare il mondo dalla furia di Isyl e voi dovete andare a rifarvi l'acconciatura. Pare proprio che la lunga guardia vi abbia scompigliato la chioma.» I soldati del Quarto dell'Aria, al seguito del giovane Aeromante, si schierarono al suo fianco, con aria minacciosa. «Suvvia soldati, calma, il vecchio straparla. Alla sua età è del tutto normale. Buon divertimento Malet, a domani.» L'evocatore dell'Aria si allontanò lasciando il compito di sorvegliare l’Astronascente Isyl all'invocatore dell'Acqua.

La veste nera ebbe un sussulto. Quando Malet se ne avvide, rimase inchiodato alla balaustra. Stava percorrendo la scala a chiocciola che bordava la torre del mastio centrale di Askeen, quando il suo sguardo fu attratto da quel movimento impercettibile. Dall’alto osservò le pareti trasparenti della prigione di cristallo che conteneva quel logoro staccio nero. La sua mente, trafitta da quella visione nefasta, impiegò minuti interi a cancellare l’idea che il trascorrere dei secoli aveva ingenerato in tutti loro: quella che era finita con l’essere considerata una semplice reliquia maledetta, nient’altro che un saio che per capriccio divino si manteneva in piedi, era ben altro: Isyl stesso, il flagello, si celava nella prigione di cristallo e quella era la veste che lo ancorava a questo mondo. Malet pensò a un’allucinazione, a uno scherzo dei propri vecchi occhi malandati. Troppe notti ate a leggere al chiaro di un lume di candela. La veste ebbe un altro tremito, ancor più vistoso. L’anziano si precipitò giù dalla rampa delle scale per portarsi a ridosso della gabbia incantata, due, tre gradini alla volta, le gambe rinsecchite che già gli dolevano. Ansimante giunse a toccare le pareti di cristallo: non vi erano dubbi, la tunica era scossa da un flebile movimento, come percorsa da una debole brezza. Il Rabdomante gridò l’allarme, a squarciagola. Interi millenni erano trascorsi nella staticità assoluta. Ora quel misero movimento era sufficiente a gettarlo nel panico. Il suono fesso di una campana segnalò che il grido era stato recepito. Si stupì che le guardie, nonostante l'inoperosa attesa durata secoli, fossero giunte così celermente.

Con le insegne dei Quarti di appartenenza ben impresse sui pettorali di ferro, imbracciavano lance e scudi, come se quelle misere armi potessero qualcosa contro l'essere lì rinchiuso. «Che succede Saggio Malet?» chiese il capitano delle guardie del Quarto dell'Acqua. Il Rabdomante indicò lo straccio nero e un’ondata di terrore percorse le schiere lì presenti. Occhi increduli rimasero ipnotizzati da quell’incanto del malaugurio. In breve arrivarono anche gli altri tre Guardiani. Prima la Piromante, poi l’Areomastro e infine il vecchio e claudicante Geomastro. Stretti in circolo osservarono ammutoliti la scena, maledicendo che quell’evento fosse accaduto durante la loro Guardia. «Dannazione, e dire che l'estrazione è avvenuta meno di due lune fa… che beffa…» imprecò il giovane Keter, la cui spocchia pareva essere stata sopraffatta dalla gravità della situazione. Il Geomastro Hokmah, il più anziano fra i Guardiani, lo guardò con disapprovazione. «Non si è mai assistito a un evento del genere. Credi forse che trovandoti altrove avresti potuto salvarti dall'ira di Isyl?» «Vecchio menagramo…» I soldati del Quarto della Terra si agitarono, mormorando con disapprovazione alle parole dell’Aeromante. I rudi e pragmatici uomini della Terra mal digerivano la libertà di parola concessa alle genti del Vento e non erano certo disposti a fare sconti, neppure in quelle circostanze. Fu Hokmah stesso con un cenno della mano a invitarli alla calma, a tollerare ciò che fuori dalle nere mura di Askeen non avrebbero sopportato.

«Lasciamo le nostre futili dispute per tempi migliori.» interloquì con misura Malet «Le pareti della cella di cristallo non temono la potenza di Isyl, ma quel movimento deve significare qualcosa.» La sua voce era incrinata dall'ansia, ma pregna di buon senso. «L'Astronascente non ha la forza per liberarsi da solo, questo è scritto e non abbiamo motivo di dubitarne. I millenni hanno confermato la veridicità di tali assunti.» si intromise Binah, la Piromante. «Se c'è qualche pericolo, non può che venire dall’esterno.» «Concordo con la bella e focosa ragazza» si intromise Keter fissando l’occhio di Asul marchiato a fuoco sulla guancia destra della ragazza «e faremo meglio a mandare un po' di soldati sugli spalti, piuttosto che stare qui a rimirare quella pezza lercia.» Come a conferma di quella previsione, urla d'allarme giunsero dai bastioni esterni, rimbombando cupamente fra le mura della torre del mastio.

I Guardiani stavano percorrendo la coorte interna della fortezza quando l’anziano Hokmah si accasciò a terra. Imprecando Keter, che gli era al fianco, lo sorresse per un braccio. «Così vecchio da non riuscire neppure a sopportare una corsetta? Siamo infine giunti a questo? Mettere la sicurezza del mondo sulle fragili spalle di un Geomastro ottuagenario? Un fardello eccessivo…» «Taci stolto. Possibile che tu non lo percepisca?» si intromise il Rabdomante avvicinandosi ai due. Keter l’osservò, incredulo, forse per l’offesa, forse perché infine anche lui era riuscito a cogliere i sussulti degli elementi. «Che ti succede Hokmah? La prima difesa vacilla… lo sento, chiaramente.» chiese Malet con ansia, ma non con sgarbo. L’anziano lo fissò a occhi sbarrati.

«Siamo sotto assedio. Il Bosco di Pilastri è stato violato…» «Dannazione…» esclamarono all’unisono Keter e Binah, terrei in volto.

IV. Nuovo Quarto – Gli indigeni

Quelli che credevo ragazzini sono in realtà creature deformi. Gli indigeni, come li ha chiamati il Templare Bianco, che evidentemente sa bene dove diavolo siamo finiti, sono simulacri di uomini mal riusciti: bassi, con le gambe arcuate e sproporzionate rispetto ai toraci ampi e alle braccia da scimmioni. Si muovono con agilità sorprendente fra le frasche dando la caccia agli sciacalli che volevano nutrirsi di noi. Sono nudi e dalla carnagione olivastra, glabri e con accumuli di grasso che rendono il solo guardarli nauseabondo. Impugnano lunghi coltelli, le cui lame sembrano di selce levigata e lance altrettanto rozze. «Che razza di abomini sono quelli?» sento domandare Zitara con voce disgustata mentre tende l’arco in cerca della prossima vittima. «Mostri, che però ci stanno salvando da quelle orde fameliche.» le rispondo. La Cortina d’Acqua chiamata dal Duca Savio sta perdendo d’intensità, i turbini cristallini rallentano la loro furia. Il Templare sembra stanco, e non stento a crederlo. Evocare, o invocare, un elementale di quel livello non è certo impresa da poco. Ancorarlo al nostro mondo per così lungo tempo, ancor meno. «Guardate!» urla Fëanor Miratur cogliendo fra gli alberi una sagoma più imponente rispetto alle altre, agghindata con un copricapo di piume multicolori. «Deve essere il loro capo.» Il Maestro d’Ossa si volta, lo osserva, come se ne avesse percepita la presenza da tempo immemore. «Dice di diffidare di lui.»

«Cosa, vecchio?» lo incalza Deifobo, scagliando l’ennesimo dardo verso gli sciacalli. «Il Santo, è chiaro, e non mente.» Shoggul, il Maestro d’Ossa, sostiene di vedere altri Mondi, di parlare con le anime dei morti, gli Spiriti. Tutto ciò grazie al Santo, quel sacco pieno di terra, sangue, sterco e liquami organici. La sua attenzione è focalizzata sull’indigeno capo. Forse ha riconosciuto in lui un proprio simile, dotato di Potere. A differenza di Deifobo, io gli credo. «Qualcuno aiuti il Templare.» tuona Rovers poco prima che Savio, pallido come la tunica che indossa sopra l’armatura, crolli al suolo. Nello stesso momento in cui Elyn lo prende fra le braccia, la Cortina d’Acqua sparisce, come mai fosse esistita, risucchiata dalla terra umida. Un pulviscolo di gocce permane nell’aria pochi istanti riverberando la luce solare. Percepisco la gioia dell’elementale nell’abbandonare questa landa, e la cosa mi spaventa. Altre potenze si aggirano in questi territori e non nutrono particolare benevolenza verso gli Elementali, questo è certo. «Quadrato, quadrato!» L’ordine di Rovers è perentorio e automaticamente ci stringiamo attorno alla guaritrice e al Duca. Sarebbe un peccato che il nostro committente cree subito, con la metà della paga promessa ancora da versarci. Dalla penombra delle frasche il capo degli indigeni gesticola e impreca in una lingua sconosciuta, dirigendo i guerrieri come marionette. Sottili fili neri scaturiscono dalle sue dita, in risposta ai quali quegli esseri paiono modificare obbiettivi e azioni.

Non capisco se sono il solo a vederli, ma non ho il tempo per accertarmene. Le urla sovrastano i miei pensieri. Osservo una freccia di Fëanor conficcarsi in un tronco di fianco all’ometto dal copricapo variopinto. Nuove scariche partono dalla mano di questo in direzione dei propri guerrieri. In risposta gli esseri deformi, che avevamo creduto nostri salvatori, ci si lanciano addosso, brandendo armi rudimentali. Prima esitanti, poi sempre più risoluti si fanno avanti, i volti distorti da un’ira ingiustificata. Il primo a raggiungerci viene accolto dalla roncola di Morte. La strana arma sibila nell’aria prima di conficcarsi nel cranio della creatura calva. Con uno strattone alla catena cui è collegata, il mio compagno tatuato la recupera, pronto a mietere altre vittime. Sangue e poltiglia cerebrale imbrattano la lama, confermandoci che deve esistere una sorta di lontana parentela fra noi e quegli esseri. Dietro di me Zitara scaglia una freccia dopo l’altra, imitata da Fëanor. Precise queste volano a conficcarsi nelle carni indifese dei nostri aggressori, affondando nell’adipe con rumori ovattati ma comunque disgustosi. Il capitano, abbandonata la balestra, ha imbracciato scudo e spada, pronto a respingere l’orda. «Dobbiamo trovare una via di fuga.» mi dice guardandosi attorno. «Sono in troppi per noi.» Dal marasma di fogliame spuntano dozzine di quegli ometti. Sono accomunati solo dalla bruttezza e dall’imperfezione, chi traborda lardo dal ventre, chi ne ha accumuli orridi su braccia o gambe. Ad ogni modo la loro ferocia non ne viene intaccata.

Devio l’affondo che uno degli indigeni mi porta con la lancia dalla punta di pietra, riuscendo a sbilanciarlo, e lo colpisco con la spada bastarda dritto al cuore. Con un gorgoglio mi lancia un ultimo sguardo carico d’odio e mi maledice nella sua lingua incomprensibile. «Ragazzo, ricordami di benedirti più tardi.» Il Maestro d’Ossa pare preoccupato mentre stringe il suo fagotto al petto, non staccando mai lo sguardo dall’indigeno con lo stravagante copricapo. «Riesci a trasportarlo?» sento Rovers domandare alla cerusica. «È debole, ma credo si stia riprendendo.» «D’accordo allora, muoviamoci verso nord. Forza Shoggul, renditi utile e aiutala. Andiamo!» Mentre il Maestro ritorna fra noi, Deifobo guarda il capitano, cessando per un istante di scagliare dardi. «Non vorrai lasciare qui questo tesoro?» Il guerriero indica la macchia di polvere duwan depositatasi al suolo dopo la sparizione dell’elementale dell’Acqua. Il capitano gli ringhia contro, indeciso sul da farsi, l’avidità che combatte l’istinto di sopravvivenza. Siqquara, ReCorvo, Morte e io riusciamo a tenere i mezzi uomini a bada, menando fendenti. Zitara e Fëanor Miratur continuano a bersagliarli coi loro archi, ma non dureremo a lungo: sono troppi. «Dannazione» impreca il comandante «dobbiamo muoverci, torneremo a riprendercela.» Elyn, aiutata dal Maestro Shoggul, solleva il Templare. L’uomo fatica a reggersi

sulle gambe. Una freccia colpisce ReCorvo al braccio strappandogli un barrito e facendolo infuriare ancor più. Per tutta risposta il colosso agguanta la lancia di uno degli indigeni e se lo trascina a portata. Lo solleva di peso e lo stritola fino a spezzargli la spina dorsale in uno schiocco agghiacciante. Il guerriero dell’Isola di Abuc è infuriato e riesce a far indietreggiare i mezzi uomini innanzi a noi. I suoi urli sono violenti come sassate. Sfruttiamo l’indecisione e ci gettiamo a capofitto nel pertugio.

Facciamo poche decine di metri e siamo nuovamente impantanati in una mischia, gli ometti che arrivano da tutti i lati. Per fortuna le loro armi sono rozze e le nostre corazze resistenti. «Gli sciacalli!» grida Zitara, osservando strani movimenti dietro le fila nemiche. Un brusio convulso si innalza dagli uomini ammezzati mescolandosi al ringhio delle belve. Schivo l’ennesimo affondo dell’uomo deforme che mi fronteggia, e mi accorgo che i canidi li stanno aggredendo alle spalle. Continuo a difendermi, confuso, azzoppando un altro di quegli abomini con una stoccata. I vigliacchi indietreggiano, mentre una nuova salva di dardi ci piove addosso. Fortunatamente anche le frecce si dimostrano di scarsa fattura, rimbalzando su scudi e corazze. Vedo il loro capo gesticolare in modo convulso, i guerrieri attorno a lui intenti a respingere un grappolo di sciacalli col pelo rizzato. Un nuovo strale di Fëanor questa volta lo centra all’altezza della clavicola

strappandogli un grido. Lo stregone, o quello che è, incassa duro, mentre tutt’attorno a lui impazza uno scontro assurdo fra i suoi guerrieri e gli sciacalli. «Che diavolo succede?» sbotta Deifobo osservando la scena che si presenta innanzi a noi. Urlando, un altro gruppo di mezzuomini ha fatto irruzione sulla scena. Alcuni procedono carponi, a quattro zampe, affiancati dagli sciacalli. Indossano pellicce, collane di denti di cane, brandelli di pelle di animale legati a braccia e gambe e ninnoli stravaganti, che li rendono parodie di belve. Anche se la loro conformazione fisica è uguale a quella degli altri, bassi e deformi, sembrano essere tutt’altro che in buoni rapporti. Invece di attaccarci si scagliano contro i loro simili. «Certo che da queste parti non ci si annoia.» ghigna Siqquara ripulendosi dal sangue che le ricopre gran parte delle pelle scura. Sangue di mezzuomini. Il suo sguardo eccitato, febbrile per la foga del combattimento, la rende stranamente desiderabile nonostante i lineamenti masculini del volto. «Toglierci di mezzo.» tuona Rovers indicando la direzione da seguire, nel fitto della boscaglia. La Centuria si muove, ma io mi soffermo un istante, a godermi la scena: uno sciacallo enorme corre verso il capo della Tribù che ci ha aggredito. Ha muscoli delle zampe possenti e la velocità gli concede di schivare le creature deformi che tentano di intercettarlo. L’ometto dal copricapo di piume variopinte, brandisce un bordone istoriato in direzione del nostro esploratore, invece di preoccuparsi del mostro che lo sta per aggredire. Uno di quei raggi neri, con cui pare impartire ordini ai propri uomini, vola a centrare Fëanor Miratur.

Questo assume prima un’espressione impaurita, poi di sollievo, quando si rende conto che quel raggio non gli ha causato danni. Riporto la mia attenzione sul capo dei nemici, ora intento a placare l’assalto della bestia che gli è a ridosso, ma questa, a meno di un metro da lui, muta di forma assumendo le sembianze di un guerriero tozzo che gli si avventa al collo. «Un mutaforma.» dice il Maestro al mio fianco e solo allora mi rendo conto che anche lui si è fermato, rapito dalla scena. Il guerriero-sciacallo ha estratto una lama d’ossidiana con la quale sta tranciando la testa del capo avversario, dopo avergli squarciato la gola. Altri guerrieri gli si sono affiancati e combattono duramente assieme ai loro fedeli sciacalli. A opera ultimata il mezzouomo-mezzoanimale innalza il trofeo grondante sangue e urla di selvaggia soddisfazione. I nemici fuggono. Tutti tranne un drappello che si accanisce su Fëanor. È il momento anche per noi di andarcene e raggiungere il resto della Centuria. «Sbarazziamoci di questi mostriciattoli e raggiungiamo gli altri, Maestro.» Il nostro battitore è circondato da mezza dozzina di guerrieri. Ne colpisco alle terga uno, ma questo, prima di morire, insiste nell’attacco a Fëanor; e così gli altri, indifferenti ai miei colpi, e a quelli di Shoggul, bersagliano il nostro scout. Quando infine riusciamo a rompere l’assedio, è troppo tardi. Lo scout perde sangue da numerose ferite, ma una, all’altezza dello stomaco, non lascia speranza. Neanche l’abilità di Elyn potrebbe salvargli la vita. La lancia è ancora incastonata nelle carni di Fëanor facendo scempio degli organi vitali ad ogni suo movimento.

Il volto di Minatur è pallido. «È stato maledetto.» mormora il Maestro d’Ossa osservandolo. «Andatevene…» riesce a dire l’esploratore, prima di crollare al suolo in una pozza di sangue. Il terreno assorbe avidamente la vita del mio compagno. Guardo il Maestro. Un breve cenno d’intesa, e così facciamo, lanciandoci nel fitto della vegetazione. Neanche trenta metri davanti a noi, la Centuria si è nuovamente fermata. Li raggiungiamo e comprendiamo cosa li abbia trattenuti.

Un folto gruppo di indigeni ci sbarra la strada. Hanno le armi in pugno, ma non ci aggrediscono. Non abbiamo vie di scampo. Uno di loro indossa un copricapo ricavato dalla testa di uno sciacallo. È lui a farsi avanti, il volto scavato di rughe che mostra un’espressione indecifrabile. Un accenno di sorriso sghembo, forse. «Salve stranieri, io sono Kiquathu, capo del Clan dello Sciacallo.» La parlata ha un accento grottesco, tuttavia non vi sono dubbi sul fatto che utilizzi la nostra lingua. Guardo Rovers per fiutarne le intenzioni. Di sottecchi sta valutando il numero degli avversari e le possibili vie di fuga. Deifobo stringe in pugno un dardo duwan. Con quello potremo avere il giusto diversivo per fuggire. Il comandante fa cenno di temporeggiare. «Salve a voi, nobile Kiquathu, e grazie per averci aiutato.» azzarda Rovers balbettando quel nome impossibile da pronunciare.

Alle nostre spalle compare un altro drappello di indigeni, capeggiati dal guerriero-sciacallo che porta ancora con sé il trofeo della testa mozzata allo stregone nemico. ReCorvo, in retroguardia, alza le asce gemelle con fare minaccioso, ottenendo in risposta urla selvagge dal gruppo appena giunto. «Calma, stranieri.» interviene il nostro interlocutore «quello è Tha-ho, il mio guerriero ombra, non avete nulla da temere.» Sarà, ma nessuno accenna ad abbassare le armi. «Cosa vi spinge nel nostro territorio?» Osservo gli sguardi lussuriosi di quelle creature immonde posarsi sui membri femminili della Centuria. Un misto di desiderio smodato e odio senza senso. I loro occhi porcini non smettono di fissarle, come ipnotizzati. Membri grotteschi si irrigidiscono spuntando dai brandelli di pellicce da cui sono coperti. Elyn è terrorizzata, mentre Zitara e Siqquara rispondono con aria di sfida. È il Templare a farsi avanti, strappandosi alla presa oramai senza forza della curatrice. «Chiediamo venia per aver varcato i confini del vostro regno senza chiedervene il permesso, ma il nostro viaggio è stato turbolento…» L’espressione di quello che si è presentato come il capo clan muta non appena vede l’abbigliamento del Duca. «Tu sei un maledetto vesti bianche. Un invasore!» Gli occhi dell’ometto sono colmi d’ira, mentre quelli del copricapo paiono emettere un bagliore, come se la bestia fosse ritornata in vita, a reclamare le proprie spoglie mortali. Al suo fianco i guerrieri fanno un o avanti e gli sciacalli riprendono a ringhiare, il pelo alto sulle schiene.

«Avete frainteso» intervengo «come vi stava dicendo Savio, il nostro viaggio è stato movimentato… quelle vesti appartenevano a chi ci ha attaccato. Abbiamo dovuto combattere…» «Ma cosa…» accenna il Templare, ma vedendo le occhiatacce di Rovers e di Zitara, riesce a contenere la propria boria fuori luogo. Kiquathu soppesa le mie parole, anche se invero sembra stia ascoltando delle voci che solo lui riesce a sentire. I guerrieri fremono dal desiderio di saltarci addosso. Non oso immaginare cosa sarebbero capaci di farci. Soprattutto alle donne. «L’entità che ti parla è saggia, Divinatore.» afferma con sicurezza incrollabile il Maestro d’Ossa. Kiquathu si ridesta e gli pianta addosso le sue doppie coppie di occhi. Quelli dorati del copricapo brillano di una luce inquietante. «Riesci a percepire le parole di Sciacal, uomo dipinto?» Il teschio disegnato sul volto di Shoggul pare contrarsi in un ghigno diabolico. «Percepisco la sua empatia nei nostri confronti. Questo territorio è conteso, e noi non siamo suoi nemici.» Lo guardo pieno di ammirazione. Deifobo alza gli occhi al cielo borbottando qualche imprecazione. So cosa pensa: il Maestro d’Ossa è un pazzo e finirà col metterci nei guai. Il comandante è di tutt’altro avviso e con un cenno dà carta bianca a Shoggul. Kiquathu è immobile, forse scandaglia la mente del Maestro. Uno sciacallo gli si avvicina e questo gli mormora qualcosa all’orecchio. La bestia, docile e obbediente, trotterella verso di noi, si affianca a Shoggul e annusa con insistenza il Santo. Il silenzio avvolge l’intera zona. Tutti tratteniamo il respiro in attesa della sentenza. Un giudizio che potrebbe coincidere con la nostra condanna a morte.

La Centuria ha già perso un componente oggi, non accadeva da anni… ReCorvo e Siqquara stringono le enormi armi, irrequieti, poi, il canide emette un uggiolato per noi impossibile da interpretare. Il Maestro d’Ossa cala la mano scheletrica a carezzare la nuca dell’animale, dietro le orecchie, mentre il Divinatore e il suo guerriero ombra si scambiano un’occhiata d’intesa. Lo sciacallo si getta al suolo, pancia all’aria come un cucciolo di cane desideroso di coccole. Carezze che Shoggul non tarda ad offrirgli.

V. Cuore dei Quarti – Assedio ad Askeen

«Comandante Allurian, riuscite a vedere qualcosa?» La voce del Rabdomastro Malet era carica d’apprensione, mentre osservava l’ufficiale scrutare l’orizzonte col cannocchiale. In armatura completa, lucidata e oliata, il soldato gli trasmetteva una certa sicurezza, anche se l’invocatore sapeva che chiunque avesse avuto il coraggio di aggredire la fortezza, doveva essere munito di doti che andavano ben oltre la semplice forza fisica. Oppure essere totalmente pazzo, ed in entrambi i casi i pericoli erano quanto mai concreti. Gli elementi posti a difesa della fortezza erano invisibili, avvolti da una cappa di tenebra. Solo i riflessi dell’ultima cerchia di mura elementali, costituita dalla sottile membrana d’Aria di Zefiri e Geni abbracciati l’un l’altro, danzava appena visibile nell’oscurità a un centinaio di i dalle nere mura di Askeen. «Nulla di rilevante, Rabdomastro.» «E come potrebbe essere altrimenti?» chiese stizzita Binah. «La Forgia di Fiamma è invalicabile!» «Non dare nulla per scontato ragazza. Non questa notte.» la rimproverò l’anziano Geomastro. Binah lo guardò con disprezzo. «Solo perché la vostra misera Foresta di Pilastri è stata violata, non vuol dire che il nostro nemico sia invincibile. Le altre difese sono ben più resistenti.» «Non è stata violata, ha solo deciso di non combattere.» rispose l’anziano invocatore, contrito. «Peggio ancora! Questo dimostra l’inutilità della vostra scuola di pensiero e

ancor più i rischi che questa comporta per la difesa di Askeen.» La giovane era furiosa. La tensione del momento attizzava l’odio innato fra evocatori ed invocatori, che in lei era ancor più marcato. «Shui, la Foresta di Pilastri, non mi ha abbandonato. Anzi, tutt’altro! Mi ha avvisato sull’origine dei nostri aggressori. Un elementale evocato avrebbe forse combattuto, essendoci costretto, ma in caso di sconfitta non vi avrebbe certo reso un tale servigio, limitandosi a tornare nei propri Regni e disinteressandosi al vostro destino.» «E allora decidetevi a parlare!» sbottò Keter, l’Aeromante. Il vecchio lo scrutò con una luce assassina negli occhi intaccati dalla cataratta. «I Domatori di Demoni cercano di liberare il loro Signore.» Calò il silenzio per qualche istante. «Quegli invasati cercano il suicidio quindi?» concluse Binah, con sollievo, ben sapendo che in ato più di un Domatore era già stato respinto. «Questa volta non si tratta di un singolo individuo reso folle dalle sue ricerche scriteriate. Sono almeno una mezza dozzina e hanno truppe al loro seguito. A quanto mi riferisce Shui, la battaglia è già in corso, anche nella realtà nonordinaria.» In quel momento, l’occhio stilizzato che la giovane portava impresso sulla guancia, iniziò a brillare. Il silenzio avvolse nuovamente i presenti, gli sguardi di tutti persi all’orizzonte. «Hanno attaccato la Forgia di Fiamma.» li avvisò Binah. Malet, tenutosi in disparte fino ad allora, propose di andare a presidiare un lato di mura per ciascuno e così fecero, seguiti dal contingente del proprio Quarto. Meglio combattere al fianco di uomini di cui ci si fida, pensò il Rabdomastro

pragmatico.

Il Comandante Allurian, Malet e la coorte al loro seguito, si disposero sul versante sud della Fortezza. L’orizzonte era un tripudio di luci e colori che squarciavano il manto nero della notte. La Forgia di Fiamma aveva preso vita e stava scatenando la propria potenza sugli invasori. Asservita alla Piromante Binah, la creatura si stava cimentando in uno scontro durissimo, originando uno spettacolo meraviglioso, per quanto drammatico. I suoi rivali erano al momento invisibili, ma la potenza dei flutti dardeggianti generati dall’Elementale non lasciava dubbi sulla caratura del nemico. Comete di fuoco e saette guizzavano nell’oscurità rischiarando per brevi istanti la nottata priva di stelle. Ondate di calore raggiungevano gli spalti della Fortezza portati dalla brezza ardente. Con esse l’aroma dolciastro di carne bruciata. Carne umana. Le vampe colpivano e si ritraevano alternando lucori al buio più assoluto. Non c’erano nè luna, nè stelle a contendere la scena allo spettacolo orchestrato della Forgia. Anche quel particolare non doveva essere casuale, riflettè il Rabdomastro. Nessuno conosceva le arti dei Domatori di Demoni, ma era risaputo che amavano agire di notte, protetti dalle tenebre e sfruttando congiunzioni astrali ben precise. Quella setta, che per secoli aveva prosperato liberamente, era stata messa al bando da tutti i Quarti, anche se in alcuni godeva di maggiori libertà, pur operando ovunque nel massimo segreto.

Era buffo constatare come quel provvedimento si fosse reso necessario per contrastare la comparsa e l’influenza di ben altro culto, quello della Dea Buona, la Dea della Pace: Lena. Le sue turbe di immacolati avevano liberato già diverse città, sottraendole ai domini dei Quarti, e per questo erano state condannate, e con esse tutti i culti professati all’infuori di quelli che avevano gli Elementi come soggetti di fede. Erano stati i loro predecessori, i quattro Guardiani di Askeen, a emettere il decreto che poneva al bando ogni forma di culto che andasse oltre quello degli elementi. Avevano in concreto rinvigorito il vecchio editto di Re Kevlan, i cui effetti si erano annacquati coi secoli indulgendo sui diversi culti degli Dei Antichi che non erano mai scomparsi del tutto dai Quarti. I loro predecessori erano stati decisamente lungimiranti, pensò Malet. Meglio tardi che mai! Ma i Re come al solito mal digeriscono le imposizioni e non hanno messo in pratica i dettami di Askeen, a quanto pare! «Guardi là, Signore.» fu Allurian a risvegliarlo da quei pensieri, indicandogli una massa informe illuminata dai bagliori dell’Elementale del Fuoco. Un centinaio di mercenari, barbari dell’Isola di Abuc a giudicare dall’abbigliamento stravagante e dal colore scuro della pelle, si stavano facendo largo per la piana sotto la fortezza. Correvano all’impazzata, cercando di sottrarsi alle fiamme della Forgia. I tentacoli infuocati di questa ghermivano alla rinfusa, corrodendo le membra dei miserabili senza dar loro scampo, né possibilità di difesa. Che cosa sperassero di ottenere quei pochi uomini andava oltre l’immaginazione del Rabdomastro, così come le modalità grazie alle quali fossero riusciti a giungere sin nel cuore dei Quarti. Dovevano aver sfruttato il caos derivante dalla guerra in corso fra il Quarto dell’Acqua e quello dell’Aria. Probabilmente erano mercenari al soldo di qualche Signore, corrotti in seguito dalla miglior paga offerta dai Domatori di Demoni.

«Le cedo il comando, Allurian. Non lasciate che si avvicinino.» «Non temete, saggio Malet.» rispose in tono autoritario l’ufficiale, ma il Rabdomastro stava già viaggiando, i suoi occhi trasmutati in due pozze blu come l’acqua dell’oceano.

Percepì l’accesso alla realtà non-ordinaria come un tuffo in un lago gelido. Malet aveva capito che l’assalto non poteva essere basato unicamente sul misero gruppo di mercenari e per sondare la reale situazione aveva deciso di lasciarsi trasportare dai flutti della Cortina d’Acqua che aveva invocato a protezione della Fortezza. La situazione, vista dagli occhi della Creatura di nome Innala, era ben più grave. I Domatori di Demoni avevano scatenato le loro malie, ed entità folli si aggiravano per la piana antistante Askeen. Erano solo una eco lontana di lamenti e urla stridule senza senso. Non avevano fisicità, eppure quel coacervo di disperazione serpeggiava fra le loro difese cercando di insinuarsi sino a giungere alla gabbia di cristallo che imprigionava l’Astronascente. Una zona di realtà non-ordinaria era stata plasmata per fare da teatro a quello scontro di entità. Malet riusciva a percepire la potenza dei sei Domatori dispiegarsi all’unisono per sorreggere quella loro creazione. Era inconcepibile che dei mortali fossero giunti a tanto. Modellare la realtà non-ordinaria era prerogativa degli Dei Antichi e dei Sommi Elementali e di nessun altro. Le ricerche dei seguaci di Isyl evidentemente si erano spinte ove mai nessun uomo aveva azzardato, e pareva che avessero ottenuto un certo successo. La scena ora gli era ben visibile. Innala lo stava guidando, proteggendolo dalla tempesta di tizzoni ardenti scatenata dalla Forgia di Fiamma per respingere gli aggressori.

La battaglia che si stava combattendo sui due piani differenti, vedeva impegnato l’Elementale del Fuoco contro i mercenari di Abuc e i Demoni partoriti dalle menti dei Domatori. Erano questi ultimi a forzare i legami che vincolavano la Forgia alla sua evocatrice, la Piromante Binah, e per fare ciò, comprese Malet, stavano aggredendo direttamente la volontà della donna. Doveva intervenire in suo soccorso altrimenti l’Elementale di Fuoco si sarebbe ritirato. Era il limite maggiore degli evocatori: tanto boriosi e arroganti da non accorgersi che la costrizione con cui aggiogavano gli elementi, il più delle volte, si ritorceva contro di loro. Andare a braccare gli elementi nella realtà non-ordinaria, evocarli e costringerli a comparire nella realtà terrena, era certo un sopruso sgradito a questi ultimi. Ben altra cosa era invocare un loro intervento, pregarli per un aiuto che spesso erano lieti di offrire. Malet doveva scovare i Domatori e annientarli prima che questi potessero fare altrettanto con la mente della Piromante. Chiese a Innala di portarlo nel cuore della battaglia. Sapeva i rischi insiti nella richiesta, ma confidava nell’empatia che la creatura d’Acqua aveva sempre mostrato nei suoi confronti. Non era la prima volta che collaboravano e questo era un altro evidente vantaggio degli invocatori rispetto a chi preferiva comandare e pretendere, piuttosto che domandare. La Cortina d’Acqua abbandonò la postazione difensiva per ascoltare la sua richiesta. Fluì rapida oltre le anime baluginanti dei mercenari di Abuc e si disperse nel terreno della realtà non-ordinaria alla ricerca dei Domatori. L’ardore della Forgia era intollerabile, ma i due elementi si mantennero a sufficiente distanza da non darsi noia l’un l’altro, comprendendo di essere schierati, in questa circostanza, dalla medesima parte. Urla agghiaccianti si fecero largo nella mente di Malet, il quale comprese di

essere divenuto anche lui oggetto delle attenzioni dei seguaci dell’Astronascente. Il Demone della Paura lo aggredì con violenza. Spasmi gli contrassero le membra mentre la sua mente veniva risucchiata in un vortice di fobie ancestrali, travolta da visioni orrorifiche capaci di distoglierlo dalla meta. Vide i campi di battaglia insanguinati da un secolo di guerra. Riconobbe le Isole del suo Quarto squassate dalla furia delle Tribù del Quarto del Vento. Interi villaggi rasi al suolo dalla furia di Geni e Zefiri. Intere compagnie dell’Acqua annientate dall’avanzata delle orde del Vento, soldati che si macellavano a vicenda incitati dai propri ufficiali e dai capi Tribù. Arti mozzi, ferite purulente, visceri che spuntavano obbrobriosi da uomini ancora in vita e bimbi e donne impalati, soldati impiccati, spellati o bolliti vivi. L’Orrore della Guerra utilizzato come deterrente per coprire l’ecatombe ben peggiore che si sarebbe scatenata se Askeen fosse crollata. Il Demone della Paura voleva estirpargli ogni volontà di combattere. Il Rabdomastro respinse l’assalto, grazie all’intervento di Innala. Sentì le fresche acque lenire i propri timori, i flutti un balsamo per il suo intelletto sotto assedio. Le membra cristalline della creatura dilavarono la putrida melmosità di cui era composto il Demone con il fragore di una cascata. Le visioni agghiaccianti vennero spazzate via da un fiume le cui acque erano un tonico rinvigorente. Ripresosi, Malet continuò l’opera di esplorazione nel piano della realtà nonordinaria. Anime baluginanti comparivano sul suo cammino, di continuo, indice che nella realtà ordinaria lo scontro perdurava, mietendo nuove vittime. Spaesate queste si trovavano nel loro nuovo Regno, ignare che la nuova libertà, dopo l’abbandono delle spoglie mortali, sarebbe forse durata brevi istanti. Qualche Dio le avrebbe rivendicate per sé, o peggio, qualche entità indipendente se ne sarebbe nutrita cancellandole da ogni piano d’esistenza. Infine Malet riuscì a individuare un vuoto oscuro: doveva trattarsi di un Domatore a giudicare dalle ondate pulsanti di malvagità che emetteva.

Chiese alla Cortina d’Acqua di stanarlo mentre lui continuava la cerca. Alle sue spalle un fragore indicò che le catene che vincolavano l’Elementale di Fuoco a Binah erano andate in pezzi e che la creatura se ne era andata, abbandonando quella scenografia costruita appositamente dai Domatori: Binah era in balia dei demoni. Il Rabdomastro si costrinse ad andare oltre. Sperava che annientando il seguace di Isyl, la comunione mentale di quel conclave di folli si sarebbe spezzata, o perlomeno indebolita. Era l’unica possibilità per preservare la mente della Piromante dalla follia. Non badò allo scontro che la creatura da lui invocata stava iniziando, certo che Innala avrebbe avuto la meglio. Lui doveva scovare gli altri cinque aggressori.

«Cosa diavolo succede?» tuonò il giovane Keter osservando la Forgia di Fiamma svanire dal campo. I barbari, constatata la sparizione di quell’ostacolo, si muovevano decisi verso le mura. Due centinaia di energumeni dalla chioma scarmigliata e dai muscoli possenti, rivestiti di pellicce e pezzi di corazze rubate a qualche cadavere. «Binah ha ceduto… dannazione.» imprecò l’Aeromante verso il capo della tribù dell’Aria, che costituiva la sua scorta presso Askeen. «Già, la bella Piromante non è poi così potente come dava ad intendere. Ma che fine ha fatto quel vecchio sciocco di Malet? Perché la sua Cortina d’Acqua non si oppone all’avanzata degli Abucensi?» chiese questo di rimando. «Il vecchio e la creatura sono impegnati nella realtà non-ordinaria, l’ho percepito andarsene poco fa. Tocca a noi Letio. Come al solito è sempre il Quarto dell’Aria a dover sbrigare i compiti per gli altri!» «Uomini, archi in pugno e pronti a scoccare al mio ordine!» tuonò il capotribù.

L’Aeromante ordinò all’insieme di creature da lui evocate di caricare gli aggressori. La muraglia costituita da due Geni e una decina di Zefiri era l’ultimo presidio elementale, poi ad opporsi all’avanzata dei nemici ci sarebbe stata solo la pietra nera della Fortezza. A raggiera gli Elementali dell’Aria si riversarono sui barbari strappandoli dal suolo con violenza. I Geni, massicci e imponenti, turbinavano a velocità tale da scarnificare le proprie vittime ancor prima di raggiungerle. Le membra dei malcapitati venivano strappate dalle ossa in un turbine purpureo. Gli Zefiri, più raffinati, raggiungevano i barbari e si insinuavano nei loro orifizi, enfiandoli fino a farli esplodere dall’interno. «Aeromante, lascia un po’ di divertimento anche a noi!» disse con convinzione Letio, ma Keter era sordo a quelle richieste. Tutto il suo essere era concentrato sul controllo delle forze che era riuscito a vincolare e non poteva sentire il guerriero. Improvvisamente un fragore fece sussultare la murata. Nella zona innanzi a loro un dardo duwan esplose in un bagliore sfavillante, disperdendo un paio di Zefiri e un Genio e intaccando le mura della Fortezza. Alcuni guerrieri del Quarto dell’Aria vennero squarciati dall’esplosione, altri sbalzati lontano, sin giù dai camminamenti. Keter vacillò come se quelle dipartite gli avessero causato delle ferite invisibili. Per un istante aprì gli occhi e vide l’espressione di giubilo del barbaro che impugnava l’arco dal quale il dardo era partito. Era stato un colpo fortunato. La fattura del dardo non era certo delle migliori. Era esploso ben prima di raggiungere il proprio bersaglio, non riuscendo ad aprire una breccia nelle solide mura, ma in compenso aveva annientato alcune creature dell’Aria che si erano

trovate sul suo tragitto. «Sono organizzati bene, quei bastardi.» disse Letio ordinando ai suoi di scoccare con gli archi ricurvi. Una salva di frecce volò a una distanza impossibile. Favoriti dallo spirare dei venti, i dardi andarono a centrare i bersagli, gettando ancor più nello scompiglio i barbari dalla pelle scura. Uno cadde trafitto da una freccia che gli aveva traato il collo da parte a parte. Crollò al suolo e con lui anche la sua balestra carica. Non appena il dardo incoccato in questa toccò terra ci fu un lampo e un boato fragoroso. Un dardo duwan instabile era deflagrato facendo scempio di altri guerrieri abucensi e annichilendo un altro Zefiro, troppo vicino al cratere d’impatto. Gli elementali sopravvissuti si riversarono sugli assedianti con ancor più violenza e rabbia. «È tutto finito.» considerò calmo Keter. «Cosa dici?» chiese il capotribù. «Malet ha ucciso un Domatore di Demoni e gli altri si sono dati alla fuga.» «Ma quei barbari la sotto stanno continuando a combattere e sono ben armati.» «È evidente che i Domatori hanno preferito non dire loro nulla. Così non dovranno neppure pagarli.» «Posso ordinare una carica? Forse possiamo recuperare anche qualche dardo?» chiese speranzoso Letio. «Naturalmente» concesse Keter «a patto che non prendiate nessuna di quelle armi. Sono instabili e pericolose, evidentemente frutto di un lavoro approssimativo. Sono solo dei barbari.»

Il Rabdomastro Malet riprese in mano il Tomo la cui lettura aveva interrotto solo

poche ore prima. In quel breve lasso di tempo tutto era cambiato: millenni di veglie statiche cancellati in un sol colpo. Forse leggendo riuscirò a calmarmi. Gli ci volle poco per rendersi conto che era ancora troppo turbato per riuscire a comprendere ciò che gli occhi non faticavano a leggere. Per la sua mente era impossibile cancellare i ricordi dell’aggressione patita. Le immagini degli orrori che affliggevano i Quarti erano ancora troppo vivide per lasciarsi scalzare da una lettura frivola. Decise di provare a dormire. La stanchezza l’avrebbe aiutato nell’intento di abbandonarsi al nulla. Indossata la tunica per la notte e spente le candele, si coricò sul morbido giaciglio, gli occhi che vagavano nel buio. Provò a rilassarsi, ma nonostante il tempo scorresse rapido, il sonno non giunse. L’idea che quell’attacco non fosse altro che una prova generale per saggiare le loro difese e sperimentare nuovi poteri dei Domatori di Demoni, non accennava a dargli tregua. Aveva avuto la sensazione che ci fosse una volontà singola, dotata di poteri ultraterreni a coordinare le mosse degli aggressori, una volontà che non aveva affondato di proposito il colpo, ma che si era limitata a giocare con loro. Era certo che l’Astronascente non potesse esercitare i propri poteri richiuso com’era nella Prigione di Cristallo che per secoli l’aveva detronizzato. Altrimenti perché avrebbe aspettato proprio la sua guardia per ridestarsi? Allora chi altro? Ugualmente era certo che la concomitanza di quell’assalto con il manifestarsi dei fremiti che avevano percorso la reliquia maledetta, non poteva certo essere una coincidenza.

Non potevano andare avanti come nulla fosse accaduto. Liquidare il tutto come uno dei tanti assalti alla fortezza, come faceva quell’arrogante di Keter, o peggio sottovalutare il pericolo tacciandolo di coincidenza fortuita come Binah, era da folli. La Piromante pareva non essersi neppure resa conto di quanto la propria mente fosse stata prossima all’annientamento. Malet aveva intenzione di chiedere un conclave ristretto. Ne avrebbe parlato con Hokmah. L’anziano Geomastro era l’unico ancora capace di ragionare.

VI. Quarto dell’Acqua – Isola Feudo di Roskeim

«Signore.» La guardia di picchetto salutò ossequiosa, mettendosi sull'attenti. Il Generale Enoc, seguito da due plotoni di veterani, proveniva dalla capitale e stazionava innanzi al cancello della postazione fortificata. I cavalli nitrivano quieti respirando l'aria salmastra del vicino mare. L'uomo di mezza età si soffermò a osservare il soldato ritto innanzi alla guardiola del fortino. Poco più che un bambino. Avrà visto si è no una dozzina di inverni, pensò con tristezza. A questo erano giunti? Gli uomini del Quarto erano stati tutti macellati? Era necessario ricorrere ai mocciosi? Valeva la pena proseguire con quella guerra? E se avessero avuto ragione gli utopisti che si erano convertiti al culto di Lena? Era forse possibile instaurare la pace perenne, come questi sostenevano? Tutte domande alle quali l’ufficiale non aveva risposta, ma che continuavano a tormentarlo da quando a parlargliene era stato il Duca Palwen. «Riposo, soldato.» disse ando oltre al giovane e alle domande senza risposta. Forte Titano era una costruzione imponente, posta a presidio della strada che conduceva da Manteim, porto principale dell'Isola, alla capitale del Feudo di Roskeim. Trinceramenti e barbacani proteggevano la zona che separava il bastione dal porto vero e proprio. Il Titano, come era soprannominata bonariamente quella piazzaforte dagli abitanti dell’Isola, sorgeva su una dolina affiancata da monti le cui vette erano perennemente imbiancate dalla neve. Era una postazione fondamentale che

chiudeva la valle di accesso al Feudo. Grazie alla fortunata orografia dell'Isola, circondata sul perimetro da montagne a picco sul mare, e rivestita nell’entroterra da un manto di fertili pianure, il possedimento del Duca Savio Palwen era divenuto il più ricco del Quarto dell'Acqua, capace di competere persino con l'Isola Palazzo di Re Induard Saleon VIII. Un battaglione era posto a presidio permanente di quel luogo strategico e il Generale Enoc era giunto sin lì per parlare a quattrocchi col Maggiore che lo presiedeva. Uno scudiero si avvicinò alla sua cavalcatura tendendo le braccia ad afferrare le redini del purosangue. «Il Maggiore Firion vi attende, Generale.» Enoc smontò da cavallo lasciando le briglie al giovane e cercò con lo sguardo Dinkon. Il graduato gli fu subito al fianco. «Tenente, vi concedo il tempo di abbeverare i cavalli e di farvi un giro allo spaccio. Non sarà una visita lunga. Fatevi trovare pronti prima del tramonto.» Detto questo, con o marziale si diresse all'alloggio del Maggiore.

«Generale, è un piacere ospitarla a Forte Titano, accomodatevi pure.» Il sorriso sul volto del Maggiore Firion era genuino. Il Generale apprezzava quell'ufficiale e ne riconosceva la validità. Malgrado non avesse ancora raggiunto i trenta inverni, l’uomo era maturato sui campi di battaglia e sulla sua carriera nell’esercito del Duca non vi era ombra di raccomandazioni, nè di diritti acquisiti per nascita. Un soldato forgiato dai campi di battaglia, il cui acume tattico era indubbiamente

un dono che aveva saputo acuire con il are degli anni, con grande perizia. Non per niente, il Duca gli aveva affidato la gestione di quella difesa fondamentale per l'Isola e fino ad ora non aveva mai avuto da lamentarsene. La fortificazione era essenziale ma impeccabile, tutto era ordinato così come l'ufficio dove si stava tenendo quella riunione. Enoc si sedette sullo scranno innanzi al tavolo dell'ospite e si accese un sigaro. «Maggiore, purtroppo le ragioni che mi conducono qui non sono di carattere frivolo.» Il sorriso morì sulle labbra riarse dal sole dell'ufficiale. Dal colore ramato della pelle era evidente che il graduato trascorresse gran parte del tempo all’esterno, e non rinchiuso in quello studio. Conoscendolo, il Generale riteneva che Firion controllasse di persona le attrezzature difensive del Forte e del porto, e questo era un bene. «Novità dal fronte?» ipotizzò Firion preoccupato. Voci discordanti circolavano di continuo sugli sviluppi di una guerra che pareva non dovesse avere mai fine. Il volto del Generale era imperscrutabile. Una corta barba scura ne incorniciava l’ovale marcatamente squadrato, svelando un’incuria anomala, causata certamente da rilevanti preoccupazioni. «Il Reggimento che abbiamo inviato nell'Isola Baronia di Massenz ha subito ingenti perdite. Il colonnello Liutana mi ha inviato una missiva nella quale non nasconde aspre critiche all'operato del Generale del Re. Sono riusciti a riconquistare la capitale della Baronia, ma il costo in vite è stato esorbitante. I guerrieri dell'Aria schieravano tre intere Tribù a difesa di Masz e sono balzati addosso ai nostri conducendo una serie di cariche a cavallo. Roiyo, il Generale inviato da Re Saleon, ha voluto affrontarli in campo aperto, senza attendere neppure che i nostri Rabdomastri fossero pronti a contrattaccare. La divisione al suo comando è stata dimezzata, mentre i bastardi del Vento sono riusciti a ripiegare.»

Seguì un lungo istante di silenzio. «Confidavo che la guerra avesse preso una piega diversa. La partenza improvvisa del nostro Duca non ci voleva…» confessò il Maggiore con cautela, sapendo di muoversi su un terreno accidentato. Conosceva il rigore che permeava il Generale e sapeva che non sarebbe riuscito a carpire nessuna informazione che questo non avesse già deciso di fornirgli. Eppure la curiosità sulle sorti del Duca Savio era superiore ai dettami impostigli dal raziocinio. La decisione di questo di abbandonare il fronte e partire, aveva colpito l'Isola Feudo con la violenza di un uragano. La campagna condotta direttamente dal loro Signore a capo della Brigata di Roskeim, pareva aver sovvertito gli esiti di una guerra che negli ultimi dieci anni li aveva visti soccombere innanzi alle Tribù dell'Aria. Mezza dozzina di Isole Scudo erano cadute nelle mani dei selvaggi e anche alcune Baronie interne, finchè nell'ultimo anno il Signore di Roskeim aveva chiesto, e ottenuto, il permesso da Re Saleon di condurre personalmente i propri uomini in battaglia. I successi si erano susseguiti e la campagna era proseguita per l’intero anno, portando alla liberazione di diverse Isole. Poi, improvvisa, era giunta la decisione di Palwen: cedere il comando e partire per un viaggio non meglio precisato. A malincuore il Re aveva acconsentito, chiedendo in cambio che la Brigata rimanesse sul campo sotto la guida di ufficiali mandati dall'Isola Palazzo. Al Duca non era rimasto che acconsentire alle richieste del Re. «Non compete a noi sindacare sulle decisioni del nostro Signore.» tagliò corto Enoc. «Certamente Generale, non era mia intenzione…» «Lo so, lo so, e avete ragione. I comandanti inviati in sostituzione del nostro Duca non si sono dimostrati all'altezza, men che meno questo Generale Royo. Un infante di sangue nobile, a quanto mi dicono. Comunque non sono qui per

discutere sulla formazione degli ufficiali di Re Saleon, ma di un compito affidatomi dal Duca, prima di partire.» Era la prima volta che Firion aveva una conferma ufficiale del viaggio del Duca. Voci maligne avevano iniziato a circolare per il Feudo, alcune delle quali arrivavano a paventare la morte al fronte del loro Signore. Era un sollievo sentire dalla bocca dell'inossidabile Enoc, che Savio Palwen fosse realmente in viaggio, anche se Firion ignorava la destinazione e le motivazioni di tale spostamento. L'integerrimo Generale non era certo uomo da menzogne. Se c'era un problema lo affrontava di petto, non certo ricorrendo a qualche miserabile macchinazione e men che meno a bugie o giochi di parole. «Cosa sapete, Maggiore, sulla Figlia di Lena, la donna che si fa chiamare Qilana la Pura?» Il Maggiore rimase stupito da quella domanda. Il nome della ragazza, poco più che fanciulla in realtà, aveva iniziato a presentarsi con una certa insistenza, prima nelle bettole dei villaggi per poi propagarsi di casa in casa, fino ai centri maggiori e ai palazzi del potere. Nessuno sapeva di preciso dove fosse, nè chi ne dettasse i movimenti. Un'aura di mistero e di leggenda l'ammantava dal giorno della sua comparsa, nel bel mezzo della battaglia di Aquirama, che aveva segnato il declino del Quarto della Terra e la costante ascesa di quello dell’Aria. I superstiti di quel massacro sostenevano che gli Elementali che combattevano nel marasma di soldati delle diverse fazioni, si fossero rifiutati di proseguire, ubbidendo all’invito della fanciulla che correva a dorso di un cavallo candido. Era sufficiente un cenno della candida mano della ragazzina per spezzare dal loro vincolo Giganti di Pietra, Golem di Roccia, Zefiri e Geni, lasciando esterrefatti Geomanti e Aeromanti. Queste erano le vicende narrate dai bardi.

Comunque da allora il nome di Qilana era divenuto famoso, e spesso sinonimo di pericolosità. Le sue incursioni erano improvvise e si concludevano immancabilmente con sollevazioni di popolo. Era riuscita a fomentare intere città, arrivando a sottrarle al controllo dei Quarti, colpendo indistintamente su tutta Alenna, senza badare al colore delle casacche dei nemici affrontati, ma solo e unicamente nel nome della Dea Lena. Anche l'Isola Scudo di Therna si era dichiarata indipendente dal Quarto dell’Acqua dopo il suo intervento. La ragazzina non aveva un esercito con sé: erano sufficienti la fede e la favella tagliente. Almeno così dicevano le voci, anche se dopo i suoi interventi, lunghe teorie di carri abbandonavano le città, cariche di cadaveri. Lei comunque agiva per voce di Lena, la Dea della Pace, e i suoi seguaci, che si facevano chiamare immacolati, erano pronti a dare la vita per la causa. «Una fanatica, sempre che esista realmente…» mugugnò Firion, cercando di carpire la reazione del Generale. Questo lo stava scrutando con interesse. «Il Duca Palwen è convinto che esista eccome, e molte delle sue conquiste sono state agevolate dalle azioni di quella ragazza.» rispose Enoc diretto, il fumo del sigaro che ne oscurava il volto. Il Maggiore era esterrefatto. Possibile che il Generale, braccio destro del Duca e suo fedelissimo, lo stesse ora denigrando, attribuendo a una mocciosa i meriti dei suoi successi? «Non guardatemi così, Firion. Non è mia intenzione mancare di rispetto al nostro Signore, anzi sono le stesse parole che ha usato lui con me.» L'ufficiale era ancora incapace di comprendere dove Enoc volesse arrivare. «Qilana, la candida figlia di Lena, la Dea della Pace, è intervenuta in più di una

circostanza, facilitando l'opera al nostro Signore. Non faceva certo parte dell'esercito del Quarto dell'Acqua, ma con i suoi immacolati pareva agire a loro vantaggio. Questo è quanto mi ha raccontato il Duca Palwen, arrivando a sostenere quanto necessario fosse collaborare con quella donna. Essendo a conoscenza dell'odio del Re verso gli adepti di quella setta, mi ha incaricato di inviare un contingente sull'Isola Scudo di Dibrjis, quando lui fosse partito e il comando della Brigata di Roskeim fosse ato nelle mani di un Generale del Re.» «Dibrjis? L'Isola confinante con il Quarto dell'Aria?» «Sì, il Duca ritiene che è da lì che partirà la prossima incursione di Qilana nel territorio dei nostri nemici e vuole che noi le forniamo aiuto, così come lei ha fatto durante la campagna della Brigata di Roskeim.» «Un aiuto in incognito quindi? Senza l'approvazione diretta di Re Saleon?» cercò di comprendere meglio Firion. «Esattamente. Non crediate però che il Re sia uno sprovveduto, le sue spie sono ovunque. È al corrente che i nuovi fedeli della Dea unica circolano per il Quarto, ma fintanto che non assediano altre città, ha reputato inutile attaccarli. D'altronde l'aiuto, voluto o meno che fosse, contro le Tribù del Vento è stato fondamentale e lo è tutt'ora. Inoltre le nostre forze sono sufficientemente provate senza andare ad aprire nuovi fronti di guerra.» «Comprendo…» Enoc tirò una profonda boccata dal sigaro cospargendo per la stanza un aroma intenso. «Desidero che siate voi a comandare lo squadrone che dovrà aiutare Qilana.» Niente giri di parole. Ecco il motivo di quella visita. Firion rimase in silenzio. L'incarico dimostrava sicuramente la buona reputazione che godeva al cospetto del Generale, ma presentava ben più di un’incognita. Prima di acconsentire avrebbe desiderato qualche informazione in più.

«In linea di principio, non dovendo agire sotto i vessilli del Quarto, quello che vi sto dando non è un ordine vero e proprio, e quindi è sua facoltà rifiutare. Cinque compagnie dovrebbero essere sufficienti.» «Dovrei dirigere cinquecento uomini in azioni di guerriglia quindi, se ho ben capito?» «Avrete la massima libertà d'azione. Il Duca ha ordinato che venga dato o alla Figlia di Lena, fintanto che le azioni di questa infliggano danno ai nostri rivali. Savio Palwen è convinto che l’unico modo per porre termine al conflitto sia portare la guerra in casa dei nostri nemici. E per far ciò ritiene che Qilana sia l’elemento essenziale. Il tipo di appoggio esterno che dovreste fornirle non presuppone che voi riceviate ordini da lei, nè che vi asserviate a ogni sua iniziativa. Sarà il campo, di volta in volta, a svelarvi il modo migliore per rendervi utile. Sono certo che sarete all'altezza, siete un ottimo tattico. Inoltre, in questo modo potremo sapere quali siano le intenzioni di quella giovane. La chiesa di Lena acquista di giorno in giorno maggior potere. È una forma di controllo che neppure il Re potrebbe rinfacciarci.» Il Maggiore era orgoglioso della fiducia dimostratagli. In più di un’occasione aveva chiesto di poter essere inviato al fronte, dove la sua carriera era iniziata, da semplice sergente, ma ogni volta il Duca l'aveva voluto mantenere entro i confini dell'Isola, ribadendo che la sicurezza del Feudo veniva prima di tutto. «Se il Duca ha deciso che l’operato di Qilana possa essere di giovamento al Quarto, sarò lieto di mettermi al suo servizio.» decise infine Firion. Enoc era certo che Savio avesse intravisto in quella ragazza qualcosa di eccezionale, altrimenti mai e poi mai avrebbe lasciato l’amata Isola per un viaggio così difficile. La fedeltà che il Generale nutriva verso il proprio Signore era stata sufficiente a convincere anche lui a convertirsi alla nuova fede, a farsi nominare Cavaliere della Concordia e a giurare fedeltà al proprio Duca divenuto Candido Templare. Ritenne ugualmente che non fosse necessario, nè utile, mettere al corrente di ciò anche il Maggiore. Se tutto fosse andato come pianificato, Firion avrebbe avuto modo di conoscere

personalmente Qilana e questo, a giudizio del Duca, sarebbe stato sufficiente a convincerlo. «Sono lieto di sentirlo Maggiore. Allora la mia visita a Forte Titano si conclude qui. Prendetevi due giorni per selezionare i migliori soldati per questo incarico.» disse il Generale spegnendo il sigaro, pronto ad alzarsi. «Un’ultima cosa Generale» lo interruppe con un certo imbarazzo Firion «giorni fa è transitato un gruppo di mercenari sulla via che conduce a Rosk. Hanno esibito un lasciaare col sigillo del Duca, che garantiva loro aggio e segretezza d’identità.» «Quindi Maggiore?» «Ho avuto il sentore si trattasse… della Centuria.» Il Generale trattenne a stento lo stupore per l’intuizione di Firion. Quando Palwen l'aveva incaricato di trovargli il Capitano Rovers e la Centuria, e gli aveva comunicato la disponibilità in oro cui era disposto a dar fondo per ingaggiarla, Enoc era rimasto perplesso. Non per la montagna d’oro in sè, né perché dubitasse del valore di quella compagnia, ma per la pericolosità che il viaggio del Duca doveva nascondere. Se era necessario dotarsi dei servigi di uno dei più rinomati capitani di ventura di tutta Alenna, la missione di Savio doveva essere prossima al suicidio. «E cosa dovrebbe esserci venuta a fare la Centuria sull’Isola di Roskeim?» rispose a muso duro. Lo sguardo del Maggiore gli fece capire che qualcosa dal suo volto era comunque trapelato e a lui non era sfuggito.

VII. Nuovo Quarto – Giungla

Gli indigeni ci scortano per quel coacervo dalle mille tonalità di verde. Una giungla talmente fitta da non concedere ai raggi del sole di penetrarvi, né tantomeno di sconfiggere l’umidità che l’affligge per tutto l’arco della giornata. Non che il sole faccia spesso capolino dalle nubi, eppure dev’esserci là sotto, perché l’afa è impressionante. Eppure questo clima a noi ostile pare aver originato una moltitudine di animali assurdi. I loro versi sono distorte imitazioni di quelli che conosco e ogni volta che un nuovo starnazzo lacera l’aria mi fa scattare i nervi. Un gruppo di guerrieri ci precede, segnalandoci la via da seguire in quel monotono alternarsi di alberi ricurvi e felci gigantesche. Non ho idea di come possano orientarsi, senza alcun punto di riferimento, la visuale limitata da quella barriera vegetale insuperabile. Con tutto il rispetto che provo per lui, sono convinto che neanche il nostro miglior esploratore, Fëanor Minatur, sarebbe stato in grado di riuscirci. Ora non dovrà più preoccuparsene. Quante volte la sua destrezza ci aveva tratto in salvo? Arciere sublime, esploratore infaticabile, maestro negli agguati e nelle fughe. Le sue abilità non gli sono servite a nulla. Non qui. Povero Fëanor, morto in una terra tanto lontana da casa e privato persino di un rito funebre capace di scortarne l’anima nella realtà non-ordinaria. I maledetti ometti ce la pagheranno cara. Neanche mi leggesse i pensieri il comandante mi scruta torvo. Le sue occhiate interrogative sono chiare: vuole sapere che fine abbia fatto il ranger. Scuoto la testa e in risposta Rovers digrigna i denti.

Forse sperava che Fëanor fosse riuscito a fuggire. Purtroppo la realtà è ben diversa. Alle nostre spalle i rumori di scontri sono cessati da un pezzo. Gli inseguitori, quelli che avevano tentato di scannarci prima che arrivasse a fermarli il Clan dello Sciacallo, sembrano aver desistito, oppure più semplicemente sono stati tutti ammazzati dai nostri nuovi amichetti. «Dove ci staranno portando?» mi chiede Zitara, il bel volto che vira incessantemente da un lato all'altro della Centuria, in cerca di possibili pericoli. Lei, come tutti gli altri, deve essere certa della fuga di Minatur. Troppo abile per essersi fatto accoppare. Invece in questo maledetto Nuovo Quarto ogni certezza pare valere meno di un soldo di stagno. «Immagino al loro campo…» rispondo. Presto verrà il tempo per metterli tutti al corrente della triste notizia. «In mezzo a questa selva immonda? Il tafano più piccolo che ho visto è grande come un usignolo… credi veramente che vivano in questo posto?» Già, l'umidità è opprimente e non solo rende ogni movimento uno sforzo, ma faticoso persino respirare. Anneghiamo nel sudore. «Li hai visti bene? Sono esseri selvatici, non credo si facciano problemi per una puntura d'insetto.» La donna mi guarda, dubbiosa. Sono lontani i tempi dell'Accademia di Setra, bella e vanesia Zitara! Non sei più nella ricercata capitale del Quarto del Fuoco. Basta lezioni private dai sacerdoti del Tempio di Fuoco per iniziarti all’arte dell’assassinio assieme ad altri rampolli di nobili origini, destinati a incarichi di prestigio: uccidere il tal Duca, prendere in ostaggio una nobildonna, avvelenare il Piromante di turno… come sei potuta finire cosi in basso? Arrancare in una palude fetida e maleodorante…

La lascio alle sue sofisticate imprecazioni, mentre Siqquara, la sua amante, le posa una mano sulla spalla, come a volerla rincuorare. Un gesto affettuoso che nessuno penserebbe possibile per quella donna barbaro dai muscoli guizzanti e dal volto arcigno. Zitara con uno strattone la allontana e la nera fa un o indietro, lo sguardo al suolo. Ogni volta resto attonito. Se fosse stato chiunque altro a respingerla a quel modo, Siqquara lo avrebbe aperto a metà con l’ascia, ma non Zitara, la sua amata. L’assassina però non vuole dar mostra del loro idillio in pubblico. Retaggio delle proprie origini nobili, forse. Misteri dell’amore. Così come ReCorvo, perdutamente infatuato delle forme della sua compatriota Siqquara. Tanto invaghito da non capire che la guerriera preferisce al suo batacchio nero, il ciuffo di peli biondi che l’assassina tiene in mezzo alle cosce. Tento di rilassarmi, la mente che vaga libera a percepire la realtà oltre quella visibile. Intuisco il fermento degli elementi, la loro agitazione. D'istinto cerco con lo sguardo il Maestro d'Ossa. Anche lui deve averne sentore. Lui e, ora lo so, anche il Templare. Dopo lo spettacolo della Cortina d’Acqua, Savio non può più nasconderci le proprie capacità di Rabdomante o Rabdomastro. Entrambi hanno lo sguardo sbarrato, dritto innanzi a loro. Sono certo che stiano sfruttando i rispettivi doni per comprendere dove diamine siamo finiti e le entità che governano questi luoghi. Nonostante tutto il mio impegno, fatico a sondare il circondario oltre il reale, percependo solo un agglomerato caotico nel quale non riesco a identificare

nessun elemento specifico, né alcuna Deità. Il ritmo di camminata impostoci dalle nostre guide è aumentato ancora, se possibile. Tutti i miei sforzi sono concentrati nell'alternare un o dietro l'altro, poi un movimento appena percepibile attrae la mia vista sul tronco affusolato di uno degli strani alberi dalle foglie folte: zampe pelose e dalle articolazioni complesse precedono l'arrivo di un ragno grosso quanto un pugno. I suoi mille occhi mi fissano, astiosi. Avanza con cautela lungo il fusto della pianta, come se fiutasse un pericolo che neppure riesco a immaginare. Lui è ai vertici della catena alimentare, lui è il predatore. Quelle creature mi disgustano, questa ancor più visto che ha dimensioni che non ho mai visto prima. L'incedere ondeggiante delle otto zampe si fa più lesto e al contempo più sgradevole. Me ne sento camminare uno sul polpaccio, ma è solo l'immaginazione a giocarmi un brutto scherzo. Incapace di andar oltre, riporto lo sguardo su quello reale. Ora corre, in fuga verso il verde scuro delle foglie, preda di un istinto che gli impone di fuggire. Sono ipnotizzato, fisso la scena. La creatura come impazzita scala il tronco in cerca di salvezza, ma trova solo una morte orribile. Mimetizzata alla perfezione nell’agglomerato di foglie dalle mille tonalità di verde spunta un essere ancor più aberrante. Una chela verde trafigge il ragno inchidandolo al tronco. La mantide religiosa è più piccola della propria preda, ma non per questo meno rivoltante. L'uncino che impala il mesosoma dell'aracnide vibra sotto lo sforzo di questo per liberarsi, mentre le otto zampe si protendono in cerca del bersaglio.

L'insetto verde non si scompone. Meticoloso, con la chela libera amputa una alla volta le zampe dell'aracnide. Poi a al nucleo centrale del corpo peloso e lo fa a brandelli. Pezzo per pezzo ordinatamente allineati, prima di portarseli uno per volta alle mandibole pronunciate. Mi pare di sentire lo scricchiolio delle cartilagini del ragno frantumate dalla voracità della mantide. Infine arriva Elyn a redimermi da quell'incubo. «Che ti prende Yorik?» Arrossisco vergognandomi della ridicola fobia che mi trascino da quando ero bimbo. A stento trovo la forza per impostare la voce. «Nulla, osservavo solo le creature che vivono in questo dannato Nuvo Quarto…» La veste fradicia d'umidità e sudore mette in risalto i lineamenti delicati del suo corpo. La guaritrice non ha le forme tornite e muscolose di Siqquara, nè la tonicità scattante dell'assassina, ma il portamento elegante e fragile al contempo la rende irressitibile ai miei occhi. I capelli bagnati le cadono sul volto conferendole un’espressione dalla dolcezza infinita, gli occhi grandi e brillanti che mi scrutano con aria interrogativa. Vorrei abbracciarla, ma non è nè il momento nè il posto adatto, me ne rendo conto e mi costringo a invitarla a procedere posandole semplicemente una mano sulla vita. Mi sorride debolmente e si incammina dietro l'orda di mezzuomini verso una meta e un Mondo sconosciuto.

Trovare il campo del Clan dello Sciacallo non è cosa semplice.

L'intrico di piante e giunchi che si aggrovigliavano su se stessi ci costringe a farci largo con coltelli e spade. I mezzuomini, e i loro compari a quattro zampe, sono molto più agili di noi. I loro corpi minuti sarebbero già un vantaggio sufficiente, inoltre molti di noi indossano armature complete, ingombranti in quel pantano di vegetazione e sterpi. Il peso ci fa affondare nella mota simile a sabbie mobili e altrettanto pericolosa. A un tratto Morte mi fa un cenno, indicando una zona d'ombra alla mia sinistra, in alto. Osservo senza capire, finchè colgo un movimento sul ramo di un albero: non un altro schifoso ragno, ma occhi che ci osservano e armi puntate su di noi. «Siamo quasi arrivati.» ci avvisa Tha-ho. Il guerriero ombra ci ha raggiunto dalla testa della colonna, comparendo come dal nulla. Uno spettro silenzioso e potenzialmente letale. Così come tutti i suoi compari. In questo ambiente non avremmo possibilità di sopravvivere se decidessero di eliminarci. Nonostante i loro armamenti siano rozzi, il vantaggio tattico che hanno grazie alla simbiosi con la giungla risulterebbe decisivo. Dei lamenti agghiaccianti mi costringono a sviare da quel pensiero. Un ghigno si dispiega sul brutto volto del guerriero sciacallo, lasciando intuire che quel suono distorto lo manda in visibilio. Mostra denti aguzzi, cesellati a mo’ di zanne. Elyn trema udendo quel grido disperato e improvviso, mentre Rovers ci ordina di fermarci. Dietro di noi il resto degli ometti che chiude la colonna ci invita a proseguire, a gesti. Non sono ostili, anche se una luce anomala illumina i loro occhi fuori misura, sporgenti e maniacali. Il comandante si impunta.

«Cosa è stato?» vuole sapere da Tha-ho, ma questo finge di non capire, oppure realmente non conosce che poche parole della nostra lingua. Ci fa segno di seguirlo e così facciamo. Un odore acre e dolciastro si mescola a quello umido dell'humus e del sudore rancido degli ometti. Mi guardo attorno: solo fogliame e frasche. Mi occorrono ancora una ventina di i per scoprire l'origine di quello che si è trasformato in tanfo di decomposizione. Avanziamo in una selva di pali su cui sono conficcati cadaveri irriconoscibili. Come pupazzi agghiaccianti spuntano dalla vegetazione, spietato monito a tutti gli sprovveduti che dovessero avvicinarsi a questa zona. Brulicano di insetti, larve bianche, tafani e mosche, i corpi orribilmente martoriati che grondano liquami. «Forse questa volta avevi ragione, Yorik.» mormora Zitara con un’espressione di disgusto sul volto. «Pare che questi esseri non temano gli insetti. Non montarti la testa comunque…» Non la sto a sentire. Mi avvicino a Elyn, la sorreggo prima che crolli al suolo. Troppo sensibile, troppo delicata per condurre questa vita. Il Templare sbuffa, nervoso come una fiera in gabbia, la sua nuova fede che grida vendetta alla vista di quello scempio dissennato. Lo sento bisbigliare fra i denti che gli scricchiolano per la pressione, un’invocazione a Lena. «Oh Dea, abbi pietà di loro, accogli le loro anime.» Quasi lo invidio. Essere sicuri che qualche entità superiore sia sempre pronta ad ascoltarci e ad esaudirci deve essere certamente di conforto. Il capo degli ometti ci raggiunge e si rivolge direttamente a Shoggul. «Siamo sul Suolo Sacro del nostro popolo. Dovete cedere le armi.»

Il Maestro d’Ossa non fa una piega, evidentemente lieto che non gli abbiano chiesto di abbandonare il Santo, e getta al suolo il bordone. «Non se ne parla nemmeno.» Il volto del capitano è una maschera d’ira. «Non intendo finire con un palo nel culo. Non senza combattere.» Il Divinatore lo guarda con disprezzo. «Non vi sarà fatto alcun male. Quelli che vedete sono colpevoli di crimini contro il nostro popolo.» Non contento, Rovers non cede. «Se non avete brutte intenzioni, non dovete temere le nostre lame.» «Basta!» tuona Kiquathu «La mia gente ha una parola sola. Non dubitare della mia promessa, è un affronto che non sopporterò una seconda volta. È per il vostro bene che vi chiedo di gettare le armi. Qualsiasi straniero varchi i Sacri Confini con in pugno un’arma, potrebbe essere scambiato per una preda da Sciacal, e finirgli in pasto.» «Di che diamine blatera?» bisbiglia Deifobo, che quando sente parlare di divinità e creature ancestrali dai poteri sovrannaturali diventa intrattabile. Il Divinatore lo osserva, nonostante sia impossibile che abbia sentito le sue parole. Un dedalo di rughe profonde come forre si disegna su quel volto dalla pelle simile a cuoio bollito. «Capitano, dobbiamo dare ascolto all’indigeno.» interviene il Maestro d’Ossa. «Il Santo sente l’ululato di Sciacal farsi più vicino. Non conviene farlo irritare oltre. I marosi della sua rabbia sarebbero impossibili da respingere. È una fiera incattivita, pronta a balzarci addosso. Ad ogni modo possiamo fidarci di Kiquathu. Non vi è menzogna nelle sue parole.» Deifobo alza gli occhi al cielo, contrariato. Non sopporta che sia qualcosa di

incorporeo, di immateriale, forse frutto dell’immaginazione o della semplice pazzia del Maestro d’Ossa, a decidere il nostro destino. Lui non crede in nulla, solo soldi, baldracche e buon vino. Alle volte invidio anche lui. Tutto sarebbe molto più semplice. «Divinatore, voglio che mi garantisci che i tuoi guerrieri si terranno a debita distanza, anche da loro.» gli dice Rovers indicando le tre donne del nostro gruppo. «Non vorrete veramente cedere le armi?» si intromette il Duca, ancora scosso per la visione delle torture e dei supplizi impartiti ai prigionieri. Il capitano gli lancia un’occhiata furente. «Gli ordini li do io, inoltre noi due dobbiamo parlare e chiarire un bel po’ di cose. E poi non c’è Lena a proteggervi? Centuria, consegnate le armi.» Il Templare lo guarda esterrefatto. Lo affianco, pronto se necessario a far rispettare l’ordine del capitano. Le imprecazioni di Siqquara e ReCorvo contendono la scena ai lamenti che ci raggiungono da ogni direzione. Una sofferenza incessante, cui sono sottoposti i prigionieri di quegli indigeni, e che forse entro breve sperimenteremo sulla nostra pelle. Tutti si spogliano delle proprie armi. Lascio ai piedi di Tha-ho il mio arsenale: spada bastarda, balestra, coltello da caccia e dardi, corazza pettorale, schinieri e bracciali. Se questa volta il Santo ha mentito al Maestro d’Ossa, non lascerò che sia Deifobo a sbarazzarsi di quel sacco di spazzatura. «Una giusta scelta.» annuisce il Divinatore del Clan dello Sciacallo. «L’unica che vi garantisca di rimanere in vita.»

Penetriamo nell’accampamento, poco più che un agglomerato di tende di pelli. Hanno dimensioni e fattezze diverse e spuntano in un’area meno boscosa. Rifiuti, ossa e resti di animali punteggiano il terreno in un amalgama di sporcizia. Un ben misero regno quello presieduto da questo Sciacal. Ci sono decine e decine di quegli ometti storpi, intenti a sbrigare ogni sorta di faccenda. Né femmine aberranti, né bambini deformi fanno compagnia a quell’universo maschile distorto. Si comportano come gli abitanti di un qualsiasi villaggio rurale dei Quarti: chi prepara il pasto, chi forgia rudimentali armi e attrezzi, chi tesse un vestito di stracci. Certo qui c’è anche chi si diletta a torturare qualche prigioniero… e ce ne sono diversi, nel raggio di visuale. Tutti mezzi uomini, appartenenti a qualche tribù nemica, probabilmente. Un puzzo nauseante permea l’aria, spodestando l’aroma naturale della selva. Zitara e Elyn si portano dei fazzoletti al naso in un gesto raffinato che in questo contesto fa quasi sorridere. Al nostro aggio le creature ci osservano, salutano con deferenza il Divinatore che ci precede, per poi fissare gli occhi bramosi sulle forme delle donne della Centuria. Esseri primitivi, lussuriosi, privi di ingegno e traboccanti di selvaggia stoltezza. Al mio fianco il Templare si ferma di scatto. Ne seguo lo sguardo e non appena scorgo il suo obbiettivo, lo colpisco alla nuca. Il taglio della mia mano lo centra alla base del collo. L’urlo che stava articolando non fa a tempo ad attirare l’attenzione dei mostriciattoli. Mi sviene fra le braccia. «Qualcuno mi aiuti, il Duca ha avuto un mancamento!» A una decina di metri sulla nostra sinistra, un immacolato, un fedele di Lena, o

almeno così interpreto i segni che porta impressi sul brandello di veste che gli rimane, viene torturato da due mezzuomini. Gli stanno strappando la carne di dosso. La tunica bianca è orrendamente segnata da macchie cremisi, in più punti. Urla al pari di un maiale al mattatoio, e in effetti la sua sorte non è certo migliore: scuoiato vivo. I volti dei seviziatori grondano sangue, mentre le loro fauci dai denti gialli e robusti come mole affondando nelle carni del malcapitato. «Ben fatto, Yorik.» mi batte sulla spalla il capitano, intuendo l’accaduto. «Chissà cosa sarebbe stato capace di fare quell’imbecille.» Siqquara si carica il Templare svenuto in spalla e avanziamo, nell’indifferenza degli ometti, addentrandoci nel cuore di quel bivacco da incubo.

Al centro del campo svetta un albero dalle dimensioni colossali. Il fusto ha un diametro di almeno cinque metri e dai rami pendono due dozzine di corpi di impiccati, a diversi stadi di decomposizione. Ai piedi del simulacro di morte stanno stravaccati una trentina di sciacalli. Alcuni dormono, altri si limitano ad alzare pigramente il muso per osservarci. Sangue e liquidi organici gocciolano da quel sudario a cielo aperto, originando una macabra pioggerellina e insozzando le pellicce delle bestie li sotto appostate. «Quella è la mia dimora.» ci avvisa il Divinatore. «La casa di Sciacal.» Solo in quel momento noto un’apertura nel tronco, una sorta di portale celato da un drappo di pelliccia maculata. «Ora andate a riposarvi. Domattina avremo modo di parlare.» dice indicandoci un’ampia tenda posta oltre la pianta utilizzata come forca. Kiquathu ci saluta e se ne va nel ventre di quell’albero mostruoso, gli sciacalli che scodinzolano accogliendo il loro padrone.

È il guerriero ombra Tha-ho a condurci alla nostra tenda. Superata la disgustosa dimora del capo clan, ci imbattiamo in un totem variopinto. Ritrae le teste alternate di sciacalli, lupi, orsi e avvoltoi e si innalza fino a sei, sette metri d’altezza. Il muso di ogni bestia ha i contorni sfocati, come se mutasse impercettibilmente, ma di continuo, espressione e forma. Per un istante mi pare di intravedere i lineamenti squadrati e duri dei volti degli indigeni, ma sbattendo le palpebre i musi animaleschi tornano alla loro forma originaria. La mia immaginazione forse mi sta giocando brutti scherzi… andovi a fianco, Tha-ho china con deferenza la testa. Shoggul fa altrettanto. Io sento solo che quell’obelisco pulsa di un potere che non avevo mai percepito: una furia primordiale, caotica, impossibile da imbrigliare e governare, nulla che possa essere paragonato alla naturalezza degli elementi. È un sentore che mi balena nel corpo, attraversandomi le membra come la scarica di un fulmine. «Che ti succede Yorik, hai paura di quella statua grottesca?» mi sbeffeggia Deifobo. Povero ignorante. La sua grettezza gli impedisce di percepire oltre il palmo del naso. Chino a mia volta la testa, in segno di rispetto all’entità che alberga in quel totem. «Fai bene a vergognarti.» continua l’esperto delle polveri, convinto che stia tributando omaggio alle sue parole. Noto che anche i due Abucensi, ReCorvo e Siqquara, osservano con deferenza quell’obelisco, segno che le loro culture, più vicine alla realtà non-ordinaria di quanto lo siano quelle dei civilizzati Quarti, hanno insegnato loro una sorta di sensibilità verso ciò che trascende la realtà visibile.

Dopo qualche minuto il guerriero ombra ci ferma. «Questa è la vostra tenda.» dice e senza aggiungere altro fa dietro front e si allontana. Sa che non possiamo scappare, che senza armi siamo del tutto indifesi e che i suoi guerrieri pattugliano il circondario. Inoltre la notte sta sopraggiungendo e solo gli Dei sanno cosa possa celarsi nel buio in quella giungla sterminata. Rovers scosta il lembo della tenda e fa per entrare. «Vediamo che altre sorprese ci attendono dentro…» In fila lo seguiamo nell’oscurità della nostra nuova dimora.

VIII. Le Torri – I Custodi dei Mondi

«Vedi Araldo, il tuo compito ti si è svelato da solo. Alle volte star troppo a pensare non serve a nulla. Bisogna solo lasciare che sia il Tempo a fornirci la soluzione.» Come al solito la comparsa del Custode Bianco l’aveva colto di sorpresa. Il Reietto, quello era il suo nome, in un tempo che ora a stento riusciva a ricordare, era chino su un tomo prelevato dalla libreria che avvolgeva le pareti circolari della Torre. Non sapeva cosa lo avesse spinto a scegliere proprio quel volume. Le possibilità erano infinite, come i Mondi racchiusi in quei libri. Le parole, elegantemente vergate sulle robuste pagine di pergamena, prendevano vita sotto i suoi occhi dispiegando nella mente le vivide scene delle vicende, e la Storia del Mondo oggetto della narrazione del volume. Vite gli venivano svelate fin nei più reconditi segreti. Sentimenti di Re e Regine, emozioni e intenzioni tenute nascoste anche alle migliori spie, si concedevano a lui senza richiedere alcuno sforzo. Stava al suo intuito scovare le esistenze dei personaggi chiave, quelli che avrebbero giocato un ruolo vitale nel destino di quel Mondo. Fossero essi i protetti degli Antichi, Re o Monarchi con immensi poteri o semplici Stregoni o Sciamani o Taumaturghi, capaci ugualmente di mutare i cammini delle masse con il semplice potere della persuasione. Sì, constatò il Reietto divenuto Araldo, in quel Tomo erano racchiusi poteri immensi, lo percepiva chiaramente. L’interesse dei padroni della realtà non-ordinaria vi stava confluendo con una certa irruenza. Aveva scelto bene e sembrava che la decisione presa fosse condivisa dal

Custode. «Vedi Araldo, anche questa volta il tuo intuito si è mostrato all’altezza. Forze smisurate si stanno interessando al Mondo ritratto nel tomo che stringi fra le mani.» Il volto del Custode dei Mondi, formato dalla maschera di porcellana bianca, non mostrava alcuna emozione, ma la sua voce, solitamente neutra, tradiva una nota di sconcerto che il Reietto non aveva mai sentito. «Come il tuo sguardo si è posato sul dorso di questo volume, così quello degli Antichi viene calamitato sul Mondo che esso ritrae: Alenna. Il mio oppositore ha esagerato questa volta. I suoi sgherri operano alla luce del sole, e questo è pericoloso. Troppo pericoloso. Dobbiamo intervenire. È giunto il momento che tu lo conosca.» «Chi, Custode?» chiese scioccamente il Reietto. «Il mio oppositore, naturalmente. Il Custode Nero.» L’Araldo era sconcertato. Da quando il Bianco l’aveva prelevato dal suo Mondo per insignirlo dell’incarico di Messaggero, strappandolo al riposo eterno e all’abbraccio degli avi e dei propri cari, aveva sentito parlare un’infinità di volte di questo misterioso oppositore. I riferimenti ad esso erano sempre generici, vaghi al punto da spingerlo a credere non esistesse, e che ogni cenno ad esso fosse in realtà un modo utilizzato dal Custode Bianco per parlare degli Antichi e delle altre entità che popolavano la realtà non-ordinaria. Invece ogni sua elucubrazione venne spazzata via da quell’affermazione. Avrebbe conosciuto in prima persona il Custode Nero, la nemesi del suo… come lo avrebbe potuto definire? Padrone? Maestro era più appropriato. Padre forse? «Sarà un incontro pericoloso?» azzardò, stupendo anche se stesso per la vigliaccheria che la domanda velava. Era rinchiuso da troppo fra le candide mura di quella Torre.

I giorni in cui scorrazzava per le praterie in compagnia della sua Tribù erano lontani. A quell’epoca non aveva mai sperimentato la paura, nonostante la vita quotidiana fosse piena di rischi. Lo sguardo corrusco del Bianco era però benevolo. «Le Torri sono fuori dai Mondi e al loro interno non può accaderti nulla. Forza, andiamo, il Nero ci attende.»

La porta bianca che immetteva nella sala comune si aprì senza cigolare e senza che il Custode dovesse toccarla. Innanzi a loro si stagliava la sua gemella nera, minacciosa come la prima volta che il Reietto l’aveva vista. L’Araldo ricordava il momento in cui si era trovato a scegliere quale delle due varcare: la bianca o la nera? Una scelta che lo avrebbe segnato per l’eternità e della quale non si era mai pentito nonostante la curiosità lo attanagliasse da allora, ogniqualvolta sentiva parlare del Nero. Cosa sarebbe accaduto se avesse oltreato la macchia oscura che permetteva di accedere alla Torre dell’oppositore del suo Maestro? Quale sorte sarebbe toccata in quel malaugurato caso ai suoi cari? Molte domande gli si affollavano nella mente, ma non era quello il momento per affrontarle. C’era un tavolo, ora, sotto la pozza argentea che ricopriva parte del soffitto. Era da lì che era stato strappato alla morte terrena dall’intervento di una vestale della Dea dell’Amore. La sua avventura come apprendista del Bianco era iniziata così. Parevano trascorsi secoli interi, nonostante il concetto di Tempo non lo avesse più turbato da quando ricopriva la sua nuova carica.

Osservò ancora un istante quel magma color mercurio ribollire di vita propria, poi la sua attenzione si focalizzò sull’oppositore, comparso dal nulla in quell’istante: poco più che una tunica nera adagiata su uno scranno. Doveva trattarsi di una creatura esile, filiforme quasi a giudicare dal poco volume che la veste celava. «Vedo che hai portato con te il tuo servo.» disse in un sibilo il Custode Nero. Il Reietto non si sentì offeso da quell’affermazione. Tranquillamente, attese la replica del Maestro. «I tuoi schiavi, Nero, fanno troppo rumore. Attirano troppe attenzioni.» disse questo accomodandosi innanzi all’oppositore e invitando l’Araldo a prende posto alla sua destra. «Ti stai sbagliando, io non ho né schiavi, né servi.» «Non credere, Nero, che io sia sordo al gracchiare di quelle bestie nefande che ti svolazzano attorno.» Fece uno schiocco con le mani mentre proferiva quelle parole e come dal nulla un corvaccio dagli occhi arancione come un sole al tramonto, comparve sulla spalla del Custode di nero vestito. Due bagliori roventi originarono dalla maschera smaltata del medesimo colore oscuro che celava le fattezze del suo volto. Roventi e carichi di rancore. «Quelli che tu chiami servi, sono creature indipendenti, libere. Dimenticavo, a te la libertà non interessa, tu ami pianificare le esistenze altrui, sottraendo anche l'unico dono dell'umanità: il libero arbitrio.» lo accusò sprezzante il Nero. «Non tediarmi con le tue folli teorie. Non sono qui per questo. Devi fermare i voli di quelle creature, prima che sia troppo tardi!» Il Custode Nero carezzò l’uccello che gli stava placidamente appollaiato sulla spalla. «Non è nei miei poteri.»

Il corvo gracchiò forte e spiccò un balzo. Compì due volute complete attorno al tavolaccio e si ficcò nella pozza argentata. Solo una piuma rimase a testimonianza della sua presenza, depositandosi leggiadra sul legno del tavolo. «Ringrazia che non abbia deciso di fare il nido in quella voragine.» ghignò il Nero indicando il Reietto, sbalordito, a bocca spalancata. Il Bianco si alzò, meditabondo. «Devi sapere, Araldo, che quel corvaccio del malaugurio è il Traghettatore dei Mondi. Diciamo che quella di volatile è una delle tante forme che si diletta ad assumere. Per quanto il Nero sostenga che non sia un suo servo, tutto lascia pensare al contrario e il fatto stesso che quell’uccellaccio si ostini a tornare alle Torri ne è la prova. E non è l’unico. Io ne ho contati almeno quattro e uno l’hai gia conosciuto. Uriel, ricordi? Ma questa è un'altra storia, un altro Mondo. Il problema è che quell’entità sta attirando l’attenzione degli Antichi con i suoi continui interventi su Alenna.» «È una creatura libera e indipendente. Non mi sognerei mai di darle delle direttive. So quali sono i rischi che una tale scelta comporterebbe.» si infuriò il Custode Nero. «Certo, sicuro, vallo a raccontare a Ulnar allora. Il Padre degli Antichi, il custode dell’equilibrio interpreterà le azioni del Traghettatore come potenzialmente pericolose, capaci di mutare lo status quo. Quale sarà il o successivo? Puoi invitarlo direttamente a banchettare nella nostra Torre, visto che ci sei!» «Attento a come parli, Bianco. Chi influenza i Mondi con i suoi sciocchi messaggeri sei tu. Tu hai concesso a quella stupida Dea di fiutare la nostra esistenza. La Dea dell’Amore, quale assurdità! Tutto è cambiato ora che quella creatura vanesia sa della nostra esistenza.» Gli occhi di brace dell’essere si puntarono sul Reietto. Questo, seduto sullo scranno, era stupito da quella situazione assurda e dall’atteggiamento dei due rivali. Era evidente che le loro visioni fossero diametralmente opposte, ma l’odio che nutrivano l’un l’altro era ammantato da una forma di rispetto che li portava a non eccedere in atteggiamenti violenti. Come si trattasse di due studiosi che dibattessero su teorie differenti, ma non per

questo il loro rapporto dava l’idea di poter sfociare in azioni estreme. Forse c’era un bene superiore a tenere uniti i due, a far condividere loro addirittura la dimora, perché almeno questo lo aveva capito: la Torre Nera e la Torre Bianca facevano parte della medesima costruzione, un non-luogo, a cavallo fra i Mondi degli uomini e la realtà non-ordinaria appartenente agli Dei. Dove questa fosse situata, invece, rimaneva per lui un mistero, così come i reali moventi dei due e delle loro interferenze con i Mondi dei mortali. «Karima, la Dea dell’Amore, non è un pericolo per noi, anzi.» «Per noi chi, Bianco? Non coinvolgermi nelle tue trame. Non è nelle mie corde intrallazzare con i mortali.» «Allora cerca di tenere a bada i tuoi scagnozzi, perché pare proprio che loro invece ci si divertano un mondo.» «E tu cerca di non fidarti degli Antichi, invece. Non pensare che una di loro possa essere in qualche modo tua complice, solo perché in talune circostanze ha avuto il vantaggio di schierarsi dalla tua parte.» La minaccia del Nero parve toccare il Custode che rimase per lunghi istanti in silenzio. Era effettivamente un problema. La Dea si era mostrata sensibile verso i mortali e per questo il Bianco era arrivato quasi a considerarla un’alleata, ma in cuor suo sapeva che non esisteva creatura più mutevole di una divinità. Eppure oramai Karima aveva percepito la presenza delle Torri. Un segreto infranto dopo millenni.Il rischio che volesse approfondire quella anomalia era concreto e tangibile. Avrebbero dovuto usare ancora maggiore cautela. «È ora di andare, Araldo.» Il Custode Bianco si alzò, lasciando il Nero seduto da solo al centro dello

stanzone. Il Reietto si accodò al Maestro senza degnare di ulteriore attenzione il loro oppositore, con la convinzione ancor più forte che Alenna avrebbe ricoperto un ruolo fondamentale anche per il rapporto fra le Torri e gli Antichi.

IX. Nuovo Quarto – I Nuovi Dei

Dopo esserci rifocillati, siamo infine pronti a rompere il silenzio. Elyn si è presa cura della ferita alla spalla di ReCorvo e Shoggul lo ha benedetto con un rituale bislacco. Sarebbe ora di avere dei chiarimenti dal Duca, ma giace ancora al suolo, privo di sensi. «Che razza di colpo gli hai dato, Yorik? Questo non si risveglia più.» sbotta Deifobo camminando avanti e indietro per l’ampia tenda. Si tormenta i boccoli biondi, nervoso come un animale in gabbia. Siamo in attesa che il Templare si riprenda, ma pare proprio che io abbia esagerato. «Nessuno di voi ha visto i suoi occhi. Quell’invasato ci avrebbe fatti impalare tutti. Quando ha scorto l’uomo appartenente al suo ordine sbranato dai selvaggi, era pronto a immolarsi.» mi difendo. «Forza guaritrice» sibila con disprezzo il Biondo verso Elyn «trova il modo per svegliarlo.» Ancor prima che la donna possa togliere il tappo da una piccola ampolla estratta dalla tunica, Rovers si alza, si avvicina al Duca e lo schiaffeggia al volto perfettamente sbarbato. Due, tre robusti ceffoni, anche se già dopo il primo il Candido Templare di Lena ha riaperto gli occhi. Intontito, questo si divincola, lo sguardo che esprime per la prima volta un accenno di sconcerto. Il Comandante sa essere rude quando serve. «Allora Templare» ringhia con astio «vediamo di capire bene cosa siamo venuti

a fare in questo posto maledetto.» Palwen lo guarda, come se non l'avesse mai visto prima. Vedo lo sforzo di Rovers per mantenere il controllo, sa che la firma sul contratto l’ha apposta senza costrizione alcuna. Non era specificata la meta del nostro viaggio e per giustificare tale lacuna aveva preteso una montagna d’oro. Il Duca aveva accettato e Rovers firmato felice. Con movenze scattose e impacciate il Capitano lo aiuta ad alzarsi. «Elyn, dagli dell'acqua.» ordina, ritrovando la calma e ricordandosi che quello che stringe per la collottola è il suo committente, colui che lo riempirà d'oro a fine missione. Il Duca accetta volentieri e beve una lunga sorsata, guardandosi attorno e ringraziando la donna con un cenno del capo. La tenda a cono che ci ospita è ampia e una luce fioca filtra dall'apertura sulla cima. Albeggia. Non vi sono né suppellettili, né tantomeno letti a renderci l’attesa più confortevole. Solo un misero cerchio di pietre e delle pagliuzze e ramoscelli per il fuoco. Almeno le spesse pareti di pelli tengono fuori l’umidità e attutiscono i rumori esterni, garantendoci di parlare liberamente. Gli indigeni ci hanno lasciato qui ad arrovellarci la mente con una montagna insormontabile di domande. «Anzitutto vorrei sapere dove siamo di preciso e perché il Traghettatore ci ha lasciati nel mezzo di questa dannata giungla.» Il Duca rifiata, riassumendo la solita aria distaccata.

«Lena ci protegge, non temete…» Risposta sbagliata caro Savio, faccio a tempo a pensare prima che Deifobo, con un guizzo, lo afferri al collo spingendolo indietro di un metro. Non fosse per Siqquara, che intercetta la loro traiettoria, bloccandoli, finirebbero col travolgere i montanti della tenda e farci cadere addosso l’intera costruzione. «Non voglio sentire buffonate.» ringhia l’esperto delle polveri duwan. Il Templare si libera dalla morsa, dando prova di una forza considerevole. «Miserabile miscredente. Credi forse sia un caso che i selvaggi non ci abbiano ancora trucidato? L’opera della Dea è palese.» «Vallo a dire al tuo amichetto che è finito in pasto a quegli ometti.» gli rinfaccia il Biondo. «Finitela, entrambi» tuona Rovers allontanando con energia Deifobo «vi ho posto una domanda, Duca. Attendo una risposta.» Savio riserva un’occhiata di puro disprezzo al guerriero dai lunghi capelli dorati e torna a concentrarsi sul comandante, forse deciso a darci qualche spiegazione. «Siamo in un continente lontano dai Quarti. È una terra florida, scoperta dai miei confratelli. Come credevate venissero sostenute le rivolte in nome di Lena? Un’Istituzione come la Chiesa della Dea della Pace non può nascere e prosperare in così breve tempo se non sostentata da ingenti risorse. La sola fede non è sufficiente in questo caso.» Il Nuovo Quarto. Ne ho sentito parlare nelle bettole e nei bordelli, eppure mai avrei creduto che a quelle storie corrispondesse un briciolo di verità. «È da qui che giungono tutti i rifornimenti, l’oro, i minerali e soprattutto il cibo necessario per liberare i Quarti dalla carestia e dalle infinite guerre.» «E che diamine ci siamo venuti a fare? Perché avete bisogno che vi facciamo da scorta per la vostra scampagnata fuori porta? Non potevate venirci con i vostri

confratelli?» si intromette Zitara, disgustata dalla situazione venutasi a creare. La domanda è calzante, in effetti. «Non ci è permesso.» Rimaniamo imbambolati. «Cosa diamine significa?» rincara Rovers. «A noi Templari non è concesso salire sulle Navi di Cristallo. Solo il Patriarca e la Sorella di Lena che governa questo Quarto possono, oltre naturalmente agli immacolati.» «In pratica voi, Duca Palwen, oltre a tradire il Re del Quarto dell’Acqua sposando la causa di Lena, state indagando anche sui vertici della Chiesa della vostra nuova Dea, contravvenendo ai suoi dettami? Pare che non riusciate a sopportare imposizioni dall’alto…» «Questo non ci riguarda, Yorik.» mi azzittisce pragmatico il capitano. Il Templare è risentito e mi guarda in cagnesco, ma quella che gli ho sputato in faccia è la semplice realtà dei fatti. «Dopo cento anni di guerra infruttuosa, credo di avere il diritto di mettere in discussione l’operato dei Regnanti. Ho combattuto in prima persona per Re Induard Saleon VIII, ho visto i miei uomini morire per lui, il popolo patire la fame e lasciarsi morire. Per quanto io mi sia sforzato di governare la mia Isola Feudo con giustizia e oculatezza, non sono riuscito a tenere lontane le tragedie dalla mia gente.» Il Templare fa una pausa, quasi faticasse a rimuovere ricordi capaci di annichilirlo. «Poi ho conosciuto Qilana, la Figlia di Lena e da lei ho imparato che una via differente è percorribile. Ora voglio accertarmi in prima persona delle potenzialità insite nella nuova Chiesa della Dea della Pace.» «Un nobile intento il vostro, che però denota una totale mancanza di fiducia nel Patriarca e nelle Sorelle di Lena. Se ho capito bene sono loro che dirigono la

vostra istituzione.» insisto rimediando un rimbrotto da Rovers, al quale questi retroscena poco importano. Io invece voglio capire per bene come è architettato questo nuovo culto. Soprattutto non mi è chiaro il rapporto fra l’Istituzione capeggiata dal Patriarca e questa leggendaria Qilana. Credevo fosse solo un’incarnazione immaginaria dei desideri delle folle, invece Palwen sostiene di averla incontrata. Non credo menta, non sarebbe da lui. «Vi pago per proteggermi e questo è quanto. Il Traghettatore doveva condurci vicino all’insediamento principale dove risiede Agape, la Sorella di Lena che dirige le operazioni qui nel Nuovo Quarto. Sarebbe stato sufficiente muoversi con circospezione e avrei ottenuto le informazioni che cercavo. Qualcosa deve essere andato storto…» «… e ora siamo dei prigionieri.» taglia corto Rovers. «Almeno Fëanor è riuscito a scappare.» si intromette Zitara, dando corpo al convincimento di tutti i componenti la Centuria. Il Maestro d’Ossa rimane in silenzio. Pare proprio che tocchi a me. «Purtroppo Minatur è stato colpito…» sospiro. Zitara sgrana gli occhi. Non ricordo neppure più da quanti anni condividevano il ruolo di esploratori della Centuria. «Colpito?» blatera isterica. «Sì, lo hanno aggredito in branco…» Vedo negli sguardi dei miei compagni incredulità e l’infrangersi dell’unica speranza nella quale avevano confidato. C’è anche chi, come Elyn e Shoggul mostra un reale cordoglio per la perdita di un compagno, ma negli altri prevale la disciplina ferrea.

«Dannazione» sbotta Rovers «e ora dove lo troviamo un altro ranger abile come lui, in questa terra maledetta?» Pragmatico e privo di sentimenti. «Come è successo?» «Lo hanno trafitto all'addome con una lancia.» «Forse non è morto, forse siamo in tempo per curarlo… dobbiamo andare a cercarlo.» propone Elyn. «A quest'ora sarà già cibo per vermi…» la stronca il comandante. «Come è possibile?» balbetta Zitara. «È troppo abile per essersi fatto beccare.» In effetti non ha tutti i torti. L'ho visto più di una volta sottrarsi a situazioni ben più complicate. Non riesco a capacitarmi di come una mezza dozzina di quei miserabili ometti deformi, sia riuscita ad accopparlo. È il Maestro a porre fine alla discussione. «Era stato maledetto dallo stregone. Un potente malocchio suggellato da una divinità forte.» «Non mettertici anche tu, con le tue fesserie, vecchio.» sbotta Deifobo. Leggo la rabbia in volto al Biondo. Il giovane era un buon amico di Fëanor, un compagno di bevute, taverne e bordelli, e di certo questa morte non gli andrà giù tanto presto. «Pregherò affinché Lena accolga l’anima del vostro compagno.» se ne esce a sproposito il Templare, con un tono asettico che mi riempie di furore. «Solo dopo che avrai risposto alle mie domande.» lo blocca il comandante. «Come avete ingaggiato il Traghettatore, Duca?» In quel momento veniamo azzittiti da ReCorvo, rimasto di guardia a sbirciare oltre il lembo della tenda.

«Stanno arrivando.»

Il guerriero ombra Tha-ho scosta la porta di pelliccia della tenda facendovi penetrare i raggi del sole mattutino. Il brutto muso dell’ometto si cimenta in quello che forse vorrebbe essere un sorriso. Il risultato è agghiacciante. «I nostri alleati sono giunti, Kiquathu desidera presentarvi.» Il suo parlato è incerto, ma il senso è chiaro. Forse ha imparato a memoria questa singola frase. Impettito Rovers si fa avanti, accennando a seguirlo. Usciamo nel flebile bagliore del mattino e appena mettiamo la testa fuori dalla tenda veniamo sommersi da una valanga di grida gutturali. Pare che il clan sia riunito al completo. Da ogni lato ometti deformi ci scagliano addosso grida selvagge. Sui loro volti sgraziati sono leggibili tutte le tonalità dell’odio. Cingo Elyn alla vita vedendola vacillare sotto la sferza di quelle urla. La curatrice pare non essersi ancora ambientata in questo inferno e il colpo infertogli dal recente lutto non ha certo contribuito a rasserenarla. Al mio fianco, ReCorvo, la testa massiccia incassata fra le spalle, sembra pronto a caricare a testa bassa, come un toro infuriato. Anche gli altri membri della Centuria sono preparati a uno scontro imminente. Certo, senza armi le nostre possibilità sono nulle. Il Duca ha affiancato il comandante e scaglia occhiate torve a quella bolgia di esseri grotteschi. I volti grifagni, le bocche spalancate a mostrare i denti marci, fanno paura.

Si sono piazzati in cerchio, a coprire l’intero perimetro della radura che circonda l’albero-forca. Innanzi a esso è stata eretta una tenda a cupola, all’apparenza priva di aperture. Solo un flebile sbuffo d’aria grigiastra fuoriesce dalla calotta, indicando uno spiraglio sulla cima del manto di pelli. «Una tenda sudorifera.» constata il Maestro d’Ossa. Non ho idea di cosa possa essere e a giudicare dalle occhiate degli altri, non devo essere l’unico. Shoggul ci viene incontro spazientito. «C’è un rito in corso, lì dentro.» A guardia della tenda sono posti tre guerrieri e Tha-ho si dirige proprio verso di loro. Uno dei tre è simile a un gigante, almeno fra i propri simili. Nonostante sia marchiato dalle stesse caratteristiche sgraziate degli altri, li supera in altezza e possanza. Ha una pelliccia marrone gettata sulle spalle che lo rende se possibile ancora più imponente. Sta eretto, immobile come una statua, le massicce gambe piantate al suolo e le braccia incrociate sull’ampio petto. Potrebbe essere un avversario degno di ReCorvo. La testa abnorme lo rende simile a un orso, gli occhi cerchiati di nerofumo. Al suo fianco, seduto a gambe incrociate c’è un mezzuomo smilzo, le ossa sporgenti e fragili, in bella evidenza. Il volto è affilato, il naso adunco, da rapace. Lo sguardo perfido. Ci scruta, uno a uno, e non dubito ci legga nel profondo. Il terzo è meno appariscente degli altri. Molto simile a Tha-ho, spicca solo per il colore giallo intenso delle iridi: occhi da lupo. Siqquara mi indica l’orizzonte.

«Ci sono diversi clan riuniti qui.» Solo allora mi accorgo che nell’accozzaglia di indigeni ci sono differenze salienti. I selvaggi non hanno divise, certo, ma i rozzi vestiti, così come le loro armi, sono diversi. Noto almeno quattro gruppi, e a ben vedere, le urla che credevo rivolte a noi sono spesso invece diverbi che scoppiano fra i clan. Sciacalli e lupi vagano liberamente in quel marasma di corpi deformi. Con sorpresa noto persino degli orsi aggirarsi di poco discosti da alcuni gruppi di ometti. Dall’alto strida di avvoltoi richiamano la mia attenzione. Sono a dozzine: ombre nere che volteggiano in cerchio nel celeste del cielo mattutino. «Sedete.» ci invita il guerriero-sciacallo, calmo. «Aspettiamo che i Divinatori abbiano finito.» Allora sa parlare, il bastardo! Tutt’attorno le scaramucce fra i selvaggi continuano senza posa. Attendiamo i comodi dei capi, rinchiusi in quel sarcofago di pellicce. «È un territorio conteso.» sbotta il Maestro d’Ossa rivolto al Templare. «Non è il momento per i tuoi vaneggiamenti.» lo stronca sul nascere Deifobo, ma Rovers pare pensarla diversamente. «Cosa intendi dire?» «Guerra. Guerra fra Dei. Il Santo ne è sicuro.» Il capitano si volta verso Palwen. «Dove diavolo ci avete condotto?» Non oso immaginare quello che stia accadendo all'interno di quella tenda. I lamenti che ne fuoriescono mi fanno accapponare la pelle, ma lo sguardo

allucinato di Shoggul e il modo in cui si aggrappa al sacco che chiama Santo, mi fa ritenere debba essere qualcosa di importante per le nostre stesse vite. Non bastavano le guerre fra Elementali che imperversano da secoli nei Quarti, ora anche quelle fra Dei. La Dea della Pace, l’Immacolata Lena tanto osannata dal Duca, deve centrare qualcosa. Forse, così come ha portato sconvolgimenti nei Quarti con la repentina crescita del suo culto e le sollevazioni di intere città, anche qui nel Nuovo Quarto è arrivata a destabilizzare la situazione preesistente. In nome della Pace, la Dea pare in grado di portare ovunque la Guerra. «Le notizie che giungono ai Quarti dal nuovo mondo sono frammentarie. Nessuno di noi Candidi Templari si è mai posto domande sulla provenienza dei beni che ci fornisce il nostro ordine. Quando Sorelle Agape torna ai Quarti e indice un’adunata di fedeli, noi Templari, e i nostri Cavalieri della Concordia, ci limitiamo a raccogliere i frutti dei doni di Lena. Poi la Sorella riparte per il Nuovo Quarto.» «Quindi Lena offre i suoi prodigi qui? Teme forse la guerra che imperversa da un secolo nei Quarti?» conclude caustico Rovers. Il Duca pare perplesso. «Non saprei. In realtà non percepisco la chiara presenza della Dea in queste lande…» «Lo credo bene.» si intromette il Maestro. «Questo non è certamente un regno di pace!» In quel momento i guerrieri a guardia della tenda si alzano e sollevano i drappi di pelli. Un ululato belluino esplode dalla cerchia di spettatori quando i Divinatori, nudi e madidi di sudore, si portano all’esterno dello scheletro della piccola costruzione. È Kiquathu ad avvicinarsi a noi. «La cerimonia della visione collettiva è terminata. Ora tutti sanno. La decisione

è stata presa.» La sua voce non concede alcun indizio sull’esito di questa riunione, lasciandoci sulle spine. Tha-ho, così come gli altri guerrieri ombra, portano i paramenti ai Divinatori. Come attori consumati, questi, indossano le loro bizzarre vestigia, trasformandosi in guitti dalle teste d’animale. Kiquathu con il muso di sciacallo ben calato sulla testa, gli altri tre rispettivamente con una testa d’orso, una di lupo e una d’avvoltoio, con tanto di becco a rostro e collare di pelliccia bianco sulle piume nere. Queste divinità antropomorfe mi farebbero sorridere se qualcosa di anomalo non mi turbasse nel profondo. Stranamente non scorgo un sorriso denigratorio sul volto di Deifobo. Anche l’esperto di polveri deve aver percepito qualcosa, e se ci è riuscito lui, nella sua miserabile grettezza spirituale, la forza in atto deve essere potente. Siamo in attesa della sentenza. La voce aspra del Divinatore con la testa di lupo rompe il silenzio. Più che parole quelle da lui proferite sembrano ululati veri e propri. Le urla degli ominidi del suo clan gli fanno eco e un’agitazione selvaggia percorre le fila dei nostri carcerieri. Al mio fianco, in silenzio, Morte si accinge a sfruttare le proprie arti. Vedo le sue pupille scomparire all’indietro, lasciando spazio al bianco dei bulbi oculari. Un brivido mi corre lungo la schiena e mi ritrovo a sperare che non sia necessario arrivare a tanto. Ci stringiamo fra noi, mentre il ringhio rabbioso ingenerato dal Divinatore-lupo non accenna a placarsi. Una forza caotica, incorporea ma chiaramente percepibile, sommerge l’intera area.

Fatico a respirare, quasi avessi un macigno posato sullo sterno. «Non fare follie, Hur-holate!» impreca Kiquathu rivolto all’ometto con la testa di lupo. Tha-ho gli si avvicina con fare minaccioso, pronto a far rispettare il volere del proprio capo clan. Il mezzuomo dalle iridi gialle e corrusche, forse la guardia del corpo di Hurholate, si frappone. I due si guardano con odio e ancor prima che il Divinatore-lupo decida se ascoltare o meno l’ordine di Kiquathu, sfoderano le lame. Tha-ho si avventa sull’avversario veloce come un lampo, ma il colpo va a vuoto. Osserviamo sbigottiti la scena mentre tutt’attorno gli uomini dei clan danno in escandescenza. Risse e colluttazioni iniziano a divampare come fuoco nella steppa. In un attimo è il caos. Un ometto si slancia verso Siqquara, bramoso di posare le mani lerce su quelle forme tornite, così a lungo desiderate. La donna barbaro non vedeva l’ora di poter avere a tiro uno di quei mostri. Le sue movenze sono più lente del solito, indice che anche lei è afflitta dalla stessa pesantezza opprimente che provo io. Ugualmente afferra il braccio proteso dell’essere all’altezza del gomito e con una torsione gli lussa la spalla. Il mezzuomo finisce al suolo e con un pestone la donna dalla pelle d’ebano gli sfonda esofago e carotide. «Tutti intorno a me, formazione a…» tuona Rovers, ma ancor prima che finisca viene messo a tacere da un coro di voci infernali: un miscuglio di latrati animaleschi e sillabe mozze. Il verso proviene dal totem e ha un effetto immediato sui mezzuomini: le schermaglie cessano all’istante e tutti si piegano sulle ginocchia, in adorazione.

Solo i Divinatori rimangono ritti come statue, i loro occhi fissi sull’obelisco parlante. Il raglio divino cessa, veloce come era venuto. «Tha-ho, riporta loro le armi.» ordina Kiquathu e questa volta nessuno dei suoi pari sembra avere nulla in contrario. Rimaniamo impietriti, nonostante la fortuna paia averci favoriti. Con la coda dell’occhio vedo Morte tornare fra noi, i suoi tatuaggi che cessano i loro frenetici movimenti. Goccioline di sangue gli scendono rapide lungo il collo, ma l’emorragia si ferma non appena i suoi occhi tornano vigili. Fortunatamente le arti dell’ex Domatore di Demoni non sono servite. «Siamo salvi.» sentenzia il Maestro d’Ossa mostrando un sorriso sdentato al Santo e lanciandolo in aria. Attorno a noi i mezzuomini innalzano un canto grottesco nel quale si perdono i miei timori. Almeno per ora…

X. Realtà non-ordinaria – La Dea dell’Amore

L'Araldo cercava quiete inerpicandosi sulla scalinata a chiocciola che lo avrebbe dovuto condurre alla cima della torre. Una scalinata che sapeva essere senza fine. L'incontro con l'oppositore del Bianco l'aveva lasciato agitato. Le parole del Nero gli martellavano nella mente. Non avrebbero dovuto fidarsi degli Antichi, e questo poteva condividerlo, ma come fare con la Dea dell'Amore, Karima, che aveva preso coscienza dell'esistenza delle Torri? Se effettivamente questa non si fosse rivelata l'alleata che era stata in ato, cosa sarebbe potuto accadere? Gli Antichi Dei avrebbero forse raso al suolo la loro dimora? Il Bianco sosteneva che la costruzione fosse sicura, ma ciò non lo tranquillizzava appieno, non certo perché temesse per la propria vita, che al momento non era neppure in grado di definire: nè anima, nè uomo reale. Cosa era diventato? E se fossero spariti sia lui, che il Bianco? Chi avrebbe custodito le memorie dei Mondi? Chi avrebbe protetto gli uomini dalle bizze delle divinità e dalle mire del Nero? Anche l’assunto di questo che sosteneva l’operato del Bianco privasse gli uomini del libero arbitrio, lo aveva scosso, poiché vi leggeva un fondo di verità. Inquietante, soprattutto per chi come lui, in vita aveva attribuito alla libertà il massimo valore. Mentre procedeva, i Mondi scorrevano sulla sua destra, appena intravisti dalle infinite finestre aperte su di essi. Le luci dei rispettivi soli lo colpivano a intermittenza, con colori dai toni sempre

diversi. A stento era riuscito ad assimilare il fatto che esistessero infiniti Mondi e men che meno comprendeva le meccaniche per cui alcuni di essi finivano inevitabilmente per attrarre le attenzioni degli Antichi. Era giunto alla conclusione che quando questo accadeva, per gli abitanti non si prospettava un periodo favorevole, anzi. Avrebbe voluto tuffarsi nuovamente nella lettura del Volume che ne aveva attirato l’attenzione, e quella del Bianco, nonché quella del suo oppositore, ma resistette alla tentazione di tornare sui propri i. Continuò imperterrito a mettere un piede innanzi all'altro, ad avanzare per un altro scalino, e uno ancora, deciso a sfidare l’altezza vertiginosa della Torre. Solo il rumore dei sandali posati pesantemente sul marmo lo accompagnava in un monotono ripetersi che si protraeva da ore. Non c'era traccia del Custode. Forse anche il suo maestro era intento a riflettere. L'avanzata si stava trasformando in una marcia forzata. Una stanchezza salvifica lo stava comunque cogliendo. La fatica muscolare capace infine di costringerlo a concentrare tutti i pensieri sullo sforzo fisico, abbandonando ogni ulteriore elucubrazione. Un bisbiglio proveniente da una finestra ad arco a sesto acuto lo investì, attraendone l’attenzione. Si fermò, cercando di decifrare quella sensazione, di capire se fosse l’istinto a parlare, a reclamarne la concentrazione. Fece un o per affacciarsi all'apertura e scoprire quale Mondo celasse: non si stupì accorgendosi che le isole disposte a cerchi concentrici fossero quelle del Quarto dell'Acqua. Si trattava di Alenna, il Mondo che pareva esser divenuto il tabellone di gioco di forze spropositate.

Il suo sguardo vagò ad abbracciare quelle lande con l'acutezza di vista non dell'aquila, ma del Dio. Poteva osservare le città che si erano ribellate ai Re dei Quarti con i vessilli candidi della Chiesa di Lena innalzati su tutti i torrioni. Si affacciavano orgogliose sui mari, difese da imponenti mura e torri, le navi di cristallo che andavano e venivano dai loro porti, cariche di tesori. Percepiva il pulsare della spiritualità nuova che pervadeva gli abitanti, la fede verso Lena e Qilana, la sua voce sulla terra, che li possedeva nel profondo. Erano tutte città sotto perenne assedio. Gli eserciti dei Quarti, seppur sfiancati dalle lotte fratricide ancora in corso, non davano loro tregua. Eppure i Candidi Templari erano riusciti a garantire delle vie sicure, protette da loro piazzeforti, presidi e stazioni fortificate, ancora in grado di collegare le une alle altre, a dispetto dei Regnanti dei Quarti, che vedevano transitare sul proprio suolo carovane cariche di ogni ricchezza. E di cibo! Era quella la risorsa capace di dar forza ai proseliti del nuovo culto: un pasto caldo offerto dalla Dea della Pace a un morto di fame era meglio delle mille promesse di gloria dei Re! I Quarti erano allo stremo: lande abbandonate, piagate dalla carestia e dalla mancanza di braccia da dedicare all'agricoltura. Regni in declino, incapaci di garantire la sicurezza dei propri confini ma non ancora decisi ad arrendersi l’uno all’altro. Così la guerra continuava, senza senso, come sempre. D’altronde cosa ci si poteva aspettare da un mondo che ripudiava i propri Dei per adorare gli Elementi? Aria-Acqua-Terra-Fuoco, poteri in perenne lotta fra loro, così come i Re che presiedevano i rispettivi Quarti. Il Reietto non indugiò oltre in quei pensieri, lo sguardo che veniva attratto da altre immagini inquietanti: il Quadrilatero Empio, così come era definito nell’antichità dai sempliciotti, una presenza quanto mai concreta agli occhi

dell’Araldo, seppur sbiadita dai secoli trascorsi. Le quattro città che erano stare le sedi, neanche così segrete, delle Logge dei Domatori di Demoni. Parevano essere ancora unite da linee nere, frutto delle comunioni mentali degli accoliti o forse solo del ricordo di esse. Sembravano sul punto di stringere d'assedio Askeen, la fortezza-prigione, in attesa di liberare il loro padrone: Isyl, l’Astronascente, maledetto dagli Antichi ed evidentemente anche dagli Elementi. Lo Sterminatore di Mondi, condannato al dono dell’ubiquità, presente in ogni Mondo ma costretto in tutti a una prigionia eterna. Tuttavia, nonostante questi problemi, ciò che maggiormente tormentava l'Araldo era la coltre di foschia che ammantava il Nuovo Quarto. Quella terra lontana, misteriosa e governata da entità a lui ignote. Turbini di nubi confliggevano su quelle lande oscurando la sua vista onnisciente. Qualcosa stava accadendo là sotto, e qualcuno stava tentando di celare quegli eventi con ogni mezzo. L’istinto lo spinse a tuffarsi in quella massa eterea, a scandagliarla a fondo, ma era come farsi breccia nelle acque di un lago, tentando di smuoverne la superficie per osservare il fondale. La nebbia si spostava, ma subito altre coltri ne prendevano il posto. Proprio mentre si stava adoperando per violare la marea oscura, quello che inizialmente gli era parso un bisbiglio mutò in un gemito, sempre più corposo e suadente. In un primo momento l'Araldo rimase sbalordito. Non comprendeva l'origine di quelli che andavano assumendo i connotati di gemiti di piacere. Spostò lo sguardo in tutte le direzioni, in cerca di una fonte concreta di quei mugolii. Provò la sensazione che mani gli accarezzassero il corpo, eppure era solo, come sempre, a presidiare la Torre Bianca, il Custode sparito nei meandri di quella biblioteca senza tempo.

Un richiamo proveniva dalla finestra e senza pensarci sporse la testa, dimentico delle peculiarità di quell'anfratto. Fu come se la sua anima venisse risucchiata fuori dal corpo. Il piacevole formicolio delle mani vellutate cessò bruscamente e il Reietto si trovò a precipitare a velocità folle verso il Mondo che stava osservando. Non ebbe neppure il tempo per gridare che si ritrovò catapultato nella realtà nonordinaria. Lo scenario era mutato improvvisamente. Riprese possesso del proprio raziocinio a tempo per vedere sotto di sé un palazzo in marmo rosa, in rapido avvicinamento: fontane, giardini e laghetti lo circondavano su ogni lato. La velocità di caduta non gli permise di valutare il luogo dove avrebbe impattato. Respirava a stento, la mente che gli martellava avvertimenti inutili. Non temere, Araldo. La voce lo costrinse a riaprire gli occhi per scoprire la propria destinazione. Con un tonfo ovattato la sua anima venne accolta da una vasca enorme eppure non fu dell'acqua ad attutire il colpo, ma una coltre di soffici piume candide. Per un istante pensò fosse opera del Bianco, ma la voce tornò a farsi udire: una voce femminile, irresistibile. La mente del Reietto vagò indietro nel tempo, quando ancora possedeva un corpo fisico, quando con l’amico e fratello CorvoRosso si era trovato al cospetto della Sacerdotessa di Karima. Infine comprese… quella voce, la conosceva bene: era giunto nei reami della Dea dell'Amore. L'entità era stata quindi in grado di prelevarlo dalla Torre Bianca, per quanto il Custode credesse che lì fossero al sicuro, e di trascinarlo nella realtà nonordinaria. Ora rimaneva da capire che cosa potesse volere da lui.

A malincuore decise di non lasciarsi vincere dal desiderio di rimanere sdraiato in quel mare di morbide piume, alla deriva, lasciando che i problemi dei Mondi ricadessero sulle spalle di qualcun altro. Si alzò generando un terremoto silenzioso nella massa di penne e, a fatica, raggiunse i bordi della vasca nella quale era immerso. Mosaici dalla fattezza sopraffine rivestivano le pareti: scaglie di zaffiri, turchesi, rubini e madreperla formavano composizioni sublimi, ritraendo scene d'amore e paesaggi incantati. Facendo torto ai propri miseri muscoli, si issò oltre il bordo. Una dolce melodia lo accolse, sospingendolo verso il palazzo che si stagliava innanzi a lui, costruito integralmente in marmo rosa dalle venature che parevano vive, in continuo movimento. Dal nulla comparvero una decina di Vestali dai lineamenti aggraziati. Lo invitavano a proseguire, stendendogli innanzi petali di rose e orchidee. Indossavano tuniche trasparenti, e si muovevano leggiadre come fate. I loro muscoli guizzavano provocanti, cosce e seni sodi bene in vista. Le loro chiome erano un arcobaleno dai colori meravigliosi e dalla morbidezza vellutata. Il Reietto non aveva modo di resistere a quell'accoglienza, degna di un Re. Non avvezzo a un tale trattamento si incamminò, la mente che veniva cullata da quella visione capace di azzittire ogni preoccupazione. Dalla facciata del palazzo giunse improvvisa la voce di Karima, le parole che uscivano armoniosamente dal portale quasi questo fosse la bocca stessa della Dea. E così fu, ancor prima che l’Araldo riuscisse a formalizzare quel pensiero nella mente. I battenti presero a muoversi, ad assumere le sembianze di labbra rosse e carnose. Splendide a celare un sorriso beatificante.

L’uomo era incantato, impietrito da tale prodigio, la bocca spalancata in un’espressione idiota. Il palazzo mutava in un volto dai lineamenti perfetti, i pinnacoli che si scioglievano divenendo cascate di capelli dai riflessi ramati, i rosoni simmetrici a chiudersi, per riaprirsi pochi istanti dopo scoprendo occhi dallo sguardo magnetico e dalle ciglia lunghe e scure. Sentì il desiderio crescere dentro di sé, la sensualità della Dea che si dispiegava in tutta la propria irresistibile bellezza. Il Reietto sarebbe stato pronto a esaudire ogni desiderio, ogni comando proveniente da quel viso divino. Eppure Karima non lo aveva chiamato per dare ordini. Calmati ora, Sciamano. Le melodie cessarono e la voce che le accompagnava divenne fredda e distaccata. L'euforia dell'Araldo scomparve all'istante: un coito interrotto bruscamente. Quel mutamento ebbe però l'effetto di farlo tornare nel pieno delle facoltà mentali. «Cosa vai cercando da me, Dea?» chiese. La sua voce era un raschiare di lame rugginose. Il palazzo innanzi a lui parve ondeggiare, non avvezzo a un gracchiare così sgradevole. Hai forza e determinazione Sciamano, oltre naturalmente all'intuito, che mi pare sia la caratteristica che ha fatto di te l'aiutante del padrone della Torre. Ogni parola di Karima era nuovamente un invito suadente, una provocazione lussuriosa difficile da contrastare. Il Reietto si fece forza. «Quindi puoi sapere tutto ciò che riguarda il Custode? A tanto arriva il tuo

potere?» Dovresti aver intuito che è solo grazie alla tua collaborazione che ho potuto invitarti nei miei domini. La definirei una congiuntura favorevole. Le Torri sono costruzioni anomale e sfuggenti. «Eppure sembri conoscerle a fondo, e ti interessi costantemente a noi… sbaglio forse?» Non siete voi che vado cercando, Araldo. La mia cerca dura da molto e per ora è risultata vana, ma questa è un’altra storia. Il Fato ha voluto mi imbattessi in te. La Dea pareva titubante, così il Reietto provò l’azzardo, ben sapendo che ogni informazione porta con sé potere. «E cosa cerchi, Dea?» Mia sorella Lena, la Dea della Pace. Ogni sua traccia è svanita. Il concetto non era certo di facile comprensione. Una divinità poteva perdersi? Poteva morire? Scappare forse, o nascondersi? Il Reietto era confuso e Karima parve accorgersene. I suoi Regni sono deserti, abbandonati, le sue anime confuse, sperdute. Lei potrebbe non volere essere trovata. Il suo rapporto con Astor, suo fratello e Dio della Guerra, ultimamente è peggiorato. Come adolescenti irrequieti, pensò l’Araldo. Il Bianco lo aveva avvisato che gli Dei erano bizzosi, ma non pensava arrivassero a tanto. Ma questo non ti interessa, vero? Voi uomini siete abituati a considerare la Pace come un evento del tutto temporaneo e di minore importanza. Il Reietto avrebbe voluto rispondere che in realtà spesso le guerre nascevano in risposta alle provocazioni degli Dei o per loro macchinazioni e intromissioni. Si trattenne, sperando di ottenere altre informazioni dalla Dea, ma questa cambiò

bruscamente argomento. Inoltre ci sono amori distorti, Araldo, amori che potrebbero partorire disgrazie e massacri. Li riesci a percepire? L'aberrazione di questi sentimenti turba la mia esistenza, eppure non riesco a dare loro una collocazione. Dall'alto della tua Torre, forse, tu sei in grado di farlo? «A cosa fai riferimento, Dea, non comprendo?» Parlo del Mondo di Alenna, del Mondo che ha inevitabilmente attratto anche la tua attenzione. Un amore folle lo permea, un patto talmente innaturale che esula dalla mia sfera di competenza. Sono cieca, e questo mi spaventa. Improvvisamente un’idea illuminò il volto rugoso del Reietto. Anche lui si era sentito cieco, impotente innanzi alla nube che sovrastava il Nuovo Quarto. Che ci fosse un collegamento? «Farò molta attenzione Dea, e ti terrò informata, se dovessi scoprire qualcosa di rilevante.» Questo volevo sentirti dire, ora va, ci sono sguardi pronti a carpire la tua presenza su questo piano, e noi non vogliamo che ciò accada, vero? Porgi i miei saluti al Custode. Senza sapere come, l’Araldo si ritrovò disteso sui gradini di marmo della Torre, duri, freddi e spigolosi, strappato da quel luogo di armonia e ione che era la dimora della Dea dell’Amore.

XI. Nuovo Quarto – Cava delle Teste Mozzate

«Grande incertezza avvolge la vostra venuta.» tenta di spiegarci Kiquathu, mentre tutt'attorno gli altri tre divinatori delle tribù riunite per l'occasione, rivolgono parole aspre ai loro sottoposti. Quello con la testa di lupo continua a lanciarci occhiate truci, ma almeno pare aver desistito dall'idea di impalarci sul posto. Certo, i suoi occhi dalle iridi fluorescenti mi lasciano addosso inquietudine e non mi fiderei mai ad averlo alle spalle. «Venite, seguitemi, andiamo alla cava delle teste mozzate.» ci invita Kiquathu. Cava delle Teste Mozze: un nome che non lascia presagire nulla di buono. Vedo il terrore affiorare nello sguardo di Elyn. È giunta al limite: troppi avvenimenti, troppe sollecitazione alla sua anima candida. La affianco e la sorreggo prima che svenga. «Andrà tutto bene.» La guaritrice vacilla, il bel volto pallido come una luna. Abbozza un sorriso, ma non riesco a godermelo appieno. Lo sguardo accusatorio di Rovers mi ferisce. Sono stato io a raccomandarla come chierico della Centuria. Lui non era convinto appieno. Quando Nion, il nostro vecchio cerusico ha deciso di ritirarsi, ho selezionato io la ragazza. Il capitano non ne metteva in dubbio le doti curative o la sapienza, ma la tenuta nei momenti di crisi.

E come al solito, non sbagliava. Forse mi sono effettivamente fatto influenzare dal fascino di Elyn. Distolgo lo sguardo. Colpevole. Ad ogni modo anche i miei compagni non sembrano entusiasti alla proposta del Divinatore-sciacallo. Il mutismo in cui si è chiuso il Templare non promette nulla di buono. Odia quelle creature e non cerca minimamente di nascondere la propria ripugnanza. Da quando ha visto come hanno trattato il suo confratello credo che se potesse li ammazzerebbe uno a uno, alla faccia della benamata Dea della Pace. «Di che parli?» prende in pugno la situazione il comandante, affrontando a muso duro il Divinatore che attende la nostra mossa. «È un luogo sacro, dove presterete giuramento.» asserisce sicuro il capo della tribù dello Sciacallo. Ci volta le spalle e si incammina in direzione della dolina che sovrasta il campo dei selvaggi, a nord. L’andatura dinoccolata dell’ometto è in tutto e per tutto simile a quella degli sgraziati animali che danno il nome alla sua tribù-branco. Senza che ne abbia percepito l'avvicinarsi mi ritrovo il muso affilato del Divinatore del clan dell'Avvoltoio a pochi centimetri dal mio. Ci invita a seguire Kiquathu a grandi gesti, le esili braccia che mulinano in aria parodiando le ali di un uccello. Il becco adunco lo fa somigliare in modo buffo al loro animale guida, ma gli occhi maniacali, cerchiati da occhiaie profonde come forre, non lasciano spazio a divagazioni. Quelle che avevo scambiato per decorazioni rituali sono in realtà occhiaie vere e proprie, violacee come prugne mature. Mi allontano dall’ometto e dal ripugnante afrore del suo fiato. Per un istante l’idea che si nutra di carcasse come l’animale totemico che rappresenta, mi invade la mente. Il cenno del capitano mi riporta subito alla realtà.

Ci mettiamo in marcia, ma Rovers non è affatto soddisfatto. «Un giuramento? Forse è il caso che ci spieghiate a chi dovremo giurare, e per che cosa!» Siamo circondati da migliaia di quegli uomini ammezzati. Non abbiamo molta scelta, eppure il capitano ha la testa dura e mostra una sicurezza che i nostri carcerieri potrebbero scambiare per spavalderia. Commetterebbero un grave errore. «Lo saprete a tempo debito.» taglia corto l'ometto trotterellando innanzi al gruppo e chiudendo la discussione. Le imprecazioni di ReCorvo e Siqquara mi rimbombano nelle orecchie. Rovers stringe con forza l'elsa della spada che ci hanno appena restituito. Il contatto con l’arma, e l'idea stessa di esserne tornato in possesso, pare dargli la fiducia necessaria per ubbidire alla richiesta di Kiquathu e ci fa cenno di seguirlo. Attraversiamo tutto il campo mentre un brusio di tensione serpeggia fra le fila dei mezzi uomini, frammezzato solo dai latrati delle bestie che scorrazzano libere per il bivacco. «Hai idea di cosa ci attenda?» chiedo al Maestro d'Ossa. Se c’è qualcuno fra noi che può immaginare di cosa blateri lo stregone degli ometti, questo è proprio Shoggul. Il Maestro sembra tutto preso da una discussione inarticolata con il Santo. Strattona il sacco pieno di sterpi e liquami come volesse destarlo da un torpore profondo. «Niente, questo bastardo non mi parla!» tuona improvvisamente continuando a scuotere violentemente l'oggetto. «Forse ti sarai convinto anche tu Yorik, che quello è solo un vecchio demente.» lo incalza Deifobo mentre rovista nelle bisacce appena riottenute dai selvaggi. «Ci ha salvati più di una volta…» accenno a rispondere, ma il Biondo è perso in altri pensieri.

Il sorriso che ha fatto stramazzare ai suoi piedi innumerevoli fanciulle, gli riempie improvvisamente il volto. «Ci sono ancora!» gioisce sollevando i dardi duwan, gli occhi cobalto che brillano. Noto l'occhiataccia che gli lancia il Templare osservando la scena. Mistero svelato! Si tratta quindi di un Rabdomastro. Solo gli Invocatori ritengono sacrilegio sfruttare la polvere sacra lasciata da un elementale quando abbandona questa terra, per creare i dardi duwan. «Allora Duca, siete pronto a giurare eterna fedeltà a qualcun altro? Oltre a Re Saleon e a Lena, intendo.» lo pungola Deifobo, notandone lo sguardo. «Taci, insolente. Osi mettere in dubbio la mia integrità?» «Non vi scaldate, mio nobile Duca. Dico solo che un giuramento in più o in meno per un personaggio del vostro calibro non dovrebbe essere un problema.» Insiste Deifobo, esibendosi in un inchino. La mano del Templare scivola verso l’elsa della spada mentre il giovane si rimette ritto in un istante e fa altrettanto. «Fermi e zitti!» li riprende Rovers e dopo un’occhiataccia reciproca i due eseguono l’ordine. Siamo giunti a un'apertura nella roccia che spacca a metà la dolina. Kiquathu ci invita ad entrare, e pur senza piacere, ci incamminiamo.

La grotta è buia, illuminata solo dal tenue bagliore dei funghi di caverna che crescono qua e là a ridosso delle pareti. Non abbiamo percorso neanche dieci i all'interno di quell'antro buio, che un’ondata di spiritualità travolge ogni mio convincimento più profondo: turbini

caotici di credi e superstizioni si fanno largo in me, intaccando a fondo ogni mia certezza. Divinità dai connotati alieni mi si offrono come nuovi padroni. Occhi, bocche, becchi e ancora zanne, artigli, piume. Corpi prima eretti e poi a quattro zampe, immobili, poi di colpo in corsa, in volo. Immagini che si sovrappongono l’una all’altra con l’unico risultato di atterrirmi. È impossibile non percepirne la forza selvaggia, animalesca. Vacillo al pari di tutti i membri della Centuria. Non li ho mai visti in questo stato. Il nostro accompagnatore ghigna compiaciuto, mentre l'oscurità della grotta viene rotta da un bagliore intermittente e multicolore. Avanziamo per inerzia, lungo un budello che pare condurci in una realtà diversa, sconosciuta. Mille colori spezzano la tenebra a intervalli irregolari: rosso per un istante, buio, azzurro, buio, una fiammata di giallo e nuovamente il buio. Una cacofonia di mille voci che parlano all'unisono mi irrompe nei timpani… non voci a ben giudicare, versi animaleschi: belati, grugniti, nitriti, squittii, c'è di tutto a prestar bene orecchio, ma il rischio è quello d’impazzire. Cerco conforto nei volti familiari dei compagni, ma anche loro sono sconvolti, le mani sulle orecchie, le facce ridotte a maschere da guitti privi di raziocinio. I nostri accompagnatori, i divinatori delle diverse tribù, ci precedono nello stanzone che deve essere la meta finale di questo viaggio negli inferi. Veloci spariscono inghiottiti dal buio innanzi a noi. L’idea che ci abbiano lasciati soli mi terrorizza. Un bagliore invade lo stanzone nel quale siamo giunti illuminando per un istante uno stuolo di teste di varie dimensioni piantate nella pietra. Incomplete, tumefatte e sanguinanti alcune, parzialmente decomposte altre. Tutte parimenti obbrobriose.

Disposte in file perfette, a distanza regolare l'una dall'altra, formano una sorta di scacchiera per una superficie di almeno un centinaio di metri quadrati. Per fortuna, o per grazia divina, la tenebra fagocita nuovamente il tutto. Istintivamente ci stringiamo gli uni agli altri. Sento Elyn pressarmisi addosso. Il calore del corpo riesce a destarmi per un istante. La sento mugolare il mio nome. L'abbraccio con fare protettivo, anche se sono sconvolto. Un boato precede nuovi bagliori intermittenti. Voci si insinuano nella mia mente, senza bisogno di sfruttare l'udito. Colgo parole confuse, o almeno così mi pare. Vi stavamo aspettando. L'effetto è quello di sentir parlare un animale, ma di comprenderne i versi. Dei lampi fluorescenti mi concedono di vedere i volti basiti dei miei compagni. L’unico a mantenere una flemma assoluta è Morte: il Senzalingua è abituato a spettacoli ben peggiori. Shoggul gesticola, come impazzito, tracciando nell’aria simboli senza senso, arcani protettivi che non gli serviranno a nulla contro la potenza che si sta sprigionando innanzi a noi. «È un posto blasfemo. Percepisco una presenza immonda che confligge con tutti i dettami della Pura. Non vi è spazio per Lena qui. La sua quiete è stata bandita per sempre da questo luogo.» sentenzia a bassa voce il Templare, disgustato, quasi avesse in bocca sterco di cavallo. Nessuno gli dà corda. «State calmi e armi in pugno.» grugnisce Rovers. Faccio cenno a Elyn di spostarsi ed estraggo lo spadone. In un istante la Centuria è armata e pronta a combattere. Non credo che le armi ci sarebbero utili, nel caso l’entità che vive in questo posto decidesse di aggredirci, ma nessuno di noi intende arrendersi senza combattere.

Un ululato acuto pone termine alla cagnara di versi. È Kiquathu a farsi largo nella selva delle teste mozze, gli occhi del copricapo da sciacallo che ardono furiosi. Percorre sentieri invisibili, tracciati dal susseguirsi di quegli orridi trofei, ogni o scandito da bagliori multicolore. Le orbite vuote delle teste seguono bramose ogni suo movimento. «Giurate, innanzi a Sciacal, la vostra devozione!» Detto questo si china a quattro zampe e comincia a proferire una sorta di cantilena che pare un mugghìo sconclusionato, ma che mi mette addosso agitazione e fretta, come se quei versi scandissero il poco tempo a nostra disposizione per assecondare la sua pretesa. La nostra devozione? A chi, o meglio sarebbe dire a che cosa? Sciacal? Questi mezzuomini sono folli… percepisco solo una presenza caotica, un nucleo di forza bruta privo di forma, incontrollabile comunque, incapace persino di esprimersi, se non per mezzo del tramite del Divinatore. «Giuro fedeltà cieca a Sciacal!» L’urlo è improvviso, liberatorio. Stupito mi volto e vedo Deifobo prostrarsi al suolo in una serie di genuflessioni. Scorgo il solito sorriso impertinente increspargli le labbra. La promessa suona talmente falsa che temo Sciacal lo incenerisca sul posto. A sorpresa, non accade nulla. Anche Rovers si fa avanti. In modo meno plateale e mantenendo un contegno marziale, offre il proprio giuramento. ReCorvo e Siqquara lo seguono. Tanto una divinità in più o in meno, poco cambia per gli abitanti dell’isola di Abuc. La donna estrae il legnetto che porta conficcato nella narice sinistra e lo deposita al suolo, come dono per la nuova entità che si accinge a venerare.

ReCorvo offre uno dei suo pugnali. Ora viene il difficile. Il Templare certamente non si inginocchierà a un nuovo culto. Morte non può attrarre attenzioni indesiderate, pronunciando un giuramento a un’entità imprecisata, i cui rapporti nella realtà non-ordinaria non comprendiamo… e il Maestro d’Ossa… beh, lui è imprevedibile. Elyn, titubante, mi fa cenno di avanzare, di giurare con lei. Non sono convinto. Il furore che percepisco in questo androne mi terrorizza. I versi di Kiquathu, o della bestia nella quale si è mutato, aumentano di ritmo e intensità parodiando un conto alla rovescia che promette una rapida morte. Devo decidere. Il tempo concesso sta terminando, lo sento. «Poniamo fine a questa pantomima!» interviene risoluto il Duca Savio Palwen, la spada candida stretta in pugno. «Non intendo giurare, sono un Tem…» tenta di dire il pazzo, ignaro che una tale ammissione lo porterebbe dritto dritto all’albero forca e dimora del Divinatore. «È un Rabdomastro e come tale sono gli elementi i suoi unici referenti.» intervengo, spinto da un’intuizione che spero si dimostri corretta. Il Divinatore cessa la nenia belluina e si rizza in piedi. «Governi quindi l’Acqua? Sei tu, quindi, ad aver creato quell’essere capace di far strage fra i miei fratelli mandati a salvarvi?» Lo sguardo che piantiamo sul Duca lo convince a rispondere nel modo che ci attendiamo, l’unico che possa garantirci la sopravvivenza. «Esattamente. Sono un invocatore…» «Gli elementi non sono nemici di Sciacal, sottomettiti a Lui e le tue arti ne trarranno giovamento!» Il Templare tace, la rabbia che gli arrossa il volto e gli ingrossa le vene sulle

tempie. Non lo farà mai e ci farà uccidere tutti. È Shoggul, invece, a farsi avanti. Alto e terribilmente magro, le ossa dipinte sul corpo che luccicano a ogni bagliore emesso dalle teste mozzate, si erge innanzi a noi. Solleva il sacco del Santo e pronuncia parole che non riesco a comprendere. Agita l’artefatto, e improvvisa una danza sconclusionata. Bracciali, collane e tutti i ninnoli stravaganti che indossa, sbatacchiano in un concerto di chincaglierie. Kiquathu lo osserva attentamente, e con sollievo vedo gli occhi di brace del suo copricapo sopirsi e tornare opachi. I bagliori nella cava cessano, lasciando che sia la luce dei funghi di caverna a illuminare blandamente la zona. In quel tenue chiarore riconosco il sorriso del Divinatore. «Sciacal si ritiene soddisfatto, ora siamo fratelli di sangue.» Anche il Maestro d’Ossa è appagato e si esibisce in un ghigno sdentato.

XII. Cuore dei Quarti – Conclave

«Saggio Malet, non vi pare di esagerare?» La voce del giovane Aeromante denotava tutta la sua spocchia. «Arrivare a sostenere che ci fosse una mente superiore a orchestrare l'assalto, una mente capace di guidare i Domatori amplificandone i poteri, senza uno straccio di prova, mi pare assurdo. Tutti sappiamo come nella realtà nonordinaria la percezione possa giocare brutti scherzi. A tutti può capitare…» Malet non poteva credere alle proprie orecchie: brutti scherzi! Quel giovincello lo aveva preso per uno sprovveduto, non per un maestro che da oltre dieci lustri solcava i regni dell'Acqua. Tentò di non abboccare all'ennesima provocazione e cercò con lo sguardo Hokmah, sperando in un aiuto. L'anziano però teneva la testa china sul tavolo, mostrando tutto il peso degli anni che gravavano sulla sua persona. Gli occhi parevano sul punto di chiudersi, eppure poco prima Malet era certo di avervi letto interesse per la teoria che aveva esposto. Attenzione dettata dalla paura, quasi il Geomastro avesse a sua volta lambito quella possibile realtà, o forse possedesse addirittura delle informazioni a riguardo. Erano chiusi in quella stanza claustrofobica da ore, ma il conclave non aveva fatto neppure un o avanti. «Lo sappiamo tutti che i Domatori di Demoni sono creature indipendenti.» stava continuando inarrestabile Keter. «La loro stessa formazione è un percorso di assoluta solitudine e ascesi. Niente maestri, niente scuole, niente testi. Esplorare i sordidi meandri delle menti umani, compiere esperimenti aberranti, torturare e seviziare. Queste sono le loro attività abituali, i mezzi che utilizzano per ampliare i loro poteri. Il fatto che vengano definiti una Setta è solo un modo comodo per renderli uguali innanzi alla Legge e poterli perseguire. Singoli personaggi, per lo più resi folli dalle loro ricerche scriteriate, possono certo trovare dei loro simili con i quali condividere uno scopo comune, ma arrivare a sostenere che ci sia qualche entità a governarli tutti, un'organizzazione forse, mi

pare del tutto fuori luogo.» II monologo del giovane era condiviso anche dalla Piromante. Binah non aveva neppure accennato a ringraziare il Rabdomante per averle preservato la mente. Forse, ipotizzò Malet, non se ne era neppure resa conto, povera sciocca, presa com'era a maledire la Forgia di Fiamma che l'aveva abbandonata durante lo scontro. Gli evocatori erano incredibili. Nonostante richiamassero coercitivamente gli elementi, strappandoli di forza alla realtà non-ordinaria, erano sempre pronti a denigrarli quando questi alla prima occasione li piantavano in asso. Come potevano pensare che quegli esseri di nobile lignaggio potessero sottostare al volere di un misero umano? Coloro che utilizzavano l'evocazione invece che l'invocazione, non avevano mai capito che alla base del rapporto che si instaurava fra un mastro e una creatura c'era anzitutto il rispetto reciproco. Loro pretendevano la sudditanza. Assurdo! «Vi abbiamo convinto, Malet?» Fu Binah a riportarlo alla realtà. Sorrideva sfrontata, come avesse a che fare con un povero mentecatto. L'increspatura delle labbra le distorceva l'occhio del Dio del Fuoco che portava marchiato sulla guancia, rendendolo ancor più obbrobbrioso. Asul pretendeva un pegno importante dai propri adepti, pensò Malet, o forse anche quella era solo una semplice forzatura dei Thuai e dei Piromanti per darsi un tono, per rendersi temuti e importanti. Marchiare dei bimbi appena nati solo per renderli risconoscibili inanzi agli occhi dei mortali, non certo come pretendevano loro innanzi ad Asul. Deturparli per tutta la vita pur di distinguere i propri “simili” e discriminare gli stranieri. Quale follia! «Il problema è che voi siete troppo giovani. Mancate di esperienza, mentre

abbondate di arroganza.» Quell'accusa diretta parve ridestare persino il Geomastro. Il sorriso di Binah scompare all'istante e Keter si mosse stizzito sul proprio scranno. Malet aveva perso la pazienza. «La nostra Guardia presuppone prudenza anzitutto. Il destino di Alenna dipende dalle nostre scelte e voi vorreste liquidare gli eventi come nulla fosse? Una crepa intacca la prigione di cristallo!» I due si costrinsero di malavoglia ad ascoltare l'ennesimo sermone del vecchio. «Temete più le conseguenze che una vostra scelta possa avere sulla vostra carriera, piuttosto che preoccuparvi di cosa accadrebbe se il Mago folle venisse liberato. Questa è la verita!» I due tentarono di ribattere ma il Rabdomastro non concesse loro il tempo. «I Sovrani dei Quarti devono prepararsi al peggio. Tutti devono prepararsi! I nostri predecessori si sono mostrati lungimiranti mettendo al bando ogni forma di culto deviata rispetto a quelle degli elementi. Avevano visto il pericolo e non sono rimasti inermi come vorreste fare voi. E la prigione di cristallo era ancora intonsa durante la loro Guardia! Chissà cosa avreb…» Keter si alzò in piedi, sbattendo i pugni sul tavolo. «Sì può sapere dove volete arrivare con le vostre invettive e lagnanze?» Malet rimase in silenzio alcuni istanti, attendendo che il giovane riprendesse il proprio posto. «Voglio che questo conclave pretenda la Pax Custodis!» Binah rise apertamente, mentre Keter rimase immobile a bocca aperta, incredulo per quella richiesta spropositata. L'unico a mantenere la propria pacata austerità fu Hokmah.

Nessuno pareva disposto a riprendere a parlare, le posizioni oramai assolutamente inconciliabili. Fu l'anziano Geomastro ad esprimersi per la prima volta in quella serata e lo fece con voce calma, misurata. «Saggio Malet, la Pax Custodis è un provvedimento estremo. Non vi è mai ricorso alcun conclave in precedenza. Interferire in modo così invasivo nella vita dei Quarti è sì una possibilità concessa ai Guardiani di Askeen, ma la motivazione deve essere conclamata, indiscutibile, per non rischiare di mettere a repentaglio l'istituzione stessa che rappresentiamo e con essa l'esistenza stessa di Alenna. I Reggenti dei Quarti non devono aver alcuna scusa per poterla infrangere…» I due maestri evocatori parvero rillassarsi nell'udire quelle parole: se anche il vecchio bacchettone del Quarto della Terra era contrario, allora quella farsa poteva dirsi finalmente conclusa. «Tuttavia la mia non vuole essere una bocciatura, anzi. Ciò che auspico è però che prima di parlare di un provvedimento di tale portata, noi Guardiani si percorra un sentiero comune che ci porti a condividere le informazioni che ognuno possiede. Non fingete di non capire. Tutti i Quarti, chi più chi meno, hanno o hanno avuto a che fare tanto con i Domatori di Demoni che con i rigurgiti libertari propugnati dai fedeli di Lena. Ogni Quarto sta reagendo, o ha reagito, a suo modo ed è suo diritto farlo. Noi però, cosa che forse non vi è ancora ben chiara, dobbiamo pensare anzitutto al bene di Alenna tutta e non alla nostra patria. Finchè non avremo tutti chiaro questo semplice principio, non potremo parlare di Pax Custodis e dovremo sperare che quella crepa non sia altro che una fatalità… sempre che qualcuno sia così stolto da potersi convincere di una cosa del genere.» Malet fu l'unico a fare un cenno d'assenso con la testa, evidentemente soddisfatto. «Penso che sarebbe bene trovarci nuovamente fra qualche giorno» concluse Hokmah «quando tutti avremo avuto modo di riflettere.» La seduta poteva considerarsi conclusa, ma in modo insoddisfacente, un po' per tutti.

Binah fu la prima ad alzarsi e ad imboccare la porta. Fuori attendevano i capitani delle quattro delegazioni, i volti tesi, consci che il conclave aveva un'enorme responsabilità sulle proprie spalle. «Che diamine avete da guardare?» tuonò la giovane vedendo quei soldati pendere dalle sue labbra. «Non c'è nulla da sapere. Non abbiamo deciso assolutamente niente!» disse, imboccando il corridoio che l'averebbe condotta nei quartieri della propria gente. Alla spicciolata uscirono anche gli altri Guardiani. Keter se ne andò subito, seguito da Letio, il capo della tribù dell'Aria votata alla sua difesa. Hokmah invece si fermò un istante al fianco di Malet. Pareva sul punto di dire qualcosa, una rivelazione importante a giudicare dall'espressione corrucciata che aveva sul volto, ma poi si trattenne. Il Rabdomastro voleva incitarlo a rompere il ghiaccio. Comprendeva perfettamente la ritrosia che colpiva le genti dei diversi Quarti quando si trovavano al cospetto di "stranieri", ma era certo che il discorso dell'anziano fosse sincero, così fece lui il primo o. «La nostra comune Guardia è cominciata da poco e ci troviamo già innanzi alla più grande minaccia che si ricordi a memoria d'uomo. Il nostro nemico pare aver scelto proprio il momento più propizio per colpirci, quando ancora i pregiudizi rendono la nostra veglia più fragile. Dovremo fare tesoro dell'esperienza dataci dall'età, Saggio Hokmah, e dovremo cercare di mettere un po' di sale in zucca a quei giovani. Avete ragione, finchè non comprenderemo che lo scopo di Askeen è farci surclassare i nostri interessi di parte, non staremo facendo un buon lavoro nè per Alenna, nè per i nostri Quarti.» L'anziano gli porse la mano. Un gesto semplice, genuino, al quale Malet rispose senza indugio. I capitani dei rispettivi contingenti fecero a loro volta un cenno col capo, un saluto militare austero ma carico di significato.

«Confido, Malet, che al prossimo incontro i due evocatori saranno più disponibili. Askeen ha il potere di cambiare le persone, anche molto rapidamente… almeno questo è quanto mi riferiscono i miei predecessori…»

XIII. Quarto dell’Acqua – Isola Scudo di Dibrjs

Il Maggiore Firion fece fermare il contingente a poche miglia dal punto di sbarco sull'Isola Scudo di Dibrjs. Erano sulla sommità di una collina che sovrastava l'intera zona circostante. La strada sulla quale stavano procedendo era lasciata all’incuria, per larghi tratti invasa da sterpi e cespugli. Uno squadrone di cinquecento uomini. Cavalleria leggera, priva di insegne, pronta a tramutarsi in irregolari, non appena avessero raggiunto il Quarto dell’Aria. All'orizzonte, in una conca solcata dal fiume Stelpa, sorgeva l'imponente abitato di Dibj, la capitale dell'Isola. La giornata era limpida e la posizione concedeva un’ottima visuale sull'intera Isola. Dolci colline si alternavano a pianure un tempo rigogliose e tappezzate di ordinati quadrati messi a coltura. Ora invece i campi erano abbandonati a se stessi, lasciati in balia della natura selvaggia che li aveva riconquistati con sterpaglie e piante selvatiche, inutili ai fini della sopravvivenza dell’uomo. Firion, pur non essendosi più mosso da diversi anni dal presidio a Forte Titano, conosceva le vicende dell'Isola Scudo. La vicinanza al Quarto dell'Aria l'aveva resa teatro di mille battaglie, razzie e scontri sanguinari. Non erano pochi i profughi che si erano presentati alle porte dell'Isola Baronia del Duca Savio e che lui aveva dovuto rimandare indietro chiudendo l’accesso del Titano. Savio Palwen non era un tiranno spietato, ma sapeva riconoscere i limiti oltre i quali non avrebbe potuto garantire una vita decente ai propri sudditi.

Così si alternavano periodi di libero accesso ai transfughi, ad altri nei quali i soldati erano costretti a rispedirli nel loro inferno. Per Firion era l’occupazione principale, essendo Forte Titano l’unico accesso all’Isola Feudo. Anche il Siniscalco di Dibj, l'anziano Antaleo, aveva chiesto esplicitamente al Duca di non accogliere i suoi cittadini in fuga, temendo di rimanere privato anche delle poche risorse rimaste all'Isola. Ad ogni modo il Siniscalco era in ottimi rapporti con Re Saleon e questo gli aveva concesso di mantenere il controllo dell’Isola, nonostante tutto. Il Re inviava sovente contingenti armati per preservare i confini del possedimento e questo, con i tempi che correvano, non era affatto scontato. Altre Isole Scudo erano state perse, nonostante le pressanti richieste dei Siniscalchi locali per ottenere rinforzi dalla corona. Alcune per mano delle Tribù dell’Aria, altre si erano dichiarate indipendenti in nome del nuovo culto della Dea della Pace e di un tozzo di pane. «Il fumo proviene dalla costa.» Un ufficiale, al fianco di Firion, stava scrutando col cannocchiale oltre la città, in direzione del litorale rivolto alle terre del Quarto dell'Aria. Dibrjs era un’Isola contesa, teatro di infinite scaramucce fra i due eserciti contrapposti. I selvaggi delle terre dell'Aria non erano mai giunti alla capitale, seppur in più di un occasione fossero riusciti a sbarcare sull'Isola. Le colonne di fumo che salivano lentamente, insozzando il colore cristallino del cielo, non lasciavano presagire nulla di buono. «Cosa riuscite a vedere, tenente?» «Avevate ragione Maggiore, si sta combattendo. Probabilmente alcuni tratti dei nostri trinceramenti sono in fiamme. Di più non posso azzardare.» Firion aveva rudimenti di rabdomanzia e avrebbe potuto chiamare un'Ondina per

interrogarla su quanto stava accadendo. Conoscendo però i modi impertinenti di quegli esserini, decise che tanto valeva raggiungere la capitale e informarsi direttamente dal Colonnello Ramelon. Doveva comunicargli ugualmente parte del suo piano, tanto valeva mettersi subito in marcia. Avrebbe anche potuto chiedere a Polina, la Rabdomante che si era portato appresso per quella missione, ma i modi sgarbati con cui questa trattava gli elementi non gli andavano a genio. Certo era maledettamente in gamba nel proprio lavoro e per questo l’aveva scelta, ma se non era indispensabile Firion preferiva evitare di ricorrere alle sue arti. A malincuore il Maggiore ricordò come all'inizio della guerra ogni plotone disponesse di un iniziato alla cultura elementale, mentre ora i Rabdomanti erano merce rara e i Rabdomastri erano quasi del tutto scomparsi. La guerra non faceva distingui nel portar sciagure fra popolino e altolocati. Almeno non quella, capace di protrarsi per cent'anni e di pretendere ed esaurire ogni tipo di risorsa. «Avanti uomini, verso Dibj.» ordinò spronando il purosangue e lasciandosi alle spalle quelle tristi considerazioni.

Non fecero a tempo ad arrivare a Dibj, che un messo li raggiunse con un dispaccio del Siniscalco Antaleo. «È urgente, Signore.» disse l'araldo, che non doveva avere più di dieci anni. Il Maggiore prese la missiva e fece cenno agli uomini di smontare e di sgranchirsi le gambe. Polina lo raggiunse immediatamente. «Che succede, Maggiore?» volle sapere. La Rabdomante non accettava che Firion fosse un suo superiore e come la maggior parte degli esponenti del culto degli elementi, pur integrata nell'esercito,

non aveva un grado vero e proprio e si sentiva libera di prendersi licenze che ad altri sarebbero costate la corte marziale. Firion non condivideva quella politica, a suo parere destabilizzante, ma la tradizione era orami consolidata e Re Saleon, come i predecessori, non se l’era sentita di modificarla temendo rappresaglie da parte dei maestri. «Quando avrò letto la lettera sarai la prima a saperlo.» rispose Firion, lasciando indecisa l’interlocutrice se il tono fosse o meno di scherno. Gli piaceva provocare quella donna dal temperamento focoso. Con lentezza ruppe il sigillo del Siniscalco e si mise a leggere.

Maggiore Firion, i vostri esploratori mi hanno comunicato le vostre intenzioni.

Gli Elementi ci sono favorevoli. Il Colonnello Ramelon si accinge ad assediare la fortificazione eretta dai clan dell'Aria. Gli invasori si sono asserragliati sul Dosso della Megera e da li continuano a ricevere rinforzi. L'attacco in forze è previsto per la giornata di domani. Dobbiamo spazzarli via prima che possano consolidare la loro posizione. Vi prego di unirvi immediatamente alle forze del Colonnello.

I miei omaggi

Antaleo, Siniscalco di Dibj

Firion immaginò che il Siniscalco avrebbe aggiunto volentieri la raccomandazione di non are per Dibj, in quanto non avrebbero avuto il cibo per sfamare l'intero contingente.

«Quindi?» lo incalzò Polina che nonostante gli sforzi non era riuscita a carpire nulla dello scritto nelle mani dell’ufficiale. L’impazienza della donna ne accentuava la luminosità degli occhi verdi, pensò Firion. L’uomo rimase qualche istante ad osservarla, constatandone l’indiscutibile fascino. «Si tratta di un poema, Maggiore? Crede di riuscire a ultimarne la lettura entro la giornata?» Firion le sorrise, facendola imbestialire ancor più. Il Generale Enoc li aveva istruiti sulle manovre in atto nell'Isola, ma le tempistiche erano loro ignote. Polina aveva sicuramente intuito l’urgenza della situazione e l’importanza di quella missiva. Avrebbero dovuto accelerare i tempi per sfruttare a loro favore l’imminente scontro. «L'attacco è previsto per domani. Dobbiamo muoverci subito.» concluse l’ufficiale in comando. «Non capisco perché mettere a repentaglio la nostra missione ancor prima di giungere nel Quarto dell'Aria.» si impuntò la Rabdomante. «Anzitutto perché questi sono gli ordini del Generale Enoc. Poi perché potremo contribuire a respingere quei selvaggi nelle loro terre e infine perché, quando si daranno alla fuga, il nostro inseguimento sembrerà del tutto naturale. Una volta giunti sul loro versante invece ci staccheremo dal grosso delle forze del Colonnello Ramelon, ci spoglieremo delle nostre insegne e sfruttando il caos, ci sparpaglieremo per quelle terre.» La voce gentile di Firion parve indispettire ancor più la donna. «Mi sembra ugualmente un rischio eccessivo…» brontolò questa dopo una breve pausa. «Credi forse che saremmo riusciti a far are inosservato un intero squadrone

in altro modo? Ricordati, le ultime notizie in nostro possesso dicono che Qilana si aggiri lungo le coste orientali del Quarto dell’Aria e noi dobbiamo trovarla. Saremo costretti a muoverci in territorio nemico… meglio che ti abitui da subito a convivere con il pericolo.» Polina rimase in silenzio, ma non parve affatto convinta. Fece una smorfia sbuffando e scuotendo la massa di capelli ramati, una rarità per le donne del Quarto dell’Acqua. «Sempre che poi esista questa Qilana…» «Osi mettere in dubbio le parole del Generale?» scherzò il Maggiore, ma la donna non colse. Tanta testardaggine non poteva albergare che in una Rabdomante così capace, pensò Firion voltandosi verso i suoi ad impartire gli ordini.

Il Maggiore Firion giunse alle pendici del Dosso della Megera alle prime luci dell'alba. Le truppe del Colonnello Ramelon erano già schierate e pronte a dare l'assalto alla collina. Firion aveva lasciato gran parte dei cavalieri nascosti a qualche miglio di distanza, a sud del campo, e si era incamminato con solo un plotone di guardie. Giunto alla tenda di comando si fece annunciare dal picchetto al Colonnello. Senza indugio lo fecero entrare. All'interno della tenda erano presenti altri due ufficiali, tutti seduti attorno a un tavolo da campo ingombro di mappe ingiallite. Un profumo d’incenso ingentiliva l’aria. I tre erano impeccabili nelle loro uniformi, i lustrini e le onorificenze lucidati di fresco. Nulla lasciava presagire che avessero ato in rassegna le truppe, neppure in un momento così delicato.

Ramelon, lunghi capelli nocciola oliati e raccolti ordinatamente in una coda, gli fece cenno di accomodarsi. Il gesto della mano guantata fu di sufficienza, come stesse accordando a Firion un immenso onore nell’accoglierlo al loro desco, mentre con lo sguardo scandagliava la figura del Maggiore impolverato da testa a piedi per la lunga cavalcata. Era un nobile prestato all'esercito e questo a Firion risultava indigesto. «Giusto in tempo per lo spettacolo Maggiore, temevamo non sareste più arrivato.» «Abbiamo cavalcato tutta la notte.» puntualizzò Firion. «Qual è la situazione?» Il colonnello fece un cenno a uno dei due collaboratori. «Stanno usando una sorta di ponte aereo. I Rabdomastri ci hanno detto che una catena di Zefiri parte da Capo Tormenta per giungere alle pendici del Dosso della Megera. Modificano di continuo il punto di partenza cosicché i nostri elementali dell’Acqua non riescono ad annientarli alla partenza, Quei diavoli hanno rinforzato nottetempo la testa di ponte e ieri si sono concessi anche un paio di incursioni nei nostri accampamenti trincerati.» «Era quello il fumo che abbiamo visto innalzarsi da questa zona allora…» riflettè ad alta voce il Maggiore. «Sicuramente» proseguì l'ufficiale con noncuranza «gli uomini mormorano che le nostre guardie siano state concupite da una Sodale del Vento. Quelle baldracche sono capaci di far perdere il senno anche al più disciplinato dei soldati.» «Dispongono quindi di così tante risorse? Zefiri, Sodali e cos'altro?» volle sapere il Firion. «Il ponte non è operativo per l’intero arco della giornata, naturalmente. Anche quei cani di Aeromanti hanno bisogno di riposo. Ad ogni modo, o ne hanno un gran numero, o ne hanno qualcuno di veramente potente.» disse il Colonnello, quasi si sentisse costretto a giustificarsi.

Firion riflettè un istante, osservando la cartina topografica che ritraeva sin nei minimi dettagli tutta la zona. «Come intendete affrontarli?» chiese infine, preoccupato. Il Colonnello lo osservò perplesso. «Attaccheremo frontalmente. Attenderemo che i loro maestri elementali siano impegnati nell'edificazione del ponte aereo, e allora sferreremo l’attacco. Siamo in netta superiorità numerica.» affermò sicuro. Certo, questo era vero, ma quante vite sarebbero andate sprecate nell'assalto a quella postazione così ben difesa? Quante volte per colpa di comandanti inetti, o ancor peggio superbi, il numero delle vittime potenziali non era mai preso in considerazione? Il dosso non era certo un monte impervio, ma gli uomini si sarebbero trovati ad arrancare per la salita e si sarebbero sfiancati ancor prima di giungere a contato con il nemico. Inoltre i maestri elementali nemici, ancora nel pieno delle forze, avrebbero potuto sviare gli Zefiri dalle loro mansioni di ponti viventi, e dirigerglieli contro. «Signore, avrei una proposta.» azzardò Firion, conscio che il superiore avrebbe faticato ad accettare un suo consiglio. Ramelon e i due ufficiali fissarono i loro sguardi sul giovane Maggiore, infastiditi dall’intraprendenza del nuovo venuto. «Dica pure.» «Dispongo di una Rabdomante. Potrebbe evocare un Burrascoso capace di trasportare me, e il mio squadrone, alle spalle del nemico, ai piedi del Dosso. I miei uomini sono nascosti in una macchia boschiva a sud, lungo la costa. Nessuno sa della loro presenza. Per far questo però non possiamo agire mentre i guerrieri dell'Aria stanno utilizzando il ponte aereo. Ci scoprirebbero subito. Dovremo aspettare che abbiano finito il prossimo sbarco. Poi agiremo in fretta, non appena il vostro attacco avrà inizio. Quando il nemico si renderà conto di essere accerchiato, sarà costretto a cercare la fuga e i loro Aeromanti dovranno dannarsi l'anima per ripristinare il ponte. Potremmo farne strage.» Non si soffermò oltre a illustrare il risparmio in vite umane dei loro soldati che questa nuova versione del piano avrebbe concesso.

I tre rimasero in silenzio per alcuni secondi, poi Ramelon prese la parola. «Se vi sentite pronto a correre questo rischio, e a farlo correre ai vostri uomini, non vedo controindicazioni ad apportare questa piccola modifica.» confermò il Colonnello, sovvertendo i fatti con le parole. «Naturalmente.» gli concesse il Maggiore.

Un boato annunciò lo scatenarsi della battaglia. Un dardo duwan era volato da una ballista contro una sezione delle fortificazioni innalzate dai selvaggi del Quarto dell’Aria, mandandola in frantumi e sollevando un polverone capace di oscurare l’avanzata delle truppe del Colonnello Ramelon. Colonnello che sicuramente non era fra i primi ranghi a condurre l’assalto, pensò con disprezzo Firion. Dal punto in cui aveva celato il proprio contingente, una pineta di abeti dagli aghi argentati a ridosso della riva, il Maggiore attendeva che il Burrascoso evocato da Polina mostrasse loro la via. La Rabdomante aveva professato un rito complesso, e ora lo affiancava, pallida in volto e con goccioline di sudore che ne tempestavano la fronte. Lo sforzo cui si stava sottoponendo era estenuante. Il Burrascoso era un elementale di alto lignaggio, difficile da asservire. La donna gli fece un cenno in direzione del mare. Con lo sguardo, Firion notò fra le onde che si infrangevano sulla roccia, una chiazza più scura. Era appena percettibile fra la spuma sollevata dai marosi. «È giunto il momento, date il segnale, Tilmon.» Il tenente impartì gli ordini e la colonna di cavalleria partì a spron battuto verso l’ombra che serpeggiava appena sotto il pelo dell’acqua. Un sentiero che nessuno oltre loro avrebbe potuto vedere.

I cavalli, debitamente bendati per vincere la naturale ritrosia a cavalcare sull’acqua, arono dal trotto al galoppo, lasciandosi guidare in una carica selvaggia. I rumori della battaglia che si stava svolgendo poco distante si andavano intensificando. Urla di uomini al massacro si alternavano agli ordini gridati dagli ufficiali. Dovevano fare in fretta: il numero delle vittime sarebbe dipeso anche dalla velocità della loro manovra. Firion cominciò a sentire il formicolio alla nuca che percepiva ogni qualvolta gli elementi venivano turbati in modo consistente. Mentre spronava lo stallone diede uno sguardo verso il Dosso della Megera. Il sole disegnava bagliori sulle onde circostanti e scagliava strali che si riverberavano sulle armature dei guerrieri. Quando mise a fuoco riuscì a percorrere il campo fino a giungere alle barricate erette dai guerrieri dell’Aria, dove vide sorgere un enorme Genio. Era quello ad aver colpito la sua percezione. Le frecce e i quadrelli che venivano scagliati in quella direzione dalle fanterie leggere del Colonnello, finivano inglobati in quel vortice, perdendo ogni utilità. I maestri dell’Aria dovevano avere ancora potere sufficiente. Il Maggiore sperava solo che gliene rimanesse per evocare il ponte aereo per gestire la ritirata, così da consentirgli di inseguirli e ottenere il vero obbiettivo. «Più in fretta e ricordatevi di garantire una via di fuga a quei maledetti!» urlò ai suoi, ribadendo ordini già concordati.

Con un gesto di stizza il Colonnello Ramelon gettò a terra il calice di sidro. Lui e gli altri ufficiali maggiori si stavano godendo la battaglia come si trattasse di una rappresentazione a teatro.

La comparsa del Genio aveva però rovinato il loro divertimento, facendoli andare in bestia. La creatura dell’aria, i cui contorni sfumati non erano in grado di celarne le fattezze goffe, si era piazzata nella breccia aperta dagli uomini del Colonnello. Questo non riusciva a pensare ad altro che al prezioso dardo duwan, andato sprecato: il colosso, composto da dozzine di tornado, sbarrava loro la strada al posto della palizzata. I militi dell’Acqua avevano prontamente cambiato direzione, intimoriti dalla creatura e rallentati dalle sferzate di vento da essa generate. Ogni arma da tiro era inservibile per un ampio raggio. Le avanguardie brancolavano nella terra di nessuno, in attesa di nuovi ordini, mentre dall’alto delle barriere i nemici li schernivano con urla gutturali. Ramelon valutò se fosse il caso di far subentrare immediatamente le riserve, ma decise che era meglio attendere la reazione del nemico, quando Firion e i suoi lo avessero raggiunto alle spalle. Con un cenno ordinò agli sbandieratori di far avanzare i fanti pesanti, per dare il tempo ai Rabdomanti di organizzare una contromossa. Sapeva che i maestri del nemico si sarebbero intromessi, ma non pensava avessero ancora le forze per evocare addirittura un Genio. Non ci voleva. Il Colonnello vide i comandanti di compagnia recepire l’ordine e muovere i propri uomini equipaggiati con scale, rampini e alcuni arieti. In breve, questi superarono le truppe leggere che stavano ripiegando, in attesa di nuovi ordini. Dalle palizzate giungevano sporadiche, ma letali, salve di frecce. I guerrieri dell’Aria erano in grado di leggere il moto dei flutti aerei e di sfruttarli a loro vantaggio, interpretando la respirazione e la gestualità del Genio.

Nonostante le perdite, una compagnia dotata di ariete si era portata a ridosso della palizzata. Le prime scale erano state ancorate alle mura difensive e i primi coraggiosi si stavano inerpicando. Dall’alto i difensori scagliavano ogni sorta di proiettile, ma l’azione di disturbo favoriva i soldati dell’Acqua muniti di ariete che nel frattempo si erano già messi all’opera. Improvvisamente una coppia di Aironi d’Acqua sorvolò il campo di battaglia, volando in direzione del Genio. I soldati osservarono l’incedere elegante di quelle creature, capaci con la sola presenza di rinvigorire gli spiriti e donare loro nuovo ardore guerriero. «Era ora!» sbottò Ramelon, osservando le nobili creature volteggiare in circolo sopra la testa del Genio, infastidendolo con assalti in picchiata e versi striduli. Nuove compagnie si erano portate a ridosso della palizzata e diversi focolai di battaglia si erano accesi lungo la cinta difensiva. Ora il clangore delle lame era capace di superare il rumore dei turbini delle masse d’aria sconvolte dalla presenza dell’Elementale. Nonostante l’azione degli Aironi d’Acqua, questo era in grado di scagliare micidiali raffiche di vento, capaci di tagliare le armature pesanti dei nemici con risibile facilità. Il combattimento si stava trasformando rapidamente in un massacro, i monconi degli arti dei soldati dell’Acqua che gia tappezzavano parte della radura arrossandone il suolo. Alcune sezioni di fortificazione erano state divelte dal regolare moto degli arieti, liberando zone dove si catapultavano le unità leggere, prima richiamate e ora pronte a tornare ad aggredire il nemico. I soldati dell’Aria si affrettavano a porsi a difesa delle brecce e combattevano strenuamente, riuscendo sino a quel momento a respingere ogni assalto.

Ramelon stava osservando proprio uno di questi combattimenti, quando fu chiamato da un ufficiale che lo affiancava. «Generale, il Genio è svanito!» Ramelon sorrise, il nemico doveva essersi accorto dell’arrivo di Firion. Le sorti della battaglia stavano mutando direzione. «Altro sidro!» tuonò Ramelon gioviale.

XIV. Nuovo Quarto – Nuovi ordini

Da quando siamo diventati i fratelli di sangue della tribù dello Sciacallo, tutto è cambiato. Gli ometti ci trattano con rispetto, pur faticando a trattenersi al cospetto delle nostre donne. Eppure la totale devozione verso la loro nuova Divinità sembra riuscire nell’impresa di ammansirli nei nostri confronti. Con Shoggul e Elyn abbiamo indagato su cosa stia succedendo in questa terra. Prima di muovere un solo o, Rovers vuole comprendere tutti gli aspetti in gioco, gli schieramenti in campo e le intenzioni e gli obbiettivi delle diverse fazioni. Invero vorrebbe conoscere anche le ambizioni delle divinità che pare si aggirino in questo territorio vastissimo e selvaggio. «Non capisco, comandante, cosa ci trattenga fra queste creature abbiette.» La voce del Templare è irritata. La sua fede è costantemente oltraggiata e lui è divenuto intrattabile. Rovers lo guarda, intento a divorare un cosciotto di qualche animale non ben specificato. È meglio non indagare sul cibo che ci offrono gli indigeni. Tutto sommato poteva anche andarci peggio. «Credete che sia disposto a condividere il desco con esseri pronti a divorare i miei confratelli?» rincara la dose il Duca. «Mi pare che ci lascino la nostra intimità…» sorride sfrontato Deifobo indicando l’immensa tenda che ci hanno messo a disposizione. Non corre buon sangue fra l’esperto delle polveri e il Candido Templare.

In realtà non me ne stupisco… il Duca, sempre così serio e integerrimo, impeccabile nella sua armatura bianca, sembra abbia ingoiato una scopa da quanto è inflessibile. Il Biondo è di tutt’altra pasta e non fa nulla per mascherare il disprezzo che prova per il diverso, ancor più visto che Savio è un credente degli Antichi, sempre pronto a far proseliti a nome della sua amata Dea Lena e di una Pace che mi pare quanto mai utopistica. Problemi loro comunque. So che in caso di battaglia Deifobo farà la sua parte, anche se si dovesse trovare a proteggere la vita di Palwen. Nonostante l’aria di superiorità e i modi irriverenti, quando serve sa essere un professionista e in questo caso ha ragione. La dimora che ci hanno messo a disposizione gli ometti è perfetta. Una tenda molto ampia, dentro la quale sono state allestite due sezioni, una per le donne e una per il resto della Centuria. Su mia richiesta, ci hanno concesso uno spazio del campo abbastanza lontano dai luoghi di tortura, cosicché le grida dei prigionieri giungono attutite, e il puzzo dei cadaveri è sopportabile. Il comandante ingolla il liquore che utilizzano gli ometti nelle grandi occasioni, poi, saziatosi, si degna di guardare negli occhi il Duca. «La vostra missione prevedeva di indagare sull'operato dei vertici della Chiesa di Lena, giusto?» Il Duca Savio Palwen lo scruta perplesso in cerca di un tranello. Infine annuisce. «Stiamo già operando per vostro conto. Crede che i miei uomini siano stati con le mani in mano fino ad ora? Le informazioni raccolte da Yorik, Elyn e Shoggul sono di vitale importanza.» «Voglio vedere la Sorella di Lena, tutto qui. Meglio ancora il Patriarca, se possibile. Non mi abbasserò mai a credere alle menzogne di quel Kiquathu!» «Sbagliate, Duca.» si intromette il Maestro d'Ossa. «Il Divinatore ha una sola parola. È saggio e conduce la propria gente verso una giusta rivolta.»

Il Templare lo fulmina. «Giusta rivolta? Sbranando coloni che nulla di male hanno fatto se non coltivare terreni incolti o prelevare minerali da cave dalla ricchezza inesauribile? Portare la parola di Lena, e con essa la civiltà, vi pare opera sbagliata?» «Vi ostinate a non capire.» interviene pacato Rovers. «Qui sta accadendo qualcosa di strano, Duca. Voi stesso vi siete imbarcato in questa missione mosso dal dubbio. I dettami della Dea della Pace prevedono forse di ridurre interi popoli in schiavitù?» Il Templare rimane in silenzio, indice che qualcosa non torna neppure a lui. «Voglio andare all'insediamento. Esigo di incontrare personalmente Agape, la Sorella di Lena che comanda il Nuovo Quarto.» Lo sguardo con cui il comandante lo inchioda è glaciale. I suoi occhi cerulei sono capaci di atterrire ogni rivale. Devo dare atto a Savio di avere un bel coraggio ad affrontarlo faccia a faccia, senza distogliere il contatto neppure un istante. Coraggio o semplice fanatismo religioso che rasenta la follia, non saprei dirlo. «La Centuria è pagata per proteggere la vostra vita, Duca. Non andrete da nessuna parte per il momento. Ho uomini più adatti. Si introdurranno nel villaggio e raccoglieranno tutte le informazioni che ci servono. Intanto noi andremo a vedere cosa accade da queste parti. Voglio capire cosa combinino i guerrieri di Kiquathu quando lasciano il campo. Voglio vederli in azione, loro e i loro nemici, sia che si tratti delle vesti bianche, che dei selvaggi schiavizzati.» Savio Palwen pare rifletterci su per un istante. Si tormenta il mento glabro, probabilmente rivalutando la decisione di ingaggiarci. Poi sembra trovare pace, il busto che si rilassa sullo schienale della sedia. «Allora io verrò con voi, Rovers. Non potete pensare che rimanga inattivo. Non qui, in questo lebbrosario. Le urla delle sevizie che questi selvaggi impongono ai prigionieri mi fanno impazzire.»

«D'accordo» concede Rovers «verrete con me, mentre Yorik, Zitara e Morte andranno a Nuova Cadolia in esplorazione. Tu Shoggul… fai come ti pare, ma cerca di capire che diavolo sta combinano questa Dea Madre che sembra aver abbandonato i rivali dei nostri nuovi amici in balia della Chiesa di Lena. Odio quando i miei piani vengono scombussolati dall'intervento di qualche divinità scorbutica, e questa Nulla mi sembra avere tutte le carte in regola per farmi infuriare.» Sono giorni che il Maestro d'Ossa vive in un mondo tutto suo. Alterna dibattiti interminabili con il Santo, fatti di invocazioni e insulti, a lunghe eggiate con il Divinatore di Sciacal. Pare che i due abbiano parecchio da confidarsi, eppure a una mia precisa domanda sulle sue scoperte, Shoggul è stato quanto mai sfuggente, limitandosi a dirmi che gli Dei degli ometti sono giovani e ancora selvaggi. Per quello necessitano di continuo nutrimento, di continui sacrifici, devono crescere. Si sono imposti da poco ai loro fedeli, scalzando proprio questa dea Madre, la Regina Nulla, che pare averli abbandonati nel momento stesso in cui sono arrivati i coloni. Che sia una coincidenza appare normale solo a Kiquathu, o forse questo è quello che ci vuole far credere. «Comandante, allora recupero Zitara e Morte e partiamo immediatamente per la costa?» «Certo Yorik. Fatti dare un paio di guide dal Divinatore, non vorrei che Zitara avesse perso le sue doti di esploratrice con la scomparsa di Minatur.» Solito sarcasmo senza pietà.

L'aria nella sezione di tenda dedicata alle donne profuma di incensi. È evidente lo sforzo profuso dalla curatrice di non far entrare l'odore ammorbante che permea tutto il campo.

Pur sostenendo che siano spezie benefiche per i feriti e i malati, sono convinto che siano utili soprattutto per il suo spirito. «Come va la ferita?» chiedo a Elyn, china sul guerriero dell'Isola di Abuc. Il colosso a torso nudo incute timore: spalle, pettorali e braccia sono un agglomerato di muscoli d’acciaio nero. «Sono in perfetta forma.» tuona ReCorvo, ancora sdraiato sul giaciglio di fortuna che gli fa da letto. «Non sarà certo una freccia con la punta di pietra ad abbattermi!» se la ride gioviale. La ferita è migliorata, anche se la carne rossa è ancora ben visibile sul nero della pelle d'ebano del colosso, non appena Elyn scosta la benda. «Fortunatamente l'ho medicato per tempo. Qualche giorno e ReCorvo sarà di nuovo pronto a menar le mani.» «Ne sono lieto.» le rispondo, anche se la gioia maggiore che provo è nel vederle abbozzare un sorriso. È la prima volta da quando siamo giunti nel Nuovo Quarto. «Il comandante mi ha inviato in esplorazione presso l'insediamento maggiore dei fedeli di Lena, sulla costa.» «Verrò anch'io vero?» romba ReCorvo, desideroso di tornare all'azione. Io penso a Elyn, invero, e a chi l'avrebbe sorvegliata in mia assenza. In questi giorni non l'ho mai lasciata sola, non con quegli ometti dalle brame distorte in circolazione. «Tu? Non ci serve certo un pachiderma come te.» sbotta dalla sua cuccetta Zitara. «Siamo io e te, Yorik?» «Anche Morte.» le rispondo, mentre l’assassina si è già alzata e prepara le sue attrezzature.

«Stà tranquillo, ReCorvo, probabilmente Rovers ti porterà con lui. Vuole osservare i nostri nemici. Avrai sicuramente più occasioni di combattere lì, che cercando di spiare ciò che accade nel fortilizio nemico…» ReCorvo scuote il testone, soddisfatto, e mi accenna un sorriso. Zitara ha ragione, il colosso non è adatto allo spionaggio. Quando si muove pare che il terreno tremi sotto i tronchi che ha per gambe. Pongo una mano sulla spalla a Elyn e cerco di incrociarne lo sguardo. «Mi raccomando ragazza, sta attenta.» Lei mi guarda con un misto di stupore e dolcezza. Prima di arrossire innanzi a quegli occhi, saluto tutti e me ne vado a cercare il mio altro accompagnatore.

Appena uscito dalla tenda ho la sensazione di essere osservato. Mi guardo attorno ma non riesco a cogliere nulla di strano. Ci sono mezzuomini ovunque in realtà, mescolati a sciacalli, ma nessuno mi presta particolare attenzione. Mi costringo ad avanzare, fingendo indifferenza, anche se il sentore di avere occhi indagatori puntati addosso non mi molla neppure un istante. Ho una mezza idea di dove possa essere Morte. Il Totem delle creature ha esercitato sul Senzalingua un’attrazione impossibile da celare. Me ne sono accorto già la prima volta che ci siamo ati al fianco. Inizierò da lì. eggio in quell’ammasso di putredine che è il campo degli ometti. Liquami, rifiuti e quant’altro si mischiano alla terra perennemente umida di questo posto, dando origine a un pantano maleodorante sul quale si ergono tende male in arnese. Insetti di ogni tipo mi ronzano addosso, felici di poter importunare qualcuno che ancora badi loro.

I mezzuomini paiono immuni. Io no di certo. Manca poco al palo sacro per il Clan dello Sciacallo, ma prima di arrivare là mi fermo un istante. Ho sentito chiaramente un fruscio alle mie spalle, sulla sinistra. Fingo di osservare l’orizzonte, l’albero forca che svetta blasfemo sulla dolina al centro del campo. La mia mano corre al coltello che ho legato alla bandoliera. Libero la sicura di cuoio e, di scatto, mi volto. Lancio l’arma a colpo sicuro. La lama impatta sul tronco dell’albero dal quale fa capolino il brutto muso di Tha-ho. Il guerriero ombra di Kiquathu mi guarda con occhi pieni di risentimento. Spavaldo strappa il coltello dalla polpa della pianta e si fa avanti con la sua camminata dinoccolata. «Non hai niente di meglio da fare?» gli chiedo, nonostante non abbia ancora capito se l’ometto capisca appieno la mia lingua. Il guerriero è un fascio di muscoli, perennemente tesi. Non un filo di grasso stempera quella serie di cavi guizzanti e tendini. «Dove vai, uomo?» mi chiede deciso. Lo osservo stupito. Per quanto sgraziate le sue parole sono ben chiare. «Da quando dobbiamo chiedere il tuo permesso per muoverci?» L’ometto scuote la testa glabra e rugosa, gli occhi che non perdono il contatto con i miei come una fiera che cerca la sfida. «Non mi piaci, uomo.» Sincero, non c’è che dire. «Neanche tu se è per questo.» gli sorrido, ma è evidente che il senso dell’umorismo di quelle creature sia diverso dal nostro.

«L’albero forca è la dimora di Kiquathu. Io devo proteggere il Divinatore. Non puoi avvicinarti oltre.» «Tutto qui?» Pare non gradire la risposta, visto che la sua mano scivola sull’elsa della rudimentale arma che porta legata alla cintura di pelliccia. Non ho certo voglia di confrontarmi con lui. «Non temere, guerriero» rispondo accondiscendente «sto solo cercando il mio compagno, Morte.» L’espressione dura del suo volto non muta di una virgola. «Non mi piacete, stranieri. Solo per la devozione verso Kiquathu vi lascio vivere.» Oltre che sincero è anche arrogante. «Bravo, ricordatene sempre. Devozione a Kiquathu e a Sciacal, non dimenticartene. Il Dio ci reputa importanti.» Tha-ho fa una smorfia come se la cosa lo infastidisse. Anzi sicuramente è così. In lontananza scorgo la sagoma del Senzalingua accovacciato davanti al Totem degli ometti. Avanzo e il guerriero ombra lancia una lunga occhiata al mio compagno. Si ferma e mi lascia proseguire da solo. Forse non gradisce la compagnia di Morte. Chissà forse anche i mezzuomini provano paura…

Morte, il Senzalingua, è seduto a gambe incrociate innanzi all'albero forca. Ai suoi piedi ha tracciato un agglomerato di simboli incomprensibili. Forme distorte, figure scalene e ghirigori stilizzati.

Le arti di cui dispone sono oscure e temibili, così come le ombre che gli vedo baluginare attorno al torace. Ombre che pare si stiano accoppiando con i tatuaggi demoniaci innescando con essi una danza macabra e sensuale al contempo. Morte è l'unico Domatore di Demoni uscito dalla Setta senza essere per questo giustiziato. Chissà se il merito sia solo del fatto che si è strappato la lingua per garantire ai Maestri della Loggia che non avrebbe svelato i loro segreti, oppure se sia anche nostro. La Centuria l'ha accolto. Ricordo ancora la scena di lui che si presentava per chiederci di essere assoldato. Rovers terreo in volto era sicuro che quella fosse la nostra fine. Era certo che il Domatore di Demoni fosse stato ingaggiato da qualche unità mercenaria nostra concorrente per toglierci dalla piazza. Non l’avevo mai visto così rassegnato alla sconfitta. Quando invece Morte gli ha confermato di voler solo unirsi a noi e di essere disposto a rinunciare alla propria parte di paga il comandante è andato in visibilio. Gli ha fatto firmare il registro ufficiale della Centuria ancor prima di comprendere il significato di quel gesto definitivo. Quando la sera gli ho spiegato che forse lo scopo del Senzalingua era quello di trovare protezione dai suoi vecchi compari, quasi gli veniva un colpo. Comunque alla fine la Centuria lo ha protetto, ha sventato diversi tentativi di assassinio nei suoi confronti e… ha tratto infiniti benefici dalle sue malie. «Dobbiamo andare, ordini di Rovers. Esploreremo per conto del Duca l’insediamento delle vesti bianche, e se riusciremo tenteremo di trovare questa Agape. Pare che abbia avuto parecchio successo con i mezzuomini…» scherzo, pur conscio che il Domatore non avrebbe colto. Per lunghi istanti pare non avermi neppure sentito. Infine noto dei rallentamenti nel coito che si sta consumando sul suo addome e le iridi dell’uomo tornano al loro posto, sostituendo il bianco dei bulbi oculari. Mi fa un cenno di assenso col capo, si alza e prima di seguirmi noto l’inchino che concede all’albero forca.

XV. Quarto dell’Aria – Irregolari

La colonna di cavalleria del Maggiore Firion irruppe nel bastione eretto dagli uomini del Quarto dell'Aria da est. Questi, pur essendosi accorti dell'arrivo del nemico, non furono in grado di predisporre difese adeguate. Le urla d'allarme avevano richiamato un numero insufficiente di armati, i più troppo impegnati a rispondere all'attacco frontale del Colonnello Ramelon sul versante opposto. I primi guerrieri accorsi ai piedi del ponte costituito dal Burrascoso, probabilmente i riservisti, male equipaggiati e non certo veterani di mille battaglie, erano stati travolti, maciullati sotto gli zoccoli dei cavalli da guerra lanciati al galoppo o arpionati dai tentacoli dell’Elementale. I difensori avevano organizzato una sorta di falange, mulinando lance dalle aste variopinte e dalle punte multiformi, ma la formazione era stata scompaginata all’istante. Impossibile per dei barbari privi di disciplina, improvvisare dei ranghi compatti, soprattutto quando a venirti addosso era un intero squadrone di cavalleria lanciato alla massima velocità. I soldati di Firion erano così sciamati alle terga del nemico, lanciandosi in una caccia all'uomo furiosa. I guerrieri dell’Aria correvano sparpagliandosi in tutte le direzioni, mentre le sciabole degli uomini del Maggiore calavano sulle loro spalle protette solo da corpetti di cuoio bollito dai colori sgargianti. Gli unici che si ostinavano a resistere erano quelli assiepati lungo il perimetro costituito dalla palizzata a difesa del Dosso e solo grazie al fatto di non essere ancora consci del nemico giunto dal mare. Intrappolati fra incudine e martello.

Solo i mastri elementali avevano compreso che le sorti della battaglia erano compromesse. Firion aveva visto svanire il Genio, indice che gli Aeromanti stavano erigendo il ponte aereo che avrebbe concesso a loro stessi, ed ai propri uomini, la fuga e il rientro a Capo Tempesta. Tutto procedeva secondo quanto pianificato. Il Maggiore ordinò al grosso dei suoi di continuare a tenersi in movimento, proteggendo la Rabdomante e non dando l'idea al nemico di essere in attesa. Il fattore tempo era l’unico problema. Polina non poteva ancorare troppo a lungo il Burrascoso e Firion non aveva certo intenzione di utilizzare il ponte nemico per giungere nel Quarto dell'Aria. In circostanze normali si sarebbe dedicato in prima persona alla caccia agli elementalisti nemici, ma ora doveva attendere che questi erigessero la propria via di fuga, il lasciaare per lui e le sue truppe verso le sponde del Quarto nemico. Vide dove gli Aeromanti si stavano raggruppando, difesi da un consistente nucleo di guerrieri. I maestri dell’Aria non facevano nulla per mimetizzarsi: corone di capelli blu a cingerne il capo, ampie mantelle turchesi bordate di un piumaggio candido come la neve e Falene Vaporose a proteggerne la persona, svolazzando tutt'attorno alle loro figure. Forse sarebbero valse a bloccare qualche dardo scagliato dalla lunga distanza, ma non certo a impedire che la sua lama arrivasse a bersaglio, pensò con scherno Firion. Erano dei patetici palloni gonfiati, come tutti gli abitanti del Quarto dell'Aria. Li avrebbe lasciati fare, felice di farsi beffe dei loro sforzi. Si dedicò così a massacrare selvaggi, la sciabola che calava inesorabile in continui affondi.

Condusse un plotone su per il Dosso della Megera, in direzione della breccia aperta dagli uomini del Colonnello. Lì si stavano svolgendo gli scontri più cruenti. Lì erano piazzati i reparti migliori del nemico, dotati di armature e ampi scudi rettangolari. I guerrieri dell'Aria stavano respingendo i fanti pesanti di Ramelon. Non senza difficoltà a giudicare dalle cataste di cadaveri, ma grazie alle alabarde e alla posizione sopraelevata riuscivano a mantenere serrate le fila impedendo ai commilitoni di Firion l’avanzata. Gli arcieri di ambo gli schieramenti avevano ripreso a dar fondo alle faretre ora che la cortina di turbini innalzata dal Genio era svanita. Spronò lo stallone su per la scoscesa del Dosso ma ancor prima di giungere a contatto con il nemico, un boato lo avvisò che le truppe di Ramelon avevano forzato le difese avversarie in un altro punto. I soldati, agevolati dalle picchiate degli Aironi d'Acqua, avevano divelto una sezione di palizzata poco distante e stavano dilagando all'interno del campo nemico. Le urla di trionfo travolsero il circondario. La testa di ponte del Quarto dell'Aria era stata violata, l’avversario respinto. Il ringhio dei suoi commilitoni si fece valanga. Al Maggiore non rimaneva che sfruttare il caos per infiltrarsi nel Quarto nemico, nella landa conosciuta come la Steppa dei Patiboli, e assolvere alla missione affidatagli dal Generale Enoc. Nemici gli sfrecciavano al fianco, in fuga precipitosa. Gridavano e piagnucolavano come femminucce ora che le loro staccionate di legno erano state spazzate via. Li lasciò ai suoi uomini, voltandosi e concentrandosi sulla situazione sottostante. Gli Aeromanti si stavano dando da fare: i primi Zefiri si ammassavano nei pressi del costone roccioso dove si erano asserragliati i loro invocatori, protetti da una centinaio di guerrieri dell'Aria.

Ad incalzarli c'erano per il momento solo una ventina di suoi cavalieri, che attaccavano senza molta convinzione. Ben fatto, pensò Firion, d'altronde quella era solo una farsa, in attesa che il ponte venisse eretto. Non ci sarebbe voluto molto. Le creature d’Aria perdevano i loro vaghi connotati umanoidi per fondersi fra loro, allungarsi a dismisura e originare un vero e proprio pontile trasparente. La sua attenzione fu poi attirata dall'ombra che serpeggiava sotto il pelo dell'acqua a qualche dozzina di metri dal punto dove stazionavano i nemici. Il Burrascoso si stava agitando, innalzando spruzzi e colonne d'acqua, forse infastidito dalla comparsa sopra di lui delle creature dell'Aria. Per un attimo temette che avesse spezzato i propri vincoli. D'istinto lo sguardo del Maggiore corse a cercare Polina. Non voleva credere che fosse caduta, non quando i suoi uomini sapevano che la protezione della donna era l’obbiettivo primario. Eppure, sarebbe stato sufficiente un dardo vagante a rovinare tutto. Il pensiero lo inquietò. Gruppetti di guerrieri dell'Aria si ostinavano a combattere con ardore selvaggio. Riuscivano in taluni casi a isolare qualche cavaliere e a disarcionarlo per poi massacrarlo con le corte accette. Firion si maledì per non esser rimasto lui stesso a protezione della Rabdomante e strattonò le redine per far voltare l’animale in tutte le direzioni. Con un sospiro di sollievo infine individuò la donna al centro di un manipolo di cavalieri che si tenevano in disparte: il volto livido, gli occhi infossati, affagottata sulla sella, la schiena curva come a sorreggere un peso enorme. Lo sforzo per ammansire il Burrascoso era evidente sul bel volto, comunque pareva dare i suoi frutti. Il ponte aereo era quasi ultimato e le genti dell'Aria vi si ammassavano, in cerca di una via di fuga.

Il Burrascoso, recalcitrante, si stava riposizionando proprio sotto agli Zefiri, originando un binario parallelo sul quale presto si sarebbero catapultati i suoi uomini e quelli del Colonnello Ramelon che già avanzavano alle loro spalle dilagando nel campo nemico. La creatura d'Acqua urlava, la rabbia trattenuta a stento, il desiderio di aggredire i miseri Zefiri che gli divorava il ventre. Polina era ancora forte, ancora in grado di soverchiare il volere della creatura, indirizzandola a formare una linea retta verso l'orizzonte a solcare i flutti fino alla sponda opposta. Gli ordini impartiti dai capi clan dell'Aria si udivano sin dalla posizione del Maggiore: ritirata. Non vi erano dubbi in proposito. Le guide dei nemici riuscivano a fatica a incanalare parte dei loro guerrierri, imponendo ad altri di coprire la fuga. Erano male organizzati e il terrore che li pervadeva rendeva il tutto ancor più complicato. Firion sorrise gustandosi quegli sforzi e attese per donar loro qualche metro di vantaggio, impaziente di poter sguinzagliare i propri uomini. Nel mentre raggiunse la Rabdomante. Da vicino il volto della giovane pareva ancor più stravolto. Rivoli di sudore le scendevano dalla fronte, inzuppandole i boccoli rossi, le iridi degli occhi che compivano movimenti assurdi, asincroni. «Per quanto ne avrete, Maggiore?» chiese. La voce della donna era ridotta a un flebile sussurro. L'ufficiale osservò i nemici, oramai tutti assiepati sul ponte, alcuni già in rotta. «Uomini, inseguiamoli!» ordinò, senza badare alla Rabdomante. Confidava che il Colonnello avesse ordinato agli Aironi d'Acqua di spingersi sulla sponda avversaria e far piazza pulita delle vedette nemiche. Questo avrebbe concesso loro di colpire di sorpresa.

In caso contrario avrebbero trovato le guarnigioni della Steppa dei Patiboli ad attenderli e non sarebbe stato facile divincolarsi dal caos che ne sarebbe seguito. Anche se le genti del Vento non avevano dei capisaldi a ridosso del mare, per evitare il contatto diretto con l’elemento dei loro nemici, nell’entroterra c’erano sicuramente dei presidi che entro breve sarebbero stati messi al corrente dell’evolversi della situazione.

L'avanzata lungo il breve tratto di mare che separava i Quarti non fu facile. Dall'alto, le truppe dell'Aria messe in fuga non disdegnavano di bersagliarli di strali, costringendo il Burrascoso a modificare la propria traiettoria, per tenersi a distanza. Gli Zefiri spiravano impetuosi, rallentando la loro avanzata e facendo infuriare ancor più l'elementale dell'Acqua costretto suo malgrado a non reagire. Alcuni cavalieri venivano spinti dalle forti raffiche e si trovavano sbalzati dal ponte sovrannaturale finendo inghiottiti dalle acque. Eppure quello che più preoccupava Firion era lo stato di Polina: imbrigliare il potente elementale la stava annientando. Due uomini a cavallo la affiancavano sorreggendola e proteggendola. Il corpo della donna ondeggiava ad ogni sobbalzo della cavalcatura, costringendo i soldati a tenerla a braccetto. Non aveva più le forze per rispondere alle domande del Maggiore, o forse, sperava questo, non voleva rischiare di perdere la concentrazione. La terra dell'Aria era comunque in vista. Alte scogliere circondavano una zona pianeggiante dove erano diretti i due ponti. Gli uomini che aveva mandato in avanscoperta avrebbero presto fatto ritorno. Un contingente più numeroso era partito al loro seguito con lo scopo di ripulire la via di fuga che avrebbe permesso al suo contingente di svincolarsi dal grosso delle truppe di Ramelon e di sparpagliarsi lungo il territorio nemico, verso sud.

Al momento Firion ed i soldati a sua disposizione procedevano lentamente. Troppo forse. Ramelon aveva preteso di sopravanzarlo al fine di consolidare la posizione sul suolo straniero. Così al Maggiore non rimaneva che osservare i cavalieri del Colonnello sfrecciargli innanzi, le cappe cobalto svolazzanti che schioccavano come migliaia di fruste. Dietro di questi, ben più lenti, avanzavano i fanti pesanti armati di ampi scudi rettangolari e lance: un bello spettacolo. Era orgoglioso di vedere gli stendardi con impresse le anfore dorate del Quarto dell’Acqua, ma i suoi uomini non amavano rimanere nelle retrovie. Per troppi anni avevano pazientato, difendendo Forte Titano, e ora che si presentava l'occasione per mostrare il proprio valore avrebbero preferito rimanere in prima linea. Firion non stentava a comprenderli, ma era conscio dell'importanza della missione affidatagli e del pericolo che essa avrebbe concesso loro di affrontare. Ci sarebbe stata gloria per tutti i valorosi. Si trattava solo di pazientare. Il rombo delle onde generate degli elementalisti dell'Aria era fragoroso. Solo grazie al Burrascoso i marosi non mietevano vittime, ritraendosi non appena si rendevano conto di trovarsi al cospetto di un’entità di caratura superiore, in possesso del diritto di veto sulla vita di tutti loro. Quando infine anche l'ultimo dei militi del Colonnello Ramelon fu transitato innanzi alla sua truppa, Firion li spronò per quell'ultimo tratto che li separava dalla meta. Polina gemeva, sorretta di peso dalle guardie che le aveva posto al fianco. In lontananza scorse i soldati dell'Acqua che prendevano posizione, senza slanciarsi alla rincorsa del nemico in fuga. Ordinatamente si limitavano a disporsi in ranghi compatti, gli scudi uniti uno all’altro, a prendere possesso della spiaggia, fino alle pendici delle scogliere circostanti. Era una mossa saggia, almeno fintantoché non si conosceva la disposizione del

nemico sul posto. Era evidente comunque che gli uomini dell’Aria si erano allontanati, altrimenti avrebbero già sfruttato le alture per bersagliarli di strali. La costa era sempre stata un dominio degli elementi dell’Acqua e le genti del Quarto dell’Aria lo sapevano bene. Per questo ad ogni loro sortita erigevano un ponte aereo in un punto diverso, facendo affluire le truppe dall’entroterra, dove gli elementi dell’Acqua avevano meno potere. «Forza uomini, è arrivato il nostro turno!» gridò Firion, per sovrastare i fragori degli elementi confliggenti. Così si avviarono verso la terraferma.

«Maggiore, la Rabdomante ha perso conoscenza!» La voce del Tenente Tilmon lo colse di sprovvista. Il volto del giovane ufficiale era teso, un profondo taglio aperto sulla guancia. Firion stava ricevendo il rapporto degli esploratori che aveva mandato in avanscoperta. Dovevano sbrigarsi, piegare verso sud per poi sparpagliarsi alla rinfusa, alla stregua di irregolari o meglio ancora di disertori. Innanzi a loro gli scontri erano ripresi. La retroguardia dei fuggitivi dell'Aria aveva ingaggiato le truppe di Ramelon non appena queste si erano inerpicate sulle pareti rocciose delle scogliere. Attacchi blandi, probabilmente per far guadagnare un po’ di tempo ai compagni, in attesa di rinforzi e comunque per non dare al Colonnello il tempo di riorganizzarsi. «Dannazione, questa non ci voleva.» sbottò Firion. Lo sguardo dell’ufficiale corse alle dozzine di suoi cavalieri che ancora stavano

attraversando il ponte. Il Burrascoso era bizzoso e irrequieto, indice che il guinzaglio impostogli dalla Rabdomante si stava allentando. Per questo i suoi procedevano così lentamente. Il Maggiore smontò da cavallo e raggiunse la donna ad ampie falcate. Questa giaceva fra le braccia di un soldato, il volto cinereo tempestato di gocce di sudore. Firion la schiaffeggiò, prima delicatamente, poi con maggior vigore. «Donna, svegliati.» Fra blande lamentele le palpebre di Polina si socchio, mostrando il verde smeraldo delle iridi. «Libera il Burrascoso, immediatamente!» tuonò, ma questa invece di esaudirlo, fra mille lamenti sollevò il busto, puntellandosi sui gomiti ad osservare la scena. Vide i soldati che combattevano con le proprie cavalcature per convincerle a proseguire la corsa, a superare le dune e i soffioni generati dal Burrascoso. Se avesse ubbidito, sarebbero tutti finiti in mare trovando una fine atroce, trascinati a fondo dalle pesanti armature. Polina lo sapeva e non lo avrebbe permesso. Il Maggiore la riportò alla realtà, strattonandola. «Questo è un ordine, Polina! La vita di una Rabdomante vale più di quella di due dozzine di soldati. Libera l'elementale, ora!» La donna chiuse gli occhi, il corpo non oppose alcuna resistenza agli strattoni dell’uomo, quasi si trattasse di un burattino, eppure il ponte non cedette, il Burrascoso costretto a rimanere al proprio posto, ruggendo per la rabbia. Rivoli di sangue presero a scorrere dalle orecchie e dal naso della donna. I capelli rossi, fradici di sudore, le pendevano flosci sul volto celando a malapena le occhiaie che parevano espandersi a vista d'occhio, viola come quelle

di un cadavere. «Basta!» urlò Firion, ma la donna gli si afflosciò fra le braccia solo quando l'ultimo dei soldati mise piede sulla terraferma. «Maledetta testarda!» In quel momento il ruggito del Burrascoso si fece ancor più possente, la belva d'acqua che si ergeva sui flutti circostanti riversandosi contro i vicini Zefiri. Ne scaturì uno scontro furibondo, ma nè Polina, nè Firion e i suoi uomini vi assistettero. Priva di sensi la prima, intenti a marciare verso l'entroterra nemico gli altri.

XVI. Quarto dell’Aria – Qilana, la Figlia di Lena

«Perché diamine non ci mandano al fronte, Karut? A combattere intendo.» Marwan si piazzò al bancone, al fianco del capotribù. «Ci lasciano marcire in questo buco di culo. Aelissa la Bella, che nome pomposo per un inutile borgo di provincia. Che ci facciamo? Me lo riesci a spiegare?» Karut la guardò, leggendole negli occhi un barlume di follia omicida. Quella donna lo inquietava. Non certo per la possanza fisica. Emaciata com'era non l'avrebbe scalfito neppure colpendolo in pieno volto e a sorpresa. A intimorirlo era la mistura di intelligenza, sfrontatezza e totale mancanza di scrupoli. «Eppure Karut, tu dovresti saperlo. Hai partecipato al concilio delle Tribù. Tu solo sai perché siamo in questa fogna da più di due lune, quando a Capo Tempesta sempre nuove Tribù vengono inviate a invadere l'Isola di Dibrijs! Da quando noi Serpi Volanti siamo diventati una tribù di rammolliti, da tenere in retroguardia?» «Marwan, goditi la giornata di riposo.» tagliò corto l'energumeno. «Voglio sapere! Non ci sono ribellioni qui nei dintorni, perché allora non possiamo levare le tende?» insisté la guerriera, seconda in comando. «Dobbiamo badare al popolo, Marwan.» rispose l'uomo con tono forzatamente indifferente. La donna batté i pugni sul bancone. Il popolo. I cittadini. Gente priva di Tribù che aveva scelto la vita sedentaria. Concimare il terreno e allevare il bestiame, invece che combattere e razziare. Feccia di vigliacchi, pensò la donna.

Eppure il Grande Bairo voleva che anche il Quarto dell’Aria mutasse le proprie tradizioni, concedendo al popolo protezione. Da quanti anni andava avanti così? E ora quello stesso popolo si permetteva di ribellarsi, di aderire al folle culto della Dea della Pace. Le tribù dell’Aria erano tribù guerriere! «Il Grande Bairo ha paura del contado? O forse teme che i pastori possano invadere le sue tende-palazzo con greggi di pecore da combattimento? È forse colpa di quella puttana di Qilana e delle sue folli idee di pace?» «Donna, fai silenzio. Le scelte del Capo di tutte le Tribù non vengono discusse, si eseguono e basta.» Karut fece per alzarsi dallo sgabello, ma l’impeto ò in un istante e tornò a concentrarsi sul suo boccale di vino scuro. «Siamo nati per combattere e razziare, non per accudire il volgo!» sbraitò testarda la donna. «Sempre così focosa… la guerra contro il Quarto dell’Acqua non è come le solite razzie che hai fatto sin da bambina. Alla prima vera battaglia te la farai sotto, te lo dico io, come tutte le femminuc…» L'uomo che beveva alla destra del capotribù non fece a tempo a terminare che una mano di Marwan gli si strinse sui testicoli, stroncandone la spiritosaggine sul nascere. «Mollalo, Marwan. Duko dimostra tutta la sua stupidità a parlarti a questo modo, ma ci serve integro. È un buon tiratore.» La donna ubbidì promettendo a Duko vendetta privata con lo sguardo, la lingua che ava voluttuosa sulle labbra sottili mentre la mano dava un ultima carezza ai gingilli dell’arciere. «Maledetta baldracca…» biascicò questo prima che il manrovescio di Karut lo zittisse nuovamente.

Il guerriero si trattenne al cospetto della mole del suo capo limitandosi a maledirli entrambi e ad allontanarsi, mescolandosi alle altre Serpi Volanti. «Forza, bevete con me, offro io!» tuonò Karut asciugandosi un rivolo di vino che gli colava per la barba spinosa. «Godiamoci questo giorno di quiete. Non abbiate fretta di affrontare il nemico, bestie! Il tempo è oramai prossimo.» I guerrieri della Tribù delle Serpi Volanti di stanza a Aelissa, assiepavano la locanda. Dai diversi tavoli i rumori dei calici che cozzavano l'uno contro l'altro si moltiplicarono. Grida e grugniti di approvazione inondarono la stanza mentre l'oste, di nascosto, raccomandava agli inservienti di annacquare il vino, ben conoscendo che l'unica paga che poteva sperare di ricevere da quei bruti, sarebbe stata aver salva la vita. «Non credere che siano sufficienti un paio di bicchieri ad azzittirmi.» tornò alla carica Marwan, ma in quel momento uno squillare di corni riuscì a tacitarla. Gli schiamazzi tutt'attorno cessarono all'unisono e i guerrieri si osservarono l’un l’altro, sorpresi. I più lesti si portarono alle finestre per vedere cosa stesse accadendo. I più furbi, fra cui Karut e Marwan, sapendo di essere nell'edificio più alto del borgo, salirono le scale e si portarono sul terrazzo soprastante. Da lì godevano di buona visuale sulla maggior parte della città. Il rumore dei corni riempiva l'aria, ancora e ancora, allontanando i fumi dell’alcol. La minaccia giungeva da ovest. Le vie erano completamente deserte e già questo era un pessimo segno. «Che diavolo succede?» chiese la donna accarezzando l'elsa dei pugnali che portava ai fianchi. «Come dovrei fare a saperlo, Marwan?» «Oltre che brutto, sei anche alto come un orso, pensavo che da lassù riuscissi a scorgere qualcosa.»

Il capotribù era troppo intento a scrutare l'orizzonte per degnarla di una risposta. La locanda era posta al centro del borgo, all'incrocio fra le vie principali che lo dividevano in quattro sezioni speculari. Il silenzio venne rotto da un vociare concitato proveniente dalla loro sinistra. Gli uomini di Karut lì presenti si voltarono in quella direzione: solo polvere e un tramestio attutito di i. Poi dalla nuvola grigia spuntò la sagoma di un cavallerizzo. Era minuto, ma avanzava impettito, la cavalcatura che procedeva con flemma disarmante. Quando infine riuscirono a mettere a fuoco quel personaggio si resero conto che si trattava solo di una ragazzina. «Merda…» sbottò il capotribù. «Chi diavolo è quel moccioso?» «Archi in pugno!» tuonò Karut senza degnare la donna di una risposta. Dietro la ragazzina, una giovinetta smunta che doveva aver avuto da poco il primo mestruo, avanzava una massa di bifolchi resi orda. Erano questi a sollevare la coltre di polvere con le loro scarpe sdrucite e il o irregolare. Urlavano parole incomprensibili mentre la loro condottiera manteneva un’espressione serafica. «Non sono altro che un branco di pecoroni pronto a seguire il primo pastore che abbia la verga abbastanza turgida da impartire ordini. E quella mocciosa non mi sembra proprio in grado. Non vorrai mica tirargli contro? Guarda, sta arrivando la Tribù di Ardcil. Ci penseranno loro a calmarli. Quei bifolchi sono pur sempre nostri compatrioti, uomini del Quarto dell’Aria.» sentenziò con disprezzo Marwan, stupita per la reazione scomposta di Karut che solo pochi istanti prima l’aveva redarguita in merito al “popolo”. Il capotribù distolse lo sguardo per un istante dalla ragazzina per fissarlo negli occhi scuri della guerriera.

«Quella è Qilana, stupida donna!» Le Iguane d’Aria di Ardcil, sopraggiunte dalla via laterale, si stavano piazzando lungo l'accesso all'incrocio, formando un cordone difensivo, mentre gli ordini del loro capotribù risuonavano perentori. «Quella mocciosa sarebbe quindi la fomentatrice di folle? La condottiera capace di far sollevare intere città? La figlia della Dea della Pace, Lena l'Immacolata? Colei che tanto terrorizza il Grande Bairo? Quello scricciolo rachitico? Tutte fandonie! Vedrai come i guerrieri di Ardcil se la seranno con lei. Altro che Pura! E tu, vigliacco, vuoi startene quassù a bersagliare di frecce quei poveretti? Almeno concedici di andare là sotto a divertirci!» sbraitò Marwan indicando i coltelli ricurvi. Il capotribù non l'ascoltava, il volto pallido sotto la barba scura. Ora le grida della folla raccolta alle spalle di Qilana erano ben distinguibili: pane, pane, pane! Quegli uomini impugnavano attrezzi arrugginiti, roncole, zappe e forconi, ma la loro fame li rendeva più pericolosi di un branco di lupi. Forse non avevano digerito l’ordine imposto loro di fornire le ultime derrate alimentari alle Tribù al fronte. Quella plebaglia aveva superato il limite imposto dal buon senso e dall'autoconservazione. Con la fame, ogni loro prospettiva era andata in frantumi, la loro esistenza da troppo assimilata a un castigo infinito all'inferno. Ora quei pecoroni erano divenuti gente pericolosa, disposta a tutto. Quella dipinta su quei volti non era semplice rabbia, alla faccia delle belle parole che Qilana aveva sussurrato loro per smuoverli: uguaglianza, cessazione dei conflitti e delle sofferenze, pace e ritorno alla vita di sempre, fatta di lavoro nei campi e un pasto caldo. Non semplice rabbia, ma furia sanguinaria. «Tirate!» ordinò Ardcil dalla strada e il grido raggiunse anche i guerrieri assiepati al fianco di Marwan.

Senza attendere che il loro capotribù lo confermasse, la prima salva di frecce scoccò all'unisono da entrambe le Tribù, piombando sulla folla. In molti caddero trafitti, ma i ranghi tumultuosi rimasero compatti e Qilana incolume. «Continuate a tirare!» urlò Karut ai suoi, mentre sotto di loro i guerrieri dell'Aria sfoderavano le spade e le asce per respingere l'orda. La ragazzina che li guidava non fiatò, limitandosi a rimanere immobile sul cavallo bianco, osservando la scena circostante. L'aura di quiete che l'ammantava era chiaramente percepibile, anche a grande distanza. Marwan si stupì fissando gli occhi della mocciosa e non trovandoci altro che calma assoluta e glaciale determinazione. Furiosa la guerriera incoccò una freccia e prese la mira. Bisbigliò al vento per propiziare il buon esito del tiro e scoccò. Lo strale volò dritto sul bersaglio, ma invece di trafiggerlo al cuore andò a piantarsi al suolo, subito dietro Qilana, la traiettoria mutatasi d’improvviso. «Merda!» sbottò incredula Marwan. Gli schieramenti vennero a contatto, le lame cozzarono in un concerto di stridori. La litania del volgo era cessata, ora gli immacolati, come si autodefinivano i seguaci della Pura, combattevano in assoluto silenzio. «Dannazione, arrivano da tutti i lati.» constatò Marwan indicando a Karut le stradine circostanti. I fedeli della Dea della Pace si aggiravano in gruppetti per gli stretti vicoli della città, in cerca delle loro prede, e avrebbero preso alle spalle i guerrieri della Tribù delle Iguane d’Aria. «Voi» urlò il capotribù a un gruppo di guerrieri «portatevi su quel lato e impedite l'accesso alla via. Voialtri sul lato opposto!» Dal tetto della locanda riuscivano a dominare le due stradine retrostanti e

avrebbero concesso un minimo di copertura ai loro fratelli che combattevano nella piazza e che apparivano in difficoltà a respingere un nemico numericamente superiore. Per strada, un giovane Aeromante della Tribù di Ardcil, compreso il pericolo, stava evocando in fretta e furia uno Zefiro. La creatura non impiegò molto a ubbidire al richiamo di questo e fra mulinelli di polvere prese forma poco innanzi all’evocatore. I gesti di questo erano chiari, voleva che si gettasse contro Qilana per decapitare sul nascere la fautrice di quella rivolta. L'elementale partì di slancio, sotto le sferze del suo padrone. Volò scompaginando la formazione difensiva dei guerrieri dell'Aria e, creatosi un varco fra la massa di rivoltosi che lo separava dal bersaglio, rovesciò la propria furia sulla ragazzina. Marwan vide per la prima volta la Figlia di Lena muoversi, sollevando un braccio parallelo al suolo, le labbra che si schiudevano a bisbigliare qualcosa. Fu sufficiente quel gesto a bloccare lo Zefiro all'istante, un metro innanzi alla sua cavalcatura. I turbini che formavano il volto della creatura parvero placarsi, dispiegandosi in una sorta di sorriso ebete, poi l'elementale scomparve nel nulla, lasciando di sè solo una manciata di polvere duwan. Marwan era esterrefatta. Si voltò verso il basso e vide la medesima espressione dipinta sul volto dell'evocatore. Gli immacolati ripresero a combattere con maggior convinzione. I caduti fra i guerrieri di Ardcil si contavano a decine. Il capotribù stesso venne colpito in quel momento da un forcone che gli traò il petto sfondando il corpetto di cuoio, i tre spuntoni che spuntavano obbrobriosi dalla schiena fra stille di sangue.

Il volto dell’aggressore era ora placido, come se quell’uccisione eccellente avesse lenito le sue sofferenze, placato la sua fame. Un istante dopo la testa di questo venne spiccata dal torso da un colpo d’ascia di un guerriero di Ardcil e un’espressione di dolore sostituì per l’eternità quella di quiete. Marwan vide un folto gruppo di contado giungere dalla via opposta alla locanda: avrebbero preso i guerrieri dell'Aria sul fianco. «Karut, non riusciamo più a trattenerli!» L'urlo del guerriero giunse dal lato est del terrazzo a confermare la sua sensazione. Un'altra fiumana di rivoltosi stava giungendo anche da lì. «Dannazione, dobbiamo scendere là sotto.» sbottò il capotribù. «Andiamo, dobbiamo aiutare i guerrieri di Ardcil!»

Scesero la rampa di scale, ma quando giunsero al piano terra trovarono che la battaglia era già in corso. I guerrieri rimasti lì erano stati raggiunti dai ribelli e si difendevano come potevano. Karut si scagliò sul primo gruppo di nemici che riuscì a trovare. Travolse il primo con una spallata e uccise i seguenti con una falciata dell'ascia da guerra. Al suo fianco Marwan danzava e mieteva vittime con i coltelli. La donna mostrava un’agilità straordinaria, flagellando di colpi gli impacciati contadini. Era cresciuta combattendo, così come i guerrieri delle Serpi Volanti, e se non fosse stato per il gran numero dei rivoltosi quello scontro non avrebbe avuto nulla da dire. In breve riuscirono a sterminare tutti gli immacolati e a blindare l'entrata della locanda.

Il capotribù si portò a una finestra a osservare la scena all’esterno: lo scontro era furioso, le Iguane d’Aria si difendevano selvaggiamente, aggredite da tutti i lati. Capì che dovevano intervenire immediatamente, rompere quell’assedio, altrimenti sarebbero stati soverchiati dal numero degli avversari. «Usciremo dalla porta sul retro e cercheremo di prendere Qilana alle spalle.» decise, osservando la ragazza che montava immobile dietro le linee nemiche. «Sei impazzito, Karut? Ci massacreranno, dobbiamo fuggire!» lo redarguì Marwan portandoglisi innanzi. Il gigante l’afferrò per l’esile collo e la sollevò per aria. La guerriera, presa di sorpresa, non ebbe il tempo per reagire. «Non è il momento per discutere, Marwan, andiamo!» Detto questo la scagliò contro la parete come un pupazzo e si incamminò verso il retro della locanda.

Appena fuori dall’edificio furono costretti ad affrontare un gruppo di immacolati. Persero cinque guerrieri per raggiungere la via successiva e appostarsi dietro una bassa costruzione. In lontananza potevano vedere Qilana. Imibile, questa osservava i propri discepoli fare a brandelli la Tribù di Ardcil. «Ammazziamo quella cagna!» ordinò Karut ai suoi. Marwan lesse il dubbio nello sguardo di molti compagni, ma infine tutti si mossero. «Sono troppi Karut, ci farai accoppare.» imprecò la donna ricevendo per tutta risposta un ceffone che la fece vacillare. Solo l’ira per l’affronto subito le consentì di restare in piedi, la guancia che le bruciava molto meno dell’orgoglio.

«Da quando i miei ordini si possono discutere?» tuonò il colosso rosso in volto. «Andiamo ora.» Si voltò e tutti gli corsero appresso sguainando le lame e innalzando un urlo animalesco.

Prima che il capotribù fosse giunto a metà della strada che lo separava dal loro obbiettivo, Marwan lo raggiunse portandoglisi alle spalle. Rapida come una serpe, estrasse i pugnali e all’unisono li conficcò alla base del collo del guerriero ancora in movimento. L’uomo tentò di voltarsi, riuscendo solo ad ampliare lo squarcio che le due lame gli avevano aperto alla base del cranio, appena sotto la calotta dell’elmo. Il gigante, con l’espressione incredula di chi viene tradito da una figlia, si afflosciò proprio mentre alcuni immacolati si accorgevano della loro presenza. «Scappiamo!» ordinò Marwan ai compagni strappando le lame dal cadavere di Karut e indicando loro la strada dalla quale erano giunti. Senza attendere la reazione delle Serpi Volanti, Marwan si mise a correre.

XVII. Nuovo Quarto – Agape, la Sorella di Lena

I due ometti che ci fanno da guide si fermano di colpo. Per la prima volta da quando abbiamo lasciato l'accampamento li vedo parlottare agitati. Gesticolano con le loro braccette tozze, apparentemente indecisi sul da farsi. I loro timori si ripercuotono su tutti noi. Sono ore che marciamo, nel buio assoluto, avvolti da rumori sconcertanti: versi di bestie che stento a immaginare, delle quali riesco solo a scorgere fugaci occhi luccicanti nel fitto della giungla. Chissà quanti di quegli orridi ragni giganteschi saranno in agguato a pochi centimetri dal mio naso. Con questa oscurità almeno non li vedo! Ogni tanto il lamento di agonia di qualche preda finita fra le grinfie del proprio predatore ci fa sobbalzare. I mezzuomini hanno sempre continuato a marciare, incuranti, limitandosi a fermarsi quando rimanevamo troppo indietro. Non mi danno l'idea di interessarsi più di tanto alla nostra incolumità. Zitara stringe la falcata in pugno per non farsi trovare impreparata, io la mia spada bastarda. Morte mantiene una flemma serafica. Lui è avvantaggiato, la notte è la sua dimora, le tenebre il suo elemento. Anche le nostre guide impugnano le loro risibili lance con le punte di pietra, eppure non erano mai parse preoccupate fino a questo momento, utilizzandole più come bastoni da eggio. Comunque non riusciamo a comunicare con loro, se non a gesti, ottenendo

informazioni rudimentali. Ora la tensione è palese sui quei brutti musi. Pare abbiano preso una decisione. Innanzi a noi la vegetazione scompare, di netto, indice che è stato l'intervento delle vesti bianche a modificare la conformazione del posto estirpando tutto per un raggio di duecento metri almeno. Morte e Zitara sono alle mie spalle. Si guardano attorno, guardinghi. Dobbiamo essere nei pressi del borgo eretto da Agape, la Sorella di Lena che dirige le colonie nel Nuovo Quarto. I mezzuomini fornitici da Kiquathu ci fanno capire che loro non andranno oltre. L’incarico di guidarci è oramai giunto a termine. Un rapido sguardo ai miei compagni e avanziamo carponi mentre i due sciacalli ci fanno segno che ci aspetteranno più indietro, nel fitto della boscaglia. Cacasotto! Ci inoltriamo nella piana resa sicura dalle tenebre. Innanzi a noi c’è un leggero declivio. Digrada dolcemente fino alla riva dell’oceano che noi non abbiamo mai solcato, sfruttando le malie del Traghettatore. Chissà che fine avrà fatto, il bastardo. In mezzo alla rada scorgiamo l'agglomerato di baracche e fortificazioni erette dai seguaci della Dea della Pace, per soverchiare gli indigeni e sostentare la loro causa nei Quarti: Nuova Cadolia. Non abbiamo molto tempo, ma vogliamo farci un’idea dell'abitato e per farlo dobbiamo avvicinarci finchè fa buio.

Le prime luci dell'alba ci colgono ancora indaffarati a capire quanto sia estesa la colonia. Nella penombra riusciamo a vedere che è circondata da una palizzata di legno

con torrette di guardia poste ad intervalli regolari, sulle quali brillano torce in movimento. Le vesti bianche sono previdenti, hanno molte sentinelle. Il Divinatore del Clan dello Sciacallo ci aveva avvisato. Ha detto che sono ben organizzati, che attuano controlli all'ingresso e che di notte chiudono tutti i cancelli non facendo entrare, nè uscire nessuno. I contatti con le altre colonie avvengono via mare, con imbarcazioni tradizionali, non con le navi di cristallo che tanto timore sembrano ingenerare nel Divinatore e nei suoi simili. Via terra si muovono solo con scorte di uomini armati, per portare gli schiavi nei campi e nelle cave e per le battute di caccia. Tutto il resto avviene all'interno della palizzata. A detta di Kiquathu, i Clan ribelli hanno assediato e messo a ferro e fuoco alcuni dei nuovi insediamenti dei fedeli di Lena, ma Nuova Cadolia rimane inespugnabile, protetta forse da entità che vanno oltre la mia comprensione. Sempre a carponi ci riportiamo a distanza di sicurezza, protetti dal folto della vegetazione. «Come intendi agire?» chiedo a Zitara, lasciandole implicitamente il comando. È lei l’assassina, è il suo mestiere agire nell’ombra. «Osserveremo, anzitutto. Appena apriranno i cancelli riusciremo a vedere meglio come è strutturato l'interno e capiremo che viavai c'è nel corso della giornata. Se si presenterà l'occasione la sfrutteremo, altrimenti ci introdurremo di notte.» «Aspettare dunque? Tutto qui?» «E cosa vorresti fare?» mi risponde arrogante. «Scagliare un dardo duwan per aprire un varco e crearci un diversivo per poi penetrare?» Mentre parla la donna fa dei gesti volgari, mimando ben altro tipo di penetrazioni.

«Credi che così non li metteremo in guardia? Così agirebbe quel demente di Deifobo! No, Yorik, noi agiremo con la raffinatezza che mi compete e scopriremo tutto quello che ci interessa sapere, fidati.» L'immobilità di Morte mi fa capire il suo assenso, quindi ci mettiamo comodi, in attesa degli eventi.

Il fumo emesso dai camini delle stamberghe riempie presto l'aria, indicandoci che gli abitanti del villaggio si sono svegliati. Non ci vuole molto perché i rumori della vita quotidiana giungano sino a noi. È strano come quei suoni familiari mi turbino, ora che mi sono abituato al silenzio della giungla e ai lamenti dei morenti. Alla luce del sole quel centro abitato ha assunto un aspetto ben diverso. La collina sulla quale siamo ci consente di abbracciarlo per intero: chiuso su un lato dal mare, ha i rimanenti protetti da alte palizzate e torrette. Quello che ci era sfuggito stanotte è la dimensione dell'abitato, del tutto considerevole: un villaggio che già ambisce a cittadella, dotato di tutto il necessario per concedersi il lusso di distaccare parte della popolazione per creare nuove colonie. «Non credevo fosse così grande.» ammetto. «Meglio così, forse riusciremo a are inosservati. Guarda là, c'è già parecchio movimento.» In quell'istante i cancelli vengano aperti vomitando lunghe colonne di carri sferraglianti. A quattro ruote, massicci e capienti, sono per lo più trainati da buoi. Procedono lentamente su strade appena abbozzate. Alcuni sono invece trascinati a braccia dagli indigeni, che bardati come bestie da soma, iniziano la giornata di fatiche. Le vesti bianche, gli immacolati come li ha chiamati il Templare Palwen, li

prendono a scudisciate come in presenza di somari riottosi non appena questi accennano a rallentare l'andatura. Gli ometti non reagiscono e la cosa mi lascia sconcertato. Quelli che abbiamo conosciuto sin ora sono combattivi, al limite della ferocia. Questi invece appaiono bestie addomesticate. I guardiani sono pochi se paragonati al loro gran numero e neppure bene armati. Sopra le tuniche bianche portano corpetti di cuoio trasandati, ed elmetti del medesimo materiale, almeno quelli che non hanno alzato il cappuccio bianco a celare volto e testa. La maggior parte è priva di scudo e le uniche armi che vedo sono delle lance, oltre alle fruste che continuano a sibilare sulle schiene dei mezzuomini. Noto solo un paio di quelli che, in base alla gerarchia e descrizione fornitami dal Duca, devono essere dei Cavalieri della Concordia. Su imponenti cavalli da guerra capeggiano la colonna rinchiusi nelle loro armature complete, candide come la neve. Spadoni a due mani pendono al loro fianco e scudi a mandorla sono legati sulle loro schiene. Uno dei due ha un elmo a forma di testa di cane, mentre l’altro un classico elmo a bocca di rana. Balestre composite e faretre completano un discreto arsenale. Procedono arroganti e impettiti, non degnando neppure di uno sguardo gli ometti che li seguono. Molti di questi sono ammassati all'interno dei carri scoperti, certamente per preservarne l'energia per il duro lavoro che li aspetta. «Ecco» mi desta Zitara «quando stasera faranno ritorno potremmo nasconderci all'interno di uno di quelli o semplicemente sostituirci ad alcune delle guardie.» «Lascio a te la scelta, mia Signora.» le rispondo facendo un inchino. «Bravo, ragazzo, meglio affidarsi a chi ne capisce.» dice lei seria, tornando a osservare la colonna in movimento.

«Hai visto che in quell'accozzaglia di ometti ci sono anche dei castigamatti?» La donna mi guarda, senza capire. «Non tutti i mezzuomini sono schiavi, pare che alcuni siano schiavisti. Osserva quelli con la fascia bianca in fronte.» Zitara torna sulla scena. «Hai ragione, bravo ragazzo. Ti meriteresti la tua prima scopata, ma io sono una signora come ben sai.» Avvampo, mentre Morte si allontana spazientito. «Quindi alcuni di quei mostriciattoli collaborano con gli aguzzini della loro stessa gente. Interessante. Rovers sarà lieto di saperlo. Chissà quali altre scoperte riusciremo a fare là dentro.»

L'intera giornata trascorre nella quiete più totale, tralasciando l'arrivo di una delle navi di cristallo che tanto terrorizzano i guerrieri di Kiquathu. Ci siamo accorti della comparsa del vascello solo quando questo era già prossimo al porto di Nuova Cadolia e siamo riusciti a scorgerne i movimenti per pochi istanti prima che gettasse l’ancora. Lo scafo trasparente, brillante sotto la luce del sole alto nel cielo e l’incedere elegante, ci hanno colpito, indubbiamente, ma tra questo e arrivare a definire quelle imbarcazioni opera di demoni ce ne vuole. Solo prima di mezzogiorno e prima del tramonto, un richiamo proveniente dal centro dell'abitato ha destato il nostro riposo. Una voce di donna, acuta, seguita dal suono fesso di una campana. Una sorta di convocazione alla preghiera suppongo, poiché subito dopo un cantico lontano è giunto sino a noi portato dal vento. In quei momenti Morte mi è parso ridestarsi dai suoi demoni interiori e focalizzare la propria attenzione sulla colonia, esplorandone con la mente ogni

anfratto e forse ben oltre, ogni varco verso altre realtà. Anche la nave ormeggiata al largo nella baia è stata oggetto di una sua attenta analisi, me ne sono accorto bene, ma lui non ci ha voluto trasmettere nulla. Si è limitato a una smorfia che solo io ho colto, e che per la sua abituale flemma è quasi paragonabile alla comparsa di una cometa in cielo. Comunque i miei rudimenti nelle arti elementali non mi hanno concesso alcuna avvisaglia. Eppure sono convinto che un influsso divino fosse coinvolto nelle liturgie che abbiamo udito, così come che una forza mistica si celasse nello scafo trasparente del veliero. Se si trattasse o meno della Dea della Pace, questo non spetta a me giudicarlo. Ci sarebbe voluto il Duca, lui sarebbe stato ben lieto di erudirci in merito alle doti della sua paladina. «Forzo, andiamo, stanno tornando i nostri amichetti.» ghigna all’improvviso l'assassina osservando i carri che procedono lenti attraverso la vegetazione a meno di venti metri da dove siamo nascosti. Ci muoviamo in silenzio verso la schiera. Gli unici ad apparire ancora in forze sono i due Cavalieri della Concordia. Tutti gli altri, castigamatti, immacolati e indigeni, procedono a stento, le schiene curve, piegate dalla fatica. La smorfia della donna si allarga in un sorriso che mostra la chiostra di denti bianchissimi: a chiudere la lunga teoria di carri stracolmi di mercanzie ci sono tre vesti bianche. Innanzi a loro procedono con o stanco due dozzine di mezzuomini, in catene. Trascinano i piedi e incespicano, quasi dormissero in piedi. Molti di loro sono segnati da profonde ferite brulicanti di insetti. Solchi scavati nelle carni dalle sferze dei loro aguzzini divenuti nidi perfetti per parassiti famelici. Quasi fossero già cadaveri, gli ometti non si prendono neppure la briga di scacciarli, o forse semplicemente non ne hanno più le forze.

I tre guardiani chiudono la fila, maggiormente attenti che le pietre preziose che trasportano sul carro non cadano accidentalmente, piuttosto che a sorvegliare gli ometti o eventuali pericoli esterni. Sanno di essere quasi a casa, al sicuro… «Andiamo.» bisbiglia Zitara estraendo il pugnale. «Sarà un giochetto, oltre che un piacere.»

«Che vi avevo detto.» sorride la donna calando il cappuccio bianco che ne aveva celato i bei lineamenti, i corti capelli biondi appiattiti sulla fronte dal sudore. «E ora?» le chiedo. Siamo riusciti a penetrare nel villaggio, ma presto i fedeli di Lena si renderanno conto che mancano tre guardie all'appello. Zitara ripulisce il sangue dal coltello sull'interno della tunica che ha sottratto alla propria vittima. «Andiamo a cercare l'alloggio della badessa, la cagna di Lena.» Non ha rispetto per nessuno, dannazione, scherzare così con i ministri di una Dea può risultare pericoloso. «Forza, abbiamo ancora un’ora di luce.» La seguo in un vicoletto affiancato da Morte. Da quando siamo entrati nel borgo l'ex Domatore di Demoni non fa altro che guardarsi attorno, come se vedesse ombre in ogni anfratto. Ombre che non riesce a governare, evidentemente. Incontriamo pochi uomini in giro, tutti impegnati nelle proprie faccende: rapidi saluti beneaguranti e ognuno per la sua strada. Ammantati dalle nostre vesti bianche non destiamo alcun sospetto. Almeno per ora.

Viste da vicino le casupole sono ben costruite: tutte identiche l’una all’altra, integralmente in legno. Ora mi è chiaro che fine abbiano fatto tutte le piante sradicate nel raggio di duecento metri. Questo posto ospiterà almeno mezzo migliaio di vesti bianche e dieci volte tanti mezzuomini. eggiando per una stradina laterale abbiamo visto un capanno dove venivano condotti gli ometti, a centinaia, stipati a forza nella costruzione come le bestie che sono. Zitara si ferma di colpo: un tramestio alle nostre spalle. Intuisco che sta estraendo il pugnale, le mani che armeggiano sotto la tunica bianca. Ci fermiamo e dietro di noi compare un immacolato che corre a perdifiato, paonazzo in volto. Non è armato. Faccio un cenno a Zitara, intimandole di star calma. «Anche voi in ritardo, fratelli?» afferma l'uomo senza interrompere la propria corsa. Appena questo sparisce all'orizzonte, l’assassina dà corpo alla nostra domanda. «Dove diamine corre quel folle?» «Seguiamolo.» propongo e subito ci incamminiamo. Non facciamo neanche cento i che un brusio confuso, poco oltre l'incrocio innanzi a noi ci costringe a fermarci. Lentamente ci affacciamo, mentre dalle casupole giungono le prime luci dei camini accesi. Il sole tramonta all'orizzonte e la notte presto ci fornirà copertura. Il brusio, intanto, si trasforma nella voce suadente di una donna. Innanzi a noi si apre uno slargo gremito di fedeli.

Deve trattarsi della piazza antistante il palazzo della Sorella di Lena, Agape, perché la costruzione che si staglia sul lato opposto è maestosa rispetto alle capanne che abbiamo visto sinora. Avanziamo, mescolandoci alla calca. È una sorta di comizio travestito da cerimonia. Da un balcone della costruzione di tre piani, una donna dai capelli bianchi arringa la folla. È giovane a dispetto del colore della chioma e bellissima. Non stento a credere che i mezzuomini l'abbiano creduta una Dea. Morte mi rifila una gomitata, accorgendosi che stavo per abbassare il cappuccio per vederla meglio. La malia della donna è fortissima, pare risplendere in risposta al calar del sole. «Un altro giorno volge al termine.» canta questa. «Un’altra giornata proficua, fratelli miei. Questa notte offrirò a Lena i frutti di questa terra. La sua manna si spargerà su di voi. Tornate alle vostre dimore e pregate, pregate per la Pace!» A dispetto delle parole rassicuranti e docili, il tono della donna suona alle mie orecchie falso. È evidente il suo sforzo di elargire calma, quiete e benevolenza, ma a uno sguardo più attento la figura mi pare trattenere a stento un potere che esula dalla Pace di Lena. Forse è solo una mia impressione ma anche Zitara e Morte si guardano attorno quasi a chiedersi se la folla raccolta sotto il palco costituito dalla balconata della costruzione sia forse instupidita da qualche arcano che la renda incapace di comprendere la falsità insita in quella donna. Con cenni aggraziati la Sorella di Lena invita i fedeli a sciogliere la riunione, a tornare ai propri focolai e così questi fanno, ubbidienti e docili come il loro nuovo credo imporrebbe. Eppure, ho visto i loro volti mentre frustavano gli indigeni. In quei momenti dov’è la quiete e la pace che tanto professano?

Ci allontaniamo anche noi, dirigendoci verso un vicoletto laterale che ci concede una buona visuale sul palazzo di Agape. La notte è calata all’improvviso ammantando la cittadella. «Dobbiamo trovare il modo di entrare.» affermo. «Hai visto le guardie al portone, Yorik?» mi chiede Zitara, sottovalutandomi come al solito. «Un Cavaliere e quattro immacolati armati di lance.» «Già, ben poca cosa, ma non vorrei entrare dalla porta principale.» La donna si volta verso Morte, in attesa che questo ci offra le sue stregonerie. L’ex Domatore di Demoni però non stacca gli occhi dal pulpito dove si trova Agape. La donna sta confabulando con un altro Cavaliere, sembrano in disaccordo su qualcosa, ma alla fine il guerriero china il capo, rassegnato. «Allora, credi di poterci aiutare?» fa la donna rivolta a Morte. Ha coraggio, nulla da dire. Come svegliato da un sonno profondo, questo la fissa con i suoi occhi perennemente iniettati di sangue. Zitara fa un o indietro istintivamente, poi si riprende. «Credi di poterli addormentare?» Uccidere all’istante, sicuramente. Addormentare, forse, chissà… Il Domatore annuisce. «Perfetto allora, appena messi a nanna, scaleremo le mura e ci porteremo sul tetto. I rampini li avete?» «Certo, per chi ci hai preso?»

Lasciamo che ino le ore, il cielo stellato che si copre di una coltre di nubi. Infine Morte ci dà il via, iniziando il rito blasfemo. Stiamo per avvicinarci quando un rumore proveniente dall’uscio del palazzo ci immobilizza. Morte si interrompe, le serpi tatuate che spuntano del collo si placano all’istante, il fumo che ne aveva ammantato la figura si disperde. Il portale viene spalancato e un piccolo gruppo di persone esce alla chetichella: una sagoma avvolta in un saio bianco su un cavallo del medesimo colore, scortata da una dozzina di mezzuomini con le fasce bianche in testa. Il Cavaliere della Concordia di guardia intima l’alt alla figura, la quale stizzita cala per un istante il cappuccio della mantella che ne copre i lineamenti. L’espressione del soldato volge a meraviglia, mentre si esibisce in un profondo inchino. «Dove diamine va quella bagascia, nel cuore della notte?» sbotta Zitara riconoscendo nella donna a cavallo Agape. «E soprattutto come mai a farle da scorta ha un branco di mezzuomini?» aggiungo io.

XVIII. Quarto dell’Aria – Polina in fin di vita

Da giorni il Maggiore Firion e il grosso dei suoi uomini erano accampati in una stretta vallata chiusa da alte montagne. Il campo sorgeva fra boschi inospitali e tetri, per lo più disabitati. Era il posto perfetto per riorganizzarsi e attendere che le acque si placassero. Avevano dismesso le uniformi e bandito ogni formalismo militare. All'apparenza almeno. Si erano lasciati alle spalle uno scontro furioso e gli esploratori che il Maggiore aveva inviato dopo qualche giorno in quella direzione, gli avevano confermato quello che temeva: il Colonnello Ramelon si era trincerato su Capo Tempesta approfittando dell'occasione concessa dalla ritirata precipitosa del nemico per consolidare la posizione. Avrebbe dovuto retrocedere una volta che Firion e il suo contingente si fossero infiltrati nella Steppa dei Patiboli, quelli erano gli ordini, invece il borioso Colonnello non aveva potuto resistere, ed era andato in cerca di gloria. L’azzardo di Ramelon non avrebbe favorito la sua missione, pensò Firion. Quella mossa avrebbe attirato in zona molte tribù dell'Aria, tuttavia se Qilana era decisa a combattere al loro fianco, un altro fronte da gestire sarebbe stato un problema per le genti del Quarto dell'Aria. Il Generale Roiyo stava impegnando diverse Tribù nell'Isola Baronia di Massenz e altri focolai di scontri, anche se minori, erano presenti praticamente lungo tutti i confini dei due Quarti. Ne sapeva qualcosa il Colonnello Liutana che era costretto a spostare la Brigata di Roskeim lungo tutto il confine in una spola snervante. Questo nuovo fronte, per giunta aperto nel Quarto dell’Aria stesso, avrebbe potuto determinare una svolta in quella guerra interminabile, se ben gestito.

Il problema era che Firion non aveva alcuna stima sull’acume tattico di Ramelon ed era certo che la mossa di questo fosse dettata da presunzione più che da calcolo strategico. Inoltre se il Colonnello non avesse ottenuto al più presto dei rinforzi da Re Saleon probabilmente non avrebbe retto a lungo e solo gli Dei potevano sapere se e quanto il Re avrebbe ricevuto gli aggiornamenti dal fronte. Ora però il cruccio del Maggiore era un altro. Non poteva alambiccarsi con somme strategie, quando aveva a sua volta una missione da portare a termine. Una missione che si annunciava più difficoltosa del previsto. Ad ampie falcate si portò a ridosso di una tenda presidiata da due guardie. «Cosa mi dite? Come sta?» I due chinarono il capo. Polina non si era più ripresa. L'emorragia da naso e orecchie era cessata, ma la Rabdomante non aveva ripreso conoscenza. «Dannazione.» inveì Firion, maledicendo il fatto di non essersi portato appresso un chierico migliore. «Dov'è quell’alcolizzato di Kolam?» Il guaritore un tempo era stato il migliore dell’intera Isola Feudo. Purtroppo dopo aver perso la figlia a causa di una mistura che le aveva somministrato nel tentativo di curarla, altalenava brillanti successi a disastrose tragedie. Non si era mai perdonato quel presunto errore e quando i demoni del rimorso lo venivano a trovare, li annegava nell’alcol. Dalla tenda sbucò l'uomo in questione. «Maggiore.» salutò questo grattandosi la barbetta.

«Possibile che non ci siano miglioramenti?» lo accolse furioso Firion. Il chierico scosse il capo. «È giù un miracolo che respiri ancora… ho fatto tutto il possibile. Per avere qualche speranza servono ingredienti che non ho, e non posso certo procurarmi in questo dannato posto!» «Sempre la scusa pronta, certo…» lo redarguì il Maggiore soffermandosi a riflettere. «E dove si potrebbero trovare queste sostanze miracolose di cui vai cianciando?» Il chierico, estratta una fiaschetta d'argento, ingollò una lunga sorsata. Appena ripreso fiato rispose con sgarbo. «In qualsiasi mercato, di qualsiasi città… non certo in queste lande selvagge.» La città più vicina era Aelissa. Distava una trentina di miglia, non sarebbe stato un problema inviare qualcuno a procurare il necessario, ma gli scout avevano riferito al Maggiore che nella città era in corso una sommossa. Non sarebbe stato prudente inviare un singolo uomo, meglio un plotone, tanto per stare sicuri. «Preparami un elenco allora, immediatamente.» Kolam l'osservò stranito. «Un elenco, Maggiore? Alla donna non restano che un paio di giorni di vita, al massimo. Non mangia, e soprattutto non beve da quando ha perso conoscenza. Morirà prima che qualcuno abbia trovato gli ingredienti e sia tornato.» Firion lo artigliò per il bavero del pastrano attirandolo a sé fino a sentire il puzzo di vernacce del suo alito. «Quindi cosa dovremo fare, chierico dei miei stivali?» L'uomo si divincolò, riuscendo a liberarsi solo quando l'ufficiale decise di lasciarlo andare.

«Dobbiamo portarla alla più vicina città, subito, e sperare di trovare tutto il necessario.» Il Maggiore ci pensò un attimo. Non poteva permettersi di perdere la Rabdomante, non ancor prima che la missione avesse inizio. Le possibilità di successo senza la studiosa degli elementi precipitavano. Il rischio di cadere in qualche trappola orchestrata dai Maestri dell’Aria senza la protezione della donna sarebbe stato elevatissimo. «D'accordo allora. Tu, cerca Tilmon e digli di preparare gli uomini. Smontiamo il campo e ci apprestiamo a muovere verso Aelissa.» Il soldato a guardia della tenda di Polina scattò sull'attenti, dimentico che i formalismi erano stati banditi, dopodiché corse ad eseguire l'ordine. Firion avrebbe dovuto modificare i piani. Come sempre accade in guerra, riflettè con amarezza. A Forte Titano tutto era più semplice. Tutto poteva essere pianificato nei minimi dettagli. Si chiese se il lungo periodo distante dal vivo dell’azione non l’avesse arrugginito, ma quel pensiero durò un solo istante. La ricerca di Qilana avrebbe dovuto attendere, ora dovevano salvare Polina.

Marciarono spediti senza incontrare nemici per quelle lande brulle e inospitali. Nessun campo coltivato, poche e sperdute stamberghe abitate da gente scheletrica e cadaveri sparsi su quelle che, anticamente, dovevano essere strade principali e che, ora, erano poco più che sentieri invasi dalla vegetazione. Nulla di diverso dalla Baronia di Dibrjs in concreto. La guerra aveva colpito duramente anche questa terra. Gli esploratori che Firion aveva mandato in ogni direzione gli avevano comunicato di aver incontrato una Tribù di Guerrieri in fuga, più a nord, con

bizzarri vessilli ritraenti dei serpenti alati, così il Maggiore e la colonna di cavalleria avevano piegato in direzione opposta, preferendo allungare la strada piuttosto che incrociare le lame con i rivali. Non era ancora il momento. Aelissa era nelle mani degli insorti, così gli avevano confermato gli scout di ritorno da quella città. La speranza di Firion era che la furia del popolino avesse lasciato indenne almeno l'erboristeria. Sapeva che in quei casi non erano certo le spezie il primo pensiero degli insorti: forni, mulini e magazzini erano certamente bersagli privilegiati. Il Maggiore portò il cavallo a fianco a quello del chierico. «Credi che resisterà fino a domani?» Kolam, paonazzo in volto, distolse lo sguardo. «Dannazione, rispondimi!» L'uomo sollevò occhi acquosi. «Dipende dalla sua tempra, Maggiore.» Firion sospirò. Mai che si riuscisse ad avere qualche certezza da un chierico. Certo sotto sotto la risposta lo aveva parzialmente tranquillizzato: la donna aveva un temperamento focoso, uno spirito forte, e l’ufficiale confidava che altrettanto vigoroso risultasse il fisico. Le lanciò un’occhiata prolungata. A vederla così placida, coricata sulla lettiga trascinata dal suo cavallo, era quasi irriconoscibile, ma ugualmente bella. I lunghi capelli rossi, i cui riccioli cadevano dolcemente lungo le guance diafane, parevano meno ribelli del solito conferendole un'aura di quiete che certo in condizioni normali le era del tutto estranea.

Non sembrava soffrire, anche se alla fine, rifletté Firion, neanche un cadavere soffre. Allontanò quei pensieri, convincendosi che l’unico motivo per cui faceva tutto quello era solo per l’importanza strategica rivestita della donna, anche se il suo cuore lanciava segnali ben differenti. Non poteva nascondersi l’attrazione provata per quella Rabdomante testarda, ma il senso del dovere l’obbligava a convincersi di operare per il bene del Quarto dell’Acqua e non per i propri sentimenti. Inoltre quella donna era capace di esasperarlo e lui non avrebbe mai accettato di averla al proprio fianco anche quando non era in servizio. Almeno lo riteneva altamente improbabile…

Alle prime luci dell'alba giunsero da sud in vista di Aelissa. Una macchia boschiva aveva concesso loro di avvicinarsi senza essere scorti, o almeno questo era l’intendimento del Maggiore. A giudicare dal caos che doveva regnare in città, era probabile che gli abitanti fossero impegnati in altro. Interi quartieri infatti erano andati in fiamme e flebili rivoli di fumo si innalzavano ancora da alcune abitazioni. Nessuno venne loro incontro, indice che la furia del popolino si doveva essere placata e che ora contadini, artigiani e nullafacenti stavano riflettendo sulla portata delle proprie azioni. «Rimarrete qui con il resto degli uomini. Non voglio scatenare un conflitto con quegli straccioni. Io e un plotone scorteremo Kolam a cercare ciò che ci serve.» ordinò Firion al tenente Tilmon. «Stia attento, Signore. Non c'è da fidarsi delle genti dell'Aria.» rispose il giovane ufficiale con disprezzo. «Non ci daranno alcun disturbo. Piuttosto invia delle sentinelle a presidiare tutte le vie d'accesso alla città. Non vorrei che a qualche Tribù dell’Aria saltasse in testa di riprendersi l'abitato mentre noi siamo ancora lì.» «Agli ordini, Maggiore.»

Firion scelse gli uomini da portarsi appresso e si mise in marcia, i cavalli che procedevano al trotto per la terra ancora macchiata dal sangue della rivolta.

Le vie di Aelissa erano deserte, ad esclusione dei cadaveri che comparivano ad ogni angolo delle strade, mostrando appieno tutta la violenza che si era scatenata in quel borgo. I Guerrieri dell’Aria, con le caratteristiche armature leggere infarcite di ninnoli e piume eccentriche, giacevano al suolo in posizioni scomposte, martoriati dal popolino che per brevi istanti doveva essersi mutato in un’orda di belve dalla furia primordiale. Dalle poche finestre non sprangate facevano capolino volti smunti, afflitti. I cittadini di Aelissa dovevano essere ancora sazi del massacro perpetrato, forse alcuni se ne erano già pentiti. Il silenzio era rotto solo dal nitrire dei cavalli che avanzavano nervosi, infastiditi dall’odore del sangue che ancora impregnava l’aria. «Più che una città liberata, sembra un cimitero.» sentì Firion mormorare ad un soldato alle proprie spalle. In effetti aveva ragione. La Dea della Pace che aveva ispirato quelle ribellioni sembrava averne perso il controllo. Quel massacro appariva più adatto al Dio della guerra Astor eppure, in lontananza un vessillo bianco con il volto di fanciulla ricamato in argento sventolava su un edificio di due piani. Il blasone contraddistingueva i fedeli di Lena, anche se una Q maiuscola era posta sotto il volto della Dea. Era un simbolo che Firion non conosceva ma che ricondusse a un vezzo forse imposto da Qilana per contraddistinguere il proprio operato.

La costruzione dove era stato issato, posta a lato dell'incrocio delle vie principali del borgo, doveva essere stata una locanda. Ora forse era il quartier generale dei capi dei rivoltosi. Per quanto quelle sollevazioni di popolo fossero sempre descritte come spontanee e condivise, Firion sapeva che non poteva esserci sommossa senza che ci fossero dei capibastone a orchestrare le masse. Gli stessi che poi avrebbero tratto i maggiori benefici. Ritenne che sarebbe stato meglio chiarire le loro intenzioni, prima di proseguire. Non voleva problemi, solo le erbe necessarie a Polina. Pur conscio che ogni minuto era prezioso, non poteva correre rischi. Si avvicinò alla costruzione da solo. «Salve.» urlò, certo che dietro quelle finestre sprangate si celasse qualcuno. «Siamo in cerca di medicine, per curare i nostri feriti. Non temete, non apparteniamo ad alcuna fazione. Siamo come voi, gente libera.» Attese, finchè dal portone principale non fuoriuscì una mezza dozzina di uomini: macilenti e scarmigliati, indossavano tutti una semplice tunica bianca. Le uniche armi visibili erano lance e forconi. Sembravano impauriti alla vista del plotone di cavalieri. Firion era certo si trattasse degli immacolati, i fedeli di Lena, la base della sua rivolta. Non potevano certo esserne i capi. Forse questi si erano già trasferiti altrove, per fomentare nuove insurrezioni. «Se non siete soldati, allora chi siete? Anche se non avete uniformi, il vostro incedere non lascia dubbi. Non prendeteci per stolti.» La voce cristallina proveniva dall’abitazione e apparteneva a una giovane donna. Poco dopo, dall’ombra dell’uscio emerse una ragazza. Firion stimò avesse sui quindici anni. Minuta nei lineamenti, ma decisa nei modi. Una cascata di ricci neri come il giaietto le incorniciava un viso dai lineamenti delicati. La pelle era bianca come la tunica che indossava.

Gli immacolati abbassarono gli sguardi con deferenza, quasi fossero al cospetto di una Regina. «Siamo uomini liberi, ragazza, come voi.» ribadì il Maggiore. La giovane gli stava venendo incontro, senza timore. Firion avvertì un formicolio, mentre il suo stallone si agitava, le froge che si contraevano bruscamente. Prudente, portò la mano all’elsa della sciabola. «Voi non siete gente del Quarto dell’Aria. Non cercate di negarlo.» La mano della giovane si pose sul muso del cavallo di Firion e prese a carezzarlo. Lo stallone si calmò all’istante mentre il Maggiore si perdeva negli occhi chiari della giovane: azzurro ghiaccio, trabordanti quiete. «Voi siete Qilana, la pura…» disse l’ufficiale colto da un senso di vertigine improvviso. La ragazza l’osservò con aria contrita. «Giusto, e voi siete in pena per una persona cara ed io posso aiutarvi.» Attratto da un magnetismo irresistibile, Firion accolse la mano che la giovane gli porgeva. «Dobbiamo fare presto, per salvare la Rabdomante.» disse la fanciulla con dolcezza.

XIX. Nuovo Quarto – Il Patriarca e il Tempio

«Dove diamine staranno andando quelli, nel cuore della notte?» sbuffa Zitara. Per poco non li abbiamo persi. Non era vero quindi che le porte della cittadella venivano sigillate al calar del sole. Non almeno per la Sorella di Lena. Le guardie ad un’uscita secondaria non avevano fatto storie. ubbidendo ad Agape, non appena l'avevano riconosciuta, lasciandola uscire dalle mura della città per avventurarsi nei meandri della giungla, senza problemi. A noi invece è toccato scavalcare la palizzata, aspettando il momento propizio per eludere la sorveglianza degli immacolati. Fortunatamente non è stato necessario accoppare nessuno. Abbiamo perso tempo, ma il gruppetto costituito dalla sacerdotessa ed i mezzuomini non pare temere sorprese. Avanzano torce alla mano, sicuri che non ci siano pericoli in agguato, se non quelli costituiti dalle belve che abitano in questa giungla maledetta. «Yorik, ti ho fatto una domanda. Non sei tu quello che sa sempre tutto?» «No… quello è Deifobo.» rispondo ghignando. «Già, lui avrebbe proposto di sistemare la questione con un dardo duwan e tanti saluti alla potente Agape.» È vero. Invece a noi servono informazioni. Procediamo tenendoci appena oltre il chiarore delle loro torce. Non sappiamo quanto siano abili i mezzuomini che si è portata appresso la gerarca della Chiesa

di Lena. Per fortuna la luce penetra in quell'intreccio di mangrovie e rovi consentendoci di non perderli di vista pur a distanza di sicurezza. Intorno a noi c'è solo il rumore dei predatori a caccia e il ronzare infinito degli insetti. Marciamo per una mezz’ora abbondante, in silenzio. All'improvviso sento il sibilo di una lama estratta dal fodero, poi il rumore di foglie smosse e Zitara che scatta. Non faccio a tempo a impugnare la spada bastarda e a voltarmi che tutto si è gia concluso. Morte e la donna puntano le armi al collo delle guide forniteci da Kiquathu. Gli ometti devono averci raggiunto. «Che vi salta in mente? Volevate farvi ammazzare?» impreca sottovoce Zitara. «Anzi, quasi quasi la gola ve la taglio lo stesso.» li minaccia infuriata. Gli ometti non fanno una piega, limitandosi ad indicare il gruppo di Agape che si allontana nelle tenebre. «Lascia perdere.» dico all’assassina prima che la sua rabbia ci faccia perdere di vista l’obbiettivo. La donna pare accettare le priorità e torniamo al nostro inseguimento.

Non facciamo molta strada. I nostri due accompagnatori si bloccano di colpo. Davanti a noi, anche il gruppo della Sorella di Lena pare aver rallentato. I nostri mezzuomini, finito di gesticolare fra loro, iniziano a strattonarci, tirandoci indietro e facendoci capire che non è il caso di andare oltre.

«Che gli prende a questi?» borbotta Zitara divincolandosi e strappandosi di dosso le mani degli ometti. Avanziamo di qualche metro e scopriamo che Agape è arrivata a destinazione: la vegetazione si dirada e riusciamo a intravvedere l'immensa sagoma di una costruzione avvolta dalle tenebre. Sono sufficienti i tratti illuminati dalle torce della paladina di Lena a farci comprendere che siamo davanti a un immenso ziggurat. Ora i nostri accompagnatori sono decisamente agitati. Provano ancora a strattonarci. Mi divincolo da quello che tenta di fermarmi sferrandogli una gomitata. «Dea.» sbrodola l'altro, faticando a pronunciare quella singola parola, il braccio tozzo che indica la piramide a gradoni. «D'accordo, d'accordo, si tratta di un tempio dedicato alla vostra vecchia dea? E allora?» Negli occhi dei due leggo paura. Pura e semplice, il sentimento più antico per ogni essere umano o mezzo umano come questi reietti. «Guarda, la sgualdrina sta entrando proprio là dentro.» Zitara mi sollecita vedendomi titubare. «Andiamo, allora.» Ci incamminiamo, i due ometti che ci guardano con occhi bovini, come fossimo usciti di senno. Dopo poco si voltano e se la danno a gambe levate senza neppure prendersi la briga di limitare i rumori della loro fuga. Travolgono alberi e arbusti, mulinando le gambette come avessero una tigre alle costole. «Cacasotto.» li apostrofa l’assassina.

Non ci sono guardie ma questo posto è capace di mettere apprensione, come se l'aria stessa acquistasse peso e gravasse sulle nostre spalle. Avanziamo in corridoi scavati nella pietra, armi in pugno. La vegetazione non ha rispetto neppure per questo sacrario a giudicare dalle piante rampicanti che si incuneano fin dentro questi budelli. Alcune liane paiono muoversi al nostro aggio come animate di volontà propria, desiderose di ghermirci. Anche Morte me le indica facendomi abbandonare il sospetto di essere ammattito. Il muschio cresce rigoglioso ricoprendo gran parte delle pareti e contribuendo ad aumentare ancor più il senso di claustrofobia. L’umidità è come sempre una barriera quasi solida, che a fatica ci concede di respirare. La sensazione di pericolo comunque deriva da altro. Il Senzalingua fiuta l'aria, attento a ciò che per noi risulta invisibile: che siano demoni o divinità, lui è il solo in grado di concederci qualche possibilità di fuga, se le cose si mettessero male. Anche Zitara è tesa. I sensi dell'assassina sono sopraffini. Se ci fosse qualche movimento sospetto dovrebbe essere la prima ad accorgersene. Sa fare bene il proprio lavoro, per quanto l'eccessiva arroganza alle volte le faccia sottovalutare il nemico. A distanze irregolari dei bracieri ci concedono il lusso di un po' di luce, anche se oramai avanziamo guidati solo dall'eco di una voce lontana e distorta. Il tempio non è abbandonato, a meno che non si tratti di uno dei mezzuomini che accompagna Agape, ma dal tono stentoreo ne dubito fortemente. Li abbiamo persi appena svoltato in una galleria. Al bivio devono aver preso l'altra strada, immagino. D’altronde non potevamo avvicinarci di più. A giudicare dall'acustica e dal rimbombo, la voce deve provenire da una stanza

di notevoli dimensioni e oramai non troppo distante. È buio pesto. Ora è Morte a guidarci, quasi per mano. Lui non teme l'oscurità che ci avvolge completamente. Non camminiamo più, ci spostiamo carponi, cercando di mantenerci nascosti da mostri invisibili. Ci mancava anche la Dea Madre dei mezzuomini, dannazione, non bastava il culto della Dea della Pace! All'improvviso, in lontananza scorgiamo un bagliore, quasi il tunnel finisse con il gettarsi in una fornace. Sale e scende d’intensità come la fiamma di una forgia. Strisciando giungiamo alla meta. In realtà si tratta di una sorta di arco, una finestra che dà su un androne di ampie dimensioni, blandamente illuminato da torce appese alla parete. Uno stanzone a cupola dal diametro impossibile da decifrare. Grande comunque. Deve essere il cuore del Tempio, il sancta sanctorum di una divinità che non conosco e che avrei fatto volentieri a meno di incontrare. Sul lato opposto al nostro spicca una statua antropomorfa dai lineamenti ben cesellati: un uomo con ali di corvo e occhi di brace. Enorme, va dal pavimento al soffitto. Le ombre baluginanti gettate dalle torce e dai bracieri lo fanno sembrare sul punto di prender vita. È di diversa fattura rispetto al resto del tempio, ben più rozzo e approssimativo. Non ci vuole un esperto d’arte per accorgersene. La voce che ci ha guidati è ora ammutolita. In silenzio osserviamo per alcuni momenti, finchè la nostra pazienza viene premiata: qualche metro sotto di noi compare la delegazione guidata da Agape.

La donna ha dismesso la lunga mantella bianca e indossa una corta veste rossa, che ne mette in risalto le gambe affusolate e la carnagione lattea. «Patriarca, sono giunta al vostro cospetto in cerca della luce.» Afferma, muovendosi con o solenne verso il centro dell'androne. «E la luce è ciò che riceverai.» risponde una figura che ci dà le spalle, appollaiata su una balconata scavata nella roccia a una decina di metri d'altezza. Non l'avevo notata prima, immobile com'era, nella penombra. Due bracieri immensi ardono improvvisamente ai suoi fianchi, tuttavia non riesco a individuarne i lineamenti. La Sorella di Lena si inginocchia mentre la dozzina di mezzuomini si dispone in modo da formare una stella a sei punte, che la circonda e la ingloba. La voce di Agape pare ora incrinata da una nota di apprensione. «È quindi giunto il momento, Maestro?» A quelle parole vedo Morte, al mio fianco, vacillare. «I Demoni nascono dalla mente degli uomini, Sorella. Non temere per il corpo, ma per la mente. Ora vieni a me!» La sorella di Lena si alza, accompagnata dai mezzuomini e si porta su una sporgenza di pietra alla base dell'immensa statua antropomorfa. Un urlo proveniente dal vuoto pare animare la roccia. È una voce di donna, ma priva delle caratteristiche che la potrebbero rendere gradevole: alti e bassi che si alternano in modo irrazionale, originando una cacofonia di suoni incomprensibili. Gli ometti che circondando Agape fanno un rapido inchino, forse ad accogliere l'arrivo della loro Dea. La roccia si anima. Un pontile viene innalzato parodiando l'erezione di un fallo enorme, sollevando

Agape e i mezzuomini. Quando il membro marmoreo della statua giunge all'altezza del balcone dove è posto il Patriarca, questo si volta. I suoi occhi sono tizzoni incandescenti, capaci di scalfire le tenebre circostanti. Certo ora è ammantato di un saio rosso fuoco e si fa chiamare Patriarca, ma quello sguardo non l’ho dimenticato. Nonostante la distanza che ci separa ne sono certo. Quello che Agape ha chiamato Patriarca altri non è che quel bastardo del Traghettatore dei Mondi! Mi volto e leggo nei volti dei miei compagni lo stesso convincimento. «Rendiamo grazia alla Dea Madre, la Regina Nulla che ci ospita nella propria dimora!» urla, e nel mentre Agape si slaccia la veste rossa, mostrando il corpo perfetto, i capelli candidi che fluiscono fino a lambire i glutei, i seni perfetti, sodi e alti a svettare contro ogni legge fisica. La reazione dei suoi accompagnatori è visibile a distanza, le tuniche che si gonfiano all'altezza dell'inguine in modo osceno. «Ecco, Regina, ai tuoi figli è concesso il lauto banchetto!» I dodici mezzuomini avanzano verso la Sorella di Lena. Senza scomporsi questa si sdraia sul freddo granito divaricando le cosce eburnee e sorridendo alla volta del Traghettatore. Ad uno ad uno, gli ometti la possiedono selvaggiamente, emettendo grugniti insopportabili. Il cammino per l'illuminazione è disseminato di dure prove. Una voce cavernosa scuote sin nelle fondamenta la piramide a gradoni. Nulla apprezza il piacere concesso ai propri figli per i loro servigi. Un'ombra densa vortica sopra la scena osservando come il tributo viene colto, coito dopo coito.

La carnalità prevale sul sentimento, la furia sulla pace. La pozza d'oscurità che costituisce la fisicità della Dea Madre Nulla si scaglia ripetutamente sul Patriarca, coinvolgendolo in un turbine amoroso divino che si consuma appieno nella realtà non-ordinaria. Un rito blasfemo fatto di unioni impure. Saziami e il nostro patto verrà mantenuto. Innanzi ai miei occhi la figura del Traghettatore prende le sembianze di un corvo che si innalza in un volo folle, inseguito dall’oscurità che gli ometti hanno per Dea. «Cosa sta succedendo?» riesce a domandare Zitara, rivolta a Morte. Sa che l'unico in grado di percepire tali eventi, di vedere la realtà non-ordinaria, è l'ex Domatore di Demoni. Morte non può rispondere anche se è evidente che non sia estraneo a quella messinscena. Sono riti che lui ha vissuto migliaia di volte, ne sono certo. L'ex Domatore di Demoni pare ridestarsi da un incubo. Colgo nel suo sguardo il balenare della paura e la cosa mi terrorizza. Ci ordina di andare, fuggire da quel sabba al quale non avremmo mai dovuto assistere. I tatuaggi che spuntano dal suo collo, sopra il giustacuore nero, iniziano a muoversi: serpi e fiamme verdi indicano l'inizio dello scatenarsi di un incubo. Non ce lo facciamo ripetere due volte e ci gettiamo nella direzione da cui siamo arrivati, alla cieca. Intrusi! Sento ululare la voce alle nostre spalle, inviperita. Al buio, senza sapere dove i nostri piedi stiano poggiando, corriamo senza guardarci indietro, consci che a dividerci dalle divinità furiose ci siano solo le

malie e i demoni partoriti dalla mente di Morte.

XX. Quarto dell’Aria – Alla guida delle Serpi Volanti

A lungo i guerrieri della Tribù erano rimasti muti. Si erano limitati a seguire Marwan come un branco di lupi segue il giovane capobranco uscito vincitore da uno scontro con il vecchio. A nessuno però era sfuggito che il duello fra Marwan e Karut non ci fosse mai stato. La donna aveva assassinato alle spalle il capo tribù ed agli uomini non era stata lasciata alcuna scelta, nè uno spettacolo sanguinario cui assistere. Era un peccato originario che avrebbe potuto marchiare con infamia la nascita della nuova condottiera e minarne l’autorità. Un evento del genere non era mai accaduto nella Tribù delle Serpi Volanti e solo l'urgenza di fuggire da quella maledetta città divenuta mattatoio, aveva convinto i guerrieri a seguirla verso nord, il più lontano possibile dagli invasati seguaci della Dea della Pace. Presto o tardi il tempo per la resa dei conti sarebbe arrivato e non tutti amavano la giovane e impulsiva guerriera. Marwan ne era consapevole. Il cavallo di Duko si avvicinò a quello della donna. Questa stringeva ancora uno dei coltelli arrossato dal sangue di Karut, come monito per eventuali dissidenti. «Dove credi di andare, donna? È tempo di fermarci.» urlò l'arciere vedendo che la giovane lo ignorava. Marwan sapeva che quell'ometto le avrebbe messo i bastoni fra le ruote, ad ogni occasione. Si erano allontanati a sufficienza da Aelissa la Bella, riflettè. Poteva concedersi il lusso di mettere in chiaro le cose. Sollevò un braccio, ad indicare al folto gruppo di fermarsi. I cavalli schiumanti non esitarono ad obbedire agli ordini impartiti dai padroni.

La giornata era tersa e nonostante il sole stesse per calare, all'orizzonte, a nord della loro posizione si scorgevano alte colonne di fumo: nella Steppa dei Patiboli si stava ancora combattendo. Marwan lo sapeva, ma ora i suoi obbiettivi erano cambiati. Se solo quell'idiota di Karut l'avesse ascoltata a quell'ora sarebbe ancora vivo e la sua furia si starebbe riversando sulle odiate genti del Quarto dell'Acqua. La Tribù delle Serpi Volanti smontò da cavallo. Due centinaia di uomini e nulla più, stimò la donna. Molti dovevano essere morti nelle concitate fasi che li avevano visti recuperare i destrieri e fuggire da quei maledetti immacolati. Duko le si fece incontro, a muso duro. «Dannazione, donna, cosa hai fatto? E ora cosa faremo?» Marwan si limitò a osservare la rabbia dipinta sul volto dell'amichetto di Karut. Un sorriso le increspava le labbra. L'uomo non l'aveva mai presa sul serio, forse ora aveva rivalutato la sua caratura. Duko perse le staffe innanzi al prolungato silenzio della donna e le si fece innanzi, minaccioso, l’ira che divelgeva gli argini. «Lurida puttana, hai ammazzato Karut e abbandonato la tribù di Ardcil in balia di quegli scalmanati. Il Grande Bairo lo verrà a sapere e le Serpi Volanti saranno maledette!» Marwan giocherellava con il coltello e pareva tutt'altro che preoccupata. Divertita, forse. A ben vedere quello stolto non aveva capito la lezione. Un brusio si sollevò fra i ranghi della Tribù che già si divideva in due fazioni. L'idea di essersi trasformati in reietti li scuoteva ben più della perdita del loro capo.

«Mi stai ascoltando, sgualdri…» L'imprecazione di Duko venne recisa, come le morbide carni del suo collo. Il movimento del coltello di Marwan fu rapido ed elegante. Una cascata di sangue dilavò il pettorale azzurro dell'uomo, mentre questo si convinceva di essere morto e rovinava al suolo. Grida di sgomento si sollevarono dalla folla delle Serpi Volanti, ma Marwan fu lesta a tacitarle prima che la sommergessero. I suoi fedelissimi l'avevano attorniata e le facevano da scudo, le armi in pugno. «Ascoltatemi! Andremo a nord e vivremo come sempre hanno vissuto i nostri avi. Razzie e sangue, questo vi prometto. Siamo guerrieri. Forti! A nord impazza una guerra furiosa. Un'occasione d'oro per tutti noi. Ne approfitteremo, lasceremo che si scannino per Re Saleon gli uni e per il Grande Bairo gli altri.» sputò al suolo, come se il solo pronunciare il nome del loro condottiero supremo le desse il voltastomaco. «Penseremo solo a noi stessi e banchetteremo alla faccia loro! Forza, andiamo al villaggio di Sulvon. Lì prenderemo le barche che ci serviranno per andare nel Quarto dell'Acqua.» Tutt'attorno a lei era calato il silenzio. Le due anime delle Serpi Volanti ascoltavano con attenzione le parole della donna, soppesando i pro e i contro. Pareva avesse un piano in mente, cosa che non poteva dirsi per nessun altro di loro. Fu Sabewu, un fedele di Marwan a prendere la parola. «Mia Signora, nel Quarto dell'Acqua?» «Certo.» rispose questa con sguardo complice. «Lasciamo che il Grande Bairo si dimentichi di noi, e intanto siamocela sulle terre dei nostri nemici!» I guerrieri parvero convinti.

Un piano era pur sempre meglio di nessun piano. Rinfoderarono le lame e montarono tutti a cavallo. Marwan regalò loro uno splendido sorriso, indirizzando la colonna verso il paesino di pescatori e lasciando il cadavere di Duko agli avvoltoi.

Le luci del villaggio di Sulvon apparvero loro innanzi non appena giunsero sulla cima della collina. Era poco più che un borgo di pescatori, circondato da una palizzata di legno sulle torrette della quale si scorgevano alcune sentinelle, illuminate dalle fiaccole. «Ci divideremo in due gruppi.» ordinò Marwan. «Io procederò con una decina di uomini e andrò a chiedere asilo. Diremo di essere reduci dagli scontri nella Steppa dei Patiboli. Non appena ci apriranno i cancelli, tu Sabewu condurrai il resto degli uomini e daremo inizio alla festa. Ci serve tutto quello che potremo trovare nel villaggio. Cibo, armi, barche e donne, se qualcuno di voi luridi bastardi avrà voglia di divertirsi lungo il tragitto.» Vide i ghigni compiaciuti dei guerrieri e comprese che la sua nuova direzione di condotta avrebbe presto fatto presa. L'idea folle del Grande Bairo di considerare gli stanziali come loro pari non stava in piedi: i veri abitanti del Quarto dell’Aria erano guerrieri, razziatori, da sempre. Karut era stato un folle a non rendersene conto. L’idea che per condurre una guerra lunga come quella col Quarto dell’Acqua fosse indispensabile avere chi coltivasse i campi e producesse armi e tutto il resto in modo permanente, andava contro tutte le loro tradizioni. Erano dei predatori, si spostavano a cavallo, rapidamente, colpivano e fuggivano. Assurdo cambiare la loro storia, sradicare le loro origini. Si erano sempre procurati tutto il necessario razziando, vivendo come nomadi irraggiungibili. Niente patria, niente rischi che questa cadesse preda dei nemici.

Allearsi con chi conduceva una vita sedentaria, contadini ed artigiani, per riceverne rifornimenti e cibo a cosa era servito? La guerra si protraeva da tempo immemore ed ora i soldati dell’Acqua erano addirittura arrivati nelle loro terre. Non voleva più pensarci, oramai non aveva più alcuna importanza. Non per le Serpi Volanti. «Forza, andiamo, e buon divertimento a tutti!» tuonò spronando lo stallone.

«Aprite pure il cancello, sono dei nostri.» L’ordine della sentinella proveniva dalla guardiola. La storia di quella bella ragazza dai capelli neri con sfumature tendenti al blu, era plausibile. Non erano il primo gruppo di guerrieri che arrivava da est. Lo scontro nella Steppa dei Patiboli doveva essere stato duro, pensò di sfuggita il guerriero, la cui mente era concentrata sull'abbondante scollatura della donna e sugli strappi nelle sue brache, che lasciavano intravedere ampi tratti delle cosce tornite. Marwan gli sorrise, disponibile, giochicchiando con la ciocca di capelli tinta di un celeste . Un cigolio anticipò lo spalancarsi dei battenti. La donna e la dozzina di guerrieri delle Serpi Volanti si affrettarono ad avanzare. Non appena furono oltre il cancello scesero da cavallo. Il soldato di guardia si avvicinò per offrirle il proprio aiuto e prendere in consegna l’animale di Marwan. Solo una lontana eco annunciava l'arrivo imminente di Sabewu e degli altri. Lo squadrone di Serpi Volanti procedeva al buio, senza torce, e ancor prima che le sentinelle sugli spalti potessero accorgersi di qualcosa, furono i loro commilitoni a terra ad urlare l'allarmi.

Marwan si gettò sulla guardia sbalordita, che sperava in ben altre attenzioni. La donna gli conficcò il coltello nel petto e lo rigirò con vigore lanciando un grido carico di furore mentre il sangue della sua vittima le imbrattava mani e braccia. Stessa sorte toccò alle altre sentinelle a terra. Raggiunti dalle Serpi Volanti che accompagnavano la donna, non furono in grado di richiudere il cancello. Poi fu il turno di Sabewu.

A spron battuto la colonna di cavalieri irruppe nel piccolo villaggio di pescatori. Mentre avano, Marwan e gli altri lanciarono loro delle fiaccole che Sabewu e i suoi usarono per appiccare fuoco ai tetti in paglia delle piccole abitazioni. Il frastuono di quella carica improvvisa si mescolò alle urla di allarmi e alle grida dei primi abitanti sorpresi nei propri letti dalle fiamme assassine.

Alle prime luci dell'alba gli appetiti dei razziatori di Marwan si erano infine sopiti. Di Sulvon non rimanevano che scheletri anneriti di case arse dalle fiamme e corpi straziati. La capotribù si era limitata a controllare con l'aiuto di alcuni dei suoi più fedeli che il fuoco non giungesse a intaccare le barche che li avrebbero condotti nell'attraversata verso il Quarto dell'Acqua. Lentamente la Tribù si era ricompattata. I lineamenti dei volti brutali dei guerrieri erano ora distesi, ogni perversione appagata appieno. Ora quegli uomini la osservavano con rispetto.

Alcuni ragazzini e una ventina di donne, per lo più prive di sensi e trascinate a forza, avevano ingrossato le loro fila. Sarebbero state il balocco per i suoi uomini. Marwan non aveva alcun rispetto per loro. Non erano come lei: quelle donne impaurite, incapaci di badare a se stesse, non erano degne di appartenere alle Tribù del Quarto dell'Aria. Serve, buone solo alla monta. Quel pazzo di Bairo aveva commesso un errore strategico enorme. Marwan non si pentiva per la propria scelta. «Questo è solo l'inizio.» tuonò verso quell'orda di belve. «Presto saremo sull'Isola di Dibrjs e potremo sarcela con quegli effemminati del Quarto dell'Acqua!» I guerrieri urlarono il suo nome, battendo con le spade sugli scudi variopinti. Sabewu, al suo fianco, le sorrise. Un ghigno simile al ringhio di un lupo. Aveva ancora il cranio rasato imbrattato del sangue delle vittime, ma il colossale guerriero non ne pareva infastidito. Lui, come tutti gli altri, erano tornati a sperimentare la vita da predatore: oramai era fatta, l’autorità di Marwan non era più in discussione.

XXI. Nuovo Quarto – Preparativi

«È quasi giunto il momento, Duca.» Elyn non sapeva come affrontare l'argomento, eppure il capitano era stato chiaro: doveva accertarsi che il Templare non avesse intenzione di compiere pazzie. Rovers aveva detto di averla scelta come ambasciatrice per la sua spiccata sensibilità, ma lei riteneva fosse stato solo un modo gentile per non dirle che sperava l’altero Duca avesse comione per lei e non l’aggredisse alla sua richiesta. «Mia Signora, parlate, senza remore.» disse Savio, intento ad affilare la lama della spada bianca come l'avorio. La guaritrice si sedette al fianco del Duca, osservando attorno senza avere la forza per fissarlo. I preparativi nel campo del Clan dello Sciacallo fervevano. Un andirivieni continuo di guerrieri e sciacalli, armi che venivano ate di mano in mano ed il cui filo veniva testato sulla pelle dei prigionieri. «Siete conscio che la missione di domani comporta dei rischi…» esordì la donna. Palwen cessò il proprio lavorio e la guardò dritta negli occhi. «Siete sin troppo gentile a preoccuparvi per me, ma ritengo sarebbe più utile giungeste al punto. Dubito siate venuta sin qui solo per questo. Non abbiate timore.» La donna arrossì innanzi allo sguardo limpido dell'uomo. Non vi era ipocrisia o menzogna. Se non si fosse trattato di un nobile, avvezzo al comando e per forza di cose scafato, Elyn lo avrebbe scambiato per una persona sincera, pura quasi.

Era un pensiero ingenuo, se ne rendeva conto, eppure sarebbe stata pronta a giurare che quell’uomo non avesse segreti. «Rischi non solo per la vostra persona, Duca, ma anche per quelli che voi ritenete i vostri fratelli di fede. Rovers vuole accertarsi che non prendiate decisioni che potrebbero… compromettere l'operazione.» Il Templare depose l'acciarino e si alzò in piedi. Rimase in silenzio un istante, mentre con lentezza le sue mani ripulivano i bordi del mantello candido. Osservava con disprezzo l’indaffararsi degli ometti e le sevizie gratuite inferte ai prigionieri. «Dama Elyn, rassicurate il comandante. Non intendo compiere azioni avventate, se questo è il suo cruccio…» La donna trasse un respiro di sollievo. «…fintantoché non verrà usata violenza contro i miei fratelli.» puntualizzò Savio scrutando disgustato due uomini sciacallo che si ricoprivano vicendevolmente dei colori di guerra il torso. Il colore rosso che utilizzavano non poteva essere altro che sangue. Elyn rabbrividì notando la scena che aveva attratto il Templare. Fintantoché non verrà usata violenza contro i miei fratelli. Era una missione di guerriglia. Come poteva pensare che non sarebbe scorso altro sangue? La guaritrice incassò scuotendo la testa. «Duca, la missione prevede la liberazione di tutti gli schiavi che lavorano alla miniera. Dubito ci riusciranno senza ricorrere alla forza.» Il volto del Duca si indurì, le mani che si chiudevano a pugno. Le labbra si strinsero fino a rendere la bocca un taglio sottile. «Andrò con loro proprio per questo. Sarò io a parlare ai miei confratelli.» disse

infine il nobile, quando si fu calmato. Elyn non poteva credere alle proprie orecchie. Rovers non lo avrebbe mai permesso. «Non sarà necessario abbandonare la maschera che vi ostinate a volermi far indossare, basterà usare il buon senso. I fedeli di Lena comprenderanno.» La fede cieca del Duca era troppo anche per la guaritrice. E dire che tutti pensavano fosse lei la più ingenua del gruppo. Quell'uomo, per quanto mosso da nobili fini, pareva non voler guardare alla realtà dei fatti. Elyn sia alzò a propria volta. «Duca, qualcosa non quadra. Se le parole di Kiquathu corrispondo alla realtà, come tutto lascia presupporre, i vostri confratelli hanno abbandonato la retta via dei dettami di Lena. Qualcosa ha fuorviato le loro menti. Qualche malattia forse, o qualche intervento sovrannaturale…» cercò di addolcire il nocciolo della questione, che vedeva in realtà i pari del Duca comportarsi alla stregua di spietati schiavisti. Palwen la fissò trattenendo a stento un moto di stizza. Solo la ferrea educazione gli impediva di rispondere a tono a una “Dama”. La guaritrice lo sapeva bene. «Mia Signora, fate male a dare fiducia a quell'imbroglione con la testa di sciacallo.» «Il comandante ha acconsentito a farvi andare con la Centuria proprio al fine di farvi vedere in prima persona cosa avviene in questo Quarto. Desidera però avere la vostra parola, che se la situazione dovesse essere quella descritta dal Divinatore, voi non farete follie.» «Follie dite? Difendere i propri simili dall’essere cannibalizzati, sarebbe quindi prova di pazzia?» «Non è forse quello che fanno Kiquathu e i suoi? Difendere la propria gente da un invasore arrogante e spietato?» rispose Elyn.

La risolutezza della donna e la verità contenuta nelle sue parole, scossero il Templare che si mise a camminare avanti e indietro. «Non credo che immacolati e Cavalieri della Concordia possano essersi macchiati di comportamenti così riprovevoli. Se dovessi sbagliarmi, garantisco che non intralcerò l'azione della Centuria, a patto che i miei confratelli vengano risparmiati, e fatti prigionieri. Da noi, non da questi ometti immondi!» Era una promessa che Elyn non poteva fare, ma comunque un o avanti. Avrebbe riferito a Rovers e solo a lui sarebbe spettata la decisione finale. In ogni caso la donna non aveva idea di come avrebbe fatto il capitano ad impedire a quel testardo di andare con loro. D’altronde lo stratega era lui, questi non erano problemi suoi. Il Templare era tornato ad affilare la sua lama ed a salmodiare quella che Elyn riconobbe una preghiera a Lena. Comprese che la discussione era conclusa e che più di questo non sarebbe riuscita a strappare a quell’uomo integerrimo. Non poteva negare a se stessa di provare una profonda ammirazione per la sua fede, i dettami della quale lei non stentava a comprendere. Chi non avrebbe desiderato che la Pace regnasse per sempre su Alenna?

«Capitano, non possiamo venire.» Rovers sollevò lo sguardo dal tavolino da campo che si era fatto costruire dagli ometti. Si ritrovò innanzi il Maestro d'Ossa che mulinava il sacco. In realtà ne aveva fiutato l'odore ben prima di vederlo arrivare. L'uomo con lo scheletro dipinto sul corpo era più agitato del solito, gli occhi spiritati che guizzavano in tutte le direzioni, i sonagli che tintinnavano allegramente. «Di che parli, Shoggul?» chiese il comandante della Centuria tornando a fissare l'abbozzo di pianta che aveva stilato con Yorik e Zitara, prima che questi

andassero in esplorazione alla cittadella. Avevano iniziato a mappare la zona circostante seguendo le indicazioni di Kiquathu, identificando grosso modo quelli che erano i "Regni" dei quattro clan ribelli ed i principali insediamenti dei fedeli di Lena. «Il Santo dice che presto avremo da fare, qui.» «Da fare? Non sarà una scusa per evitarti i pericoli della nostra missione?» Shoggul inclinò la testa in modo buffo, appoggiando l'orecchio all'involucro lurido che conteneva il Santo. Finse di ascoltare, o ascoltò veramente, parole mute che solo lui era in grado di percepire. Rovers lo osservava incuriosito. «Ha bisogno di parlare con me. Credo abbia scoperto qualcosa… Sciacal, i Nuovi Dei, degli adolescenti imprevedibili…» Rovers ghignò osservando il modo assurdo con cui lo stregone agitava le braccia scheletriche mentre parlava. Sapeva che quando il Maestro era in quello stato d’eccitazione, qualcosa sarebbe successo. Che fosse il palesarsi di verità nascoste o qualche corbelleria sconclusionata, non era però in grado di predirlo. Le arti divinatorie andavano prese con leggerezza. Era il filtro della ragione a fare la differenza, questo Rovers l’aveva stabilito con l’esperienza degli anni trascorsi a calcare i campi di battaglia di mezzo mondo. «D'accordo Shoggul, mi riferirai tutto al mio ritorno, quando le cose ti saranno più chiare. Rimani pure, tanto avevo già deciso di lasciarti qui. Quel bestione di ReCorvo non vuole saperne di rimanere a fare da balia ad Elyn e Deifobo mi serve. Lascerò qui Siqquara. Credo basterà lei a scoraggiare le voglie degli ometti. Comunque tu non perderle di vista.» «Crede che Siqquara accetterà?» chiese questo preoccupato, ben conoscendo il carattere bellicoso della guerriera, che in poco si discostava da quello di ReCorvo. «È una donna, Shoggul, e se tu non te ne fossi accorto, gli ometti che ci

circondano vagano con l’uccello duro tutto il giorno a causa loro. L'idea di poter sgozzare eventuali pretendenti mezzuomini, credo riuscirà ad allettare Siqquara forse più che partecipare alla distruzione di una miniera. Bada bene a metterle un po' di sale in quella zucca negra, comunque e non allontanarti da lei.» «Come comanda il mio capitano.» sentenziò il Maestro ben sapendo che era solo la propria anima a dover viaggiare ed incontrare il Santo. Il suo corpo poteva anche rimanere ad osservare Elyn e la guerriera di Abuc. In fondo non era proprio come trasgredire ad un ordine…

XXII. Cuore dei Quarti - Missiva a Re Dotrik

Hokmah, l'anziano Geomastro, non riusciva a dormire. Non era la prima volta che succedeva. L'insonnia era peggiorata da quando poche settimane prima la Fortezza di Askeen era stata presa d'assalto dai barbari di Abuc e dai Domatori di Demoni e il primo conclave tenutosi su proposta del Rabdomastro Malet non aveva dato alcun esito. Così come quelli successivi. Keter e Binah ogni volta accampavano mille scuse per non presentarsi o rimandare quelle riunioni, unico modo per costringersi attorno ad un tavolo e valutare gli eventi con gli esponenti dei diversi Quarti. Se la Storia insegnava loro qualcosa era che solo uniti gli elementi erano stati in grado di fermare Isyl. L’Istituzione stessa che tutti loro presidiavano, era sorta appositamente. Hokmah non riusciva a capacitarsi di come quei giovani mostrassero così poca sensibilità innanzi a fatti dalla gravità inoppugnabile. E la crepa sulla prigione di cristallo non accenava a ricomporsi. Certo non si era allargata, o almeno così pareva, ma permaneva, immobile e terrificante monito a un possibile futuro di sciagure. Sapendo che rimanere a girarsi nella branda con quei pensieri lugubri che gli turbinavano nella mente non era la soluzione, l’anziano decise di trascinarsi nel refettorio del maniero. I soldati del Quarto della Terra di guardia ai suoi alloggiamenti si erano offerti di scortarlo, ma lui aveva rifiutato. Voleva rimanere da solo e dubitava che nelle cucine di Askeen ci fossero pericoli tali da metterne a repentaglio l’incolumità. Una volta giunto a destinazione, era stato accolto con fastidio da un servetto, al quale aveva ordinato un infuso di melissa e verbena.

Il giovane di turno, appartenente al Quarto del Fuoco, non faceva nulla per celare la propria diffidenza verso il diverso. Nel suo atteggiameno non c'era la minima traccia del rispetto dovuto a persone tanto più anziane. Il Geomastro si era trattenuto a stento dal redarguirlo e si era andato a sedere al tavolaccio vicino al focolare, il più lontano possibile dal giovinastro. Le poche braci che ardevano nel camino non erano sufficienti a riscaldare l'intero ambiente, ma almeno quel tavolo sì. Hokmah si trovò a fissare i bagliori che covavano sotto i tizzoni anneriti. Non poteva non trovarci un chiaro rimando a ciò che stava avvenendo su Alenna. Sotto il drappo di caos fatto di continue guerre fra i Quarti ardeva qualcosa di ben più terribile. Era ancora solo una scintilla forse, ma presto sarebbe deflagrata. Doveva esserci un nesso fra la fervente attività dei Domatori di Demoni e il movimento della reliquia di Isyl. La sola idea che quei folli avessero trovato un modo per organizzarsi o una guida, capace di indirizzarne i poteri deliranti per ridestare l'Astronascente, lo atterriva. Non temeva per la propria vita. Oramai aveva visto sufficienti inverni per potersi lasciar andare senza timore nè rimpianto, ma perchè dubitava i Quarti fossero maturi per affrontare nuovamente quella piaga spaventosa. Solo l'unione degli Elementi poteva concedere una possibilità ad Alenna. Quello era il senso stesso della Fortezza di Askeeen, l’unico gesto assennato dettato nelle ultime volontà di Re Kevlan. Eppure quale unione poteva esserci, oggi, se il Quarto dell'Aria e quello dell'Acqua erano in guerra da un secolo, mentre quello del Fuoco era chiuso entro i propri confini e non concedeva a nessuno straniero di penetrarvi? Le poche spie che erano riuscite a infiltarvisi riferivano che i Thuai, le guide spirituali del Quarto, non cessassero un solo istante di forgiare nuovi guerrieri, curandone tanto le arti guerriere che l’indottrinamento religioso.

Cosa sarebbe accaduto se Piromanti, Piromastri e Thuai avessero indetto una guerra santa e si fossero improvvisamente riversati oltre i loro confini demarcati da quei grotteschi pupazzi di vimini in perenne combustione? Forse per questo Binah si ostinava a tacere, a non collaborare con loro? La donna era la più riottosa, peggio ancora dell’Aeromante. Almeno Keter si era sbottonato, confessando che il suo Quarto era stato meno intransigente del dovuto con i Domatori di Demoni e che questi si erano moltiplicati come conigli negli utimi anni. E cosa pensare della sua stessa patria? Il Quarto della Terra non era mai stato così in difficoltà. Le leggendarie Legioni Ocra e Avorio, le stesse capaci di fermare solo un secolo prima gli eserciti invasori dei clan dell'Aria nella Valle delle Anime Perse, erano sconfitte. In quattordicimila contro centomila, erano state capaci di respingere l'invasore ed ora invece erano state sconfitte da immacolati l'una e dai Domatori di Demoni l'altra. O almeno questo era ciò che si diceva in giro. Come fosse stato possibile, lui non riusciva certo a spiegarlo, così come nessun Lord della sua terra vi era riuscito. L’ipotesi di Malet, che i Domatori di Demoni si fossero organizzati o peggio fossero guidati da qualcuno, era la più credibile e avrebbe reso plausibile una sconfitta delle Legioni della Terra. Nessuno metteva in dubbio i poteri blasfemi di quei maledetti. Delle due mitiche Legioni comunque non era rimasto neppure un sopravvissuto capace di svelare quel mistero. Parevano svanite nel nulla, ma certo era che i territori da loro presidiati erano ora sotto il controllo altrui. Le due province di Korinta e Zatalta erano perse. Due città rilevanti nell’economia del Quarto. Cose impensabili avvenivano in quei tempi bui.

Con l'assalto ad Askeen ed i movimenti della reliquia maledetta, l'anziano sentiva di aver visto oramai tutto, ma non si rassegnava all'idea di assistervi inerme. Era certo che quel concatenarsi d'eventi non potesse essere futto del caso. L'anziano doveva chiedere conforto al proprio Re, non c'era tempo da perdere. Avrebbe preferito andare di persona dal Sovrano, ma la sua Guardia ad Askeen era appena cominciata e l'incarico gli impediva di abbandonare la Fortezza. Non gli restava che inviare una missiva, sperando che giungesse a destinazione al più presto. Non avrebbe indugiato oltre. A malincuore si costrinse ad alzarsi ed abbandonare il lieve tepore del focherello per tornare nei propri alloggi. Il servetto, sentendo i i strascicati, fece capolino dalla cucina. «Il suo infuso è quasi pronto.» Hokmah scosse la testa. «Non occorre più, ragazzo. Per questa notte ho altro da fare. Grazie comunque.» Nonostante il suo udito non fosse più quello di una volta, gli parve di sentire gli improperi sommessi del giovane.

Nobile Re Dotrik,

mi duole disturbarvi a così breve dal mio insediamento presso la Fortezza maledetta. Non fosse per il gravame che mi opprime il cuore non oserei tediarvi con le mie preoccupazioni, ma ritengo un dovere eprimervi i miei turbamenti affinchè possiate trarre le Vostre conclusioni.

Come da Voi ordinato non ho fatto menzione con i miei pari qui ad Askeen sulla

situazione del nostro Quarto, nè ho accennato alle dicerie che parlano di bizzarre connessioni fra l'ascesa del culto della Dea dell'Amore e dei suoi seguaci e la caparbia ripresa delle ostilità da parte della Setta dei Domatori di Demoni. Eppure, dopo i recenti eventi di cui intendo narrarvi, temo sarebbe prudente e saggio confrontarmi con gli altri Guardiani della Fortezza e portali a conoscenza della situazione. Un confronto aperto e sincero, che possa smuoverne le coscienze.

Askeen è stata assalita, come da resoconto inviatovi da Ser Hellar.

Il Comandante del contingente degli uomini della Terra qui al forte non ha però a mio avviso evidenziato a sufficienza l'abilità con cui i Domatori presenti all'assalto coordinassero le proprie azioni.

Ci ho riflettuto a lungo e sono giunto alla conclusione che le loro azioni fossero governate da una mente superiore, capace di guidare e amplificare gli sforzi di ognuno dei singoli componenti il gruppo.

Le unioni mentali che solitamente impiegano, hanno sempre evidenziato limiti per loro insormontabili quando si sono trovate al cospetto degli elementi, e qui ad Askeen a fare guardia al Mago folle, sono dispiegate perennemente tutte e quattro le forze elementali. Eppure i Domatori hanno orchestrato un assalto capace di mettere a dura prova le nostre difese. La Piromante Binah ha rischiato di impazzire a causa dei Demoni che l'hanno raggiunta ed aggredita.

Alla mia medesima conclusione è giunto il Rabdomastro Malet, persona saggia e che ho imparato a stimare.

Maestà, per descriverle i mali presagi che aleggiano su Askeen, la informo che il Rabdomastro è propenso addirittura a ricorrere alla Pax Custodis.

Ignoro eventuali sviluppi occorsi dal momento della mia partenza presso il Regno, ma confido che le Legioni siano riuscite a rintuzzare l'avanzata dei nostri nemici; nemici che a detta dell'Aeromante che compie la sua guardia qui presso Askeen, pare siano attivi anche nel Quarto dell'Aria. La loro patria è sempre stata turbolenta e per questo, sostiene quel giovane arrogante, riesce a forgiare i migliori guerrieri di Alenna. Su questo non posso, nè voglio dargli ragione, ma sul fatto che il loro Quarto sia avvezzo alla guerra non vi sono dubbi.

Non ricordo secolo in cui le tribù dell'Aria non siano state impegnate in qualche conflitto su larga scala e il giovinastro sostiene che presso di loro i Domatori non abbiano mai cessato di operare a viso scoperto.

Ritengo che questa loro condotta, a mio avviso scriteriata, abbia però un lato per noi positivo: hanno avuto modo di conoscere meglio i nostri comuni nemici, le loro pratiche e forse anche i loro obbiettivi.

Anche per questo propenderei per aprirmi con loro, per cogliere possibili informazioni che potrebbero rivelarsi di vitale importanza per il nostro Quarto e per Alenna tutta.

Attendo ossequioso la Vostra decisione prima di compiere alcun o

Hokmah, Guardiano della Terra presso Askeen

L’anziano Geomastro depose lo stilo al fianco della pergamena, ne rilesse il contenuto più volte e infine si decise. «Soldato.» chiamò in direzione della guardia appena fuori dell’uscio della stanza. La porta si aprì e un uomo in armatura di cuoio entrò nella camera percorrendola per intero con lo sguardo indagatore in cerca di eventuali pericoli. «Rilassati, ho solo una missiva da darti. Accertati che venga affidata al nostro migliore corriere. Deve arrivare al più presto nelle mani del Re.» lo tranquillizzò Hokmah porgendogli la pergamena arrotolata e chiusa dal suo sigillo personale.

XXIII. Nuovo Quarto – Alla miniera

«Allora siamo intesi, Duca, niente colpi di testa.» ribadì Rovers, schivando uno sciacallo che trotterellava spedito verso la cima della colonna. «Non sarà necessario, capitano. Con l’aiuto di Lena, il buon senso avrà la meglio, come sempre fra persone civili.» rispose il Templare, lo sguardo che inseguiva uno strano uccello dal piumaggio variopinto che scappava fra le frasche, spaventato dal loro aggio. La colonna capeggiata dal guerriero ombra Tha-ho e dal Divinatore comprendeva una trentina di guerrieri e una dozzina di sciacalli. Si erano messi in marcia alle prime luci dell’alba e da allora non si erano mai fermati. Kiquathu era agghindato con pelli di sciacallo non solo in testa ma anche sul resto del corpo. Calzava un’imbracatura di giunchi culminante in un alto vessillo maculato legato alla schiena che rendeva i suoi movimenti più goffi del solito. Dal volto però traspariva solo una ferrea determinazione. Li aveva avvertiti che ci sarebbero volute almeno quattro ore per giungere alla miniera ma Rovers aveva preteso a gran voce che prima fero una deviazione verso la zona di giungla dove la Centuria era sbarcata. Non potevano permettere che la polvere duwan lasciata dall’elementale invocato dal Duca scomparisse. A malincuore il Divinatore aveva ceduto alla testardaggine del comandante.

L'odore ammorbante di putrefazione fu il primo segnale, seguito dal ronzare della fervente attività degli insetti saprofagi: infine erano giunti al luogo dello scontro. Le carcasse degli ometti divenuti banchetto per gli spazzini della giungla

giacevano ancora lì dove erano morti. Lo stesso valeva per il loro compagno Mintur, ma nessuno di loro andò a cercarne la salma per dargli degna sepoltura. Kiquathu e gli altri volevano andarsene al più presto. Quel posto li metteva a disagio, come vi aleggiasse una maledizione. Scrutavano con diffidenza le linee tracciate nella vegetazione ancora ben visibili. «Mettiti all'opera, Biondo, e fa in fretta.» disse Rovers indicando il suolo melmoso dove affiorava la polvere duwan. Lì dove la Cortina d’Acqua invocata dal Templare era calata nella realtà nonordinaria come un sipario reciso, brillavano briciole dal potere straordinario. Uno dei mezzuomini del Clan dello Sciacallo ci stava mettendo il piede sopra, incuriosito da quello stano fenomeno. «Vattene mostriciattolo, lo dico per il tuo bene!» tuonò Deifobo, prendendo l'ometto per la spalla e strattonandolo indietro. Questo si divincolò, sul volto un’espressione di sorpresa mista a rabbia. Il Biondo fece spallucce, ghignò e finse indifferenza iniziando a rovistare nelle bisacce in cerca dell'occorrente: aveva un lavoro da svolgere. Un lavoro delicato. Il mezzuomo tornò così alla propria personale indagine, pestando con forza su una macchia di polvere luccicante. Ci fu un sibilo prolungato, ma prima che questo potesse chiedersi cosa stesse accadendo, emise un urlo di dolore. Balzò indietro, rovinando al suolo e tenendosi con le mani la pianta del piede annerita. «Cosa ti avevo detto?» lo schernì il giovane. «Non si scherza con le polveri elementali!» Il mezzuomo urlava di dolore, il piede ustionato e scorticato come un porco allo spiedo.

Rovers aveva assistito alla scena, tenendo d'occhio le reazioni del Templare da una parte e del Divinatore dall'altra. Savio scuoteva il capo ricolmo di disprezzo per l'opera dell'esperto di polveri. Con un piccolo setaccio il giovane filtrava la polvere e la inseriva in sacche di pelle. In base a che criterio la depositasse in una piuttosto che nell'altra non era dato saperlo, ma fino ad allora non erano ancora saltati in aria. «Non temete Duca, Deifobo sa il fatto suo. Non c’è nessuno al mondo che sappia miscelare le polveri come lui. Per quanto instabili siano, non ha mai sbagliato.» «Lena mi protegge, non temo per la mia vita, e men che meno per le vostre. Ciò che mi irrita è il vostro accondiscendere a depredare ciò che non vi appartiene e che non appartiene a questo mondo!» Il Comandante non si scompose. «Vedrete che quando dovremo utilizzare le polveri, ci sarete grato per questo gesto sacrilego.» «Forza, dobbiamo andare!» li interruppe il Divinatore, infastidito dall'attesa che si stava protraendo ben oltre la sua pazienza. Scrutava in tutte le direzioni in cerca di nemici invisibili. Fece cenno a due ometti che subito si avvicinarono al ferito. Non aveva ancora finito di urlare. Senza badare troppo ai convenevoli uno di essi lo colpì al capo con un randello e assieme al compare se lo caricarono sulle spalle. «Ho quasi finito…» disse il Biondo anticipando la richiesta di Rovers. Un sorriso smagliante gli brillava sul volto gioviale. «Una scorta degna di un re!»

Per recuperare il tempo perso, Kiquathu impose loro un ritmo forsennato.

«Odio l’umidità di questo mondo e ancor più l’odore del pelo bagnato di quei cagnacci.» sbottò Deifobo, i lunghi capelli biondi zuppi. Si era fatto crescere una barbetta ispida sulla quale ora colavano goccioline d’acqua e sudore che succhiava rumorosamente. Al suo fianco procedeva ReCorvo, un sorriso sgargiante stampato sul volto d’ebano. Il colosso dell’Isola di Abuc non vedeva l’ora di combattere. «Vacci piano, ReCorvo.» lo ammonì Rovers. «La tua ferita non è del tutto guarita.» Il comandante non aveva intenzione di perdere un altro uomo. La chiostra di denti bianchissimi del guerriero venne inghiottita dalle labbra carnose originando un’espressione di disappunto. «Il mio comandante dubita della mia forza?» «Certo che no, ma non conosciamo nulla dei nostri nemici.» rispose pragmatico questo. «Inoltre voglio che lasciate fare il lavoro sporco ai guerrieri di Tha-ho. Noi siamo qui per osservare e prendere informazioni.» Deifobo fece cenno di aver capito, mentre il sorriso di ReCorvo sparì del tutto. «Sempre che ci sia effettivamente bisogno di combattere.» intervenne il Templare, ricevendo per risposta solo cenni di scherno. Kiquathu fece improvvisamente rallentare il gruppo. La vegetazione era talmente fitta che la visuale era ridotta a pochi metri. Una nebbiolina umida aleggiava nella selva conferendole un’aurea di mistero. Mai nei Quarti avevano visto una giungla così sterminata. E dire che la Centuria aveva operato in ognuno di essi, spingendosi dalle cime montuose del Quarto della Terra sino alle inospitali lande desertiche di quello del Fuoco. Il Comandante comprese subito che dovevano essere vicini all’obbiettivo, percependo all’istante il silenzio calato fra i mezzuomini che li precedevano.

I guerrieri della colonna vennero dispiegati a semicerchio, chi procedendo a destra, chi a sinistra del punto dove si era fermati il Divinatore e il guerriero ombra. Rovers condusse i membri della Centuria in prima linea, al fianco di Tha-ho. Il guerriero era teso, ogni senso volto a percepire i mutamenti nell’ambiente circostante. La mascella contratta e il pulsare delle vene sulle tempie non lasciavano dubbi sul suo stato di eccitazione per la battaglia imminente. Il silenzio circostante venne rotto da rumori metallici. Fra il fogliame riuscivano a intravvedere uno spiazzo a poche decine di metri: cinque carri, dei quali due già carichi di pietre nere, circondavano un’apertura nel suolo. Si trattava di una sorta di grotta, scavata nella pietra che si sostituiva al monotono ripetersi di palme, mangrovie e banani. Erano visibili un paio di Cavalieri della concordia intenti a sfidarsi a una partita a dadi, e quattro immacolati. Muniti di lancia e lunghe tuniche bianche, questi montavano una guardia svogliata ai carri, reggendosi con tedio alle aste delle armi. I guerrieri di Kiquathu si muovevano in silenzio, furtivi come animali della selva. Appresso a loro zampettavano gli sciacalli, la bava che iniziava a fuoriuscire dalle zanne snudate. Stavano accerchiando il nemico senza che le sentinelle si fossero accorte di nulla. Il Templare era sul punto di parlare, ma il Divinatore gli impose di tacere. In realtà furono gli schiocchi secchi delle fruste a bloccare la favella del Duca. Il rumore inconfondibile proveniva dalla grotta e si riverberava fra le sue pareti. L’apertura nel sottosuolo vomitò in quel momento due immacolati, paonazzi in volto. Le espressioni erano distorte dall’ira e dallo sforzo evidente. Urlavano in faccia agli ometti che trascinavano l’ennesimo carico agganciato a un carrello di metallo con tozze ruote in legno.

Almeno una ventina di mostriciattoli erano curvi sotto il peso delle funi. Altri immacolati li fustigavano spronandoli come fossero somari riottosi. Più d’uno degli ometti presentava striature purpuree sulla schiena e sul volto e piaghe non ben rimarginate erano presenti su tutti loro. Rovers ghignò osservando l’espressione allibita dipinta sul viso del Duca Palwen. Lo sguardo di questo era fisso sui Cavalieri della Concordia, che indifferenti alla brutalità degli immacolati, continuavano imperterriti la loro partita imprecando a fasi alterne sulla sfortuna ai dadi. Improvvisamente uno degli ometti mollò la fune. Le ginocchia gli cedettero di colpo e finì con l’intralciare quelli che lo seguivano. Il mezzuomo subito dietro inciampò sul compagno e perse a sua volta la presa sulla fune cosicché l’intero gruppo fu costretto a fermarsi e il carico cominciò a indietreggiare pericolosamente. Ci fu della confusione, i guardiani che richiamavano l’attenzione degli altri immacolati. Se le guardie non fossero accorse subito, rischiavano che il pesante carrello scivolasse all’indietro, tornando nelle viscere della terra e travolgendo gli schiavi che stavano trasportando i successivi. Le quattro guardie abbandonarono i loro posti, mentre uno dei due Cavalieri, scuro in volto, si muoveva in direzione della grotta. L’espressione del suo muso non era certo quella che ci si potrebbe aspettare da un paladino della dea della Pace. In qualche modo gli ometti erano riusciti a riprendere il controllo del carro che, cigolando sulle ruote, venne portato sullo spiazzo pianeggiante antistante la voragine. Uno dei guardiani prese a frustare l’ometto che aveva causato quell’incidente. L’immacolato colpiva con ferocia accusando l’indigeno di averlo fatto apposta.

Il piccoletto tentava di scusarsi, mostrando i palmi delle mani scorticati dalle funi, ma le parole gli venivano strappate dalla bocca a frustate. Fu comunque il Cavaliere e risolvere la vertenza. Con gesto elegante estrasse la spada e decapitò la creatura, senza tanti cerimoniali. La testa cadde con un tonfo ovattato nella fanghiglia mentre il corpo si afflosciava come un fiore reciso. «Non è difficile mantenere la pace, basta saper usare i metodi giusti.» bisbigliò sarcastico Deifobo. Il Duca era sbiancato. Per un istante Rovers temette che il Templare decidesse di scagliarsi da solo contro quegli uomini, rei di aver travisato i dettami della Dea che avevano giurato di seguire. Fortunatamente fu preceduto dal verso emesso da Kiquathu: un ringhio che diede il segnale ai suoi: l’attacco poteva iniziare, non c’era bisogno di ulteriori prove. Mezzuomini e sciacalli si gettarono sulle loro ignare prede, spuntando dalle frasche circostanti.

XXIV. Nuovo Quarto – Bboar il Possente

L'agilità di Zitara è sorprendente. Corriamo da più di un'ora in un intrico oscuro di giunchi e fogliame e la donna non ha neppure il fiatone. Morte è invece sul punto di crollare. Oramai l'alba si avvicina e con essa temo che la sua forza avrà il tracollo definitivo. «Fermati Zitara.» le ordino. Lei si volta, gli occhi sbarrati dalla paura. Le urla alle nostre spalle sono attutite dalla distanza, ma non possiamo stare tranquilli. I Demoni scatenati dalle arti di Morte stanno rallentando i nostri inseguitori, ma l'ex Domatore è al limite. Le entità da noi disturbate nello ziggurat ci hanno sguinzagliato contro una massa di ometti. La loro sofferenza e gli urli disarticolati che abbiamo percepito ogniqualvolta ci si avvicinavano, descrivono bene l'opera del nostro compagno. «Dobbiamo aiutare Morte.» La donna mi osserva dibattuta per poi guardare nel fitto intrico della foresta alle nostre spalle, quasi temesse di veder spuntare dalle tenebre gli occhi di brace del Patriarca stesso. Non abbiamo idea di chi ci stia seguendo da quando siamo stati scoperti nella piramide-tempio. Non ci siamo fermati per accertarcene. Di certo non sono i mezzuomini a terrorizzare Zitara, ma le due creature che hanno per Dei o per padroni, o quello

che sono. Ci sarà il tempo per riflettere su Nulla e il Patriarca di Lena, se riusciremo a uscire vivi da questa dannata giungla. «Non possiamo rallentare…» mormora l'assassina. Solleviamo Morte quasi si peso, ognuno da un braccio, e riprendiamo la corsa. Dietro di noi il rumore di alberi abbattuti e creature maciullate si fa più intenso. Morte scuote la testa, invitandoci ad andare, mentre stille di sangue trasudano dalla pelle di viso e collo. I Demoni lo stanno spremendo come un frutto prelibato.

Un gracchiare prolungato fa rabbrividire il Senzalingua. Sento il corpo sussultare, come in preda alle febbri. Abituato come sono a vederlo sempre imperturbabile, la cosa mi terrorizza. Il nostro compagno solleva la testa con evidente sforzo e fissa un punto alle nostre spalle. Due puntini rossi appena visibili procedono veloci a mezz'aria squarciando la tenebra circostante. Zitara scioglie dall'abbraccio il Domatore e sfodera due pugnali. I bagliori incandescenti avanzano rapidamente fino a prendere forma: l'ombra si muta in un corvaccio nero che ci sorvola e ci supera, sfrecciando sopra le nostre teste. Morte mi sobbalza fra le braccia, indicando con foga l'animale e facendo cenno a Zitara di colpirlo. La donna non capisce, ma ugualmente scaglia il coltello. L'esitazione le ha fatto mancare il bersaglio. Questo la dice lunga sullo stato d’agitazione in cui versa. Raramente le ho visto

sbagliare un colpo. Il volatile prosegue scomparendo nella macchia alberata innanzi a noi. «Dobbiamo proseguire.» dico, mentre i miei due compagni si lanciano occhiate, accusandosi l'un l'altro per l’insuccesso. Non facciamo neanche cento metri che un grido lacera l'aria. Non proviene dai nostri inseguitori, ma da ovest, nella direzione in cui stiamo andando. Un altro urlo fa da eco al primo, portando con sé un carico di sofferenza e malaugurio. Non possiamo fermarci. Dobbiamo tornare al villaggio del Clan dello Sciacallo. Lì troveremo protezione. Dietro di noi gli inseguitori sono sempre più vicini. I loro grugniti indicano che stanno guadagnando terreno. I demoni di Morte devono essersi placati. Un brivido mi avvisa che anche la Dea Nulla li accompagna. Lo sento, forse sono gli elementi a parlarmi. Non ho tempo per concedermi a loro, dovrei fermarmi, concentrarmi, sondarne i segnali. Non posso farlo, devo fuggire. Questa è la priorità. L’unica possibilità, anzi. Come mi leggesse nella mente, il Senzalingua conferma la mia intuizione con un cenno risoluto ad avanzare.

Procediamo con cautela, armi in pugno. Morte pare aver ripreso un po' di forza. I tatuaggi che ne ricoprono il collo sono immobili, indice che ha abbandonato i demoni al loro destino. La tenue luce dell'alba non riesce a penetrare l'intrico di foglie quasi la giungla cercasse di ostacolarci, imponendoci di avanzare nella semioscurità. Due ombre spuntano improvvisamente ai lati del sentiero che stiamo percorrendo. Sono immobili, ma non per questo non sobbalziamo alla loro vista.

Mi faccio avanti quel tanto che basta per scoprire che si tratta dei cadaveri dei due ometti che ci hanno accompagnato al tempio. Chiunque li abbia aggrediti ha fatto scempio delle loro carni. Profonde ferite ricoprono il torace dei poveretti, come se artigli affilati si fossero accaniti per ore sulle membra indifese. Un gracchiare improvviso mi fa perdere alcuni battiti di cuore. Zitara questa volta è la più lesta a reagire, scagliando il pugnale in direzione del verso. La lama si conficca in profondità nella corteccia, mentre il corvo si sposta con lentezza disarmante su un altro ramo e continua a fissarci con occhi di fuoco. Occhi capaci di ipnotizzare, per poi uccidere. Una lama di luce illumina l'albero sul quale è fermo il volatile nero. Pare un effetto studiato come quelli che si vedono nei teatri delle grandi città dei Quarti. Davanti a noi l'uccello si trasforma nel Patriarca del culto di Lena, il folto piumaggio nero che si sagoma in un saio del medesimo colore, mentre la forma animale muta in quella umana. Ora ne abbiamo la certezza: quell'essere è il Traghettatore dei Mondi. È appollaiato sul ramo, il corpo sgraziato ed esile, eppure capace di terrorizzarci. Il Domatore di Demoni lo osserva, ha intuito qualcosa, glielo leggo in faccia, ma non c'è tempo ora per le spiegazioni. Se non lo attacca significa che non abbiamo possibilità contro di lui. Mi fido ciecamente delle conoscenze proibite di Morte. Ora morirete. pronostica la creatura come se il ramo fosse il pulpito dal quale un profeta emette le proprie sentenze. Osserva il sopraggiungere dei nostri inseguitori, immobile e ghignante. Due palme vengono sradicate dal suolo e volano in aria, mentre la Regina Nulla compare sulla scena.

Un ammasso di tenebra emerge dal buio circostante sagomandosi in un volto di donna dal sorriso serafico. I capelli sono liane intrecciate con bacche rosse come unico ornamento. Non so come sia possibile, ma sono la prima cosa che mi colpisce. Un odore di terra smossa ci investe come se la Dea stessa traesse forma dal suolo invece che dalla massa di vuoto che la compone. Nulla osserva il Patriarca, confusa, attendendo forse che sia lui a massacrarci. Fanno i galanti fra loro, scambiandoci per vittime sacrificali da regalarsi l’un l’altra. «Via, via!» grido ai miei compagni cercando di smuoverli e dando l'esempio, nel folle tentativo di sfruttare l'incertezza momentanea degli Dei. Mi seguono, mentre le risa del Patriarca ci rincorrono per centinaia di metri. Scappiamo verso sud incapaci di capire come possiamo essere ancora vivi, i polmoni che bruciano dannatamente. Forse stanno solo giocando con noi o forse hanno dato origine a una battuta di caccia, capace di sollazzarli. Il cuore mi martella nel petto, ma impongo alle gambe di non fermarsi.

Una voce possente ci inchioda sul posto. Tutti e tre ci blocchiamo all'unisono. Ci guardiamo attorno senza riuscire a scorgere nulla nel marasma rigoglioso che ci circonda. Questo è il Regno di Bboar, andatevene, non siete i ben venuti. Un ruggito, capace di ghiacciarmi il sangue nelle vene. Il Regno di Bboar? Uno dei Nuovi Dei? E come diamine ci siamo arrivati? Dalla mappa che ho predisposto per Rovers ricordo solo che la zona d’influenza del Dio Orso era più a sud di quella di Sciacal. La fuga concitata deve averci

spinto nella direzione sbagliata… Alle nostre spalle il rumore di frasche spezzate annuncia l'arrivo dei cacciatori e interrompe i miei futili pensieri sulla nostra posizione attuale. Eppure sapere con precisione dove riposeranno le mie spoglie mortali non dovrebbe interessarmi più di tanto. «Dannazione, e ora che succede?» sbotta Zitara, isterica. Morte indica un masso innanzi a noi che si erge imponente nel mezzo della vegetazione. Ritrae un orso, in piedi, ritto sulle zampe posteriori, nell'atto di aggredire. Un lezzo immondo mi opprime le narici, all’improvviso. Devono esserci cadaveri in putrefazione nascosti nell’ombra. L’odore è inconfondibile. Sciami di mosche ci turbinano intorno portati dal vento che si è messo a spirare fra le fronde, mentre immagini confuse mi affluiscono alla mente. Ricordo la riunione al campo del clan dello sciacallo, quando Kiquathu ci ha presentato gli altri Divinatori. Bboar, uno degli Dei dei clan ribelli. Ora rammento tutto. Il corvo dagli occhi di brace compare appollaiato su un banano a una decina di metri dalla statua. Poco dopo spuntano gli ometti ammezzati che hanno scopato Agape alla piramide tempio, e che non soddisfatti ora vogliono fare la festa a noialtri. Armi in pugno, ci si scagliano contro. Il primo impatta sulla mia lama. Lo trao da parte a parte ma prima di morire il bastardo riesce quasi ad arpionarmi il volto con le unghie purulente. Lo spingo verso i suoi simili liberando la lama dal cadavere col piede.

Il Senzalingua ne accoppa un altro con la roncola, aprendogli uno squarcio sul

ventre, da parte a parte. Si muove a rilento, è ancora spossato dall’utilizzo delle sue malie, ma non per questo è meno letale. Zitara si limita a schivare l'assalto di altri due mostriciattoli. Sotto lo sguardo attento del Traghettatore i mezzuomini tentano di circondarci. Il bramito gutturale torna a farsi udire, come provenisse da un pozzo senza fondo. Gli ometti tergiversano, paiono intimoriti, indietreggiano e Morte ne approfitta per farci cenno di muoverci, allontanandoci in direzione opposta. Chi osa violare il Regno di Bboar? Il corvo gracchia mentre sotto il suo albero si materializza l'amalgama di oscurità che ho imparato essere Nulla. Lentamente, senza voltare le spalle ai mezzuomini, ci portiamo verso la statua dell'orso. Prima di raggiungerla sono costretto a voltarmi da una sensazione sgradevole, come avessi oltreato una muraglia appiccicosa di ragnatele. Non vedo niente eppure anche i miei compagni devono aver provato lo stesso, perché li osservo scrutare attorno con aria ebete. Abbiamo oltreato una barriera impalpabile, che si palesa direttamente alle nostre anime. «Salve umani, io sono Pharlokr, Divinatore di Bboar. Fuggite, finchè siete in tempo.» Il Divinatore pare comparso dal nulla. Solo dopo un attimo di sbigottimento mi rendo conto che il ventre della statua dell'orso sta vomitando decine di mezzuomini. Capeggiati da un omone deforme ammantato da una pelle marrone di

plantigrado, si stanno piazzando a farci da scudo. Dalle frasche spuntano una mezza dozzina di orsi bruni in carne ed ossa, bava alla bocca. I loro bramiti sono spaventosi così come il rumore degli sterpi fracassati dalla loro avanzata. Una carica di catafratti non è nulla a confronto. Cerco di reagire. Voglio avvisare il Divinatore del pericolo insito nelle creature che accompagnano i nostri inseguitori, ma quello ci ha già superati. «Questo è il Regno di Bboar, vecchia Madre, non sei la ben venuta, nè tu, nè la creatura empia che ti accompagna.» lo sento urlare, la voce gutturale che mi appare limpida e stranamente comprensibile. Pare impossibile che tanta autorevolezza provenga da un ometto che calza un costume da orso, eppure le parole del Divinatore sono penetranti come chiodi infuocati. Per tutta risposta la Regina emette un sibilo d'ira. Ora è veramente inviperita e solo gli Antichi possono sapere cosa sia in grado di combinare. I suoi seguaci partono alla carica a testa bassa, affrontando con coraggio orsi e nemici con le misere lance. Alle nostre spalle si scatena un pandemonio. Riesco a vedere il corvo spiccare il volo e tornare da dove è venuto. Nulla invece partecipa attivamente al massacro. Gli ometti del clan dell'orso vengono travolti e stritolati dalle sue spire nere come la notte. Solo il volto della Dea ha fattezze riconoscibili, il resto di quello che dovrebbe esserne il corpo, è un ammasso informe di vuoto ed oscurità. Zitara è impietrita. Morte mi fa cenno di muovermi, ma la grandiosità dello spettacolo mi avvince e sono curioso di scoprire i poteri della Dea. Non avremo una seconda occasione per carpirne eventuali punti deboli.

«Vai Uborugla, porta in salvo gli umani. Bboar è qui!» tuona il Divinatore, lasciando libero dal proprio giuramento il proprio guerriero-ombra. Il mezzuomo, anch’esso dalle vestigia d’orso, ci raggiunge. Pare terrorizzato. Non capisco se per l'abbandono del proprio protetto, o per l'arrivo del suo Dio. Ci incita a muoverci e siamo ben felici di assecondarlo. Poi lo percepisco. Come un'ondata di piena, Bboar si affaccia sulla scena. Finiamo riversi al suolo a baciare la terra umida di quella maledetta foresta. Le orecchie prima mi rimbombano, poi iniziano a farmi un male da impazzire. Sono certo che i timpani siano esplosi sotto la pressione esercitata dall’arrivo del Nuovo Dio. A stento riesco a sollevare la testa. Mi stupisco che la creatura non abbia raso al suolo l'intera giungla al proprio aggio. Il ricordo della Cava delle Teste Mozze s’insinua nella mia mente confusa: stesso tipo di caos primordiale, stessa furia priva di controllo. Mi volto per osservare ciò che sta accadendo. Vedo solo Pharlokr, le braccia sollevate in aria, la testa enorme d'orso che ne fa da copricapo che vola via strappata dal vento e lascia in bella mostra una calvizie lucente. Bagliori accecanti mi annichiliscono, rendendomi impossibile distinguere la scena. Comprendo comunque che lo scontro si sta spostando su un piano differente, quello della realtà non-ordinaria. Meglio così. Che gli Dei si affrontino nei loro regni e ci lascino in pace, una buona volta. Qualcuno mi sta arpionando il braccio, mi giro e vedo Morte, affiancato da Uborugla, l'uomo orso, che sta tirando su Zitara.

Scappiamo. Riesco solo a domandarmi cosa resterà della Regina Nulla, quando avrà sperimentato la furia di Bboar.

XXV. Quarto dell’Aria – Qilana la Figlia di Lena

Il plotone al seguito del Maggiore Firion si era lasciato alle spalle la città con il suo carico di ira e pentimento. Qilana li accompagnava cavalcando la sua giumenta dal manto candido. La Figlia di Lena sosteneva che i cittadini fossero in grado di cavarsela da soli. Ora avevano appreso quanto difendere la propria libertà e la pace fosse il bene supremo. Firion non era nelle condizioni di prestarle la giusta attenzione ed aveva quindi spronato la colonna ad un galoppo sostenuto, fino a giungere al luogo in cui lo aspettava il resto dell’unità e la Rabdomante morente. «Dov'è Polina?» chiese alle guardie poste a presidio della macchia boschiva appena fuori Aelissa. Il timore che la donna non avesse resistito lo attanagliava. L'apprensione era chiaramente visibile sul volto dell'ufficiale, eppure le due sentinelle erano perse ad osservare Qilana e parvero non sentire neppure la richiesta. Il Maggiore era sul punto di sbottare, ma la giovane che gli cavalcava al fianco pose una mano sulla sua spalla. Fu invaso da una sensazione di quiete che lo fece desistere dai propri intendimenti. «Non temete, Firion, salveremo la vostra amica.» Kolam, che montava alla destra della fanciulla, fece una smorfia ben attento a non farsi notare dall'ufficiale. Il guaritore conosceva le condizioni in cui versava la Rabdomante e non poteva certo condividere l'ottimismo della mocciosa. «Portatemi da Polina.» ripetè il Maggiore rivolto alle guardie, la mente che rifletteva sulla definizione data dalla Figlia di Lena al rapporto fra lui e Polina.

Amica… forse non si trattava di semplice amicizia. Non era in grado di comprendere se il suo fosse solo opportunismo legato all’importanza della Rabdomante per la missione, o qualcosa di ben più importante e profondo, un sentimento nascosto che quell’avventura stava alimentando. Finalmente uno dei soldati staccò gli occhi dalla ragazzina e si inoltrò nel bosco fino a condurli a uno slargo: un prato rettangolare d’erba spelacchiata sul quale i cavalli pascolavano tranquillamente. Il sole era alto nel cielo terso e tutto sembrava tranquillo, la guerra un ricordo lontano. Era pura illusione, pensò Firion ed era bene ricordarsene, invece di fantasticare su possibili amori in procinto di sbocciare. Gli uomini erano sparsi alla rinfusa, ma il tenente Tilmon era stato attento a piazzare sentinelle su ogni lato. Il Maggiore lo notò con piacere. Al centro dello slargo giaceva Polina, adagiata su strati di coperte. Il volto della donna era più pallido di come l’ufficiale lo ricordasse, e le occhiaie ancor più profonde. L'uomo si adagiò al fianco della ragazza, lanciando un'occhiata supplice alla Figlia di Lena. «Credete di poter fare qualcosa?» La ragazzina si accucciò e pose una mano sulla fronte della Rabdomante. Gli occhi azzurro ghiaccio della paladina di Lena divennero ancor più chiari e luminosi. Il corpo di Polina sussultò al contatto. Quella reazione fu difficile da valutare. Il Maggiore l'accolse con ottimismo, data l'immobilità che aveva caratterizzato la Rabdomante negli ultimi giorni, mentre Kolam pretese a gran voce una spiegazione da Qilana. Firion non si sentì di fermarlo, anzi alla fin fine ne fu quasi lieto.

La Figlia di Lena sprigionava una tale forza rilassante da rendere impossibile dubitare delle sue intenzioni, ma il Maggiore era troppo scafato per correre un tale rischio. Per quante raccomandazioni gli avesse fatto il Generale Enoc, e pur conoscendo la stima che provava il Duca Palwen nei riguardi della Figlia di Lena, lui preferiva farsi la propria idea e ancora non ne aveva avuto il tempo. Già, il tempo era proprio la risorsa di cui non disponeva. «Cosa le state facendo?» chiese bruscamente il chierico, per la seconda volta. Qilana non rispose, né staccò le mani dalla fronte. Dalle labbra rosa della fanciulla emersero solo parole sussurrate che presero forma in un cantico. Kolam stava per allontanarla da Polina, ma Firion questa volta decise di impedirglielo. Il chierico lo guardò furente. L’uomo di medicina non capiva cosa Qilana stesse facendo e non si fidava per nulla delle arti della ragazzina. «Come potete fidarvi di una perfetta sconosciuta? Poco più che una bambina per giunta?» Firion non lo sapeva, ma non avevano nulla da perdere oramai. Forse era solo la forza della disperazione, la mancanza di tempo, la poca fiducia nel guaritore che aveva innanzi, tremante e colmo d’ira, sempre pronto a cercar rifugio in un boccale di vino… non era in grado di saperlo, ma era certo di nutrire un profondo rispetto per quella fanciulla dai lucidi boccoli neri. «Me ne assumo tutte le responsabilità.» affermò l'ufficiale allontanando Kolam dalla ragazzina con una spinta. L'anziano guaritore si rassegnò, l'espressione che ava dalla rabbia all'indifferenza in un istante. Estrasse una fiaschetta dalla mantella e fece una lunga sorsata di vernaccia per poi voltarsi ed andarsene. Il Maggiore osservò l'uomo che si allontanava affranto e valutò che forse meritava maggior rispetto. Quanti dei suoi uomini aveva salvato? Quanti ne aveva ricuciti e rimessi insieme? «Scusami Kolam… rimani, te ne prego, potremmo aver bisogno del tuo aiuto…»

chiese con garbo Firion, resosi conto che l'apprensione per Polina lo stava facendo sragionare. Il chierico parve accettare di buon grado e rimase ad osservare cupamente l'opera di quella che era ancora indeciso se ritenere una bambina oppure una strega.

L'invocazione alla Dea della Pace crebbe di tonalità, gradualmente. Di pari o il viso di Polina assumeva una colorazione più naturale e le occhiaie violacee si assorbivano restituendo bellezza a quel volto provato. I versi degli animali della foresta, che sino a quel momento avevano riempito l'aria, si tacitarono al cospetto del suono cristallino della voce della fanciulla autoproclamatasi Figlia di Lena. Kolam era basito innanzi a quell'intervento che aveva del miracoloso. I soldati del Quarto dell'Acqua si radunarono tutt'attorno, irresistibilmente attratti dal cantico soave, costringendo Firion ad allontanarli. Il Maggiore sbraitò ordini alle sentinelle per farle tornare ai propri posti e impose agli altri di lasciare spazio, di farsi indietro, affinché Qilana e Polina potessero respirare meglio, sottraendole alla calca che si stava formando. La Figlia di Lena mostrava un cupo cipiglio in volto, come se l'azione intrapresa le stesse costando uno sforzo sempre maggiore. Goccioline di sudore le correvano lungo le guance candide, ma la determinazione che tutti potevano leggerle negli occhi dalle iridi oramai quasi trasparenti, era incrollabile. Kolam, abbandonata la ritrosia mostrata fino ad allora e gettata a terra la fiaschetta, le si avvicinò, rincuorandola e sostenendola. Il rito di guarigione durò ancora per poco. Qilana perse i sensi e si accasciò fra le braccia del chierico, mentre la Rabdomante socchiudeva gli occhi. Firion era incapace di reagire. Il mutamento improvviso dell’atteggiamento del chierico e la tensione della scena cui stava assistendo lo bloccarono.

A fatica la donna dai capelli ramati sollevò una mano a schermare gli occhi dalla luce del sole. «Polina…» riuscì allora a mormorare l’ufficiale sollevandole il busto. Non appena questa riuscì a metterlo a fuoco, parve sorpresa nel trovarsi fra le braccia del Maggiore. Un sorriso stanco le comparve sul viso prima che la stanchezza avesse nuovamente il sopravvento. Si addormentò così, stretta nell'abbraccio dell'ufficiale, il respiro nuovamente regolare. «Montate una tenda per le due Signore e preparate loro un giaciglio comodo, degno di regine!» ordinò gioviale il Firion. Dopo pochi istanti lui e Kolam disposero le donne su comode brande rivestite da folte pellicce e allestite nell'ampia tenda predisposta dai soldati. Quando si fossero risvegliate, avrebbero avuto parecchio di cui parlare. L’ufficiale era entusiasta. In un solo colpo aveva salvato la vita alla Rabdomante e trovato la Figlia di Lena. Se avesse creduto all'esistenza degli Dei, avrebbe rivolto loro una preghiera di ringraziamento, invece concesse un semplice grazie alla buona sorte che gli aveva arriso con tanta benevolenza.

Trascorse la notte intera senza che le donne si destassero. Il soldato posto a guardia delle due, riferì semplicemente che dormivano di un sonno tranquillo. Firion aveva preteso un aggiornamento costante, nonostante la stanchezza avesse colto anche lui. Troppe emozioni concentrate in troppo poco tempo. Gli anni ati a presidiare Forte Titano lo avevano indebolito, si disse, ma gli eventi fortunati della giornata non lo lasciarono troppo a lungo in preda ai rimpianti e presto riuscì a prendere sonno. La nottata trascorse altrettanto tranquilla. Nessun immacolato si avvicinò alla macchia boschiva, nè vi erano tracce di

Tribù dell'Aria nei dintorni. Così gli riferirono all’alba gli esploratori che aveva inviato a battere un raggio di qualche miglio intorno alla loro attuale posizione. All'indomani Qilana e Polina fecero capolino dalla tenda. Un gruppetto di soldati si avvicinò alle due complimentandosi e invitandole a unirsi a loro per la colazione, ma Firion, destato dal chiasso festoso, fu lesto a intercettarle e a portarle nella sua tenda. Polina, pur ancora incerta sulle gambe, pareva rinata. Qilana aveva invece ripreso completamente le forze e i suoi occhi erano tornati azzurri e vividi. «Mie Signore, vi prego di accomodarvi.» Il Maggiore indicò loro due scranni da campo posti attorno a un tavolino. Dopo che le donne si furono sedute, anche Firion prese posto e si concesse un istante per osservarle in viso. Il riposo aveva giovato a entrambe, grandemente. Ritenne inutile chiedere loro come si sentissero. I volti delle donne parlavano da soli. «Vi devo ringraziare, Maggiore.» esordì Polina. La sua voce era calma come poche volte Firion l’aveva sentita. «Non te lo saresti certo meritata, dopo il tuo atto di insubordinazione.» Non voleva essere troppo duro con la donna che aveva agito per il bene dei soldati, ma valutare sulle priorità era una prerogativa dell’ufficiale in comando e voleva essere chiaro in proposito. Il volto della donna si rabbuiò, come era solita fare quando non condivideva le opinioni del Maggiore. «Comunque tutto si è risolto per il meglio.» tagliò corto l’ufficiale, cambiando discorso e volgendo la propria attenzione verso Qilana. «È lei che dovresti ringraziare. Lei ti ha strappata a una morte certa.»

«Ne sono a conoscenza. Fosse stato per Kolam a quest’ora la mia anima vagherebbe per le sterminate praterie della realtà non-ordinaria…» scherzò Polina sorridendo alla Figlia di Lena, ma questa rimase imperturbabile. Firion ne rimase stupito, e anche la Rabdomante ritrasse la mano con la quale aveva cercato un contatto con quella della ragazzina. «Non scherzare con cose che non conosci.» l’ammonì Qilana con tono stranamente perentorio. Polina si ritrasse, quasi avesse ricevuto uno schiaffo in pieno volto. «E non dubitare delle capacità del chierico. Ha patito sofferenze inaudite. Sta a voi trovare il modo per risollevare il suo spirito.» Firion lesse nello sguardo della Rabdomante sconcerto e un lampo d’ira. La donna era troppo orgogliosa e mal digeriva prediche ed imposizioni, anche se a fargliele era colei che solo poche ore prima l’aveva salvata. Inoltre la figura estremamente fragile e giovane della fanciulla rendeva quella ramanzina grottesca. «Chi di tutti noi non ha mai sperimentato patimenti?» chiese la donna dai capelli ramati con fare accusatorio. «Eppure non tutti cediamo al richiamo dei demoni dell’alcol. Kolam non è più capace di fare il suo lavoro e questo è l’unico dato oggettivo.» Il Maggiore decise di concludere quella discussione sul nascere, cercando di approfondire qualcosa che lo incuriosiva molto di più. «Ti prego, Polina, non è il momento per tali discussioni, inoltre tu hai bisogno di riposo. Presto ci rimetteremo in marcia.» la liquidò l’ufficiale volgendosi a Qilana. «Sarei curioso di apprendere cosa sapete della dimora degli Antichi, la realtà non-ordinaria.» La ragazzina l’osservò a fondo con quegli occhi di ghiaccio capaci di leggere nell’animo della gente. «Voi, Maggiore, mi ricordate il Duca. Non stento a credere che vi abbia scelto per questa missione.»

Firion comprese che era giunto il momento per affrontare l’argomento a quattr’occhi e chiese alla Rabdomante di lasciarli a discutere. «Ogni scusa è buona per rimanere da solo con una ragazza, vero?» lo accusò Polina cercando di dissimulare lo scorno per essere stata allontanata. Evidentemente non si era del tutto ripresa, pensò Firion, altrimenti non si sarebbe lasciata liquidare così facilmente. Meglio così. Quando la donna fu uscita dalla tenda, il Maggiore riportò l’attenzione sulla Figlia di Lena. «Se potete, Qilana, sarei lieto di sentire la vostra storia. In che circostanze avete conosciuto il Duca Savio Palwen? È inutile negare che abbiate esercitato su di lui un fascino tale da indurlo a intraprendere un’impresa che ignoro, ma che sono certo comporti rischi enormi.» «Si potrebbe dire che sia stato il Duca a risvegliare il mio interesse in realtà… è una storia lunga, Maggiore, ci vorrà tutta la giornata.» Mentre la ragazzina parlava Firion si sentì avviluppare dal suo sguardo di ghiaccio nel quale presto si perse. La voce giungeva ovattata, mentre le immagini degli eventi narrati dalla giovane iniziarono a scorrere nitide innanzi ai suoi occhi. Una malia capace di incantarlo ed alla quale non oppose alcuna resistenza.

XXVI. Nuovo Quarto - Rivelazioni

«Allora, Templare, pare proprio che vi siate sbagliato alla grande!» lo sbeffeggiò Deifobo osservando compiaciuto il campo di sterminio. La furia dei componenti del clan dello Sciacallo guidati da Tha-ho si era abbattuta con violenza sul gruppo di vesti bianche. I resti dei fedeli di Lena erano sparpagliati alla rinfusa sulla piana; per lo meno quelli che non erano già stati gettati nelle fauci della miniera. Solo i due Cavalieri della Concordia avevano opposto una certa resistenza, mostrando le proprie doti guerresche e riuscendo a uccidere una mezza dozzina di ometti e altrettanti sciacalli. Gli animali, resi pazzi dall'odore del sangue si erano accaniti ad attaccare i due soldati, fino a spezzarsi i denti sulle loro armature complete, senza ugualmente desistere. Pari ferocia avevano mostrato i guerrieri di Kiquathu pur trovandosi innanzi ad avversari decisamente più forti di loro. La gioia allucinata con la quale gli indigeni avevano infine abbattuto i due paladini della Dea della Pace, era stata uno spettacolo capace di intaccare persino la flemma del comandante Rovers. Constatata la rabbia di cui erano capaci gli appartenenti al clan dello Sciacallo, all’uomo non era rimasto che ringraziare di essere dalla loro parte. Quella ferocia sarebbe tornata utile alla Centuria, per il prossimo futuro. Quello che ora destava preoccupazione nel capitano era lo stato di Palwen. Il Templare vagava alla disperata ricerca di un sopravvissuto al quale chiedere una spiegazione, una giustificazione che potesse lenire il disprezzo che gli montava dentro. Rovers immaginava quello che il Duca avrebbe voluto sentirsi dire: quelle vesti bianche avevano agito per proprio conto, senza il benestare della Sorella di Lena. Che né Agape, né il Patriarca sapessero nulla delle condizioni in cui versavano

gli ometti che lavoravano per loro e via discorrendo. Eppure Rovers lo sapeva. Non aveva dubbi. La realtà era ben diversa e a quel punto doveva essersene convinto anche Savio. Il Regno della Pace non era certo su questa terra! «Duca, fermatevi, vi prego.» disse il capitano di ventura dopo aver spedito Deifobo e ReCorvo a ispezionare la miniera in cerca di eventuali pericoli. Non voleva certo correre il rischio di subire aggressioni alle spalle né che qualcuno andasse in giro a riferire della loro presenza al fianco dei clan ribelli. Era meglio rimanere defilati nell’ombra per sorprendere il nemico quando meno se l’aspettava. Il Templare si fermò sovrastando i resti del corpo di un immacolato. Naso e guancia sinistra di questo erano stati strappati via a morsi e il bianco della mandibola risaltava sul rosso carminio della maschera di sangue che era il resto della faccia. «Avevamo un accordo, comandante Rovers.» sibilò Savio senza spostare lo sguardo dai macabri resti del confratello. «Avremmo dovuto parlare loro…» Rovers non si fece spaventare dal tono glaciale del nobile. «Non mi pare proprio. Cosa vi aspettavate, Duca? Avete visto come agiscono i fedeli di Lena.» Il Templare si voltò di scatto, la mano fremente che correva all'elsa della spada. Arma che era rimasta nel fodero per tutta la durata dello scontro. «Niente follie, Duca. Sapete benissimo che non sto mettendo in dubbio la vostra fede, nè il credo che viene professato nei Quarti. Ma qui, beh… qui funziona diversamente, non ci sono dubbi.» Rovers manteneva una calma e una sicurezza assoluta. Savio Palwen rimase immobile. Inspirò una serie di profonde boccate dell'aria miasmatica della battaglia: puzza di sangue e feci. Visceri che avevano ceduto di schianto, così come la fede di quegli uomini indegni del nome che portavano: immacolati.

Nulla di immacolato restava nei loro miseri resti così come in vita la loro anima si era insozzata compiendo le peggiori angherie. Il Templare si volse verso lo sparuto gruppo di ometti, gli schiavi dei suoi confratelli. Questi si erano radunati nei pressi della bocca della miniera e si stavano medicando le ferite a vicenda, alla meno peggio. I più versavano in condizioni penose, le carni profondamente scavate dalle frustate dei loro aguzzini. Molti di essi non avrebbero superato la notte. Altri meno fortunati sarebbero crepati più lentamente, a causa dell’infettarsi delle ferite. Fu Rovers a venirgli incontro. «Avevate ragione, Duca, nel Nuovo Quarto sta accadendo qualcosa di strano. La vostra intuizione era corretta e ora che ve ne siete reso conto, sono più fiducioso sull'esito della missione.» Palwen portò lo sguardo sul veterano. A lungo fissò quegli occhi cerulei, illeggibili. Il capitano aveva ragione, considerò. Se era giunto sin lì abbandonando Roskeim, nel profondo del cuore già sapeva che qualcosa non andava. Quando aveva espresso i propri dubbi a Qilana e aveva intravisto il sospetto insinuarsi anche nel volto della candida Figlia di Lena, aveva maturato la decisione d’imbarcarsi per quella missione, d’indagare in prima persona, per stroncare sul nascere eventuali devianze dai dettami della Dea. Ora, trovata un’esplicita conferma ai suoi sospetti, tutto sembrava più difficile. «Avete ragione, comandante. Le nostre ricerche sono solo all'inizio…» In quel momento il grido di Tha-ho ruppe il silenzio circostante. Un coro di ululati lo seguì a breve, mentre un dardo rimbalzava con uno schiocco sullo spallaccio dell'armatura di Rovers. «Vesti bianche!» tuonò di nuovo il guerriero-ombra correndo verso il proprio protetto. Il Divinatore Kiquathu era impalato nei pressi della miniera, le braccia sollevate

al cielo plumbeo. Gli occhi del copricapo a testa di sciacallo emanavano bagliori di brace. Dalle frasche circostanti sbucarono una ventina di immacolati e due Cavalieri della Concordia in groppa a possenti destrieri da guerra. Gli sciacalli non si erano accorti di nulla, l'olfatto ottenebrato dai miasmi del campo di battaglia. «Ora siamo noi ad essere caduti in un'imboscata.» ghignò il comandante Rovers sguainando la lama e sollevando lo scudo, per nulla intimorito. Il Templare questa volta lo imitò, impugnando la spada dalla lama candida e partendo alla carica. Avrebbe potuto chiedere aiuto a un elementale dell'Acqua, ma ora desiderava solo sfogare la propria frustrazione, combattendo. I due uomini incrociarono le lame con un gruppetto di quattro immacolati. I fedeli di Lena combattevano come i contadini che erano: inesperti e deboli, menando affondi alla rinfusa con le lance. In breve Rovers e Savio ebbero la meglio, neutralizzandoli e riuscendo a tenerne uno in vita. Lo avrebbero interrogato più tardi. Tutt'attorno però lo scontro volgeva rapidamente al peggio. Il capitano maledisse la sventatezza degli ometti che non si erano presi neppure la briga di piazzare delle sentinelle. Tanto dotati in forza e determinazione, quanto carenti in organizzazione ed esperienza. Alcuni mezzuomini erano stati uccisi già dalla prima salva di frecce, così come alcuni sciacalli. Ora erano in inferiorità numerica. Nel mentre i due Cavalieri avevano accoppato altri quattro ometti. Alcuni erano stati travolti e maciullati dalle loro cavalcature che ora impazzavano come demoni sulla spianata, terrorizzando gli altri. Uno dei cavalieri si fermò per affrontare Tha-ho, l’unico a non aver smarrito il proprio coraggio.

Il guerriero ombra era però impedito dal dover proteggere il Divinatore e si limitava a rimanere sulla difensiva. Rovers intuì che Kiquathu stava invocando Sciacal, ma temeva che se il Dio non avesse fatto in fretta, non avrebbe trovato più nessuno dei propri devoti da soccorrere. Si gettò quindi contro l'avversario di Tha-ho, ma questo si dimostrò abile a scorgerne l'arrivo. Nonostante indossasse un elmo completo, doveva aver presagito l'assalto del comandante della Centuria e ne aveva parato l'affondo, costringendo il destriero a indietreggiare. I rimanenti ometti del Clan dello Sciacallo, colti di sorpresa e forse appagati e stanchi dalla precedente strage, stavano avendo la peggio contro gli immacolati. Il Duca cercò lo scontro con l'altro Cavaliere, ma questo non accettò la sfida, limitandosi a inseguire e falcidiare dall'alto i mezzuomini tutt'attorno. Quando le sorti della schermaglia parevano decise, irruppero sulla scena ReCorvo e Deifobo. I due sbucarono di soppiatto dal ventre della terra. Con la balestra pesante, l'esperto delle polveri scoccò un dardo che si conficcò sotto la gorgiera del Cavaliere della Concordia che fronteggiava Rovers. L'uomo crollò dalla cavalcatura e fu subito preda degli sciacalli che gli si avventarono addosso, sbranandolo. ReCorvo colse di sorpresa il secondo, piantandogli una delle asce nella schiena e schiantandolo al suolo, la lama che squarciava con un boato la placcha dorsale della corazza del cavaliere. Ancor prima che potessero intervenire i canidi fu il barbaro abucense ad avventarsi sul malcapitato, strappandogli di dosso l'elmo e affondandogli i denti nel collo come era usanza presso la sua tribù. Il Templare, orripilato, lo sollevò di peso, cercando di farlo desistere da quel

gesto selvaggio, ma il guerriero dell’Isola di Abuc lo strattonò via facendolo rovinare al suolo. Ancor prima che potesse rialzarsi, Rovers gli porse la mano e lo aiutò, invitandolo con un cenno a soprassedere. Nessuno avrebbe fermato ReCorvo. Per lui quello era una sorta di rituale sacro. I restanti immacolati, vistisi privare dei propri paladini si diedero a una fuga precipitosa, scomparendo nel fitto della giungla. «Ben fatto.» si complimentò il capitano con tutti i presenti, nonostante una smorfia gli distorcesse il volto. Il Cavaliere divorato mezzo vivo dagli sciacalli, sussultava ancora e gridava, mentre le belve si ringhiavano contro l’un l’altra in cerca dei pezzi migliori. «Dovremmo aver finito qui.» disse il comandante cercando con lo sguardo il Divinatore. Riteneva che dovesse averne avuto abbastanza anche lui. Aveva perso un bel po’ di uomini, e bestie, per oggi. «Abbiamo fatto quanto andava fatto.» si limitò a constatare questo, sollevato dal non aver dovuto intercedere con Sciacal per quella che si era rivelata una misera schermaglia. In quel momento si sentì l’imprecazione strozzata del Templare. Rovers si volse e lo vide riverso sull’immacolato che avevano graziato pocanzi. «È morto.» sentenziò affranto il Duca. Nessuno fu in grado di capire la causa di quel decesso ma tutti maledissero l’impossibilità di interrogare un cadavere. «Ci fosse il Maestro, lui lo avrebbe fatto parlare.» disse ReCorvo ripulendo il sangue che imbrattava la sua ascia sulla mantella candida del Cavaliere abbattuto.

Rovers scosse la testa, imprecando contro la malasorte. In quel momento arrivò il grido di Deifobo che si era allontanato dalla zona. «Venite a vedere che meraviglia. Quanta manna!» urlava tutto contento il Biondo. Kiquathu e Tha-ho furono i primi a correre in direzione dell’esperto delle polveri, subito seguiti dai membri della Centuria. Trovarono Deifobo in piedi sulla balaustra di un carro. Seminascosti dalla vegetazione se ne potevano scorgere almeno altri cinque. Tutti di grandi dimensioni e tutti trabordanti mercanzie. «Avete visto, ragazzi? C’è cacciagione sufficiente per sfamare un esercito.» Un sorriso sguaiato riempiva il volto del giovane guerriero. «Quelli che ci hanno attaccato dovevano far parte di un gruppo di lavoro dedicato alla caccia che ava nei dintorni. Devono aver sentito i rumori dello scontro.» considerò Savio avvicinandosi a un carro e sollevando il telo che ne celava il contenuto. Sul carro erano accatastate decine e decine di carcasse di animali: antilopi, gazzelle, cinghiali e mille altre specie, alcune delle quali del tutto sconosciute ai membri della Centuria. Alcuni erano ancora vivi, in agonia, poiché le loro zampe ancora fremevano. Gli ometti del Clan dello Sciacallo si avvicinarono a loro volta. Ad occhi sgranati osservarono quel coacervo di resti animali, brutalizzati, il sangue che colava in rivoletti continui dalle fessure delle assi del carro. Kiquathu esplose improvvisamente in una nenia triste. Gli indigeni erano sul punto di piangere. «Sembra proprio che tengano di più alle bestie che ai loro simili schiavizzati…» scherzò Deifobo, ma Rovers osservava in silenzio, il volto cupo come scolpito nella roccia.

Stava riflettendo. Aveva pensato che la simbiosi fra mezzuomini e rispettivi animali giuda fosse puramente opportunistica, che il loro Dio antropomorfo mezzo sciacallo, fosse solo l’ennesima trasmutazione di qualche divinità Antica che per l’occasione si fosse dilettata a prendere le sembianze animali… ma quella scena, quella tristezza autentica, drammatica, gli aveva fatto balenare un sospetto ben diverso. Ne avrebbe parlato con Shoggul, decise. Era tempo di tornare al campo. Non avrebbe sopportato altre sorprese per quel giorno.

XXVII. Nuovo Quarto – Serpe Nera e Serpe Bianca

Il Reietto non si dava pace. Con ogni mezzo cercava di sondare la coltre di nebbia che oscurava un'ampia fetta del Mondo di Alenna. Karima, la Dea dell'Amore, gli aveva confermato che stava accadendo qualcosa di anomalo, qualcosa che andava oltre la sua stessa comprensione divina. La sensibilità verso ogni manifestazione amorosa faceva però ritenere alla Dea che qualcosa di distorto fosse alla base di quel vuoto di informazioni. L'Araldo del Bianco ne avrebbe voluto parlare con il Custode, ma questo, come spesso accadeva in quei casi, era scomparso. Non era mai capitato in precedenza che frazioni di Mondi venissero celate allo sguardo dello sciamano, divenuto onnisciente da quando era stato accolto nella Torre Bianca. Il Reietto temeva potesse trattarsi dell'opera del loro antagonista, il Custode Nero, ma sapeva che un intervento di tale portata sarebbe equivalso a una dichiarazione di guerra agli Antichi stessi. Per allestire una barriera capace di oscure la vista onnipotente di un Dio, dovevano essere stati impiegati poteri capaci di attrarre l'attenzione di Ulnar stesso, il Padre di tutti gli Dei. No, l’Araldo non poteva crederlo. Il Bianco non lo avrebbe mai permesso. Mai avrebbe consentito al Nero di mettere a repentaglio l'esistenza stessa delle Torri; mai avrebbe concesso alla propria nemesi di annientare il loro lavoro, di cancellare la memoria dei Mondi per un qualche capriccio che il Reietto non era neppure in grado di immaginare. Tornò a concentrarsi sul tomo che stringeva fra le mani. Le scritte scaturivano dal nulla, andando ad impreziosire le spesse pagine di pergamena con simboli e icone dalla splendida fattura ma dal significato

drammatico: parlavano di guerra. Guerra fra il Quarto dell'Aria e quello dell'Acqua. Insurrezioni di popoli, prostrati dall'incessante durata dell'odio che divorava tutto. E descrivevano il lavorio sommerso e incessante della Setta dei Domatori di Demoni che concentravano le loro attenzioni sul Quarto della Terra. Squarci di storia di un Mondo che sicuramente avrebbero caratterizzato quegli anni, ma dai quali l'Araldo non riteneva potesse derivare qualche evento epocale. Solo dalla coltre oscura che celava il Nuovo Quarto emanava una sensazione di inquietudine, capace di farlo rabbrividire. Un accentrarsi di flussi ingovernabili di potere che il Reietto avrebbe voluto analizzare, conoscere, scoprire, ma che invece lo rendeva impotente, cieco spettatore. Erano ore che osservava quel contorcersi di cumuli vaporosi quando all'improvviso gli parve di scorgere un varco: una luce capace di scavarsi una via di fuga fra le grasse nubi temporalesche e una voce flebile che chiedeva consiglio. «Allora, Santo, vediamo di capire bene cosa hai da dirmi…»

«… sono giorni che pretendi di parlarmi e ora te ne stai muto?» Il Maestro d'Ossa scuoteva la sacca benedetta, aspirandone a pieni polmoni l'afrore. Il lezzo contribuiva ad ottundere l'olfatto e ad acuire i rimanenti sensi, era solito dire. Shoggul ballava. Ogni o era cadenzato dal tintinnio dei camli che aveva legato a bracciali e cavigliere. «Per te sto disobbedendo agli ordini del Comandante!» tuonò senza interrompere i propri movimenti sgraziati.

Era vero. Aveva lasciato Elyn e la guerriera di Abuc al proprio destino. L'ultima volta che le aveva viste, prima di intrufolarsi nella giungla, la guaritrice era rinchiusa nella tenda a preparare intrugli con erbe di tutti i tipi, mentre Siqquara si dilettava ad affilare l'enorme ascia da guerra. La donna-barbaro si era piazzata proprio innanzi all'ingresso della tenda e lanciava occhiate di sfida a ogni mezzuomo che si trovasse a are da quelle parti. Non c'era da stupirsi che questi tirassero diritti per la propria strada. Non fosse bastato l'aspetto rude della donna, di certo non paragonabile alla bellezza naturale di Elyn o alla raffinatezza di Zitara, quell'arma micidiale era da sola capace di far desistere ogni folle che avesse voluto profittare della donnaenergumeno. Il Maestro cercò di non pensare al destino delle donne: aveva il Santo a cui badare. Iniziò ad intonare una serie scomposta di sillabe capaci di far focalizzare la concentrazione ad un livello superiore. Il Santo non parlava. Aumentò la cadenza dei movimenti, le gambe che colpivano il suolo a un ritmo forsennato sollevando terriccio e sassolini. Il sudore cominciò a ruscellargli dalla fronte. Quella maledetta foresta e la sua umidità lo spossavano. Doveva concentrarsi maggiormente. Il tintinnare dei camli era rilassante, capace di renderne i movimenti più fluidi, aggraziati quasi. Il colore dello scheletro dipinto su tutto il suo corpo prese a sciogliersi, cancellato dalle goccioline di sudore che lo ricoprivano oramai integralmente. Gli occhi iniziarono a bruciargli in modo fastidioso.

Il Santo si scaldava. Il calore emanato dalla sacca rincuorò Shoggul, che cantò più forte, per sovrastare i versi degli animali della foresta… animali… che animali? Non aveva sentito niente fino a pochi istanti prima. Come era possibile? Una giungla come quella doveva essere piena di animali di tutti i tipi. Perché tacevano? Cosa li aveva terrorizzati al punto da farli ammutolire? E ora quel verso, singolo e possente… Sbatté le palpebre, una, due, mille volte per tentare di sgranare il mondo che lo circondava. Gli occhi bruciavano in modo insopportabile, poi una luce gli concesse di vedere la creatura che emetteva il verso alieno: era un abominio, una serpe a due teste agli estremi opposti del corpo, priva di coda, metà bianca e metà nera. Le teste a prisma sibilavano all'unisono, come se l'una volesse prevaricare l'altra, le lingue che frustavano l’aria con violenza. Il Santo parlò: Fai la tua scelta. Il Maestro d'Ossa sapeva a cosa faceva riferimento l’artefatto benedetto. D’istinto fece un balzo e con il calcagno calpestò la testa nera del rettile, maciullandola. La materia celebrale dell'essere schizzò in tutte le direzioni, mentre l'aspide si dibatteva in modo orribile. Poi dal cadavere della creatura, una colonna di luce corse verso il cielo. A Shoggul parve di addormentarsi, crollò al suolo, coricato con il viso accanto al Santo.

Quando riprese conoscenza i resti del serpente erano svaniti. Teneva il Santo fra

le braccia, come fosse un neonato da cullare e coccolare. La sacca benedetta era calda, indice che gli Spiriti erano favorevoli e disposti a parlare. Salve Stregone, abbiamo molto di cui conferire. disse il sacco pieno di liquami. Il Maestro d'Ossa fu sul punto di scagliarlo via, sbalordito dalla nitidezza delle parole del Santo. A stento si trattenne, sollevandosi in piedi e depositandolo delicatamente sul tronco mozzo di una palma lì vicino, quasi gli scottasse fra le mani. Da dove vogliamo cominciare? Gli occhi di Shoggul erano sul punto di schizzare fuori dalle orbite. Il Maestro si stupì a pensare all'effetto che la scena avrebbe avuto su quel miscredente di Deifobo. Purtroppo quello stolto non era nei paraggi. Non abbiamo molto tempo, cerca di riprendere il controllo. lo redarguì con gentilezza il Santo. «Tempo…» riuscì infine a dire il Maestro. «… non è questo che mi preoccupa…» Invece dovrebbe. Forze immense si addensano nella terra che abiti. Aiutami a smuovere l'oscurità che la permea e ti offrirò le conoscenze che vai cercando. «Chi sei? La tua voce è chiara e non parli per enigmi…» C'è troppa incertezza per aggiungerne altra. Dimmi, chi governa queste lande? Shoggul era sorpreso ma senza indugio rispose. «Kiquathu? Il Clan di Sciacal?» Sciacal? E chi sarebbe? Il Maestro d'Ossa si fermò a riflettere. Le entità con cui conferiva di solito potevano essere imprevedibili, ma non dichiaravano mai la loro ignoranza. L'appartenenza alla realtà non-ordinaria, al regno degli Spiriti e degli Antichi,

conferiva loro una conoscenza illimitata di quello che accadeva nel dominio degli uomini. Stava ancora valutando se sbarazzarsi del Santo, se bruciarlo e purificarlo, temendo di aver richiamato qualche demone pronto a cibarsi della sua anima, quando quello riprese a parlare. Eventi illeggibili caratterizzano il Nuovo Quarto. Forze inclassificabili si muovono sotto un sipario di tenebre. Aiutami a comprendere e risponderò alle tue domande. La tua scelta è stata corretta, non temere. Calpestando la serpe nera hai seguito il tuo intuito e il Bianco ti protegge. Io sono… solo un Araldo. Non hai nulla di cui temere. Shoggul percepiva sincerità e buon senso. Se tali sentori fossero indotti da qualche malia, non era in grado di saperlo, ma decise di rischiare. La sua indole glielo imponeva. «Ti racconterò la mia storia, la storia della Centuria, la storia che ci ha condotti in questo luogo pericoloso…» Ti ringrazio, ma affrettati, non vogliamo essere scoperti giusto? Il Maestro concordava. Pur non comprendendo appieno quel bisogno, capiva che ne andava della sicurezza di entrambi. Gli raccontò quindi tutto ciò che sapeva. Gli narrò degli indigeni che abitavano quel Quarto, della loro Dea Madre che li aveva abbandonati, dei Nuovi Dei che erano sorti per colmare il vuoto lasciato da questa, dei seguaci di Lena giunti dai Quarti e del Traghettatore dei Mondi che sin lì li aveva condotti. Il Santo ascoltò in silenzio, vibrando, preda di una convulsione improvvisa solo nel momento in cui sentì nominare il Traghettatore. Il Maestro d'Ossa era stremato, come se ogni parola proferita fosse un lembo della propria anima che gli veniva strappato a forza. Fu sul punto di cessare il racconto in più di un’occasione, ma il fatto stesso che il Santo non lo incitasse ad andare avanti, non gli imponesse quella disquisizione sofferta, lo convinse della buona fede di quello che si era definito un Araldo.

Quando ebbe terminato si accasciò al suolo, stremato. Ansimava come un mantice, l’esile cassa toracica che inalava a fatica ampie boccate d’ossigeno. Vicende interessanti, Maestro, capaci di chiarire e svelare dubbi divini. intervenne infine il sacco di sterco. Shoggul sollevò lo sguardo, incerto se attendersi un colpo di grazia, ora che aveva confessato quanto sapeva, o un'illuminazione capace di ricompensarlo dello sforzo profuso. Non arrivò nè l'una, nè l'altra. Il Santo si accomiatò, promettendo semplicemente che avrebbe trovato il modo per ripagarlo e vaneggiando qualcosa sul fatto che il Maestro sarebbe divenuto i suoi occhi su questo Mondo. A Shoggul sembrò una fuga precipitosa, non preventivata nè voluta, ma pur sempre un sottrarsi alla promessa fatta di conferirgli conoscenze. Non fece a tempo a rammaricarsene perché crollò sfibrato in un sonno profondo che lo avrebbe ricondotto alla realtà.

XXVIII. Quarto dell’Aria - Solo un arrivederci

Firion decise di convocare anche Polina. Nonostante la quiete apparente sapeva che attorno a quell'isola di pace in cui era immerso il suo contingente, si stavano scatenando aspri conflitti. Temeva qualche sgradita sorpresa da parte dei mastri dell’Aria e l’unica contromossa adeguata sarebbe stata quella di coinvolgere la Rabdomante. Non aveva più avuto informazioni sull’avanzata del Colonnello Ramelon. Alcuni esploratori inviati in zona non avevano ancora fatto ritorno, il che non lasciava presagire nulla di buono. Maledisse l’assenza di un Rabdomastro che avrebbe potuto incaricare un’Ondina o una Fatina d’Acqua di fungere da messaggero. Anche Polina avrebbe potuto coercitivamente costringerne una, ma in quei casi si sapeva che le creaturine potevano giocare brutti scherzi, riportando l’esatto contrario di quanto veniva loro riferito. Meglio evitare e rimanere nell’assenza di informazioni, piuttosto che disporne di dubbie o di sbagliate. Era una regola fondamentale in guerra. Dopo il lunghissimo conciliabolo avuto con la Figlia di Lena, il Maggiore era ancor più convinto a ane l'azione. Vi erano due anime nella rivolta portata avanti dai fedeli della Dea della Pace e il Duca l'aveva capito, sposando quella rappresentata da Qilana. Almeno questa era l’interpretazione che ne aveva dato il suo Signore, e lui la riteneva corretta. Se la Chiesa istituzionalizzata presieduta dal Patriarca e dalle Sorelle di Lena pretendeva il controllo temporale delle città liberate, non così pareva voler fare la ragazzina che Savio Palwen l'aveva mandato a cercare. La Figlia di Lena voleva solo donare la Pace agli uomini oppressi dalle infinite guerre di potere con sollevazioni volte a far ragionare i Re dei Quarti oltre che i

loro sudditi. Con il Duca ci era riuscita e sicuramente la missione da questo intrapresa doveva essere volta a consolidare quell'idea di libertà da trasmettere ai regnanti, Firion ne era convinto, anche se Qilana non si era sbottonata a riguardo. Ora rimaneva da decidere dove, e quando, avrebbero dovuto colpire il Quarto dell'Aria per costringerne alla ragione i Capi Tribù. Se possibile il Maggiore voleva convincere anche la Rabdomante a fornire il proprio aiuto incondizionato. Sapeva quanto Polina fosse testarda e desiderava quindi coinvolgerla nelle operazioni sin dall'inizio. Proprio in quell’istante, il soldato di guardia fuori dalla tenda annunciò l'arrivo della donna, la quale senza attendere il permesso, entrò, presentandosi a Firion con uno sguardo carico d'astio. «Credevo aveste deciso di fare a meno dei miei servigi.» L'uomo considerò che doveva essere perfettamente guarita. Era stata sufficiente quella seconda notte di sonno per far riaffiorare il caratteraccio della donna. Sorrise al pensiero di quanto Polina incarnasse alla perfezione, sia per aspetto fisico che caratteriale, le genti del Quarto del Fuoco pur essendo lei nata e cresciuta in quello dell’Acqua: capelli ramati, occhi verdi e temperamento focoso, un'indole pronta ad avvampare alla minima occasione. Doveva avere degli avi originari del Fuoco, oppure come sostenevano alcuni dotti, alla finfine le differenze razziali erano solo un’idea inculcata dai regnanti per tenere vivo l’odio verso gli altri Reami e giustificare le guerre. «Noto con piacere che siete allegro, Maggiore, anche se non riesco a comprenderne il motivo.» sbottò la donna. Firion si fece serio. «Mi rallegravo per la tua salute ritrovata. In realtà ti ho convocata proprio perché voglio il tuo parere sulle prossime mosse.» Polina udendo quelle parole, si calmò, si sedette sullo scranno e attese che l'ufficiale andasse avanti, impaziente.

Firion invece prese due calici, li riempì di sidro e ne offrì uno alla donna, accennando poi a un brindisi beneaugurante. In quel momento la guardia annunciò l'arrivo di Qilana. Il nettare andò quasi di traverso alla Rabdomante che confidava in un colloquio privato col Maggiore. «Ecco, ora siamo al completo.» disse Firion accogliendo la Figlia di Lena e facendola accomodare al tavolo sul quale aveva srotolato una mappa ritraente quella sezione di Quarto dell'Aria, l’area che copriva la Steppa dei Patiboli. «Dovremmo quindi discutere i nostri piani con lei?» chiese Polina guardando in tralice la ragazzina che le aveva salvato la vita. Questa portò gli occhi chiari sulla donna. Una calma assoluta traspariva da quello sguardo innocente. «Dimmi, Polina, cosa ti disturba della mia persona?» La Rabdomante parve sorpresa da quella domanda diretta e si sentì avvampare. Anche il Maggiore la guardava con disapprovazione. Decise di rompere gli indugi. «Mi hai salvato la vita, questo è vero. Te ne sarò riconoscente per sempre, ma non posso ugualmente condividere il tuo credo, nè le tue azioni.» Firion non se l'aspettava. La Rabdomante si era sempre mostrata scettica su Qilana, giungendo a dubitare della sua stessa esistenza, ma mai aveva mostrato aperta disapprovazione sul culto della Dea della Pace. Evidentemente era schierata sulle stesse posizioni di Re Saleon e questo poteva essere pericoloso, conoscendo la testardaggine della donna. Questa fu capace però di stupirlo ancora. «Perché vi comportate così? Perché abbandonate il popolo al proprio destino dopo che questo ha rischiato per voi sfidando i propri governanti?»

La donna capace di evocare le forze dell'Acqua, pareva decisa ad andare a fondo della questione. Qilana non vacillò e rispose con altrettanta determinazione. «Di chi parli? Di me o della Chiesa di Lena? Operiamo in modo molto diverso.» «La Chiesa di Lena almeno protegge i propri fedeli, dà loro da mangiare, costruisce fortezze e combatte affinché le città liberate rimangano tali!» «Già» ammise con tristezza la giovane «protegge e combatte, fomenta nuovi scontri, genera nuove guerre, apre nuovi fronti e nuove ferite. Credi che questo sia il volere di Lena? Credi che la Pace possa essere alimentata dal sangue?» Polina rimase in silenzio, ma non certo battuta. C'era del vero nelle parole della mocciosa, ma le incongruenze erano palesi. «Quando la sofferenza si fa insopportabile, la morte è portatrice di pace e sollievo. Morire per difendere la propria libertà è meglio che morire di fame e l’unico modo per mantenere la proprià libertà una volta conquistata è continuare a combattere. Seve un’organizzazione strutturata per far sì che i rivoltosi non vengano lasciati a se stessi.» affermò infine la donna. «Certo, ma quelle anime da chi verranno accudite? Chi le rivendicherà? Forza Rabdomante, dimmelo.» La donna non era in grado di rispondere e non credeva che la cosa avesse grande importanza. «Io penso all'eternità, cara Polina. Penso al bene delle Anime delle genti. Solo un mutamento nelle loro convinzioni più profonde, solo la vera Fede nella Pace, in Lena, potrà consentire loro di accedere ai campi beati della Dea. Loro devono essere gli artefici della propria liberazione sulla terra, non i Cavalieri e i Templari della Chiesa di Lena con le loro armi insanguinate. Mi capisci?» Firion ascoltava le due donne, ma la mente stava già rivalutando tutta la situazione. A lui quelle diatribe importavano poco. La sua fedeltà andava ancora, e prima di tutto, al Quarto dell'Acqua. Doveva volgere quelle nuove conoscenze a vantaggio di questo. Il Duca e Qilana erano giunti alle stesse conclusioni della Rabdomante: c'erano

effettivamente due correnti all'interno delle rivolte degli immacolati. Savio Palwen aveva deciso di approfondire la cosa e si era schierato chiaramente con la Figlia di Lena. Pur avendo trovato collocazione all'interno delle gerarchie della Chiesa di Lena come Candido Templare, Firion era convinto che il Duca preferisse che questa si occue solo delle anime dei fedeli e lasciasse il potere temporale nelle mani dei Re dei Quarti. Per questo voleva aiutare Qilana. Aveva collaborato con lei al fine ultimo di far cessare la guerra fra il loro Quarto e quello dell'Aria e così avrebbe fatto a sua volta. Gli ordini del Generale Enoc erano questi d'altronde, indice che anche lui era giunto alla medesima conclusione. Polina stava ancora riflettendo sull'ultima affermazione della ragazzina così Firion decise di prendere in pugno il discorso. Avrebbe dovuto portare la Rabdomante dalla loro parte. Il suo contributo era indispensabile. «Signore, comprendo le vostre posizioni, e le regioni di entrambe. Purtroppo la dura realtà che ci circonda è fatta di guerra e la nostra comune intenzione è di riuscire a farla cessare, al più presto. Che questo avvenga grazie ai nostri valorosi soldati o alle sollevazioni del popolo del Quarto dell'Aria, poco conta. Dobbiamo impegnarci affinché la fine delle ostilità giunga il prima possibile. A tal fine vi ho convocate. Siete d'accordo almeno su questo?» Entrambe annuirono e il Maggiore proseguì ad esporre il proprio piano indicando sulla mappa i prossimi obbiettivi e le tempistiche. Gli insediamenti più vicini, a sud e ad est di Aelissa, erano rispettivamente Olir e Fleon. Si trattava di due villaggi, niente di importante, ma che era bene avere dalla propria parte per non lasciarsi alle spalle insediamenti nelle mani dei nemici. Firion avrebbe conquistato il primo, difeso da uno sparuto gruppo di guerrieri dell’Aria, mentre Qilana avrebbe fomentato la rivolta nel secondo, che a detta dei battitori era privo di difensori. Fatto questo avrebbero marciato verso Savala, una città di notevoli dimensioni, dove l'intervento congiunto delle loro forze avrebbe concesso maggiori

possibilità di successo. Le donne seguirono con attenzione il piano predisposto dall'ufficiale e si mostrarono d'accordo. «Con il vostro consenso, domani erò le consegne ai miei ufficiali e dopodomani ci metteremo in marcia. Noi» disse rivolgendosi a Qilana «ci rivedremo a Savala.» Il volto della fanciulla si adombrò per un istante, ma subito la Figlia di Lena si riebbe. Lo sforzo per assumere un’espressione serena fu comunque visibile a tutti. «Confido nella vostra parola, Maggiore. Io partirò stasera stessa.» Con un cenno Polina e Firion la salutarono, mentre Qilana la Pura si alzava e usciva dalla tenda.

Kolam si era portato ai margini del campo allestito dallo squadrone di Firion. Il sole era tramontato lasciando spazio a un cielo privo di nubi. Cortine di stelle e una luna ammezzata concedevano una blanda illuminazione, capace di far godere appieno della natura circostante. Il chierico aveva bisogno di allontanarsi dall’agglomerato di tende per rimanere da solo. I fuochi erano stati spenti già da tempo per evitare di attirare attenzioni indesiderate, ma gli uomini stentavano ad andare a coricarsi. Quando Kolam si fu lasciato alle spalle il brusio della soldataglia si sedette sul terreno morbido e appoggiò la schiena al tronco di una quercia. L’unico rumore a macchiare il silenzio circostante era il frinire dei grilli. L’uomo estrasse la fiasca di vernaccia e tracannò una lunga sorsata. Pensava ancora all'intervento miracoloso della ragazzina. Non aveva mai assistito a una guarigione tanto prodigiosa. Non era la prima volta che si trovava innanzi agli

esiti nefasti di un abuso delle proprie forze da parte di un cultore degli elementi. Erano i Rabdomanti, coloro che imbrigliavano le forze dell'Acqua con la propria volontà, a correre quei rischi e non era insolito che per testardaggine si ritrovassero svuotati finendo col divenire fantocci destinati a morire di inedia. Di rado si riusciva a ridare loro vigore e il processo era comunque lungo e faticoso. Senza le necessarie pozioni, era del tutto impossibile. Polina aveva esagerato consumando le proprie energie fino ad estinguere la propria vitalità. Certo lo aveva fatto per salvare delle vite, ma si era spinta troppo oltre. Era incredibile come Qilana le avesse donato forza, attingendo probabilmente dalla propria. Un intervento miracoloso, indubbiamente, concluse il chierico prendendo l’ennesima sorsata di acquavite. Quella fanciulla nascondeva qualcosa di speciale dietro i suoi occhi di ghiaccio e la sua apparenza gracile. Doti straordinarie che non solo le concedevano di guarire ma anche di affabulare il popolo, forzandolo ai propri voleri. Un personaggio decisamente fondamentale per la salvezza del Regno. Trasse un'altra sorsata, immerso in pensieri che si facevano sempre più profondi, quando il nitrire di un cavallo lo fece sobbalzare. Un rivolo di grappa gli ruscellò lungo la barba, mentre il chierico scattava in piedi. Il cavallo bianco spuntò dalle frasche. Ancor prima di vederla, Kolam, fu certo che a montarlo fosse la Figlia di Lena. Un tenue bagliore l’avvolgeva rendendola simile ad un miraggio baluginante. La ragazzina lo vide e gli andò incontro. Quando la giumenta gli fu a pochi centimetri dal volto, il chierico le si inginocchiò innanzi, a testa china.

«Donatemi la pace, mia Signora.» Kolam non avrebbe saputo spiegare la propria mossa, ma sentiva di trovarsi innanzi a una fonte capace di lenire tutte le sue pene. La fanciulla non diede mostra di imbarazzo. Non scese da cavallo ma lo invitò ad alzarsi e ad avvicinarsi. Titubante questo le si fece incontro. Senza che lei gli chiedesse nulla, scagliò lontano la fiasca che ancora stringeva in pugno, improvvisamente colmo di vergogna. Qilana gli pose una mano delicata sulla fronte, lo carezzò, e gli asciugò la bava mista a vernaccia. «Siete un brav’uomo, Kolam. Le vostre arti sono preziose per salvare altre vite ed alleviare il dolore che spadroneggia nel Mondo. Io vi benedico, usate il poco tempo che vi rimane per servire la Pace e la vostra anima troverà la Pace.» Il tono solenne strideva con la giovinezza scaturita da quel corpo minuto e ben fatto. «Grazie, mia Signora.» riuscì solo a dire il chierico. Poi la osservò allontanarsi nella notte, il bagliore che lentamente si affievoliva fagocitato dalle tenebre.

XXIX. Nuovo Quarto – Al campo del Clan dello Sciacallo

Il sole è oramai alto quando c’imbattiamo nel corpo del Maestro d'Ossa. Per poco non lo travolgiamo nella nostra fuga precipitosa dalle divinità confliggenti. È un pezzo che non sentiamo il bramire fragoroso del Dio Bboar o le grida stridule e inviperite di Nulla, tuttavia non ci siamo mai fermati. La paura ci ha concesso di andare avanti ben oltre quello che il nostro fisico ci avrebbe consigliato. Ora però è diverso. C'è un compagno a terra. Shoggul è riverso al suolo, il Santo che pare irriderlo dall'alto del tronco di una palma, lì a fianco. «Sta fermo!» sbotta Zitara, mentre Uborugla indaga sul corpo emaciato del nostro compagno, punzecchiandolo con l’ascia dalla lama in selce. Il guerriero ombra, che si è lasciato alle spalle il proprio protetto, è nervoso e pronto a compiere gesti irreparabili. «È il Maestro d'Ossa.» cerco di spiegare all'ometto-orso mentre l'assassina lo prende per le spalle e lo allontana. L'indigeno si volta, gli occhi tondi, sporgenti e grandi come arance che percorrono il corpo sinuoso della donna. Il contatto con le mani di lei deve averlo eccitato, facendogli dimenticare tutto il resto. Un rigonfiamento sulla pelle d'orso che ne cinge fianchi e parti basse, mi dà il vomito. L'assassina fa un o indietro, disgustata, mentre Morte le si para innanzi. I due combattenti si osservano con odio.

L'ex Domatore di Demoni con occhi neri come gli inferi, non accenna a toglierglieli di dosso, ma neppure il guerriero ombra del Divinatore di Bboar pare temerlo. Non so se per stoltezza o perché conscio dei propri poteri, che noi ancora non conosciamo. Li lascio lì, pronti a scannarsi come due galli da combattimento, e cerco di far rinvenire il Maestro. Ho visto il suo torace esile sollevarsi ritmicamente, quindi il vecchio non ha tirato le cuoia. Ne sono lieto. Gli sollevo il busto con delicatezza. È leggero come quello di un bimbo. Per l’ennesima volta mi stupisco di come tanto potere spirituale possa essere contenuto in un involucro così fragile. «Maestro, cosa è successo?» provo a svegliarlo, dolcemente. Prendo la borraccia e gli o dell'acqua fredda sul volto. Scuote la testa, infastidito, la bocca che si spalanca mostrando una smorfia sdentata. Poi apre un occhio, la pupilla che vaga nel vuoto. Infine apre anche l'altro e dopo un lungo istante pare mettermi a fuoco. «Sei tu Yorik… dov'è l'Araldo?» Lo aiuto ad alzarsi visto che ci sta provando da solo, con scarsi risultati. Sembra confuso… più del solito. «L'Araldo mi ha ingannato!» si infervora non appena individua la sacca benedetta appesa all’albero. «Calma Shoggul, calma. Abbiamo ben altri problemi.» cerco di rassicurarlo. Poi vede Uborugla fronteggiare Morte, e il suo sguardo si fa più mansueto. Si solleva, le esili gambe che gemono sotto il suo peso irrisorio. «Forza ragazzi, smettetela.» dice afferrando il Santo con lo stesso tono che ebbe un padre per redarguire i propri figlioletti.

Non appena la mano scheletrica si posa sul sacco lo vedo però vacillare. Fissa il vuoto, stringendo in modo ossessivo la yutta del Santo. Trema, tintinnando. I sonagli che ha legati al corpo lo rendono simile in tutto e per tutto a un giullare triste. Io e Zitara accorriamo a sostenerlo. «Che succede, Maestro?» Uborugla e Morte ci sono a fianco. Hanno smesso di fronteggiarsi e hanno entrambi una strana espressione in volto: preoccupazione e sconcerto. Shoggul torna fra noi. «Dobbiamo fuggire, Bboar è morto. Siamo in pericolo.» Le sue parole suonano tetre come condanne. Bboar, morto? Da quando un Dio può morire? A che razza di divinità si sono affidati questi ometti? Le lezioni all'accademia di Askeen mi affiorano lentamente alla memoria: la Regina Nulla, la Madre, un vertice della Triade composta da lei, il Padre degli Antichi Ulnar e il Dio del Fuoco Asul. Certo, l'ultimo nato, Bboar, si è cercato proprio un avversario ostico… «Non crucciarti guerriero.» prosegue Shoggul rivolto a Uborugla. «Un Dio non può morire.» Il mezzuomo-mezzorso lo guarda con aria di sconcerto. Non capisce la nostra lingua e anche se la capisse le frasi del Maestro sono del tutto folli. Ha appena annunciato la morte del Dio Orso per poi sostenere che un Dio sia immortale… «D'accordo, andiamocene, non voglio che Nulla ci trovi qui allo scoperto!» ordino agli altri.

Mi sono stufato di tutti loro. Voglio solo raggiungere il campo del Clan dello Sciacallo e spero di trovarci il comandante. Lui saprà cosa fare.

Quando arriviamo al campo siamo quasi travolti dalla follia collettiva che vi impera. Non ci sono né Rovers, né Kiquathu. Solo una massa di indigeni e sciacalli che corrono in ogni dove, senza una meta precisa, preda di paure che stento a comprendere. Siamo noi quelli che hanno una divinità furiosa alle calcagna. Quegli ometti devono aver fiutato qualcosa. Mi faccio largo in quella calca, a spintoni. Penso solo a Elyn, sperando che Siqquara abbia saputo proteggerla. Corro, lasciandomi alle spalle le grida di Zitara che mi intima di rallentare. Lei e Morte stanno praticamente trascinando il Maestro, ancora disorientato. Inoltre gli ometti del Clan dello Sciacallo non sembrano gradire la presenza di Uborugla e gli si fanno incontro, scagliandogli frasi ingiuriose. L’uomo orso non si tira certo indietro, brandendo la clava che ha per arma. Temo che presto arriveranno alle armi. Non ho comunque tempo da perdere con loro. So che i miei compagni se la caveranno da soli. Ad ogni modo se gli indigeni avessero deciso di trasgredire ai dettami imposti loro dal Divinatore Kiquathu, io non potrei certo fermarli. Attraverso il nugolo di tende fatte di pelli e legni intrecciati, quando il Totem dalle fattezze animali che svetta al centro del campo vicino all’albero-forca cattura la mia attenzione: getta bagliori multicolore e emana un rantolo spaventoso. Cerco di non farmi accalappiare da quello spettacolo terribile e procedo in direzione della nostra tenda. Quando la vedo le mie gambe si inchiodano.

La colossale donna guerriero con l'ascia in mano gronda sangue e tutt'attorno a lei giacciono non meno di una mezza dozzina di ometti fatti a brandelli. Una ventina è raggruppata in ginocchio a poca distanza da lei e la osserva con aria adorante. «Finalmente siete arrivati!» tuona Siqquara. In volto ha stampato un sorriso dai denti bianchissimi sulla pelle d'ebano. Mi faccio coraggio e la raggiungo. «Dov'è Elyn?» «Non temere» mi risponde scuotendo la testa e facendo mulinare le lunghe treccine impreziosite da migliaia di perline variopinte, ora tinte per lo più di rosso vivo. «La tua amichetta è al sicuro, nella tenda.» «Ma che diavolo succede?» esplodo indicando prima i cadaveri e poi gli altri indigeni prostrati al suolo. Il sorriso della donna barbaro si fa sfrontato. «Questi ometti sono impazziti. Meno di un'ora fa hanno iniziato a correre e urlare, come se avessero presagito la fine del mondo. Alcuni di loro devono aver pensato bene di venire a divertirsi prima dell’apocalisse. Solo che hanno trovato la mia ascia ad attenderli.» Ride sguaiata sollevando l’arma spaventosa. «E questi altri?» cerco di calmarla e riportarla alla realtà. «Questi? Sono i miei nuovi seguaci!» La donna riprende a grugnire di gusto, agitando l'ascia in direzione degli ometti che per tutta risposta si chinano ancor più, i brutti musi che affondano nel terriccio umido. Siqquara nota la mia espressione e rincara la dose.

«Sono una mutaforma. Sciacal mi ha fatto un dono!» Non ho idea di che diamine stia parlando… neanche stessi parlando con Shoggul! La lascio ai suoi vaniloqui e mi infilo nella tenda.

Trovo Elyn accovacciata in un angolo, tremante e bianca come uno straccio. Quando mi vede, i suoi occhi sgranati paiono brillare di una luce di speranza. Mi avvicino, la invito ad alzarsi e la abbraccio. Le accarezzo i capelli e la cullo come un infante per quella che mi pare una magnifica eternità. È scossa, ma pare riprendersi, i tremiti che rallentano vistosamente. Il respiro si fa più regolare. Se non ci trovassimo in questo caos forse troverei la forza per baciarla. «Siqquara… l'ho vista trasformarsi in uno sciacallo…» mi confessa, la voce che le trema, irriconoscibile. Anche lei ha perso la ragione… la sciolgo dalla stretta per poterle osservare il volto. Non trovo segni di squilibrio in quello sguardo. Sta dicendo la verità. Dall'esterno sento le grida di Zitara chiamarci a raccolta. Invito la guaritrice ad alzarsi e la conduco fuori. Ritroviamo i membri della Centuria, armi in pugno. Shoggul è esagitato, salta sul posto come un invasato. Storpia le parole e indica col Santo la direzione da dove siamo arrivati. Un'ombra pare divorare quella fetta di giungla, una macchia oscura che si espande, avanzando nella nostra direzione e inglobando l’intrico verde di vegetazione pluviale. So perfettamente di chi si tratta, senza bisogno che sia il Maestro d'Ossa a dirmelo: quella maledetta di Nulla ci ha trovati.

Non abbiamo scampo. Se ha veramente trucidato Bboar e ha varcato tranquillamente i confini del Regno di Sciacal, non abbiamo molte possibilità di sfuggirle. Osservo Elyn e comprendo nonostante tutto che non ho alcuna voglia di arrendermi. Morte sta preparando le sue malie, ma non penso potrà reggere all'assalto della Regina Madre. «Andiamo alla Cava delle Teste mozze!» urlo ai miei compagni, e ancor prima di lasciar loro il tempo di ragionare, inizio a correre in quella direzione. Lì troveremo la salvezza… almeno spero.

Raggiungiamo l'ingresso della grotta e affido Elyn alle cure di Shoggul. Solo pochi indigeni ci hanno seguiti, gli altri si stanno disperdendo in tutte le direzioni, terrorizzati dall'urlo di allarme emesso dal loro Totem-Dio all’avvicinarsi di Nulla. Ho della polvere elementale con me e intendo sigillare l'ingesso della galleria prima del suo arrivo. «Forza, tutti dentro. Tu Shoggul, cerca di intercedere con l'entità che governa questo luogo. Ci serve protezione!» Il vecchio negro fa un cenno d’assenso. La sua espressione seria mi strappa quasi una risata isterica. Lui è abituato a parlare di Divinità e entità anomale. Poi si volta e conduce gli altri in quel labirinto di granito. Il ricordo della forza caotica che tutti noi abbiamo percepito quando Kiquathu ci ha condotti qui, costringe i miei compagni ad avanzare con timore lungo il budello oscuro. Piazzo la sacchetta di polvere alla base dell'ingresso della grotta.

Non sono certo esperto come Deifobo, ma ritengo possa essere sufficiente a creare un piccolo crollo. Se il Biondo me l’ha affidata doveva sapere che non potevo farci troppi danni… almeno spero. Do fuoco all'involucro e corro appresso ai miei compagni, lasciandomi alle spalle la luce del sole oscurato dall'ombra della Dea Madre. Il boato è fragoroso. Si riverbera fra le strette pareti della grotta amplificandone la potenza. Mi ritrovo scagliato in avanti. Sbatto contro una parete. Una nube di polvere mi raggiunge e mi sovrasta. A stento riesco a respirare fra colpi di tosse che mi squassano i polmoni. Tutto il lato sinistro mi duole: spalla, braccio, fianco e gamba, un unico pulsare doloroso. Poi mi volto. C’è solo tenebra: almeno la grotta è sigillata. Vedremo se Nulla avrà rispetto, o timore, del santuario dei Nuovi Dei. Questa è la mia speranza. L’unica. Non vorrei aver condannato tutti i miei cari, imprigionandoli in quello che potrebbe divenire il loro sepolcro…

XXX. Quarto dell’Acqua – Come belve

Da quando erano sbarcati nel Quarto dell'Acqua, le Serpi Volanti di Marwan non si erano concesse tregua. Avevano assaltato tutte le case coloniche e le fattorie trovare lungo il proprio cammino, facendo strage e razziando ogni bene. Avevano fatto spola fra l'Isola Baronia di Dibrjs e quella di Terna, forti del fatto che le autorità locali parevano indecise su chi dovesse dare loro la caccia. Quelle lande erano sufficientemente martoriate dalla guerra da concedere loro di agire incontrastati con immensi margini di manovra. Così Marwan e i suoi si erano dati alla pazza gioia, in un pellegrinaggio blasfemo sulla via dell’apocalisse. Saccheggi e ruberie, pur appagando i loro istinti, non avevano riservato grandi ricchezze. La povertà di quelle genti era disgustosa, ma ciò che interessava al Capo Tribù era che i propri uomini ora la rispettassero, idolatrandola quasi. Non li aveva mai visti così determinati e feroci. I loro avi ne sarebbero stati orgogliosi: erano divenuti predoni capaci di terrorizzare chiunque. Non come li avrebbe voluti trasformare il Grande Bairo: placidi guardiani delle genti sedentarie. No, la loro indole era diversa, Marwan ne era certa, e vedere la trasformazione avuta in così breve tempo dalle Serpi Volanti la inorgogliva, ben sapendo che il merito era tutto suo. «Non partecipi anche tu, Sabewu?» chiese la donna osservando due dei propri guerrieri strappare le vesti di dosso a una ragazzina. Uno dei due si era già calato le brache e armeggiava con il proprio uccello, duro come l'asta di una lancia. La figlia del fattore, due occhi da cerbiatto resi ancor più languidi dalle lacrime

che li annegavano, piangeva e strillava, dimenandosi fra le braccia dell'altro e attizzandone ancor più il desiderio. Lo sguardo della cerbiatta era piantato con orrore sulla picca del bruto, mentre mani lussuriose le esploravano i giovani seni lattei. Marwan si stupì a chiedersi se quella mocciosa non avesse mai visto un cazzo prima di allora. «Troppo gentile da parte tua, mia Signora, ma io mi sono già divertito abbastanza.» rispose il suo braccio destro, distogliendola da quei pensieri. Il corpulento guerriero trangugiava da un otre e le indicava il padre della ragazza. Lo avevano crocifisso ad un carro ribaltato e piazzato innanzi alla figlioletta. Il poveretto non era ancora morto ed era abbastanza lucido da godersi appieno lo stupro in prima fila. «Non si può certo dire che questi smidollati del Quarto dell'Acqua non ci sappiano fare con l'uva.» disse Marwan strappando dalle mani di Sabewu l'otre e calcandoselo in gola. Ne trasse una lunga sorsata finchè un rivolo purpureo non le colò dalle labbra carnose, scivolandole prima sul collo e poi lungo la scollatura del corpetto di cuoio. Sabewu la guardava, senza sforzarsi di celare il proprio desiderio. La festa alle loro spalle era cominciata, e i grugniti dell'uomo intento a pompare coprivano le grida pigolanti della fanciulla. Con gesto repentino Marwan arpionò la nuca di Sabewu. ò la mano sul cranio rasato dell'uomo e lo attrasse a sè con violenza. Gli stappò un lungo bacio mentre la mano le scivolata all'altezza della cintola dell'uomo. Il guerriero la cinse alla vita, premendosela contro e iniziò a leccare il vino che le era colato dal mento. «Andiamocene là dentro.» ordinò la donna, constatando il desiderio pressante dell'energumeno.

Le Serpi Volanti erano sparpagliate lungo il pianoro che circondava la fattoria appena presa d'assalto. Le stalle erano ancora preda delle fiamme morenti, ma il corpo principale del casolare era in piedi, nonostante le violenze subite. Tutto sommato, considerati i tempi, si trattava di un podere vasto e ben tenuto. Gli uomini erano intenti a spartirsi il poco cibo trovato. Alcuni stavano macellando la seconda vacca scheletrita dei miserabili, mentre le carni della prima sfrigolavano su un enorme fuoco innanzi al casale. Con la cantina era andata ancor meglio: avevano trovato un piccolo tesoro. Tre botti piene di un vino rosso corposo e forte. Molti ne avevano già abusato e Marwan era stata costretta a usare le maniere forti per convincere una decina di loro a montare la guardia e altrettanti a esplorare la zona circostante, prima di avere la propria dose. Il vessillo della tribù svettava dalla finestra posta al piano alto della casupola. Alla pelle di serpente erano state tolte tutte le piume che contraddistinguevano le diverse Tribù del Quarto dell'Aria: ora erano dei semplici briganti, privi di alcun padrone. La donna condusse Sabewu su per le scale, rifilando calci ai guerrieri privi di sensi stravaccati sui gradini. Degli ansiti li avvisarono che altri avevano avuto la loro idea, ma Marwan impose il proprio grado. «Fuori di qui!» tuonò rivolta al gruppetto che si era riunito al piano alto a far baldoria. Due guerrieri, un paio di ragazze smunte e alcuni dei giovinetti catturati al villaggio di Solvun, erano ammassati in un guazzabuglio di carni nude, falli e otri di vino. Blande proteste si sollevarono dai due uomini, troppo ubriachi per riuscir a mettere insieme una frase compiuta, mentre le ragazzette dalla pelle bianca

segnata da impudiche manate rosse e i fanciulli imberbi, parevano ben felici di ubbidire all'ordine del Capo Tribù. Non erano ancora scesi al piano inferiore che Marwan aveva già strappato la giubba di dosso a Sabewu. I pettorali dell’uomo, sommersi da una folta peluria marrone, guizzarono. Marwan gli si avvicinò inalando a fondo il suo odore e contemplando la possanza del corpo dell’uomo. Questo, colto da una bramosia animalesca, la sollevò come fosse una piuma mentre la donna si sfilava le brache di cuoio e gli si avvinghiava con le gambe alla vita. Dall'esterno i cori ritorti degli ubriaconi si sollevavano a coprire il canto degli uccelli, mentre i due, indifferenti, si unirono in modo convulso, urlando il loro piacere rabbioso più e più volte.

Era oramai sera inoltrata quando uno dei battitori si presentò trafelato a Marwan. Sabewu russava come l'orso che era e non si accorse neppure dell'arrivo dell'esploratore. La donna giaceva ancora lì a fianco, nuda, in una posizione oscena che non si prese neppure la briga di mutare con l'arrivo dello scout. Il guerriero distolse lo sguardo, confuso e probabilmente intimorito dalla ferocia dell’amante della Capa Tribù. «Allora, sei venuto solo per ammirare la mia fica o hai qualcosa da dirmi?» chiese bruscamente la donna, muovendo ritmicamente le gambe lisce e muscolose. «C'è una pattuglia di soldati dell'Acqua. Devono aver visto il fumo. Arrivano da ovest e si stavano accampando nel Bosco della Triglia.» La donna scattò in piedi, rifilando un calcio a Sabewu. Con un grugnito il guerriero aprì gli occhi, la solita aria torva dipinta sul volto.

Quando si trovò innanzi la nudità della donna però l’espressione gli si addolcì al punto tale che l'esploratore quasi non riuscì a riconoscere lo spietato guerriero. «È ora di andare a caccia di trofei.» La donna accennò al battitore. Solo allora Sabewu si accorse dell'uomo e il suo volto tornò arcigno come al solito. Si alzò, indifferente alla propria nudità e si vestì in fretta. «Dimmi solo dove, mia Signora, e avrai ciò che desideri.» «Non crederai che voglia lasciare solo a te il divertimento? Una ventina di soldatini dell'Acqua. Tutto qui quello che il siniscalco di Dibrijs ci ha scatenato contro? Ci sarà da divertirsi!» «Soprattutto se non ci sarà nessuno abbastanza sobrio dei nostri! Più onore per me!» rise il guerriero dall'ampio torace villoso, calzando la cotta di maglia e recuperando la scimitarra.

Balzarono sui poveretti come un branco di belve fameliche. I soldati del Quarto dell’Acqua dovevano essersi messi in marci ancor prima dell’alba. Molti di loro non avrebbero visto il nuovo sole. Anche se il tenente che comandava il plotone, un giovane dalla lunga chioma bionda che fuoriusciva dall’elmo a cono, aveva fatto il proprio dovere inviando due esploratori in avanscoperta, le Serpi Volanti li colsero di sorpresa. Gli scout dell’Acqua erano stati braccati dai guerrieri di Marwan, i cui cavalli minuti erano agilissimi anche all’interno della selva. Sabewu e i suoi erano quindi riusciti a orchestrare un agguato in piena regola, disponendosi sui dossi che affiancavano il sentiero percorso dal drappello dei soldati e sfruttando appieno la flebile luce dell’alba.

Le due ali di guerrieri dell’Aria erano spuntate all’improvviso, precedute da una gragnuola di frecce capace di mietere numerose vittime. La sorpresa rese i soldati dell’Acqua presi in quella morsa, ancor più remissivi. Nonostante il plotone comprendesse ben più della ventina di uomini previsti, la resistenza di questi fu blanda, assolutamente inadeguata ad affrontare la furia dei guerrieri di Marwan. Non si aspettavano certo di cadere in un’imboscata sul loro stesso territorio e men che meno da un’orda di barbari. Erano certi di dover affrontare qualche contadino riottoso o al massimo qualche brigante, invece si erano trovati assaltati da guerrieri dalla ferocia belluina. Gli ultimi soldati stavano cadendo sotto i colpi degli uomini di Marwan, inesorabilmente, uno ad uno. La donna osservava con gioia i possenti fendenti frantumare gli scudi dei soldati. Il rumore del metallo che strideva sul duro legno le dava brividi di piacere. Poi si rese conto che di tutto il plotone rimaneva il solo tenente, e anche questo stava per raggiungere i commilitoni. La capotribù riuscì per un soffio a fermare Sabewu che lo stava per sgozzare. L’elmo del tenente era volato via e una profonda ferita gli solcava il volto, dalla tempia al mento. Il guerriero l’aveva costretto in ginocchio e gli teneva sollevato il cranio per i capelli. La smorfia di dolore del soldato era esilarante. «Non accopparlo. Voglio che riferisca ai suoi superiori.» Sabewu portò uno sguardo interrogativo sulla donna. «Non sarebbe meglio rimanere nell’ombra?» le chiese. Gli occhi spiritati della donna gli avevano già risposto. Marwan era ambiziosa,

voleva che i suoi razziatori diventassero conosciuti, e soprattutto temuti. «No, mio caro, voglio che sappiano che è inutile inviarci contro bambocci. Devono capire che è meglio dedicare le loro risorse ad altri obbiettivi. Intesi moccioso?» disse rivolta al biondo inginocchiato, rifilandogli un ceffone. Il graduato del Quarto dell’Acqua sputò un fiotto di sangue e nonostante la situazione disperata riuscì a trovare il coraggio per osservarla con disprezzo. «Siete solo dei miserabili banditi e il Re…» Un calcio al torace non gli concesse di finire la frase. «Siamo le Serpi Volanti, e tu non sai niente della nostra organizzazione.» disse Marwan sollevandogli il mento con finta gentilezza. Gli sputò in faccia e lo colpì alla tempia con l’elsa della daga, facendolo svenire. «Legatelo al cavallo e rispeditelo da dove è venuto. Noi ci muoviamo verso est!» Le Serpi Volanti si soffermarono solo per rovistare nelle vesti dei cadaveri degli uomini del Quarto dell’Acqua, alla ricerca di qualche spicciolo e di armi e pezzi di armature.

XXXI. Nuovo Quarto – Confini violati

È ata meno di un’ora da quando sono cessate le urla dell’apocalisse, scatenatasi oltre la barriera di roccia che ci isola dall’esterno. Adesso il suono che mi giunge attutito alle orecchie è quanto di più melodioso potessi aspettarmi: la voce baritonale di ReCorvo! La massa di pietre non riesce a fermare il vocione dell’energumeno: sono vivi, sono tornati e ci stanno cercando! «Siamo qui dentro!» urlo con tutto il fiato che ho in gola. È come il risveglio da un incubo. Non sò che fine abbiano fatto Elyn e gli altri. Da quando ho sigillato l'accesso alla Cava delle Teste Mozze non ho avuto più le forze neppure per muovere un o. L'inferno che si è scatenato fuori mi ha paralizzato ben più delle botte che mi sono procurato durante l’esplosione. Le urla degli indigeni ed i fragori alieni emessi dalla Dea infuriata mi hanno prosciugato di ogni energia. Dei suoni capaci di far gemere le fondamenta stesse della pietra. È la prima volta che il terrore ha avuto il sopravvento sul mio raziocinio, inchiodandomi sul posto come un pupazzo. Ho pensato che l'intera grotta ci sarebbe crollata addosso. Il granito scricchiolava quasi fosse una costruzione di legno marcio. Decenni ati su mille campi di battaglia non mi hanno salvato dal terrore inflittomi dalla Dea furiosa. Forse, a ben vedere, Sciacal ci ha protetti sul serio. Non credo la dura pietra sarebbe stata sufficiente a placare e a far desistere Nulla dal proprio attacco. Buffo che alla fine di tutto sia stata la voce del barbaro dell'Isola di Abuc a rompere la stregoneria ed a strapparmi dall'incubo, donandomi le forze per

reagire. Dovrò proprio offrire una bevuta a ReCorvo. Mi costerà cara certo, ma se l’è proprio meritata! «Siamo qui!» ripeto fino a farmi esplodere i polmoni. Tutto il mio urlare raggiunge almeno lo scopo di attrarre a me gli altri reclusi. Evidentemente anche loro erano sconvolti visto che fino ad ora non si erano neppure degnati di venire a cercarmi… È Shoggul a raggiungermi per primo, con una fiaccola in mano e il Santo nell'altra. Il Maestro d'Ossa ride ora che sente cessata l’aggressione della Madre. Il sorriso però non è smagliante come al solito, nasconde una tristezza profonda, lo riesco a cogliere nonostante i bagliori della torcia celino parte del suo volto rugoso. Dall'esterno la voce di Rovers mi bacia come un raggio di sole in una giornata d'inverno, facendomi sorvolare sull’ombra malcelata nell’espressione di Shoggul. «Siete lì dentro?» tuona il capitano. Il suo barrito è un balsamo. La sicurezza che riesce a trasmettere fa di lui un grande capitano di ventura. L'ho sempre pensato. Ora sono certo che questa non sarà la nostra tomba. «Siamo qui!» risponde per me Siqquara capendo che oramai le mie corde vocali hanno dato tutto. «Allontanatevi» prosegue il capitano «ci pensa Deifobo a tirarvi fuori.» Già immagino lo scorno sul volto del giovane a dover utilizzare la sua preziosa polvere per salvarci, piuttosto che per demolire titaniche fortezze nemiche.

A fatica sospingiamo indietro anche gli indigeni che si sono rifugiati con noi

nella cava e attendiamo, nascondendoci negli anfratti o dietro spuntoni di roccia e tappandoci le orecchie. Dopo poco un boato precede una pioggia di schegge di roccia impazzite. Zitara caccia un urlo, forse raggiunta da un frammento di pietra. Non deve essere nulla di grave poiché il grido di sofferenza si trasforma presto in una sequela di bestemmie aristocratiche. Una luce fioca inonda l'interno dell'androne, ando attraverso la coltre di polveri sollevatasi in seguito all’esplosione. Quando infine queste si depositano al suolo, invito i miei compagni verso l'uscita. Prendo Elyn sottobraccio e la ragazza, malferma sulle gambe, mi dona un sorriso meraviglioso. Ha il volto coperto di pulviscolo rappreso dalle lacrime che deve aver versato, ma ugualmente il suo fascino è incantevole. L’assassina, sanguinante da una coscia, viene accompagnata dalla sua spasimante Siqquara. Questa volta Zitara non la respinge e si lascia aiutare zoppicando e imprecando, mentre la negra sfodera tutta la tenerezza di cui le sue braccia muscolose sono capaci. Gli altri le seguono in silenzio. Al varco ci attendono il capitano e i rimanenti membri della centuria con i volti distesi ora che si sono accertati di non aver perso gran parte dell'unità per strada. Anche il Templare sembra sollevato nel vederci vivi, seppur ricoperti di polveri e terriccio dalla testa ai piedi. La sua gioia sembra autentica e forse lo è per davvero. Stringe le mani prima alle tre donne della Centuria, facendo una strana espressione quando si congratula con Siqquara, e poi a tutti noi. Forse ha intuito qualcosa sul nuovo status della donna: una mutaforma! Stento ancora a crederlo e non ne capisco di certo le implicazioni.

Tutto sommato è andata bene. La Centuria non ha perso altri effettivi, al contrario del Clan dello Sciacallo… in quel momento i miei pensieri vengono interrotti da un movimento fulmineo. È il guerriero ombra di Kiquathu. Lo vedo scattare verso Uborugla, non appena questo mette fuori la testa dalla grotta. I due sono già muso a muso, armi in pugno. Si annusano e ringhiano come due fiere. Vedo Kiquathu, con sguardo cupo, avvicinarsi loro. Il Divinatore è scuro in volto, come mai l'avevo visto. Certo, il Regno di Sciacal è stato violato, ma dovrebbe essere lieto di averci ritrovati vivi, visto che ci ritiene fondamentali per i propri fini. Poi un vociare concitato mi distoglie dall'ometto e scopro infine cosa ha originato il suo turbamento. Nel chiarore abbagliante del sole allo zenit vedo lo sfacelo perpetrato da Nulla sul villaggio del Clan dello Sciacallo. Non è rimasto più niente. Palme e banani sono rasi al suolo per un raggio di decine di metri. Le tende sono divelte, i focolai distrutti, totem e albero-forca sono spezzati. Macabre frattaglie di indigeni sono appese ovunque, come se una tempesta li avesse prima fatti a brandelli e poi sparpagliati tutt'attorno. Adornano gli alberi come festoni di una grottesca festa paesana. Anche Elyn pare aver visto solo ora la mattanza. Senza indugiare corre incontro a quei miseri resti in cerca di qualche indigeno da salvare. Il suo coraggio in questo caso è ammirevole.

Una rabbia incontenibile mi monta dentro al pensiero che la Regina Nulla era stata la protettrice di quegli ometti. L'avevano venerata per secoli e ora li aveva ripagati con quella strage. Certo, si erano allontanati dal suo culto, ma a causa di chi? Era lei ad averli abbandonati nel momento del bisogno, in balia delle vesti bianche. «Dobbiamo andarcene al più presto.» sentenzia Rovers osservandosi attorno. «Non intendo aspettare che quell'essere torni a finire il lavoro.» «Un paio di dardi duwan su per il suo bel culetto e anche la Regina verrà rispedita nei suoi Regni celesti!» sbrodola il Biondo tronfio. Lui non l’ha mai vista quella creatura. Non ha idea della sua potenza. Certo le polveri esplosive sono riuscite in più di un occasione a toglierci dagli impicci. Quando Lord Ulter della Valle di Pietra nel Quarto della Terra ci aveva assoldati perché una divinità minore infestava la sua vallata e si faceva adorare dai suoi sudditi, lo abbiamo rispedito nella realtà non ordinaria grazie a Deifobo e alle sue polveri, ma quello non era certo un essere del lignaggio di Nulla. «Fermi voi due!» È Kiquathu a riportarmi alla realtà. Dopo aver placato i due guerrieri ombra torna a concentrarsi sul da farsi. È lui che deve decidere per quello che resta del Clan dello Sciacallo. «Possiamo chiedere ristoro presso qualche clan ribelle?» gli propone il comandante, ingorando le sbruffonate del Biondo. Il Divinatore di Sciacal pare confuso, incapace di assorbire il massacro che gli si para innanzi. Le sue aspettative erano ben diverse: da noi cercava l'aiuto decisivo per sovrastare gli invasori, invece glieli abbiamo portati in casa e ora tutto è in rovina. Il campo distrutto e il suo clan dimezzato. L'espressione del volto dalle rughe profonde è inintelligibile ma tutto del suo atteggiamento denota impotenza e scoramento.

È il Maestro d'Ossa a salvarlo da quello stallo indecoroso. «Prima di tutto però dobbiamo parlare. Concilio ristretto. Morte mi ha detto parecchie cose quando eravamo al cospetto delle Teste Mozze.» Deifobo gli ride in faccia. «Morte? Il Senzalingua? Sei definitivamente uscito di senno, vecchio?» Il Maestro lo inchioda con occhi da cobra. «Sciocco, nella realtà non-ordinaria Morte non ha impedimenti. Tuttavia la cosa non ti riguarda. Ho detto concilio ristretto, io, il Capitano e Yorik. Tu bada a gingillarti con le tue polveri. Ne avremo presto bisogno.» Il ragazzo scuote la testa, a mezza via fra l'arrabbiatura per l'esclusione e la soddisfazione per non dover ascoltare le corbellerie di un folle. Risulta anche a me difficile credere alla loquacità del Senzalingua, ma l’espressione e la richiesta di Shoggul mi spaventano ancor più. Invocare un concilio ristretto è sempre il primo o verso qualcosa di brutto, qualcosa che immancabilmente metterà a repentaglio l'esistenza stessa della Centuria. Non so cosa gli abbia detto Morte, ma quando eravamo nello ziggurat di Nulla, la sua espressione non lasciava presagire niente di buono. Pericoli che vanno oltre la mia stessa comprensione si profilano all'orizzonte, è per questo che solo io e il comandante ce ne dovremo occupare. Mentre mi appresto a seguire il Maestro faccio a tempo a vedere il Divinatore di Sciacal scuotersi improvvisamente, vibrando di nuova energia.

Kiquathu pare destarsi da un lungo incubo e fa cenno ai due guerrieri ombra di seguirlo. Anche loro pare desiderino conferire in disparte. I tre ometti si incamminano

verso quello che era il loro Totem sacro, accomunati solo da un duro cipiglio dipinto sui brutti musi.

«Divinatore forse abbiamo sbagliato l’interpretazione del volere di Sciacal?» Tha-ho proferì quelle parole a testa bassa, in un sussurro che mostrava il conflitto interiore che lo divorava: il rispetto per l’autorità di Kiquathu e l’amore per il proprio clan. Lo stesso Uborugla, chiamato a quel consesso dal Divinatore, parve stupirsi per l’audacia delle parole del suo pari. Kiquathu non si scompose. Il colpo inferto al clan da Nulla era di quelli capaci di far vacillare i convincimenti anche dei più fedeli fra i seguaci. Decise di essere indulgente. «Sciacal non commette errori, Tha-ho, e noi non dobbiamo permetterci di dubitare delle sue volontà. Se per lui gli stranieri sono di vitale importanza, dobbiamo preservarne la vita. Ad ogni costo.» Il guerriero ombra strinse i pugni sfogando così il proprio nervosismo. Avrebbe voluto ribattere a dovere, ma si costrinse a toni più moderati. Respirò a fondo e attese alcuni istanti. Il Totem spezzato incombeva su di loro come un tetro presagio dei tempi a venire. Tha-ho cercò di non naufragare nel pessimismo. «Di certo avete ragione, Divinatore, ma non si può negare che da quando sono arrivati, la sventura ci perseguita.» Lo sguardo di risposta di Kiquathu lo costrinse a chinare il capo, le mani che arpionavano le cosce tozze. Fu allora Uborugla a riprendere l’opera lasciata incompiuta da Tha-ho.

«Nobile Divinatore, anche Pharlokr ha sacrificato la vita per salvare gli stranieri… ma a cosa è servito?» L’ometto del clan dell’Orso muoveva il testone, sconsolato, ma Kiquathu non si fece impietosire. «Hai ragione, e ti dirò di più, lo stesso Bboar ha sacrificato la propria esistenza divina.» Lo sguardo che gli riservò Uborugla era carico di aspettative. L’idea che il Signore della Forza fosse stato sconfitto non lo aveva di certo convinto. «Non farti illusioni» proseguì il Divinatore «Bboar sapeva di non avere possibilità da solo contro la Dea Madre, ma la sua irruenza e la sua forza gli hanno concesso di ottenere ciò che voleva: uno scontro maestoso, capace di impegnare Nulla il tempo necessario a salvare coloro che potranno sconfiggerla!» Le parole di Kiquathu erano oscure, sia per Tha-ho che per il guerriero ombra di Pharlokr. Come potevano dei mortali arrivare dove neppure l’Orso Possente era riuscito? Il Divinatore lesse i loro dubbi e proseguì. «I Nuovi Dei sono entità affini. Non importa chi di loro sarà a trionfare. Sarà sufficiente che ne resti uno per preservare e proteggere ciò che li ha originati: la natura stessa e il Regno Animale tutto. È la volontà comune di tutte le specie del Nuovo Quarto a muovere Sciacal, Bboar, Mego-thot e Radwulf e loro hanno visto che fra gli stranieri c’è chi potrà sconfiggere Nulla e con essa i nostri comuni nemici.» I due guerrieri rimasero perplessi, ma compresero che non c’era possibilità di far cambiare idea al Divinatore. Il Totem divelto sancì la fine di quel conciliabolo con un lungo verso monotono.

XXXII. Quarto dell’Aria – Notizie da Roskeim

Il villaggio di Olir non era altro che un piccolo borgo difeso da una palizzata di legno. Sorgeva su due colline gemelle, divise da un fiumiciattolo dalle acque placide. Firion aveva ordinato allo squadrone di appostarsi a sud, a una mezza dozzina di chilometri di distanza. Il giorno prima era andato in avanscoperta con alcuni esploratori per visionare in prima persona la morfologia della zona. Il terreno ondulato, costellato di colline e selve, garantiva loro una certa sicurezza di cogliere i nemici di sorpresa. I guerrieri dell'Aria si sarebbero accorti del loro arrivo solo quando lui e il suo contingente di cavalleria fossero stati praticamente a ridosso dell'abitato. Il più grande timore del Maggiore era quello di non riuscire a bloccare eventuali messi che gli abitanti avrebbero potuto inviare in cerca di aiuti. Voleva che l'azione rimanesse segreta almeno finchè non si fosse ricongiunto a Qilana per l'assalto alla cittadella di Savala, ben più importante strategicamente. La guarnigione di Olir doveva ammontare al massimo a un centinaio di uomini, una tribù minore il cui vessillo, un toro alato granata su sfondo celeste, garriva sull'unica torretta che sovrastava il cancello principale. Non voleva correre rischi. Aveva chiesto a Polina di evocare delle Ondine dal fiume che tagliava il centro abitato, per creare un diversivo poco prima che lui e la colonna di cavalieri giungessero in vista dei difensori. Gli spiritelli dell'Acqua sapevano bene come creare lo scompiglio e la Rabdomante non avrebbe avuto difficoltà a sottometterne una mezza dozzina per il tempo necessario. Quando lui e lo squadrone di cavalleria fossero giunti a tiro avrebbero usato un dardo duwan per abbattere il cancello e sarebbero potuti

irrompere facilmente nel centro abitato, chiudendo così ogni via di fuga ai guerrieri dell'Aria. Era uno spreco, indubbiamente, ma non avevano il tempo per costruire neppure le più rudimentali macchine d'assedio. Era fondamentale agire con rapidità, e così avrebbero fatto. Poco male, nel suo arsenale sarebbero rimasti ancora due proiettili esplosivi. L'importante era entrare nel villaggio in fretta e con il minor numero di vittime possibile. Avrebbe sterminato tutti i guerrieri della Tribù, lasciando in vita solo gli abitanti del villaggio. Era certo che questi non se ne sarebbero risentiti. Sapeva quanto le tribù di guerrieri dell'Aria fossero solite abusare dei villaggi che avevano in custodia. Quei selvaggi nomadi si reputavano superiori rispetto ai comuni cittadini, o ai contadini, e si atteggiavano a guardiani più che comportarsi da pari a pari con gli abitanti sedentari del Quarto dell'Aria. Intendeva sfruttare questa consapevolezza a proprio vantaggio. Alle prime luci dell'alba avrebbe messo in atto il piano. Aveva costituito un cordone di sicurezza, facendo appostare un centinaio di uomini tutt'attorno al villaggio, per bloccare eventuali messaggeri che dovessero essergli sfuggiti. Un altro centinaio li aveva dedicati alla protezione della Rabdomante, che per il rituale doveva portarsi a ridosso del fiume. I due gruppi erano partiti la sera precedente e a quel punto dovevano essere nei luoghi concordati. Il Maggiore non riusciva a prendere sonno, le poche ore che lo dividevano all'alba parevano non trascorrere mai. Bramava di entrare in azione, per potersi concedere una pausa dai pensieri che lo attanagliavano.

Era la Figlia di Lena a turbarlo. Qilana la Pura l'aveva toccato, in profondità, nonostante tutti i dubbi sollevati da Polina. Le idee della fanciulla attizzavano il desiderio che anche il suo cuore di soldato covava da anni oramai: riportare la pace nei Quarti e donare una vita normale al proprio popolo. La speranza che quella ragazzina riusciva a destare nella gente comune lo lasciava meravigliato e ammirato e il fatto stesso che il Duca si fosse convinto a sua volta della fattibilità di tali prospettive lo rivitalizzava. Al contempo però la missione in cui Palwen si era imbarcato annunciava nuovi ostacoli. Nuovi pericoli che intralciavano il realizzarsi di quella visione meravigliosa.

La Rabdomante procedette sulla riva del fiumiciattolo. I soldati che Firion le aveva messo a disposizione erano appostati tutt'attorno, alcuni anche sulla riva opposta. Era una notte fresca che presagiva la fine dalla stagione temperata. Le stelle si specchiavano nelle acque giocando scherzi alla vista della donna. Si accendevano e spegnevano smosse dalle increspature della corrente come tante fiammelle di candele in un tempio sferzato dal vento. Avanzò di qualche o immergendo i piedi nell'acqua gelida. Il freddo la fece tremare, sviandone per un istante la concentrazione. Erano ore che la mente vagava in cerca della quiete necessaria per accedere alla realtà non-ordinaria, al Regno condiviso dagli Elementi e dagli Dei. L'ultima tragica esperienza, che quasi l'aveva costretta all'oblio, le inibiva la spregiudicatezza con cui generalmente si affacciava nell'altro Mondo per richiamare a sé le entità che la interessavano. Decise infine di cercare un contatto diretto con il fiumiciattolo. Tutto sarebbe

stato più facile. Percepì la volontà di questo di mantenere la propria indipendenza. Le acque placide non davano giusto risalto alla determinazione della creatura, che risultava ben salda. Polina non avrebbe preteso poi tanto e questo la tranquillizzò. Le servivano unicamente sei Ondine, sei piccole creature da sguinzagliare nel villaggio di Olir. Sentì le acque gelide accarezzarle il corpo, salendo dai piedi su per le gambe, fino a raggiungere cosce e basso ventre. Un brivido la percorse e temette di perdere il contatto con la creatura con la quale stava mercanteggiando. Si lasciò cullare dal suono dolce delle acque ruscellanti. In breve riuscì a piegare la volontà dell'essere, convincendolo che l'occasione per liberarsi dalle genti che insozzavano le sue acque era più che sufficiente per concederle quel piccolo aiuto. Vide le piccole e sfrontate creaturine partorite dal fiumiciattolo presentarsi innanzi a lei. Erano chiassose come sempre, alte mezzo metro circa e tondeggianti nel momento in cui fermavano i loro movimenti convulsi. Si stupì contandone sette, ma non fece a tempo a farsi domande che le prime sei si misero in moto, mutando forma e sfrecciando veloci sulle acque del ruscello in direzione di Olir. «E tu?» chiese la donna alla settima, che le si era fermata davanti. Io porto un messaggio. Sei Polina, vero? «Un messaggio? E di chi?» Sei Polina, vero? E al seguito di chi sei? Che nome buffo Polina! «Mi prendi in giro?»

Al seguito di chi sei? Devo sapere con chi ho a che fare. Sei Polina, vero? Maledette creature inferiori. La donna le odiava. Non sapeva se più le Ondine o le Fatine, ma comunque le odiava tutte. Doveva stare a quel gioco altrimenti non avrebbe ottenuto di placare la propria curiosità, oramai al galoppo. Al seguito di chi sei, Polina? Sempre che tu sia Polina… sei Polina, vero? Un nome talmente ridicolo… «Sono la Rabdomante Polina, e sono al seguito del contingente del Maggiore Firion di Forte Titano. Ora dimmi quello che devi e poi sparisci, prima che ti dia in pasto a un Burrascoso!» L'Ondina si mise a ruotare su se stessa dando origine a un suono simile a una risata di scherno. La donna era sul punto di mettere in pratica la minaccia, ma alla fine l'esserino riprese la propria forma statica, di sfera. Ho un messaggio per il Maggiore Firion da parte del Generale Enoc. Il tono dell'Ondina mutò. divenendo in tutte e per tutto simile al verso gracchiante e stolto di un pappagallo. La situazione precipita. L'azione non concordata del Colonnello Ramelon ha fatto sì che alcune Tribù dell'Aria si siano sparpagliate per tutte le Isole Scudo. Dovete rientrare. L'ordine proviene direttamente da Re Saleon. Dovete proteggere anzitutto l'Isola Baronia di Dibrijs, del suo amico, Siniscalco Antaleo. Appena recitato il dispaccio la creatura tornò a dissolversi nell’acqua del fiume che l’aveva generata. Meglio così, pensò la Rabdomante. Ne aveva avuto abbastanza di quell’impertinente. Ora poi aveva ben altro cui pensare. Il tono del Generale faceva comprendere quanto quella decisione gli fosse estranea. Dire che non la condivideva era un puro eufemismo. Polina invece apprese il messaggio con una certa soddisfazione. Rientrare in

patria, anche se per motivi del tutto drammatici, era meglio che rimanere nel Quarto dell'Aria ad operare fianco a fianco con una mocciosa capace di far sterminare i suoi stessi fedeli.

Non appena Olir fosse caduta avrebbe comunicato a Firion che il suo idillio con la Figlia di Lena poteva considerarsi concluso. Non vedeva l'ora.

Il trambusto proveniente dal villaggio giunse sino alla loro postazione. Le note grevi dei corni che davano l'allarme si moltiplicavano rapidamente, rincorrendosi le une con le altre. Numerosi fuochi illuminarono improvvisamente la notte, anticipando di poco il sole nascente. Le Ondine evocate da Polina dovevano essere all'opera. In quel momento Firion ordinò la carica. A spron battuto la colonna di soldati dell'Acqua si riversò sulla stradina sterrata che costeggiava la collina utilizzata per celarsi alla vista del nemico. Divorarono in breve la distanza che li separava dalle esili staccionate difensive di Olir e quando furono a portata di tiro, il tenente Tilmon scoccò il dardo che avrebbe aperto il varco. Un boato mandò in frantumi il portale. Un bagliore di forgia accecò assalitori e difensori per alcuni istanti mentre fuocherelli attecchivano alla palizzata in più punti. Dai camminamenti e dalle torri, una volta ripresisi, gli assediati iniziarono a bersagliarli di strali, mentre le sentinelle rispondevano al richiamo dei corni con i propri.

Dovevano aver capito che la minaccia principale veniva dall'esterno, ma molte delle guardie avevano abbandonato le loro posizioni per dare la caccia alle Ondine. Per Firion e la colonna di cavalleria fu uno scherzo dilagare all'interno dell'abitato sfruttando la breccia. I pochi difensori qui schierati vennero travolti dalla loro carica. Il Maggiore lasciò alcuni plotoni a difesa del varco creato dall'esplosione per prevenire la fuga di qualche guerriero dell'Aria. Lui e il grosso del contingente si sparpagliarono per l’abitato, braccandone i difensori uno ad uno. Non si persero a fare irruzione nelle abitazioni. I paesani, come previsto, si erano sprangati al loro interno, decidendo saggiamente di non rischiare la propria vita per dar rifugio ai guerrieri della Tribù del toro alato e men che meno combattendo direttamente. Firion scovò il casolare dove alloggiava la maggior parte dei nemici. Lì stavano orchestrando l'estrema difesa e alcuni suoi cavalieri erano stati disarcionati e massacrati dai guerrieri dell'Aria. Il Maggiore individuò quello che doveva essere il capotribù. Nella flebile luce dell'alba l'energumeno, tatuato su tutta la parte superiore del corpo, pareva un demonio mentre urlava ordini mulinando un’ascia bipenne contro gli aggressori, per nulla intimorito. Piume variopinte erano intrecciate ai suoi lunghi capelli che frustavano l’aria ogni volta che muoveva la testa. Con un colpo formidabile, questo abbattè un cavallo conficcandogli a fondo l'arma nel torace. La povera bestia stramazzò al suolo con un nitrito disperato, trasportandosi appresso il cavaliere e schiacciandogli la gamba sotto il proprio peso. Il capotribù recuperò l'ascia giusto in tempo per parare il calante di Firion, sopraggiunto nel frattempo in carica. Il Maggiore lo sopravanzò per poi far voltare il proprio destriero. Tornò all'attacco. Tutt'attorno i suoi uomini si scagliarono contro i guerrieri dell'Aria, raccoltisi a

difendere quell'ultimo bastione. L'ufficiale fu nuovamente sull'energumeno. Con un balzo questo deviò all'ultimo dalla traiettoria del cavallo, in procinto di assestate un colpo d'ascia, quando Firion con una torsione del busto lo anticipò, sferzandolo con la sciabola. La lama si conficcò a fondo nell'incavo fra spalla e collo. L'urlo dell'uomo mandò in visibilio l'ufficiale che scese da cavallo e lo finì con un affondo al cuore. Firion si guardò attorno. I raggi del sole inondavano lo spiazzo mostrandogli l'ennesima scena di sangue e morte, accompagnata dalle grida agonizzanti che riempivano l’aria. I suoi soldati stavano avendo la meglio, la scaramuccia era praticamente conclusa. Non rimaneva che contare le vittime. Si augurava il prezzo non fosse stato eccessivo, per quel misero villaggio.

Firion e Polina erano seduti a un tavolo della taverna di Olir, sequestrata ed adibita a centro di comando. Una caraffa e due boccali erano l’unico lusso che si erano concessi. Il Tenente Tilmon stava rendicontando loro gli esiti dell'assalto: quindici soldati dell'Acqua morti, altrettanti feriti, dei quali una decina già sotto le cure di Kolam. La tribù del Tauro d'Aria, così si chiamava quell'accozzaglia di selvaggi, era stata spazzata via. Degli effettivi solo una dozzina era sopravvissuta ed era ora rinchiusa in un capanno. Pochi i feriti fra gli abitanti, che gli riferì il sottufficiale, non parevano particolarmente tristi da quel cambio improvviso di padrone. «Ottimo lavoro Tilmon» disse il Maggiore sorseggiando un po’ di birra «ora

lasciaci pure.» «Un ultima cosa, Maggiore… i prigionieri…» «Al tramonto, ateli a fil di spada.» rispose sicuro Firion. La decisione era già stata presa e non capiva le titubanze del sottufficiale. Erano in guerra, in territorio ostile, non potevano permettersi di lasciare nemici pericolosi in vita. «Agli ordini, sarà fatto.» rispose questo a malincuore, affrettandosi a lasciare la taverna. Dopo l'assalto Firion non aveva ancora avuto modo di riposarsi. La stanchezza per la notte insonne si andava sommando al calo di tensione, ma ancora non avrebbe potuto abbandonarsi al sonno. La Rabdomante gli aveva accennato a una questione urgente e a stento aveva pazientato sin ora. Vedeva l'espressione irosa della donna, da lui costretta ad attendere sinché tutte le formalità della conquista fossero state assolte. Non appena Polina si fu accertata che non ci fosse nessuno ad ascoltarli, ruppe gli indugi. «Avete finito, ora, Maggiore? Posso infine dirvi di che si tratta?» Il tono irriverente della donna lo infastidiva, ma Firion non aveva voglia di controbattere per le rime. Non questa volta. «Dimmi pure, Polina.» «Ho un messaggio per voi da parte del Generale Enoc.» L'espressione sbalordita di Firion parve ripagarla per la lunga attesa. «L'ho ricevuto tramite un’Ondina inviatami dal Roskeim.» Firion si fece attento. «Dobbiamo tornare in patria.» iniziò la donna per poi riferire l'intero messaggio, non tralasciando il tono infastidito assunto dal Generale nel riportare quello che

era il volere del loro Re. Dopo un lungo silenzio il Maggiore scosse la testa. «Che affidabilità può avere il messaggero utilizzato?» «Ondine e Fatine d'Acqua non sono certo infallibili. Spesso ci mettono del loro per fuorviare gli ascoltatori, per gioco, ma ritengo che quest'Ondina dicesse il vero.» «E cosa te lo fa pensare?»

«Anzitutto il fatto che l'ho minacciata di ritorsioni nel caso appurassi che le sue informazioni fossero false.» sorrise la Rabdomante «Sono minacce credibili? Saresti realmente in grado di ritrovarla e punirla?» «Naturalmente.» rispose spavalda Polina. Firion non era certo dell'affermazione della donna, eppure non aveva ragione di ritenere stesse mentendo. A che fine? «E quando dovremmo fare marcia indietro?» chiese infine. «Immediatamente.» «Dannazione… abbiamo preso un impegno con Qilana, non possiamo rientrare altrimenti il suo attacco a Savala rischia di fallire.» Un’ombra oscurò il volto della Rabdomante. «Maggiore, non vorrete trasgredire a un ordine diretto di Re Saleon? Viene prima la patria o la promessa fatta a una mocciosa?» «Una mocciosa che ti ha salvato la vita, Polina! Sei forse senza cuore? Tradirla significherebbe condannarla a morte certa. Savala è difesa da almeno due tribù dell’Aria a quanto ci hanno detto gli eploratori. Magari nel frattempo ne sarà arrivata anche qualcun’altra!»

La donna si mosse a disagio, nascondendo il volto dietro al boccale. Trasse alcune sorsate per poi riportare gli occhi smeraldo sull’ufficiale. «Qilana se l’è sempre cavata. Perché non dovrebbe farcela questa volta? Anche senza il nostro aiuto. Sono gli uomini che riuscirà a convincere, che invece moriranno, come sempre…» Firion sollevò a sua volta il boccale, cercando consiglio nel liquido ambrato. Avrebbe riflettuto sulla vicenda. Da solo. Con un gesto liquidò la donna, che stizzita per quella plateale mancanza di rispetto si alzò di scatto facendo cadere il boccale per terra. Il Maggiore la osservò mentre usciva dalla locanda con movenze nervose. Nell’ultimo periodo la Rabdomante lo stava ostacolando in tutti i modi. Riconsiderò ancora una volta i sentimenti che provava per la donna, ma presto si costrinse a riportare i pensieri sull’attualità che lo affliggeva. Bevve un'altra sorsata, presagendo un'altra notte difficile e carica di tribolazioni. La scelta fra il proprio Re e la Figlia di Lena solo pochi giorni prima gli sarebbe risultata decisamente più facile.

XXXIII. Nuovo Quarto – Riflessioni e guerra

Il concilio ristretto ha inizio all'interno di una piccola tenda allestita in tutta fretta dagli uomini di Kiquathu. Il Divinatore ci ha fatto sapere che ci parlerà quando avremo preso la nostra decisione. Per ora si è rinchiuso nella Cava delle Teste Mozze. Anche lui deve riflettere e chiedere un conciliabolo a Sciacal. L'idea che il Dio Sciacallo sia in grado di intendere e dare consigli mi risulta inconcepibile, ma l'ometto pare essere sicuro di quel che afferma. Tha-ho comunque vigila all'ingresso della grotta e non credo nessuno abbia il coraggio per contraddire lui e il suo protetto. Il guerriero era teso come la corda di un arco l’ultima volta che l’ho visto. Una luce folle gli balenava negli occhi appena qualcuno si avvicinava alla zona. Sono ben lieto di essermene andato e di essere al cospetto dei familiari volti di Rovers e Shoggul. «Allora Maestro, perché hai chiesto quest'incontro?» rompe gli indugi il comandante. La barba di due giorni gli rende il volto ancor più truce del solito. Shoggul è visibilmente agitato, non sa da dove iniziare. Ha lasciato il Santo in un angolino della tenda. La cosa è strana. Raramente se ne libera, preferendo tenerselo sempre ben stretto. Meglio così, quel sacco di liquami comincia veramente a puzzare di cadavere. Di solito dopo un po’ se ne sbarazza per crearsene un altro, ma questa volta è diverso. Pare che questo Santo lo stia servendo meglio degli ultimi. «Morte ha visto la vera indole del Patriarca.» si decide infine lanciandomi un’occhiata.

Ha gli occhi iniettati di sangue, spiritati, e incorniciati da occhiaie nere, capaci di spiccare anche sul suo volto d'ebano. «Confermo, il Patriarca altri non è che il Traghettatore. Ne sono convinto anch’io.» Rovers scrolla le spalle come se la cosa non lo turbasse più di tanto, ma Shoggul rincara la dose, lasciandomi sbalordito. «Sì, sì, certo, ma il Traghettatore non è quello che sembra.» «L'ho visto io trasformarsi in un corvaccio…» aggiungo per smuovere il capitano, ma questo è imperturbabile, intento a registrare le nuove informazioni. «Un corvo?» sbotta il Maestro «Un demone!» A ben vedere mi sembra una definizione più che corretta. Non ho idea del perché non ci abbia aggrediti lui stesso. «Calma» si impone Rovers massaggiandosi la barba con aria infastidita e accendendosi un sigaro. «Voglio prima capire cosa diavolo è successo al villaggio delle vesti bianche. Yorik dimmi tutto e tu stregone, dovrai aspettare per i tuoi vaneggiamenti.» Shoggul si agita, cambia posizione, fissa il Santo. A stento si trattiene dal vomitare altre frasi incomprensibili. Sa che il capitano si infurierebbe. Racconto tutto l'accaduto, da quando abbiamo messo piede nel villaggio a quando abbiamo seguito Agape al Tempio di Nulla. Narro di quanto in realtà la Sorella di Lena sia lontana dall'essere la pura e pia donna che sostiene di essere. Di quando ci hanno scoperti e di come siamo riusciti a fuggire. Il capitano fa smorfie che non comprendo, ma è sicuramente irritato. Dovevamo solo raccogliere informazioni e invece abbiamo scatenato una guerra. Gli racconto di come Bboar ci abbia salvati, concedendoci la fuga… e a questo

punto Shoggul non riesce più a trattenersi. «Il Dio Orso ha dato il via alle danze!» urla, facendo sobbalzare me e infuriare Rovers. «Ho detto di tacere finchè non avrà finito Yorik!» tuona questo, ma il Maestro è un fiume in piena, la sua voce una cantilena insopportabile. «Sciacal lo Spietato, Radwulf Lupo Potente, Mego-thot il Furbo e Bboar Signore della Forza. I Nuovi Dei sono nati!» Rovers lo afferra per il collo scuotendolo come un fantoccio, ma è evidente che lo stregone è in uno stato alterato di coscienza. Non cessa di parlare neanche ora che la morsa del comandante rischia di farlo soffocare. «Capitano, lo lasci dire…» cerco di infrangere la stretta ma alla fine Rovers l’allenta solo quando si convince che forse da quella bocca sdentata potrà uscire qualcosa di utile. «La nebbia è svanita e ha partorito quattro nuove Divinità. La giovinezza è la loro forza… e la loro debolezza. Bboar ha scatenato la guerra, la sua furia era incontenibile. Bboar è morto. Bboar è stato confinato nel Regno Abissale dei Demoni e condannato a una lotta eterna per la propria sopravvivenza. Tre ne rimangono. Tre a proteggere le anime degli animali del Nuovo Quarto.» A quelle parole Rovers molla il collo dello stregone. Qualcosa deve averlo colpito. Nei suoi occhi balena il dubbio. Un istante fugace, subito sostituito dall’usuale pragmaticità e il suo cervello torna in funzione. Mi stupisco quasi di non sentirne gli ingranaggi. Shoggul invece si affloscia al suolo, scuote la testa, le mani che massaggiano i lunghi capelli crespi. Mi chino per aiutarlo, ma quando lo tocco scatta indietro come una fiera ferita. Mi osserva con occhi bovini, privi di intelletto. Guardo il comandante in cerca di o, ma anche lui è lì, immobile,

un’espressione perplessa sul muso di pietra. Fa un’ampia boccata di fumo impestando l’aria della tenda con il suo forte aroma. Poi fortunatamente il Maestro d'Ossa si solleva da solo sulle esili gambe. Pare essere tornato fra i vivi. «Avete capito Rovers?» si rivolge direttamente al comandante con voce flebile. Questo si scuote, nuovamente padrone della situazione. «Perfettamente» si pavoneggia «correggimi Yorik se ho male interpretato.» Sono qui apposta… «Ci troviamo in un fottuto Quarto conteso fra diverse Deità e questa è la cosa peggiore che ci potesse capitare. Potevamo aspettarcelo, certo, essendo al soldo di un Templare, ma la cosa anomala è che fra tutte queste dannate creature manchi proprio la Dea della Pace, Lena, colei per la quale Savio Palwen ci ha ingaggiati…» Mi fissa con quegli occhi cerulei capaci di inquietare. Sono d'accordo, bravo capitano, ma farei un o avanti. «Lena non si è vista, e i suoi ministri paiono essere in combutta con tutt'altre creature. Soprattutto il Patriarca stesso della sua Chiesa pare essere un semidio o un demone o qualcosa di simile…» Storce la bocca come se il solo parlare di entità superiori gli desse il voltastomaco. Probabilmente è così. Quando ci sono quelle di mezzo non è possibile fare piani a lungo termine. Shoggul è impaziente di intervenire e Rovers gliene concede facoltà. «Morte ha il sospetto che il Patriarca abbia qualcosa a che vedere con la Loggia dei Domatori di Demoni.» Il capitano sbuffa, furioso. Le cose si complicano, ma penso di aver capito qualcosa.

«Se i vertici della Chiesa di Lena sono in mano a ministri che nulla hanno a che fare con la Dea della Pace, i dubbi del Duca sono assolutamente fondati. Quello che non mi spiego è che se il Traghettatore è il Patriarca, perché diavolo ha portato qui il Duca?» «Ottima domanda Yorik, ma a me interessa solo concludere la missione e intascare l'oro del Duca.» «Certo, comandante, ma non credo riusciremo a uscirne senza capire il ruolo del Traghettatore in tutto ciò. Forse aveva scoperto i dubbi di Savio e voleva allontanarlo dai Quarti?» «… e non poteva semplicemente accopparlo visto che è così potente? Perché limitarsi ad allontanarlo?» «Forse perché Palwen è un personaggio troppo in vista? Forse perché conosceva bene Qilana? Se non poteva ucciderlo, perché non farlo sparire? Essendo sul punto di svelare qualcosa che doveva essere tenuto segreto, l'idea di allontanarlo dai Quarti potrebbe stare in piedi. Inoltre il Traghettatore conosceva le asperità che avrebbero atteso Palwen in questo Quarto. Probabilmente pensava che i clan ribelli lo avrebbero trucidato non appena l’avessero trovato nella giungla con indosso le sue vesti candide …» Rovers ci pensa e pare concordare. «Ma non aveva fatto i conti con la Centuria.» gongola orgoglioso «Comunque i dubbi di Savio sono gli stessi di Qilana la Pura, se non sbaglio…» mi chiede nuovamente conferma, come sempre quando è già certo della propria affermazione. «Esatto, quindi anche lei sarà in pericolo. E che rapporti ci sono fra quella ragazzina e i vertici della Chiesa di Lena? Nessuno! Non è ufficialmente riconosciuta. È un'indipendente… o forse è lei che con la scusa di esserlo è in perenne fuga dai vertici dell'Istituzione.» Il comandante fa spallucce, per meglio chiarire che della mocciosa non gli interessa affatto. Il suo problema ora è evidente: come riportare a casa il Duca e incassare il resto della paga. In quell'istante Deifobo irrompe nella tenda, mandando in malora tutte le nostre

riflessioni. «Kiquathu vuole riunire i clan ribelli per dichiarare guerra a Nulla e alle vesti bianche!» tuona il giovane paonazzo in volto. Non cerca neppure di nascondere l'eccitazione per lo scontro che si profilerebbe all'orizzonte. Sa che se ci sono entità divine di mezzo i dardi duwan sono i soli a fare la differenza, e la cosa lo entusiasma, nutrendo la sua ambizione. Rovers lo fulmina. Lui ha i piedi ben piantati per terra. Non metterà certo a repentaglio la vita dei membri della Centuria per una guerra dalla quale non potrà trarre alcun guadagno. «Invita il Divinatore a raggiungerci, piuttosto che venire nelle brache, dannato guerrafondaio senza cervello!» Deifobo rimane di sasso e se ne va bofonchiando qualche insulto ben attento che risulti incomprensibile alle orecchie del capitano.

Tha-ho precede il suo protetto e lo fa accomodare per terra al nostro fianco, per poi piazzarsi innanzi all'ingresso della tenda. È ancora teso, fiuta il pericolo per lui e per il Divinatore. Il muso di iena che sovrasta il volto di questo pare invecchiato di cent'anni, una pelliccia oramai esausta, pronta ad essere utilizzata per attizzare un fuoco. Il bagliore all'interno delle orbite vuote è flebile, ma giurerei che la fiamma sia pronta a divampare, più forte che mai. Ne ho conferma non appena mi ritrovo gli occhi di Kiquathu fissi nei miei. C'è furia nello sguardo del Divinatore e desiderio di stermino. Una vendetta da consumarsi ora, immediata. Dopo aver osservato a lungo prima me e poi Rovers, il capo del clan dello Sciacallo osserva Shoggul. I suoi lineamenti si addolciscono, come se avesse incontrato finalmente un volto amico.

«Il tempo è giunto. Sciacal è fra noi.» La voce è piatta. Nessuna gioia in quell'affermazione, nessun presagio di gloria. Il Maestro d'Ossa si fa serio, a sua volta. Fra i due c'è un intesa che va ben oltre il mondo visibile. «Sciacal ha annunciato la vostra venuta. Ha previsto il destino che vi sareste portati appresso. È tempo di dimostrarci la vostra fedeltà. La guerra fra Deità è iniziata. Il clan dello Sciacallo ha perso numerosi effettivi, quello dell'Orso la propria guida, ma oggi sono state celebrate anche delle vittorie. Mego-thot il Furbo ha raso al suolo un villaggio delle vesti bianche. Nottetempo i guerrieri avvoltoio sono planati nell'abitato e hanno aperto le porte dall'interno facendo irrompere i propri fratelli e Radwulf, il Lupo Potente ha aizzato branchi di suoi figli contro gli sprovveduti che lavorano ai campi nel sud. Nessuno è sopravvissuto.» il Divinatore fa una pausa, quasi le energie per proseguire gli siano venute meno. «Ora però dobbiamo assaltare la dimora di Agape. Solo eliminando quel porto potremo bloccare l'afflusso massiccio di nuovi stranieri.» In quell'istante gli occhi di Rovers ritrovano brillantezza. Intuisco il suo pensiero all’istante. Non è difficile: le navi di cristallo. Proprio quello che fa al caso nostro. Il capitano è abile come sempre a mentire come a titar di scherma. «La nostra parola è sacra, nobile Kiquathu. Abbiamo giurato fedeltà a Sciacal. Saremo al vostro fianco in questa battaglia.» Il Divinatore apprezza, ma un bagliore degli occhi del suo strano copricapo lo desta, mettendolo sull’attenti, come uno sciacallo in punta. L'allarme urlato da ReCorvo penetra nella tenda improvviso e forte, quasi l'omone fosse al nostro fianco. Dopo pochi istanti Deifobo si affaccia discostando un lembo di pelliccia, rimediando quasi un affondo dall'ascia di Tha-ho «Ma Sciacal non doveva dilaniare chiunque avesse varcato i confini del suo

Regno?» Dall'esterno le grida degli indigeni si sommano al cozzare delle armi. Spero solo che non sia Nulla ad essere già tornata a cercarci. «Dobbiamo fuggire.» sbotta il comandante cercando l’assenso del Divinatore. Questo pare averne avuto abbastanza per oggi e annuisce con il muso di sciacallo che gli pende floscio fin sopra gli occhi. Rovers non attende oltre, scatta in piedi e quasi travolge Deifobo, uscendo dalla tenda. «Ripiegare, ripiegare! Abbandoniamo il campo!» Non è il momento per ingaggiare il nemico. Aiuto Shoggul e assieme usciamo dalla tenda. Fuori ci attendono già alcuni scontri. Siqquara e ReCorvo combattono affiancati a Morte. Ai loro piedi giacciono quattro indigeni fatti a brandelli. Mulinano colpi precisi e possenti. Sono uno spettacolo da osservare. Nonostante la foga del combattimento, stanno indietreggiando. A malincuore ubbidiscono agli ordini del capitano, ma sono dei professionisti. Elyn e Zitara sono pochi metri da noi. Evitano gli scontri. L’assassina zoppica, una macchia di sangue le imbratta le brache poco sopra il ginocchio nonostante la fasciatura applicatale dalla guaritrice. Rovers fa cenno loro di muoversi, e a me di coprirne la fuga. Lui va verso il Duca e se lo prende sottobraccio. È il suo tesoro, una montagna d’oro su due gambe. Non vuole certo perderla prima di aver incassato l’altra metà del compenso. Pare comunque che il grosso dei nemici debba ancora arrivare. Quelli che abbiamo già accoppato dovevano essere solo un’avanguardia e fortunatamente

non c’è traccia né della Regina né del Traghettatore. Meglio così. Ci voltiamo e ci diamo alla fuga, inglobati in pochi istanti dall’ammasso di vegetazione. Per una volta questa maledetta giungla ci tornerà utile…

XXXIV. A Cavallo dei Quarti - Ritirata

Il sole stava calando quando Kolam fece irruzione nella stanza del Maggiore. I tentativi compiuti dal picchetto alla stanza dell’ufficiale per fermarlo si rivelarono inutili, e il giovane soldato chinò il capo sconfortato innanzi al proprio superiore. «Non preoccuparti, lascia che il chierico mi riferisca ciò di cui ha bisogno.» lo liquidò Firion vedendo l'espressione accigliata del volto di Kolam. Non era ubriaco e questo era già un buon punto di partenza. Il Maggiore si alzò dalla brandina e fece cenno all’uomo di accomodarsi al piccolo tavolo posto a fianco della finestra. La luce soffusa del sole morente donava alla stanza un’aurea di quiete. Purtroppo l’ufficiale presagiva che non ne avrebbe potuto godere. Appena seduto, Kolam infatti ruppe gli argini. «Dovete fermarli!» sbraitò. «Di cosa vai blaterando?» «Cosa siamo divenuti, Maggiore? Siamo forse regrediti allo stato di selvaggi? Siamo noi che dovremmo portare cultura e civiltà a queste lande, o sbaglio?» L'ufficiale comprese quale fosse il problema: l’uomo doveva aver scoperto la sua intenzione di liberarsi dei prigionieri. «E dimmi, Kolam, cosa dovrei farmene di quei barbari?» Il suo sguardo era carico di frustrazione. «Non è affar mio, ma sicuramente non accopparli a sangue freddo. Ci sono dei ragazzini fra loro, poco più che bambini, anche se sicuramente si ritengono dei

grandi guerrieri.» «Dovrei quindi liberarli, per ritrovarmeli magari fra qualche giorno a ingrossare le fila di qualche altra tribù guerriera?» «Prigionieri. Fanno sempre comodo dei prigionieri, non ho forse ragione, Maggiore?» Firion tacque per un istante e il volto del guaritore si distese, fiducioso. «Mi spicce, Kolam. Se avessimo tenuto il villaggio, come era nei nostri piani, avrei anche potuto ascoltarti. Purtroppo tutto è cambiato. Dobbiamo tornare in patria.» Pur sorpreso l'uomo di medicina non si perse d'animo. «La nostra missione finisce ancor prima di cominciare? Ritirarsi, di questo stiamo parlando? E cosa vogliamo lasciare in memoria della nostra venuta? Solo una strage di inermi? Non faremo altro che alimentare l’odio di questa gente nei nostri confronti!» Firion perse la calma e batté i pugni sul tavolino. Kolam aveva ragione, ma in guerra la ragione valeva meno dello sterco di cavallo. «Ho degli ordini da rispettare!» «Cosa penserà di voi Qilana?» Il Maggiore non aveva idea del motivo per cui il vecchio avesse tirato fuori quell'argomento, ma effettivamente il pensiero l'incupì. «Senta Maggiore, tre dei nostri sono in gravi condizioni. Senza il mio aiuto moriranno…» Firion non gli lasciò finire la frase. «Cosa vorresti fare? Vuoi finire davanti alla corte marziale? Rifiutarsi di curare i nostri uomini è un atto vile, di tradimento. La tua minaccia mi fa inorridire!» «Decida pur lei, Maggiore. Quelle vite sono nelle sue mani.»

Per un istante l'ufficiale ebbe la sensazione di intravvedere negli occhi dell'uomo la stessa luce che albergava in quelli della Figlia di Lena. Sicuramente la medesima determinazione. Pensò fosse colpa della stanchezza. Ugualmente attendere fino all'indomani per prendere una decisione non avrebbe fatto grande differenza e avrebbe concesso le cure necessarie ai suoi soldati. «D'accordo, vecchio, avvisate Tilmon di attendere la prossima alba.» Kolam comprese che più di quello non sarebbe riuscito ad ottenere dall'ufficiale. Lo ringraziò e si affrettò a cercare il tenente, prima che questo, sin troppo solerte, portasse a compimento gli ordini del proprio superiore.

«Ehi, vecchio ubriacone, hai smarrito la strada per la branda?» Al soldato di guardia alla casetta dove erano stipati i prigionieri, non parve vero di poter rompere la noia della nottata. Il suo compagno fu ancor più lesto ed abbandonò il proprio posto per farsi incontro al chierico che ciondolava nel bel mezzo del via. Al chiarore di una luna ammezzata la figura ingobbita e claudicante era impossibile da non riconoscere. «Forza Kolam, fammi assaggiare un po' del tuo nettare.» Il guaritore tentò di ritrarsi, ma le sue movenze erano goffe e per poco non finì col rovinare al suolo. L'otre gli venne strappato dalle mani, mentre il primo soldato incitava il compare a lasciargliene un goccio. Kolam zampettò dietro la guardia come un cane cui il padrone abbia tolto l'osso di bocca. Arrancava, ma non sembrava certo intenzionato a demordere. «E pensare che qualcuno mormorava ti fossi redento!» lo schernì il soldato,

mentre beveva con foga il potente liquore. «Ridate… melo…» biascicò l'anziano protendendo le mani in direzione del prezioso contenitore. I due soldati continuarono imperterriti a scambiarsi la borraccia finchè uno di loro non sbarrò gli occhi. Innanzi a lui, il compagno crollò al suolo, russando come un orso. Di punto in bianco, come se una malia lo avesse raggiunto all'improvviso. «Ma che diamine è questa rob…» si addormentò anche lui, in piedi, per poi crollare al suolo come un sacco di stracci. Kolam sorrise raddrizzando la schiena. Troppo prevedibili. Sapeva che non avrebbero esitato a strappargli quella che credevano una bevanda prelibata. Il fiore dei sogni aveva un effetto immediato, e i due guitti avrebbero dormito per qualche ora. Il chierico non aveva creduto neppure per un istante che Firion si fosse effettivamente convinto a liberare gli ostaggi e perciò aveva deciso di agire da solo. Raggiunse la guardia e rovistò fra i suoi abiti fino a trovare le chiavi. Strappato il mazzo si diresse alla casupola dove erano imprigionati i guerrieri dell’Aria sopravvissuti e dopo alcuni tentativi trovò la chiave giusta e la girò nella serratura. Con cautela aprì la porta. Dentro era buio pesto, e ci vollero diversi minuti prima che qualcuno si accorgesse della sua presenza. Una sagoma oscura gli si avvicinò, titubante. «Siete liberi» bisbiglio «dovete solo scavalcare la palizzata. Le guardie dormiranno per ore. Andatevene, in fretta.» L'ombra non se lo fece ripetere.

Di malagrazia svegliò i compagni e in pochi istanti tutti si accalcarono sulla porta. Kolam si fece da parte e vide un paio dei guerrieri affiancare le guardie svenute: rovistavano in cerca di armi e denari, perdendo tempo. «Andatevene, in fretta, prima che qualcuno si accorga della vostra fuga!» disse loro, ma uno di quelli, trovato il pugnale della sentinella, la sgozzò senza riguardo alcuno. Il chierico, impietrito dall'orrore, ci mise alcuni istanti per muoversi. Cosa aveva combinato? Cosa gli era saltato in mente? Fidarsi dei bruti del Quarto dell’Aria era stata una follia. Accortosi dell’errore si scosse. Voleva salvare almeno l'altro soldato, ma quando lo raggiunse anche quello era stato accoppato da uno dei fuggitivi. L’assassino si volse nella sua direzione e gli affondò il coltello nei polmoni. Kolam senti un bruciore lancinante, mentre un liquido caldo gli risaliva dalla gola. Si accasciò al suolo, arpionandosi il petto. Ogni tentativo di respirare era una sofferenza tanto inutile quanto dolorosa. Il suo ultimo pensiero corse a Qilana. Aveva cercato di fare del bene, così come lei gli aveva insegnato. Aveva salvato delle vite, ma altre erano state prese in cambio. Gli Antichi non erano disposti a rinunciare alle anime che gli erano state promesse. Sperò almeno che Lena rivendicasse la sua e gli spalancasse i cancelli della propria dimora eterna.

Firion era furioso e il fatto di non avere nessuno con cui prendersela rendeva le sciagure di quella nottataccia ancora più indigeste.

Le due guardie sgozzate, il chierico pugnalato a morte e i prigionieri, fuggiti. Come era potuto accadere? Per non parlare poi del ghigno sul volto della Rabdomante. Era stata la donna ad avvisarlo dell'accaduto. Cosa fosse successo di preciso non era dato saperlo, ma la discussione avuta la sera precedente con Kolam non lasciava al Maggiore molti dubbi: il folle doveva aver agito di testa propria, pagandone le conseguenze. In fondo gli dispiaceva. Sotto quella scorza di vecchio inacidito dagli anni, si nascondeva una persona dall'animo generoso, che neppure i demoni dell'alcol erano riusciti a piegare del tutto. «Era un buono a nulla.» lo stuzzicò Polina che lo aveva conosciuto quando la parabola della carriera di Kolam era già discendente. Firion non aveva né tempo, né voglia per discutere con la donna. Quanti suoi soldati aveva salvato il guaritore? Centinaia. Un buono a nulla… la Rabdomante non sapeva quello che diceva e mostrava ancora una volta la propria arroganza. Le ò oltre, scostandola con una spallata. Aveva altro cui pensare che alle cattiverie della donna che, se ne stupì, aveva considerato qualcosa di più di una semplice pedina da sfruttare per il buon esito della missione. Dopo lunga e tormentosa riflessione, il Maggiore era giunto alla conclusione che doveva ubbidire agli ordini del Generale Enoc, così come questo aveva accolto se pur a malincuore, quelli del loro Re. Non c’erano alternative. Avrebbe forse potuto tergiversare, guadagnare qualche giornata, ma il nocciolo della questione non cambiava: non avrebbe più potuto are Qilana, così come erano gli accordi. Rimandare quel tradimento non avrebbe giovato a nulla, se non a perpetrarne un altro nei confronti del Generale Enoc anzitutto e del Re in seconda battuta.

Polina aveva ragione questa volta. Il suo dovere verso il Quarto dell’Acqua veniva prima della promessa fatta alla Pura. Sperava che la fanciulla se la sarebbe cavata anche da sola. Lui non poteva aiutarla. L’immagine dell’ultimo saluto alla Figlia di Lena gli tornò alla mente come una visione dalla forza dirompente. Gli occhi tristi della fanciulla, quando lui le aveva dato appuntamento a Savala, gli balenarono innanzi. Quell’epressione che sul momento lui aveva ignorato, prendeva ora un significato ben preciso. A fatica Firion riprese il controllo: lei lo sapeva già! Sapeva che lui l’avrebbe tradita! Ne era più che convinto, ma scosse la testa in cerca di lucidità. Quei pensieri erano indegni di un ufficiale del Quarto dell’Acqua. Nessuno era in grado di presagire con certezza il futuro, neppure gli Antichi, figuriamoci una ragazzina. Trasse un respiro profondo, riprendendo appieno il controllo. Il dovere lo chiamava e per quanto folle apparisse quell’andare avanti e indietro sconclusionato, lui avrebbe ubbidito. «Tilmon, raduna gli uomini.» gridò al sottufficiale vedendolo are con una ronda lì accanto. «Entro due ore lasceremo il villaggio. Ci ritiriamo. Torniamo a casa.» L’espressione sul volto del giovane tenente non riuscì a mascherarne la sorpresa. Nonostante questo il soldato annuì senza esitare. «Ai comandi, Maggiore!» Per fortuna c’erano ancora subalterni capaci di non discutere gli ordini, pensò Firion, seguito da presso da Polina. La donna era evidentemente soddisfatta della decisione di ubbidire agli ordini di Re Saleon e, forse, la riteneva una sua personale vittoria. Al Maggiore interessava poco. Niente, anzi. Il vero problema sarebbe stato cancellare dalla propria coscienza l’abbandono di Qilana al proprio destino.

XXXV. Nuovo Quarto – Mego-thot

Da quando è scoppiata la guerra fra Dei non abbiamo avuto più tregua. Non facciamo a tempo ad allestire un nuovo campo che subito dobbiamo spostarlo per non dare punti di riferimento ai nostri nemici. Ci danno la caccia, i bastardi, giocano con noi. In più di un occasione abbiamo visto quel dannato corvaccio dagli occhi di brace che abbiamo imparato essere il Traghettatore dei Mondi. È lui a scovarci e poco dopo ci arrivano addosso le vesti bianche e i loro scagnozzi, gli indigeni rimasti fedeli a Nulla, quelli con la fascia in testa, capaci di schiavizzare i propri simili per assecondare il volere degli stranieri invasori. Il più delle volte ci muoviamo in questa dannata giungla nel cuore della notte, avanzando in piccoli gruppi per poi riunirci in punti prestabiliti. Non oggi che dobbiamo raggiungere il Regno di Mego-thot, il Dio Avvoltoio. Adesso marciamo in pieno giorno. Il caldo è opprimente. Pioggia e insetti ci danno il tormento. Il morale non è al massimo nonostante qualche successo lo abbiamo anche ottenuto. Abbiamo assaltato già due villaggi e li abbiamo dati alle fiamme con l'aiuto del Clan del Lupo e del loro Dio Radwulf. Da allora il suo ululato selvaggio mi tormenta tutte le volte che provo a dormire. Cosa che per fortuna, almeno da questo punto di vista, capita raramente. È Rovers a spronarci di continuo. Dobbiamo conquistarci la fiducia incondizionata dei ribelli, ci tartassa. L’avvicinarsi della conclusione della nostra missione lo galvanizza donandogli energie inesauribili.

È la promessa dell’oro che ci attende al nostro ritorno a spronarlo rendendolo un demone inarrestabile, nonostante le tracce della fatica siano ben evidenti sul suo volto. Nuove rughe gli segnano la fronte, e la barba scura, oramai lunga, ne cela sicuramente altre mille. Ripensando invece a Radwulf, alla sua figura massiccia, non posso che ringraziare il giorno in cui lasceremo questo maledetto Nuovo Quarto. Il Dio Lupo mi terrorizza ogni volta che si presenta. S’impossessa del Divinatore Hur-holate e lo rende un mostro dalla voracità insaziabile, alto poco meno di tre metri e capace di divorare vivi dozzine di uomini. Nelle leggende dei Quarti ricordo che esistevano creature simili, anche se più piccole. Li chiamavano licantropi ed erano il terrore dei contadini e delle genti che vivevano isolate. Radwulf è invece un flagello su scala universale, una furia capace di terrorizzare intere cittadelle presidiate dalle vesti bianche. Non so se Hur-holate sia veramente un Dio, o un semplice mutaforma, ma innanzi a lui anche i Cavalieri della Concordia perdono il proprio coraggio, dandosela a gambe levate come pavide donnicciole. Qualcosa vorrà pur dire. Comunque ci siamo lasciati alle spalle il Clan del Lupo da giorni oramai. Abbiamo già stretto un accordo con loro. Ora dobbiamo convincere gli altri clan ribelli. Non sarà facile, ma abbiamo buoni argomenti, o scuse plausibili. È Deifobo a interrompere i miei pensieri, sbucando dalle frasche una decina di metri innanzi al gruppo composto dalla Centuria e dai sopravvissuti del Clan dello Sciacallo. Da quando Zitara si è ammalata, il nostro eploratore è diventato l’esperto delle polveri. Rovers non è certo soddisfatto della cosa, ma non ci sono alternative. L'assassina ha la febbre alta. La ferita procuratasi con la scheggia di roccia all'interno della Cava delle Teste Mozze si è infettata e ora siamo costretti a portarla con una barella.

La sua amante Siqquara e ReCorvo la trascinano in questo maledetto intrico di giunchi, faticando non poco. Non possono perderla di vista neppure un secondo per evitare che schifosi insetti le si intrufolino addosso. Sembrano essere irrefrenabilmente attratti dall’odore della sua ferita. Elyn è affranta. Ce l'ha messa tutta per curare Zitara, ma pare che le pozioni non abbiano effetto e molti degli ingredienti che è solita utilizzare non si riescono a trovare in questo pantano. Anche l'intervento di Shoggul e del Santo non hanno dato esiti migliori. L'assassina spesso perde conoscenza, altre volte delira, sempre trema e batte i denti così forte da costringerci a bendarla per non farci sentire da eventuali nemici. Se non fosse per l'ostinazione di Siqquara, sono convinto che Rovers ci avrebbe dato l'ordine di abbatterla, come si fa con un cavallo azzoppato. «A meno di mezzora di cammino c'è il campo del clan dell'Avvoltoio.» annuncia l'esperto di polveri che finge di essersi calato con disinvoltura nel nuovo ruolo di battitore. Rovers gli fa un cenno interrogativo e il Biondo si volta di scatto. Quasi sobbalza vedendosi affiancato da un indigeno dal volto dipinto a foggia di avvoltoio, lunghe piume nere e bianche che gli penzolano dal cranio calvo. È spuntato dalla vegetazione verde lucido, senza il minimo fruscio. «Dannazione…» sbotta il giovane, rendendosi conto di non esser ato inosservato come credeva. La smorfia del comandante è esplicita. La perdita di Fëanor Miratur e ora di Zitara è una brutta botta per la Centuria. Tha-ho accorre, e si mette a parlare fitto fitto con l'ometto che ha pedinato Deifobo.

Infine l'avvoltoio ci fa segno di seguirlo. Continuiamo così ad avanzare in quell'intrico di vegetazione soffocante. Ogni respiro è reso difficoltoso da un’umidità morbosa. Ora si è messo a piovere sul serio. Lascio sfilare la Centuria e chiudo il gruppo. Quando mi a innanzi il Templare non posso evitare di abbassare lo sguardo. Lo scoramento che gli leggo negli occhi mi avvilisce. La sua fede incrollabile ha ceduto di schianto e da allora Savio Palwen si è chiuso in un mutismo che rompe solo per professare le preghiere alla Dea della Pace. Constatare come i vertici dell'Istituzione cui aveva giurato fedeltà siano corrotti e come abbiano stravolto le pratiche improntate alla Pace di Lena, lo ha turbato profondamente. Per noi è una fortuna. Il suo ardore guerriero è ora al nostro completo servizio, e il Duca è un ottimo combattente. È stata dura per il comandante convincerlo che la missione sia da ritenersi conclusa. Il Templare, viste le ultime scoperte, vorrebbe fare piazza pulita e tornare al Quarto dell'Acqua con la testa del Patriarca e di Agape. Ma questo non era nei patti. Il contratto parla chiaro. Rovers gli ha garantito comunque che se ciò sarà possibile, previo un lauto aumento dell’ingaggio, non glielo impediremo. D'altronde per andarcene abbiamo bisogno delle navi di cristallo e queste si trovano solo a Nuova Cadolia, la cittadella maggiore, dove risiede la Sorella di Lena. Stiamo cercando con ogni mezzo di garantirci il o dei clan ribelli. Sono restii a sferrare un attacco diretto alla città, lo ritengono un azzardo eccessivo, ma speriamo di convincerli al più presto. Il loro aiuto è fondamentale per noi. Non possiamo pensare di impossessarci di uno di quei vascelli senza il diversivo offertoci da Kiquathu e dai Nuovi Dei. Con Rovers abbiamo già approntato un piano perfetto. Stiamo solo attendendo

che i tempi siano maturi per sottoporlo ai Divinatori. Ci siamo quasi comunque, ancora un paio di razzie e dovremmo esserci garantiti il loro pieno appoggio. Non si può certo dire che non siano rimasti impressionati dalle nostre doti. Le arti di Morte, i dardi duwan di Deifobo, gli elementali evocati dal Templare e l’abilità nel combattimento degli altri membri della Centuria li hanno convinti che siamo fondamentali per la loro lotta. Il sole sta calando sotto la coltre di nubi temporalesche, concedendoci un minimo di tregua dall'afa che ci ha sfiancato per tutta la giornata. Purtroppo con il sopraggiungere delle tenebre arrivano anche quei maledetti esseri che gli indigeni chiamano osquit. Una sorta di zanzare grandi come pettirossi e dal medesimo colore, almeno dopo che ti hanno succhiato via litri di sangue. Forse siamo a buon punto però. A giudicare dalla coppia di avvoltoi che ci scrutano dall'alto di un albero enorme, dovremmo essere arrivati al campo del Divinatore Zothogorh-rth. Gli occhi delle bestiacce non mi mollano, osservandomi come fossi già un cadavere da spolpare. Li prenderei a sassate, ma non vorrei urtare la suscettibilità degli indigeni che scorgo appostati tutt’attorno a noi, fra le frasche in quel coacervo verde scuro. Che gli Antichi mi proteggano… devo ricordarmi di chiedere a Shoggul di benedirmi un'altra volta.

Il Divinatore Zothogorh-rth ha mandato il suo guerriero-ombra Rathars-oth ad accoglierci. L'ometto è insignificante. Alto un metro o poco più, è un fascio di nervi ricoperto di piume d’avvoltoio.

Non ho idea di come se le sia conficcate nella carne, ma gli stanno ritte addosso, disegnando una linea perfetta su braccia e gambe. Non fosse per gli occhi spiritati, cerchiati di nero, mi farebbe quasi tenerezza, agghindato come un giullare, più simile a un gallo che a un guerriero scelto. Io, Rovers, Kiquathu, Uborugla e Shoggul siamo gli invitati. «Approfittatene per riposarvi, voialtri.» ordina il comandante, gettando una rapida occhiata al resto della Centuria e alla barella di Zitara. Non perde più di un istante, noto. L'ha gia data per morta, glielo leggo in faccia. Siqquara invece è subito al capezzale della donna. Le a una pezza bagnata sulla fronte bollente e alterna sguardi supplici in direzione di Elyn. Le ultime immagini che colgo prima che Tha-ho mi spinga a procedere con gli altri convocati, sono gli occhi affranti della guaritrice. Anche lei non ha più speranze, ma a differenza di Rovers, l'imminente perdita non la lascia certamente indifferente e non è ancora disposta ad arrendersi. Kiquathu congeda l’ombra e impartisce ordini che non comprendo a quello che avanza del proprio clan. La notte ci cala addosso, ma di riposare neppure l'idea. Morte fissa le stelle, forse in cerca di una congiuntura astrale favorevole per viaggiare nella realtà non-ordinaria. Chissà che qualche demone gli possa dare consiglio. Scortati dal guerriero ombra tutto nervi e piume, entriamo in una casupola fatta di fango. Ha la forma a cupola e puzza da morire. Forse non è affatto fango, ma vero e proprio sterco. Anche Rovers storce il naso, ma non abbiamo alternative. Ci chiniamo e uno ad uno entriamo nel pertugio che le fa da porta.

All'interno, nella penombra ci attende Zothogorh-rth, voce su questa terra di Mego-Thot, il Dio Avvoltoio. Non me l'ero dimenticato. Una singola candela getta una luce misera in quell’anfratto di mondo circoscritto da pareti di merda. È comunque sufficiente a gettare l’ombra del profilo del Divinatore sulla parete della casupola. La forma convessa di questa ce la restituisce deformata ancor più, rendendola grottesca. Quell'unica volta che l’ho visto mi è stata più che sufficiente per memorizzarne lo sguardo: una furbizia maligna vi alberga, rendendo quell'essere più pericoloso degli altri. Un voluminoso collare candido gli cinge l'esile collo, mentre il volto è pitturato con le fattezze dell'animale guida del clan. Il loro Signore non basa unicamente sulla forza bruta la propria esistenza, ne sono certo. Se proprio avessi dovuto scegliere a quale dei quattro Nuovi Dei votarmi, avrei scelto senza dubbi Mego-thot. «Benvenuti a voi, fratelli, accomodatevi.» Le parole stridono come lame rugginose. Il becco che gli sovrasta naso e bocca le distorce e trasmuta in minaccia. Ci invita a sederci sulle stuoie che ricoprono il pavimento e così facciamo. Zothogorh-rth riserva un’occhiata penetrante ad ognuno di noi. Un brivido mi percorre mentre quegli occhi bordati di nero fumo indagano sulla mia tempra. Per fortuna lo sguardo del Divinatore prosegue per piantarsi sul guerriero ombra di Bbeor. Uborugla rappresenta il clan dell’Orso, rimasto privo di guida divina. In questi lunghi giorni di peregrinazioni e scontri, ho imparato ad apprezzarne il valore di

guerriero, ma non farei molto affidamento sulla sua intelligenza. La smorfia con cui Zothogorh-rth ripaga il saluto che il guerriero gli porge mi fa presumere che anche il Divinatore non lo stimi molto. Sarà comunque Uborugla a portare le nostre decisioni al clan dell’Orso e ne sfrutteremo le evidenti carenze a nostro vantaggio. Non dubito neanche per un istante che anche la voce di Mego-thot sia del nostro avviso. Con la coda dell’occhio colgo il cenno del capitano: mi chiede conferma. È deciso a sviscerare il nostro piano. Forse è prematuro, ma a tutti noi è chiaro che se Nulla decidesse di fare sul serio i rischi aumenterebbero vertiginosamente. Meglio stringere i tempi, e abbandonare questa guerra che non ci riguarda. Gli confermo il mio assenso.

«Nobile Zothogorh-rth» esordisce Rovers sforzandosi di pronunciare il nome in modo corretto «abbiamo facoltà di parlare liberamente?» Gli occhi dell’avvoltoio si fermano sulla faccia barbuta del comandante. La testa del Divinatore ciondola avanti e indietro parodiando le movenze del rapace. Rovers interpreta quella pantomima come un assenso e parte come un ariete. «Riteniamo che se il sommo Mego-thot ci darà il suo appoggio, sia giunta l’ora di assaltare Nuova Cadolia.» Con la mano indica il Divinatore di Sciacal, come a cercarne l’assenso. Il grugno di Kiquathu non fa una piega, ma il capitano non desiste. «Ne abbiamo gia parlato con il Divinatore di Radwulf, e Hur-holate ha acconsentito. Il Lupo Potente freme dalla voglia di spazzare via le vesti

bianche.» Mi stupisco di come Rovers si sia impegnato a ricordare tutti quei nomi, che in realtà so benissimo reputi alla stregua di feccia umana. Zothogorh-rth rimane in silenzio. Sapevo che ci sarebbe voluto qualche argomento più convincente per farlo smuovere. Finchè si tratta di aggredire qualche piccolo villaggio, assaltarlo di sorpresa, in superiorità numerica o aggredire degli immacolati nel bel mezzo della foresta, il Dio Avvoltoio non si tira certo indietro… ma assediare l’insediamento principale degli invasori è ben altra cosa, lì c’è da rischiare veramente. Il comandante è a disagio sotto lo sguardo imperturbabile del Divinatore del clan dell’Avvoltoio. L’unico che pare entusiasta della proposta è il guerriero ombra di Bbeor. Peccato che lui non conti nulla… o quasi. Decido di intervenire. «Nobile Zothogorh-rth» mi prostro virtualmente ai suoi piedi «quello che intende dirvi il mio comandante è che l’occasione è ghiotta. Abbiamo studiato un doppio assalto che ci permetterà di conquistare Nuova Cadolia senza che Nulla interferisca.» Un luccichio feroce compare negli occhi cerchiati di nero dell’ometto rinsecchito. Le sue mani grifagne carezzano il collare piumato, mostrando un’insolita impazienza. «Nobile Divinatore, mentre il Clan dell’Orso e del Lupo assalteranno il Tempio a gradoni della Dea, voi, il clan dello Sciacallo e la Centuria stringerete d’assedio la città delle vesti bianche…» Non faccio a tempo a finire che le parole grondanti bramosia di Zothogorh-rth mi interrompono. «L’accordo con Radwulf è già stato preso?» Accenno di sì e mi affretto ad aggiungere: «Non era nostra intenzione mancare

di rispetto a nessuno…» «Non è questo che mi interessa.» specifica l’ometto. «Il Lupo Possente mostra tutto il proprio coraggio.» Ciò che direbbe in realtà è che il lupo mostra tutta la propria stupidità. Lo sappiamo entrambi che la missione di attaccare lo ziggurat della Regina equivale a un suicidio, ma vuole addolcire la pillola per convincere Uborugla a non essere da meno. «E il tuo Clan, Uborugla, è disposto a fare altrettanto? Bboar grida vendetta. Riesci a sentirne le urla?» lo stuzzica approfittando della scomparsa di Pharlork, il Divinatore voce del Dio Orso. Il guerriero orso non ha bisogno di altro. La sua rabbia si riflette in una contrazione dei muscoli di spalle e braccia. Sembrano sul punto di esplodere sotto la scorza dura della sua pelle irsuta. «Il clan dell’Orso è pronto!» tuona senza tentennare. Bravo idiota, penso, ci sei cascato in pieno. Il ghigno di Rovers è altrettanto esplicito. Zothogorh-rth sembra soddisfatto. La sua intelligenza è affilata, il suo Dio scaltro. Dei rumori provengono dalla porticina della casupola. «Lasciami are, mingherlino!» sento la voce di Deifobo giungere dall'esterno. L'unica risposta è un rumore di pietre che stridono fra loro. Già immagino il guerriero ombra Rathars-oth di guardia all'ingresso che sfrega i due coltellacci adunchi, ad artiglio d'avvoltoio che gli ho visto prima legati ai fianchi. In risposta sento anche il frusciare del ferro del Biondo, quando questo estrae il coltello da caccia. Chiedo permesso ai presenti di andare loro incontro, prima che quei balordi si scannino a vicenda.

«D'accordo, che diavolo succede?» urlo cercando di attirare la loro attenzione ancor prima di aprire la porticina. Il guerriero ombra lancia un'occhiata all'interno, per controllare eventuali contrordini del Divinatore. L'esperto delle polveri è agitato. «Savio ha visto il Traghettatore…» Basta questo a farmi scattare all'interno della tenda. Alle mie spalle sento Rathars-oth vaneggiare qualcosa del tipo che gli avvoltoi non temono i corvi, ma non vi presto attenzione. Rientro nella casupola, ma pare che abbiano sentito anche loro, visto che sono già tutti in piedi. «Nobile Zothogorh-rth» taglia corto Rovers «è ora di andare. Quei bastardi saranno qui a momenti. Quando la luna sarà scomparsa agiremo. Ci troveremo ai margini di Nuova Cadolia e schiacceremo una volta per tutte gli invasori!» Lo sguardo furbesco del Divinatore brilla a quelle parole. Io spero solo che mantengano la parola data. Anche Kiquathu fissa il suo pari con intensità, quasi a voler leggere qualche possibile ripensamento da parte dell'uomo. Infine si convince. Almeno lui si fida, speriamo abbia ragione.

XXXVI. Torre Bianca – Ammonimenti

«Devi stare attento alle tue frequentazioni, Araldo.» La voce del Bianco era calma, ma ugualmente lo fece sobbalzare. Il Custode aveva la capacità di coglierlo ogni volta di sorpresa. Questa volta il Reietto gli aveva facilitato il compito, poiché la sua concentrazione era totalmente imbrigliata dalle vicende del Nuovo Quarto. Mantenere lo sguardo su quelle lande oscurate da forze la cui origine non riusciva ancora a decifrare, gli costava uno sforzo enorme. Non era in grado di reggere a lungo l'esile contatto che lo legava al Santo. Utilizzare quell'artefatto bizzarro, benedetto e trasportato in giro da quel personaggio pittoresco, ma dai poteri inequivocabili, era stata una bella trovata. Forse l’unica in grado di far esplorare al Reietto quella parte del mondo di Alenna. Eppure il dispendio di energie per riuscire in quell’impresa si era rivelato ben superiore a quanto avesse preventivato. Era così costretto a riposi forzati, che gli imponevano di seguire la vicenda a spezzoni, con il rischio di perdere eventi rilevanti. Il Bianco si schiarì la voce con un leggero colpo di tosse vedendo che l'attenzione dell'Araldo tendeva a divagare. «So della tua amichetta Karima.» Il Reietto non ne dubitava, ma non riteneva di aver commesso errori particolarmente gravi. «La Dea dell'Amore ha mostrato interesse per il Mondo di Alenna. Solo questo ci lega.» si giustificò.

«Non lo metto in dubbio» rispose pacato il Custode «purtuttavia bisogna prestare grande attenzione… cosa che non si può certo dire stia facendo il mio antagonista. I suoi servi si stanno dando un gran da fare su quel Mondo e temo che presto ci saranno pericolose conseguenze.» L'Araldo sapeva che il Bianco si riferiva all'operato del Traghettatore dei Mondi. «Il Nero sostiene che quel corvaccio sia una creatura indipendente, non un suo emissario.» La maschera smaltata di bianco del Custode volse le vuote cavità oculari sullo sciamano. Lo fissò a lungo, soppesando la possibilità di fornirgli ulteriori conoscenze. «So bene come si muovono gli emissari del mio antagonista. Indipendenti? No, Araldo, sono solo pavide creature che si limitano a scimmiottare l'opera degli Dei. Usano le anime per costruire Templi nella realtà non-ordinaria e per i loro interventi miracolosi nei Mondi. Sono quattro demoni che hanno avuto la forza di sottrarsi all’eterna agonia. Capaci di scalare le irte pareti del Tartaro, la loro prigione millenaria, di sfuggire alla veglia eterna di Ivorea. E una volta liberi cosa fanno? Niente di meglio che portare sconforto nei Mondi e scompiglio fra le Deità. Certo, noi non sappiamo di preciso ciò che avviene nei Regni degli Antichi, in quella che voi uomini vi ostinate a chiamare realtà non-ordinaria, ma possiamo intuirlo grazie all'opera dei mortali che vi hanno accesso. La tua mossa di usare il Santo come tramite per scandagliare ciò che gli Dei ci avevano celato nel Nuovo Quarto del Mondo di Alenna è stata un’altra intuizione fenomenale.» Il Reietto si sentì gratificato pur non comprendendo appieno gran parte di quel discorso. Se avesse potuto prendere degli appunti, non avrebbe rischiato di dimenticarsi le mille domande che gli frullavano nella testa. «È il Traghettatore quindi a gettare la nebbia che avvolge il Nuovo Quarto e che pare impedire l'accesso persino allo sguardo onnisciente degli Dei?» Il Bianco rimase a lungo in silenzio. «I corvi che svolazzano verso la Torre Nera sono creature indecifrabili. I loro poteri altrettanto. Tuttavia non credo sia in grado da solo di gabbare gli sguardi

di tutti gli Antichi… nonché i nostri a ben vedere.» «Potrebbe essere Nulla ad aiutarlo in quest'impresa?» azzardò l'Araldo. «Certamente. Con il suo aiuto, l'impresa potrebbe risultare per loro fattibile. La Dea è un vertice della Triade, i suoi poteri sono immensi e capaci di equivalere quelli del Padre degli Antichi. Ma ciò che dobbiamo domandarci è qual è l'origine di tale collaborazione? Qual è il loro scopo?» Un'illuminazione inquietante colse il Reietto. Amori distorti… le parole di Karima pigolarono per un istante nella mente del Reietto che non riuscì ad afferrarle, distratto dal monologo del suo Maestro e condotto su un altro sentiero. «A questo punto vorrei capire come possa il Nero lasciare che il Traghettatore metta a repentaglio l'esistenza stessa delle Torri. Mi avete sempre ammonito dal non intervenire esplicitamente nei Mondi per non attrarre attenzioni, ma a quanto pare quella creatura sta decisamente esagerando.» Le mani del Bianco si mossero in modo impercettibile, invitandolo alla calma. «Il Traghettatore dei Mondi è un entità subdola e dall’intelligenza in continua espansione. Ha scoperto come usare le anime degli animali come fonte di miracoli, se così vogliamo chiamare quelli che sono gli interventi di chi serve le Torri. Questo gli ha permesso fino ad oggi di non destare sospetto agli occhi degli Antichi. Nessuna ruberia di anime umane, di materiale nobile, che avrebbe immediatamente messo in allarme gli Dei… eppure questa via si è rivelata ugualmente pericolosa.» Anime mortali come materiale per alimentare la forgia dei miracoli? Spiriti di defunti sviliti a ciocchi di legna per far divampare il desiderio di grandezza degli Dei? L'Araldo era scosso da tale rivelazione e si domandò se anche i suoi interventi fossero costati delle anime. Non bastasse questo, pareva che grazie al Traghettatore le anime umane potessero essere sostituite da quelle animali… forse era un bene a rifletterci attentamente.

Il Bianco non gliene diede il tempo, dando per scontato che i concetti espressi pocanzi gli fossero già ben chiari. «Gli animali hanno reagito e le loro essenze unite hanno partorito i Nuovi Dei come spirito di conservazione e sopravvivenza di tutti loro. L'istinto li ha guidati verso esiti imprevedibili. Il Traghettatore questo non se lo aspettava di certo e la nascita delle nuove Divinità ha naturalmente attirato l'attenzione degli Antichi nonostante la nebbia, oltre ad aver in parte rovinato i piani di quella creatura spregevole. Si profila un periodo turbolento, Reietto. La cortina di fumo che aleggia sul Nuovo Quarto sta per essere spazzata via e ciò che si parerà innanzi allo sguardo indagatore degli Antichi non piacerà loro. Meno che meno all'equilibratore Ulnar. Il Mondo di Alenna verrà squassato da forze incontenibili…» All'Araldo l'idea dava i brividi e il Bianco se ne rese conto. «… a meno che noi si riesca a comprendere le finalità che muovono il Traghettatore dei Mondi e la Regina Nulla.» «L'emissario del Nero vuole l'estinzione dei Mondi» riflettè ad alta voce il Reietto «e Nulla ha già dato prova di non avere particolari simpatie per i suoi figli storpi.» «Mai generalizzare quando si parla di Deità!» lo riprese il Bianco con veemenza. «La Regina Nulla, la Madre, alterna i propri atteggiamenti in modo inquietante. Affronta ogni Mondo con usi diversi, come se la sua personalità si fosse centuplicata. Usa il tuo intuito per sbrogliare la situazione, Araldo. Scova le costanti. Usa i tuoi contatti, ma fallo il più in fretta che puoi, senza mai eccedere nella generosità delle tue informazioni. Mantieni una posizione di vantaggio, lasciati una via di fuga sempre disponibile. Per quanto una Dea possa vantarsi di essere la patrona dell'Amore o della Pace, ricorda che prima di tutto viene il suo interesse… o il suo diletto.» Il Reietto non lo avrebbe dimenticato. Nella guerra permanente che vedeva gli uomini vessati, spesso a loro insaputa, dalle divinità cui loro stessi tributavano onori e invocazioni, lui non aveva alcun dubbio sulla parte con cui schierarsi. Sapeva che il Custode aveva sempre millantato neutralità, ma iniziava a

comprendere che l'asetticità di quella creatura fosse solo dovuta alla cautela. D'altronde, se era vero che il suo oppositore, il Custode Nero, avesse il fine di liberare i Mondi dalla presenza degli uomini, l'essere innanzi a lui doveva giocoforza averne a cuore la persistenza. «Farò del mio meglio, Custode, anche se pare che la scomparsa della Dea della Pace, sia di per sé una profezia di tempi di guerra…» «Lena? È scomparsa?» La domanda del Bianco lo colse di sprovvista. Forse il Custode non aveva i poteri illimitati che lui gli attribuiva. «Sì, per questo Karima mi ha contattato. È preoccupata per sua sorella…» Il Bianco incassò quella novità con un movimento impercettibile della testa. Il Reietto era certo che se sotto la maschera candida ci fosse stato un volto umano, le sue labbra ora sarebbero state distorte in una smorfia. «Questo è un fattore molto importante. Il culto della Dea della Pace sul Mondo di Alenna sta incrementando i propri assensi in modo notevole, non trovi? Questo vorrà pur dire qualcosa…» Il momento di difficoltà del Custode era già scomparso, lasciando il Reietto alle prese con quest’altra domanda enigmatica. In realtà aveva già intravisto il legame esistente, ma non ne comprendeva appieno gli estremi: la Dea era scomparsa, ma il suo culto prosperava. «Dovrò ragionarci su, Bianco, e non appena avrò raggiunto un qualche risultato spero di avere il vostro conforto.» «Certamente» rispose questo sbrigativo, ma cambiando immediatamente argomento. «Ancora una cosa. Quando si ha a che fare a lungo con un Mondo, con i protagonisti che spendono le loro esistenze per preservarlo e combattere per quello che pare essere il bene comune, il rischio di affezionarsi è molto alto…»

Il Reietto scosse la testa ad indicare che non era soggetto a tali puerili turbamenti. «Ugualmente, Araldo, ti chiedo di rinunciare alla tua natura e di superare ogni sentimentalismo. Questa è l’unica via per divenire un Custode dei Mondi.» Detto questo il Bianco si incamminò su per la scalinata della Torre, lasciando l’Araldo col dubbio se effettivamente quella fosse la strada che desiderava percorrere.

XXXVII. Nuovo Quarto – Guerra fra Dei

Un gruppo di vesti bianche ci ha raggiunto. Sono uomini dai volti emaciati, indossano palandrane candide, strette in vita da spaghi, e sono armati con semplici lance. Nulla che possa spaventarci, invero. Saltano fuori dalla selva salmodiando con voci effemminate. A spronarli vedo un paio di Cavalieri della Concordia. Potrebbero essercene degli altri, e posso solo sperare che a guidarli non ci sia quella cagna di Nulla. Allora sì che sarebbe grave! Tha-ho è il primo a fermarsi ad affrontarli, parandosi a difesa di Kiquathu. Il guerriero ombra del Divinatore mulina con rabbia le lame d'ossidiana, sfregiando un uomo poco sopra il ginocchio. Il rubino del sangue imbratta all'istante la tunica dell'immacolato che con rabbia contrattacca, interrompendo bruscamente il cantico e spazzando via ogni sentore della presunta fede nella Pace di Lena. Zothogorh-rth deve averceli messi alle calcagna, pur di salvare il proprio clan. Sono certo che il gruppo che ha assalito il campo del clan dell'Avvoltoio non si è diviso, sono tutti corsi appresso a noi. Strano… Già mi immagino il Divinatore ordinare ai suoi di simulare tracce dietro di noi, per poi sparire nella foresta, mentre gli inseguitori proseguivano ritrovando le nostre. Le urla degli scontri mi riportano alla dura realtà. Dobbiamo combattere. Rovers abbatte un uomo che brandiva una lancia in modo scoordinato. La spada del capitano gli apre un solco fra collo e spalla. Le urla del poveretto si mescolano al trambusto circostante, mentre il sangue sprizza a imbrattare il fogliame. Insetti avidi ci si tuffano all’istante.

Altri aggressori spuntano dalle frasche. Sono in molti. Il bianco ossessivo delle loro vesti risalta in modo insopportabile sul verde cupo dell'ammasso di vegetazione. Mi scaglio su un Cavaliere della Concordia che sta insidiando Elyn. Le nostre lame cozzano in una serie di affondi e parate, senza risultato. La donna è pallida come uno straccio. Si muove a scatti, cercando di evitare ogni possibile nemico. Stringe un pugnale, a due mani, in modo ridicolo, brandendolo con affondi che fendono solo aria e dovrebbero spaventare i possibili aggressori. È indifesa. Al suo fianco c'è Shoggul con il bastone proteso. Spero che riesca a tenere lontani i nemici quel tanto che basta. Il Santo giace inerme ai suoi piedi. Non ci sarà certo d’aiuto. Siqquara e ReCorvo invece difendono strenuamente la barella di Zitara. L'assassina rischia di ritrovarsi catapultata nella realtà non-ordinaria senza neppure accorgersene. Potrebbe essere una fortuna, a ben vedere. Arrivano anche gli ometti con la fascia bianca in testa. Gli indigeni che affiancano le vesti bianche spuntano dalla selva come esseri da incubo. I loro volti sono distorti da un'ira senza senso. Morte e il Templare ne abbattono due, rapidamente. «Dobbiamo fuggire! Diversivo, diversivo!» ordina Rovers sovrastando il clangore delle armi. Normalmente spetterebbe a Deifobo. Un dardo duwan è spesso la miglior soluzione per creare il caos e approfittarne, ma ora siamo in uno spazio intasato di palme e banani e i nemici ci sono addosso. Il rischio sarebbe troppo elevato. Allora è il Senzalingua a cedere il posto in prima linea al Biondo che ripone la

balestra a favore della spada e lo copre ingaggiando un ometto con bandana bianca e bava alla bocca. Non ci vuole molto. Una nebbiolina scaturisce dalle fiamme verdi tatuate sul collo di Morte. Le lingue di fuoco prendono vita sulla pelle candida, agitandosi al pari delle fiamme degli inferi. Vomitano un fumo denso, grigio chiaro: filamenti soffici e letali. Li vedo serpeggiare al suolo, accarezzare l'erba e procedere, senzienti, verso i nemici più vicini. «Indietro!» tuona Rovers, a ricordare a improbabili smemorati gli effetti mortali di quella malia. La nebbia si inerpica sulle tozze gambe dei primi indigeni e ne avvolge le carni stoppose in un abbraccio morboso. Pochi istanti dopo questi sono al suolo, a dibattersi fra convulsioni e urla lancinanti. Si arpionano le membra, fino a scavarsi solchi nella pelle con le unghie purulente. I loro alleati rimangono impietriti innanzi a quello spettacolo raccapricciante. Suppliche, pianti e preghiere hanno breve durata, sostituiti da grida inarticolate cariche di sofferenza. Morte muove lentamente le mani nell'aria. Sul volto ha dipinto un ghigno estatico mentre glifi fluorescenti si dipingono nel vuoto. «Forza, scappiamo!» ripete il comandante, ma non tutti sembrano disposti ad ascoltarlo. Siqquara, la guerriera di Abuc, è inamovibile. Per nulla al mondo lascerà la propria amata. Lo capisco subito e mi avvicino alla lettiga. In quell'istante Zitara apre gli occhi in un ultimo virgulto di energie. Si guarda attorno, vede la sua amante, i nemici, cerca di capire cosa stia succedendo, il raziocinio che combatte orgoglioso contro la malattia e la stanchezza. Intravedo in quegli occhi stremati un barlume di comprensione.

Infine ha capito. «È finita.» le dico con dolcezza ponendole un pugnale in mano. Le dita fredde della donna tremano per un istante sull'impugnatura. «Libera Siqquara, te ne prego.» La donna barbaro ha appena piantato l'ascia nel torace di un immacolato e non si avvede della scena. Quando si volta è troppo tardi, l'assassina ha usato le proprie arti per l'ultima volta, su se stessa. Siqquara lancia un urlo carico di rabbia. Per un istante l'avanzata dei nostri nemici cessa, non a causa della nebbia di Morte, ma per il furore insito nel grido di un amore infranto con violenza. L’immacolato più vicino alla donna negra indietreggia ma non fa a tempo ad evitarne l'affondo. La rabbia pervade Siqquara integralmente e per la prima volta la vedo mutarsi in sciacallo. Il dono-condanna concessole da Sciacal è abominevole. I muscoli possenti della negra si sfilacciano mentre lei si ingobbisce per poi accucciarsi a quattro zampe. Pelo irsuto e maculato le cresce su tutto il corpo, mentre il volto dai lineamenti grossolani e ben poco femminili, si allunga. Le sue urla mutano in latrati, naso camuso e bocca si fondono per dare vita al grugno canino di uno sciacallo. Uno sciacallo femmina, dominante. Non le serve tempo per ambientarsi nella nuova forma. Si scaglia contro l'uomo appena abbattuto e gli pianta i canini nel collo, a fondo. Del sangue scuro sprizza dall'aorta del malcapitato, imbrattandole muso e pelliccia. Con la lingua Siqquara assaporta il nettare prelibato. Sono sbalordito e per poco quella distrazione mi costa un braccio.

La lancia di un immacolato mi colpisce lo spallaccio, facendomi quasi ruotare sul posto per il contraccolpo. Il rumore metallico della punta che si infrange sull’armatura copre il mio grido. Fortunatamente il metallo ha retto. Mi riprendo e spazzo con la spada alla cieca. Ho fortuna e trovo il costato del mio aggressore, abbattendolo. Con il piede libero l'arma e muovo alcuni i indietro. Dobbiamo andarcene. In fretta. Morte sta dando spettacolo, mentre Deifobo lo incita in modo grottesco, godendo appieno della sofferenza dei nostri nemici. La nebbia che contiene i peggiori incubi degli aggressori, si propaga di uomo in uomo, come onde concentriche in uno stagno. I Demoni nascono dalle menti degli uomini, è solito dire il Maestro d'Ossa e pare che anche gli indigeni, per quanto primitivi possano essere, abbiano i loro. Indietreggiano, terrorizzati. Lo sciacallo Siqquara si getta al loro solitario inseguimento. Rovers ci ordina di correre nella direzione opposta, e così facciamo, lasciando sul campo un altro membro della Centuria e perdendone uno in preda a follia belluina. Posso solo sperare che l'intelletto della donna di Abuc torni ad avere il sopravvento su quello dell'animale, restituendoci Siqquara. Prendo per il braccio Elyn senza tante cerimonie, e assieme corriamo dietro a Rovers. Dopo un attimo di indecisione anche ReCorvo pare convincersi che la mutaforma non tornerà e ci segue scuotendo il testone con rabbia.

Solo ora me ne rendo conto. Sopra le nostre teste, fra le chiome vertiginose degli alberi di questa dannata foresta pluviale, imperversa uno scontro divino. È lo sguardo assente di Kiquathu a farmelo notare, oltre i rombi di tuono che prima avevo confuso con il clangore della battaglia. Tha-ho sorregge il Divinatore di peso e lo trascina, mentre la mente di questo ha abbandonato le spoglie terrene. Quello che avevo scambiato per l’ennesimo ammasso di nubi temporalesche pronto a riversarci addosso fiumi di pioggia, è Sciacal, che si scontra con la Regina Nulla. Almeno questo è quello che credo stia avvenendo… «L'ho sempre detto, Yorik, che la tua sensibilità è notevole.» mi dice Shoggul sorridendo. Anche lui sta osservando la scena, tenendo sollevato sopra la testa il Santo quasi fosse un pargoletto cui far assistere a una rappresentazione di saltimbanchi. Una sagoma oscura, vaporosa, ha coperto il sole e fissandola attentamente si possono scorgere i lineamenti del volto di una donna. Una donna furente le cui grida sono strali dalla potenza maestosa. Sfreccia nella volta celeste, a inseguire le movenze folli del Dio Sciacallo. È evidente che questo non abbia nessuna intenzione di accettare uno scontro diretto. È più furbo del suo compare Bboar e non vuole certo fare la stessa fine dell’immaturo Dio Orso. Sciacal vuole solo aiutarci a guadagnare tempo. Ora anche l'attenzione degli altri membri della Centuria è calamitata da ciò che avviene oltre l'intreccio delle chiome arboree. Il frastuono è assordante, un miscuglio di latrati e tuoni e rulli di mille tamburi.

Le entità compaiono per un istante per poi venir celate nuovamente dall'ammasso di vegetali. «Dannazione che fate? Non avete mai visto delle nuvole nere?» sbotta Deifobo incitandoci a fuggire. Il poveretto non ha idea di quello che sta avvenendo sopra la sua testa, però ha ragione. «Forza, andiamocene! Approfittiamo di quanto concessoci da Sciacal!» urlo ai compagni, attratti in modo irreversibile da quello spettacolo sovrannaturale. Dobbiamo seminare gli inseguitori, senza far capir loro quello che sarà il nostro prossimo obbiettivo. Sono certi di essere loro i cacciatori, ma i nostri piani sono ben altri. Pur essendo Nuova Cadolia a est, ci dirigiamo a sud, inoltrandoci nella selva sempre più fitta. Avanziamo in silenzio, chi perché troppo stanco, chi troppo sconvolto. Nessuno ha voglia di parlare, men che meno il capitano: ha perso in un sol colpo Zitara, e forse anche Siqquara. Come farà ora a giustificare il nome della nostra compagnia? Quanto rimpiango quella maledetta battuta che Rovers era solito tirar fuori ogni qualvolta qualcuno chiedeva come mai ci fimo chiamare Centuria, se in realtà eravamo solo in dieci? “Perché ognuno di noi vale per dieci” era solito dire. Ho sentito il capitano ripetere quelle medesime parole, con relativo sorriso istrione in volto, almeno un migliaio di volte, fino ad averne la nausea. Ora non l’avrei più sentita, e la cosa mi pesa dannatamente. Fëanor Minatur, Zitara, Siqquara. Chi lo avrebbe mai detto che accettare l’incarico di quel Duca che pareva

l’immagine della nobiltà cavalleresca fatta persona, ci sarebbe costato così tanto? Chi sarà il prossimo? Posso solo sperare non tocchi a Elyn… I boati degli Dei alle nostre spalle si stanno affievolendo e dei nemici in carne ed ossa fortunatamente non c’è traccia. Forse siamo riusciti a far perdere loro le tracce. Annunciato da un lezzo di putredine, il suolo sotto i nostri piedi muta pian piano in acquitrino. La melma che prima ci arrivava alle caviglie, sale fin a lambire prima le ginocchia, poi fin sopra la cintola. È una fortuna. I nostri inseguitori non avranno tracce da seguire e presto potremo ripiegare verso est, verso lo scontro decisivo: l’assedio a Nuova Cadolia e per noi la conquista del mezzo di trasporto verso casa: le navi di cristallo.

Fine Libro I

Ringraziamenti & commiato

Non è il mio primo romanzo, ma l’emozione di giungere alla fine è sempre la stessa. Certo, siamo solo al I° volume ma credo che il materiale a vostra disposizione sia sufficiente per farvi decidere se ne sia valsa la pena e soprattutto se sarete fra quelli che vorranno leggere “Il Traghettatore dei Mondi”, il II° Libro della Saga di Alenna.

Vi prego, non fatemi mancare i vostri parei, saranno il miglior sprone per conquistare il tempo necessario allo scrivere.

Ormai dovreste sapere come contattarmi, ma a costo di ripetermi vi fornisco la mia mail: [email protected]

Ed ora, i ringraziamenti.

Doverosi, sia per chi mi ha dato la forza di proseguire nel progetto InfinitiMondi, ossia tutti quelli che hanno letto e votato il “Mondo Uno”, sia per chi mi ha aiutato a portare a termine questo primo capitolo del “Mondo Due”.

Su tutti sco, con la sua opera impareggiabile di caccia allo strafalcione. La prossima bevuta, sarà in tuo onore!

E infine, sca, senza la quale sareste costretti a leggere i miei scritti su tavolette d’argilla.

Grazie e alla prossima!

Andrea

Note Biografiche

Andrea Zanotti é nato a Bolzano l’11 Maggio del 1977.

Nel 1997 ha conseguito il diploma di maturità presso il Liceo Scientifico E.Torricelli di Bolzano.

Nel gennaio del 2002 ha completato gli studi presso la Libera Università degli Studi di Trento conseguendo la laurea in economia e commercio, indirizzo aziendale, con la tesi dal titolo “Ruolo della pubblicità nel Marketing dei prodotti agro-alimentari”.

Nell’aprile del 2002 ha iniziato a collaborare presso uno studio di Dottori Commercialisti in Bolzano.

Dal settembre del 2005 lavora all’ufficio Studi, ricerche e tariffe, presso un’azienda operante nel mercato dell’energia elettrica.

Apionato lettore, amante di wargames, giochi di società e di universi fantasy. Inizia a scrivere avventure per sessioni di giochi di ruolo e per gestire un gioco play-by-mail ambientato nell’universo fantasy delle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di George R.R. Martin.

Nel 2012 fonda in sito scrittorindipendenti.com al fine di promuovere gli autori indie meritevoli e desiderosi di percorrere la via dell’autopubblicazione in modo

professionale.

Nel febbraio del 2012 pubblica “Forze Ancestrali”, primo volume di una trilogia fantasy “Mondo Uno”.

Nel giugno del 2012 pubblica “Mondi in divenire”, raccolta di racconti che spaziano dal weird fantasy al western alternativo.

Nel dicembre 2012 pubblica “La Regina Nulla”, secondo volume della trilogia fantasy “Mondo Uno”.

Nel luglio del 2013 pubblica “I Pretoriani Bianchi”, volume conclusivo del “Mondo Uno”.

Nel dicembre del 2014 pubblica “Il Nuovo Quarto”, primo volume del “Mondo Due”.

Nel frattempo i seguenti suoi racconti vengono pubblicati a seguito di altrettanti concorsi:

"Il Traghettatore dei Mondi", racconto weird fantasy, vince il concorso Weird World bandito dal sito Writer's Dream;

“L'Appeso>”, racconto weird western, si qualifica per la pubblicazione al concorso “Plesio e Pinna” indetto dalla Plesio Editore;

“Rebel Yell", racconto weird western, si classifica per la pubblicazione al concorso Storie Fantastiche dell’associazione culturale “The game’s rebels”.

“Fuoco!", racconto weird western, viene pubblicato dalla rivista on-line Sotrie Bizzarre.

NOTE: luoghi, persone, istituzioni e divinità

La Centuria

Rovers, capitano di ventura

Elyn, studiosa e curatrice

ReCorvo, guerriero colossale dell’Isola di Abuc

Shoggul, il Maestro d’Ossa

Zitara, assassina e scout

Deifobo, il Biondo, esperto delle polveri duwan

Morte, ex Domatore di Demoni, il Senzalingua

Siqquara, guerriera selvaggia dell’Isola di Abuc

Fëanor Miratur, esploratore e scout

Yorik, l’io narrante, lo stratega, abile in tutto e in nulla, consigliere di Rovers

Cuore dei Quarti – Fortezza di Askeen

I quattro Guardiani:

Keter, giovane Aeromante

Malet, Rabdomastro

Binah la Piromante

Hokmah, anziano Geomastro

Allurian, Comandante della Guarnigione dell’Acqua

Innala, Cortina d’Acqua

Ser Hellar, Comandante della Guarnigione della Terra

Letio, Capotribù della Guarnigione dell’Aria

Quarto dell’Acqua

Regno governato dall’Isola Palazzo da Re Induard Saleon VIII, suddiviso in isole.

Roiyo, Generale del Regno – Uomo del Re

Isola Feudo di Roskeim – Capitale Rosk

Governata dal Duca Savio Palwen, Candido Templare di Lena, committente della Centuria.

Generale Enoc, Comandante dell’Isola Feudo in assenza del Duca e Cavaliere della Concordia di Lena.

Firion, Maggiore e ufficiale dell’esercito dell’Isola Feudo

Dinkon, Tenente al seguito di Enoc

Tilmon, Tenente al seguito di Firion

Polina, Rabdomante al seguito di Firion

Isola Baronia di Massenz – Capitale Masz

Colonnello Liutana – comandante della Brigata di Roskeim

Isola Baronia di Dibrjs – Capitale Dibj

Siniscalco Antaleo, governatore dell’Isola

Colonnello Ramelon – Uomo del Re

Isola Scudo di Therna – Capitale Thera

Isola dichiaratasi indipendente e sotto il controllo degli immacolati, seguaci di Lena. A Thera ha posto la sua sede Anila, la Sorella di Lena responsabile del Quarto dell’Acqua.

Quarto dell’Aria

Regno governato da Bairo il Grande, capo di tutte le Tribù dell’Aria.

Karut, capotribù delle Serpi Volanti

Ardcil, capotribù delle Iguane d’Aria

Marwan, guerriera e assassina delle Serpi Volanti

Duko, arciere delle Serpi Volanti

Sabewu, seguace di Marwan

Quarto della Terra

Regno montuoso governato da Re Dotrik

Lord Blumen, detto il Sarto, inviato a pacificare Zatalta

Nuovo Quarto

Coloni, fedeli di Lena

Patriarca della Chiesa di Lena

Agape, Sorella di Lena per il Nuovo Quarto

Seguaci di Nulla

I mezzuomini al soldo degli invasori. Portano una fascia bianca in testa e sono disposti a schiavizzare i loro simili più deboli.

Clan Ribelli fedeli agli Ultimi Nati

Clan dello Sciacallo

Sciacal, Dio (Ultimo nato)

Kiquathu, Divinatore di Sciacal

Tha-ho, Guerriero Ombra, protettore di Kiquathu

Clan del Lupo

Radwulf Lupo Potente, Dio (Ultimo nato)

Hur-holate, Divinatore di Radwulf

Dhortha, Guerriero Ombra, protettore di Hur-holate

Clan dell’Orso

Bboar Signore della Forza, Dio (Ultimo nato)

Pharlokr, Divinatore di Bboar

Uborugla, Guerriero Ombra, protettore di Pharlokr

Clan dell’Avvoltoio

Mego-thot il Furbo, Dio (Ultimo nato)

Zothogorh-rth, Divinatore di Mego.thot

Rathars-oth, Guerriero Ombra, protettore di Zothogorh-rth

Gerarchie degli elementi e scuole elementali:

Scuola di Invocazione: forgia Geomastri, Aeromastri, Piromastri e Rabdomastri. Si basa sul presupposto della collaborazione fra gli elementi e chi richiede il loro intervento attraverso un’invocazione.

Scuola di Evocazione: forgia Geomanti, Aeromanti, Piromanti e Rabdomanti. Si basa sul presupposto che gli elementi vadano domati e dominati attraverso evocazioni costrittive.

Terra

Sommo elementale della Terra

Giganti di Pietra

Foresta di Pilastri

Golem di Roccia

Tartaruga di sabbia

Aria

Sommo elementale dell’Aria

Genio

Zefiro

Sodale del Vento

Falene Vaporose

Acqua

Sommo elementale dell’Acqua

Cortina d’Acqua

Burrascoso

Ondine e Fatine dell’Acqua

Fuoco

Sommo elementale del Fuoco

Barghul

Forgia di Fiamma

Stecco di Torcia

Candele parlanti

Seguaci della Dea della Pace Lena:

Qilana la Pura, autoproclamatasi la Figlia di Lena

Duca Savio Palwen, Candido Templare di Lena

Enoch, Cavaliere della Concordia

Le Torri

Presso la Torre Bianca

Il Custode Bianco

Il Reietto, l’Araldo del Bianco, ex sciamano dei Corvi delal Sabbia

Presso la Torre Nera

Il Custode Nero

Il Traghettatore dei Mondi

GLI ANTICHI

Ulnar, Re e Padre degli Dei Antichi, Signore del Tuono

Gluk e Gork, divinità bicefala, signora rispettivamente delle Acque dolci e salate

Moloch/Astor, dio della Guerra

Lena, sorella di Astor, dea della pace

Karima, dea dell’amore

Ohlmet, dio della sapienza

Ghizo, il tracciatore di sentieri, il fato, la sorte, fortuna o sfortuna…

Ivorea, la Guardiana degli Accessi e dei Livelli, divinità acefala che presiede il Tartaro.

Antichi di seconda generazione:

Morte

Sofferenza

SEMIDEI/Entità sovrannaturali

Isyl Astronascente, Mago, detto lo Sterminatore di Mondi;

Il Traghettatore dei Mondi, entità indipendente.

Indice

Il Nuovo Quarto

Nota dell’autore.

Prologo – Le origini dei Quarti

I. Quarto dell’Acqua - Il Traghettatore dei Mondi

II. Nuovo Quarto – Il clan dello Sciacallo

III. Cuore dei Quarti - La Fortezza di Askeen

IV. Nuovo Quarto – Gli indigeni

V. Cuore dei Quarti – Assedio ad Askeen

VI. Quarto dell’Acqua – Isola Feudo di Roskeim

VII. Nuovo Quarto – Giungla

VIII. Le Torri – I Custodi dei Mondi

IX. Nuovo Quarto – I Nuovi Dei

X. Realtà non-ordinaria – La Dea dell’Amore

XI. Nuovo Quarto – Cava delle Teste Mozzate

XII. Cuore dei Quarti – Conclave

XIII. Quarto dell’Acqua – Isola Scudo di Dibrjs

XIV. Nuovo Quarto – Nuovi ordini

XV. Quarto dell’Aria – Irregolari

XVI. Quarto dell’Aria – Qilana, la Figlia di Lena

XVII. Nuovo Quarto – Agape, la Sorella di Lena

XVIII. Quarto dell’Aria – Polina in fin di vita

XIX. Nuovo Quarto – Il Patriarca e il Tempio

XX. Quarto dell’Aria – Alla guida delle Serpi Volanti

XXI. Nuovo Quarto – Preparativi

XXII. Cuore dei Quarti - Missiva a Re Dotrik

XXIII. Nuovo Quarto – Alla miniera

XXIV. Nuovo Quarto – Bboar il Possente

XXV. Quarto dell’Aria – Qilana la Figlia di Lena

XXVI. Nuovo Quarto - Rivelazioni

XXVII. Nuovo Quarto – Serpe Nera e Serpe Bianca

XXVIII. Quarto dell’Aria - Solo un arrivederci

XXIX. Nuovo Quarto – Al campo del Clan dello Sciacallo

XXX. Quarto dell’Acqua – Come belve

XXXI. Nuovo Quarto – Confini violati

XXXII. Quarto dell’Aria – Notizie da Roskeim

XXXIII. Nuovo Quarto – Riflessioni e guerra

XXXIV. A Cavallo dei Quarti - Ritirata

XXXV. Nuovo Quarto – Mego-thot

XXXVI. Torre Bianca – Ammonimenti

XXXVII. Nuovo Quarto – Guerra fra Dei

Ringraziamenti & commiato

Note Biografiche

NOTE: luoghi, persone, istituzioni e divinità

La Centuria

Cuore dei Quarti – Fortezza di Askeen I quattro Guardiani:

Quarto dell’Acqua Isola Feudo di Roskeim – Capitale Rosk

Isola Baronia di Massenz – Capitale Masz

Isola Baronia di Dibrjs – Capitale Dibj

Isola Scudo di Therna – Capitale Thera

Quarto dell’Aria

Quarto della Terra

Nuovo Quarto Coloni, fedeli di Lena

Clan del Lupo

Clan dell’Orso

Clan dell’Avvoltoio

Terra

Aria

Acqua

Fuoco Seguaci della Dea della Pace Lena:

Le Torri

Presso la Torre Bianca Presso la Torre Nera

GLI ANTICHI

SEMIDEI/Entità sovrannaturali

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