Rosario Casillo IL CEPPO BRUCIA ANCORA
Copyright: Rosario Casillo Foto di copertina: I genitori dell’autore Realizzazione eBook: Digitalismi.it
PREFAZIONE Queste pagine ci offrono una piacevole lettura che penetra dritta nel cuore e soltanto chi ha vissuto in questo determinato periodo storico può apprezzarla, capirla e può lasciarsi trasportare dai ricordi di quelle che sono state le basi della nostra vita. Forse una vita che ha preteso molto da noi, ma ci ha fatto crescere, maturare ed apprezzare quei valori che ci hanno fatto divenire “adulti”. È la storia di un bambino che si fa ragazzo, poi uomo e si apre ai sussulti della vita, ai primi palpiti di amicizia e d’amore. È uno scritto intimo, coraggioso, apionato, misurato e vitale. È la storia di una famiglia nel periodo post-bellico alle prese con le difficoltà di quel momento. Il tutto si inserisce in uno scenario interessante: il vecchio borgo offeso dalle distruzioni della guerra. Per mano al nonno il bambino percorre le stradine del borgo, gli antichi ruderi, la campagna circostante. Si affacciano improvvisamente personaggi caratteristici che impreziosiscono il racconto mentre la vita frenetica di ogni giorno ed i momenti di aggregazione tra i giovani si fanno sempre più accattivanti. Senza accorgersene i personaggi ci catapultano in una trasformazione lenta ma determinata di una società che da un’economia tipica di un paese rurale a ad un’economia artigianale e, piano piano, industriale. Ed ecco che lo scenario del vecchio borgo si trasforma e le vecchie botteghe perdono la funzione che le caratterizzava ed il centro storico si spopola dei vecchi residenti. Mentre il paese cambia aspetto cambiano anche le abitudini ed emergono le problematiche irrisolte causate dallo sviluppo tumultuoso. Si presentano nuovi equilibri politici ai quali il protagonista si lega sempre di più. Gli avvenimenti del mondo intero ti fanno apparire il tutto come galvanizzato da
un destino inesorabile che tutto ribalta e provoca squilibrio soprattutto tra i giovani. È vero, fuori dalla casa del borgo, ci sono cambiamenti repentini che portano spesso disagi, drammi e tempeste, ma la forza del sentimento che lega i vari componenti della famiglia è superiore a tutto. È la storia, infatti, di una famiglia che parla d’amore, di speranza, di momenti commoventi e molto teneri. Si intrecciano sogni e ricordi in uno stile lieve e apionato. L’acuta sensibilità del protagonista rendono questo racconto molto affascinante. Il tutto è velato da una tenera malinconia che penetra nel cuore e raggiunge il culmine nelle poesie dedicate ai genitori che mettono a nudo l’amore, l’affetto e la riconoscenza di Luigi verso la sua famiglia. Marisa Fanciullacci Centi
INTRODUZIONE Cimentarsi nella scrittura di una storia che ci riguarda da vicino è un esercizio indubbiamente difficile. Lo è ancora di più quando chi scrive è consapevole di essere percepito come una persona che nella vita si è dedicato quasi esclusivamente al suo lavoro di microbiologo e all’attività politica. In questa storia ho cercato di raccontare un tratto del mio vissuto e della mia famiglia all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Nella successione degli eventi si descrivono spaccati di vita vissuta calati in uno scenario che è quello del mio paese: il vecchio borgo. E’ una storia che avrei voluto raccontare da tempo per descrivere le sensazioni che prima da bambino, poi da adolescente e infine da adulto hanno accompagnato la mia esistenza. Quelle narrate in questo libro sono vicende realmente vissute e chiedo fin da ora scusa a tutte le persone che in un modo o nell’altro ho involontariamente coinvolto. L’intenzione era quella di rendere omaggio soprattutto al mio paese e alle tante trasformazioni che ha subìto nel corso degli anni. Il vecchio borgo è cambiato in modo radicale, e tuttavia nel racconto i ricordi non cercano mai di sovrapporsi ad un’analisi obiettiva che è giusto fare. Gran parte delle vicende raccontate in questa storia mi hanno visto partecipe in prima persona; ma come si può constatare, i fatti sono soltanto accennati. Quello che mi preme sottolineare è l’amore incondizionato dei miei genitori nei miei confronti, e nei confronti di tutti i miei fratelli. Raffaele e Maria sono i nomi di fantasia che ho attribuito a mio padre e mia madre quasi per un segno di deferenza che non verrà mai meno. Sono stati loro, con l’esempio quotidiano, a farci sentire una famiglia; a far capire, a me e ai miei fratelli, quanto sia importante anche di fronte alle avversità della vita, essere una famiglia. Sono stati mia moglie e i miei figli che mi hanno spinto a raccontare fatti ed
episodi che tenevo conservati nella mia memoria e che non pensavo di rendere pubblici. A loro va il mio ringraziamento più sentito. Rosario Casillo
I Capitolo Era una sera di novembre, e come ormai accadeva da giorni, il cielo rovesciava sulle vecchie case una pioggia insistente, che non faceva altro che peggiorare le condizioni di chi viveva in quei palazzi segnati dal tempo, in parte fatiscenti, che costituivano la maggioranza degli edifici dell’antico borgo. La guerra era ata da pochi anni e la maggior parte delle famiglie cercava con fatica di procurarsi una situazione abitativa decente. Le case erano per lo più vecchi edifici che presentavano ancora i segni delle battaglie che si erano combattute sulle rive dell’Arno. In molte di esse i tetti erano danneggiati, e quando la pioggia scendeva incalzante per chi vi abitava era un continuo indaffararsi a posizionare recipienti per raccogliere l’acqua che penetrava dappertutto. La vita dei residenti nel centro storico, in tempo di pioggia, era veramente problematica. Anche la casa dove abitava Luigi era in uno di questi vecchi edifici, e il calore che si propagava da una stufa a legna, situata nella grande cucina, non era mai sufficiente a riscaldare gli ambienti pregni di umidità. Il babbo di Luigi faceva il muratore, e nel poco tempo libero a disposizione dopo l’orario di lavoro, era solito recarsi nel vicino bosco di Montefalcone per raccogliere ceppi e vecchi rami secchi. Questi erano ottimi per alimentare la vecchia cucina economica che, durante l’inverno, era sempre in funzione per rendere gli ambienti dove viveva con la famiglia più confortevoli. Come tante altre volte il babbo di Luigi era andato in bosco con la sua vecchia bicicletta, per raccogliere legna e pigne da ardere. A casa tutti stavano in pensiero, perché a buio ormai inoltrato, non lo vedevano ritornare. A quel tempo la via Usciana, che portava verso il bosco, era sterrata e piena di buche che con la pioggia diventavano pozzanghere, dove era facile cadere con conseguenze anche pericolose per l’incolumità di chi la percorreva. Finalmente Luigi, che nell’attesa si era seduto sugli scalini ad aspettare, scorse il babbo attraverso la nebbia che calava lentamente.
Ai suoi occhi, la figura che si avvicinava, assomigliava ad una delle creature fantastiche che ritrovava nelle storie dei fumetti, presi in prestito da qualche amico o compagno di classe. Raffaele, questo era il nome del babbo, giunto davanti alla porta d’ingresso della casa fermò la bicicletta e fece scendere la grossa balla piena di legna, che per tutto il tragitto aveva sistemato sulla canna. Con un gesto chiese a Luigi di sorvegliare la bicicletta mentre lui, caricatosi il sacco sulle spalle, cominciò a salire i 48 scalini che lo avrebbero portato su al secondo piano, dove lo aspettavano la moglie e gli altri due figli. Tutte le volte che lo vedeva ritornare dal bosco con quel pesante sacco pieno di ceppi, Luigi si riprometteva che, un giorno, quando sarebbe stato più grande, avrebbe fatto di tutto per aiutare il suo povero babbo. Raffaele, pur di poter dare maggior sostegno ai propri familiari, non si tirava mai indietro quando c’era del lavoro da fare. Quando il babbo ebbe sistemato anche la vecchia bici, prese per mano Luigi, e insieme salirono le scale buie e interminabili che li riportavano in casa. A quel punto Luigi e gli altri fratelli svuotarono il sacco nella vecchia soffitta, e distesero la legna ad asciugare; tutta umida com’era, non sarebbe stata adatta per essere bruciata nella “cucina economica”. I “ceppi” più bagnati furono sistemati davanti alla stufa perché asciugassero in fretta; all’occorrenza sarebbero stati pronti per essere bruciati senza problemi, per scaldare un po’ le stanze. Man mano che l’autunno avanzava, le giornate piovose lasciavano il o al freddo che incalzava sempre di più, rendendo le notti sempre più rigide nella casa di Luigi. Raffaele non sapeva più cosa fare per rendere le due stanze meno fredde, e i suoi viaggi in bosco per fare legna divenivano sempre più frequenti. La mamma, alla sera prima di coricarsi, preparava con cura dei bracieri, dove metteva del fuoco che toglieva dalla stufa, e lo ricopriva con la cenere perché si mantenesse il più a lungo possibile, durante la notte. Nonostante tutto, però, faceva troppo freddo; si decise allora di spostare un letto nel locale che fungeva da cucina, per sistemarlo accanto alla stufa, e farci dormire i figli piccoli.
Il Natale si avvicinava, e il babbo aveva promesso a Luigi che quando sarebbe ritornato in bosco per fare la legna lo avrebbe portato con sé, per fargli cogliere la borraccina necessaria per il presepe. Luigi non stava più nella pelle, e quando la domenica il babbo lo svegliò per andare in bosco, non ebbe un attimo di esitazione; saltò giù dal letto dove era rannicchiato con i suoi fratelli, e in un attimo fu pronto. Raffaele, che era un bravo padre, ma di poche ed essenziali parole, sistemò il ragazzo sulla canna della bicicletta, ed insieme si avviarono verso Montefalcone. A Luigi non sembrava ancora vero di essere lì con il suo babbo che pedalava tranquillo verso la collina, barcamenandosi in quella strada dalla ghiaia insufficiente e piena di pozzanghere per le piogge dei giorni precedenti. Giunti alla Costa Impietrata (così si chiamava la strada sterrata che portava su fino al bosco) scesero di bicicletta, e proseguirono a piedi; fino a che non giunsero in prossimità del Gocciolino, una vecchia fonte alla quale si recavano tutti, per bere un po’ di acqua “buona” e fare un po’ di scorta da portare a casa. A quel tempo non c’era ancora l’acquedotto e, per bere, non ci si fidava dell’acqua che sgorgava dalle fontanelle che erano situate nelle piazzette del paese. Specialmente la domenica mattina c’erano molti paesani che andavano in bosco a fare rifornimento per tutta la settimana. Molti avevano dei mezzi di trasporto più adatti; ma Raffaele, che non difettava certo d’ingegno, aveva sistemato sulla sua vecchia bicicletta un o di legno con una cassetta, nella quale avrebbe sistemato le bottiglie di acqua presa al Gocciolino. Scesi dalla bicicletta Luigi e il babbo riempirono alcune bottiglie da due litri, le sistemarono nella cassetta, e quindi s’inoltrarono nel bosco per fare un po’ di legna, e la tanto desiderata borraccina, che era necessaria al ragazzo per fare la capannuccia. Raccolte la legna e la borraccina, ritornarono alla fonte del Gocciolino, dove avevano lasciato la bicicletta; sistemarono tutto alla perfezione perché non cadesse, e s’inoltrarono per la discesa per arrivare a casa il più presto possibile. Luigi sentiva il vento freddo che gli lambiva la faccia, ma grazie ai guanti di lana che gli aveva fatto la sua mamma, non soffriva più di tanto; e poi pensava al
buon piatto di minestra coi fagioli che avrebbe trovato una volta arrivato a casa. Dopo aver sistemato la legna e la borraccina ad asciugare nella soffitta, si misero a mangiare nella grande cucina, al centro della quale era sistemata una tavola col piano di marmo, dove la mamma aveva apparecchiato per il pranzo. Dopo aver mangiato, il babbo andò nello stanzino che fungeva da ripostiglio e ritornò con due caprette (i di legno a forma piramidale), che sarebbero servite da o alla vecchia porta in disuso, scelta per l’occasione come piano per il presepe. Finalmente fu realizzato il presepe, che a prima vista sembrava ben riuscito; soprattutto la mangiatoia, che era stata costruita con i ceppi più grandi, che il babbo e Luigi avevano raccolto nel bosco assieme alla borraccina. La borraccina fu sistemata con cura e, con del ghiaino bianco preso alla cementizia (fabbrica di mattonelle un po’ fuori dal vecchio borgo), si realizzarono i vialetti dove, da ultimo, sarebbero state sistemate le statuette dei vari personaggi. Quell’anno il presepe era un po’ più ricco degli altri anni perché, per la prima volta, c’erano anche delle statuette di marmo che il fratello maggiore di Luigi aveva comprato da Argene (era un negozio di pizzi e merletti gestito da due anziane sorelle che in prossimità del Natale vendevano anche le statuette più preziose di marmo anziché di gesso). Sulla grande tavola di marmo fu realizzato anche un albero di Natale con un ramo di pino che il babbo aveva preso in bosco durante uno dei suoi frequenti viaggi. Quando tutto fu terminato Luigi prese i quaderni di scuola e si mise a fare i compiti; come sempre dovette sobbarcarsi anche quelli del fratello più grande che, da quello che dava a capire, non era minimamente entusiasta della scuola. Le giornate si susseguivano tutte uguali e finalmente arrivò la vigilia di Natale; il giorno che tutti i bambini attendevano con ansia, perché avrebbero potuto scartare i doni che i genitori e i nonni gli avrebbero fatto trovare sotto l’albero. In realtà Luigi non si aspettava grandi doni perché la sua famiglia era molto povera; ma come sempre quelle poche cose trovate sotto l’albero lo avrebbero
riempito di gioia e reso felice. Quell’anno poi ci fu anche una bella sorpresa, che rese felice tutta la famiglia: dalle basi americane presenti in Europa, era pervenuto a tutti i prigionieri di guerra come Raffaele un pacco dono di Natale, con un’infinità di prodotti che sarebbero tornati utili per quei tempi, dove i soldi in circolazione erano veramente molto pochi. Fu in occasione di quel Natale che Luigi vide per la prima volta il latte in polvere, contenuto nel pacco inviato dagli americani. Anche quel Natale ò, e le giornate che seguirono trascorsero scandite dai soliti impegni: la scuola al mattino, il doposcuola al C.I.F. (Centro Italiano Femminile), nei locali sopra la chiesa della Compagnia al pomeriggio, e infine qualche uscita nella piazzetta con i compagni di scuola.
II Capitolo Raffaele aveva fatto la guerra arruolato nella REGIA MARINA e nel 1943, dopo l’abbordaggio della nave sulla quale era imbarcato, era stato fatto prigioniero dai tedeschi, che lo avevano portato con sé durante la ritirata verso il Nord Italia. Verificato che era un bravo cuoco, i tedeschi lo avevano destinato alla gestione, insieme ad altri prigionieri, della cucina del loro quartier generale. Il babbo amava raccontare ai piccoli, che lo stavano ad ascoltare estasiati, le fasi concitate della notte in cui, in compagnia di altri prigionieri, era riuscito a fuggire dal quartier generale, approntato a villa Berti, lungo la strada che collegava il vecchio borgo con S. Maria a Monte. Con gli altri compagni di prigionia si era dileguato nella campagna circostante e, in un primo tempo, non avendo trovato miglior nascondiglio, si era mimetizzato all’interno di un covone di grano, che i contadini avevano lasciato nel campo dopo la mietitura. La fuga era stata organizzata in tutta fretta, ed i prigionieri avevano portato con sé solo il necessario. Per rendere più veritiero il racconto di quella evasione rocambolesca, il babbo mostrava con orgoglio la coperta che si era coricato sulle spalle al momento della fuga verso la campagna circostante. Certe volte, durante la narrazione, interveniva la mamma, ricordando quando, ati alcuni giorni dalla fuga, lei con alcune amiche del paese si erano recate in campagna a portare qualcosa da bere e da mangiare a quei poveri ragazzi. Spostandosi da un covone di grano all’altro, nella luce incerta del crepuscolo, portavano un po’ di conforto a quei ragazzi che si erano nascosti all’interno fra le spighe del grano appena tagliato. La caccia ai prigionieri evasi era talmente serrata che Raffaele, per non essere ripreso, chiese ospitalità a una famiglia di contadini che, non avendo di meglio da offrirgli, lo nascosero sotto il piano di cottura del forno, dietro alle fascine di legno. In quel nascondiglio certamente i tedeschi non lo avrebbero trovato. Il babbo ricordava ancora quelle giornate di luglio e il caldo che aveva dovuto sopportare, quando le massaie preparavano il forno e, con la normalità di sempre, per non insospettire i tedeschi, infornavano il pane.
ati alcuni giorni, e constatato che le ricerche dei prigionieri non avevano dato alcun esito, la determinazione dei tedeschi venne meno e, pian piano, anche perché costretti dell’avanzare delle truppe alleate, essi arretrarono verso la collina di Montefalcone. Il babbo e la mamma di Luigi si erano conosciuti in quei tempi contraddistinti dalla paura dei rastrellamenti e dai bombardamenti delle opposte armate, che erano schierate al di qua e al di là dell’Arno. Il fronte durò ancora qualche mese, ma alla fine, nel settembre del quarantaquattro, il vecchio borgo fu liberato, e la vita cominciò di nuovo a scandire i suoi ritmi, nel paese in gran parte devastato dai bombardamenti. I due giovani, con il parere contrario del nonno di Luigi, cominciarono a frequentarsi con continuità, e poco dopo si sposarono nella chiesa del borgo, attorniati dai parenti e dai compagni di prigionia di Raffaele, che dopo la ritirata dei tedeschi potevano circolare in libertà per le strade del paese. Alcuni giorni dopo il matrimonio Raffaele, che era originario della provincia di Napoli, salì su un vecchio treno alla vicina stazione di S. Romano, per andare a far visita all’anziana madre che non vedeva dal giorno in cui si era arruolato. Dopo un viaggio avventuroso, che si era protratto per diversi giorni, attraverso l’Italia sconvolta dalla guerra, giunse a Torre Annunziata, dove scoprì che il padre e tre fratelli erano scomparsi in circostanze drammatiche. Un fratello era disperso sul fronte russo, un altro era morto per le ferite riportate in combattimento, ed il più piccolo era stato fucilato dai tedeschi durante un rastrellamento. Il padre di Raffaele, sconvolto dal dolore, si era ammalato; malauguratamente, anche per l’impossibilità di reperire medicinali adeguati per curarsi, era spirato lasciando nella disperazione la moglie e le altre due figlie. Raffaele si trattenne per un po’ dalla madre per sistemare le faccende di famiglia. Aveva ripreso a lavorare nel pastificio dove era occupato prima della guerra, e questo gli consentì di alleviare un po’ le difficoltà dei nipoti e della anziana madre, che erano rimaste senza alcuna fonte di sostentamento. Dopo alcuni mesi ritornò in Toscana, al vecchio borgo, dove lo attendeva la moglie che era in attesa del primo figlio. All’inizio trovò da lavorare nel pastificio al di là dell’Arno, nei pressi della stazione della vicina S. Romano; ma poi, anche per quella azienda, cominciarono
le ristrutturazioni dell’organico, conseguenza della meccanizzazione di alcune fasi della produzione. A Raffaele non rimase che accettare l’offerta di un’impresa edile, alla ricerca di manodopera da impiegare nella ricostruzione.
III Capitolo La primavera si avvicinava e Luigi, come tutti i ragazzi della sua età, cominciava a vivere sempre di più il paese; molte volte con i suoi amici s’inoltrava nelle case diroccate che ancora offendevano molti isolati dell’antico borgo, e rammentavano a tutti le brutture che la guerra aveva lasciato in eredità. Inoltrarsi in quei ruderi era molto pericoloso e anche la scuola, come tutte le altre istituzioni pubbliche, aveva attivato una campagna d’informazione rivolta soprattutto agli alunni che al di fuori dell’orario scolastico erano certamente i più vulnerabili. Le aule erano tappezzate di manifesti che riproducevano i vari tipi di mine e di oggetti bellici, che tante disgrazie avevano causato, specialmente fra i ragazzi che imprudentemente le avevano maneggiate senza alcuna precauzione. Il babbo di Luigi si raccomandava sempre ai figli, perché immaginava che, quando lui era al lavoro, la mamma avrebbe avuto un bel da fare per accudire tre bambini ancora piccoli e, allo stesso tempo, barcamenarsi tra i mille problemi che una famiglia così numerosa inevitabilmente comportava, anche a causa della scarsità dei mezzi di sostentamento. Tuttavia la curiosità dei ragazzi prevaleva su ogni altra considerazione e, appena se ne presentava l’occasione, essi s’intrufolavano fra quei ruderi pericolanti, alla ricerca di improbabili trofei da esibire poi a coloro che non avevano mostrato il coraggio di cimentarsi in quelle ricerche. Luigi partecipava spesso a queste incursioni fra le macerie, soprattutto quando si trattava di andare a scoprire qualcosa che, prima della guerra, era stato importante per gli abitanti del borgo. Le macerie più interessanti erano il vecchio teatro degli Inaspettati, il complesso della villa dell’Aglietti, e la pescaia con annesso il molino del Callone. Le prime erano situate in posizioni diametralmente opposte del paese, a ridosso delle vecchie mura che delimitavano il castello; il molino del Callone era lungo l’argine dell’Arno. La villa dell’Aglietti era un’imponente costruzione a ridosso del convento dei
Santi Jacopo e Filippo e della chiesa cosiddetta della compagnia; era immersa in un grande parco, ed era circondata da un muro che segnava anche il confine del vecchio borgo nella zona a sud-ovest del paese. Il vecchio teatro era invece ubicato a sud-est; era il rudere dove più spesso Luigi si trovava a fantasticare sulle vicissitudini che avevano caratterizzato quell’edificio. Il suo accesso principale, o meglio ciò che ne restava, era stato tamponato con dei vecchi mattoni: da lì ci si immetteva in un ampio piazzale che, sicuramente in origine, doveva essere stata la platea. Ai lati, appoggiati alle mura perimetrali di destra e di sinistra, si intravedevano ancora i resti dei palchetti che un tempo erano stati segno distintivo delle più importanti famiglie del paese. I proprietari dei palchetti, o meglio i loro antenati, li avevano posseduti fino dai tempi della costruzione del teatro, e se li erano tramandati di generazione in generazione. L’accesso alla villa dell’Aglietti era un po’ più difficoltoso; l’edificio era ubicato in una delle zone più frequentate del borgo che, a partire dal lunedì, giorno del mercato settimanale, era sempre trafficata da persone animali e cose. Scorrazzare fra i ruderi senza essere visti, era praticamente impossibile. Luigi era un ragazzo abbastanza vispo per la sua età, frequentava con profitto la scuola elementare, e ogni volta che poteva cimentarsi con la storia del suo paese, non si tirava mai indietro; s’imbrancava volentieri con gli altri alla ricerca di qualsiasi novità che sarebbe sicuramente emersa da quei ruderi. Al di fuori dell’abitato del vecchio borgo c’era il complesso del Molino del Callone, una costruzione risalente addirittura al periodo dei Medici. L’edificio si trovava in prossimità dell’argine dell’Arno, sulla sua riva destra. In ato, grazie ad un sistema di sbarramenti, costituiva un aggio obbligato per far pagare la gabella agli uomini e alle merci che percorrevano il fiume con le loro barche e i loro battelli. Nei periodi di magra del fiume si poteva camminare ancora sul lastricato in pietra serena, che era tutto ciò che rimaneva dell’antico approdo per i battelli e le barche che navigavano l’Arno. Tutto il complesso mostrava i segni dei bombardamenti dell’ultima guerra, ma quando ci si addentrava nei locali più bassi, nei periodi di magra del fiume, si riusciva a percepire ancora l’importanza che quegli edifici avevano avuto nel
tempo. Luigi avrebbe ato giornate intere a fantasticare in quei luoghi, ma era ancora troppo piccolo ed inesperto per avventurarvisi da solo; le poche volte in cui riusciva a mettere piede al Callone, lo faceva in compagnia del nonno, che era sempre pronto ad assecondare le richieste del nipote. Il nonno era una figura centrale nell’educazione del nipote, e Luigi era consapevole di essere il preferito dei fratelli; tempestava continuamente di domande il nonno, che non vedeva l’ora di mettersi a raccontare scorci di vicende vissute, che lo riportavano indietro nel tempo e lo facevano apparire al ragazzo ancora più importante di quanto non fosse. Il tempo ava e Luigi era sempre più spesso in compagnia del nonno che era quasi cieco, e lo portava con sé ogni volta che andava in campagna, per consegnare ai contadini i vestiti che gli aveva confezionato. Il nonno era un sarto di discreta qualità, e nonostante la diminuzione progressiva della vista, riusciva ancora a soddisfare i suoi clienti. Purtroppo la vista del nonno s’indeboliva sempre di più, e Luigi sempre più spesso doveva accompagnarlo anche per il disbrigo dei servizi più semplici. Il nonno era un buontempone di rara intelligenza, e Luigi avrebbe ato intere giornate con lui, per farsi raccontare le tante vicende che avevano contrassegnato la sua vita avventurosa. Quando era con gli amici, il nonno non disdegnava mai gustare un buon bicchiere di vino, spesso eccedendo, e causando scenate in famiglia e sconcerto nel ragazzo che, come già detto, era il suo nipote preferito. Tutte le volte che si recavano in campagna per le consegne, il nonno faceva tappa da Italia, un emporio-trattoria situato sulla via Usciana, nei pressi della scuola della Marginetta. Da Italia si potevano fare anche delle ottime merende a base di pane, prosciutto e salame, e bere un buon bicchiere di vino. La bottega “da Italia” era la meta obbligata di tutti coloro che si recavano in bosco per fare legna, fare provvista di acqua o cercare funghi. In certi periodi dell’anno i funghi nascevano in grande quantità nei boschi che, per centinaia di ettari, si estendevano sulle colline di Montefalcone.
Anche a Montefalcone c’erano dei ruderi da visitare; ma ciò che incuriosiva di più i ragazzi del paese era la vecchia polveriera dove, al tempo del aggio del fronte, le truppe tedesche in ritirata avevano ammassato tutte le armi e le munizioni in loro possesso. Il tempo ava in fretta e la realtà nella quale stava crescendo Luigi mutava in continuazione; il nonno, dopo una breve malattia, morì, ed il ragazzo che si era abituato a are tanto tempo con lui, rimase improvvisamente senza un importante punto di riferimento. Spesso Luigi andava indietro con i ricordi e si rivedeva insieme al nonno che si faceva la barba con un rasoio ben affilato, eredità del padre barbiere; immergeva sicuro il pennello in una piccola ciotola con dentro alcuni pezzetti di sapone, e dopo essersi insaponato la faccia procedeva con la rasatura. Luigi lo guardava preoccupato ed incuriosito allo stesso tempo, ma il nonno nonostante vedesse quasi niente, ne usciva brillantemente senza procurarsi neanche un piccolo taglio. Altre volte il ragazzo si rivedeva insieme al nonno, quando stavano ad ascoltare con attenzione i programmi della radio, o quando doveva leggergli le ultime notizie sul quotidiano La Nazione. Anche il contesto sociale del vecchio borgo andava mutando in fretta; cominciavano le grandi immigrazioni dai paesi del sud Italia e dalle campagne più interne della Toscana. Il paese cominciava ad espandersi al di fuori delle mura che per secoli ne avevano delimitato i confini, e anche le prime fabbriche cominciavano ad insediarsi, prima nel centro storico e poi nell’immediata periferia. Tutto stava cambiando in maniera repentina attorno a Luigi, e anche la famiglia era cresciuta di numero con la nascita di una sorellina. A quei tempi i bambini, se non c’erano controindicazioni di natura medica, nascevano in casa e Luigi ricordava con commozione il giorno della nascita della sorella. Era una bella giornata d’inizio ottobre, e la mattina in casa c’era un grande andirivieni di donne, che assecondavano la balia, per far si che tutto andasse per il meglio. La situazione non era certo l’ideale per un bambino ancora piccolo e digiuno dei
misteri della vita. La casa non aveva spazi adeguati per impedire a Luigi di assistere all’evento; si doveva trovare il modo di portarlo in giro da qualche parte. Fu così che il nonno venne chiamato, perché portasse il ragazzo a fare una eggiata in campagna, lontano da ciò che stava succedendo in casa. Come sempre il nonno riuscì a distrarre il ragazzo e a fargli capire l’importanza dell’avvenimento, senza che s’insinuasse nei suoi pensieri nemmeno l’ombra della più piccola gelosia. Il nonno lo aveva rassicurato; in tema di affetto, il ragazzo avrebbe conservato intatta la sua centralità. Fortunatamente il parto avvenne senza complicazioni e tutti si congratularono con la balia e le donne che avevano assistito. Nella casa si poteva festeggiare un evento lieto, che avrebbe ridato la gioia alla mamma ed al babbo. Un paio di anni prima Luigi aveva perso il fratello più piccolo per un attacco di meningite fulminante; quella nascita avrebbe riportato certamente un po’ di serenità nella famiglia provata da quella terribile esperienza.
IV Capitolo Dina era una donna bassa e tarchiata, ma nel complesso il suo aspetto era rassicurante, anche se, quando Luigi la incrociava, non sapeva mai se lei lo guardava negli occhi per sgridarlo o per fargli un complimento. Viveva anche lei, con la sua famiglia, nello stesso edificio dove viveva la famiglia di Luigi. Il palazzo era ubicato nel vecchio borgo, sul corso principale, e in ato era stato residenza di una delle famiglie più importanti del paese; ora, dopo la guerra, era divenuto proprietà dello Stato, e vi avevano trovato posto la Casa del Popolo al primo piano, e alcune abitazioni al secondo piano. Alcune stanze riflettevano ancora lo sfarzo di un tempo andato, e le pareti ed i soffitti erano dipinti con colori e decorazioni che davano ai locali un che di austero, che contrastava con l’aspetto decadente dell’intero palazzo. L’appartamento, se così si potevano considerare le due stanze dove abitava la famiglia di Luigi, era il primo situato alla fine della rampa di scale con così tanti scalini che, quando si saliva sembrava non finissero mai; gli altri appartamenti si affacciavano ai due lati di un lungo corridoio che terminava con una porta dalla quale si accedeva ad una grande soffitta-colombaia, dove abitava una famiglia che aveva una particolarità: i nomi dei figli della coppia che risiedeva in quell’appartamento cominciavano tutti con la stessa lettera dell’alfabeto. Tante volte Luigi aveva cercato di spiegarsi il motivo di questa particolarità, ma non era mai riuscito a soddisfare la sua curiosità. Dina era più anziana della mamma di Luigi e, quando i suoi figli ormai adulti ed il marito erano al lavoro, non disdegnava di are un po’ di tempo con i piccoli birboni, come chiamava in tono affettuoso i tre fratellini, o con la mamma, per insegnarle alcune ricette succulente da preparare con le poche materie prime a disposizione. Sfortunatamente per i piccoli birboni, Dina era anche quella che praticava le iniezioni quando i bambini erano malati, e questo la faceva apparire sotto una luce non proprio amichevole. Di solito a settembre, verso la fine delle vacanze estive, venivano a are
qualche giorno in campagna, la figlia di Dina con il marito e la piccola Luisa, che ben presto divenne l’amica del cuore di Luigi. Luisa abitava a Milano, aveva un paio d’anni più di Luigi, ma la sua magrezza e la sua altezza la facevano sembrare anche più grande di quanto in realtà non fosse. Luigi non si staccava mai da lei e avrebbe ato delle ore a sentirla raccontare, con la sua cadenza milanese, fatti e vicende che sembravano appartenere ad un mondo lontano mille miglia dalla vita semplice, e per certi versi genuina, che ancora si conduceva nell’antico borgo. Il sodalizio con Luisa andò avanti per alcuni anni e segnò anche i primi turbamenti di Luigi bambino; s’interruppe però quasi bruscamente quando alla famiglia di Dina fu assegnato un alloggio popolare che, di fatto, sancì l’impossibilità per i due ragazzi di frequentarsi e giocare insieme come avevano fatto fino ad allora. Da quel momento Luigi cominciò a frequentare sempre di più i compagni di scuola e gli amici di sempre, e a vivere di nuovo il vecchio borgo che, negli ultimi tempi, per stare con Luisa, aveva sicuramente trascurato. La casa dove abitava Luigi era composta da due stanzoni e un ripostiglio, e faceva parte di un edificio molto grande, che si dipartiva dalla piazza del mercato, occupava per un buon tratto il corso principale del paese, e delimitava il lato destro della strada. Attraverso un portone imponente si accedeva ai piani superiori dell’edificio. La strada terminava in fondo ad una piazzetta dove, nel muro che circondava il complesso del convento e della chiesa della Compagnia, era ancora ben visibile la buca provocata da un proiettile di mortaio caduto durante la guerra. In quella piazzetta, che aveva al centro una fontanella pubblica dove si attingeva l’acqua per le necessità delle famiglie, risiedevano i nonni di Luigi; essa costituiva per il ragazzo un luogo familiare dove trascorreva gran parte del proprio tempo libero. Il desiderio di varcare lo squarcio aperto nel muro, per raggiungere i ruderi che erano al suo interno, aveva preso molte volte Luigi e i suoi amici, ma l’altezza dello squarcio da terra aveva sempre consigliato i ragazzi a rinunciare. Nella piazzetta c’era l’abitazione, con annesso ambulatorio, del medico
condotto. Quando qualcuno dei ragazzi cercava di avventurarsi verso quel varco, per superarlo e raggiungere gli edifici al di là del muro, c’era sempre qualche paziente, nella sala di attesa dell’ambulatorio, che cominciava a gridare e a minacciare di chiamare le guardie. Le strade del paese erano in continuo fermento dalla mattina alla sera, e la vita vi si svolgeva tranquilla, contrassegnata dai ritmi che, ormai da sempre, scandivano il susseguirsi delle stagioni e degli anni. Nella strada dove abitava Luigi c’era la bottega di Giulio, il fabbro, che batteva continuamente sull’incudine i ferri roventi prelevati dalla forgia, causando uno scintillìo di fuochi e di faville che si sprigionavano dai carboni ardenti. Poco più avanti c’era la mescita di vino di Beppe; in certi momenti l’odore penetrante del vino, che si vendeva anche sfuso, si propagava inebriante per tutto il vicinato. Di fronte alla casa di Luigi abitava Ida con la sua famiglia. La donna intrecciava i vimini con particolare maestria, ed era capace di realizzare anche una decina di cestini al giorno. Il lunedì mattina, giorno di mercato, molti avventori raggiungevano il borgo, anche dai paesi vicini, per acquistare prodotti a buon mercato o per vendere i prodotti della campagna. Al mercato, che era uno dei più importanti della zona, si vendevano anche animali da cortile e le massaie facevano a gara per aggiudicarsi gli esemplari più belli. In quei giorni di mercato non era difficile trovare da Beppe, il vinaio, anche il nonno di Luigi con i soliti tre o quattro amici che, dopo aver acquistato un pezzo di formaggio e qualche aringa ai banchi dei generi alimentari, andavano ad annaffiarlo con del buon vino appena spillato dalle botti. Era frequente, alla fine del mercato, trovare qualche persona anziana che si aggirava per la piazza alla ricerca di qualche scarto che gli ambulanti, alla fine delle vendite, avevano lasciato accantonato ordinatamente in disparte. Erano sicuri che qualcuno lo avrebbe raccolto, per portarselo a casa. L’economia era quella tipica di un paese rurale e anche le botteghe, che si trovavano numerose per le vie del borgo, erano a corredo delle esigenze di una popolazione che difficilmente riusciva a mettere insieme il pranzo con la cena.
La guerra, finita ormai da qualche anno, aveva procurato ingenti danni ad un abitato che pian piano stava curando le ferite inferte alle case, in gran parte rovinate, e che necessitavano di interventi anche importanti. Molte famiglie traevano il loro sostentamento dalla pesca che si praticava sull’Arno, dove si potevano trovare pesci di buona qualità come tinche, reine, lucci, cheppie e anguille; o dai prodotti della terra e dagli ortaggi che si vendevano nella piazzetta davanti alla Canonica. Numerosi abitanti del borgo avevano trovato occupazione allo stabilimento della Piaggio di Pontedera, altri nelle concerie della vicina S. Croce Sull’Arno. La conformazione sociale del paese stava cambiando, e anche le vecchie usanze lasciavano il posto alle novità di cui si sentiva parlare alla radio o si leggeva sui giornali. Anche a scuola, la società che stava cambiando, si poteva riconoscere dall’abbigliamento dei ragazzi che provenivano da famiglie appartenenti al nuovo ceto medio che, pian piano, stava prendendo forma all’interno della popolazione del vecchio borgo. Le prime fabbriche, di tipo artigianale, cominciavano ad insediarsi anche all’interno del centro storico, e la routine quotidiana, che si era perpetuata per decenni, veniva fortemente modificata dalle abitudini di una nuova classe che andava velocemente costituendosi. Gli abitanti del vecchio borgo non erano più interamente dipendenti dalla mutevolezza del clima, che determinava lo svolgersi del lavoro nella campagna circostante o lungo il corso dell’Arno; e il tempo libero a disposizione di coloro che avevano trovato lavoro nelle fabbriche costituiva una novità che in qualche modo andava governata. A quel tempo, nel vecchio centro storico, esistevano solo alcune piccole aziende; alcune fabbricavano cestini di vimini, le altre erano botteghe artigiane di fabbro o falegname e un negozio di ferramenta che vendeva soprattutto utensili per il lavoro della terra. C’erano anche alcune officine, per la riparazione delle biciclette e delle prime moto, che si sentivano circolare scoppiettando nelle anguste strade del paese. Non era raro a quel tempo trovare, a ridosso dei portoni delle vecchie case, o
all’interno dei magazzini situati al piano terra, donne intente a realizzare cestini intrecciando vimini su una base di legno, o ad impagliare sedie e fiaschi con il salicchio, che si poteva cogliere facilmente lungo l’Usciana. Nel vecchio borgo c’erano alcune segherie artigiane che producevano fondi di legno chiamati, nel lessico volgare, “culi di damigiana”. Era un mestiere che aveva progressivamente soppiantato l’attività d’impagliatori di sedie, che per decenni era stata una delle occupazioni dei paesani che non si rassegnavano al lavoro dei campi o alla pratica della pesca come professione. Anche la famiglia che abitava nella soffitta-colombaia vicino all’abitazione di Luigi, tramandava di generazione in generazione i segreti dell’impagliatura delle sedie; e l’abilità con la quale praticava questo mestiere era conosciuta anche nei paesi vicini, dai quali provenivano molti clienti. La lavorazione delle sedie era talmente diffusa che per molti anni gli abitanti del borgo erano stati soprannominati, con intento neanche troppo velatamente dispregiativo, “seggiolai”. Ma l’inventiva e l’amore per il lavoro, come è noto, vince ogni pregiudizio e, nel giro di pochi anni, l’industria si insediò nel vecchio borgo fino a farlo diventare uno dei più importanti centri per la produzione delle calzature. I seggiolai erano diventati dei provetti produttori di scarpe; anche in virtù del fatto che le materie prime si potevano reperire e acquistare con facilità, nelle concerie di S. Croce e Ponte a Egola.
V Capitolo La vita del borgo offriva ai ragazzi diverse occasioni per stare insieme, socializzare e dedicarsi ai atempi preferiti. C’era chi preferiva le eggiate in campagna o lungo le rive dell’Arno, alla ricerca di qualche residuato bellico non pericoloso, come un elmetto o una baionetta che spesso si ritrovavano mezzi interrati e ormai corrosi dalla ruggine in quanto la guerra era ormai cessata da una decina d’anni. Alcuni, dopo aver fatto i compiti al doposcuola, si trattenevano a giocare a pingpong o a calcio balilla; altri, più numerosi, andavano al campo sportivo situato accanto alle scuole elementari, fuori delle mura che racchiudevano l’asilo Umberto I e la chiesa di S. Matteo. Le partite si protraevano fino a sera inoltrata, e molto spesso si vedevano mamme che venivano, con fare minaccioso, a riprendersi i figli e a riportarli a casa a suon di scappellotti e qualche minaccia di punizione anche severa. Prima della guerra il paese era salito alla ribalta delle cronache sportive, perché poteva vantare una buona squadra di giovani che giocavano al “gioco del bracciale”; un gioco molto difficile, simile al tennis, che richiedeva abilità e prestanza fisica. Non essendoci nel borgo uno spazio idoneo (sferisterio), le partite si disputavano nella piazza del mercato, con grande richiamo di spettatori anche dai paesi vicini. Nel gioco del calcio invece la squadra locale se la poteva giocare alla pari con le squadre degli altri paesi, e i derby con S. Croce, Fucecchio e S. Romano, erano l’occasione per riempire di spettatori il vecchio campo sportivo. Molti ragazzi non avevano i soldi per comprarsi il biglietto d’ingresso per assistere a queste partite, che per loro avevano un sapore epico; ma in qualche modo, o per la benevolenza degli addetti alla biglietteria, o perché si arrangiavano arrampicandosi sulle vecchie mura diroccate che circondavano il campo, quasi tutti riuscivano a godersi lo spettacolo. Luigi da questo punto di vista poteva ritenersi un privilegiato. Lo zio, fratello della mamma, era un corrispondente per le cronache sportive di un quotidiano
locale; e come tale aveva libero accesso alle partite, e portava spesso il nipote con sé. Altre occasioni importanti per stare insieme, si offrivano ai ragazzi del paese, quando si effettuavano le prove delle recite, che ogni anno si tenevano nel teatrino delle suore. Il borgo aveva una grande tradizione teatrale, che risaliva addirittura al milleseicento. Nel settecento, in continuità con questa tradizione, alcuni giovani, appartenenti alle famiglie più importanti del paese, avevano dato vita ad una filodrammatica denominata “Accademia degli inaspettati”. Gli improvvisati attori avevano cominciato a mettere in scena commedie anche importanti degli autori più famosi a quel tempo. All’inizio, gli spettacoli si rappresentavano in un locale della comunità, che fungeva anche da magazzino per il ricovero del grano; ma in seguito gli accademici, consapevoli dell’importanza della loro associazione, e in virtù del fatto che non mancavano certo di fonti di finanziamento, decisero di tassarsi per costruire un locale più idoneo, e ad uso quasi esclusivo per le loro recite. Il teatro degli Inaspettati prese vita alla metà del 1800 e, attraverso varie vicissitudini, costituì per gli abitanti del paese un luogo di ritrovo e di svago, fino agli anni fra la prima e la Seconda Guerra Mondiale. Era un teatro piccolo con una platea e una doppia fila di palchi e poteva contenere fino a 300 spettatori. Poi, con l’avvento del cinema, il teatro andò in disuso e i bombardamenti, che si protrassero per tanti mesi durante il aggio del fronte, non lo risparmiarono, distruggendolo quasi completamente. Dell’antico teatro, che era stato per decenni il vanto dell’antico borgo al cospetto dei paesi vicini, non rimanevano che quattro pareti annerite dai bombardamenti e la bella volta seriamente danneggiata. La tradizione teatrale tuttavia non era venuta meno, e le recite che si tenevano sotto Natale, per l’epifania o a carnevale, dove si consumava il rito della rottura della Pentolaccia, trovavano accoglienza, come detto, nel piccolo teatrino delle suore all’interno del vecchio convento di San Matteo. Ma anche questo piccolo spazio, intorno agli anni Sessanta, fu riacquisito dall’Amministrazione Comunale per insediarvi la scuola media statale.
Il borgo rimase così, dopo tre secoli, privo di spazi dove, nel tempo, la gioventù aveva avuto modo di divertirsi, socializzare, e radunarsi quando si erano dovute prendere decisioni importanti per tutta la comunità. Anche il cinema, che era ubicato all’interno del centro storico, si trasferì al di fuori delle vecchie mura, dove fu costruito ex-novo. Era una struttura che, per quei tempi, non aveva niente da invidiare ai cinema di Empoli o di Pontedera. In paese si diceva addirittura, con un pizzico di orgoglio suffragato dai fatti, che avesse un sonoro difficilmente riscontrabile negli altri cinema delle zone vicine. Inoltre il nuovo cinema aveva a corredo anche un’arena all’aperto, dove d’estate si poteva assistere, corroborati dall’aria fresca della sera, a proiezioni che incontravano sempre l’interesse del pubblico. Ma la storia, come insegna Giambattista Vico, è fatta di corsi e di ricorsi; e anche il cinema, con l’avvento delle televisioni commerciali, dovette cedere il o, e il vecchio borgo rimase sprovvisto di cinema e teatro. I piccoli paesi non erano come le grandi città, dove esistevano strutture o teatri in cui si potevano tenere rappresentazioni di ogni tipo, promuovere rassegne, cimentarsi con concerti di grandi orchestre o di cantanti alla moda. Nel vecchio borgo perdere il teatro, era stato come perdere una parte della sua storia.
VI Capitolo Nel vecchio borgo oltre ai atempi comuni a tutti i ragazzi di quella generazione post bellica, c’era un’altra occasione di divertimento molto attesa: la fiera annuale di San Severo. Essa era in calendario ogni anno verso la fine di novembre, e costituiva per gli abitanti del paese e della campagna, un momento di aggregazione e d’incontro. La fiera di San Severo era un evento molto importante per il paese, anche da un punto di vista economico, perché offriva l’occasione di vendere o acquistare anche capi di bestiame da destinare all’allevamento o alla macellazione. Era insomma un evento che associava al divertimento garantito dai saltimbanchi e dalle varie attrazioni che sostavano in paese per qualche giorno, anche la possibilità, per i contadini e gli allevatori, di vendere o scambiare al meglio i frutti del loro lavoro. A Luigi e ai suoi amici ovviamente interessava ben poco della fiera dei grandi; la loro attenzione era concentrata sulle giostre, sull’autoscontro, sulla ruota, e su tutte le attrazioni che erano state approntate per soddisfare la loro curiosità. La fiera si svolgeva quasi esclusivamente sulla piazza del mercato; ma il giorno del fierone le strade principali del paese si riempivano di banchi che vendevano merci e articoli di ogni tipo: dagli attrezzi per la casa, ai giocattoli, ai dolci, agli alimentari che era difficile trovare nelle botteghe locali, fino alle diavolerie più inimmaginabili che i venditori, armati di megafoni, reclamizzavano con enfasi per accaparrarsi l’attenzione dei visitatori. Nel giorno del fierone la gente era talmente numerosa, che a stento e con molta fatica si riusciva a eggiare per le strade. Per Luigi e i suoi fratelli tutta quella gente non rappresentava un problema, perché essi abitavano all’inizio della piazza, e potevano osservare tutto l’andirivieni delle persone e l’attività frenetica delle varie attrazioni dall’alto della finestra della loro camera. Raffaele, conoscendo la curiosità dei tre piccoli, non si dimenticava mai di montare una specie di barriera sul davanzale della finestra che dava sulla piazza sottostante, onde evitare che i bambini, sporgendosi troppo, potessero cadere. Purtroppo anche in tempo di fiera i soldi per i tre fratelli non erano molti, e la
parte del leone la faceva sempre il fratello maggiore. Il furbacchione, con la scusa che gli altri erano troppo piccoli per salire sull’autoscontro o sulle altre diavolerie, finiva con l’esaurire in un lampo tutto il tesoretto che era stato messo in comune nel salvadanaio durante tutto l’anno. I ragazzi del borgo avevano aspettato per tutto l’anno l’arrivo della fiera, ma molto spesso il divertimento tanto sognato si realizzava solo in parte, perché il clima di novembre era inclemente; pioveva molto spesso o spirava un forte vento di tramontana che ostacolava l’attività delle giostre. Molti ragazzi sarebbero stati in piazza dalla mattina alla sera pur di non perdersi un minuto della fiera, e quindi trascuravano anche la scuola e i doveri che essa comportava. Così a Luigi la fiera portava in dono l’incombenza di fare quasi per intero anche i compiti del fratello maggiore. La mamma era consapevole dell’incompatibilità tra il figlio più grande e la scuola, e ogni volta che ritornava a casa, dopo aver parlato con il maestro, si raccomandava perché gli altri figli non seguissero l’esempio del fratello. La fiera di San Severo non era soltanto un momento di svago per gli abitanti del borgo; era anche la ricorrenza del Santo Patrono San Severo Martire, e cadeva il 18 di novembre. La chiesa celebrava la festa del Patrono con funzioni liturgiche solenni che coinvolgevano anche i parroci delle parrocchie dei paesi vicini. Nella settimana della fiera l’urna di vetro e legno dorato, che per tutto l’anno rimaneva deposta sotto l’altare maggiore della collegiata, veniva traslata, e collocata in bella vista ai piedi dell’altare del crocefisso, per l’adorazione dei fedeli. Anche il crocefisso era molto venerato perchè, secondo la leggenda, aveva compiuto miracoli nei secoli ati. La storia della reliquia del Santo Patrono ha un che di avventuroso per il modo in cui aveva raggiunto il vecchio borgo. Severo era un soldato della guardia imperiale romana convertitosi al cristianesimo, e per questo sacrificato, insieme ad altri suoi compagni di fede, durante la persecuzione dell’imperatore Diocleziano. I suoi resti furono prelevati dalle catacombe e, dopo un viaggio durato molti giorni, giunsero al vecchio borgo su un battello che aveva risalito il corso dell’Arno fino alla pescaia, nei pressi del molino del Callone.
VII Capitolo La mamma di Luigi era una donna umile, dai modi sensibili, che spendeva le sue giornate per accudire i figli, cercando di non fargli pesare più di tanto le difficoltà di qualsiasi tipo che la famiglia doveva affrontare ogni giorno. Il salario di Raffaele era appena sufficiente a garantire l’autonomia della famiglia, e spesso i ragazzi vedevano la mamma ritornare a casa con qualche borsa di abiti dismessi dai figli delle amiche di gioventù. Il nonno, finchè era stato in grado di aggiustarli, lo aveva fatto con perizia; e i bambini avevano indossato quegli abiti, come se fossero stati confezionati appositamente per loro. Luigi, che per sensibilità aveva preso sicuramente dalla mamma, indossava quegli abiti con qualche riserva, perchè pensava che i compagni di scuola li potessero riconoscere; ma per non dispiacere alla mamma, li metteva senza fare discussioni, a differenza del fratello maggiore che proprio non ne voleva sapere. Maria era orgogliosa del suo ragazzo che frequentava la scuola con profitto; spesso ne tesseva le lodi quando si ritrovava a parlare con i genitori dei compagni di classe di Luigi. Benché fosse di condizione sociale umile, essa immaginava per Luigi un percorso di studio che premiasse le sue capacità. Ma, quando si trattò di iscrivere il figlio agli esami di ammissione per l’accesso alla frequenza della scuola media, si trovò di fronte ad un ostacolo impossibile da superare. Le lezioni per prepararsi agli esami di ammissione avevano un costo insostenibile per le possibilità economiche della famiglia, e così si decise che la carriera scolastica di Luigi doveva terminare con il conseguimento della licenza elementare. Questo fatto gettò nello sconforto la mamma, che aveva immaginato un percorso scolastico diverso per il figlio; ma d’altra parte a quei tempi la prosecuzione degli studi non era nell’ordine delle cose, ed era riservata solo a coloro che avevano risorse economiche adeguate. Molti compagni di scuola di Luigi non proseguirono negli studi e iniziarono a lavorare come apprendisti nelle fabbriche della nascente industria calzaturiera.
Nonostante le difficoltà che erano evidenti, la mamma non si rassegnò all’idea che il figlio non potesse continuare a studiare. Con l’aiuto di un maestro della scuola elementare riuscì a convincere Raffaele a iscrivere il ragazzo alla scuola di avviamento professionale della vicina S. Croce sull’Arno. Luigi cominciò a frequentare la nuova scuola con profitto, e alla fine dell’anno scolastico riuscì a conseguire la promozione alla classe successiva con degli ottimi voti. Questo gli consentì di aggiudicarsi una borsa di studio, che avrebbe in qualche modo risarcito la famiglia delle spese sostenute per l’acquisto dei libri, della cancelleria e dell’abbonamento per l’autobus che collegava il vecchio borgo con la scuola. Nonostante i buoni risultati del figlio, Raffaele non era molto entusiasta di questa situazione, e non vedeva l’ora che il ciclo dei tre anni di studio finisse, per indirizzare il ragazzo al lavoro in qualche fabbrica, dove avrebbe guadagnato qualche soldino che sarebbe andato ad impinguare le scarse risorse della famiglia. Maria, questo era il nome della mamma, lasciava brontolare il marito perché sapeva che tanto l’avrebbe avuta vinta lei. Era frequente, nelle occasioni in cui si ritrovavano tutti insieme, sentire il nonno o lo zio di Luigi che si intrattenevano con Raffaele, per cercare di fargli capire che sarebbe stato un errore non assecondare le capacità del ragazzo. Quando il ragazzo frequentava la seconda classe della scuola di avviamento, le condizioni economiche della famiglia divennero ancora più precarie; il numero dei figli era aumentato con la nascita di una seconda femminuccia e il babbo, pur lavorando anche dopo l’orario giornaliero, riusciva con sempre maggiori difficoltà a garantire un’esistenza dignitosa alla famiglia. La mamma non lo dava a vedere ai ragazzi, ma ogni giorno doveva inventarsi sempre qualcosa di nuovo, per non fargli pesare più di tanto la situazione di precarietà nella quale si dibatteva la famiglia. Anche l’abitazione era ormai divenuta inadatta per le mutate esigenze di una famiglia con tanti figli piccoli; e il babbo aveva compilato, sotto lo sguardo attento di Luigi che ormai era grandicello, la domanda per l’assegnazione di un alloggio popolare.
A quel tempo erano sempre più frequenti le notti che Luigi ava a casa dei nonni, ubicata nella piazzetta in fondo alla strada, accanto all’abitazione del medico condotto. Lo zio di Luigi si era nel frattempo sposato, e si era trasferito con la moglie in un appartamento situato sulla strada provinciale che collegava il vecchio borgo con il paese di S. Croce. Si era deciso che, stante il buon profitto negli studi, Luigi potesse trovare qualche occupazione per il pomeriggio. Alla fine si convenne che la scelta più idonea sarebbe stata quella di impiegarlo come garzone di barberia dal figlio di un amico di Raffaele. Questa nuova situazione cambiò la vita e le abitudini del ragazzo, che non aveva più molto tempo libero per stare con i compagni di scuola. Solo la domenica pomeriggio e il lunedì, dopo la scuola, Luigi poteva dare libero sfogo alle sue esigenze di ragazzo ormai adolescente. Si ritrovava con i vecchi compagni, con i quali aveva condiviso tante situazioni, e lì per lì sembrava che il tempo si fosse fermato ad aspettarlo. Per fortuna il lavoro di garzone di barberia non era pesante, e nei momenti di pausa c’era molto tempo da poter dedicare alla lettura dei giornali e delle riviste che erano in bottega. Le notizie che trovava sui giornali e le nozioni che apprendeva a scuola, mettevano il ragazzo nella condizione di raffrontare continuamente le vicende del ato con l’attualità del presente; e questo indubbiamente non faceva altro che affinare il suo spirito di osservazione e di critica. Molte volte, quando il salone era affollato, i clienti si accapigliavano in discussioni interminabili di sport o di politica. Luigi, dopo un po’ che era stato in silenzio ad ascoltarli, s’intrometteva nelle discussioni, suscitando il disappunto del principale, che lo pregava di non intromettersi nelle discussioni dei grandi. Per farlo capire meglio gli diceva che era come Bartali, il famoso ciclista, che quando gareggiava entrava in tutte le fughe. Purtroppo in quel periodo il ragazzo perse il nonno, e si può dire che la sua vita cambiò sotto diversi aspetti. Luigi si rese conto all’improvviso che la stagione
dell’infanzia e della spensieratezza si era chiusa per sempre.
VIII Capitolo Nella chiesa del borgo era giunto da poco un nuovo assistente del parroco che, ormai anziano e malato, aveva perso lo smalto e la capacità di attrazione che lo aveva distinto durante tutta la sua esperienza pastorale. Il giovane sacerdote sapeva coinvolgere i ragazzi che incominciarono a frequentare i locali ricavati in uno stanzone sopra la sagrestia della chiesa collegiata. Non c’erano grandi divertimenti in quei locali; ma nonostante ciò, molti giovani che prima si trascinavano senza interessi per le vie del paese, trovarono in quegli spazi un approdo sicuro dove poter stare con gli amici, scambiarsi opinioni e cercare di approfondire le loro conoscenze in materia di religione e impegno cristiano. Luigi e molti suoi amici si tesserarono nell’azione cattolica, e cominciarono un percorso che avrebbe condotto qualcuno di loro a raggiungere posizioni di direzione all’interno dell’associazione. Gli aspiranti (erano gli iscritti che appartenevano alla fascia di età di Luigi e dei suoi amici) divennero ben presto un buon gruppo, che non si tirava mai indietro quando c’erano da programmare le attività della parrocchia. Anche in estate i giovani del vecchio borgo iscritti all’azione cattolica, si ritrovavano con i coetanei degli altri paesi della Diocesi, nella colonia estiva di Gavinana, sulle montagne pistoiesi. Conseguita la licenza della scuola di avviamento professionale, a Luigi fu consentito di fare l’esperienza del campeggio estivo sulla montagna pistoiese. Era il premio per i buoni risultati conseguiti all’esame finale del ciclo di studi. Era la prima volta che il ragazzo si distaccava dai suoi genitori e dai suoi fratelli; ma in famiglia tutti erano contenti di questa opportunità che l’Azione Cattolica offriva a Luigi, e neanche il babbo sollevò obiezioni. La mamma, nonostante la fiducia che riponeva nel figlio, tradiva una certa emozione quando con una vecchia valigia in mano l’accompagnò alla fermata dell’autobus. Dopo una breve attesa comparve sulla strada che si partiva dal ponte sull’Arno, la corriera predisposta dalla diocesi, che aveva fatto il giro degli
altri paesi, e aveva preso a bordo tutti i ragazzi diretti al campeggio in montagna. Maria salutò con un forte abbraccio il ragazzo che, tranquillo, insieme agli altri amici del borgo, salì sulla corriera. Con un sussulto del motore questa ripartì verso gli altri paesi dove avrebbe preso a bordo altri ragazzi in attesa. Il viaggio durò circa tre ore, perché l’autista dovette fermarsi spesso per soccorrere qualche eggero che non sopportava l’incedere del mezzo, soprattutto in quelle salite che sembravano non finire mai. Finalmente fu raggiunta la sede del campeggio, un bell’edificio alla periferia di Gavinana. Su una colonna del cancello d’ingresso si poteva notare una targhetta di cotto con su scritto in carattere corsivo: “Villa Ortensia”. Il nome non tradiva le aspettative, e nel parco che circondava l’edificio c’erano molte piante di ortensie dai bellissimi colori, che davano all’ambiente un che di fresco e di incontaminato. Scesi dall’autobus i ragazzi furono radunati nel piazzale antistante l’edificio, e fecero la conoscenza di coloro che li avrebbero seguiti durante i quindici giorni della durata del soggiorno. Dopo un breve discorso di presentazione, e l’illustrazione delle regole da rispettare, per la riuscita di quell’esperienza di vacanza in gruppo, i ragazzi furono suddivisi in quattro squadre e indirizzati alle camerate, dove avrebbero dormito per i successivi quindici giorni. Le camerate erano situate al secondo piano della villa e contenevano una decina di letti ciascuna; esse si affacciavano su un lungo corridoio, all’inizio e alla fine del quale si trovavano i servizi igienici. Era la classica disposizione degli edifici destinati a raccogliere comunità numerose, e in questa ottica anche la localizzazione del refettorio al piano terra non sfuggiva alla regola. Dopo aver sistemato i bagagli, i ragazzi furono lasciati liberi di prendere confidenza con l’edificio che li ospitava e con il parco che lo circondava. Al piano terra, davanti al refettorio c’era la cappellina, dove al mattino si celebrava la messa e alla sera le funzioni di ringraziamento. Al primo piano della villa erano sistemati i locali della direzione, e le camere dei delegati e dei sacerdoti che avrebbero assistito i ragazzi durante il soggiorno.
Sul retro era stata ricavata una cucina che era sempre attiva dalla mattina alla sera. I campeggiatori, come amavano definirsi i ragazzi, si alzavano al mattino di buon’ora; venivano fatti adunare attorno alla bandiera tricolore che sventolava nella brezza mattutina, e dopo il canto dell’inno dell’Aspirante, erano pronti per assistere alla celebrazione della messa quotidiana. Dopo la messa veniva distribuita la colazione, a base di caffè, latte, marmellata e cioccolata; Luigi la consumava con appetito, ma la colazione non era certo confrontabile con quella che gli preparava la mamma ogni mattina prima di andare a scuola. Terminata la colazione, i ragazzi avevano un quarto d’ora di tempo per rassettare il loro letto, e prepararsi per la giornata che di solito era molto impegnativa. I delegati, che dovevano sorvegliare i ragazzi per tutto il periodo del soggiorno, dopo la riunione giornaliera con il direttore del campeggio, radunavano i ragazzi della loro squadra e partivano per la eggiata del mattino. I primi giorni si raggiungevano i paesi vicini: Maresca, Limestre o San Marcello Pistoiese; successivamente, quando i ragazzi si erano ormai abituati alle lunghe eggiate, si poteva arrivare anche al “Ponte sospeso” sulla Lima, o al Crocicchio ai piedi dell’abetaia. Il ponte sospeso era una struttura di ferro e legno che univa i due lati della valle dove scorreva il fiume Lima; era stato installato dagli alleati durante l’ultima guerra, e nonostante non avesse più alcuna funzione, era rimasto lì come attrazione turistica per i visitatori che, numerosi, si recavano in quei luoghi. La struttura del ponte consisteva in grossi cavi d’acciaio che andavano da una parte all’altra della valle, sospesi in aria all’altezza di qualche decina di metri; collegate ai cavi, a formare un lungo serpentone, c’erano delle assi di legno disposte trasversalmente per tutta la lunghezza dei cavi. La larghezza del ponte era minima, e vi si poteva camminare al massimo due per volta. Quando qualcuno, che voleva fare il bravo e mostrare il suo disprezzo del pericolo, si metteva a correre sullo stretto camminamento, la struttura cominciava ad oscillare incutendo paura ai malcapitati che la percorrevano in quel momento. In qualche occasione i più temerari s’inoltravano nel ponte e, giunti a metà del
tragitto lo facevano oscillare per mettere paura a quelli che avevano iniziato la traversata. Stante il ripetersi di queste bravate i delegati, per alcuni giorni, programmarono le escursioni in altre direzioni. A Luigi piacevano le gite che partendo dalla colonia si portavano su verso l’abetaia; fu durante una di queste escursioni che i ragazzi raggiunsero uno spazio in mezzo agli abeti, dove era stata installata una grande croce che dominava la valle sottostante. Qualcuno della squadra, per dare mostra della sua abilità, si arrampicò sulla grande croce per essere immortalato dalle macchine fotografiche dei compagni, e per avere un ricordo da mostrare agli amici al ritorno a casa, alla fine del soggiorno. Luigi, che era un ragazzo magrolino ma di buona resistenza alla fatica, non si tirava mai indietro; neanche quando c’erano da affrontare escursioni di diversi chilometri. Forse per questo motivo fu inserito nel gruppo che doveva raggiungere a piedi il lago Scaffaiolo. Questa escursione richiedeva alcune ore di viaggio su sentieri contrassegnati dal C.A.I. (Centro Alpino Italiano) con le caratteristiche bandierine bianche e rosse. Si doveva camminare all’interno, e al di sopra dell’abetaia, dove la vegetazione cominciava a diradarsi per dare spazio a grandi distese di piante di mirtilli e di lamponi. Una volta raggiunta la vetta del “Corno alle scale” si scendeva verso il lago, che a differenza degli altri laghi della zona non era di origine glaciale, ma il condensato delle piogge e delle nevicate che specialmente d’inverno imperversavano a quelle latitudini. L’escursione al lago Scaffaiolo si effettuava preferibilmente di notte, perché il tragitto comportava l’attraversamento di crinali quasi privi di vegetazione, situati a circa duemila metri di altezza. Con il caldo e il sole di alcune giornate di luglio, sarebbe stato chiedere veramente troppo a quei ragazzi il cui fisico era ancora in fase di assestamento. Certe volte nelle sere dell’inverno Luigi ripensava a quei momenti, e si rivedeva all’atto della partenza per quella escursione, alla quale neanche lontanamente aveva pensato di poter partecipare. Il gruppo degli escursionisti formato da una decina fra ragazzi e delegati, si era incamminato verso le ventitrè, sulla strada sterrata che portava a Pian dei
Termini, all’inizio dell’abetaia. Ognuno era equipaggiato a dovere con delle coperte per proteggersi dal freddo della notte, e con uno zaino che conteneva qualche panino e alcuni quadretti di cioccolato fondente, da addentare quando le forze venivano meno. I ragazzi più giovani indossavano anche il pigiama sotto i pantaloni, per proteggersi meglio dal freddo della notte. Attraversata l’abetaia ci si fermava per una sosta un po’ più lunga, e ci si rifocillava anche con le bevande calde, che erano contenute nei termos in dotazione ai delegati più grandi. Essi avevano già effettuato questa escursione diverse volte nei soggiorni precedenti, e conoscevano tutti gli accorgimenti necessari per una buona riuscita della camminata. Luigi era entusiasta di questa esperienza e cercava di coglierne gli aspetti più curiosi. Nel bel mezzo della notte, alla luce delle torce elettriche, erano giunti sul crinale che segnava il confine fra l’Emilia e la Toscana, e il ragazzo non aveva potuto fare a meno di verificare dal vero le sue nozioni di geografia. Alle prime luci dell’alba la comitiva giunse al corno alle scale; tutti erano stanchi e infreddoliti ma il primo sole che si affacciava dalle montagne li avrebbe presto riscaldati e riconciliati con lo scenario che si parava davanti ai loro occhi. Il lago Scaffaiolo era sotto di loro, e lo si poteva intravedere in mezzo alla nebbia del mattino, nella sua forma quasi regolare di parallelogramma, in una cornice di montagne che la leggenda aveva battezzato con i nomi più strani: dal Libro Aperto alle Ditate del Diavolo. Il soggiorno in montagna proseguiva senza particolari problemi, e i ragazzi aspettavano con ansia la prima domenica, perché avrebbero ricevuto la visita dei genitori o dei parenti. Ai ragazzi sarebbe stata concessa la possibilità di andare con loro in qualche località vicina alla colonia, che avevano visitato in quei primi giorni di soggiorno. Luigi era consapevole che da casa sua difficilmente qualcuno avrebbe potuto raggiungere la montagna, e con un po’ di malinconia pensava ai genitori e ai fratelli che avrebbe potuto riabbracciare solo al ritorno a casa. La domenica, quando i parenti degli altri ragazzi cominciarono ad arrivare, lui si appartò in un angolo in fondo al parco, a leggere alcuni fumetti che si era portato
dietro da casa. Improvvisamente, mentre il suo pensiero correva dietro alle avventure vissute nei giorni precedenti, vide il babbo attraversare il cancello della villa; gli corse incontro pieno di commozione e con gli occhi pieni di lacrime per il regalo insperato. Come detto Raffaele era un uomo di poche parole e di gesti concreti, e anche a costo di un viaggio avventuroso in treno e in autobus, aveva voluto mostrare al figlio la sua vicinanza e il suo affetto. Durante il servizio militare prestato in marina Raffaele aveva toccato molti porti del Mediterraneo, anche al di fuori dell’Italia, e non sarebbe stato certo il dover raggiungere un paesino sulla montagna pistoiese, a dissuaderlo dal mettersi in viaggio per andare a trovare il figlio. All’ora di pranzo furono approntati alcuni tavoli nel grande refettorio, e anche i parenti dei ragazzi poterono consumare il pranzo con una modica spesa. Dopo pranzo il babbo salutò Luigi, gli fece le dovute raccomandazioni di comportarsi sempre in maniera corretta con i compagni e i delegati, e si diresse verso la corriera che lo attendeva per il viaggio di ritorno. Raffaele sarebbe rimasto ancora un po’ con il ragazzo; ma si dovevano far coincidere gli orari del treno e dell’autobus, e quindi non si poteva perdere altro tempo con i saluti. Strinse di nuovo a sé il ragazzo in un forte abbraccio, e si avviò verso il pullman che andava a Pistoia. Anche la seconda settimana di campeggio volò via in un baleno; e il sabato che precedeva il giorno del ritorno, verso mezzanotte, tutti i ragazzi con i delegati e le persone che avevano contribuito alla buona riuscita del soggiorno, si riunirono nel piazzale antistante la villa, per la cerimonia dell’addio. Si sistemarono in cerchio attorno ad un grande falò e intonarono una melodia un po’ triste sulle note del valzer delle candele. La vacanza era finita davvero, e il giorno dopo i ragazzi avrebbero affrontato il viaggio di ritorno, sicuramente arricchiti da quell’esperienza di vita in comunità. Ad aspettare Luigi, alla fermata dell’autobus in piazza nova, c’erano la mamma e le due sorelline; il fratello maggiore, discolo com’era, sarà stato sicuramente a combinarne qualcuna delle sue.
IX Capitolo L’esperienza di vita in comunità, sperimentata a Gavinana, aveva segnato una tappa importante per la crescita di Luigi; gli aveva insegnato in particolare che di fronte alle difficoltà non bisogna mai tirarsi indietro. Ma soprattutto, gli aveva dato la consapevolezza che con la determinazione e il sacrificio tutti gli obiettivi potevano essere raggiunti. Anche da lui, che rispetto agli altri, aveva ben pochi mezzi a disposizione. Dopo il ritorno a casa si dovette affrontare il problema del suo futuro, dal momento che il ragazzo aveva conseguito la licenza di scuola media. Dapprima si pensò di impiegarlo in qualche fabbrica di scarpe del paese, o nel pastificio di S. Romano dove il babbo aveva lavorato nell’immediato dopoguerra; ma, dietro insistenza della mamma, si convenne di farlo andare in prova in un piccolo scatolificio di proprietà di un lontano parente. Con lo sviluppo dell’industria delle calzature, avevano cominciato ad insediarsi nel vecchio borgo anche attività collaterali, a o dell’industria principale; stavano nascendo aziende che producevano scatole per le centinaia di paia di scarpe che uscivano ogni giorno dai calzaturifici. Luigi aveva cominciato da poco la nuova esperienza di lavoro, e con i primi soldi guadagnati aveva pensato di rendere concreta una sua vecchia idea. Chiese il consenso ai genitori e si iscrisse alla scuola per corrispondenza “Radio Elettra” di Torino. Pensava che le nozioni acquisite con quella scuola, gli sarebbero state di aiuto in futuro, per trovare un lavoro più gratificante. Il ragazzo si era rassegnato ad abbandonare i sogni fatti al tempo della scuola, quando i professori preconizzavano per lui un futuro pieno di soddisfazioni nel percorso scolastico. Confortato dalla mamma, che non mancava mai di incoraggiarlo, si stava adeguando alla nuova realtà. D’altra parte, seppure ancora molto giovane, capiva bene che non c’erano assolutamente le condizioni per proseguire negli studi. L’estate volgeva ormai al termine, e una sera i genitori, Luigi e i fratelli erano
riuniti attorno al grande tavolo di marmo per festeggiare con un dolce preparato dalla mamma, il compleanno della sorellina più grande. Si stava stappando una bottiglia di spumante, di quello leggero, che avrebbero potuto assaggiare anche i ragazzi, per fare un brindisi augurale alla festeggiata; improvvisamente qualcuno bussò alla porta e tutti si zittirono, mentre il babbo si alzò per andare a vedere chi fosse. Attraverso la porta semiaperta s’intravide il Preside della scuola di avviamento di S. Croce, che era salito fino in casa di Raffaele per delle comunicazioni importanti che riguardavano il figlio Luigi. Al ragazzo era stata assegnata una borsa di studio, messa a concorso dall’Amministrazione Provinciale di Pisa per premiare gli alunni più meritevoli. L’importo, confrontato con i salari di quel tempo, non era indifferente; e il preside, che conosceva molto bene le condizioni economiche della famiglia, non pose tempo in mezzo. Ancora prima che Raffaele potesse controbattere, promise che si sarebbe interessato personalmente per iscrivere il ragazzo agli esami d’integrazione che gli studenti provenienti dall’avviamento dovevano sostenere per accedere alle scuole superiori. Gli esami d’integrazione furono superati di slancio e Luigi fu iscritto all’Istituto Tecnico Industriale di Pisa. Anche in questa occasione gli eventi avevano prevalso sulle posizioni di Raffaele, e la mamma poteva continuare a immaginare un futuro pieno di soddisfazioni per il figlio. La scuola era iniziata e il ragazzo doveva alzarsi tutti i giorni alle sei del mattino, per poter raggiungere la stazione di S. Romano, dove alle sette si fermava il treno per Pisa. La scuola richiedeva molto impegno, e quattro volte alla settimana Luigi si doveva trattenere anche il pomeriggio. In quei giorni di orario continuato, il ragazzo portava da casa un paio di panini, che la mamma gli aveva preparato la sera precedente. ato il periodo di ambientamento, anche la frequenza dell’istituto tecnico fu affrontata con il piglio giusto, e alla fine dell’anno scolastico arrivò la meritata
promozione alla classe successiva. Se da un lato la scuola era per Luigi motivo di soddisfazione, dall’altro lato le vicende familiari erano motivo di cruccio. La famiglia era ormai troppo numerosa per l’appartamento ubicato nel vecchio centro storico e tutti, a cominciare da Raffaele, attendevano una risposta affermativa alla richiesta di un alloggio popolare. Le case erano in costruzione in una zona di espansione, al di fuori della vecchia circonvallazione, e il ragazzo sperava in cuor suo che, quella volta, chi compilava i punteggi per l’assegnazione degli alloggi sapesse, per dirla con un eufemismo, far bene di conto. Quando tornava da scuola, nel primo pomeriggio, il ragazzo trovava sempre un piatto di pastasciutta caldo che la mamma gli aveva preparato; mangiava in fretta anche il resto, e usciva subito da casa per andare ad osservare la costruzione delle case che venivano su velocemente. Probabilmente nella primavera dell’anno seguente sarebbero state ultimate. Tuttavia nessuno in famiglia si lasciava andare a facili ottimismi; altre volte in precedenza l’alloggio popolare era stato promesso, ma poi alla fine, non era mai stato assegnato. Luigi considerava l’assegnazione dell’alloggio un elemento imprescindibile, dal quale ripartire per riportare in famiglia un po’ di serenità. I problemi, non solo economici in verità, erano all’ordine del giorno, e il babbo e la mamma non erano più in grado di governarli al meglio. Ognuno dei fratelli aveva le proprie esigenze; quelli più grandi erano alle prese con i problemi tipici degli adolescenti, e le sorelle più piccole cominciavano anche loro a rivendicare le attenzioni che erano dovute alle bambine della loro età. Il babbo lavorava dalla mattina alla sera e non aveva molto tempo da dedicare ai figli. Certe volte lavorava anche dopo cena, e Luigi lo aspettava seduto, a studiare, accarezzato dal tiepido calore della stufa. Il ragazzo non riusciva a togliersi dalla mente un’immagine che, una di quelle sere, lo aveva molto turbato. In quelle giornate fredde, in cui soffiava un vento di tramontana che penetrava fino alle ossa, le mani del babbo si erano tutte screpolate, e il cemento
insinuandosi fra le crepe aveva completato l’opera. Raffaele, prima di coricarsi, per cercare un po’ di sollievo, si cospargeva le mani con l’olio da cucina e poi indossava un paio di guanti per non sporcare le lenzuola. Alla sera, quando tutti si erano sistemati nei propri letti, la mamma si accertava che i ragazzi avessero recitato le preghiere e, dopo un ultimo controllo al fornello a gas, spegneva la luce al centro della cucina. La casa, finalmente, veniva avvolta dal silenzio della notte. Luigi dormiva in un letto bastardo, nello stanzone che fungeva da camera, e le sorelline nell’altro letto, che era stato sistemato nella cucina molto grande, accanto alla stufa. La quiete della notte era un momento molto importante per il ragazzo, che finalmente poteva riflettere sugli avvenimenti della giornata. Anche lo studio, in quelle condizioni, era un esercizio oltremodo difficile; ma Luigi stava molto attento a scuola e cercava di capitalizzare al massimo le spiegazioni dei professori. Qualche volta la domenica mattina, quando il tempo brutto non gli consentiva di fare del lavoro straordinario, il babbo si tratteneva un po’ con i ragazzi; e tamburellando sulla spalliera del letto con le dita delle sue belle mani ingrossate dalla fatica, intonava qualche vecchia melodia in dialetto napoletano. Il babbo cantava molto bene, e i ragazzi erano presi da quelle melodie. Nonostante non comprendessero appieno il significato delle parole, si fiondavano nel lettone del babbo per ascoltare meglio. Anche Luigi non capiva molto delle storie che quelle canzoni raccontavano. In casa Raffaele non parlava mai in dialetto. Quando la canzone era terminata, Luigi domandava il significato delle parole che componevano il testo; il babbo a quel punto assumeva un atteggiamento pensieroso, perché era consapevole del fatto che alcuni termini non avevano una traduzione in italiano che ne riflettesse il significato autentico. Il pranzo della domenica era un banco di prova per la mamma che cercava di mettere a frutto gli insegnamenti avuti da Dina.
Qualche volta preparava il coniglio in umido di cui il babbo era molto ghiotto, e i due fratelli maschi, in quelle occasioni, si contendevano la pelle dell’animale che avrebbero portato da Diego, lo Stregone, in cambio di poche lire. La vita nel vecchio borgo era fatta anche di queste cose, e nelle strade del centro storico si potevano incontrare i personaggi più strani. Marsilio di Boccia, il netturbino, con il barroccio trainato da un vecchio asino che si trascinava con fatica, percorreva le strade del paese per raccogliere l’immondizia. Era coadiuvato da Giovanni, che avvertiva le massaie con il suono di un vecchio corno di ottone. Le donne, avvertite dal suono del corno, lasciavano le faccende alle quali erano intente e uscivano trafelate dalle case, portando con sé bussoli di latta e scatole di cartone con la roba da buttare. Alla fine della raccolta, l’immondizia veniva ammassata in un campo abbastanza distante dall’abitato, che in conseguenza dell’uso a cui era destinato, era conosciuto come il Campaccio. Nella strada parallela a quella in cui abitava Luigi si poteva trovare Fucile, un pescatore di ranocchi che, seduto davanti alla porta di casa, spellava i poveri animali che aveva pescato; li avrebbe venduti ad operazione terminata, ad un prezzo che non tutti si sarebbero potuti permettere. Uno dei personaggi più caratteristici dell’antico borgo era sicuramente Dino. A partire da ottobre di ogni anno si piazzava con il suo fornello, carico di carboni ardenti, all’angolo della piazza del mercato, vicino al bar del Ciurli, per vendere le “fruciate”. Erano castagne arrostite con perizia, che lui preparava mettendole a cuocere nel braciere, sopra una griglia punteggiata di fori praticati a regola d’arte, per far sì che il calore si propagasse in modo uniforme. Dopo alcuni minuti di cottura, dalle castagne, che pian piano abbrustolivano, si levava un profumo dolce e gradevole che invadeva la piazza: questo era il segno che le fruciate erano pronte per essere gustate. Altri avevano provato a cimentarsi nella cottura delle fruciate, ma avevano dovuto rinunciare quasi subito, perché con quelle che preparava Dino non c’era confronto. ato il tempo delle castagne, ritrovavi Dino con il suo carretto piazzato all’angolo della chiesa, davanti al palazzo comunale, che vendeva dei gustosi bomboloni.
La fama della prelibatezza delle fruciate e dei bomboloni aveva raggiunto anche gli abitanti dei paesi vicini, ed era quasi normale trovare qualche forestiero che veniva per acquistare quelle ghiottonerie. Ma Dino lo ritrovavi anche nei mesi estivi; verso la fine della primavera si piazzava con il suo carretto, sotto i platani della piazza nova, a preparare granite dai gusti più inverosimili. Gli avventori, che venivano anche da fuori, potevano acquistarle a un prezzo modico. All’interno del centro storico c’era, chissà da quante generazioni, il forno di Maschera, dove si poteva gustare del buon castagnaccio e delle ottime pattone. Il vecchio Lorenzo sistemava le pattone in una cesta, e le copriva con delle foglie di castagno, perché non si freddassero. Poi con la bicicletta, che di solito spingeva a mano a causa dell’età, andava a smerciarle sino ai punti più remoti del borgo.
X Capitolo Con la realizzazione dell’acquedotto la fisionomia del vecchio borgo cambiò di colpo. Le fontanelle, situate nel centro storico, furono smantellate, e le piazzette persero la funzione che avevano esercitato per decenni. Soprattutto nelle ore di punta era normale vedere attorno alle fontanelle, circondate da robuste ringhiere di ferro, file di donne e uomini che con secchi, brocche, bottiglie o altri recipienti facevano la scorta di acqua da portare in casa per le necessità della famiglia. Ora, con la realizzazione dell’acquedotto, la maggior parte delle abitazioni era servita con acqua corrente e di buona qualità; le occasioni per incontrarsi nelle piazzette e scambiare due parole erano sporadiche, e la vita del borgo, imperniata sui rapporti di buon vicinato e di solidarietà, andava lentamente, ma inesorabilmente, cambiando. La ricerca dell’autosufficienza era un segno tangibile; se il progresso non fosse stato ben governato, avrebbe potuto portare problemi nel futuro. Le abitudini stavano cambiando in maniera repentina, e anche il vecchio Panatta, che vendeva l’acqua buona attinta al Gocciolino, si vedeva costretto a cessare la propria attività. Fra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta era stata realizzata la nuova circonvallazione, ed era come se la campagna, che per secoli aveva circondato il vecchio borgo senza esserne contaminata, si fosse improvvisamente aperta al nuovo. Le nuove costruzioni sorgevano a ritmo incessante al di fuori delle vecchie mura. Anche alcune fabbriche importanti si erano insediate laddove, fino a poco tempo prima, la coltivazione della terra era stata l’occupazione principale. La contrapposizione latente fra paesani e contadini, il modo diverso con cui per secoli avevano affrontato la vita, andava via via lasciando il posto a una nuova classe sociale che si stava affermando nel vecchio borgo, la classe operaia. La vita all’interno del paese, rimasta immutata per molto tempo, stava cedendo il
o alla nuova realtà, e anche la struttura dell’abitato ne usciva fortemente compromessa. Le vecchie botteghe avevano pian piano perso la loro funzione tradizionale, ed era sempre più frequente vedere insediarsi nel centro storico attività che prima si sarebbero potute trovare soltanto in città. Anche le case situate all’interno del borgo si svuotavano. I paesani, con l’avvento dell’industria, avevano visto incrementarsi il loro reddito, e avevano deciso di costruirsi, fuori dal centro storico, abitazioni più moderne e confortevoli. Nelle case del paese rimaste vuote, s’insediarono le famiglie degli immigrati, provenienti in prevalenza dal sud Italia; il tessuto sociale, che era rimasto cristallizzato per secoli, si aprì alla contaminazione di dialetti, usi e costumi, che soltanto pochi anni prima non si sarebbero neppure immaginati. In quel freddo inverno che sembrava non finire mai, alla famiglia di Luigi fu comunicata, con lettera ufficiale del comune, l’assegnazione dell’alloggio popolare tanto sospirato. La consegna delle chiavi dell’appartamento sarebbe stata effettuata, con una cerimonia apposita, nella primavera dell’anno successivo. Luigi immaginava già di poter avere un po’ più di spazio a disposizione, separato dagli altri ambienti, per quando doveva studiare; e soprattutto sapeva che nel nuovo alloggio avrebbe avuto a disposizione anche una cantina, dove poter verificare nella pratica, le nozioni di elettronica apprese con la scuola per corrispondenza. Tutto cambiava in maniera tumultuosa intorno al ragazzo, e anche gli amici, con i quali aveva condiviso tanti momenti di svago, non erano più quelli di un tempo. Molti erano andati a lavorare nei calzaturifici o nelle concerie che si moltiplicavano a vista d’occhio. Inevitabilmente la frequentazione di coloro che, come Luigi, avevano proseguito gli studi, veniva più naturale. Tuttavia, quando i compagni di scuola delle elementari si ritrovavano con Luigi nei locali dell’azione cattolica, potevano verificare chel’affiatamento, cementato da tante avventure vissute insieme, non era venuto meno.
XI Capitolo In quei primi anni Sessanta una rincorsa frenetica al nuovo, favorita anche dal boom che investiva l’Italia, sembrava essersi impossessata degli abitanti del borgo. La nuova circonvallazione aveva fatto sì che molte attività del centro storico si spostassero oltre le vecchie mura; tutto ciò che rimaneva all’interno era destinato inevitabilmente ad una funzione residuale. Il nuovo paese era quello delimitato dagli imponenti viali della nuova circonvallazione. Era un’infrastruttura imponente per quei tempi, che sarebbe sicuramente servita in futuro per preservare l’abitato dal traffico caotico che cominciava a condizionare in maniera massiccia la vita delle grandi città. Anche il nuovo edificio della scuola elementare era stato costruito al di fuori delle vecchie mura, in prossimità del campo sportivo. Nel vecchio edificio della scuola elementare fu insediata la scuola media, che all’inizio, in via sperimentale, era stata localizzata nei locali del teatrino delle suore. I locali del vecchio teatrino tornavano in qualche modo nella disponibilità degli abitanti del borgo; ma ormai la maggior parte dei residenti aveva a disposizione mezzi e disponibilità economiche per raggiungere i centri più importanti, che distavano dal paese solo alcuni chilometri. Il culto del nuovo si era talmente diffuso ad ogni livello che, anche gli ultimi ruderi all’interno del centro storico, testimonianza dell’ultima guerra, erano stati abbattuti; al loro posto, in palese conflitto con il contesto urbano adiacente, si erano costruiti moderni e funzionali edifici, che ancor prima di essere ultimati erano stati collocati con profitto nel nascente mercato immobiliare. Purtroppo anche l’edificio del teatro degli Inaspettati, o meglio ciò che ne restava, era stato messo sul mercato; nel giro di qualche anno al suo posto sarebbe stata realizzata una mostra permanente del mobilio. Anche i ragazzi del paese non sfuggivano a quella ricerca del nuovo che permeava ogni aspetto della società. I divertimenti che avevano caratterizzato il primo decennio post bellico e la fine degli anni Cinquanta, stavano cedendo il posto a atempi nuovi e coinvolgenti, che venivano soprattutto dagli Stati Uniti. La vita sull’Arno, che per alcuni decenni aveva costituito uno dei atempi
preferiti dalla gioventù del borgo, si andava sempre di più allontanando dal sentire degli abitanti del paese. Era molto difficile vedere, come invece accadeva solo pochi anni prima, frotte di ragazzi che già verso maggio si recavano al “bonomo” per fare i primi bagni e crogiolarsi al caldo del primo sole. Si ava dal ino di Giovacco, un viottolo che costeggiava il pozzo, dove dalla mattina alla sera c’era un vecchio asino, che legato al bindolo, pompava acqua per l’irrigazione dell’orto. Il bonomo è una zona dell’Arno situata oltre il ponte, verso Pisa, dove si poteva fare il bagno senza eccessivi rischi. In quel punto del fiume i fondali erano bassi e adatti per imparare a nuotare. Nel periodo fascista in quel punto del fiume, dove la corrente era dolce, e c’era una bella spiaggia di sabbia finissima, erano state anche insediate le colonie per la gioventù del fascio. I più capaci nel nuoto, e anche i più temerari, preferivano nuotare alla “pescaia”, adiacente al Molino del Callone, dove l’acqua era molto profonda e dove Luigi non si avventurava mai. Non dimenticava facilmente la disavventura di un ragazzo di Livorno che, in vacanza dai parenti residenti nel borgo, si era avventurato a nuotare alla pescaia, e preda delle correnti che caratterizzavano quel punto del fiume, aveva rischiato di annegare. Era stato salvato dallo zio di Luigi, che era un provetto nuotatore, e conosceva bene le insidie del fiume. Nuotare nell’Arno non era affatto semplice; lo scorrere del fiume diventava ogni giorno sempre meno dolce, a causa del saccheggio della sabbia, che veniva prelevata dal suo letto da enormi draghe. L’escavazione della sabbia procedeva senza sosta; essa era una delle materie prime necessarie al tumultuoso sviluppo edilizio di quegli anni. Al bonomo, un tempo meta obbligata per i paesani che cercavano un po’ di refrigerio, non c’era più la ressa degli anni addietro; gli abitanti del borgo, a bordo delle automobili che, sempre più numerose, occupavano le piazzette e le vie del centro storico, preferivano raggiungere le località balneari della costa. Anche Raffaele, che era un nuotatore provetto, non si fidava molto dell’Arno, a causa delle improvvise correnti che il dragaggio del fondo aveva determinato. Quando aveva voglia di fare una nuotata, prendeva con sé i figli più grandi e, tutti insieme, andavano a fare una gita al Calambrone o a Tirrenia. Scesi alla stazione di Pisa, salivano su un apposito trenino, la “littorina”, che in
pochi minuti li avrebbe portati a destinazione, sulle grandi spianate di sabbia che caratterizzavano la costa. Anche la pescaia, un tempo meta degli apionati della pesca, aveva perso il suo fascino. Era sempre più raro incontrare qualcuno che s’inoltrava su quegli speroni con la speranza di fare una buona pesca. I pescatori che con le loro vecchie barche avevano navigato il fiume in lungo e in largo, erano diventati ormai anziani, e riuscivano a governare con fatica quei natanti che per secoli erano stati l’unico strumento per procurare sostentamento alle loro famiglie. C’era rimasto Otello, il pesciaiolo, che con il suo barchino non si rassegnava al nuovo, e continuava imperterrito a solcare le acque, anche quando il fiume ingrossava in autunno per le precipitazioni abbondanti. I più anziani conoscevano molto bene le insidie del fiume, per averle sperimentate personalmente, o per averle sentite dai racconti dei loro genitori. Tante volte, nel corso dei secoli, l’Arno, risorsa importante per l’economia dei paesi rivieraschi, era stato fonte di distruzioni e di lutti. La eggiata sulle rive del fiume costituiva tuttavia una meta obbligata per gli abitanti del borgo. La domenica la via del ponte, come si chiamava allora, veniva chiusa al traffico e si popolava di persone che si riversavano sugli argini, o si inoltravano nei viottoli che scendevano fino a ridosso dell’acqua. L’urbanizzazione massiccia, che aveva caratterizzato gli anni della ricostruzione, si era protratta fino nelle golene; i più vecchi ammonivano, che in caso di pienoni del fiume, si sarebbero sicuramente prodotti dei disastri. Anche le industrie si erano insediate lungo il corso del fiume, e scaricavano senza nessun controllo nelle acque limpide che pian piano si erano inquinate. La fauna ittica, un tempo vanto dell’Arno, andava depauperandosi sempre di più, e i pescatori che praticavano la pesca per diletto, si erano indirizzati verso altre località più interne della regione, dove esistevano fiumi dalle acque ancora incontaminate. Nel paese, che si stava trasformando in una realtà produttiva importante, l’inquinamento idrico cominciava a presentare il conto; i grandi fossi e le dogaie che recapitavano nell’antifosso di Usciana, stavano diventando cloache maleodoranti, che correvano a cielo aperto.
Anche il canale Usciana, che un secolo prima era stato escavato per bonificare le zone in prossimità del Padule di Fucecchio, andava incontro ad inquinamento progressivo. Nelle sue acque non si trovavano quasi più le specie ittiche che un tempo lo popolavano. Fu presa a quel tempo la decisione di coprire la dogaia che correva lateralmente a lato di via Usciana nel tratto fino al cimitero urbano; e fu decisa anche la costruzione del primo depuratore biologico, in cui recapitavano le acque nere del vecchio centro storico. Sui viali della nuova circonvallazione si costruirono nuove abitazioni, e alcuni edifici di molti piani, che con la loro altezza conferivano al paese una prospettiva inusuale. Chi veniva da fuori non focalizzava più la propria attenzione sul vecchio campanile, che da secoli svettava sulle altre case del centro storico. Lo sguardo era attratto, inevitabilmente, da quelle moderne costruzioni che si proiettavano sicure verso il cielo, e relegavano in secondo piano la vecchia struttura del castello. Anche questo contribuiva a sminuire la particolarità del tessuto urbano del vecchio borgo. Un tessuto urbano che si era tramandato, quasi integro, dalle origini lontane fino a quei giorni. Per molti anni si era creduto che in virtù della sua pianta regolare, il castello fosse stato in origine un castrum romano; ma ricerche storiche approfondite, avevano accertato che in realtà esso era stato edificato per volontà degli abitanti di alcuni villaggi ubicati nella piana. Per difendersi meglio dalle scorribande degli sbandati in arme, che attaccavano i villaggi causando distruzione e morte, gli abitanti avevano circondato di mura e di un fossato il nuovo agglomerato urbano, edificato al posto dei villaggi. Anche le botteghe artigiane si erano trasferite al di fuori delle vecchie mura, in locali più moderni e facilmente accessibili. Nel centro storico erano rimaste soltanto alcune attività al servizio della residenza e della campagna circostante.
XII Capitolo Nonostante tutti questi cambiamenti la vita di Luigi continuava con i soliti ritmi. La mattina si alzava molto presto perché alle sei e mezzo doveva prendere l’autobus per la stazione. Per raggiungere la fermata degli autobus in piazza Mentana, percorreva alcune strade del centro storico, dove erano già al lavoro i netturbini. Questi spazzavano il paese, perché gli abitanti e i visitatori lo trovassero pulito e accogliente fin dalla mattina. Scambiava con i netturbini, che in quel primo turno erano quasi sempre gli stessi, un familiare buongiorno e si portava alla fermata degli autobus. In inverno faceva ancora buio e il vecchio borgo, illuminato dalla luce fioca delle lampade appese a dei cavi tirati sulle strade da una casa all’altra, aveva l’aspetto di un presepe addormentato che aspettava il sorgere del nuovo giorno per rianimarsi. Le botteghe di generi alimentari ed i caffè aprivano i battenti, e si contendevano i primi clienti del mattino. Pian piano la vita di ogni giorno si riprendeva le sue strade, le sue piazze, e tutto tornava a riproporsi come il giorno prima, come sempre. I ragazzi arrivavano alla fermata degli autobus con i volti ancora assonnati e con poca voglia di parlare; ma ben presto la voglia di stare insieme in maniera spensierata, come si conviene a degli adolescenti, prendeva il sopravvento. Una volta saliti sull’autobus, cominciava la confusione, e il fattorino stentava a trattenere i più scalmanati. La stazione di S. Romano a quell’ora del mattino brulicava di persone in attesa dei treni diretti verso Pisa o Firenze. Era uno scalo importante perché serviva numerosi paesi che costeggiavano l’Arno, che in quegli anni andavano assumendo un ruolo sempre più centrale nello sviluppo economico di tutta la provincia. Fra i tanti ragazzi in attesa dei treni c’era sempre qualcuno che, o per maleducazione, o per fare bella mostra delle proprie bravate, non trovava di meglio che scrivere sui muri o intagliare le panche nella sala d’attesa. Questi atti di becero teppismo, mandavano ovviamente su tutte le furie gli addetti al funzionamento della stazione. Il capo stazione minacciava in continuazione di
denunciare e sanzionare chi avesse trovato a compiere quelle bravate. Una mattina, al loro ingresso in sala d’aspetto, i ragazzi trovarono affisso al centro della parete principale un cartello scritto con bella grafia che recitava testualmente: “LO STOLTO DIPINGE IN OGNI LUOGO LA SUA STOLTEZZA”. L’effetto di quel cartello fu immediato, e per alcuni mesi gli atti di vandalismo diminuirono sensibilmente fin quasi a scomparire. Mentre il treno correva verso Pisa, nella foschia del mattino che lasciava campo al timido sole di quelle giornate invernali, Luigi pensava al babbo che in quel preciso istante, in sella alla sua bicicletta, raggiungeva il cantiere di lavoro per iniziare un’altra giornata faticosa al freddo e alle intemperie. Rivedeva le mani del babbo tutte screpolate dal gelo e dal cemento, e, in cuor suo, conveniva che, nonostante tutto, poteva ritenersi fortunato. Poteva ritenersi fortunato al confronto con i suoi compagni che, vuoi per la scarsa sensibilità dei genitori verso la scuola, vuoi per difficoltà oggettive delle famiglie di appartenenza, non avevano avuto la possibilità di proseguire gli studi. Per Luigi continuare a studiare era un po’ come affrancarsi da una posizione di subalternità, che fin dall’infanzia lo aveva accompagnato. Nei suoi confronti non c’era mai stata ombra di discriminazione da parte dei compagni; ma il solo fatto di non appartenere ad una delle famiglie del nuovo ceto medio che si stava formando, lo metteva, in certi frangenti, in patente difficoltà. Maria, la mamma del ragazzo, coglieva al volo questi attimi di sbandamento del figlio, e cercava in tutti i modi di aiutarlo a metabolizzare le situazioni nelle quali si era sentito in imbarazzo. Purtroppo le disponibilità economiche della famiglia erano risicate, e molto spesso non c’era neanche materialmente la possibilità di attenuare il disagio del ragazzo. Non si poteva acquistare un capo di abbigliamento alla moda, o un paio di scarpe nuove da calzare al posto di quelle vecchie riparate più volte dal vecchio Trigo, un ciabattino che aveva la bottega in un fondo umido e buio del centro storico, vicino alla porta di S. Michele a Caprugnana.
Il vecchio ciabattino era un ometto basso e rubicondo. Stava ripiegato sul suo banchetto di lavoro gran parte della giornata, a dare di lesina e di martello per riparare le scarpe che gli avevano portato ad aggiustare. L’aria della stanza sapeva di mastice e di sevea, e alla sera, dopo una giornata intensa, ata a tirare fili e a martellare il cuoio, Trigo non disdegnava farsi un buon mezzino in una delle mescite del centro storico. Luigi coltivava anche qualche piccola ione; una di queste era collezionare francobolli. Aveva cominciato per emulare il figlio minore di Dina, ma poi la cosa lo aveva coinvolto sempre di più, e vi si dedicava appena aveva un po’ di tempo libero a disposizione. Non aveva molti soldi per comprare le nuove serie emesse dal Poligrafico dello Stato, che si potevano trovare all’appalto del Gini situato in piazza del comune. Con i suoi amici più fidati si procurava i francobolli più rari in un altro modo. La produzione delle calzature nel paese era assorbita quasi totalmente dal mercato estero, e questo comportava l’intreccio di una fitta corrispondenza fra le aziende ed i loro clienti dell’Europa e degli Stati Uniti. La posta che veniva recapitata viaggiava in buste inconfondibili, bordate tutt’intorno per essere individuate meglio al momento dello smistamento negli uffici postali. Le buste erano affrancate con francobolli molto ricercati dai collezionisti in erba, come Luigi e i suoi amici, e si potevano ritrovare con facilità nella spazzatura che veniva stoccata nella discarica del campaccio. Periodicamente i più azzardosi, come amava chiamarli Maria, facevano qualche incursione alla discarica, per recuperare dalle buste qualche francobollo di una certa importanza e di un certo valore sul mercato dei collezionisti. L’accesso alla discarica non era interdetto agli estranei, e il cancello dal quale si entrava era quasi costantemente aperto. Nelle poche volte che il cancello rimaneva chiuso, i ragazzi entravano facilmente nella discarica scavalcando una bassa recinzione, costituita da una rete e da un filo spinato che correvano tutt’intorno. In una di queste incursioni al campaccio, nello scavalcare la rete, Luigi sentì un dolore lancinante al polpaccio della gamba sinistra; era rimasto impigliato al filo spinato, e il sangue fuoriusciva abbondante dalla ferita che
subito fu tamponata alla meglio con dei fazzoletti. La discarica era ubicata in aperta campagna, e i compagni di Luigi corsero alla più vicina casa colonica in cerca di aiuto. Il Balducci, questo era il nome del contadino che abitava nella casa, appena vista la ferita non pose tempo in mezzo; caricò i ragazzi sul carro dove erano ancora attaccati i buoi, e si diresse verso l’ospedalino del paese per le cure del caso. Si temeva soprattutto per il rischio di contrarre un’infezione da tetano; perché a quei tempi la prevenzione non era ancora diffusa, e certi vaccini erano di là da venire. La ferita fu suturata dal medico di turno, e Luigi non avrebbe mai più dimenticato lo sguardo burbero di suor Luciana, che mentre assisteva alle cure, non smetteva di rimproverare il ragazzo per la sciocchezza commessa. Fu praticata l’iniezione di gammaglobuline specifiche contro il tetano, e si convenne di ricoverare per qualche giorno il ragazzo, per monitorare da vicino l’evolversi della situazione. Il ragazzo fu sistemato in una camera, non molto grande, dove erano ricoverate alcune persone anziane. Si accingeva a are, con qualche apprensione, la prima notte della sua giovane esistenza in ospedale. Il giorno seguente, quando durante il turno di visita ai pazienti, il Direttore dell’infermeria si trovò di fronte al ragazzo, lo riprese in maniera risoluta. Lo pregò di non causare altre preoccupazioni alla mamma, che aveva già il suo bel da fare, per accudire tanti figli bisognosi di attenzioni e consigli. Come l’incidente dimostrava, anche i ragazzi più avveduti come Luigi, non erano al riparo dai pericoli più imprevisti. Dopo la visita e le raccomandazioni, il medico dette disposizioni a suor Luciana, affinchè il ragazzo fosse trasferito in una cameretta singola, lontano dai malati, soprattutto anziani, alle prese con le più disparate patologie. Infine, con un sorriso tranquillizzante, si allontanò per proseguire il suo turno di visite agli altri ricoverati. Il dottor Camiciottoli, direttore dell’infermeria, era un medico molto conosciuto per le sue indubbie capacità. Aveva scelto di assumere l’incarico di dirigere quel piccolo ospedale, nonostante che, come tutti in paese dicevano, fosse stato in
grado di aspirare alla direzione di realtà ben più importanti. Prese a cuore il ragazzo, e nei giorni seguenti, al momento della visita, si tratteneva qualche tempo con lui per informarsi in maniera dettagliata sull’andamento dei suoi studi. Dalle notizie in suo possesso deduceva che questo ragazzo fosse un giovane promettente, del quale si dovevano assecondare le capacità. ato qualche giorno, e verificato che la ferita non aveva causato nessuna conseguenza, Luigi fu dimesso, e fece ritorno a casa, dove riprese le sue abitudini forzatamente trascurate per qualche tempo. L’ospedale “Selene Menichetti” era il presidio sanitario del vecchio borgo; era stato costruito all’inizio del secolo grazie alla donazione della benefattrice che le aveva dato il nome. Per decenni aveva assolto, grazie all’impegno di chi vi aveva prestato la sua opera, lo scopo umanitario per il quale era stato costruito. Luigi era uno dei pochi, della sua età, che era nato all’ospedalino e, prima dell’incidente, vi era stato solo un’altra volta, al momento dell’esposizione nella camera mortuaria, del corpo del fratellino morto alcuni anni prima. Non avrebbe mai dimenticato, benché all’epoca dei fatti fosse molto piccolo, il corpo del fratello deposto in una piccola bara bianca, immobile, nella fissità della morte. La mamma era una donna coraggiosa e risoluta, e alla morte del fratellino, avvenuta all’ospedale di Pisa, per impedire che il piccolo fosse sottoposto ad alcun tipo d’indagine, non si smentì. Avvolse il corpicino del figlio in un plaid, e con il consenso dei sanitari di turno, salì su un taxi che la riportò con il suo carico di dolore al vecchio borgo. Il babbo nel frattempo era rientrato in treno, e quando Luigi, che lo attendeva alla fermata degli autobus con il fratello e con la zia, lo vide precipitarsi di corsa per la strada che scendeva dal ponte, e attraversare con grandi falcate la piazza in direzione dell’ospedale, lanciò un grido di disperazione e si strinse forte al petto della zia. Aveva capito tutto.
XIII Capitolo L’estate era trascorsa senza grosse novità e Luigi si accingeva a frequentare la seconda classe dell’istituto tecnico. Il ragazzo era rimasto un po’ turbato alla notizia che la mamma stava per dargli un altro fratellino; i problemi in casa erano già tanti, e la prospettiva che la mamma avrebbe dovuto sobbarcarsi il peso di un altro bambino, lo rendeva sempre più cupo e chiuso in sé stesso. La nuova situazione familiare non gli consentiva di potersi concentrare al meglio durante lo studio, e anche le materie da imparare richiedevano un’applicazione ben maggiore di quella che il ragazzo in quel momento poteva assicurare. L’anno scolastico andava avanti fra alti e bassi e alla fine non arrivò la sospirata promozione. Luigi fu rimandato a settembre, e questo fatto incrinò al momento le certezze che negli anni lo avevano protetto dai condizionamenti di ogni sorta. Nell’aprile di quell’anno alla famiglia di Luigi era stato finalmente consegnato l’alloggio popolare tanto atteso. Nella nuova abitazione le situazioni di disagio, inevitabili in una famiglia numerosa, si potevano fronteggiare più facilmente di quanto non fosse stato fino ad allora. Dopo tante peripezie, Luigi pensava che vi potesse essere un nuovo inizio. La casa non era molto grande, ma se non altro consentiva di avere la possibilità di ritagliarsi qualche spazio proprio; cosa che nella vecchia abitazione, all’interno del borgo, era praticamente impossibile. A corredo dell’alloggio erano stati consegnati anche piccoli appezzamenti di terreno. Raffaele ebbe così la possibilità di coltivare alcuni ortaggi, che avrebbero alleggerito un po’ le spese sostenute dalla mamma per preparare il pranzo e la cena di ogni giorno. Raffaele aveva sistemato così bene le varie colture nell’orto che i vicini non potevano fare a meno di fermarsi ad osservare con uno sguardo di ammirazione e di compiacimento. Luigi trovò il modo di prepararsi agli esami di riparazione senza ricorrere a lezioni private, e li superò di slancio. Quando era solo nella nuova cameretta, che condivideva con il fratello maggiore e l’ultimo fratellino arrivato, non poteva fare a meno di domandarsi come fosse possibile per i suoi genitori, tirare avanti una famiglia così pesante. Il fratello maggiore avrebbe potuto contribuire un po’ alle entrate della famiglia;
ma non riusciva a procurarsi una sistemazione duratura, e quei pochi guadagni che realizzava li spendeva tutti per la sua unica ione: i motori. Aveva acquistato, con l’aiuto della mamma che aveva garantito per lui, una piccola moto usata, e con quella scorrazzava per le strade larghissime attorno al vecchio borgo a forte velocità. Suscitava apprensione in chi lo vedeva circolare, e rimbrotti da parte delle guardie che, quasi ogni giorno, avano da casa per minacciare il sequestro del mezzo. Il babbo lavorava molto spesso anche dopo cena, e le occasioni per stare insieme erano molto poche. L’educazione dei figli ricadeva tutta sulle spalle di Maria, che col tempo e tutte le traversie vissute, si mostrava sempre più provata dagli sforzi necessari per fronteggiare la situazione. Luigi si accingeva a frequentare la terza classe della scuola superiore, e aveva promesso alla mamma che quel periodo di sbandamento, vissuto in primavera, era stato solo un episodio che non si sarebbe più ripetuto. Un giorno, mentre era alla stazione in attesa dell’autobus per il vecchio borgo, Luigi fu avvicinato da un giovane molto più grande di lui; non lo conosceva personalmente ma sapeva che era il figlio del dottor Camiciottoli, il direttore dell’ospedalino Selene Menichetti. Il giovane comunicò a Luigi che il padre, in qualità di presidente pro-tempore del “Lions club di S. Miniato”, aveva proposto il suo nome quale studente da premiare per l’ottimo profitto degli studi. Il consiglio direttivo della istituzione aveva accettato la proposta ed attivato tutte le procedure per dare esecuzione a quanto deliberato. Il premio consisteva in un soggiorno sulla costa azzurra, ospite del Lions Club della città di Brignoles. I Lions Club delle due città erano gemellati da tempo, e da qualche anno assicuravano agli studenti meritevoli, vacanze premio con scambi alla pari. La notizia riempì di gioia Luigi che mentre ritornava verso casa, ripensò alle tante attenzioni che gli aveva prestato il direttore dell’ospedalino al momento del suo ricovero per la ferita riportata alla gamba. Si compiacque con sè stesso, per non aver deluso le aspettative del medico, e pensò che qualche volta, anche le promesse che sembrano di circostanza, possono realizzarsi.
Luigi era stato prescelto insieme ad un altro ragazzo che abitava nella vicina S. Miniato; furono chiamati nella sede del Lions Club dove ricevettero tutte le indicazioni per il loro soggiorno e i biglietti per il viaggio. Brignoles era una città della Provenza, e si poteva raggiungere facilmente partendo da Pisa senza interruzioni fino a Nizza. Non ci sarebbero stati problemi neanche per Luigi, che aveva solo sedici anni e non aveva mai attraversato la frontiera. Il babbo lo tranquillizzò ricordandogli che, anche lui, quando era molto giovane, aveva visitato molte città toccate dalle navi sulle quali era imbarcato. Luigi e Andrea, l’altro ragazzo prescelto, salirono sul treno la domenica mattina alla stazione di Pisa. Era una bella giornata di luglio, e anche Raffaele volle accompagnare il ragazzo, per fargli le ultime raccomandazioni su come comportarsi durante il viaggio e durante il soggiorno. Il treno correva sicuro verso la Francia e non ci furono intoppi fino a Ventimiglia. Luigi si concentrava sul paesaggio che sembrava corrergli incontro, e lo stretto serpentone di ferro che s’insinuava fra le alte colline della Liguria e il mare, sembrava uno sfregio dissacrante tracciato su una tela di Manet o di Renoir. L’azzurro del mare che si perdeva all’infinito, contrastava con il verde intenso dell’entroterra ligure che si perdeva su in alto nelle colline più lontane. Dopo Ventimiglia si poteva indovinare la Costa Azzurra, che nascondeva dietro insenature naturali i suoi gioielli: Cannes, Antibes, S. Tropez. Località che avevano un posto privilegiato sulla stampa d’attualità, perché erano frequentate dai personaggi famosi del cinema o dell’alta società. Sbrigate le formalità alla frontiera, il treno riprese la sua corsa, e dopo neanche un’ora i due ragazzi erano giunti a Nizza. Alla stazione c’erano i rappresentanti del Lions Club di Brignoles in attesa degli ospiti italiani. I ragazzi furono fatti salire su due Citroen che, all’avvio del motore, sollevarono l’abitacolo di una decina di centimetri; sembrava dovessero alzarsi in volo. Le due auto s’infilarono nel traffico e, ando dalla Promenade des Anglais, a quel tempo non interdetta al traffico, giunsero alla strada statale, che li avrebbe condotti alla cittadina sede del soggiorno. Arrivati in città, i due ragazzi furono ricevuti nella sede del Club e, dopo alcuni discorsi di benvenuto, furono presentati ai due importanti dirigenti che per
quindici giorni li avrebbero ospitati nelle loro residenze. Era già pomeriggio inoltrato e il sole si calava a picco sul mare, oltre le baie e le insenature che punteggiavano la costa. Luigi, dopo una doccia ristoratrice, scese nel giardino della villa che lo ospitava e fu presentato ai membri della famiglia del sig. Felix Aimèe. L’ospite, come si capì da subito, era un personaggio importante e avrebbe avuto poco tempo da dedicare ai ragazzi italiani; si era però premurato di mettere a loro completa disposizione la figlia Magalì e la nipote Martine. Il fatto certamente non sarebbe dispiaciuto a Luigi e Andrea. Dopo i convenevoli, salirono in macchina e si diressero verso S. Paul de Vance, dove li attendeva un locale caratteristico della Provenza. Il paese era un po’ in collina, e somigliava a tanti paesini caratteristici delle montagne pistoiesi, che Luigi conosceva molto bene. Nell’aria c’era un forte odore di lavanda che inebriava, e in lontananza l’immensità del mare, grigio nel buio della sera, conferiva al paesaggio un che di misterioso. La cena si protrasse fino a tardi e Luigi, che era il più giovane dei due ospiti, fu chiamato a decantare le bellezze di S. Miniato e dei paesi circostanti. Era risaputa la ione del ragazzo per la storia in generale, ma soprattutto per la storia locale. Le domande alle quali Luigi fu chiamato a rispondere furono le più disparate, ma il ragazzo se la cavò ottimamente, confermando di meritare senz’altro quel soggiorno premio. Al mattino Magalì, che aveva qualche anno più di Luigi, lo attendeva in giardino appoggiata ad una cinquecento blu, ultimo modello. Il ragazzo era ancora assonnato a causa della notte un po’ agitata; per la prima volta in vita sua, aveva dormito da solo in una camera tutta per sé. Molte volte, in quella notte insonne, il pensiero era corso a casa; aveva rivisto i suoi fratelli e i suoi genitori in procinto di coricarsi. Anche nel nuovo alloggio popolare le stanze erano insufficienti per le esigenze di una famiglia numerosa come la sua. Prima di partire aveva fantasticato sulla vacanza imminente in terra di Francia, ospite delle famiglie più in vista di Brignoles. Ora poteva constatare di persona la differenza che esisteva fra la sua condizione e quella dei suoi coetanei
appartenenti alle famiglie del ceto medio-alto. Quasi per stemperare un certo moto d’invidia che lo stava prendendo, cercò di convincersi che in Italia le differenze non erano così marcate come in Francia. In fin dei conti poteva ritenersi fortunato per avere avuto l’opportunità di vivere quell’esperienza. Salutò Magalì, e prese posto sulla petite voiture, come la chiamava lei. Con una doppietta, eseguita con discreta professionalità dalla ragazza, la cinquecento si diresse sicura verso la villa dove era ospitato Andrea. Consumata una abbondante colazione a base di ghiottonerie del posto, i ragazzi salutarono gli adulti, e arono a prendere Martine, che era in attesa sul cancello della propria villa. La destinazione di giornata era Antibes Juan le Pin, una ridente località sulla costa che sarebbe stata raggiunta in pochi minuti di macchina. In quel posto, incastonato in uno scenario incredibile, con delle spiagge di sabbia finissima, Magalì possedeva una casa tipica delle località di mare, che al posto del tetto aveva una grande terrazza. Di giorno si poteva curare l’abbronzatura, e la sera ci si poteva ritemprare all’aria fresca, portata dalla brezza che veniva dal mare. La giornata ò velocemente; Magalì era una ragazza dalle mille iniziative, e i due ragazzi ancora un po’ frastornati, per il viaggio e tutto il resto, non avevano potuto manifestare le proprie preferenze in tema di località da visitare. Andarono alla spiaggia, dove l’accesso era libero, piazzarono gli ombrelloni, e si stesero a crogiolarsi al sole della Costa Azzurra. Si trattennero fino al primo pomeriggio, e stanchi per il bagno e le corse sul bagnasciuga, ritornarono a casa per mangiare, fare una sosta, e prepararsi per il resto della giornata. Avevano programmato di visitare Arles, che non era troppo distante, e la raggiunsero a metà del pomeriggio. Magalì guidava con perizia la Peugeot 504 del babbo, che aveva preso al posto della petite voiture, per quel viaggio un po’ più impegnativo. Quando arrivarono sul posto, Luigi rimase affascinato alla vista delle antiche
vestigia che testimoniavano la presenza dei romani al tempo dell’occupazione della Gallia. L’acquedotto su più arcate, le strade consolari, l’arena, il teatro romano; tutto in quella città, molto importante al tempo dell’antica Roma, ricordava l’Italia e Luigi si sentiva in quei momenti un po’ meno straniero. I giorni avano in fretta, e fra una puntata a Cannes e una sosta a S. Tropez, i ragazzi poterono apprezzare i costumi, gli usi e le tradizioni del Midi se e della Provenza. La compagnia di Magalì e Martine aveva reso la vacanza più spensierata di quanto i ragazzi si aspettassero. Le ragazze si avevano un atteggiamento più moderno e disinibito delle loro pari età italiane, e questo rendeva tutto più facile e spontaneo. La vacanza purtroppo volò via con la velocità del vento, e dopo le cerimonie di saluto e i convenevoli di rito, i ragazzi fecero ritorno a casa. Era un giorno feriale e la mamma si era portata alla stazione di S. Romano con la bambina più grande ad aspettare il ritorno del figlio. A quel tempo il telefono non era diffuso e, salvo alcune eccezioni, si telefonava dal posto pubblico. In quelle due settimane i ragazzi non avevano mai comunicato con le rispettive famiglie, e quindi avevano un sacco di cose da raccontare ai genitori e ai fratelli. Giunto a casa Luigi fu attorniato da tutta la famiglia che, attenta, stava ad ascoltare il ragazzo in un silenzio quasi religioso. Alla fine di quell’assedio carico di affetto, la mamma con gli occhi lucidi, dai quali scendevano lacrime di gioia, si avvicinò al figlio e gli mostrò i giornali locali che in quei giorni avevano dato conto, con dovizia di particolari, della vacanza in Francia. Nei giorni seguenti Luigi, come sempre ben consigliato dalla mamma, si recò all’ospedalino per ringraziare il dottor Camiciottoli. Era stato lui che, spendendosi in prima persona, gli aveva dato l’opportunità di poter vivere quell’esperienza che lo aveva arricchito oltre le più rosee aspettative.
XIV Capitolo Anche quell’estate era trascorsa e la riapertura delle scuole era alle porte; come ogni anno si riproponevano inalterati tutti i problemi che si dovevano affrontare alla vigilia. Per chi frequentava l’istituto tecnico industriale, la terza era uno snodo decisivo, perchè si doveva scegliere la specializzazione. Luigi non ebbe dubbi e scelse la specializzazione in elettronica, materia con la quale aveva un po’ di dimestichezza, acquisita con la scuola per corrispondenza. Lo studio richiedeva un forte impegno e il ragazzo vi si dedicò con volontà riuscendo a conseguire, dal punto di vista del profitto, ottimi risultati. L’acquisto dei libri in materie così specialistiche quali l’elettronica, era veramente oneroso, e il ragazzo si mise alla ricerca di qualche testo usato. Riuscì a trovare alcuni testi da coloro che erano più avanti negli studi, e questo attutì non di poco la spesa che avrebbe dovuto sostenere. Le condizioni economiche della famiglia erano purtroppo inadeguate a fronteggiarele spese che la frequenza della scuola comportava; e molto spesso Luigi si domandava, col senno di poi, se il voler continuare negli studi fosse stata una scelta giusta. Nei pomeriggi liberi dalla scuola andava in barberia per guadagnare qualche soldo; erano piccole somme ma, seppur in piccola parte, alleggerivano il peso che il mantenimento agli studi del ragazzo comportava per la famiglia. Senza dubbio quegli anni erano i più difficili per la crescita del ragazzo, che s’immergeva nello studio con una determinazione sempre maggiore. Fortunatamente aveva trovato degli insegnanti che esercitavano con molto impegno la loro professione, e mettevano gli allievi nelle migliori condizioni per profittarne. La sistemazione nel nuovo alloggio al di fuori del centro storico aveva cambiato le abitudini della famiglia, anche se forse, i fratelli più piccoli, avevano a disposizione meno spazio di quanto non ne avessero nella vecchia casa.
I due stanzoni avevano se non altro soddisfatto in pieno le esigenze di muoversi e saltare, tipiche dei bambini piccoli. Fortunatamente la nuova casa faceva parte di un complesso che aveva al proprio interno uno spazio libero, nel quale i ragazzi si potevano dedicare ai giochi più diversi, lontano dai pericoli. Tutt’intorno era ancora campagna, e la mamma si raccomandava con i più piccoli, perché non si allontanassero troppo. L’Arno era vicino e sarebbe stato facile incorrere in qualche brutta avventura. La zona dove era ubicata la nuova casa di Luigi era conosciuta dagli abitanti del borgo come S. Martino. Si estendeva fra l’argine dell’Arno e la via provinciale sca, e in quegli anni viveva uno sviluppo edilizio frenetico. Era un continuo susseguirsi di cantieri per la costruzione di nuove case, e questo faceva presupporre che nel giro di pochi anni la zona si sarebbe saturata. Gli abitanti del borgo avevano fatto le proprie scelte e, inconsapevolmente, erano andati ad insediarsi laddove anticamente era situato il villaggio di S. Martino in Catiana, che avrebbe dato origine, insieme ad altri tre villaggi, al nucleo originale del castello. Nel corso degli scavi delle fondamenta per la costruzione delle nuove case, eseguiti a quel tempo rigorosamente con la vanga ed il piccone, erano venuti alla luce i resti di vecchi insediamenti urbani. Molti curiosi si attardavano per avere notizie di prima mano sul ato, testimoniato dagli oggetti che si rinvenivano. Nella maggior parte dei casi erano oggetti che raccontavano della vita semplice che si svolgeva anticamente in quei luoghi; vecchi frammenti di vasi di ceramica, e qualche piatto, niente di particolare valore storico o di qualche interesse archeologico. Tuttavia questi reperti costituivano la prova inoppugnabile di un legame con il ato. Un giorno si ritrovarono molti scheletri, quasi perfettamente intatti, che furono accantonati in un’area immediatamente approntata; erano quasi sicuramente le tombe di un importante convento che anticamente si trovava in quei luoghi. La diaspora delle famiglie del vecchio borgo, che andavano ad insediarsi nelle nuove zone residenziali, proseguiva senza soluzione di continuità; anche la
banca e la farmacia si erano insediate al di fuori del centro storico, al di là delle vecchie mura. La “casa del popolo”, che era ubicata al primo piano dell’edificio dove abitava la famiglia di Luigi, fu costruita ex-novo lungo la strada provinciale per S. Maria a Monte, e dotata di un pallaio dove finalmente gli anziani, ma non solo, avrebbero potuto giocare alle bocce. In quegli anni furono demoliti anche i vecchi chiesini: quello di S. Rocco all’altezza di via Quarterona, e quello della Marginetta lungo via Usciana. Da sempre i due chiesini erano stati punto di arrivo delle processioni religiose, che la parrocchia organizzava nelle feste più importanti. Famosa, e di grande richiamo, era la festa del Corpus Domini; in quell’occasione le vie principali del borgo erano tutte tappezzate di petali di rosa, e alle finestre si appendevano drappeggi colorati che segnavano l’itinerario della processione. Anche quella usanza, come tante altre, veniva pian piano abbandonata, e il paese non sembrava veramente più lo stesso. Quando Luigi attraversava le vecchie strade del centro storico, per andare a lavorare in barberia, o per recarsi a qualche adunanza dell’azione cattolica, veniva preso da un senso di malinconia nell’udire il suono delle campane della vecchia torre che scandivano le ore, o suonavano l’or di notte. Erano rumori e suoni che l’avevano accompagnato per tutta la sua infanzia e che ora, da quando abitava fuori del castello, non rientravano più nella sua quotidianità. Molto spesso da ragazzo, insieme ad altri chierichetti, aveva avuto il permesso di raggiungere la torre campanaria dove il vecchio Tomme suonava le campane. Come gli altri, tenendosi ben stretto con le mani alla corda che comandava la campana, si era lasciato trasportare da una parte all’altra della vecchia torre campanaria, e aveva gettato lo sguardo sui tetti delle vecchie case, e sulle colombaie, dove le donne avevano steso i panni ad asciugare. Era un panorama che toglieva il fiato, mostrava un borgo che da sotto si poteva soltanto immaginare. Purtroppo di lì a poco, le campane vennero elettrificate, e si potevano comandare comodamente con dei pulsanti, da un quadro sistemato nella sagrestia della collegiata. Il vecchio Tomme fu collocato in pensione e i ragazzi persero per sempre la possibilità di salire sulla vecchia torre.
Anche la campagna aveva mutato i suoi ritmi. Molti figli dei contadini avevano scelto di occuparsi nelle nascenti industrie, che gli garantivano un guadagno più importante di quello che gli avrebbe procurato il lavoro duro nei campi. Il tessuto sociale all’interno e all’esterno del vecchio borgo si stava veramente trasformando. Con un’espressione molto cara ai sociologi, si sarebbe detto che era in atto una vera e propria mutazione genetica. In questo contesto la vita di Luigi continuava con i soliti ritmi; l’impegno della scuola, l’impegno del lavoro, e l’accresciuta consapevolezza che era doveroso impegnarsi sempre più direttamente perché le cose cambiassero.
XV Capitolo I primi anni Sessanta erano fucina di grandi cambiamenti non solo per l’Italia ma per il mondo intero. Negli Stati Uniti con la presidenza di J.F. Kennedy si stava imponendo la politica della nuova frontiera, e grazie anche all’intervento del Pontefice Giovanni XXIII, era stata scongiurata in extremis la Terza Guerra Mondiale. Il nuovo Papa aveva ridato impulso al cattolicesimo, in fase di stanca, cercando di avvicinare sempre di più la Chiesa ai fedeli. In questa ottica, aveva sfrondato il cerimoniale di tutti quegli orpelli che per secoli lo avevano caratterizzato. La chiesa aveva bisogno di aprirsi al mondo dei credenti e dei non credenti in forme nuove, e senza le mediazioni delle gerarchie; serviva uno shock, e il Papa, che non era un uomo di mezze misure, pensò bene di indire un concilio vaticano. L’assise si svolse a Roma, all’interno della basilica di S. Pietro, e coinvolse circa tremila vescovi accorsi da ogni parte del mondo. Anche l’Italia, che nel frattempo viveva il suo boom economico, doveva fronteggiare problematiche irrisolte che lo sviluppo tumultuoso di quegli anni aveva fatto emergere. Gli squilibri fra nord e sud del paese, anziché ridursi, si erano dilatati, e avevano messo a nudo l’incapacità dei governi che si erano succeduti fin dal dopoguerra, nel fronteggiare le nuove situazioni. Nacquero nuovi equilibri politici, e per la prima volta al governo dell’Italia fu chiamato anche un partito che aveva come priorità la rappresentanza delle istanze del mondo del lavoro, il Partito Socialista. La nuova coalizione di governo si insediò suscitando grandi aspettative nel paese, sulla scorta dell’annuncio di un programma di grandi riforme. Una delle più importanti, senza dubbio, era la nazionalizzazione dell’energia elettrica. In questo campo i gruppi privati avevano fatto il bello e il cattivo tempo, con strategie mirate quasi esclusivamente a conseguire il più alto profitto. Grandi zone del paese non erano servite dall’energia elettrica; e anche nelle campagne della Toscana non era difficile imbattersi in realtà dove si usavano ancora le candele o i lumi a petrolio.
Anche la scuola era un obiettivo strategico del nuovo governo, che considerava l’emancipazione delle classi meno abbienti, un pilastro per conseguire uno sviluppo duraturo e non effimero. Fu istituita la scuola media unica, e l’obbligo scolastico fu portato a quattordici anni. Questo fatto costituiva di per sé una grande rivoluzione, perché si sanciva per legge che un ragazzo non potesse lavorare prima di aver compiuto il quattordicesimo anno di età. Era uno smacco a tutti coloro che, approfittando delle maglie larghe dei controlli delle autorità scolastiche, avevano sfruttato l’occupazione minorile. Il paese, che nell’immediato dopoguerra aveva dovuto contrattare con il Belgio una determinata quantità di manodopera, in cambio del carbone necessario alle nostre industrie, stava diventando una realtà dove si mettevano in campo anche strumenti di tutela per le classi più umili. Si erano uniti in coalizione i rappresentanti di una concezione laica della politica e i propugnatori della dottrina sociale della chiesa; dottrina che alcune tesi discusse nel concilio vaticano secondo, avevano reso di nuovo attuale. Gran parte del paese sembrava riconoscersi in questa politica nuova, ma non mancava l’opposizione dura dei partiti della sinistra radicale che, in ossequio alla divisione del mondo in due blocchi contrapposti, si auguravano che il comunismo trionfasse anche da noi. I tragici fatti di Ungheria del ’56 non avevano insegnato proprio niente; la pianta del riformismo stentava ad attecchire, in un paese ancora alle prese con una contrapposizione feroce tra fazioni. Le posizioni delle due parti, anche di fronte a certi aggi cruciali della storia, erano rimaste ostaggio delle proprie convinzioni, del proprio credo, e praticavano solo un’autoreferenzialità che non portava a nessun risultato concreto. In questo scenario, per la verità non troppo edificante, i ragazzi come Luigi cercavano punti di riferimento che, generalmente, non trovavano. Il nuovo veniva solo dall’esterno: dall’Europa più sviluppata o dagli Stati Uniti d’America. Nei bar del centro i juke-box la facevano da padrone, e anche il gruppo di
ragazze e di ragazzi che frequentava Luigi, nelle sere dell’estate si riuniva attorno a questi apparecchi per ascoltare i motivi più in voga. Ogni tanto qualcuno del gruppo, che disponeva di una casa più spaziosa, organizzava delle feste, per assecondare le nascenti simpatie sbocciate fra alcuni ragazzi, o per ritrovarsi tutti assieme a festeggiare qualche ricorrenza. Ma anche questa usanza aveva i giorni contati; lungo la via del ponte, proprio nel punto dove prima della guerra c’era la trattoria di Primetta, era stata aperta una moderna sala da ballo: la Sirenetta. Il prezzo del biglietto per entrare nella sala era proibitivo per le tasche di Luigi; ma il ragazzo, grazie al fatto che lo zio vi lavorava come cameriere di servizio ai tavoli, qualche volta aveva libero accesso alle serate. Gli artisti più in voga a quel tempo si esibivano sul palco della Sirenetta, e gli spettacoli riscuotevano sempre un grande concorso di pubblico, perché il locale era uno dei pochi di quel genere, nel raggio di molti chilometri. Lo zio teneva in alta considerazione il nipote; conosceva da vicino i sacrifici che la famiglia sopportava per farlo studiare, e così tutte le volte che era possibile lo aiutava, per non farlo sentire a disagio nei confronti dei compagni. Il ’63 declinava verso la fine e dopo la morte di Giovanni XXIII, il “Papa buono”, un altro avvenimento avrebbe contribuito a mettere in serio pericolo l’ordine mondiale che si era determinato con la fine della guerra. In un attentato, la cui matrice era parsa da subito indecifrabile, venne assassinato il presidente americano Kennedy. Fu un duro colpo per un mondo diviso praticamente a metà, che si reggeva sull’equilibrio del terrore. Un equilibrio conseguito soltanto con il ricorso sempre più massiccio alla produzione di armamenti nucleari. Dopo i primi esperimenti si era aperta fra le due superpotenze, U.S.A. e U.R.S.S., una gara per la conquista dello spazio, che andava avanti senza esclusione di colpi. Ingenti somme erano investite per la costruzione di missili intercontinentali, che avevano lo scopo dichiarato di trasportare un domani l’uomo nelle parti più remote del cosmo. In realtà tutti sapevano che la gara era finalizzata alla supremazia del controllo
dello spazio. Proprio in quei giorni l’opinione pubblica fu sconvolta da un altro tragico avvenimento: il disastro della diga del Vajont. Si contarono migliaia di vittime e interi paesi furono sommersi dal fango e cancellati dalla carta geografica. La superficialità dell’uomo, nel procurare ferite all’ambiente, presentava ancora una volta il conto.
XVI Capitolo All’interno dell’azione cattolica si era costituito un gruppo molto affiatato che non mancava certamente di proposte e d’iniziative, che il nuovo parroco cercava di are al meglio. Le novità che il Concilio dibatteva sul nuovo catechismo, le esperienze pastorali di alcuni parroci come don Milani, e la nuova centralità dei laici all’interno della Chiesa, avevano attivato un dibattito ampio che riguardava i cattolici impegnati. I giovani erano i più fervidi sostenitori dei cambiamenti in atto, e il loro entusiasmo vinse facilmente le resistenze e i dubbi degli adulti, ancora prigionieri degli schemi del ato. Il gruppo di cui faceva parte anche Luigi era composto da ragazzi e ragazze che per la prima volta riuscivano a lavorare insieme; senza le distinzioni di genere che in ato, molto spesso, avevano frenato sul nascere qualsiasi iniziativa. Il nuovo arciprete aveva portato con sé un vecchio ciclostile a rullo che usava nella parrocchia da cui proveniva; lo mise a disposizione dei ragazzi perché potessero realizzare un desiderio che tante volte avevano espresso: la redazione di un giornalino parrocchiale da distribuirsi durante le celebrazioni della domenica. Il tempo per prendere dimestichezza con l’apparecchio fu brevissimo, e il giornale prese vita nel volgere di un paio di settimane. Si chiamava “Il Papiro” e aveva preso il nome dalle iniziali dei suoi redattori, che s’impegnarono in quel compito in piena autonomia e consapevoli che a quel tempo vigeva ancora la censura. Purtroppo questioni burocratiche, attinenti le autorizzazioni necessarie per la stampa, frenarono lo slancio dei ragazzi che dopo alcuni numeri dovettero chiudere la pubblicazione. Ma, come detto, i ragazzi non mancavano d’iniziativa; nonostante la mancanza di un teatro, perché l’unico esistente era stato adibito ad aula della nascente scuola media, decisero di mettere in scena una commedia per festeggiare, come avveniva un tempo, il carnevale. Fu scelto un testo abbastanza impegnativo ma brillante, “la zia di Carlo” di Thomas Brandon. A quel punto mancava solo un piccolo dettaglio: il teatro.
Grazie alle conoscenze dell’arciprete fu messo a disposizione dei ragazzi un vecchio magazzino, situato nel complesso del mulino del Duranti, accanto alla piazza nova. Si dovette lavorare sodo, ma alla fine il locale, con il suo palco e le sue scene, sembrava proprio un teatro vero. Lo spettacolo riscosse gli applausi del pubblico presente, costituito in prevalenza dai parenti e dagli amici degli attori. Nel vecchio borgo, o meglio appena fuori delle mura, dopo tanto tempo si era fatto di nuovo teatro. L’impegno del gruppo procedeva senza sosta in tutte le direzioni, e cominciò a circolare l’idea di preparare un carnevale dei bambini che non si limitasse alle solite maschere, ai coriandoli, e alle stelle filanti. Furono realizzati, con la cartapesta, alcuni personaggi che primeggiavano nei fumetti del tempo, e furono fatti sfilare nelle vie del centro storico, fino alla piazza del comune. La fatica era stata molta, ma il risultato era stato gratificante a tal punto, da far dire a qualcuno che il carnevale del vecchio borgo aveva avuto un nuovo inizio. Queste esperienze di lavoro di gruppo cementarono ancora di più la voglia di stare insieme dei ragazzi e delle ragazze; offrivano la possibilità di confrontarsi sui temi più disparati e, se necessario, anche di scontrarsi. L’opera di apostolato, come si diceva a quel tempo, ne guadagnò sicuramente, e anche il parroco poteva guardare al futuro con fiducia e ottimismo. Per Luigi e gli altri componenti del gruppo fare apostolato significava non solo organizzare la vita all’interno dell’azione cattolica, e mettere in campo sempre nuove iniziative; significava soprattutto dare testimonianza di come un giovane impegnato doveva calarsi nella realtà che lo circondava. E la realtà del borgo offriva uno scenario contraddittorio. Alle classi agiate che per anni avevano dominato la scena, recitando un canovaccio ormai sperimentato, non si era ancora sostituita una classe dirigente, espressione della realtà imprenditoriale che si andava sviluppando sempre di più. La vecchia organizzazione, che prevedeva da una parte i proprietari, neanche tanto illuminati, e dall’altra i sottomessi senza alcuna voce in capitolo, non era ancora stata disarticolata, e il nuovo stentava ad affermarsi. L’industria calzaturiera, che costituiva la risorsa principale del paese, era parcellizzata in una miriade di attività; ogni spazio del vecchio borgo era saturato da piccole e piccolissime aziende di lavorazioni per conto terzi:
tomaifici, tacchifici, solettifici, trancerie, ecc. In ogni casa, le donne, nel tempo libero dalle faccende domestiche, aggiuntavano tomaie o masticiavano soletti; spesso in disprezzo delle più elementari norme a tutela della salute. Anche i bambini, ignari, vivevano in quelle vecchie case, dalla salubrità già di per sé problematica, a contatto con collanti e solventi di ogni tipo. Era il prezzo che si doveva pagare al progresso e alla diffusione di un certo benessere nella maggior parte delle famiglie che abitavano il borgo. Tuttavia, salvo alcuni marchi che si erano affermati anche sui mercati esteri dell’Europa e degli Stati Uniti, la maggior parte delle aziende producevano modelli imposti dalle compagnie che commercializzavano il prodotto; non avevano insomma un know-how che li caratterizzasse. In queste condizioni, in cui il profitto era l’unica stella polare che guidava la maggior parte degli imprenditori, non si sarebbero certamente creati i presupposti per far sì che lo sviluppo fosse duraturo e non effimero. Di fronte alle prime difficoltà del mercato i committenti avrebbero sicuramente rivolto l’attenzione ad altri paesi che potevano garantire un ritorno, in termini di profitto, che la realtà del borgo non poteva più garantire. Le aziende potevano contare su una manodopera a buon mercato, proveniente dalla campagna che si stava progressivamente spopolando, o dai paesi del sud che venivano abbandonati da decine di famiglie in cerca di un futuro migliore. Alcuni paesi della provincia campana erano oggetto di un flusso migratorio continuo verso il vecchio borgo; talvolta transitando nelle vie del centro storico, o sostando nella piazza principale dove si discuteva di tutto, sembrava di essere nel bel mezzo di un paese della provincia di Benevento o di Avellino. Raffaele era stato uno dei primi immigrati, giunto al vecchio borgo nel lontano ’44, non per scelta, ma per cause di forza maggiore. Non era più da considerarsi un’eccezione; trovarsi fianco a fianco con un immigrato era la regola.
XVII Capitolo In famiglia si sperava che l’anno nuovo portasse buone nuove, ma soprattutto mantenesse in salute tutti i componenti. La coesistenza nel piccolo appartamento non era delle più semplici, ma ognuno si stava ritagliando un piccolo spazio privato, dove si dedicava ai atempi preferiti. Il babbo si dedicava sempre di più all’orto; dopo averla vangata, lasciava la terra a maggesare per un po’, e quando valutava che essa fosse in tempera, vi seminava le varie specie di colture. Seguiva con scrupolo e precisione le indicazioni che ortolani esperti come Marino di Giovacco o Pasquale gli davano. Luigi e il fratello maggiore si dividevano la cantina per dedicarsi alle rispettive ioni: l’elettronica e i motori. In casa, come in tante altre famiglie, era arrivata la televisione, e per alleviare le fatiche della mamma era arrivata la lavatrice. I panni da lavare erano tanti in una famiglia composta da sette persone. A Luigi venivano in mente le eggiate in campagna con il nonno, dove qualche volta si era trovato a tu per tu con le donne che facevano il bucato. Queste riempivano i pilloni con grandi tinozze di acqua bollente, e trattavano le lenzuola con un prodotto che chiamavano “Turchinetto”, che serviva per dare un che di fragranza e di pulito al bucato. Alla fine il bucato, dopo essere stato strizzato a dovere, veniva steso ad asciugare in fondo all’aia, su dei fili appositamente predisposti. Certe volte il nonno recapitava ai contadini i vestiti confezionati in concomitanza dei giorni in cui, in campagna, si ammazzava il maiale. L’animale era stato tenuto tutto l’anno rinchiuso nel suo castrino, e “governato” perché crescesse sano e non troppo abbondante di grasso.Nel mese di gennaio il povero animale veniva abbattuto, e per alcuni giorni le sue carni venivano lavorate con un rituale che i contadini si erano tramandati di padre in figlio. Dopo essere stato depilato con dei coltelli affilatissimi, l’animale veniva issato al soffitto della cantina dove canapi robusti lo sorreggevano a testa in giù. A quel punto si procedeva alla dissezione, e con uno squarcio che lo apriva in
due, dalla testa fino alle gambe posteriori, si svuotava l’animale di tutti gli organi interni e dell’intestino. Quindi si lavava con acqua bollente e si lasciava per un po’ appeso affinchè il sangue sgrondasse in un recipiente appositamente preparato. Il sangue raccolto sarebbe stato messo da parte per preparare il mallegato (insaccato tipico toscano fatto con sangue di maiale filtrato , uvetta, ecc.). Era il momento dell’intervento del “norcino”, figura importante nella lavorazione del maiale. Egli divideva con perizia la carcassa, ritagliando i prosciutti, le spalle, le gote e le rosticciane, che venivano disposte su dei tavoli per la salatura e la drogatura. La carne veniva spezzettata e messa a cuocere in grandi bollitori, per essere pronta alla preparazione dei fegatelli. Questi venivano preparati con cura, infilando su rami di finocchio selvatico pezzetti di arista intercalati da un pezzetto di fegato. Il tutto veniva poi messo in recipienti di cotto insieme al lardo ricavato dal grasso dell’animale. Il resto delle frattaglie veniva fatto bollire a lungo, e alla fine mescolato con le spezie preparate e miscelate con cura dal norcino. L’impasto era pronto per dar vita ad una gustosa soppressata. A parte si preparavano anche dei gustosissimi salami, che insieme ai prosciutti, alle spalle e ai rigatini, venivano lasciati a stagionare nella cantina. La salatura delle spalle, dei prosciutti e del rigatino competeva d’obbligo al norcino, ed era un’operazione molto delicata, da effettuarsi con perizia, pena il decadimento del preparato. Infine si riempivano con la carne più prelibata dei budelli, lavati in precedenza; e dopo averli legati ad intervalli regolari con dello spago, si ottenevano delle gustose salsicce. Alla fine della lavorazione dell’animale si faceva un grande pranzo con tutti quelli che avevano partecipato. Molto spesso al nonno veniva regalato un tegame di fegatelli particolari, fatti senza fegato, di cui Luigi era molto ghiotto. Al ritorno, con la mano stretta in quella del nonno, il ragazzo ripensava a tutte quelle cose che imparava quando lo accompagnava da qualche parte, e lo ringraziava per tutto quello che riusciva a scoprire ogni volta che uscivano insieme.
I suoi amici, che non si muovevano quasi mai dal borgo, non avevano certo queste opportunità.
XVIII Capitolo Tra i ragazzi dell’azione cattolica le discussioni erano all’ordine del giorno; si dibatteva su qualsiasi argomento: di scuola, di religione, di musica, di sport, e persino di politica. Luigi partecipava attivamente a queste discussioni, e nonostante fosse tra i più giovani, cercava sempre di analizzare i problemi nei loro diversi aspetti, compresi quelli più difficili da accettare. Molto spesso infatti le riunioni gli sembravano una presa d’atto della realtà esistente, che doveva essere considerata ineluttabile. Il ragazzo era invece dell’opinione che l’impegno doveva essere più concreto, finalizzato a rimuovere gli ostacoli, che soprattutto i più deboli e indifesi trovavano sul loro cammino. In questo modo, inconsciamente e senza preconcetti, i ragazzi incominciavano a fare politica. Le divaricazioni all’interno del gruppo su alcune tematiche importanti di quegli anni: la guerra, la non violenza, il collateralismo, non si potevano ridurre a posizioni personali sulle quali si poteva anche dissentire. Investivano problematiche di carattere generale, e i ragazzi erano nell’impossibilità di trovare un punto d’incontro su visioni del mondo e della società che erano all’antitesi. Luigi era sempre più attratto dalle posizioni di don Milani, figura di prete invisa alle gerarchie ecclesiastiche del tempo, che con la pubblicazione di “Esperienze pastorali” e “L’obbedienza non è più una virtù” aveva squarciato il velo di conformismo e d’ipocrisia che per tanti aspetti permeava la società italiana. Le problematiche affrontate dal Priore di Barbiana nei suoi scritti, i gesti clamorosi di disobbedienza civile, erano così attuali che il ragazzo non poteva fare a meno di identificarsi sempre di più in quelle posizioni. La scuola, un tempo prerogativa quasi esclusiva delle classi più abbienti, con l’istituzione dell’obbligo scolastico fino a quattordici anni, doveva diventare veramente una palestra dove ciascuno, indipendentemente dalla sua estrazione sociale, avrebbe potuto misurarsi con gli altri, ad armi pari. Questi concetti attraversavano come un vento inarrestabile la società nel suo
complesso, e il mondo della scuola in particolare. L’ingresso nella scuola di enormi masse di ragazzi, che fino a quel tempo erano state di fatto escluse, mise in discussione anche i criteri di selezione praticati dai docenti. Cominciavano a farsi strada anche criteri di valutazione che non si fermavano alla verifica dell’apprendimento di determinate materie; si considerava finalmente anche il contesto nel quale lo studente era vissuto e continuava a vivere. Il sapere non doveva essere, come era stato per tanti anni, uno strumento per accrescere le diversità, ma un volano per moltiplicare le opportunità. Tanti ragazzi non avevano proseguito negli studi non solo perché non avevano le possibilità materiali di farlo; spesso la famiglia di appartenenza aveva considerato quasi naturale che il figlio del contadino o dell’operaio dovesse fare il contadino o l’operaio. Era stato così da sempre, e l’ascensore sociale sembrava essere precluso ai più. Ma il mondo stava cambiando e l’impatto delle grandi migrazioni dal sud verso il nord era destinato a smantellare un sistema che per decenni era sembrato inattaccabile. Era il tempo dei Beatles, di Bob Dylan, di Martin Luther King, della guerra del Vietnam, dell’obiezione di coscienza; non si poteva far finta di niente, non si poteva non tenerne conto. All’interno di questo nuovo modo di vedere le cose, che metteva in discussione concetti che sembravano immutabili, che imponeva a ciascuno di preoccuparsi per quanto di sua competenza, ribaltando il concetto del “me ne frego” d’infausta memoria, i ragazzi del borgo continuavano ad impegnarsi con una determinazione ancora più forte nelle attività del gruppo. Quell’estate Luigi ritornò a Gavinana in qualità di delegato. La responsabilità di dover sorvegliare altri ragazzi, poco più giovani di lui, lo rendeva allo stesso tempo fiero di essere stato scelto per quella funzione, e preoccupato per le responsabilità che il ruolo comportava. Fortunatamente la vacanza in montagna trascorse senza inconvenienti, e durante il viaggio di ritorno Luigi poteva concludere ragionando fra sé e sé, che anche quella esperienza era stata superata a pieni voti. L’anno scolastico si era concluso con la promozione alla classe successiva, e
c’era da cominciare la solita ricerca dei libri di testo usati e di tutto ciò che poteva servire per risparmiare sui costi.
XIX Capitolo In famiglia se ne discuteva da qualche tempo, perché l’organizzazione del viaggio non era delle più semplici. Spostare una famiglia, con dei bambini ancora molto piccoli, da un capo all’altro della penisola, non era cosa di tutti i giorni. Raffaele si trovava a suo agio nel programmare nei minimi dettagli i viaggi in treno; lo aveva fatto in gioventù, lo aveva fatto all’indomani della fine della guerra con la rete ferroviaria praticamente distrutta, e lo aveva fatto altre volte per andare a fare visita alla mamma lontana. Nel periodo delle feste di Natale, le ferrovie dello stato avevano attivato delle promozioni speciali, per favorire il ritorno ai paesi di origine dei tanti emigrati che avevano lasciato il sud per cercare lavoro al nord o in altri paesi europei. Inoltre c’era un ulteriore sconto famiglia, e quindi in definitiva il costo del viaggio sarebbe stato accessibile. Fu così deciso che tutta la famiglia avrebbe ato le festività del Natale a Torre Annunziata, città natale di Raffaele. Si partì dalla stazione di S. Romano la mattina molto presto. Il freddo di dicembre si faceva sentire, ma Luigi, coperto dal suo bel cappotto nuovo, ultimo modello, non se ne curava; cercava di rendersi utile il più possibile per aiutare i genitori alle prese con i bisogni anche elementari dei figli piccoli. Giunti alla stazione di Pisa tutti salirono sul treno diretto a Roma, e con qualche difficoltà trovarono posto in uno scompartimento libero da altri eggeri. A Roma avrebbero preso la coincidenza per Napoli da dove, con la Circumvesuviana, avrebbero raggiunto finalmente Torre Annunziata. Era la vigilia di Natale e il sole che tramontava sul mare, in fondo all’orizzonte, conferiva al paesaggio uno scenario incredibile. Il mare che costeggiava il percorso del piccolo treno si confondeva nei colori rosso porpora del tramonto. Luigi non aveva mai visto niente di simile, in quella stagione, al vecchio borgo.
Scesi dal treno, Raffaele con Maria e i ragazzi, s’incamminarono con decisione verso il corso principale della città. La strada s’insinuava in un dedalo di case, e con un andamento rettilineo, intervallato da salite e discese, andava verso il centro. Il tragitto da percorrere stava mettendo alla prova anche la resistenza di Raffaele, che doveva sobbarcarsi quasi per intero il peso dei bagagli. La casa di Clotilde, questo era il nome della nonna del ragazzo, era al piano terra di un palazzo situato all’interno di una corte, alla quale si accedeva tramite una porta altissima modellata ad arco. Probabilmente, in ato, doveva essere stata la porta d’ingresso di uno di quei palazzi signorili che erano ancora dislocati tutt’intorno alla corte. L’accoglienza dei “nipoti toscani” fu molto calorosa, e dopo i convenevoli di rito si entrò in casa. L’abitazione era composta da alcune stanze ricavate dall’unione di alcuni caratteristici bassi napoletani; da uno di questi ambienti si poteva accedere ad un orto-giardino, dove per la prima volta Luigi vide i fichi d’India che, liberati dalla buccia piena di spine, erano davvero molto gustosi. Quando tutti furono sistemati nello stanzone che era stato scelto come camera degli ospiti, ai ragazzi più grandi fu permesso di andare nella chiostra con i cugini e i loro compagni di giochi. I ragazzi parlavano in dialetto e Luigi, nonostante gli forzi che faceva, non riusciva proprio a capirli; alla fine, dopo aver chiesto più volte l’aiuto dei cugini, si convinse che forse sarebbe stato meglio rispondere sempre “sì”, quando veniva chiamato in causa. Le sorelle di Luigi erano rimaste in casa con la mamma e la nonna, che si coccolava le nipotine di cui si ricordava a malapena; le aveva conosciute in occasione dell’unico viaggio che aveva fatto in Toscana, anni addietro. Nel locale adibito a sala da pranzo fervevano i preparativi per il cenone di Natale, che da quelle parti si teneva alla vigilia. Le donne erano indaffarate intorno ai fornelli, e le attenzioni maggiori erano per la preparazione del “capitone”, piatto tipico della tradizione napoletana, che veniva consumato nel periodo natalizio. La leggenda raccontava che mangiare il capitone esorcizzava il male. Il piatto era prelibato, e durante la cena tutti lo richiesero più volte; anche Luigi,
che non era di grande appetito, l’assaggiò, e quella fu la prima e l’ultima volta che avrebbe mangiato le anguille. La cena si protrasse a lungo, fino a sera inoltrata, e le portate sembravano non finire mai. Dopo aver salutato gli altri parenti che nel frattempo erano sopraggiunti, i ragazzi, finalmente, andarono a letto. Al centro della stanza nonna Clotilde aveva sistemato un grande braciere, come quello che Maria preparava quando la famiglia abitava ancora nel vecchio borgo. La mattina seguente, dopo colazione, Luigi, in compagnia dei cugini, salì fin quasi al cratere del Vesuvio; voleva vedere da vicino il vulcano, che solo pochi anni prima si era destato dal suo sonno apparente, e con una tragica eruzione aveva provocato distruzione e morte. A quella vista Luigi provò a immaginare l’eruzione, che nel 79 dopo Cristo, aveva sommerso le città di Pompei ed Ercolano. Ora le due città erano state riedificate accanto agli scavi archeologici, e si espandevano a vista d’occhio, come se dovessero portare avanti una sfida secolare con il gigante addormentato. Nei giorni seguenti i ragazzi visitarono gli scavi delle antiche città distrutte dall’eruzione, e si soffermarono soprattutto a visitare l’antica villa di Oplonti, che si diceva fosse stata la residenza di Poppea Sabina, seconda moglie di Nerone. Torre Annunziata era sorta dove un tempo era ubicata la città di Oplonti, ed era un porto abbastanza importante inserito nel golfo di Napoli. Luigi, durante una visita al porto, era rimasto colpito dai ragazzi del posto, che dalle banchine si tuffavano con sicurezza e riemergevano dopo un tempo che sembrava interminabile. Avevano in mano o fra i denti una moneta, che qualche turista, per invogliarli, aveva gettato nelle acque profonde. Forse anche il babbo quando era ragazzo aveva fatto come loro. I giorni a Torre Annunziata arono in fretta, e la vacanza volgeva al termine perché Raffaele doveva rientrare al lavoro. La famiglia era in attesa alla stazione della Circumvesuviana e Luigi gettò un ultimo sguardo a quella distesa di sabbia scura molto diversa da quella, quasi bianca, che lui aveva trovato sulla costa di Tirrenia e Calambrone, e sulla Costa Azzurra durante la vacanza premio. Quel viaggio al sud e le meraviglie che aveva potuto visitare avevano colpito profondamente il ragazzo. Quello spaccato di un’Italia ancora alle prese con una
povertà diffusa, con la mancanza del lavoro, con il degrado d’intere città ancora ferite dalle distruzioni dell’ultima guerra, aveva rafforzato la sua determinazione ad impegnarsi ancora di più, per contribuire alla soluzione di tutti quei problemi. Durante il viaggio di ritorno si poteva leggere sul volto di Raffaele una gioia intima, dissimulata; era riuscito a far ritrovare ai suoi ragazzi una parte delle loro radici, era riuscito a fargli conoscere un mondo che loro avevano solo immaginato ascoltando i suoi racconti.
XX Capitolo La vita di Luigi scorreva come sempre; la scuola, il lavoro in barberia, lo studio, e gli impegni con il gruppo nei locali dell’azione cattolica. I ragazzi stavano diventando adulti e spesso si ritrovavano al circolo ACLI, dove si giocava a carte e a biliardo,e dove spesso si discuteva di sport e di politica. Dietro l’insistenza dei ragazzi più capaci nel gioco del calcio, e con l’aiuto del nuovo cappellano, si allestì una squadra formata completamente da ragazzi del borgo. L’iniziativa riaccese la ione degli abitanti, privati da tempo della possibilità di andare al vecchio campo sportivo, a tifare per i propri beniamini. Dopo i successi degli anni Cinquanta la squadra del paese, senza i giocatori migliori che erano andati a giocare nelle categorie superiori, era regredita nel gioco e nella classifica; e non partecipava più a tornei all’altezza della sua fama. Questo tentativo di far rinascere il calcio incontrò il favore degli sportivi, e per i colori bianco-verdi si concretizzò il momento della rinascita. Molti dei ragazzi che componevano la squadra venivano dai ranghi dell’azione cattolica, e molti altri venivano dalle squadre giovanili della casa del popolo. Erano espressione dell’associazionismo di mondi contrapposti, che tuttavia avevano trovato nello sport, un modo per stare insieme e stemperare le differenze. Luigi, ripercorrendo le orme dello zio, seguiva la squadra da vicino e preparava i resoconti giornalistici che ava al corrispondente di un giornale locale. La fisionomia del centro storico cambiava soprattutto nelle botteghe, nei negozi e anche nei bar. Le vetrine esponevano merce che anni addietro non avresti certamente trovato; vestiti firmati, scarpe di marca, e quant’altro potesse essere alla portata di una clientela, che non acquistava più solo per necessità. Le possibilità economiche delle famiglie erano aumentate, anche in virtù del fatto che molte donne si erano occupate nelle fabbriche che offrivano diverse possibilità d’impiego. Di conseguenza anche il volume degli affari dei commercianti ne aveva risentito in modo positivo. Molte famiglie possedevano l’auto, che si poteva acquistare con comode rate; e anche qualche vecchio compagno di scuola di Luigi, che non aveva proseguito
negli studi, quando i ragazzi si ritrovavano, ostentava l’ultimo modello acquistato senza troppi problemi. L’incremento esponenziale della popolazione in generale, e quella dei ragazzi in età scolastica in particolare, stava però creando un problema che si acuiva sempre di più. Come detto molte donne erano occupate nelle fabbriche, e i bambini erano affidati alle cure dei parenti, perlopiù anziani che cercavano di accudirli al meglio. Nel borgo c’era da sempre l’asilo delle suore, che per decenni aveva svolto una funzione educativa insostituibile per i bambini dai tre ai sei anni. Era un’istituzione benefica che si finanziava con le donazioni, e con una piccola retta dei genitori dei bambini che lo frequentavano.I posti disponibili erano stati, nel corso degli anni, sufficienti a soddisfare la domanda; ma con l’incremento della popolazione molte domande rimanevano inevase, e molti bambini non potevano usufruire di un servizio che, anche sotto l’aspetto pedagogico, era ormai ritenuto essenziale. L’amministrazione comunale, sollecitata da richieste sempre più pressanti, coinvolse il Provveditorato agli Studi di Pisa che reputò giuste le motivazioni addotte, e autorizzò l’istituzione della scuola materna di stato. Le tre sezioni di scuola materna, che potevano accogliere alcune decine di bambini, furono ubicate nella palazzina dell’ex ambulatorio ONMI (Opera Nazionale Maternità e Infanzia) in viale Italia. Era la prima volta nella storia del borgo che dei bambini così piccoli venivano educati da personale laico; fino a quel tempo quel compito era sempre stato svolto da personale religioso. Il contesto sociale nel giro di un decennio era andato modificandosi come non era mai accaduto nei decenni precedenti. Anche il borgo stava vivendo il suo boom, e perfino la campagna risentiva delle trasformazioni in atto. Prima dell’avvento dell’industria, la vita di chi coltivava la terra era praticamente delineata in ogni suo aspetto; la famiglia patriarcale aveva le sue gerarchie. Il capoccia, i figli maschi, le figlie femmine. Ognuno aveva il suo percorso predeterminato, ed era difficile che qualcuno potesse derogare dal solito canovaccio.
Il figlio maggiore avrebbe sostituito il babbo quando questo sarebbe divenuto troppo anziano per la conduzione del podere; ma fino a quel aggio di consegne avrebbe seguito le direttive del capoccia senza controbattere. Le figlie femmine avrebbero lasciato il podere al momento del matrimonio, per seguire il marito. Tutto insomma si ripeteva allo stesso modo da tempo immemorabile. Ora i giovani contadini non volevano lavorare più in campagna, perché sapevano dai loro amici operai, occupati nelle fabbriche, che ciò che guadagnavano non era neanche confrontabile, tanta era la differenza. E poi in campagna, come dicevano i vecchi, si lavorava da sole a sole, cioè dall’alba al tramonto, mentre in fabbrica si lavorava normalmente per otto ore. Tutto insomma favoriva l’abbandono della campagna da parte delle nuove generazioni, e si capovolgeva un dato di fatto. Prima dell’avvento dell’industria i paesani andavano in campagna a prestare la loro opera, per guadagnare qualche soldo per le necessità della famiglia; ora erano i giovani della campagna che costituivano un serbatoio quasi inesauribile al quale attingere per le necessità dell’industria. Era un processo irreversibile, che dava il colpo di grazia ai poderi gestiti in mezzadria, e metteva in discussione il vecchio modello di fare agricoltura. Il lavoro dei campi era svolto dagli anziani, e da quei pochi che non si rassegnavano a lasciare il podere, dove la loro famiglia aveva lavorato e vissuto per generazioni. L’agricoltura assumeva un ruolo residuale nella società nuova del paese, e questo comportava anche una gestione del territorio non sempre coerente con le sue necessità. Il contadino era stato per secoli un tutt’uno con la terra; conosceva a memoria i suoi segreti, conosceva il modo di trarre il massimo beneficio dai suoi campi, senza pregiudicare tutto ciò che nel tempo era stato realizzato per evitare dissesti, frane e allagamenti. Ora l’agricoltura, anche per chi continuava a vivere in campagna, non rappresentava più la prima fonte di reddito, e le stagioni non governavano più in maniera assoluta la vita delle famiglie contadine. Le proprietà, a differenza di quando vigeva la mezzadria, erano state parcellizzate in piccoli appezzamenti di terreno dove i contadini residenti
cercavano di ricavare il massimo possibile. Spesso la lavorazione della terra era delegata a imprese esterne, che disponevano di moderni mezzi meccanici, e al momento della coltratura non c’era l’attenzione necessaria alla rete di fossi di scolo e dogaie che per decenni avevano regolato il drenaggio dei terreni. In poche parole si stava ando, inconsapevolmente, da un’agricoltura a misura d’uomo ad un’agricoltura intensiva che stava erodendo progressivamente il legame secolare che le persone che vivevano in campagna avevano con la terra.
XXI Capitolo Il paese intanto si espandeva in maniera regolare, al di fuori dei viali della nuova circonvallazione. Il vecchio borgo, grazie alla sua particolare ubicazione tra l’Arno da una parte, e l’Usciana dall’altra, sembrava proiettarsi con un moto naturale verso zone che fino a poco tempo prima erano state ridente e fertile campagna. In ato l’Arno era stato una delle fonti più importanti, insieme all’agricoltura, per l’economia del vecchio borgo; allo stesso tempo però era stato anche motivo di preoccupazione per le ricorrenti esondazioni che nel corso dei secoli avevano causato distruzioni e lutti. Il paese nuovo si era allargato in maniera concentrica attorno ai viali di circonvallazione, ma l’abitato non aveva per niente intaccato le golene del fiume come invece era accaduto in altri paesi rivieraschi. Nella memoria collettiva c’era quasi un atavico rispetto, che guardava al fiume come qualcosa che non si doveva provocare. Anche la zona dell’Usciana, ai piedi della collina di Montefalcone, in ato era stata oggetto di ricorrenti allagamenti che avevano messo a rischio l’incolumità dei residenti. Questi erano costretti a tenere nelle capanne dove ricoveravano gli attrezzi da lavoro, anche delle piccole barche per le evenienze più pericolose. Il nuovo reticolo stradale che attraversava le zone di espansione era stato realizzato in modo ordinato, e consentiva di circolare in maniera semplice e funzionale all’interno del nuovo tessuto urbano. Anche il cimitero monumentale, un tempo al di fuori dell’abitato, era stato inglobato in maniera quasi naturale. Purtroppo, in ossequio a non si sa quale regola, se non quella del profitto, anche alcuni edifici del vecchio borgo venivano abbattuti per fare posto a nuove, anonime, costruzioni. Una mattina, mentre i ragazzi erano in attesa dell’autobus per la stazione, l’edificio che anticamente fungeva da dogana per le merci che entravano o uscivano dal borgo, fu raso al suolo. Si doveva far posto ad un palazzo moderno, dove trovarono posto alcuni appartamenti e la nuova sede della farmacia.
Anche l’edificio che chiudeva in fondo via Dante, in prossimità della piazza nova, fu demolito. Si disse che era stato fatto per dare la possibilità alle auto di avere un’altra via di fuga dal vecchio centro storico. Un’altra porzione delle vecchie mura del castello veniva così smantellata, e il borgo perdeva a poco a poco la sua identità. Delle vecchie mura restavano soltanto alcune tracce, lungo via dei Mille, via Magenta e via Solferino. All’interno di queste mura, che andavano da via Calatafimi fino alla porta di S. Michele a Caprugnana, erano ancora ben visibili edifici che testimoniavano l’architettura minore del Settecento. Delle quattro porte che in origine consentivano di attraversare le mura del castello, poste alla fine dei due corsi principali, ne restavano soltanto tre; la quarta, la porta di San Bartolomeo a Paterno, o Porta allo Steccato, era stata demolita alcuni secoli prima. Si motivò il suo abbattimento con argomentazioni di ordine sanitario. Gli amministratori del tempo sostenevano che quella porta, e il vecchio campanile, impedivano al vento di penetrare nel castello e garantire il ricambio dell’aria, che ristagnava soprattutto nei vecchi chiassi. La vecchia torre campanaria, alla cui base c’era la porta di S. Piero a Vigesimo, si salvò solo perché nel vecchio castello non c’era un altro edificio in cui poter alloggiare le campane. Come si vede, lo spirito di conservazione e il mantenimento della memoria del ato, erano una pianta che attecchiva con difficoltà dalle parti di chi, nel tempo, era stato chiamato a governare il vecchio borgo.
XXII Capitolo Il ’65 declinava ormai verso la fine, la scuola era ripresa il mese di ottobre, e l’ultimo biennio metteva alla prova le capacità di Luigi, alle prese con materie che richiedevano una costante applicazione, sia da un punto di vista teorico, che nella pratica di laboratorio. Il tempo che il ragazzo dedicava allo studio non era molto, perché al pomeriggio lavorava in barberia, e quindi solo la sera, quando in casa c’era un po’ di tranquillità, poteva concentrarsi sui libri. Fu in una di queste sere, mentre Luigi era alle prese con un disegno abbastanza complesso, che la mamma gli si avvicinò, per confidargli che era in attesa di un altro fratellino. Il ragazzo rimase frastornato, non tanto per la notizia inaspettata, ma per il fatto che giudicava i genitori troppo in là con gli anni per avere un altro figlio. Pensava che per la mamma una gravidanza a quarantaquattro anni fosse ad alto rischio; anche se la medicina aveva fatto grandi i sul versante della neonatologia e della tutela delle gravidanze delle madri in età avanzata. ato il primo momento di sorpresa e di sbigottimento, promise a se stesso e alla mamma che il fatto non lo avrebbe condizionato negli studi, come era avvenuto con la nascita dell’ultimo fratello. Luigi era ormai quasi adulto, e avrebbe fatto ogni sforzo per metabolizzare al meglio la nuova situazione, che rischiava di far saltare gli equilibri faticosamente raggiunti dalla famiglia. Si rendeva conto che i sacrifici fatti sarebbero stati sprecati se non fosse riuscito a conseguire il tanto sospirato diploma. Da quel momento si concentrò quasi esclusivamente sullo studio, e ancora più determinato, decise di prepararsi alle interrogazioni insieme ad un compagno di classe che abitava nella vicina S. Croce. Spesso Luigi si fermava a cena dal compagno di classe, e ben presto entrò nelle simpatie dei genitori e della nonna del ragazzo, che lo consideravano ormai come uno di famiglia. L’impegno nello studio, e il fatto di frequentare più da vicino ragazzi di una realtà diversa da quella del borgo, contribuirono a rasserenare Luigi e a non fargli pesare più di tanto la sua situazione familiare che
si stava di nuovo complicando. Grazie al compagno di classe di S. Croce il ragazzo fu accolto a pieno titolo in un gruppo molto affiatato, dove c’erano ragazze con le quali non sarebbe stato difficile intavolare anche rapporti più importanti di una semplice frequentazione. Poter studiare in un ambiente più tranquillo aveva fatto si che il suo rendimento scolastico, già buono, migliorasse ancora, e non ci furono problemi per la promozione all’ultima classe, quella che portava al conseguimento del diploma. In estate, per rompere la monotonia delle giornate che si susseguivano sempre uguali, e per rinvigorire l’impegno nell’azione cattolica che andava un po’ scemando, tornò ancora, come delegato, al soggiorno estivo di Gavinana. Da quell’anno il campeggio si teneva nella “Casa dell’Adolescente”, un edificio voluto e realizzato, a prezzo di tanti sacrifici, dal canonico Ciardi. Il sacerdote era sempre alle prese con la ricerca di donazioni per completare e arredare al meglio la colonia. La struttura non era stata ancora completata. Soltanto il piano terra, dove erano la cucina, il refettorio e la cappella, e il secondo piano, dove erano le camerate ed i servizi, avevano avuto l’agibilità dagli organi preposti. Il primo piano era ancora da rifinire e mancavano persino i pavimenti, le porte e le finestre. In quell’estate del ’66 si disputavano i campionati mondiali di calcio in Inghilterra, e nel salone ubicato al primo piano, erano stati piazzati un televisore e delle sedie, per consentire ai ragazzi di poter assistere almeno alle partite dell’Italia. Era una piccola inosservanza delle prescrizioni dettate dalle autorizzazioni; ma per veder giocare l’Italia si presumeva che anche un eventuale controllo si sarebbe chiuso senza conseguenze. Dopo il soggiorno in montagna Luigi ritornò alla vita di sempre; la sera con gli amici ava il tempo al circolo ACLI, oppure andava a eggio per la via del ponte, dove sperava d’incontrare la ragazza per la quale provava una certa simpatia, purtroppo non ricambiata. Molti suoi compagni, occupati nelle fabbriche della zona, avevano messo da
parte dei risparmi. Una volta superati gli esami per la patente, avevano acquistato un’auto, con la quale durante le ferie estive raggiungevano le località balneari sulla costa. Qualche volta anche Luigi faceva parte della compagnia, e si prendeva qualche licenza di far tardi la sera, visto che durante l’anno scolastico questo non avveniva mai. La mamma sapeva di poter contare sul senso di responsabilità del figlio, che difficilmente procurava problemi ai genitori. Dall’altro lato il figlio maggiore procurava a Raffaele e Maria preoccupazioni continue. In quel periodo aveva cominciato a partecipare alle corse di auto in salita, con dei prototipi messi a punto insieme a degli apionati come lui. Spesso, con quelle macchine, spinte al limite estremo delle proprie possibilità, avvenivano degli incidenti anche gravi. In famiglia si vivevano i giorni delle gare con un’apprensione indicibile. Venne anche ottobre, dopo un’estate calda e afosa; la vendemmia era terminata da poco, e il maltempo arrivato con l’autunno la faceva da padrone. Piogge anche intense si alternavano a giornate in cui la campagna era spazzata da venti non comuni per quella stagione. Il maestrale sembrava si fosse imbarcato a bocca d’Arno, e con un’intensità inusitata increspava le acque del fiume per tutto il suo corso, fino al vecchio borgo. Gli anziani ammonivano che la situazione della campagna non era delle migliori; intere zone in prossimità dell’Usciana, presentavano i fossi di scolo già completamente pieni, e l’acqua stazionava nei campi impedendo le coltivazioni. La televisione, ormai entrata anche nella maggior parte delle abitazioni della campagna, proponeva le immagini dei dissesti degli anni precedenti e i pericoli incombenti, in caso di ulteriori precipitazioni. La campagna attorno al vecchio borgo non era più la principale fonte di reddito, come era stata in ato; ma conservava ancora un migliaio di capi di bestiame, che in caso di inondazioni sarebbero stati seriamente a rischio. Il problema quindi non doveva essere sottovalutato, e faceva bene il Sindaco a richiamare tutti alle proprie responsabilità. Non esistevano organismi di Protezione Civile, e anche i mezzi che il comune avrebbe potuto mettere a disposizione dei volontari sarebbero stati sicuramente insufficienti.
Il mese di novembre era stato nel corso dei secoli portatore di disastri e lutti, e il tempo che continuava inclemente non prometteva niente di buono. Il mare non garantiva il deflusso delle acque dell’Arno in quantità sufficiente, e le cateratte vicino al ponte alla Navetta a Pontedera non consentivano all’Usciana di scaricarsi in Arno. Anche lo scolmatore dell’Arno, tante volte pubblicizzato, non era ancora funzionante.
XXIII Capitolo La mattina del 4 novembre Maria entrò tutta concitata nella cameretta dove dormiva Luigi con i suoi fratelli; dappertutto nel vecchio borgo era in atto un corri corri frenetico verso il ponte, per accertarsi delle condizioni dell’Arno. I notiziari del mattino avevano già informato della esondazione del fiume in molte zone di Firenze e la situazione si aggravava di ora in ora. Luigi, con il fratello maggiore e alcuni amici che risiedevano in S. Martino, si precipitò di corsa, tagliando per il ino di Giovacco, verso l’Arno; giunto sull’argine si diresse immediatamente verso il ponte, dove stazionavano già decine di persone. Davanti ai suoi occhi si parava uno scenario che mai avrebbe potuto immaginare. Il livello del fiume era impressionante, l’acqua sfiorava la sommità degli argini, che in certi punti erano superati e dovevano essere sopraelevati con sacchetti di sabbia, che squadre di volontari preparavano senza sosta. L’acqua correva con una forza impetuosa, e tutto ciò che galleggiava si scontrava con schianti assordanti contro i vecchi piloni e l’impalcato del ponte. Il punto più fragile era il tratto di argine compreso tra il ponte e il Callone. Il terrapieno era delimitato da un muro di mattoni che fungeva da contrafforte, e delimitava la strada che conduceva al vecchio complesso del molino del Callone. L’acqua aveva cominciato ad infiltrarsi nel muro, e si riversava copiosa nella strada sottostante; la situazione si aggravava di ora in ora, e le decine e decine di volontari sembravano sul punto di aver perso la loro battaglia. In tutto il giorno si erano preparati centinaia di sacchetti di sabbia prelevata dai molti cantieri sparsi nella piana, ma sembrava che questo non sarebbe stato sufficiente. Dalla parte sinistra il fiume era già esondato, e molte abitazioni che si affacciavano sulla strada che conduceva alla stazione di S. Romano erano ormai allagate. Nel primo pomeriggio, visto da Montefalcone, lo scenario si presentava come una grande distesa d’acqua che andava ad occupare progressivamente la parte della campagna non ancora sommersa.
Quelli che non erano sugli argini a fronteggiare da vicino la furia dell’acqua, cercavano con ogni mezzo di attrezzarsi per attutire i danni ormai sicuri. Si tamponavano le porte dei negozi che erano tutti ubicati al piano terra, si spostavano le merci più in alto sugli scaffali, e in qualche modo si cercava di mettere al sicuro, ai piani superiori, le mercanzie più preziose. I forni e le botteghe di generi alimentari erano stati presi d’assalto, e anche nelle fabbriche, pur essendo giorno di festa, si cercava di mettere al sicuro quanto era già stato prodotto. Anche Raffaele era stato impegnato per tutta la giornata a tamponare le porte di alcune fabbriche, situate nei pressi delle case popolari dove risiedeva. Molti abitanti del vecchio borgo avevano portato le auto nella vicina Montefalcone, per metterle al sicuro dall’esondazione che sembrava inevitabile. L’ondata di piena aveva già devastato Firenze e in poche ore sarebbe arrivata nella piana. Il buio della sera rendeva le operazioni di tamponamento degli argini sempre più difficili, e i volontari che si erano prodigati tutto il giorno, distrutti dalla fatica, facevano ritorno alle loro case. Tutti si preparavano a trascorrere una notte insonne, visto che il livello del fiume continuava a crescere. Improvvisamente verso l’ora di cena cominciò a circolare la voce che l’Arno aveva rotto più a valle, verso S. Donato, e quindi per certi versi il borgo sarebbe stato risparmiato da un’alluvione devastante. In effetti, il livello del fiume cominciò ad abbassarsi, e gli abitanti tirarono un sospiro di sollievo. Ma la gioia per lo scampato pericolo sarebbe stata di breve durata. In base ad un semplice concetto della fisica, quello dei vasi comunicanti, l’acqua dell’Arno fuoriuscita dallo strappo a S. Donato s’inoltrò nelle campagne circostanti. Nel giro di qualche ora tutta la piana, da S. Maria a Monte a S. Croce, era sott’acqua. Luigi si era recato con alcuni amici verso i ponti di Usciana, per rendersi conto di persona della situazione. L’acqua aveva già invaso tutta la campagna e aveva cominciato a propagarsi veloce in direzione del vecchio borgo. Nel giro di poche decine di minuti avrebbe oltreato la porta di S. Michele a Caprugnana, e
sarebbe giunta in paese. Dall’altra parte, sulla via provinciale per S. Maria a Monte, l’acqua si avvicinava velocemente verso il borgo andando a ricongiungersi con quella che proveniva dall’Usciana. A mezzanotte tutto era sott’acqua. Nelle zone basse di via Comana, via dell’Iserone, via dell’Arginato, via Aiale e via Quarterona, l’acqua aveva raggiunto anche più di quattro metri di altezza, provocando la morte di molti animali, rimasti intrappolati nelle stalle. Nell’oscurità della notte si potevano sentire in lontananza i lamenti degli animali che cercavano di sottrarsi ad una fine sicura. In quei momenti Luigi ripensava a quando andava in campagna con il nonno, e domandava a Paolo, un anziano contadino, di quale utilità fosse il barchino ricoverato nel capanno degli attrezzi; forse solo in quel momento aveva avuto la risposta alla domanda che tante volte aveva posto. Verso mezzanotte l’acqua aveva invaso anche il centro storico del vecchio borgo e tutti si apprestavano a vivere una notte piena d’incognite, con le case circondate dall’acqua che continuava a salire, seppure con minore veemenza. A quel punto Luigi fece ritorno a casa, dove tutti lo aspettavano con ansia perché dalla mattina non lo avevano più visto. Mangiò qualcosa, e dopo si sistemò col babbo sul terrazzo, a controllare l’acqua che continuava a salire. Le auto parcheggiate nel piazzale interno ai caseggiati venivano lentamente inghiottite, e i clacson cominciavano a suonare in continuazione riempiendo di un suono innaturale il buio della notte. I fari delle auto si accendevano, e la luce che emettevano, attraverso l’acqua giallastra, fendeva quella distesa che ormai aveva inghiottito tutto. Verso le tre del mattino il livello dell’acqua si stabilizzò; era giunta agli ultimi scalini e le cantine erano completamente sommerse. L’erogazione dell’energia elettrica fu interrotta e nelle case la vita continuava al lume di candela. Raffaele e Maria ripensavano ai giorni tremendi del aggio del fronte e tranquillizzavano i figli che, improvvisamente, si sentivano come animali in gabbia, impossibilitati a fare qualsiasi cosa. Il quadro elettrico, situato negli scantinati, era completamente sommerso dall’acqua, e chissà fino a quando non sarebbe ritornata l’elettricità. Anche la radio a galena che Luigi aveva costruito, mettendo a frutto le cognizioni apprese
a scuola, era rimasta sommersa dalle acque che avevano invaso la cantina. Alla mattina lo spettacolo della distesa dell’acqua, che aveva portato con sé tutto ciò che aveva incontrato sul proprio cammino, appariva in tutta la sua drammaticità. Tuttavia non era il momento di cedere alla rassegnazione, nel vecchio borgo abitava l’anziana nonna di Luigi, che era rimasta sola dopo la morte del marito e il matrimonio dei figli. Bisognava raggiungere la casa nel centro storico per assicurarsi della sua incolumità. Il tempo sembrava migliorare e la pioggia e il vento dei giorni precedenti avevano lasciato spazio a un pallido sole, che ogni tanto squarciava le nubi. Alcune barche che erano state legate in sicurezza ai vecchi anelli di ferro che ancora residuavano nel muro del Callone, erano state sciolte e con dei volontari a bordo s’inoltravano nelle strade di periferia per prestare i primi soccorsi agli alluvionati. Nel centro storico l’acqua aveva raggiunto circa un metro di altezza e due mucche da latte erano state alloggiate all’ultimo minuto sotto i loggiati del palazzo comunale; avrebbero potuto dare ottimo latte fresco in caso di necessità. Il fratello maggiore di Luigi si sentiva come un leone in gabbia, e incurante del freddo e dell’acqua sporca, dove era evidente la massiccia presenza del gasolio fuoriuscito dalle cisterne, provò ad inoltrarsi in quel mare di acqua e fango; ma ben presto dovette desistere e ritornò in casa tutto bagnato, e con il gasolio che gli si era appiccicato addosso. ata la mattina Luigi realizzò, con l’aiuto del babbo, una zattera di fortuna: prese le taniche vuote del kerosene, che erano accatastate in un angolo del grande terrazzo, sfilò la porta della cucina dai cardini, la legò ben stretta alle taniche e la mise in acqua. L’imbarcazione di fortuna sembrava potesse sopportare almeno il peso di una persona, e così il ragazzo salì sopra deciso a raggiungere il centro storico. ò dalla casa della nonna, e dopo essersi assicurato che non vi fossero stati guai seri, si diresse verso la piazza del comune. Questa era più alta rispetto alle altre strade del borgo, e all’angolo con via Mazzini c’era l’abitazione dello zio, che essendo situata al secondo piano non aveva subito conseguenze. Luigi assicurò la zattera al pomello della porta della casa dello zio, e si avvicinò alla zona dove erano le mucche; prese un fiasco di latte appena munto che sarebbe stato ottimo per la sorellina ancora piccola, e un po’ di pane che era stato portato dai paesi vicini. Risalì sulla zattera e fece a ritroso il percorso che aveva
fatto all’andata. Non c’era da fidarsi dell’acqua che poteva nascondere insidie di ogni tipo, ed era meglio andare sul sicuro. La prima giornata del post-alluvione era ata; ora giornate piene di duro lavoro attendevano gli abitanti del borgo. L’acqua aveva cominciato a defluire, e il giorno dopo forse sarebbe stato possibile, indossando un paio di stivali del babbo, raggiungere a piedi il centro storico. La mattina seguente Luigi raggiunse il palazzo comunale, dove intanto si erano organizzate squadre di volontari per fronteggiare l’emergenza. Dai vicini comuni di S. Miniato e di Montopoli cominciavano ad affluire i primi aiuti, che erano il segno tangibile della solidarietà che circondava il vecchio borgo. Era stato preannunciato anche l’arrivo di una colonna militare, proveniente dalla base americana di Campo Derby, situata a Tirrenia. L’arrivo dei militari americani suscitò la gioia degli abitanti, e coinvolse soprattutto i più giovani, che si accalcavano a ridosso dei mezzi militari che trasportavano generi di prima necessità e acqua potabile. Furono distribuite le famose razioni K in dotazione all’esercito statunitense, che fra le altre cose contenevano anche piccoli pacchetti da cinque sigarette; fu in quell’occasione che Luigi assaggiò le prime sigarette americane. Nei giorni seguenti le operazioni di soccorso continuarono senza sosta; il cielo sopra il paese era solcato da potenti elicotteri che si alzavano in volo da una piattaforma di fortuna ricavata in prossimità del ponte. C’erano ancora tante famiglie isolate in campagna, e si dovevano recuperare quelli che erano saliti sui tetti delle case per sfuggire alla furia delle acque. Gli aiuti giungevano da tutta l’Italia e nei locali della vecchia scuola elementare, situati al primo piano dell’edificio in via d’Azeglio, era stato approntato un centro di raccolta e di smistamento gestito da un nutrito numero di volontari, soprattutto ragazzi e ragazze, coordinato da un funzionario del comune. I negozianti riversavano per le strade del vecchio borgo la merce irrecuperabile, e il centro storico assumeva l’aspetto di una grande discarica. Al di fuori delle vecchie mura, tutt’intorno alle fabbriche, erano ammassate migliaia di scarpe pronte per la spedizione, e gli operai avevano ripreso il lavoro
per rimettere in funzione le manovie e riprendere la produzione. L’esercito aveva distaccato in paese una compagnia di Carabinieri Paracadutisti, che si era acquartierata nel cortile adiacente all’asilo Umberto I, dove negli anni del dopoguerra era in funzione il cinema all’aperto. I militari erano alloggiati nei locali della scuola elementare e il dormitorio era stato realizzato nella palestra. Luigi la mattina attraversava le vie del paese che erano piene di militari; ostentava la sua tuta bianca dell’istituto tecnico industriale, che vestiva a scuola durante le ore di laboratorio, e si recava alla scuola elementare, dove coadiuvava il maestro Caciagli. Il loro compito consisteva nell’organizzare il recupero delle carcasse degli animali disperse nella campagna, e nel fornire assistenza agli animali sopravvissuti. I mezzi anfibi percorrevano in lungo e in largo la campagna ancora sommersa dalle acque, per recuperare gli animali morti che potevano essere causa d’infezioni, e per portare generi di prima necessità e viveri ai contadini che non avevano voluto o potuto abbandonare le loro case. Molti avevano trovato rifugio nei paesi collinari di Staffoli, Galleno e S. Romano alto. Un giorno Luigi, che aveva stretto una sincera amicizia con il furiere della compagnia, partecipò al salvataggio di un vitellino che, rimasto solo, si era avventurato nella parte più alta di una casa colonica. L’animale fu raggiunto dai militari, fu bendato e caricato su un canotto che lo portò al sicuro. Durante quell’operazione Luigi poté rendersi conto della desolazione e dei danni che l’alluvione aveva arrecato alla campagna circostante al vecchio borgo. La ferita inferta probabilmente non sarebbe stata più risanata, e l’agricoltura avrebbe perso anche il peso residuo che ancora occupava nell’economia del borgo. Dopo i primi giorni di completo smarrimento la popolazione si era rimboccata le maniche, e tutti erano certi che nel giro di qualche settimana tutto sarebbe tornato alla normalità. Luigi ritornò a scuola perché quell’anno scolastico era troppo importante, alla fine lo attendeva l’esame di maturità. Fu accolto dai compagni e dagli insegnanti con grande calore e vicinanza; non avrebbe mai dimenticato che uno dei primissimi giorni successivi all’alluvione, il suo compagno di banco era giunto al borgo con una barca in dotazione al suo stabilimento balneare situato in
Versilia. Anche l’alluvione era ata, e il ragazzo poteva concentrarsi nuovamente sui libri per prepararsi al meglio agli esami che lo attendevano a luglio. Il sodalizio con il compagno di S. Croce continuava, e al pomeriggio, dopo lo studio, i ragazzi avevano cominciato a vedersi con due ragazze del posto. La frequentazione delle due cugine, che appartenevano a famiglie della nascente borghesia industriale, andò avanti per un po’. Ma dopo qualche tempo i due ragazzi cominciarono a sentirsi inadeguati, in mezzo a quella compagnia che ostentava il lusso in ogni occasione, e la frequentazione delle ragazze cessò. Il primo Natale dopo l’alluvione di novembre era alle porte, e il vecchio borgo aveva ripreso quasi completamente il suo aspetto di sempre; solo la campagna mostrava ancora i segni che la natura le aveva inferto. Il mese di novembre era stato nel corso dei secoli portatore di disastri e lutti, e il tempo che continuava inclemente non prometteva niente di buono. Il mare non garantiva il deflusso delle acque dell’Arno in quantità sufficiente, e le cateratte vicino al ponte alla Navetta a Pontedera non consentivano all’Usciana di scaricarsi in Arno. Anche lo scolmatore dell’Arno, tante volte pubblicizzato, non era ancora funzionante.
XXIV Capitolo Il tempo scorreva veloce e la data degli esami di maturità si avvicinava. Luigi, insieme al compagno di S. Croce, si era impegnato senza risparmio nello studio ed era pronto ad affrontarli con fiducia. Il risultato fu molto buono e il diploma fu conseguito senza grosse difficoltà. A quel tempo era prassi che le più importanti aziende nazionali del settore dell’elettronica, chiedessero alle scuole i nominativi degli studenti più meritevoli, per sottoporli ad un colloquio, ed eventualmente inserirli nei loro organici. Fu così anche per Luigi, che una mattina ricevette una lettera raccomandata dalla “Laben” di Milano, che lo invitava ad un colloquio di lavoro; alla busta era allegato anche un prospetto per la richiesta di rimborso spese che il ragazzo avrebbe sostenuto. Maria, che tanto aveva investito sul ragazzo, ebbe un moto di euforia, e quel giorno in famiglia non si parlò di altro. Il colloquio di lavoro era stato fissato per la settimana successiva, e Luigi aveva tutto il tempo di prepararsi, anche mentalmente, all’appuntamento. Partì il lunedì successivo dalla stazione di Firenze, da dove raggiunse Milano, a fine mattinata. Aveva ricevuto indicazioni da alcuni amici del borgo più grandi di lui, che da qualche anno lavoravano in aziende milanesi, e quindi non gli fu difficile raggiungere la sede della Laben. La Laben, come si poteva evincere anche dal nome, era una società del gruppo Montecatini, che sviluppava brevetti nel campo dell’elettronica e del nucleare. Era un settore molto in espansione in quegli anni, e quindi un’eventuale assunzione sarebbe stata per Luigi un’occasione da non perdere. Il colloquio fu superato dal ragazzo, ma lo stipendio che gli veniva proposto fu considerato inadeguato; non era sufficiente nemmeno a pagare l’affitto del monolocale che l’azienda gli avrebbe procurato, alla periferia della città. Luigi si congedò dal responsabile del personale, e chiese un paio di settimane di tempo per prendere una decisione definitiva. Durante il viaggio di ritorno il
pensiero ritornava fisso al colloquio sostenuto e alle condizioni economiche che il contratto di lavoro prevedeva. Sarà stato perché la mentalità del ragazzo era provinciale, e quindi l’eventualità di lasciare il borgo per andare a lavorare in una grande città lo preoccupava più del dovuto, sarà stato perché le condizioni economiche parevano insostenibili per la famiglia, sarà stato perché Luigi aveva fatto grande affidamento su quel posto di lavoro. Sta di fatto che per tutte queste considerazioni il giovane, prima di arrivare a casa, si era già persuaso che quell’offerta di lavoro andasse rigettata. Giunto a casa il ragazzo si confidò con la mamma, e insieme convennero che quello che pensava Luigi fosse giusto. C’era da trovare il modo di farlo capire anche a Raffaele, che aveva vissuto il conseguimento del diploma da parte del figlio come l’occasione aspettata da anni per alleggerire, almeno un po’, le spese della famiglia. Nell’incontro con il babbo il ragazzo non usò tanti giri di parole, e gli fece capire che non valeva la pena accettare quella proposta di lavoro; si sarebbe cercata un’altra occasione. In fin dei conti la scuola era terminata da appena un mese, c’erano state le ferie estive; un’altra occasione si sarebbe sicuramente presentata. All’indomani del colloquio avuto con il babbo, il ragazzo si recò nella sede dell’azione cattolica, dove c’era a disposizione una macchina da scrivere. Compilò una lettera, con la quale argomentava al responsabile del personale della Laben i motivi che lo avevano indotto a rifiutare l’offerta di lavoro. Chiuse la lettera in una busta, e la imbucò subito nella cassetta della posta, situata in piazza del comune. La decisione era presa, non era il caso di avere ripensamenti. Ritornato a casa, ebbe un confronto abbastanza aspro con il babbo che avrebbe invece voluto che Luigi accettasse l’offerta. Con il fatto che le sorelle di Raffaele erano da poco emigrate a Sesto S. Giovanni, non ci sarebbero stati problemi per trovare un posto in cui alloggiare. Il ragazzo rimase fermo sulla decisione presa e promise che dal quel momento non avrebbe preteso neanche un centesimo per il suo mantenimento. Dal momento che aveva ottenuto una buona votazione agli esami di maturità,
con l’iscrizione all’università poteva accedere al Presalario, una specie di borsa di studio, che veniva assegnata a coloro che avevano conseguito il diploma con una media superiore ai 70/100. L’importo si aggirava sulle 500 mila lire, una somma importante per quel tempo, che avrebbe garantito a Luigi qualche mese di autonomia, e gli avrebbe consentito di cercare con calma una sistemazione in qualche azienda più vicina della Laben. La scelta della facoltà universitaria era quasi obbligata, perché gli studenti che avevano il diploma degli istituti tecnici potevano accedere solo ai corsi di laurea in materie scientifiche e a ingegneria. Dopo un’attenta riflessione e un confronto ampio con gli amici, Luigi decise d’iscriversi alla facoltà di Scienze, corso di laurea in Scienze Biologiche. Il compagno di S. Croce, con il quale aveva condiviso gli ultimi anni di studio, si era iscritto al corso di laurea in Matematica. L’iscrizione all’università consentiva al giovane di rinviare anche il problema del servizio militare; un altro ostacolo che a quel tempo si frapponeva fra i giovani e l’ingresso nel mondo del lavoro. Molte aziende, e anche pubbliche amministrazioni, includevano infatti fra i requisiti per l’assunzione, l’aver adempiuto agli obblighi militari di leva, che a quel tempo durava 15 mesi.Il diploma dell’istituto tecnico consentiva a Luigi di poter insegnare nelle scuole medie la materia Applicazioni Tecniche; era sufficiente fare la domanda al Provveditorato agli Studi allegando una copia del diploma. Il giovane cominciò a frequentare l’università, ma l’impegno con le supplenze nelle scuole medie non gli consentiva di seguire al meglio tutte le materie del primo anno; alla sessione di giugno sostenne e superò soltanto due esami, e di conseguenza il presalario non gli fu riconfermato. Venne così a mancare una fonte di reddito importante, e dovette arrangiarsi dando lezioni private o facendo anche esperienze di lavoro saltuarie in qualche azienda del paese. La società nel suo complesso attraversava un periodo di assestamento, e le rivendicazioni di una classe operaia sempre più consapevole dei propri diritti, stavano mettendo a dura prova il modello di sviluppo che aveva contrassegnato gli anni della forte espansione. Le differenze fra gli operai e il mondo imprenditoriale si erano acuite e il futuro non prometteva niente di buono. In questo contesto di latente conflitto, anche nel vecchio borgo i rapporti
all’interno del mondo del lavoro si stavano deteriorando, e Luigi convenne che era giunto il momento d’impegnarsi seriamente in politica. L’università viveva un momento di grande crisi; veniva messa in discussione l’organizzazione che era rimasta immutata per decenni, e l’accesso di masse di giovani provenienti dalle classi che fino ad allora erano rimaste escluse, si riversò su di essa come un ciclone che non conosceva ostacoli. Il sistema fu contestato alla radice, e si ebbero anche episodi di violenza, che attraversarono tutte le università dell’Europa. Il vento della protesta che era partito dall’America sospinto dalle teorie di Marcuse, era giunto in Europa e sembrava inarrestabile. Il ’68 aveva portato con sè l’assassinio di Bob Kennedy, e di Martin Luther King, l’apostolo della non violenza; c’era stata la “Primavera di Praga” con l’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia, e la guerra in Vietnam aveva raggiunto il suo apice. Il Medio Oriente era in fiamme, dopo la fine della guerra dei sei giorni. Il mondo sembrava ripiegarsi su se stesso e i giovani erano alla ricerca di un nuovo modello di sviluppo. Le università si erano trasformate in una sorta di tribunali del popolo, dove i professori venivano giudicati da assemblee, che avevano già formulato i loro verdetti proclamati senza appello. Soprattutto nelle facoltà umanistiche non c’era modo di programmare alcun tipo di didattica che non fosse funzionale alla contestazione in atto. Luigi, che non era mai stato un’estremista, si trovava a disagio anche perché nelle facoltà scientifiche era molto difficile sostituire alla normale didattica, attività incentrate sull’organizzazione di seminari, esami di gruppo, o simili, che avrebbero condizionato l’apprendimento di concetti basilari per il prosieguo degli studi. Anche per questi motivi il giovane trascurò per qualche tempo gli studi universitari e s’impegnò sempre più direttamente sui problemi del vecchio borgo. L’attività politica lo prendeva quasi totalmente, e quando era libero dagli altri impegni, vi si dedicava con ione e determinazione. Nel centro storico intanto, in ossequio al culto del nuovo, continuava l’opera di
smantellamento del vecchio castello; al ritorno da una breve vacanza in Francia, che aveva fatto con gli amici più prossimi Sergio e Daniele, il giovane si trovò davanti ad una sgradevole sorpresa: il complesso della villa dell’Aglietti, da anni disabitato e fatiscente, era stato demolito, e al suo posto era stato edificato un palazzo per degli appartamenti popolari di proprietà del comune. Anche il vecchio muro con la buca, prodotta da un proiettile di mortaio durante l’ultima guerra, che tante volte i ragazzi avrebbero voluto oltreare, non esisteva più; era stato abbattuto per prolungare via Gramsci fino alla piazza nova.Le mura che circondavano la villa erano state anch’esse demolite e si era ampliata la piazza XX Settembre. Tutte queste ferite inferte al vecchio borgo, indussero Luigi a seguire ancora più da vicino la politica paesana, e quando c’erano le riunioni del consiglio comunale era sempre in prima fila ad assistere ai dibattiti che si protraevano fino a notte inoltrata. La mamma, che aveva sempre avuto un occhio benevolo per il figlio, lo ammoniva, raccomandandogli di non fornire pretesti al babbo, che avrebbe voluto che si sistemasse a lavorare da qualche parte, e lasciasse perdere l’università. Ma il giovane era un tipo coriaceo, e in tutti i modi cercava di far coesistere tutti i suoi impegni. Quando doveva sostenere un esame, Maria lo aspettava con ansia seduta sul muretto che circondava le case popolari; certe volte il giovane ritornava da Pisa molto tardi, e trovava la mamma con i figli più piccoli, che aveva tralasciato anche gli impegni domestici pur di essere pronta ad andare incontro al figlio. Qualche volta l’esame non veniva superato al primo tentativo, ma la mamma aveva sempre parole di comprensione e d’incoraggiamento per il figlio, che pur tra mille difficoltà andava avanti negli studi. Intanto i fratelli più piccoli crescevano, e la sorella più grande aveva trovato occupazione in una confezione per bambini, ubicata appena fuori delle vecchie mura.
XXV Capitolo Nel ’70 si sarebbero tenute le elezioni amministrative, per il rinnovo del consiglio comunale, e per l’elezione del nuovo sindaco. L’amministrazione uscente aveva avuto un percorso travagliato, e il Partito Socialista, al quale era iscritto Luigi, era uscito profondamente lacerato da quella esperienza. Era necessaria una svolta, negli uomini e nei programmi, che fosse percepita dall’elettorato. A Luigi fu chiesto di guidare il partito in quel aggio difficile, e le elezioni dettero un risultato soddisfacente. La contestazione di fine anni Sessanta stava esaurendo la spinta radicale dei primi tempi. In tutto il paese, ma soprattutto nelle città industriali del nord, dove la saldatura fra lotte studentesche, rivendicazioni operaie e disagio sociale aveva trovato un ottimo terreno di coltura, la protesta continuava con modalità che non avevano niente a che vedere con una dialettica democratica anche forte. Molti dei capi della contestazione avevano dato origine a movimenti di estrema sinistra, o erano entrati in clandestinità, scegliendo la lotta armata. Nei piccoli centri, come il vecchio borgo, i partiti tradizionali si erano profondamente rinnovati, accogliendo al loro interno numerosi giovani, che con le lotte degli anni precedenti, avevano scoperto la vocazione alla politica. Al momento dell’insediamento del nuovo consiglio comunale, e della conseguente elezione del sindaco, un pensiero attraversò la mente di Luigi: un domani forse anche lui avrebbe potuto aspirare a quella carica. Chissà! In quei primi anni Settanta il borgo sembrava vivere una nuova fase di sviluppo. In paese arrivò il metano, e tutte le strade e le piazze del centro storico furono interessate dalle canalizzazioni per la posa delle tubazioni, che dovevano essere posizionate ad una certa profondità per maggiore sicurezza. Anche il palazzo comunale doveva essere adeguato alle esigenze di una comunità che aveva superato i diecimila abitanti; i consiglieri comunali erano ati da venti a trenta. L’edificio fu svuotato da cima a fondo, e rimasero in piedi solo le mura perimetrali e l’antico loggiato. Per far fronte alle nuove esigenze fu acquistato un vecchio edificio da tempo disabitato, adiacente al palazzo, sul lato via Gioberti.
La facciata del palazzo comunale, fino a prima dell’ultima guerra, era completamente dipinta; era stata impreziosita con disegni che si rifacevano agli affreschi vasariani del palazzo della carovana, in piazza dei Cavalieri a Pisa, sede della “scuola Normale”. I disegni ovviamente non erano autentici, ma erano eseguiti a regola d’arte, e conferivano al palazzo un che di solenne. Nell’immediato periodo post bellico durante il restauro della facciata non ci si preoccupò di salvare quei dipinti, e tutto sparì, sotto una comune tinteggiatura color ocra. Nel corso dei lavori di ristrutturazione d’inizio anni Settanta, qualcuno sollecitò dei rilievi per accertarsi se i disegni potevano essere recuperati; altri si spinsero addirittura ad interessare del problema la sovrintendenza alle belle arti, chiedendo che i disegni fossero fatti ex-novo. La sovrintendenza ovviamente rispose di no. Dopo alcuni anni l’edificio, ristrutturato e risanato, era di nuovo agibile; era stato dotato di ascensore, e tutti gli uffici al suo interno erano disposti in modo razionale e di facile accesso al pubblico. Peccato che durante i lavori si fosse distrutta la bella scala di pietra serena che conduceva al primo piano. Anche in quell’occasione gli amministratori del vecchio borgo non si erano smentiti, e in fatto di tutela del patrimonio storico, erano stati in sintonia con chi li aveva preceduti. La nuova sala consiliare, vanto del progettista, era ampia e con decine di poltroncine riservate al pubblico, ma era stata rivestita con del legno perlinato che, in quel luogo, non aveva proprio alcun senso. In quegli anni si ristrutturarono anche i locali dove era ubicato l’archivio storico, in via Galileo, per insediarvi la biblioteca comunale. Anticamente quei locali facevano parte di uno dei tanti conventi racchiusi all’interno del castello; nei primi anni della nascente industria aveva trovato dimora in quei locali anche una delle prime fabbriche di scarpe. Dopo la demolizione della villa dell’Aglietti, al posto del grande giardino, era stata realizzata un’ampia piazza, in continuità con quella del mercato. All’interno di quelle che erano state le vecchie mura del castello, al posto di lecci secolari, che dal di fuori impedivano anche la vista degli edifici, si era realizzata una distesa di asfalto, che avrebbe sicuramente cambiato in peggio la
fisionomia del vecchio borgo. Anche l’ospedalino Selene Menichetti stava perdendo progressivamente la sua funzione originale; era stato sopraelevato per ricavare altri posti letto, ed era destinato a divenire una casa di riposo per anziani, provenienti anche dai paesi limitrofi. Il vecchio direttore, il dottor Camiciottoli, era prossimo alla pensione, e l’ospedalino andava perdendo l’importanza che aveva avuto in ato per gli abitanti del borgo. In questo scenario, per certi versi contraddittorio, Luigi continuava gli studi all’università, e l’impegno politico lo portava ad assumere ruoli sempre più importanti nelle gerarchie del partito in cui militava. Molti suoi compagni dei tempi della giovinezza, con i quali aveva avuto discussioni interminabili sui vari problemi che la società di quei tempi doveva fronteggiare, avevano fatto scelte diverse dalla sua; ma la contrapposizione non aveva scalfito l’amicizia sincera che il giovane provava nei loro confronti. Quegli anni portarono in dote a Luigi il servizio militare, il conseguimento della laurea, e il primo lavoro a tempo pieno. Nel ’76 il giovane si sposò e lasciò il vecchio borgo per prendere casa a S. Miniato, dove lavorava come microbiologo nell’ospedale locale. Un primo tratto, molto importante, della sua vita era stato percorso. Maria e Raffaele vedevano ripagati in qualche modo i tanti sacrifici fatti, e speravano per il figlio una vita più semplice di quella che avevano avuto loro. Il trasferimento della residenza tuttavia non impedì a Luigi di continuare a vivere il vecchio borgo come sempre. Continuava il suo impegno politico con determinazione, e insieme ad altri giovani compagni di partito, riuscì a inserire nei programmi delle amministrazioni di quel tempo, proposte concrete per governare le problematiche ambientali, sempre più acute. Per le consultazioni amministrative dell’80 Luigi si candidò, e fu eletto consigliere comunale. Ricoprì per tutto il mandato l’incarico di assessore all’ambiente riuscendo, anche grazie all’aumentata sensibilità dei colleghi di giunta e del partito verso le problematiche ambientali, a impostare e risolvere problemi da tempo all’ordine del giorno.
L’impegno amministrativo lo vedeva quasi quotidianamente presente nel vecchio borgo; e il giovane non mancava mai di recarsi a far visita ai genitori, per are un po’ di tempo con loro. Molte cose erano cambiate e nella casa, un tempo sovraffollata, c’era spazio a sufficienza per chi era rimasto. Le sorelle più grandi si erano sposate e avevano formato nuove famiglie. I fratelli più giovani stavano programmando, con lo studio o con il lavoro, il loro domani. Solo il fratello maggiore continuava imperterrito con la ione dei motori. Raffaele e Maria vivevano la loro condizione di pensionati, orgogliosi di aver traghettato la loro famiglia verso un approdo sicuro. Luigi parlando con il babbo gli ricordava il tempo delle loro eggiate in bosco, per raccogliere la legna necessaria ad alimentare la stufa, quando ancora abitavano nel borgo. Il babbo annuiva con un velo di malinconia che si leggeva nei suoi occhi. Ricordava i tempi duri del suo andirivieni a Montefalcone, per procurarsi la legna necessaria a fronteggiare il freddo dell’inverno. Ora i ceppi non servivano più; nell’appartamento era stato installato un moderno impianto di riscaldamento. Alcuni anni dopo Luigi, il bambino magrolino che un tempo, mano nella mano del nonno, guardava al palazzo comunale con ammirazione e rispetto, era diventato adulto; stava per entrare nella sala del consiglio, ed essere proclamato sindaco di Castelfranco di Sotto. Una sera Luigi, dopo una seduta del consiglio comunale, mentre attraversava il centro storico sotto un’insistente pioggia autunnale, sentì un pianto di bambino che proveniva da una finestra illuminata. Forse in qualche casa del borgo un ceppo bruciava ancora.
Postfazione “Il ceppo brucia ancora” di Rosario Casillo racconta la vita dell’autore e della sua famiglia: dal dopoguerra alla fine degli anni Settanta. La storia si svolge a Castelfranco di Sotto e attraversa i cambiamenti della società italiana di questi trent’anni che si riflettono sulla vita di tutti i giorni. Diverse opere hanno indagato le vicende del vecchio borgo. Alcune con un taglio storico-documentario, altre in forma più narrativa, ma nessuno fino ad ora aveva descritto il paese in modo così intimo e personale. Con un piccolo gioco, l’autore sostituisce i nomi reali dei protagonisti, ma lascia poi intatto tutto il resto della sua autobiografia, riportando fedelmente i fatti come si sono susseguiti. Il testo presenta molti momenti commoventi che raggiungono il cuore del lettore e che scaturiscono da un bagaglio di valori morali che le generazioni di oggi non riescono più a trovare. Le difficoltà economiche di una famiglia numerosa costringono Luigi a dare sempre il meglio di sé stesso, a mettere da parte un po’ dell’incoscienza giovanile per investirla nella voglia di riscatto che fa raggiungere i traguardi e gli obbiettivi. Una serie di esperienze, una gavetta che fortifica e che insegna ad affrontare la vita. Gli insegnamenti del nonno, l’incoraggiamento della madre nel proseguimento degli studi, l’amore incondizionato del padre e l’affetto dei fratelli, lo porteranno poi negli anni Ottanta ad assumere il ruolo di primo cittadino castelfranchese. Castelfranco, il vecchio borgo, ha l’aspetto incantato di un presepe, di un mondo intimo e familiare dove i ragazzi crescono e diventano adulti. Si aprono al nuovo, ma non abbandonano le fondamenta della loro formazione che prima di tutto è avvenuta nella strada. Così anche se il mondo sta cambiando e c’è spazio per spostarsi in campeggio nell’Appennino Pistoiese, in vacanza premio in Costa Azzurra o a Torre Annunziata, per ricercare una parte delle proprie radici, al vecchio borgo si
ritorna sempre, facendo tesoro di quello che si è visto e appreso grazie al desiderio di conoscere che non è mai pago. Un amore profondo per il proprio paese che si racconta fervido di vita sociale: di botteghe artigiane, di personaggi memorabili, di impegno civile e politico, di usi e costumi che oggi potrebbero di nuovo avere una funzione. Nelle pagine di Rosi, così lo chiamo io perché siamo cugini, ho ritrovato anche me stesso: un nonno affascinante di cui non ho ricordo perché è morto quando avevo due anni, nuovi aspetti su mio padre, suo zio, che andava fiero di quel nipote diventato dottore. Ho ricostruito quel filo mancante nella mia vita e nella storia del paese che viene raccontato da chi è nato dieci anni prima di me. Grazie quindi all’autore e un caloroso invito a continuare a scrivere. Fabrizio Nelli
A MIA MADRE Oggi l’ultima rondine ha dispiegato le sue ali ed è volata in alto verso il cielo. Non tornerà più al suo nido. I suoi piccoli sono diventati adulti E volano sicuri Disegnando nel cielo, ciascuno la sua storia. Oggi l’ultima rondine ha dispiegato le sue ali ed è volata in alto verso il cielo. Un raggio di sole, tenue, illumina il suo nido; ora è vuoto, ora non serve più. Oggi l’ultima rondine ha dispiegato le sue ali ed è volata in alto verso il cielo. Mentre si allontanava ha reclinato il capo E ci ha regalato un ultimo sorriso.
A MIO PADRE Senza un segno che lo fe intuire un giorno ti ho scoperto fragile, malato. Era Natale. Ho preso la tua mano, grande, come quando bambino prendevo i ceppi che mi allungavi per alimentare il fuoco del camino. Ti ho accompagnato lungo il tuo calvario finchè la tua mano non ha stretto più la mia. E’ Natale Tu ora non ci sei a scaldare la mia mano, ma il ceppo brucia ancora.