Enrico Pazzi
Roma fa schifo Come e perché Marino sta fallendo
Titolo | Roma fa schifo
Sottotitolo | Come e perchè Marino sta fallendo
Autore | Enrico Pazzi
ISBN | 9788891162823
Prima edizione digitale: 2014
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Copertina di Notamax
A Carla
Santo Condono prega per noi
Roma, 2 febbraio 2014
E la pioggia, oltre a renderci tristi, ci fa piombare sulla testa il fango. Esercizi commerciali al piano terra, seminterrati e piani rialzati, inondati. Le periferie, le borgate, le statali, le strade cittadine, il Santo Gra. La metro allagata, i tram bloccati. Le motorette, come le utilitarie, impantanate. Le buche, le voragini nelle quali buttarci dentro le imprecazioni. Non sapendo bene neanche con chi prendercela. Con il sindaco, con la giunta, quello o quell’altro assessore, il parroco, la protezione civile, i vigili urbani, e pure quelli del fuoco. Con chi? Prendercela con ciò che oramai ci appare un fantasma? Prendercela con ciò che siamo diventati? E non c’è tempo neanche per chiedersi di chi sia la colpa. Il sindaco ci dice di restare tappati in casa. Arriva l’invito allarmato a non recarsi a Roma. E i turisti, i fori pedonalizzati, la Roma bella che il mondo ci invidia? Il famoso “Made in Italy”, che ci ripetono in continuazione quale antidoto alla crisi? A Roma la pioggia si porta via pure quello. Implacabile, la pioggia si porta via tutto. Lavando Roma da quella patina di retorica pre e post-elettorale. Decine di anni di ignavia, disprezzo per il territorio e per i cittadini.
Ladrocini che hanno vuotato le casse, affidando appalti a fornitori sempre più padroni e verso cui le amministrazioni, che si sono susseguite, si sono fatte zerbino. Gli sfollati del secondo dopoguerra che diedero vita alle borgate, ammasso informe di casupole, poi divenute, piano piano, villette, palazzetti. Un piano alla volta. Tutto a botte di condoni. I palazzinari del mattone selvaggio, assecondati dalla vecchia Dc, ma pure dalla nuova sinistra, quella che voleva essere un po’ liberal. Laddove “liberal” ha voluto semplicemente dire prendersi le mazzette, come coloro che li avevano preceduti. La Roma democristiana del mattone, ma pure quella del “Modello Roma”, della bossa nova e del jazz all’Auditorium. A Roma, questa pioggia implacabile disvela che “se so’ magnato tutto!”. Che non ci sono più i soldi. Manco per gli affidamenti diretti di emergenza per far sgomberare le strade da detriti, mettere in sicurezza le montagnole, che smottano un po’ alla volta. E Santo Condono prega per noi. Perché a Roma, come in tutto l’intero Paese, è stato condonato di tutto. Condonato e perdonato in un unico afflato di indifferenza. Implacabile, questa pioggia disvela decenni di incuria, ladrocini e disprezzo. Ciao Roma, pur sempre bella ma, una volta di più, violata ed affogata nel fango. E Santo Condono prega per noi. Adesso e nell’ora dell’ennesimo mattone.
Amen.
I Marino sindaco per caso
L’identikit del Marziano: breve storia di un cattolico 2.0
Di lui i romani sapevano ben poco. Taluni militanti del Pd lo ricordavano per la sua partecipazione alle Primarie del 2009 per l’elezione del segretario nazionale dei Democratici. Arrivò terzo con circa il 12% dei voti degli iscritti, dietro Dario schini e il vincitore Pierluigi Bersani. La candidatura di Ignazio Marino alle Primarie del 2009 è ancor oggi avvolta nella leggenda. C’è chi narra di uno sgarbo subito dal chirurgo genovese proprio in virtù della sua candidatura, invisa ai capibastone del Pd. Tant’è che la Procura di Crotone, dopo aver disposto delle intercettazioni per indagare su presunti illeciti nella realizzazione di due centrali termoelettriche, incappa in una serie di conversazioni in quel di Bologna e scrive: «Le conversazioni mettono in risalto le azioni ostruzionistiche che alcuni dirigenti dell’Azienda sanitaria di Bologna avrebbero posto in essere nei confronti del Senatore Ignazio Marino, candidato alle Primarie del Pd. In particolare non gli sarebbero stati perfezionati i contratti che lo avrebbero legato, quale chirurgo, al policlinico S. Orsola di Bologna, per essersi contrapposto all’onorevole Luigi Bersani nella corsa all’elezione di segretario del Pd»¹. Come vedremo più avanti, i rapporti tra Marino e il suo stesso partito sono uno dei principali elementi all’origine della sua sventurata amministrazione. Dopo le Primarie del 2009, di Marino si perdono un po’ le tracce, almeno sulle cronache nazionali. E sicuramente non si è mai letto di lui sulle cronache romane. Non ce n’era ragione, essendo lui un profilo politico di levatura nazionale, tutto intento nella sua lotta per la promozione dei temi etici e di sanità nazionale. In fin dei conti, Marino a Roma è un vero e proprio “Marziano”. Infatti, nessun romano lo ha mai sentito nominare, prima di vederselo candidare a sindaco di Roma. Lui è un chirurgo cardiologo di fede cattolica. A testimoniarlo una paio di pubblicazioni che indagano il ruolo del medico di fronte alla fede: Credere e curare (Einaudi, Torino, 2005) e un testo scritto con il Cardinal Martini, Credere e conoscere (Einaudi, Torino, 2012). Ma poi, da cattolico sui generis, si è sempre
detto d’accordo rispetto al testamento biologico (tanto da lanciare nel 2009 un appello online su questo tema), all’eutanasia “per omissione” (chiamando in causa, in una trasmissione di Porta a Porta, il placet papale addirittura di Paolo VI) e al riconoscimento dei matrimoni celebrati fuori dall’Italia tra soggetti dello stesso sesso. I più benevoli lo definirebbero un cattolico illuminato, altri un cattolico con le idee confuse. Se di Marino, di tanto in tanto, si leggeva circa i dibattiti di ordine etico che animavano il Bel Paese, poco si sapeva della sua visione della Capitale. Almeno sino al momento della sua candidatura alle Primarie a sindaco di Roma.
Ma allora, come ha fatto Ignazio Marino a vincere le Primarie del Centrosinistra e diventare sindaco di Roma?
In quell’aprile del 2013, la politica italiana era in crisi. Tanto in crisi che il candidato a sindaco di Roma designato per il Centrosinistra, oramai da almeno un anno, aveva preferito riparare per la candidatura più sicura e redditizia, a livello di immagine, ovvero la Presidenza della Regione Lazio. Fu un fulmine a ciel sereno. Era la fine di giugno del 2012 quando Nicola Zingaretti, la grande speranza del Pd romano, meglio conosciuto come “il fratello del Commissario Montalbano”, annunciava: «Vi verrò a cercare casa per casa, strada per strada, quartiere per quartiere, per ascoltarvi, chiedervi aiuto e per diventare protagonisti. Insieme a voi mi candiderò sindaco di Roma»². La Capitale ristagnava nella palude del Centrodestra di Alemanno, tra drastici tagli ai fondi per i servizi sociali e per le attività culturali, il cervellotico progetto di fare dell’Eur un circuito di Formula Uno, la vergogna dei punti “Verde qualità” e la miriade di scandali e scandaletti, con tutta la marmaglia fasciocriminale a spartirsi il bottino. Durò un anno scarso la Zingaretti-sensation.
Pochi, infatti, ricordano la cena elettorale che lo stesso Zingaretti organizzò all’Eur per l’élite della Città e per la raccolta fondi in vista della futura campagna elettorale. Con tanto di gadget a forma di mattoncini Lego giallorossi. Qualcuno aspettò pure Zingaretti sull’uscio di casa, ma nessuno lo vide arrivare. Era l’inizio dell’ottobre del 2012, quando Zinga annunciò: «Oggi c’è una priorità assoluta, un’emergenza democratica che sarebbe un crimine sottovalutare: fare piazza pulita del malaffare alla Regione Lazio e del degrado morale della destra che ha vinto»³. La priorità non era più Roma Capitale, ma la Regione Lazio, lasciata senza timoniere in seguito agli scandali di Fiorito & Co e alle feste luculliane con le teste di maiale. Si capì sin da allora come i romani si sarebbero dovuti accontentare del candidato di scorta del Pd.
L’unico problema era che il Pd il candidato di scorta non ce l’aveva.
Non ce l’aveva perché Walter Veltroni aveva portato con sé in Parlamento tutta la prima linea della classe politica romana del “Modello Roma”. Quelli rimasti in città non erano che le seconde, terze, quarte ed ennesime linee, mentre il cerchio magico rutelliano si trovava disperso e minoritario all’interno dei Democratici. In casi come questi, in politica si fa sempre ricorso agli esponenti lungimiranti e ricchi di fantasia. A Roma ne era rimasto solo uno, un po’ come gli Highlander: Goffredo Bettini. Da più parti definito come colui che, in un’afosa serata estiva, inventò il “Modello Roma”, condendolo di bossa nova, saudade dei tempi andati delle rivoluzioni impossibili e prosecchi da gustare su strabilianti terrazze romane. Le stesse che saranno poi decantate da Sorrentino ne La Grande Bellezza. Non si sa come e quando, ma a Bettini, di ritorno da uno dei suoi tanti viaggi
all’estero, venne in mente un’idea portentosa: facciamo di un signor nessuno il sindaco di Roma!
Chi ha appoggiato Marino?
Il sindaco Marino oggi è orfano. A poco più di un anno, visto l’immobilismo, l’inefficacia, gli errori e i tentennamenti della sua amministrazione, nessuno vuole prendersi la paternità della sua candidatura.
La ragione è che Marino sta fallendo.
Ripercorrendo le cronache romane, non è difficile fare un elenco di coloro che nella primavera di un anno fa si spellavano le mani per il “Marziano”.
I più convinti sono stati sin da subito quelli di Action e dei movimenti più estremisti a sinistra. In poche parole, le organizzazioni più o meno riconosciute che da decenni occupano stabili pubblici e privati a Roma in nome dell’emergenza abitativa. Hanno da sempre rappresentato un gran bacino di voti per partiti come Sel. Non a caso, Marino, una volta eletto sindaco, ha voluto come vicesindaco Luigi Nieri, esponente di punta di Sel Roma. Una storia, quella tra Marino e Nieri, che oggi soffre. È Nieri a essere intercettato mentre rassicura uno dei leader del centro sociale Angelo Mai, dopo lo sgombero del marzo 2014 disposto dalla Questura di Roma in seguito a un’indagine della magistratura che indaga su presunti abusi da parte di alcuni leader delle occupazioni ai danni di alcuni occupanti. E le dice: «Stai tranquilla, con il giudice ci penso io»⁴. Inutile dire che, se fossimo stati in un Paese normale, il vicesindaco di Roma si sarebbe dovuto dimettere.
Se fossimo stati in un Paese fondato sullo Stato di diritto, il vicesindaco Nieri avrebbe dovuto, dopo le doverose dimissioni, chiedere scusa ai cittadini romani. E soprattutto a quei cittadini che sono da decenni in graduatoria per un alloggio popolare. Quei cittadini che, pur versando in situazione di disagio, si vedono negare il sacrosanto diritto di ottenere un alloggio popolare. Siamo, invece, in un Paese in cui Pina Vitale, che gestiva il punto ristoro dell’Angelo Mai (anch’essa indagata nella faccenda) racconta a un amico di essere stata presso l’abitazione dell’assessore alla Casa Daniele Ozzimo e di averlo minacciato: «Adesso mi hai proprio rotto il cazzo!»; «Vi metto in ginocchio come ho messo in ginocchio la Destra»⁵. E come potrebbe mettere in ginocchio l’amministrazione comunale di Sinistra? Minacciando nuove occupazioni. Muovendo, come carne da macello, decine di famiglie che si trovano in emergenza abitativa, spostando da un’occupazione all’altra questi poveri scudi umani, sulla cui pelle si è fatta la politica di emergenza sociale degli ultimi decenni. A Roma, così come in tutta Italia. Nieri avrebbe dovuto dimettersi. E invece cosa fa? Rivendica coerenza. Ciò che ha detto alla occupante dell’Angelo Mai, lo ha sempre sostenuto. E a ben guardare, ciò che Nieri ha da sempre sostenuto fa a pugni con il suo ruolo istituzionale.
Marino quindi si deve tenere Nieri come vicesindaco, proprio in virtù del fatto che, durante le Primarie e, a maggior ragione all’indomani di queste, la sinistra estrema ha sostenuto la sua candidatura. Candidatura condita con annunci per la liberalizzazione delle droghe leggere e per il registro per le unioni civili. Materie che, a ben guardare, sono di competenza dello Stato e sulle quali un sindaco poco, se non nulla, può fare. Ma Marino è da sempre stato attento al folklore di certa sinistra di lotta.
Sempre dal mondo della sinistra, è arrivato l’endorsement di Stefano Rodotà che, vistosi impossibilitato ad appoggiare uno sconosciuto, come il candidato del Movimento 5 Stelle (tale Marcello De Vito), ha optato per il chirurgo.
Sempre Luigi Nieri, dopo aver appreso dell’appoggio di Rodotà a Marino, non ha perso occasione per dire la sua: «Quella di Marino è una candidatura autorevolissima e improntata sul tema dei diritti. Si tratta di un sostegno e di un riconoscimento importante da parte di una delle figure più prestigiose del nostro Paese, colui che è stato indicato da diversi settori della società come il miglior candidato alla Presidenza della Repubblica. Si tratta di una importante apertura di credito che, sono sicuro, Marino saprà valorizzare. Roma è diventata in questi anni la città dei diritti negati. Con Marino sapremo cambiare direzione» . Chiaramente ci si è trovati difronte a uno scambio di endorsement. Fu infatti per primo Ignazio Marino a sostenere Stefano Rodotà all’elezione per la Presidenza della Repubblica, durante una delle più infauste fasi per il Pd nazionale. «Tra Marini e Rodotà non ho dubbi, scelgo Rodotà. È una figura che unisce e rappresenta il Paese» sentenziò qualche mese prima Marino sul suo profilo Facebook. A ben guardare, un goffo tentativo da parte di Ignazio Marino di inseguire l’elettorato grillino.
Ma a Marino sono arrivati anche gli appoggi da parte della cosiddetta società civile. Ad esempio, l’ex presidente della Camera di Commercio di Roma Andrea Mondello, ha dichiarato: «Il candidato di Centrosinistra interpreta il bisogno di cambiamento e innovazione per far ripartire l’economia e lo sviluppo, unica ricetta per creare nuova occupazione»⁷. Di occupazione a Roma neanche l’ombra. Mondello è uno di quei personaggi di cui un cittadino comune sente raramente parlare. Ma, oltre a essere stato presidente della Camera di Commercio dal 1993 al 2008 e vicepresidente di Confindustria, anche lui viene considerato l’inventore del “Modello Roma” con Veltroni e Bettini (e anche Gianni Letta). C’è da chiedersi se, a un anno dall’elezione di Marino, Mondello ripeterebbe quelle stesse parole. Un endorsement, per la verità timido alla vigilia delle Primarie, ma poi divenuto enfatico, è quello di Nicola Zingaretti che, dal suo profilo Twitter, scriveva
“#daje Ignazio! Ora tutti insieme e uniti per sostenere Marino, che può davvero cambiare Roma in meglio”. Si fa fatica a non pensare alla gratitudine di Zingaretti per colui che si sarebbe preso di lì a poco la patata bollente di governare Roma in tempo di crisi e di tagli delle risorse. La città, nel frattempo, non è cambiata in meglio, ma a Zingaretti, alle prese con il governo del Lazio, poco può importare.
Ci sono stati poi altri esponenti del Pd romano che non hanno fatto mancare il proprio appoggio a Marino.
Uno dei maggiori sostenitori della candidatura di Ignazio Marino è stato l’allora segretario del Pd di Roma Marco Miccoli. Quest’ultimo oggi siede in Parlamento, insieme a una nutrita pattuglia di esponenti di quel Pd romano che, sulle Primarie di Marino, ha costruito la propria fortuna politica. Di Miccoli i cittadini romani potrebbero ricordare le sue capacità come organizzatore delle Feste Democratiche (o dell’Unità?) di Caracalla e i suoi puntuali comunicati stampa su qualsiasi fatto di cronaca nera avvenisse a Roma durante la Giunta Alemanno. Uno stupro, una rissa, un omicidio. Un po’ come succede a Chi l’ha visto?. Oggi, che Roma langue anche sotto un’amministrazione di Centrosinistra, Miccoli tace. Come parlamentare, invece, è balzato agli onori della cronaca politica nazionale per aver presentato un’interrogazione parlamentare all’indomani della partita Juventus-Roma, funestata dalle sviste dell’arbitro Rocchi. Insomma, politico di ampio respiro.
In ultimo, a Roma Marino è stato appoggiato anche dal gruppo dei Giovani Democratici, l’organizzazione giovanile del Pd, dalle cui fila sono usciti profili come: l’attuale assessore dei Lavori Pubblici Paolo Masini e l’attuale assessore all’Ambiente Estella Marino. A oggi, a più di un anno dall’elezione del “Marziano”, non sono pochi coloro che si sono ricreduti.
Ma questa è un’altra storia.
Primarie FLOP! Marino vince facile
È da raccontare il quadro di totale caos all’interno del Pd al momento di scegliere un valido candidato di Centrosinistra a sindaco di Roma. Il profondo caos deriva dal confuso quadro politico nazionale. In un biennio (quello che va dalla fine del 2011 a tutto il 2013) è successo ciò che nella politica italiana solitamente succede nell’arco di dieci anni. Specie nel Pd. Il 16 novembre del 2011, dopo le traumatiche dimissioni di Silvio Berlusconi, viene nominato premier Mario Monti. Con lui inizia la rinnovata stagione dei tecnici. Il Pd, paralizzato, non ha la forza di chiedere nuove elezioni. Lo fanno Vendola e Di Pietro. E si è visto poi come sono finiti. Il 25 dello stesso mese, vanno in scena le Primarie del Pd con la vittoria di Pierluigi Bersani su Matteo Renzi. Quest’ultimo si distingue con un ottimo 40% al secondo turno, che tuttavia non basta. Il 21 dicembre del 2012 non c’è la fine del mondo, come avevano previsto i Maya, ma cade il Governo Monti. Subito dopo, il 24 febbraio del 2013, si va ad elezioni. Bersani non perde, ma neppure vince.
Due gli episodi che segnano l’incapacità del Pd nel dettare l’agenda politica del Paese: la fatidica rielezione a Presidente della Repubblica di Giorgio Napolitano, che va in scena il 18 aprile; lo streaming del 27 marzo tra Bersani e il Movimento 5 Stelle, che manda a trattare non Grillo ma la capogruppo dei deputati grillini Roberta Lombardi. Lo streaming finisce in una farsa. Il Pd di Bersani è lacerato dall’impossibilità di non riuscire a esprimere un candidato alla Presidenza della Repubblica, con i fatidici 101 traditori, che massacrano prima Franco Marini e dopo Romano Prodi. La giovane pattuglia del Pd uccide i padri storici del Centrosinistra e sgombera decisamente il campo per l’ascesa del
nuovo leader Matteo Renzi.
Il 28 aprile arriva al governo Enrico Letta. A Roma, come nel resto del Paese, il Pd entra in totale confusione. I dirigenti di partito si trovano costretti a puntare sulla propria fiche. Prevale, giorno dopo giorno, la tentazione di scommettere su Matteo Renzi. Ma nel frattempo c’è da scegliere il candidato a sindaco di Roma. E questa scelta avviene nel marasma più totale.
Intanto Renzi inizia la sua seconda Leopolda, tra il 25 e il 27 ottobre del 2013, e si prepara alla riconquista del Pd. Ai vecchi sostenitori di Renzi (Paolo Gentiloni, Roberto Giachetti, Ermete Realacci, il ministro per gli affari regionali Graziano Del Rio), se ne aggiungeranno altri, più o meno dell’ultima ora. Dai veltroniani, sino all’area democratica di Dario schini (Ministro con Letta e pure con Renzi) che si porta dietro esponenti di peso come Marina Sereni, Piero Fassino e David Sassoli, sino ad arrivare ai lettiani (Gianni Dal Moro, sco Sanna, sco Boccia, Lorenzo Basso ed Enrico Borghi). Con il are dei giorni, diventano renziani centinaia di amministratori locali e dirigenti di partito. Chi prima aveva votato Pierluigi Bersani, di colpo si riscopre renziano. Per almeno un mese, sui social network si cancellano foto e status compromettenti. Si rompono amicizie e alleanze ventennali. D’altronde, si deve scegliere se sopravvivere allo tsunami di Matteo Renzi, trovando un posto nelle nuove correnti renziane, oppure perire insieme alla vecchia guardia. Con Gianni Cuperlo, sfidante di Renzi alle Primarie del 2013, rimangono in pochissimi. I militanti del sindacato, gli esponenti di partito che hanno ottenuto vantaggi di carriera, i dirigenti dell’ex Pci e della Federazione dei Giovani Comunisti.
Nel bel mezzo della transumanza degli esponenti Pd da un leader a un altro, si organizzano le Primarie per scegliere il candidato sindaco a Roma. Si può ben comprendere, quindi, la poca lucidità dei dirigenti piddini in un momento in cui Bersani affonda, Enrico Letta diventa premier e Matteo Renzi si appresta a vincere le Primarie dell’8 dicembre, che lo avrebbero eletto segretario del partito. Insomma, nel Pd è un andirivieni continuo, tra correnti che si spostano da una parte all’altra nel giro di un “Amen”. Sullo sfondo, c’è la minaccia del Movimento 5 Stelle che, dopo aver raggiunto il 25% su base nazionale alle ultime politiche, sembra poter avere più di una chance per la conquista di Roma.
Serve un profilo un po’ anti-sistema, di un professionista prestato alla politica, un po’ di sinistra e un po’ alieno alle logiche affaristiche della palude romana. È questo il clima nel quale si giunge a scegliere Ignazio Marino come candidato per il Centrosinistra a sindaco di Roma. La scelta è figlia di una “genialata” di Goffredo Bettini che, ottenuta finalmente la candidatura al Parlamento Europeo, lo lascerà orfano di padre (e pure figlio unico!).
C’è un evento che può darci un quadro esatto del clima nel Centrosinistra romano: lo sgarbo di Marino che non prende parte alla kermesse conclusiva della campagna per le Primarie organizzata dalla fondazione di Massimo D’Alema “ItalianiEuropei”. Da un articolo del Corriere.it: ”Pieno centro, sala gremita: Ignazio Marino come annunciato non c’è perché preferisce «chiudere la campagna elettorale tra i cittadini, sono stato in periferia ad ascoltare i problemi della gente, penso che il sindaco debba fare questo. Giro in bici? Ecologia e ambiente, punti fondamentali per mio programma». Poco prima di mezzogiorno, Marino - accompagnato da un gruppo di ciclisti - arriva in bici davanti al teatro Centrale. Un testimone (l’ex assessore alla Cultura, Silvio Di Francia, lì per sostenere Gentiloni) racconta del
tentativo di entrare di Marino, abortito per ciò che gli viene detto - «il dibattito è finito» - e per via del fatto che tutte quelle bici bloccano la circolazione. All’interno della sala arrivano eleganti signore indignate: «È una vergogna, una provocazione, non viene e ci prende pure in giro?»⁸. Marino dà un ceffone a quella parte del Pd romano che non lo vuole: il Pd dalemian-veltroniano che ha governato Roma per vent’anni, sino all’avvento di Alemanno. Un ceffone che arriva da quel Goffredo Bettini al quale, nel 2009, proprio il duo Veltroni-D’Alema aveva negato la candidatura al Parlamento Europeo. Gli preferirono David Sassoli (corsi e ricorsi storici!), che adesso perde senza scampo contro il Marino . Adesso Bettini si riprende la candidatura in Europa, con il beneplacito di Matteo Renzi, lasciando i suoi avversari fuori dal Parlamento e in balia del suo “Marziano”. Bettini, una volta di più, come Highlander. Sopravvive ai suoi nemici. A confronto di questa “guerra tra correnti” del Pd, la scaramuccia tra Gentiloni e Sassoli sui manifesti abusivi di quest’ultimo, che fanno inalberare un giovane renziano e sostenitore di Gentiloni, Luciano Nobili, è una bazzecola. «C’è un limite a tutto. Anche oggi manifesti abusivi e illegali di Sassoli sopra manifesti regolari di Gentiloni. Senza vergogna»¹ . Nobili diventerà poi, nel giro di qualche mese, vicesegretario del Pd di Roma, Sassoli sarà riconfermato al Parlamento europeo da Renzi, dopo che l’ex giornalista Rai compirà, come tutti, atto di sottomissione al nuovo leader.
Sugli avversari di Marino alle Primarie va sprecata qualche parola.
Ignazio Marino se la deve vedere con un parterre non propriamente competitivo. A contendergli la candidatura un manipolo di mezze figure e di profili non proprio in linea con Roma: Gemma Azuni (Sel), Paolo Gentiloni, David Sassoli (Pd), Patrizia Prestipino e Mattia Di Tommaso (Psi).
Gemma Azuni, con tanto di sgarbo nei confronti del suo stesso partito, resiste alla richiesta di ritirare la propria candidatura. Lei non si ritirerà e Sel le farà pagare la scelta con tanto di interessi. Pur rappresentando un profilo da sempre impegnato nelle problematiche di Roma, Sel non le darà la carica di capogruppo capitolino, preferendole il ben più “rivoluzionario” Gianluca Peciola, figlio di quel mondo delle occupazioni illegali che difenderà a piè sospinto durante tutto il primo anno dell’amministrazione Marino.
Tra le fila del Pd vi sono addirittura quattro candidati. Come a rinverdire i vecchi fasti delle correnti.
Paolo Gentiloni pare essere il candidato ufficiale dei renziani, che durante la Primavera del 2013 assaporano la revanche del loro leader, che sta oramai scalando imperterrito il Partito Democratico. Lo stesso Renzi, alla vigilia delle Primarie, esprime il suo endorsement a favore di Gentiloni: «C’è bisogno di coraggio e innovazione, ma anche della capacità di essere in sintonia con la città, conoscerla, amarla. Tutte qualità che Paolo Gentiloni possiede: competenza e ione che da sindaco saprà mettere al servizio di una grande città come Roma»¹¹. Ma nulla più. In definitiva, Matteo Renzi non ha ancora trasformato il Pd nel PdR (Partito di Renzi), capace di raggiungere il risultato storico del 40,8% alle Europee. Nella sua strategia Roma è secondaria. Quasi una colonia. L’asse del potere politico nazionale, nella sua visione, deve spostarsi a Firenze e nel nord del Paese, dove con Deborah Serracchiani, Maurizio Martina, Sandro Gozi e Graziano Del Rio, sta ponendo le basi per la revanche delle Primarie dell’8 dicembre. Una distanza voluta da Renzi nei confronti della Capitale, che continuerà ad attuare durante tutta l’amministrazione Marino.
Renzi non proferisce parola, semmai fa commissariare il sindaco, costringendolo a un bilancio previsionale di lacrime e sangue. E poi, a dire il vero, i renziani a Roma sono oramai troppi. Gentiloni semmai è il candidato di una parte minoritaria rispetto al vasto panorama dei renziani romani. Oramai nel Pd dirsi “renziani” vuol dire affermare di appartenere al genere umano. Per non dire che, assieme all’endorsement di Matteo Renzi, arriva anche quello di Walter Veltroni. Sicché la sconfitta per Gentiloni è scritta nelle stelle.
David Sassoli appare il contender più credibile. Si fa un gran parlare di come lui possa mettere insieme l’anima moderata del Partito con il mondo cattolico, nonché attrarre l’elettorato moderato di Centrodestra deluso da Alemanno. Di come il suo stile disegni il prototipo del sindaco 2.0. Ha da poco iniziato a curare la sua immagine sui social network. Foto su foto che lo ritraggono in giro per la Capitale con didascalie improntate al pragmatismo di stampo renziano. In molti ci sperano, ma alla fine, dinnanzi al consenso che Marino prenderà, soprattutto dalla parte militante delle sinistra romana, Sassoli si rivelerà solo un fuoco di paglia. I sostenitori di Sassoli non hanno fatto bene i conti. Commettendo un errore banale ma decisivo. Hanno pensato a Sassoli come al miglior candidato per vincere le elezioni a Roma. Alle Primarie, tuttavia, Sassoli rappresenta tutto quello che i militanti storici ex Pci e di Sel odiano. È cattolico, si veste bene, parla da giornalista british, non ha fatto la “Scuola delle Frattocchie” e, cosa ancor più importante, non è mai stato iscritto alla Fgci, l’organizzazione dei giovani comunisti. Non è insomma “uno di noi!”, mormorano nei circoli Pd e nelle sezioni di Sel. Tutto questo lo sa bene Goffredo Bettini.
In fondo alla lista, un po’ come elemento di folklore rosa, Patrizia Prestipino, ex assessore della Provincia di Roma.
Di lei si ricorda una battaglia a suon di post sui social network contro la drammatica piaga che affligge la Capitale: le botticelle e i cavalli con la bava alla bocca costretti a girovagare tra piazza Navona e piazza di Spagna e per questo crollati moribondi sui sanpietrini. La sua campagna per le Primarie è condita di foto della sua gatta e del suo cane, sempre placidamente adagiati su un sofà di casa o ai piedi del letto, quando non infrattati nel guardaroba della Prestipino. Lo slogan non è neanche male: “L’uomo giusto per Roma!”.
In ultimo, il candidato del Psi Mattia di Tommaso. Ecco, appunto, bastano solo queste tre righe.
Se le Primarie fossero state una cosa seria, come quelle nazionali, Sassoli avrebbe avuto molte più chance di Marino, potendo intercettare l’elettorato moderato. A Roma, invece, votano in pochissimi. In appena centomila. Insomma, tanto per capire, la metà della popolazione di un solo municipio della Capitale. È il voto dell’apparato militante che fa, quindi, riferimento ai capibastone. Vanno a votare, oltre ai gruppi dirigenti del Pd, di Sel e dei socialisti (sì, esistono anche loro), i centri sociali, gli immigrati e persino i Rom. O meglio i “caminanti”, definizione che lo stesso Marino imporrà, una volta divenuto sindaco, sui documenti pubblici con una specifica ordinanza.
E i semplici cittadini, quelli della società civile, fuori dalla militanza politica? Neanche l’ombra. Disertano le Primarie. D’altronde, non potrebbe essere altrimenti. Semplicemente perché le Primarie non vengono pubblicizzate. Non ne parlano radio e televisione. Le Primarie sono soltanto per la cerchia interna del Centrosinistra, così come
scriverà in maniera molto efficace sco Piccolo nel suo fortunato libro Il desiderio di essere come tutti.
Il risultato è, quindi, quello sperato e immaginato da Bettini. A votare ci vanno solo quelli contattati e telecomandati dagli apparati di partito, con l’unico risultato possibile: la vittoria del candidato degli apparati del Pd e di Sel. Ignazio Marino, detto il “Marziano”.
Marino vincerà le Primarie, mentre Paolo Gentiloni, candidato di Matteo Renzi, le perderà malamente, andando al di sotto dei voti che lo stesso Renzi otterrà a Roma alla Primarie nazionali. Al Pd romano questo non piace raccontarlo. Tuttavia è un elemento da tener presente nei rapporti che poi seguiranno tra il sindaco di Roma Ignazio Marino e il Premier Matteo Renzi.
I romani disertano le urne: Marino sindaco
Una volta vinte le Primarie a Roma, Marino si trova pressoché da solo durante la campagna elettorale. Non è un segreto per nessuno che pochi sono stati gli esponenti del Pd che hanno sostenuto convintamente Marino durante la campagna elettorale. A dargli una mano sono rimasti lo zoccolo di duro di Sel e l’apparato del Pd romano guidato sino ad allora da Marco Miccoli, con la collaborazione dei nuovi candidati alla presidenza dei municipi di Centrosinistra, scelti anche questi, come Marino, con le Primarie. Le Primarie, che in epoca veltroniana avevano, seppur esteriormente, unito le diverse anime del Pd, in questa occasione falliscono la loro missione. Si rivelano un insuccesso di partecipazione nonostante, nelle intenzioni dell’allora segretario Bersani, avrebbero dovuto connettere l’elettorato con il Pd.
Sin dalle Primarie Marino sceglie lo slogan “Questa non è politica, è Roma”, infastidendo quelli del “Modello Roma”, non ancora rassegnati all’esaurirsi di quell’esperienza. Come a dire: “Sino ad ora avete cincischiato con le vostre posizioni di rendita, riducendo questa città a merce di scambio, ora arrivo io e mi occupo dei romani”. Una vittoria che, anziché unire, divide.
Uno su tutti, David Sassoli, che ha patito di più la sconfitta alle Primarie, si mostra astioso (e con lui i suoi er) verso Marino. Al “Marziano” viene così a mancare il convinto appoggio dell’ala ex-Ppi. Così come non appaiono convinti i dalemiani, memori del ceffone del candidato sindaco alla kermesse a chiusura delle Primarie. Sgarbi che in certi ambienti si pagano, prima o poi.
La tentazione inconfessabile è quella di non appoggiare l’homo novus inventato da Bettini. Quel Bettini che, prima di tutti, lo appella “Marziano”, proponendo così un profilo adatto a limitare la deriva grillina, fondata sullo scontento popolare, sulla disaffezione alla politica, specie dopo cinque anni di amministrazione Alemanno. Un candidato in contrapposizione al Pd cittadino che aveva dato scarsa prova di opposizione. Anche perché, la Sinistra romana, aveva ancora da farsi perdonare la candidatura nel 2008 di un sco Rutelli svuotato di qualsiasi senso politico. Tanto che Alemanno, allora candidato del Centrodestra, vinse cavalcando un’insperata e imprevedibile rimonta al secondo turno.
Da più parti si vocifera che i popolari e i dalemiani del Pd potrebbero persino far convogliare i propri voti sul candidato belloccio, quell’Alfio Marchini che con “Roma ti amo” scatena l’ilarità del web. Una tentazione subito sopita. Alla fine avrà la meglio il buon senso e, più che altro, l’astensione al voto. In ogni caso, la sensazione che la scelta sia stata quella del “tanto peggio, tanto meglio”, è forte.
A sostegno di Marino in campagna elettorale, visto che Marco Miccoli è in Parlamento, viene chiamato Enzo Foschi. Chi è costui? Enzo Foschi, ex consigliere Pd della Regione Lazio, di rito zingarettiano, ex dirigente storico del Pci di Garbatella, non è stato ricandidato alle elezioni regionali di febbraio. Paga, come molti suoi colleghi, la mancata denuncia degli scandali della Giunta Polverini. Tuttavia, alcuni di quei consiglieri regionali del Pd, Bersani li promuove in Parlamento.
Foschi, invece, lo lasciano a Roma, perché paga la vicenda dei rimborsi chilometrici da lui percepiti per gli spostamenti in macchina. Il problema, secondo la Procura, è che lui la macchina non ce l’ha. Così, dopo aver restituito i rimborsi, non gli rimane altro da fare che coordinare la campagna elettorale del “Marziano”. Subito dopo le elezioni, Foschi diventerà, per appena un anno, capo-segreteria del neo-sindaco. Da quel momento, sino alle sue dimissioni, Foschi diventa “gli occhi” del Pd romano nella stanza dei bottoni del sindaco di Roma. L’incarico non sarà portato a termine. Non si saprà mai se per l’inadeguatezza del nostro Foschi, o per l’ingestibilità del “Marziano”.
La campagna elettorale a sostegno di Marino rimane, comunque, caratterizzata dal quel profondo disagio di buona parte dell’ala popolare del Pd verso un candidato che parla di liberalizzare le droghe leggere, che si dice disponibile a trattare sui diritti civili per tutti (gay compresi) e che non fa mistero delle sue posizioni sulle tematiche etiche, come il “fine vita”. Tutte argomentazioni che nulla hanno a che fare con la politica amministrativa della Città, ma che servono a ringalluzzire l’elettorato profondamente di sinistra. A Marino non resta che fare affidamento su Sel e sul Pd zingarettiano e bettinano. Molto poco, specie in un momento storico nel quale il Pd sta diventando sempre più renziano e pronto alla resa dei conti. Resa dei conti che si avrà dopo la vittoria di Matteo Renzi alle Primarie dell’8 dicembre 2013.
E gli elettori di sinistra? A sintetizzare bene il disorientamento di un loro tipico elettore a Roma è il post dello scrittore e giornalista Alessandro Gilioli che, sul suo blog Piovono rane, pubblicato sul sito web de L’Espresso scrive: “Fra meno di tre settimane qui a Roma si vota per il sindaco e spulciando in Rete ho scoperto che si presentano le liste più improbabili: tipo Militia Christi, il Fronte Giustizialista e il Pd. Va beh, non ho resistito alla battuta, però in effetti il
problema c’è: nel momento della sua massima vergogna, il Partito democratico presenta per il Campidoglio il suo candidato migliore. Conosco Ignazio Marino da anni ed è quasi tutto quello che vorrei dal Pd: non solo in tema di diritti civili, ma soprattutto di metodi, di pratiche, di coerenza, di ascolto, di onestà personale e intellettuale. Escludo tuttavia, per motivi che chi mi legge ben sa, di votare il Pd e satelliti: vorrei anzi – i miei amici di quel partito non si arrabbino – che a questo giro romano il Pd si prendesse una legnata storica, dopo quello che ha combinato a livello nazionale. Quindi, che fare? Ho in mente una manciata di soluzioni, tra le quali sceglierò nei prossimi giorni. Una è votare Sandro Medici al primo turno, per poi convergere su Ignazio al secondo, quando lo scontro sarà a due (improbabile, ho troppa stima di Marino). Un’altra è votare solo per Marino sindaco, senza indicare alcun simbolo (ma così di fatto finirei per sostenere indirettamente il Pd, se non sbaglio). Una terza – quella a cui sono più propenso – è praticare il voto disgiunto: scegliendo Marino come sindaco e un’altra lista, diversa sia dal Pd sia da quella ancillare (tocca dirlo) di Sel. Potrei valutare la lista civica che Ignazio ha messo in piedi (devo un po’ studiarne i nomi), ma più probabilmente completerò il mio pastrocchio scegliendo la lista – solo la lista – del M5S, sperando che almeno in consiglio comunale si riesca così a creare di fatto ciò che, come noto, è sfumato alle Camere. Voi che ne dite?”¹².
C’è da chiedersi se Gilioli, a poco più di un anno dall’elezione di Marino, ripeterebbe il suo giudizio positivo sul “Marziano”.
Fatto sta che Marino vincerà le elezioni e sarà sindaco di Roma.
Un elemento lascia però basiti. Il neo-sindaco vince al ballottaggio con 664.490 voti, pari al 63,93%. Un risultato persino al di sotto di quello ottenuto dal perdente sco Rutelli nel precedente ballottaggio del 2008. I voti quella volta furono 676.472 e valsero a Rutelli il 46% circa. Un altro dato appare ancora più interessante: alle amministrative del 2008 l’affluenza alle urne fu del 73,6% al primo turno e del 63% al ballottaggio. Nel 2013 i dati dicono: 52,8% al primo turno e 44,9% al ballottaggio¹³.
La sentenza è lapidaria: la maggior parte degli elettori romani ha disertato le urne.
Anche questo è un elemento importante per capire perché il “Marziano”, a poco più di un anno, è solo e inviso alla maggioranza dei cittadini romani.
La Giunta Marino: non è Roma, è politica
Il sindaco “Marziano” sin da subito vuole dare un segnale di discontinuità alla sua avventura politica romana. A partire dal suo slogan, “Questa non è politica, è Roma”. Un motto che, come già detto, ha fatto storcere il naso a più di un politico di professione del Centrosinistra. Come se Marino volesse porsi a un livello etico più alto rispetto a chi lo aveva preceduto. Ma lo slogan nei fatti è stato ribaltato sin dalla difficile e drammatica composizione della Giunta. Il “Marziano”, dopo aver condotto una campagna elettorale che voleva mettere una distanza tra il suo stile e la vecchia politica, alla fine si piega alle logiche dei partiti, delle correnti e del bilancino.
All’epoca della nomina della giunta, Marino affermava tronfio: “Sono molto soddisfatto di questa Giunta che ha una rappresentanza del 50 per cento di donne e 50 per cento di uomini, di molte persone competenti, ognuna scelta con molta attenzione sulla base della sua formazione, della sua personalità, della sua ione e del suo entusiasmo per l’area strategica che gli è stata affidata. E poi soprattutto c’è l’idea di un lavoro in squadra che inizierà con una comunicazione che avrà una sola voce, concordata da tutta la squadra degli assessori della nuova Giunta”. A dire il vero i malumori nel Pd non si fecero attendere. Ancor prima di trovare la quadra della Giunta della Città, Marino aveva provato a dare sfogo alla sua natura anti-politica. Era bastato che balenasse sui giornali la possibilità di dare l’assessorato alla legalità e alla sicurezza urbana a un grillino, che subito il Pd aveva tuonato per voce del duo Enrico Gasbarra - Eugenio Patanè: «È impossibile ogni confronto programmatico con chi dimostra di avere come priorità un disegno di
distruzione»¹⁴.
Al di là della retorica delle quote rosa, poi ripresa dallo stesso Matteo Renzi nel presentare le proprie ministre, Marino, nella formazione della Giunta, non ha fatto altro che praticare il vecchio gioco del bilancino. A partire dalla scelta del suo vicesindaco Luigi Nieri (Sel). Quest’ultimo è stato ricompensato per l’appoggio concreto di Sel alla candidatura prima e durante le Primarie, e all’impegno poi in campagna elettorale. Fu lo stesso Nieri a rinunciare alla propria candidatura alle Primarie, con tanto di visita a Palazzo Madama per tranquillizzare l’allora senatore Marino.
Quale curriculum per Nieri? A guidare la scelta, l’appartenenza politica e la gratitudine per il o indietro.
Tra le altre cose, l’accoppiata Marino-Nieri replica il binomio ZingarettiSmeriglio alla Regione Lazio. Binomio che ha creato e crea tuttora malumori da parte dei popolari del Pd, oggi pressoché tutti renziani della prima e dell’ennesima ora.
Altri nomi scelti per il proprio curriculum e per competenze? Daniele Ozzimo (Pd), assessore alla Casa. Lui entra in Giunta in quota D’Alema. Profilo dichiaratamente politico quindi, con una lunga gavetta nel Pd romano. Semmai, vista la sua esperienza pregressa in Campidoglio, a lui sarebbe dovuto andare l’assessorato ai servizi sociali, visto che era stato vice presidente della
Commissione Politiche sociali e membro della commissione Lavori Pubblici, scuola, e sanità. E invece no. Quella casella è stata già rivendicata a gran voce dalla Comunità di Sant’Egidio, movimento laicale di ispirazione cristiana cattolica, che ha avuto un’espressione politica in Scelta Civica con il senatore Marazziti (poi ato in altri due, tre nuovi gruppi parlamentari dopo il dissolvimento della creatura di Mario Monti) e con il ministro del governo Monti Andrea Riccardi. Marino accontenta l’area cattolica di Sant’Egidio, nominando Rita Cutini alle Politiche sociali. Da molti definita “tecnico”, in virtù della sua attività proprio presso la potente comunità di Sant’Egidio. Sul suo curriculum figurano le docenze per i corsi organizzati dalla Provincia di Roma su diverse tematiche, in particolare relative ai Servizi Sociali. Peccato che a Roma tutti si stiano ancora chiedendo quali siano le misure che il Campidoglio voglia mettere in campo per governare l’annosa questione dei Rom e dei centri di accoglienza per gli immigrati. Sempre parlando di bilancino politico, abbiamo Poalo Masini (Pd), assessore ai Lavori pubblici. Epica la sua battaglia, durante l’amministrazione Alemanno, contro la svendita di Acea. Per lui, più che il suo curriculum, è valsa la sua appartenenza politica all’area zingarettiana.
Tuttavia, la summa del compromesso politico la si raggiunge con la sofferta nomina dell’assessore alle Attività produttive e Turismo. Una carica offerta da Marino un po’ a tutti. C’era da riequilibrare la composizione della Giunta. I renziani ne erano rimasti fuori e bisognava trovare una donna per riequilibrare le quote rosa. Ed ecco quindi la profferta a Lorenza Bonaccorsi, deputata “renzianissima” della primissima ora, la quale, dopo essersi fatta due conti, rifiuta. Marino pensa allora a Marianna Madia. Certo lettiana, ma pur sempre in fase di avvicinamento a Matteo Renzi. Tanto che, deputata anche lei (promossa al tempo da Walter Veltroni proprio in virtù del principio dell’inesperienza), viene poi promossa dallo stesso Renzi a Ministro del Lavoro. Quindi anche la Madia se ne
guarda bene dall’accettare la proposta.
La verità però è che c’è da far rientrare in Parlamento, come primo dei non eletti, tale Marco di Stefano, ex consigliere della Regione Lazio, approdato al Pd dopo i trascorsi nel CCD-UDC. Qualcuno quindi avrebbe dovuto dimettersi da deputato per fargli posto. Il compenso? Un assessorato nella Giunta Marino. Chi sacrificare dunque? Ci vuole un soldato fedele alla causa. È Marta Leonori. Giovane, donna e militante. Tanto dedita alla causa che, appena raggiunta al telefono negli Usa, dove si trova per lavoro, risponde subito: “Sì!”. Di Stefano entra così in Parlamento e lei salva le quote rosa della Giunta Marino, oltre che a risolvere una grana tutta interna al Pd romano e laziale. Quale curriculum? Quale competenza per la Leonori? Carriera tutta politica la sua, dal coordinamento delle donne dei Democratici di Sinistra del XI municipio capitolino, ando per il ruolo di responsabile per l’Università della segreteria romana dei Ds, sino alla presidenza del Pd Lazio. Per rimpolpare il suo profilo “politico”, dal 2001 trova impiego come direttore nella fondazione “ItalianiEuropei” di Massimo D’Alema. Non c’è che dire, bel curriculum… Politico!
Ed Estella Marino? Lei si candida nel Partito Democratico e fa il record di preferenze (9.221 voti). Pochi dicono pubblicamente quello che tutti pensano: ha fatto il pieno di preferenze per il cognome. Per carità, non è “parente di”, ma quanti saranno stati coloro che, dopo aver
barrato il simbolo, avranno scritto “Marino”, pensando che fosse necessario esprimere anche la preferenza per il candidato sindaco Ignazio “Marino”, scrivendo il suo cognome? Il pensiero maligno viene anche a La Repubblica che, per avvalorare la tesi, il 28 maggio pubblica un articolo dove mette in luce come “casualmente”, sia Estella Marino nel Pd, che Franco Marino nella “Lista civica per Marino”, abbiano ottenuto il maggior numero di voti nelle rispettive liste¹⁵. La fortuna di chiamarsi “Marino”! Fatto sta che la sua nomina ad assessore è scontata. Chi prende più voti di tutti deve pur essere premiato. Tenendo conto del suo percorso di studi (Ingegnere con un master in Economia e Gestione Ambientale e un dottorato in Tecnica Urbanistica), l’assessorato a lei affidato (Ambiente), appare la scelta più coerente. Ma anche lei ha pur sempre un’appartenenza politica. Ha votato Renzi alle Primarie ed è vicina all’area zingarettiana, per la gioia dell’ala popolare del Pd romano.
E i tecnici “puri”, quelli selezionati solo per il proprio curriculum, senza alcuna aderenza ai partiti? Eccoli. Una dovrebbe essere Alessandra Cattoi, assessorato Scuola. Viene definita “tecnica” dalla stampa. Sempre se per “tecnica” si intende una che è stata Coordinatrice del comitato elettorale di Ignazio Marino, nonché assistente personale, sempre di Marino, durante la sua esperienza parlamentare. I suoi titoli accademici? È una giornalista specializzata nelle tematiche della medicina, tanto da aver personalmente curato il libro di Ignazio Marino Nelle tue mani. Medicina, fede, etica e diritti. Insomma, una persona fidatissima che il neo-sindaco, come nelle miglior tradizioni della prima e della seconda Repubblica, si porta dietro nominandola assessore.
E gli altri tecnici “puri”? Sempre per la stampa romana sarebbero: Giovanni Caudo all’Urbanistica; Guido Improta alla Mobilità; Flavia Barca alla Cultura; Luca Pancalli allo Sport; Daniela Morgante al Bilancio. Di questi cinque, due si sono dimessi (Daniela Morgante e Flavia Barca), sostituiti da altrettanti tecnici (Silvia Scozzese e Giovanna Marinelli). Senza contare che Guido Improta, mostrando di essere uomo di mondo, a margine di una riunione con la Uil a inizio settembre 2014, ha affermato: “Fino a ora i risultati che devo raggiungere li ho ben chiari e quindi so che devo lavorare altri 2-3 mesi per consolidarli. Dopo di che, a gennaio 2015, valuteremo insieme il percorso da fare”. “I risultati o si raggiungono o non si raggiungono, se non li avrò raggiunti sarò io ad andarmene“¹ .
Come a dire, se sei tecnico veramente “puro”, prima o poi ti devi dimettere. A dimostrazione che “Non è Roma, è pur sempre le vecchia politica”.
Con buona pace del “Marziano”.
II Marino, sindaco o curatore fallimentare?
Da Aledanno al Marziano
È pressoché certo che Ignazio Marino non abbia mai guardato la puntata di Report del 13 aprile 2013 dal titolo Romanzo criminale¹⁷. Almeno prima di candidarsi a sindaco di Roma. Se lo avesse fatto, avrebbe capito in quale guaio si stava per cacciare. L’eredità che ha lasciato Alemanno è a tratti inquietante, oltre che fallimentare.
Il primo lascito di Alemanno è il buco di bilancio. Ritornello cantato da tutti i sindaci appena insediatisi nei confronti del proprio predecessore, specie se di schieramento politico avverso. Anche Alemanno non aveva trovato una situazione facile al suo ingresso in Campidoglio. Il bilancio comunale era ai minimi termini, tanto che la Ragioneria generale dello Stato nelle sue Valutazioni sui dati di bilancio, scriveva a chiare lettere: «È stato stimato in circa 1.089.698.012 di euro l’entità del riequilibrio strutturale necessario al Comune di Roma»¹⁸. Al “buco di bilancio” ha urlato anche Marino, appena insediatosi. In verità, a richiedere un’attenta analisi dei conti agli ispettori della Ragioneria di Stato fu lui stesso, qualche mese dopo essere stato eletto, desideroso di urlare ai quattro venti l’importo esatto del buco lasciato dal suo predecessore. Un boomerang, poiché fu certificato che Roma Capitale era praticamente in pieno stato fallimentare, con conseguente commissariamento del governo della Città da parte del Governo Renzi.
La gestione Alemanno è stata caratterizzata da irregolarità, sempre secondo gli ispettori della Ragioneria di Stato: “Nelle procedure di affidamento degli appalti di servizi e nella corresponsione del trattamento accessorio al personale dipendente, in palese violazione del contesto normativo e contrattuale vigente”. Insomma, fondi pubblici a pioggia per incentivi e premi, nonché, “criticità molto
significative nelle procedure di reclutamento del personale”, ovvero i famosi consulenti della pubblica amministrazione privi di requisiti e titoli. C’è da dire che, anche in questo caso, l’amministrazione Marino non si è distinta dalla precedente. Infatti, sono sempre gli ispettori che rilevano come “le medesime irregolarità” riguardino “contratti sottoscritti nella seconda parte del 2013”. E anche Marino, nei suoi primi mesi di amministrazione, non risparmia incarichi e stipendi. È un’inchiesta de Il Fatto Quotidiano a pubblicare le cifre dell’entourage del Sindaco: “Lo staff della Giunta del Comune di Roma costerà poco meno di 3,8 milioni di euro all’anno. Si tratta degli stipendi dei 58 collaboratori del sindaco Ignazio Marino e dei 12 assessori: incarichi fiduciari a personale esterno che per metà riguardano l’entourage di Marino e del suo vice Luigi Nieri (gabinetto, segreteria e ufficio stampa) e per l’altra quello degli altri componenti della Giunta”¹ . L’articolo si sofferma sulla retribuzione del capo ufficio stampa del sindaco, tale Marco Girella, per un totale di 170.000 euro lordi annui, a fronte dei 162.000 dell’allora addetto stampa di Alemanno. Ma fa sensazione anche l’importo annuo a beneficio dell’allora capo-segreteria del sindaco Marino: 114.000 euro lordi per Enzo Foschi. Ovvero circa 6.000 euro in più di quanto percepiva il suo predecessore, Antonio Lucarelli, quello ato alle cronache romane per lo sgambetto a una ragazza che, durante le proteste sulla privatizzazione di Acea, cercava di occupare l’Aula Giulio Cesare² . È pur vero che lo stesso Foschi si dimetterà a poco meno di un anno di amministrazione Marino e con lui “gli occhi del Pd” usciranno dalla Giunta. Non sono stati pochi a insinuare forti attriti con il sindaco Marino. Tanto che lo stesso Foschi ha dovuto smentire: «Assolutamente nessun attrito con Marino e la sua Giunta. Voglio bene a tutti»²¹. Di Foschi, tutti i giornalisti capitolini, si ricorderanno per via di una sua infelice uscita sui social network, in occasione di una manifestazione per il diritto alla casa nell’ottobre del 2013 a Roma. «I veri Bleck block sono tutti quei giornalisti infiltrati nel corteo… delusi dal fatto che non scorra sangue…»²². A parte che “bleck” si scrive “black”, ma, dati gli attriti tra Marino e il Pd romano, le dimissioni sono nell’aria. Anche se poi, più che all’inadeguatezza della persona
rispetto al ruolo ricoperto, la stampa romana ha imputato le sue dimissioni alle oramai conclamate divergenze tra il Pd (romano e laziale) e il sindaco “Marziano”.
Ad oggi Foschi ricopre un ruolo interno al Pd romano. E al massimo scrive post sulla AS Roma. Quindi, sono tutti più tranquilli.
Ma stavamo dicendo come Marino abbia continuato la pratica delle assunzioni dirette, al pari del suo predecessore Alemanno. Alla fine della fiera, il Fatto Quotidiano stima che lo staff del sindaco Marino, del suo vice Luigi Nieri e dei 12 assessori, all’ottobre del 2013, ammonta a “78 unità, con un costo per le casse comunali lievitato da 3,8 milioni di euro a oltre 5,4 milioni”²³. Anche questo elemento grava sui cittadini romani che all’approvazione del bilancio 2014, si sono visti aumentare l’Irpef e la Tasi per far fronte al buco di bilancio denunciato dallo stesso Marino di circa 900 milioni di euro. Per non parlare dei tagli ai fondi destinati ai municipi di Roma, le cui risorse vengono impiegate per lo più per i servizi sociali e la manutenzione delle strade. Andando a leggere i nomi dei neo-assunti, sempre secondo l’inchiesta de Il Fatto Quotidiano, si viene a sapere che molti di questi consulenti, chi più chi meno, sono imparentati con le solite lobby che da decenni governano la Capitale: “Un corposo elenco, composto da persone di ‘fiducia’, come ad esempio Giulia Calamante, figlia dell’ex assessore alla mobilità di Walter Veltroni (staff dell’assessorato commercio, 30.000 euro) o da trombati della politica come Nicola Galloro, candidato non eletto alle comunali (lavora all’assessorato Casa, 30.000 euro), che ultimamente è stato irrobustito anche da Benedetta Cappon, portavoce degli occupanti del Teatro Valle e figlia dell’ex direttore generale Rai Claudio che a all’assessorato alla cultura, al costo di 30.000 euro annui. Tra i nuovi ingressi figura anche l’ex segretaria parlamentare Maria Frati. Come anticipato dal Messaggero, la fedelissima di Luigi Fucito, capo di gabinetto di Marino, da un giorno all’altro è stata elevata al grado di dirigente del Campidoglio al costo di 54.000 euro annui”.
Il partito del “tengo famiglia” trova sempre una sistemazione.
Ma tornando alla relazione degli ispettori del Mef, chiamati da Marino, nel loro rapporto si legge: “L’attuale amministrazione (Marino, ndr), in linea con i comportamenti precedenti, ha dimostrato una notevole celerità nell’avanzare richieste di o finanziario allo Stato, mentre ben poco ha fatto per attivare entrate proprie”. Gli ispettori, dopo mesi di lavoro, sparano la sentenza: più che per le somme spese da Roma Capitale, abbiamo riscontrato criticità in relazione alle modalità di spesa. Ovvero: le modalità allegre con le quali è stato concesso ai dipendenti pubblici comunali il salario accessorio. Apriti cielo! Marino continua la scellerata gestione del salario accessorio perpetrata da Alemanno. A dare una lettura corretta del responso degli ispettori del Mef fu l’allora assessore al bilancio Daniela Morgante, poi forzata alle dimissioni. E difatti affermò come il salario accessorio non potesse essere erogato a pioggia, ma andasse legato alla produttività o a singoli progetti. E la Morgante, che ci teneva ad essere puntigliosa, concludeva dicendo che, poiché le modalità di erogazione del salario accessorio adottate da Roma Capitale (e non solo) non erano “in linea con la legge”, si sarebbe dovuto procedere a rivedere le clausole dei contratti di ogni singolo dipendente che ne aveva beneficiato. Così successe che, il 6 maggio 2014, circa diecimila dipendenti comunali hanno sfilato a Roma contro il taglio del salario accessorio. Il colmo è che il sindaco “Marziano”, nonostante le mazzate prese dagli ispettori, ha avuto lo spirito di affermare: “La relazione del Mef l’ho chiesta io. E su questo posso esprimere la mia grandissima soddisfazione”. Insomma, come si dice, “cornuto e mazziato”. A onor del vero, la relazione, completata e diffusa nell’aprile del 2014, fa anche luce sui “magheggi” di Alemanno in fatto di bilancio. Pratica che, stando almeno al parere della Ragioneria di Stato, è continuata anche con la nuova Giunta Marino. Tanto che gli ispettori chiamati da Marino hanno messo nero su bianco che: «Anche a seguito dell’insediamento dell’attuale consiliatura, la situazione
non appare migliorata, essendosi ripetuti i medesimi comportamenti registrati negli anni precedenti»²⁴. Gli ispettori hanno fatto luce sulla gestione Alemanno trovando la presenza di debiti fuori bilancio, residui attivi non ati da titolo giuridico e un inadeguato accantonamento di somme dal fondo di svalutazione crediti. Il tutto per aver creato un buco di circa 500 milioni di euro.
Di fatto, Alemanno, nonostante le difficoltà finanziarie avessero indotto nel 2008 lo Stato ad accollarsi il debito pregresso del Comune di Roma, aveva continuato ad aumentare la spesa corrente, che ò da 3 miliardi circa nel 2007 a 4 miliardi nel 2012. Fra gli incrementi di spesa maggiori, c’era quello legato al “contratto di servizio di trasporto” che ò da 198 milioni nel 2007 a 668 nel 2012. Si tratta dei soldi destinati all’Atac, la municipalizzata oggetto della “parentopoli” di Alemanno. Altro lascito al neo-sindaco Marino. Infatti, nel novembre 2010, la stampa riporta l’apertura di un’indagine da parte della Procura di Roma su 854 assunzioni per chiamata diretta. Tutti all’Atac. È in quella occasione che si scopre che una cubista viene assunta come segretaria del direttore industriale Atac, Marco Coletti. Altro caso, questa volta inquietante, sono le assunzioni di sco Bianco e Gianluca Ponzio, ex esponenti della formazione criminale di estrema destra dei Nar. Ironia della sorte, Gianluca Ponzio, ex Nar, viene impiegato in un altro Nar, il Nucleo Amministrativo, come ricorda il giornalista di Repubblica Daniele Auteri, intervistato da Paolo Mondani di Report. Ma accanto a questi casi di folklore, spuntano tutta una serie di nomi di generi, nuore e nipoti di dirigenti, politici e sindacalisti. Insomma, il solito partito dei “tengo famiglia” di cui sopra. Come ha scritto il giornalista Emiliano Fittipaldi de L’Espresso: “Il crepuscolo di Alemanno è cominciato con lo scandalo delle assunzioni facili all’Ama e all’Atac, le società comunali che tra il 2008 e il 2009 hanno fatto centinaia di contratti anomali (tra cui quelli alla figlia e al figlio del caposcorta di Alemanno) a decine di parenti e fidanzate di dirigenti del Centrodestra, finiti poi al vaglio della procura. Gli uomini del nuovo Dux non sembrano aver perso il vizio, e l’ultimo assunto eccellente che ha scatenato nuove polemiche si chiama Paolo
Zangrillo, fratello del medico personale di Silvio Berlusconi, da settembre direttore del personale in Acea con stipendio di 300.000 euro e casa di 200 metri quadri pagata. Alemanno non ha dimenticato il suo, di medico personale: Adolfo Panfili è infatti ‘delegato del sindaco per i rapporti con gli enti sanitari’, mentre sua moglie Valeria Mangani - non si sa a che titolo - è stata nominata vicepresidente della spa comunale di moda Alta Roma”²⁵.
Dicevamo della puntata di Report “Romanzo Criminale” firmata da Paolo Mondani. La puntata andò in onda ad aprile 2013, poco più di un mese prima delle elezioni che avrebbero consegnato Roma a Ignazio Marino. È un doloroso e inquietante affresco su cosa è stata Roma durante la Giunta Alemanno. Dai “Punti verdi qualità”, nella cui gestione fa capolino la sorella di Gennaro Mockbel, alle infiltrazioni del boss Fasciani in quel di Ostia e negli affari della città, sino alla presenza di pezzi dell’estrema destra negli ingranaggi della macchina amministrativa della Capitale. Per non parlare dei subappalti per il cantiere della Metro C, affidati a imprese in odore di mafia, senza dimenticare le mazzette che volano per la fornitura dei 45 filobus per il “corridoio Laurentina”.
Un fiume di soldi pubblici distribuiti per oliare meccanismi gestiti da lobby del crimine. Sprechi che hanno prosciugato le casse comunali, tanto da ridurle ad un colabrodo. Città oramai soggetta, data la penuria di fondi, a inondazioni per ogni acquazzone, le cui voragini e buche sulle strade sono una seria minaccia per i cittadini, il cui sistema di mezzi pubblici è al collasso e la cui viabilità sembra un rebus senza soluzione. Quella Roma che, a oggi, tra mazzette e voto clientelare, non è più in grado di garantire i servizi minimi ai propri cittadini. Quella Capitale ridotta a chiudere spazi di condivisione e nella quale non vi sono più risorse per la cultura, eccezion fatta che per gli spazi abusivamente occupati.
Ignazio Marino si ritrova sindaco di questa città. In parte ne continua la mala gestione, come abbiamo visto, in fatto di assunzioni dirette, in parte si ritrova al cospetto di una situazione fallimentare già in partenza.
Marino si ritrova a eggiare ai bordi di un cratere. “Sostenuto” da un partito, il Pd, che non ha mai creduto nella sua candidatura e gravato dalla immane eredità di Alemanno, meglio conosciuto come “Aledanno”. D’altronde, come disse qualcuno tra le fila dell’allora Pdl: “A Roma dopo Alemanno non vinciamo nemmeno se candidiamo Gesù Cristo”.
Amen.
Quanto durerà Marino?
All’indomani della vittoria di Alemanno in Campidoglio, nel 2008, fondai una testata web locale e le diedi il nome di Roma2013, convinto che il suo mandato sarebbe durato sino alla scadenza naturale. Al momento della vittoria di Alemanno, le premesse perché il mandato durasse cinque anni, c’erano tutte. Il sindaco aveva il pieno sostegno del suo partito (l’allora Pdl) e della maggioranza dei cittadini romani, molti non di destra, che avevano praticato il voto disgiunto, scegliendo al comune Alemanno e alla provincia Nicola Zingaretti. Un segnale forte da parte dell’elettorato tradizionalmente di sinistra nei confronti della candidatura di sco Rutelli, vissuta come una scelta non convincente e, quindi, rivelatasi perdente. La maggioranza dell’elettorato romano nel 2008 aveva semplicemente decretato che la stagione del “Modello Roma” si era esaurita. Come affermò l’ideatore Goffredo Bettini, un anno dopo la débâcle del Centrosinistra: “Il Modello Roma non è fallito, si è semplicemente esaurito”² . Più che Rutelli, il vero sconfitto delle elezioni del 2008 fu Walter Veltroni. Fu a causa delle sue dimissioni dal Campidoglio, il 13 febbraio 2008, ben tre anni prima del termine naturale della sua amministrazione, che fu necessario tornare alle urne. Veltroni ruppe gli indugi presentando la sua candidatura alle Primarie del Partito Democratico. Questo coincise con il famoso (per altri “famigerato”) “Discorso del Lingotto” del 27 giugno 2007. Iniziò così la nefasta stagione del “Partito a vocazione maggioritaria”. Veltroni vince le Primarie che lo eleggono primo segretario del neonato Partito Democratico (14 ottobre 2007). Un plebiscito “democratico”, con il 75% delle preferenze. Ma, mentre la sua figura come leader nazionale stava crescendo, diminuiva invece il suo consenso come sindaco. In fondo, Roma non è Firenze. Con tutto ciò che la cosa comporta.
Il 13 e il 14 aprile del 2008 si va ad elezioni e Veltroni, pur raggiungendo il Pd uno storico 33%, perde nei confronti di Silvio Berlusconi. È vero che il Pd si rafforza, ma la coalizione di Centrosinistra dista un buon 5% da quella di Centrodestra. Veltroni si inventa il governo ombra e segna così la sua fine. A Roma si vota il 13 e il 27 aprile 2008. Alemanno, sotto al primo turno (675.111 voti con il 40,7%, contro i 759.252 con il 45,8% di Rutelli), è protagonista di un prodigioso soro al secondo turno (783.225 voti con il 53,7%, contro i 676.472 voti con il 46,3% di Rutelli). Lo smacco più grosso Rutelli lo riceve dal fatto che, essendoci in contemporanea anche le elezioni per la Provincia di Roma, molti elettori romani praticano il voto disgiunto, votando Alemanno al Comune e Nicola Zingaretti alla Provincia di Roma. Si ha così la conferma che la candidatura di sco Rutelli era stata sbagliata nei modi e nei contenuti.
Fu lo stesso Rutelli ad affermare, alquanto affranto: «Provo una profonda amarezza. Adesso cercheremo di capire chi sono i 100.000 elettori che si sono astenuti nel ballottaggio e chi sono quelli che hanno votato per Zingaretti e per Alemanno»²⁷. Al decision maker di quella sciagurata candidatura è da addebitare la responsabilità dei cinque fallimentari anni di Alemanno.
Di fatto, quella di Rutelli, fu una scelta per nulla concordata con i partiti della sinistra radicale, a differenza della candidatura di Ignazio Marino. Nel caso di Marino si è avuta la situazione contraria rispetto al 2008: Pd freddo, Sel, partiti e associazioni di estrema sinistra caldi. Inoltre, a concorrere all’elezione di Marino è stata l’astensione dalle urne da parte della maggioranza dei romani, oramai disaffezionati alla politica. Come già detto, Ignazio Marino diventa sindaco di Roma prendendo meno voti dello sconfitto Rutelli. Questo dice tutto.
Marino vince allorquando il Centrodestra è morto a Roma, così come nel Paese. Oltretutto, dopo una disastrosa amministrazione di Centrodestra, animata da scandali, avvisi di garanzia e arresti, con un vorticoso giro di mazzette e assunzioni facili.
Ma quanto durerà Marino?
Se oggi ne avessi voglia, inaugurerei una nuova testata: Roma2015. Perché è molto probabile che nel 2015, oltre che per le politiche, si tornerà a votare anche per le amministrative di Roma. Il sindaco Ignazio Marino, specie durante il suo primo anno da sindaco, si è trovato in perenne stato di assedio, più che dall’opposizione di Centrodestra, dalla maggioranza di Centrosinistra. Gli ultimatum da parte del Centrosinistra romano si sono susseguiti senza soluzione di continuità. Ma dietro i ripetuti inviti a concordare le decisioni collegialmente, c’è stata la ferma volontà di continuare a governare Roma secondo il solito e ormai inveterato sistema affaristico. Un sistema che ha portato alla nascita e alla crescita di soggetti come Manlio Cerroni, con le sue discariche di rifiuti; alle assunzioni presso le municipalizzate degli amici degli amici; alle nomine “politiche” nei Cda. Il sistema ha permesso, anche durante il “Modello Roma”, di accontentare i potentati economici e politici di entrambe gli schieramenti. E ad oggi, laddove un elemento di discontinuità come Marino minaccia di mettere in crisi la spartizione, tutto appare più chiaro e intellegibile. Ignazio Marino è un “Marziano”, come è stato più volte ripetuto e scritto. Lo sapevano bene nel Pd. Anche durante la sua campagna elettorale si era ben compreso come fosse inviso agli occhi della coalizione che avrebbe dovuto sostenerlo. Però qualcuno confidava nel fatto che si trattasse di un “utile idiota”. Non è un segreto per nessuno che lo stesso Pd romano non si sia prodigato più di tanto in campagna elettorale. Allora si disse che non era facile coordinarsi nelle varie attività a sostegno del candidato Marino, visto che il segretario romano del Pd di Roma (Marco Miccoli) era andato a fare il parlamentare. Ma in verità, nel Pd di Roma era in atto una guerra tra bande, che ad oggi si è un po’ mitigata
sotto l’ombrello renziano. Ma anche tra gli odierni renziani romani c’è chi parla in maniera critica del “cerchio magico” di Marino. A Marino, nei primi mesi di amministrazione, non è rimasto che proteggersi sotto l’ampia coperta di Bettini, che lo aveva scelto e trasformato nel vincitore in pectore. Lo stesso Goffredo Bettini è stato però poi inviato al Parlamento Europeo da Matteo Renzi. Una sorta di ricompensa per essersi voluto togliere dalle scatole, lasciando più spazi di manovra al nuovo corso renziano del Pd romano.
La scena che racchiude più di tutte la rottamazione di Goffredo Bettini sta nell’imbarazzante battibecco tra lo stesso Bettini e tale Fabrizio Panecaldo, consigliere capitolino di lungo corso. È da un articolo del Corriere della Sera che si apprende quanto segue: “Doveva essere una festa e, per buona parte del pomeriggio, lo è stata. Piazza Farnese, bandiere del Pd, palco per festeggiare lo storico 43% del partito a Roma nelle Europee. Ci sono quasi tutti i parlamentari neoeletti a Bruxelles, c’è David Sassoli (206.000 preferenze, secondo più votato) che sorride e stringe mani, Enrico Gasbarra che saluta, Silvia Costa, Simona Bonafé, c’è un pezzo del Pci-Pds-Ds che fu (da Pietro Folena a Ugo Sposetti, da Walter Tocci a Piero Badaloni), le nuove leve renziane e non (da Luciano Nobili a Michela Di Biase, da Marianna Madia a sco D’Ausilio), qualche «pezzo» della Regione (il capo di gabinetto di Zingaretti Maurizio Venafro; l’assessore ai Trasporti Michele Civita). E poi esponenti della Giunta comunale (Estella Marino, Marta Leonori, Paolo Masini, più l’ex Flavia Barca), dello staff del sindaco (Silvia Decina, Mattia Stella), della maggioranza capitolina (il capogruppo della Civica Marino Luca Giansanti), la coppia Esterino MontinoMonica Cirinnà. Mancavano sindaco e governatore, Marino e Zingaretti. In piazza c’è anche Goffredo Bettini, per anni «guru» del Centrosinistra romano che, nonostante il buon risultato raggiunto (90.000 preferenze nel collegio, quarto dei più votati, il quinto a Roma), è particolarmente nervoso. E così, quando ormai il comizio è finito e la gente cominciava a sfollare, Bettini ha deciso di «regolare» i suoi conti. Prima si è avvicinato a Fabio Melilli, segretario regionale, reatino, ex presidente della Provincia di Rieti, rimproverandolo a brutto muso: «A Rieti non sono usciti fuori i voti. Ho fatto dimettere Sbardella, pensa se mi fa paura uno come te…». Cioè, lo «squalo» della Dc anni ’80. Traduzione per i non addetti ai lavori: in quella provincia, Gasbarra (originario della zona) ha preso più preferenze di Bettini (3.626 contro 1.940),
«triplicandolo» in città con 1.216 a 460. Basta? Non basta. Bettini, fuori di sé dalla rabbia, sotto al palco, vicino a una delle fontane della piazza, vede Fabrizio Panecaldo e anche lì parte all’attacco: «Perché non mi hai fatto votare? Mi hai fatto perdere». Sottinteso: il derby con Gasbarra. Sul momento sembrava uno scherzo: Panecaldo è nel gruppo Renzi del ticket Bonafé-Gasbarra e a luglio rimase fuori dalla Giunta del Campidoglio «in omaggio» all’ingresso in parlamento di Marco Di Stefano (dopo le dimissioni della Leonori, cooptata da Marino). Ma Bettini non scherzava: spintone a Panecaldo e rissa sfiorata. Tanto che qualcuno, alla fine, l’ha buttata sull’ironia: «E pensa che abbiamo vinto… Se perdevamo che succedeva?»²⁸”.
Questo articolo spiega meglio di qualsiasi altra cosa il clima nel Pd a Roma. Quel Pd che, su impulso di Goffredo Bettini, aveva candidato Ignazio Marino e che, appena dopo le Europee, essendosi chiarito il quadro di chi comanda, cambia repentinamente posizione. Goffredo Bettini, dopo aver cresciuto e pasciuto le giovani leve della sinistra romana, viene fatto oggetto di lesa maestà da parte dei neorenziani dell’ennesima ora. Una notte dei lunghi coltelli. E di mezzo ci va il povero Ignazio Marino, che si trova orfano del suo creatore e in balia del famelico branco dei novelli renziani, gran parte dei quali riciclati, e per questo, ben accolti da Matteo Renzi. Quindi, la candidatura di Ignazio Marino avviene in un clima di profonda incertezza nel Pd romano. I dirigenti del partito sono frastornati e in cerca di un leader su cui puntare per la propria sopravvivenza politica. Il Pd è in balia di una sequenza serrata di eventi: le Primarie del 2012 che eleggono Bersani a segretario di partito; le elezioni del febbraio 2013 che decretano la “non vittoria” del Pd con la conseguente impossibilità di Bersani di fare un governo (e l’imbarazzante streaming con i grillini); la rielezione a Presidente della Repubblica di Giorgio Napolitano con i “101 traditori” che accoltellano alle spalle Romano Prodi, il governo Letta; la revanche di Renzi che si prepara a vincere le Primarie del 2013 e a defenestrare il governo dell’amico Letta durante una direzione di partito. Nel mezzo, a Roma, il Pd ha dovuto scegliere il proprio candidato. E la scelta è
avvenuta in una situazione più che liquida, gassosa. Ovvero, altamente instabile. Ma, all’indomani delle Europee che consegnano al Paese un Pd al 41% e a Roma al 43%, chi ha puntato su Renzi sa di aver vinto. E ora presenta il conto. Così da piazza Farnese in poi, dopo l’umiliazione di Bettini, è tutto un susseguirsi di comunicati stampa e di interviste a discredito di Marino, ormai orfano di padre e di madre e con una lunga sequela di sorellastre.
È Lorenza Bonaccorsi, renziana di ferro della prima ora (tanto da aver organizzato la prima tappa di Matteo Renzi a Roma in quel dell’Auditorium di via della Conciliazione, in occasione delle Primarie del 2012) ad aprire le danze. Dal suo scranno parlamentare, conquistato dopo aver ottenuto la promozione alle Parlamentarie Pd, afferma a poche ore dalla chiusura delle urne per le Europee: “A Roma, città dove il voto di opinione è più forte, l’effetto Renzi ha pesato molto col suo nuovo modo di essere e fare politica, ma il Partito Democratico romano non ha avuto la stessa spinta al cambiamento, ha ancora un po’ di zavorra, i meccanismi romani hanno fatto sì che asse solo un po’ di renzismo, ma non troppo per paura di far smottare determinati equilibri. Serve invece un’altra dose di cambiamento, perché non ci possiamo nascondere che il Pd di Roma sta facendo fatica: nell’interlocuzione con l’Amministrazione, per esempio, a fronte di una situazione economica grave e difficile da governare per le vuote casse capitoline. Ma queste difficoltà non si affrontano con giochetti, equilibri interni e locali. Ci vuole il coraggio del rinnovamento, questo a Roma non è ato”² .
Non si capisce bene se la Bonaccorsi volesse le dimissioni di Marino, oppure un rimpasto della Giunta. Ma poi, con una seconda dichiarazione chiarisce il tema: “Non sono d’accordo a nessun tipo di rimpasto che sia figlio di sistemazioni correntizie con manuale Cencelli e bilancino. Se c’è un discorso alto, un’idea di rilancio, di prospettiva, un’idea di Roma, allora si può discutere e sono disponibile a mettermi al servizio della città. Ma solo a queste condizioni altrimenti non ci metteremo neanche a tavolino. Non serve a Roma sistemare questo o quel pezzetto, Roma ha bisogno di uno sguardo alto. È una città meravigliosa e complessa che ha bisogno di tutte le energie e le intelligenze possibili e non certo di aggiustamenti col bilancino”³ .
Come a dire, facciamo dimettere Marino, torniamo al voto e se me lo chiedono, sono pronta a candidarmi. Questo era il clima intorno a Marino dopo lo strabiliante risultato ottenuto dal Pd (o sarebbe meglio utilizzare una locuzione inaugurata da Ilvo Diamanti: “Il PdR – Partito di Renzi³¹). Ma la Bonaccorsi non è la sola. A rafforzare questa via crucis per Marino è un esponente di ben altro calibro, Enrico Gasbarra, già presidente della Provincia di Roma e vincitore nello scontro di preferenze tutto interno al Pd ai danni di Goffredo Bettini, che commentando i sorprendenti risultati delle Europee, afferma: “Il Pd che è un grande partito e ha avuto un grande consenso ritiene che il sindaco Marino debba fare una grande azione per la città. Marino deve fare non solo un cambio di o ma prendere Roma, prenderla in tutti i suoi lati, portarla fuori dalla crisi, fare un grande piano anticrisi e quindi uscire dalla ordinarietà”³².
Che vuol dire? Che sicuramente quanto fatto da Marino sino al maggio del 2014 non ha convinto il Pd di nuovo conio renziano.
Insomma, giorno dopo giorno, Marino ha compreso che non sarebbe stato facile rimanere in sella. Sin dal momento di comporre la propria Giunta. Una Giunta che, nel prosieguo dell’amministrazione, ha mostrato più di una volta forti frizioni tra i propri componenti. Epico lo scontro tra gli assessori Guido Improta e Daniela Morgante sulla faccenda Metro C. Con la Morgante, assessore al bilancio, direttamente catapultata in Giunta dalla Corte dei Conti e vista, dalle componenti politiche romane, come una sorta di “poliziotto infiltrato”. Sarà lei a perdere la partita e a doversi dimettere in seguito alle polemiche sul bilancio, che avrebbe dovuto dare il via al decreto Salvaroma del Governo Renzi.
Da un lato, a Marino si deve riconoscere una coerenza nel voler perseguire processi di selezione del personale amministrativo volti alla trasparenza, ma dall’altro lato, si deve ammettere che, in più di un caso, ha mostrato inadeguatezza. Si veda l’imbarazzante nomina del colonnello dei Carabinieri Oreste Liporace a capo dei Vigili Urbani. Nomina ritirata perché quest’ultimo non aveva i titoli richiesti dal regolamento redatto dallo stesso Marino nel suo avviso pubblico. Figuraccia bissata con la nomina a capo dell’Ama di Ivan Strozzi, comprovato manager del settore dello smaltimento di rifiuti, ma purtroppo indagato a Messina proprio per traffico di rifiuti. Da più parti si sente dire, “sono pasticcioni, ma pur sempre brave persone”. E ciò nessuno lo mette in dubbio. Ma purtroppo essere “brave persone” è un’aggravante in certi ambienti affaristici e politici romani (e non solo). Non si può non notare come, con Marino sindaco, a Roma sia iniziata una stagione di indagini che stanno portando a fare luce sulle municipalizzate romane. È solo un caso? Si aggiunga l’indagine sul dominus delle discariche Manlio Cerroni, con le intercettazioni che hanno fatto luce sui rapporti affari-politica a Roma che riguardano sia il Centrodestra che il Centrosinistra. Di queste contiguità se n’è persa traccia nelle cronache giornalistiche romane.
Molto probabilmente Marino, secondo taluni politici di lungo corso, sta sconfinando. E quindi è naturale che l’intero arco costituzionale del Consiglio capitolino (compresi coloro che, pur non ricoprendo cariche pubbliche, di fatto brigano dai proprio salotti e terrazze romane) gli stia mettendo i bastoni tra le ruote. Inoltre, il Pd romano sta mostrando sempre più segni di insofferenza verso un sindaco che, ad un anno e poco più dalla propria elezione, non piace ai cittadini. Ed è proprio per certificare questo dissenso nei confronti di Marino che a fine ottobre del 2014 qualcuno nel Pd commissione un sondaggio all’istituto di sondaggi Swg³³. Il responso?
L’80% dei romani non lo tollera più. Non c’era certo necessità di un sondaggio per acclarare ciò che oramai tutti avevano ben chiaro. All’indomani dello sciagurato sondaggio, scoppiano le polemiche nel Pd di Roma. Il capogruppo del Pd al Comune, tale sco D’Ausilio, sospettato di aver commissionato il sondaggio, si dimette. Mentre i renziani della prima e dell’ennesima ora si affrontano, rimbalzandosi accuse. Tenuto conto di tutto ciò, è sempre più probabile che nel 2015 si voterà a Roma. E molto probabilmente il Centrosinistra perderà le elezioni. Ma è anche una grande verità che a un certo ambiente politicoaffaristico romano conviene molto di più perdere le elezioni, potendo continuare a rinverdire i propri affari, anziché vincere e avere un “Marziano” che scoperchia i vasi di Pandora. D’altronde, come disse Martino rivolgendosi a Candido: “Se gli sparvieri han sempre avuto il medesimo carattere, perché volete voi che gli uomini abbiano cambiato il loro?”.
Sindaco o curatore fallimentare?
Lo hanno tenuto ben nascosto, ma i fatti dicono che Roma Capitale è fallita. A confermarlo la ventilata possibilità, da parte del governo Renzi, di nominare un Commissario ad acta per la realizzazione del piano di rientro del debito della Città. La notizia ha avuto lo spazio di un mattino, rilanciata dal Il Messaggero il 4 luglio 2014: “Ignazio Marino potrebbe diventare commissario ad acta per l’attuazione del Piano di rientro triennale dei conti del Campidoglio”³⁴. La notizia non ha poi avuto seguito, evidentemente per non mortificare il consiglio comunale di Roma, sempre più ridotto a inutile orpello del governo della Città. Ma anche per non drammatizzare mediaticamente una situazione che è drammatica nei fatti. È evidente che in epoca renziana, non è bene chiamare le cose con il loro nome: default, stato fallimentare, rovina, macelleria sociale. Tutte definizioni che sarebbero balzate agli onori della cronaca in presenza di un “Commissario ad acta” per il piano di rientro del debito di Roma Capitale. Ma di fatto, Marino, più che a sindaco, sembra essere stato eletto per fare il curatore fallimentare di una città sull’orlo del baratro. Le cifre contenute nel piano triennale di rientro del debito, approvato dal governo, sono da capogiro.
La storia recente delle disavventure di Marino inizia con il primo decreto “Salva Roma”. La prima versione del pasticcio “Salva Roma” risale al dicembre del 2013. C’era il governo di Enrico Letta. Il decreto-porcata arriva alla Camera ed è subito rissa. Come nella migliore tradizione italiana, il decreto mirato per salvare Roma dal suo debito multimilionario viene infarcito di mille altre mancette. Si dirà, poi, che furono molti i parlamentari che cercarono di inserire nel decreto una profferta per il proprio collegio elettorale. Tra gli emendamenti che urlano ancora vendetta, ci fu quello per l’introduzione
delle multe per i comuni che avrebbero vietato le slot machine. Alla Camera dei deputati il decreto a. E nonostante la grande porcata in atto, a Roma taluni politici locali mostrano soddisfazione. A fine dicembre 2013, il decreto “Salva Roma” (ma non solo) arriva al Senato. Pronti, partenza e stop! Interviene il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che, in un rigurgito di amor proprio e amor di Patria tuona contro l’ennesimo scempio istituzionale e scrive una letterina a Enrico Letta, ricordandogli cosa sia un decreto legge e cosa invece sia una porcata infarcita di mancette da distribuire qua e là per l’intera penisola. Ancora una volta dunque, la strada del “Salva Roma” è stata sbarrata. Come uscirne? “Facile” pensa Letta, “reiteriamo il provvedimento!” E così si arriva ad una nuova stesura del “Salva Roma”.
All’indomani dell’avvicendamento del governo Renzi a quello Letta, però, il provvedimento deve essere ancora approvato. Intanto le fibrillazioni politiche legate all’accoltellamento del governo Letta per mano di Renzi, oltre all’ostruzionismo incrociato tra MoVimento 5 Stelle e Lega Nord, hanno ritardato l’approvazione del decreto. E così, in un infinito tira e molla sul decretone, si arriva a febbraio inoltrato del 2014, quando è ormai chiaro che i tempi per l’approvazione del decreto sono oramai andati.
Qui entra in scena Ignazio Marino che, urlando a squarciagola afferma: «In marzo non ci saranno più i soldi per pagare i dipendenti, per il gasolio dei bus, per gli asili nido, per i rifiuti e neppure per le santificazioni dei due Papi. Se si dovessero licenziare 4.000 dipendenti, vendere Acea, liberalizzare trasporti e rifiuti se ne occuperebbe un commissario liquidatore, non io». Idea che sintetizza con un’altra esternazione dai toni vagamente grillini: «Io da domenica blocco la città. Quindi le persone dovranno attrezzarsi, fortunati i politici che hanno le
auto blu, loro potranno continuare a girare, i romani no»³⁵. Unico particolare è che, nel frattempo, Enrico Letta si è dimesso da primo ministro, “accoltellato” alle spalle da Matteo Renzi e quest’ultimo, ancora inebriato dal successo della sua scalata al potere, non la prende bene, tanto che gli risponde di rimando: «Capisco Marino, ma non tollero il suo tono!». A dare manforte al sindaco rottamatore, c’è il suo, allora, vice-sindaco di Firenze Dario Nardella che sentenzia: «Il sindaco Marino non cerchi alibi e mostri di meritare l’aiuto ricevuto». Arriva pure ad aggiungere, con quella sua simpatia tipica fiorentina: «Non si possono usare i cittadini come scudo»³ .
Due ceffoni renziani in pieno volto.
Sarà che Marino è assediato dai suoi compagni di partito, oramai tutti convertiti al renzismo spinto, tanto che non gli risparmiano giorno dopo giorno critiche feroci. Sarà che finalmente ha preso coscienza del perché non si trovava nessun candidato credibile al Campidoglio, ma Marino finalmente sbrocca. È in questo momento che prende coscienza in quale guaio si è andato a cacciare. Comprende, una volta per tutte, che lui non è stato candidato per fare il sindaco, ma per fare il curatore fallimentare di Roma Capitale. D’altronde, il rapporto tra il “Marziano” e Renzi non è mai apparso autentico. O meglio, a Renzi di Marino, come direbbe lui in toscanaccio stretto, “importa ‘na sega!”. Insomma, se Renzi fosse arrivato prima al potere o se le elezioni a Roma si fossero svolte dopo la conquista di Montecitorio, Renzi non avrebbe mai candidato il chirurgo di Seattle. Magari avrebbe scelto una donna, giovane e bella. Ma tant’è, c’è Marino e ci si deve pur parlare. E di fatti, non pochi ricorderanno la visitina che Renzi fece a Marino, in un tiepido settembre del 2013, in piena campagna per le Primarie dell’8 dicembre 2013, e quindi desideroso di mostrare la sua faccia buona.
Da sindaco a sindaco.
Quella volta gli concesse una breve eggiata tra i Fori romani appena pedonalizzati. Taluni si chiesero perché non in bicicletta, visto che i due hanno fondato la propria immagine sul mito delle piste ciclabili (pressoché inesistenti e per lo più insicure, almeno a Roma). Si disse che era impossibile andare in bicicletta, viste le ali di folla che incorniciavano l’happening. Si sarebbe rischiato l’effetto “Giro d’Italia”, con il rischio di imbarazzanti e rovinose cadute. Due, tre foto, una stretta di mano e “Ciao”. Chi lo ha più visto Renzi a Roma in compagnia di Marino? Durante quella placida eggiatina tra i ruderi dell’Antica Roma, Marino sbarazzino disse: «Renzi mi aveva chiesto in campagna elettorale di venire a vedere i Fori Imperiali e io nelle prossime settimane andrò a restituire la visita a Firenze»³⁷. Non risulta a nessuno che Marino si sia poi recato a Firenze. Evidentemente Renzi non l’ha mai invitato.
Ma torniamo al “Salva Roma”. Diventa legge a fine aprile 2014, con la ratifica del provvedimento da parte del Senato. Paradossalmente sarebbe stato meglio che il testo non fosse mai ato. Di fatto, segna indelebilmente la sorte di Ignazio Marino, consegnandolo alla storia come il “curatore fallimentare” di Roma.
Con il “Salva Roma” non si risolvono però tutti i problemi: ha fatto sì esultare i politici capitolini, ma ha fatto rabbrividire i cittadini romani. Perché, a braccetto con l’approvazione del Decreto, c’è il “piano triennale per la
riduzione del disavanzo e per il riequilibrio strutturale di bilancio”. Di fatto, il Campidoglio è commissariato dal Governo Renzi (almeno finché questo durerà) in merito a qualsiasi investimento vorrà fare (pochi) e ai tagli che sarà costretto ad applicare (tantissimi). Al sindaco Marino non resta che, al netto delle “operazioni simpatia” di cui parleremo più avanti, assolvere a una road map già prestabilita di lacrime e sangue. O sarebbe meglio dire: “linee di rigore”. In poche parole, il governo di Roma è stretto da una tenaglia che vieta al sindaco e alla sua Giunta di derogare al diktat del rigore imposto dal Governo. Lo stesso rigore che Renzi imputa alla Merkel. Cosa vuol dire questo?
Che la Roma che conosciamo sino ad oggi, già ostaggio dell’incuria e in un terribile stato di abbandono, sarà destinata a peggiorare nei prossimi tre anni. Auguri ai romani, verrebbe da dire. Il governo della Capitale seguirà il modello del governo del Paese. In Parlamento si procede a suon di Decreti legislativi, a Roma si procederà a suon di atti del sindaco-curatore fallimentare. E il Consiglio capitolino, così come il Parlamento, resterà a guardare. Con buona pace del potere legislativo che cede il campo a quello esecutivo. Ma d’altronde, nell’ultimo lustro, in Italia non si va tanto per il sottile e la teoria della divisione dei poteri di Montesquieu sono inutili orpelli di speculazione della scienza della politica. A questo punto, che si sciolga il consiglio comunale, che gli assessori di dimettano in massa, tanto a governare resterà unicamente il Sindaco “Commissario” Marino, teleguidato da Palazzo Chigi.
Le misure della troika del governo Renzi non si fanno attendere. Tanto che l’estate romana viene costellata da una serie di articoli di crinaca che
preannunciano una tassazione comunale da spavento. A fine luglio del 2014 l’assemblea capitolina approva la delibera propedeutica riguardante la Tasi, la tassa sugli immobili. Il provvedimento fissa l’aliquota al 2,5 per mille per le prime case, mentre per le seconde case l’aliquota raggiunge l’11,4 per mille. Il comune decide di far cadere sui romani la scure dell’intera maggiorazione della tassa prevista all’8 per mille, così come previsto nel “Salva Roma Ter”. Ad agosto arriva la stangata sulle strisce blu. Da un euro a un euro e mezzo l’ora. Non solo. Non sono previsti gli abbonamenti mensili, così come la tariffa unica giornaliera. Tanto per capirci, se un lavoratore prima spendeva 70 euro mensili, adesso dovrà sborsare 12 euro per otto ore di parcheggio. Chiaramente trovandoci a Roma, il paradosso è dietro l’angolo. L’amministrazione fa sapere che, in attesa che i cartelli con le nuove tariffe vengano affissi sulle strisce blu, i romani potranno parcheggiare secondo le vecchie tariffe almeno fino al mese di ottobre. Un guazzabuglio. Intanto in città, appena dopo le ferie, rispuntano gli ausiliari del traffico che, indossando una pettorina, tornano a far le multe ai romani. All’aumento del costo delle strisce blu, si affianca la decuplicazione dei permessi per le zone a traffico limitato, che in alcuni casi vedono un aumento del 1.200% per i residenti del centro storico e nessun rincaro per i bus turistici. Ma non finisce qui. L’amministrazione aumenta la tassa di soggiorno. Se prima un turista per soggiornare in un hotel a 5 stelle versava 3 euro al giorno, oggi ne deve versare 7, con un aumento che supera il 50%. Come preannunciato, all’indomani della figuraccia di Marino in seguito agli 8.000 euro versati dai Rolling Stones per il loro mega concerto al Circo Massimo, sale di dieci volte la tassa di occupazione di suolo pubblico. Così oggi chi volesse occupare lo storico sito romano, pagherebbe 200.000 euro. Con relativa polemica di Beppe Grillo che chiede il Circo Massimo per il raduno
nazionale del Movimento 5 Stelle. Un’ecatombe per i romani che si vedono dall’oggi al domani aumentare il costo della vita: aumento delle rette degli asili nido comunali (dal 7 al 15% in base al reddito Isee, per arrivare a un aumento del 20% per il biennio 2016/2017), del trasporto scolastico, della Tari (la tassa sui rifiuti che segna un aumento di 17 euro annuale per ciascuna famiglia), sino anche ai loculi dei cimiteri. Dalla culla alla morte, il romano paga di più.
A Roma succede ciò che Renzi va rimproverando alle istituzioni europee: la scure dei tagli indiscriminati secondo decisioni calate dall’alto e zero crescita. Solo che questa volta a muovere la scure è Renzi stesso. Con buona pace dei sindacati, delle associazioni di categoria e dei lavoratori che si ritroveranno disoccupati. La beffa? Che Renzi con una mano regala 80 euro, con l’altra, imponendo un tremendo piano di rientro sulla città di Roma, se li riprende. Sullo sfondo, una classe politica capitolina che oggi trova una collocazione più consona alle proprie capacità: statue di sale a rimirare le mazzate di lacrime e sangue che si stanno per abbattere sulla Capitale. Tutti silenti e tutti contenti. Verrebbe da dire, parafrasando lo slogan di Marino: “Questa non è politica, è macelleria sociale”.
I tre ceffoni di Renzi al Marziano
Il destino del “Marziano” è legato a doppio filo con le sorti del governo Renzi. Quest’ultimo dispone circa il debito pregresso del Campidoglio e Marino deve eseguire, pena: Roma non si salva. Con buona pace del “Salva Roma”.
I rapporti tra i due non sono sempre stati dei migliori. Specie se guardiamo ai tre ceffoni di Renzi a Marino, durante il suo primo anno di amministrazione di Roma Capitale.
Il primo ceffone di Renzi arriva appena dopo la sfuriata grillina di Marino sul ritardo dell’approvazione del “Salva Roma”. Siamo a fine marzo 2014 e a Roma arriva in visita ufficiale il Presidente degli Stati Uniti d’America Obama. Sino all’ultimo Marino cerca di farsi invitare al cospetto di Mister Obama. Ma non ce la fa. Anzi sì, ridotto a rincorrere Obama e a importunarlo, come una groupie qualsiasi alle calcagna della sua pop star preferita, alla fine riesce a incontrarlo all’aeroporto di Fiumicino, poco prima che l’illustre ospite salga sull’aereo che lo riporta a Washington. Qualche minuto a parlare di “fuffa”, ma niente photo opportunity. Neanche un selfie, manco un file video ripreso con uno smartphone. Marino, per quanto ne sappiamo, potrebbe anche non aver incontrato Obama. Del loro incontro non c’è traccia. Così, mentre Roma si vestiva a festa per accogliere il primo Presidente nero degli Stati Uniti, Marino, come il Conte di Montecristo, era rinchiuso nel suo ufficio, commissariato dal Governo Renzi (lui sì simpatico e gioviale con il suo inglese da macchietta alla Benigni), sopraffatto dai debiti. Gli è riuscita solo una breve fuga in direzione di Fiumicino. Magari volendo dire ad Obama che è stata tutta opera sua. Il Colosseo sgombro dai baracchini delle bibite e panini (magari avrà chiesto consiglio al consigliere comunale Tredicine, la cui famiglia ha quasi il monopolio degli ambulanti nella Capitale), le strade del centro sgombre dai
romani e dalle loro auto moleste. Una Roma innaturale, una Disneyland a misura di Obama. Neppure la eggiata per quel bel campo da baseball, che va sotto il nome di Colosseo, gli hanno fatto fare con Obama. Marino sostituito da una addetta ai lavori dei beni culturali. Marino, “the american doctor”, sprovvisto di defibrillatore per rianimare Roma, avrebbe voluto farsi riprendere con colui che “tutto può”. Quel presidente made in USA che riesce a dare una qualche dignità politica anche ad un bullo di provincia ncravattat’ (Mario Merola docet). E invece no. Marino nelle segrete del Campidoglio, odiato dalla sua stessa maggioranza, tutta presa dal chiacchiericcio di corte: “Hai visto Marino?!? Neanche una stretta di mano con Obama. Neanche una foto, poveretto!” e giù risatine da eunuchi ammaestrati. D’altronde, ci sarà stata una ragione se l’illuminato Zingaretti (non il commissario Montalbano, ma l’altro) a suo tempo se ne guardò bene dal candidarsi a sindaco di Roma, lasciando la poltrona a Marino, consapevole che governare Roma, con un debito monstre, i palazzinari, i renziani della prima ora e dell’ennesima ora che chiedono poltrone, i Cda delle municipalizzate, sarebbe stato un martirio. Marino sempre più triste. Perché il giorno dopo la falsa rappresentazione di una Roma da cartoon, a beneficio di Obama, se la deve vedere con due turisti inglesi “rompiballe”, malmenati e derubati nella splendida Capitale, che gli indirizzano sui social network una lettera³⁸. E poi se la deve vedere con i Centurioni che rendono Roma una imbarazzante caricatura di se stessa. E ancora, deve affrontare i romani delle periferie sempre più incazzati, tra buche perenni, allagamenti a ogni breve acquazzone, immondizia che trabocca dai cassonetti, autobus stracolmi e perennemente in ritardo, trenini dei pendolari degni di Calcutta e via discorrendo. Così, al sindaco “dimezzato” non rimane altro che sperare che il suo invito per i 70 anni della liberazione dell’Italia sia raccolto da Obama. Obama che intanto, sul volo che lo portava a Riad, si chiedeva, parafrasando Renzi: “Marino who?”. Insomma, un triste quadretto quello andato in scena a fine marzo del 2014.
Il secondo ceffone renziano arriva di lì a poco. Sono i primi giorni di aprile e a Roma scoppia l’emergenza rifiuti. L’incubo di Napoli è vicino. I cittadini non risparmiano critiche, il Pd di Roma, come sempre, nicchia e lascia che sia Marino a rosolarsi a fuoco lento. A discolpa del “Marziano” è doveroso dire che il sistema monopolista dello smaltimento rifiuti a Roma esiste da decenni. Un affare che ha interessato anche le amministrazioni precedenti a quella di Marino. Fatto sta che il cerino rimane in mano (ma guarda un po’!) al sindaco ciclista. E non sono ceffoni, ma è una vera e propria rissa. Andato in soffitta il “Modello Roma”, Malagrotta viene chiusa il primo ottobre del 2013. “Il supremo” Manlio Cerroni viene arrestato e il Comune di Roma non sa dove stipare le tonnellate di monnezza raccolta in giro per la città. Non solo, Roma Capitale, per volere della magistratura che indaga sull’affare rifiuti a Roma, non può più avere rapporti con le aziende di Cerroni, né può più conferire i rifiuti nei due impianti per trattamento meccanico-biologico della Colari. Il tutto frutto di un’inchiesta della magistratura sul sistema di gestione dei rifiuti nel Lazio, con tanto di provvedimento interdittivo che stabilisce il divieto per la Pubblica Amministrazione di stipulare accordi con il gruppo Cerroni. L’Ama, per tutta risposta, si è dichiarata impossibilitata a rispettare il divieto, non essendoci altre discariche disponibili al di fuori del sistema Cerroni. E sullo sfondo Cerroni che sentenzia: «Io meritavo la cittadinanza onoraria di Roma per quello che ho fatto in tutta la mia vita e invece rischio di are per il bandito che non sono»³ . E Marino che fa? Nei primi giorni di aprile, sull’onda dell’emotività, sbrocca una seconda volta nei confronti del Governo Renzi: «Io non posso trovare una soluzione. Trovatela voi o Roma sarà sommersa dall’immondizia. Sui rifiuti serve un commissario!»⁴ . La risposta non si fa attendere. È il ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti a
rispondere a strettissimo giro: «Se è vero che Roma è a un o dall’emergenza rifiuti, Comune e Regione non possono pensare di scaricare sul Governo le loro responsabilità»⁴¹. Insomma, il copione non cambia. Marino sbraita e il Governo Renzi gli risponde: “Fatti tuoi!”.
Il terzo ceffone. Siamo alla chiusura della campagna elettorale per le Europee. Quelle che porteranno il Pd allo storico risultato del 40,8% del consenso a livello nazionale che farà registrare a Roma l’ancor più sorprendente risultato del 43%. Questa volta Matteo Renzi a Roma ci vuole essere, con tanto di palco in Piazza del Popolo. Una rivincita tutta renziana, tenuto conto che il Pd, alla vigilia delle ultime elezioni politiche, quelle della “non vittoria” di Bersani, aveva lasciato piazza San Giovanni a Grillo e si era rintanata in un teatro. A definire il tipo di kermesse è il giovane renziano e vicesegretario Pd di Roma, Luciano Nobili, che all’Espresso fa sapere: «Il format è Matteo Renzi»⁴². Il format, per la cronaca, non prevede figure ritenute da Renzi di secondo piano come il sindaco Ignazio Marino. E di fatti, sul palco di Piazza del Popolo, il sindaco di Roma non ci salirà. A dirla tutta, in quel maggio romano, Marino è una presenza sgradita. Nel primo capitolo abbiamo già descritto la situazione surreale nella quale è stata partorita la candidatura di Ignazio Marino. Un Pd nel caos, in cui era in atto il riposizionamento di tutti i dirigenti di partito, tra le Primarie di Bersani e quelle di lì a poco di Renzi. In quel caos, il Pd ha lasciato che fosse Goffredo Bettini a “inventarsi” il chirurgo sindaco. Ma dopo la vittoria di Renzi alle Primarie e soprattutto dopo che questi ha conquistato la premiership, Marino è stato scaricato. O meglio rinnegato. Il risultato è che Marino non salirà sul palco di Piazza del Popolo. Una delle
principali piazze storiche della città che governa. Marino viene simbolicamente oscurato da Renzi e da tutti i suoi renziani.
Il terzo ceffone è quello che fa più male. Perché mentre i suoi compagni di partito festeggiano nella sua Roma la chiusura di una vittoriosa campagna elettorale, gli viene chiesto, una volta di più, di rimanere nel suo ufficio con vista sui Fori imperiali. La nuda cronaca narra di un Marino che poi a Piazza del Popolo ci è andato. In bicicletta. Rimanendo tra il pubblico. Ma in realtà la sua testa era rimasta a rimirare, dal suo ufficio in Campidoglio, quei magnifici Fori Imperiali. E chissà, se proprio allora, gli deve essere balenata in testa quella magnifica idea: pedonalizzare tutto il centro storico di Roma!
III Roma fa schifo
I Fori pedonalizzati: Roma ai Romani? No, ai turisti!
Ignazio Marino, sin dai primi mesi, ha governato Roma come se questa non fosse Roma. Come se fosse Londra. Detto più chiaramente, come se Roma non fosse quella città in coma, con la viabilità impazzita, il trasporto pubblico a pezzi, la manutenzione stradale inesistente, le periferie abbandonate a se stesse, la gestione dei rifiuti inefficace, il sistema turistico-culturale azzerato. Non meraviglia quindi che una delle sue primissime iniziative sia stata quella di voler pedonalizzare i Fori Imperiali. Come se questa fosse una necessità vitale per Roma. E la cosa che più sconcerta è che nessuno a Roma aveva chiesto al sindaco di pedonalizzare i Fori Imperiali. In pieno centro, in tutta fretta, congestionando al cubo il traffico. È stata un’iniziativa estemporanea, da realizzare entro i primi due mesi del suo mandato. Come se Marino avesse voluto dire alla città: “Io so cosa volete di più al mondo, anche se non me lo avete chiesto”.
La pedonalizzazione dei Fori, in realtà, è un po’ come il Sacro Graal. Nei decenni ati, fu l’allora sindaco e storico dell’arte Carlo Argan a profetizzarla: “O le automobili o i monumenti”. Fu poi il mitico sindaco Luigi Petroselli a raccoglierne il testimone, subentrando ad Argan nel ’79. Così si smantellò la via che separava il Foro e il Campidoglio, per creare un’area pedonale tra il Colosseo e l’Arco di Costantino. Ma via dei Fori Imperiali continuava a essere percorribile. E ci sarà pure stato un perché. Marino non fa altro che riprendere un’idea che nei decenni è stata di tanto in tanto accarezzata dai sindaci romani e, magari, volendo dare subito la sua impronta alla città, decide di agire come un Matteo Renzi qualunque. Con
velocità e decisione. Ma, come le sorti del governo Renzi insegnano, la fretta non porta buoni risultati. Marino, ben sapendo quanto sia difficile incidere sui destini del governo della Capitale, ha studiato un percorso di promozione della sua immagine tale da poter accrescere la sua popolarità. Ma è una pia illusione. I romani accolgono male la novità della pedonalizzazione. Fondamentalmente per due ragioni: quelli che vivono in centro, maledicono il sindaco perché l’iniziativa estemporanea e improvvisa manda in tilt il traffico nel centro città, compresi i commercianti che si vedono ridurre il proprio giro di affari e contrari a che il Rione Monti diventi luogo di baracchini, bancarelle di souvenir, tagliando fuori la popolazione romana. Quelli che vivono in periferia, si vedono una volta di più snobbati dall’ennesimo sindaco tutto concentrato a dedicarsi al centro storico, anziché ai problemi delle lande desolate della città, che pure fanno parte di Roma. Sin da subito, si riconosce in Marino un particolare talento a inimicarsi tutti. Ma proprio tutti. Questo perché, come nel caso della pedonalizzazione, Marino non sembra rivolgersi ai Romani che vivono i disagi decennali della Capitale, ma ai turisti. Fatto sta, che una mattina di inizio agosto del 2013, i Romani si trovano imbottigliati in un girone infernale fatto di auto, motorini e vigili urbani che sbarrano fisicamente l’accesso a via dei Fori Imperiali e alle strade limitrofe. L’operazione viene fatta di fretta. Dal sito di Ignazio Marino si apprende il suo pensiero più autentico: “Con il progetto di pedonalizzazione, via dei Fori Imperiali diverrà la più bella eggiata al mondo, dove tutto ebbe inizio e da dove Roma rinasce”⁴³. E al contempo annuncia a Radio Vaticana la sua personalissima rivoluzione: “Nel mese di luglio inizieremo delle sperimentazioni. Se riusciremo a eliminare auto e moto, quindi il trasporto privato, potremo immaginare nella fase iniziale di ridurre il traffico da circa mille veicoli all’ora a meno di cento. Mi sembra un risultato importante”⁴⁴. I Romani non lo sanno, ma lui ha in testa «Il parco archeologico più grande di
tutto il pianeta».
La fase di sperimentazione della pedonalizzazione si rivela una “via crucis” per gli automobilisti romani. Il giorno in cui debutta la sperimentazione manca un’adeguata segnaletica orizzontale e verticale. A sbarrare l’accesso a via dei Fori Imperiali, per convogliare il traffico sulle vie alternative, ci sono delle barriere di plastica messe alla meno peggio. I vigili urbani, chiamati a regolare il traffico, quando anche a impedire che gli automobilisti si immettano su via de Fori Imperiali, sono sul limite di un attacco nervoso. Non pochi sono gli automobilisti che, visto lo sbarramento umano dei vigili urbani, chiedono a questi indicazioni sulle vie alternative. E il più delle volte gli stessi Vigili non sanno dare precise indicazioni. Millecinquecento auto, nelle ore di punta, deviate da via dei Fori Imperiali nelle vie limitrofe, con conseguenti proteste dei cittadini residenti e dei commercianti e dei vari comitati di zona. Ma è normale, tenuto conto della frettolosità dell’intervento. L’immagine di Marino ne esce male. Ai più sembra che l’operazione, magari pure giusta nelle intenzioni, sia finalizzata solo a dare lustro all’immagine del “Marziano”. Non sono pochi coloro che iniziano a pensare che questo “genovese” non c’entri nulla con Roma. Inoltre, la furia che Marino mette nella sua difficile impresa di pedonalizzare i Fori, restituisce ai Romani l’immagine di una città fatta a uso e consumo solo dei turisti. Quasi che Roma debba ridursi con il cappello in mano alla mercé dei turisti stranieri, causa la sua disperata situazione finanziaria. Un centro storico pensato a uso e consumo dei turisti giapponesi, americani, cinesi, più che alla vivibilità della propria cittadinanza. Una Roma da cartolina, da far rimirare ad Obama e al sindaco di New York De Blasio, più che da far vivere ai propri cittadini. Un’impostazione culturale che si richiama a quel famoso “Made in Italy” che pare, nelle intenzioni di chi amministra, l’unica strada per racimolare qualche soldo. Un “Made in Italy” che nei fatti si sostanzia nel mettere in bella mostra la merce su scalcagnate bancarelle di souvenir.
I Romani, che vivono sulla propria pelle questa maldestra gestione della città a uso e consumo del turismo, chiedono che le proprie vicissitudini di vita quotidiana siano contemplate dal sindaco. Il quale, però, forse perché di fatto sin da subito sfiduciato dalla propria parte politica e non sorretto da un’adeguata Giunta, si rinchiude nel suo ufficio con vista sui ruderi di Roma e rimira, una volta chiusa la finestra, la sua statua acefala, i cui costi di trasporto sono diventati l’ennesima barzelletta della sua amministrazione. “Una Musa senza testa, proprio come questa città…”⁴⁵. Acefala. Un po’ come Roma. Un po’ come la sua amministrazione.
Il mito della bicicletta. Questa non è Londra, è Roma!
Eppure, questa storia della pedonalizzazione dei Fori si ricollega a un altro mito del sindaco “Marziano”: la bicicletta. Marino ha condotto tutta la sua campagna elettorale in bicicletta, tanto da non essersi presentato all’evento di chiusura delle Primarie del Centrosinistra per decretare il candidato sindaco, preferendo andare a fare una sgambatina in bici con i suoi er. Il messaggio: lasciamo la macchina a casa e prendiamo la bici per andare in ufficio. Questo potrebbe pure funzionare a Londra. Ma a Roma? È un po’ come se Marino reputasse i Romani una sorta di curiosa popolazione indigena che non ha cura del proprio stato di salute e della salute della propria città. Come se i Romani, unicamente per capriccio, si ostinassero a muoversi con la propria macchina per raggiungere il proprio ufficio. Eppure basterebbe guardare Google Maps. Possibile che un sindaco così tecnologico non ci abbia mai pensato! E sì, perché se cercate le indicazioni di un percorso che vada, ad esempio, da “Piazza Mazzini” sino a “Stazione Termini” (un percorso di appena 6 chilometri) e poi cliccate sull’iconcina “bicicletta”, la risposta è lapidaria: “Spiacenti, la tua ricerca sembra non essere inclusa nell’area che al momento copriamo con le indicazioni stradali per le biciclette. Trova indicazioni stradali”. E sarà pure che neanche Google Maps sposi la filosofia ciclistica di Marino, ma questa è la realtà a Roma. Provate, invece, a cercare il percorso ciclistico da “Clapham Common” a “Leicester Square”. Google Maps vi segnalerà che in bicicletta ci metterete 26 minuti per percorrere 4,2 miglia.
Qui Londra, Roma mi sentite? No.
Ancora peggio succede se visualizzate le piste ciclabili di Roma, sempre su Google Maps. A Roma esistono circa 150 piste ciclabili. Ma non fatevi ingannare da questo numero, perché sono per lo più percorsi di uno e due chilometri, oltre al fatto che molte di queste piste ciclabili sono itinerari nei bei parchi di Roma o ai limiti del Gra⁴ . Risultato? Poche sono le piste ciclabili che possono essere percorse per raggiungere il proprio luogo di lavoro. Nessuna che attraversi in maniera razionale i punti trafficati di Roma. Per lo più sono percorsi per i ciclisti della domenica. Piste ciclabili ottenute dai comitati di zona dopo anni di lotta, non certo in base a una progettazione razionale per la città.
Altra questione: cosa sta facendo l’amministrazione di Roma per facilitare l’utilizzo della bicicletta? Abbiamo visto che un povero romano ha già difficoltà a trovare una pista ciclabile che lo porti in tutta sicurezza da casa sua al proprio ufficio. Ma magari ci sono soluzioni che integrano il trasporto pubblico all’utilizzo della biciletta. Vediamo un po’. Sul sito dell’Agenzia Mobilità di Roma, si scopre che c’è la possibilità di caricare la propria bicicletta sulla metropolitana, oltre che poter parcheggiare il proprio mezzo in appositi parcheggi di scambio. Ma con alcune sostanziali limitazioni. Infatti sul sito si legge: “L’accesso con bicicletta, a esclusione di quelle elettriche, sulle linee metro A e B è consentito nei giorni feriali dopo le 20.00 e il sabato e nei giorni festivi per tutta la durata del servizio”. Insomma, a meno che uno non faccia il turno di notte o lavori nei fine settimana e nei giorni festivi, non può recarsi al lavoro in bici. E allora si dirà: va bene, io prendo la bici, la parcheggio e poi prendo la metro.
In questi casi è possibile. Ma pochi sono i fortunati che lo possono fare. Difatti, i parcheggi sono tutti incustoditi (“Atac SpA non effettua alcuna attività di custodia e, quindi, non garantisce da eventuali danni o furti alle biciclette lasciate in sosta”), oltre al fatto che nelle stazioni di Spagna, Barberini, Repubblica, Termini, Vittorio Emanuele e San Giovanni non è possibile farlo. Praticamente in tutto il centro città. Ma c’è un altro elemento che fa cascare le braccia: i posti bici dove poter lasciare il proprio mezzo e prendere la metro sono un numero miserevole, tenuto conto della popolazione di Roma. Di fatto, come riportato dal sito web dell’Agenzia Mobilità, ci sono: 10 posti a Ponte Mammolo; 10 posti a Piramide; 10 posti a San Paolo; 12 posti a Eur Palasport; 12 posti a Eur Fermi. In tutto fanno 54 posti bici per tutta la città di Roma⁴⁷. Verrebbe da chiedere a Marino dove parcheggi la sua bicicletta per recarsi ogni giorno in Campidoglio. Tanto per dire, a Londra i parcheggi per le biciclette sono talmente diffusi lungo tutta la rete della metropolitana, che, sul sito web di Transport for London, c’è la possibilità di cliccare su ogni singola stazione metro e vedere se c’è la possibilità di parcheggio⁴⁸.
Si dirà che comunque tutta questa faccenda può essere superata dal servizio di bike sharing di Roma. Vediamo.
Dal sito web bikesharing.roma.it (aggiornato al 24 luglio 2014), risultano esserci a Roma 10 stazioni di bike sharing (Stazione Termini; Lepanto; Piazza di Spagna; Anagnina; Ottaviano; Cornelia; Battistini; Ponte Mammolo; Eur Fermi; Laurentina). Qualcuno potrà dire che 10 stazioni di bike sharing sono un po’ poche per la Capitale d’Italia. E già sarebbe un’obiezione alla quale è difficile replicare. Ma la cosa ancor più difficile da fare è trovare un romano, o un turista che abbia
potuto utilizzare il servizio. Infatti il problema è che ci saranno pure le colonnine per posizionare le biciclette, ma queste ultime non ci sono. Problema che viene descritto in un bell’articolo di Romatoday.it⁴ . La giornalista della testata romana, Valeria Gaetano, nel mese di marzo 2014, si fa il giro di tutte e 10 le stazioni di bike sharing e non trova neanche una bicicletta disponibile. Non ci sono. Non ci sono mai state. Il bike sharing a Roma non esiste!
Magari, il sindaco ciclista sta sensibilizzando i Romani a utilizzare la bicicletta perché ha in serbo un piano di investimento per potenziare le piste ciclabili a Roma. No, di questo non ve n’è traccia. A differenza, per esempio, di Londra, dove il sindaco Boris Johnson nel mese di gennaio 2014 ha annunciato i lavori per la costruzione dello “SkyCycle”, una pista ciclabile sopraelevata che unirà tutti i principali punti della città, collegandoli con le principali stazioni metro. “Sky-Cycle permetterà ai ciclisti di volare su tre livelli con numerosi accessi alla pista senza intralciare il traffico”⁵ . Una mega pista ciclabile di 210 chilometri a zero consumo di suolo. Ciascuna delle 10 rotte ospiterà circa 12.000 ciclisti all’ora e accorcerà i tempi di percorrenza sino a 30 minuti di media. Costo dell’opera? Stimati 220 milioni di sterline.
Così, mentre a Londra i ciclisti “voleranno”, a Roma sprofondano, magari sotto l’ennesimo acquazzone estivo della durata di venti minuti. Sempre che non siano vittime di pestaggi e di furti lungo il percorso delle sempre più insicure piste ciclabili romane.
A Roma però c’è il vicesindaco Luigi Nieri che, volendo goffamente emulare il
sindaco di Londra Boris Johnson, propone timidamente il progetto “Giardini sulla Tangenziale”. Il progetto prevede di installare, sul tratto dismesso della vecchia Tangenziale Est che va da Batteria Nomentana a stazione Tiburtina, un giardino pensile lungo due chilometri e largo venti. Oltre al giardino, ci sarà una pista ciclabile, che però non occuperà tutto il tratto della Tangenziale Est da Batteria Nomentana a Stazione Tiburtina di 4 chilometri. Cosa assai curiosa. Si penserà che questo progetto sia nato da esigenze strategiche e irrinunciabili per la Capitale, che sia il frutto di uno studio approfondito, comprensivo anche di un confronto con i residenti della zona, che siano stati individuati i costi e i benefici dell’opera. E invece no. Nella presentazione di Nieri non viene esplicitato il costo, le fonti di finanziamento, i fondi per la manutenzione e neanche la necessità strategica dell’opera. Anzi, il colmo è che, secondo Nieri, a occuparsi della manutenzione del giardino pensile dovrà essere la cittadinanza e le associazioni territoriali. Un modo come un altro per dire che i soldi per la manutenzione non ci sono. Pensateci voi cittadini. Il progetto, come si legge sul sito istituzionale del Comune di Roma è “Frutto di un lavoro condotto dall’associazione RES (Ricerca Educazione Scienza) che l’ha proposto al Campidoglio, il progetto ha suscitato l’interesse dell’amministrazione che ora lo espone alla Casa della Città”⁵¹. Lo stesso sindaco Marino mostra il suo grande entusiasmo per l’opera: «A me questo progetto piace moltissimo. Restituisce dignità a una parte della città legata perfino a un film di “Fantozzi”. Ma celerità deve essere la parola d’ordine, perché c’è l’appuntamento importante dell’Expo 2015 con cui questo progetto si coniugherebbe in modo straordinario»⁵². Da notare che c’è già un bando attivo per l’abbattimento della sopraelevata della Tangenziale Est ma, mancando i soldi, l’amministrazione vira sulla riconversione dell’opera. Il progetto del giardino pensile sembra un escamotage propagandistico per superare la penuria di fondi necessari per l’abbattimento della Tangenziale Est.
Altro che programmazione! A Roma basta che una mattina uno si svegli, presenti un progettino “carino” e lo porti all’attenzione del duo Nieri&Marino. Questi poi, discrezionalmente, lo espongono nella “Casa della Città”, una struttura nata proprio sotto l’amministrazione Marino. La finalità? Pura e semplice propaganda.
Lo spazio in via Ostiense nasce per mostrare ai cittadini romani i progetti urbanistici più strategici e necessari per Roma. Tra questi, oltre ai mirabolanti giardini pensili della Tangenziale Est, c’è anche il nuovo stadio della Roma⁵³.
A Roma Marino racconta la “fuffa” della bicicletta. E fa ancor più male se si rapporta Roma alle principali capitali europee. Marino non può neanche annunciare un piano di investimento che sia un decimo di quello londinese, perché i soldi in cassa non ci sono. E anche se arrivassero, servirebbero a ripianare il debito di circa 500 milioni di euro, con un’Amministrazione comunale sottomessa al piano triennale di rientro del debito, con il governo Renzi (e probabilmente con quelli che seguiranno nei prossimi anni) a fare da “Merkel” nei confronti di Roma.
Viene da chiedersi quindi: il sindaco “Marziano” quale città pensa di amministrare? Secondo la filosofia di Marino, i Romani devono lasciare a casa la propria auto per recarsi al lavoro in bicicletta, rischiando la propria incolumità fisica nelle vie trafficate. A meno che lui, il “Marziano”, non pensi anche a una seconda alternativa. Eh sì! Il trasporto pubblico urbano!
La Metro C: the italian job
Quando ero uno dei tanti studenti universitari meridionali a Roma, la popolazione studentesca si divideva in tre categorie. I romani: tutti per lo più con la macchina. I fuorisede ricchi: con la macchinetta pagata da papà. I fuorisede meno fortunati: senza macchina e che si spostavano con i mezzi pubblici. All’epoca, quando ero studente (parliamo della metà degli anni ’90), avrei accolto con favore un sindaco ciclista militante, tutto profuso per la pedonalizzazione del centro storico. Ma dopo vent’anni di soggiorno a Roma, da lavoratore, vedendo Marino in bici con il suo bel caschetto e lo zainetto in spalla, ho pensato quello che avrà pensato la maggioranza dei romani: questo “genovese” non sa cosa vuol dire spostarsi con i mezzi pubblici a Roma. Ho vissuto i miei anni romani a Montesacro, oggi III municipio, ex IV. I residenti di questo quadrante cittadino sono stati sommersi dalla propaganda sulla Metro: La Metro B, con conseguente prolungamento da piazza Bologna sino a piazza Conca d’Oro, per non parlare del prolungamento del prolungamento, la tratta che avrebbe dovuto arrivare da Conca d’Oro sino a Porta di Roma. La storia dice che la tratta da piazza Bologna a Conca d’Oro ha avuto almeno una decina di scadenze annunciate, per poi essere inaugurata in tutta fretta un anno prima della fine del mandato di Alemanno, durante l’estate del 2012. Alemanno, con la precisa volontà di guadagnare consenso elettorale, aveva affrettato i tempi, con tutta una serie di disavventure: corse che saltavano, interscambi che facevano le bizze, macchinisti che si assentavano per andare a prendersi un caffè o per andare alla toilette, ascensori che si bloccavano con i viaggiatori imprigionati dentro, allagamenti delle stazioni in occasione delle sempre più frequenti tempeste di pioggia. E, chicca finale, il parcheggio di scambio a Conca d’Oro che, seppur annunciato, non è mai nato. Tanto che, ancora oggi, non c’è una data di inizio lavori e di consegna delle opere accessorie.
All’epoca, ricordo che più volte avevo intervistato Antonello Aurigemma, enfant prodige di Montesacro, che, dopo l’ennesimo rimpasto della Giunta di Alemanno, si era ritrovato assessore al trasporto. Al di là della retorica dell’efficienza, l’assessore rimase muto dinnanzi alle proteste dei cittadini sui disagi dell’affrettata apertura del prolungamento della B1. Così come nulla sapeva, o osava dire, sul completamento dei lavori della tratta che da Conca d’Oro doveva raggiungere Porta di Roma. Ad Aurigemma si deve infatti riconoscere una dote: la lungimiranza. E difatti, a oggi, i lavori per il prolungamento da Conca d’Oro sino a Porta di Roma sono praticamente sine die, con gravi disagi per quei cittadini che hanno i cantieri sotto casa. Ma cosa ancor più sconcertante, a fine luglio del 2014, dalle cronache cittadine e nazionali si apprende che: “Il prolungamento della linea metropolitana romana B, per collegare Rebibbia con le zone più periferiche sino a Casal Monastero, da realizzare entro 5 anni e con un costo complessivo di 550 milioni sta per essere cancellato. Il consorzio di imprese destinato a realizzarlo, Metro B srl guidato da Salini e partecipato anche da Vianini e da Astaldi, ha deciso di mettere alle strette il Comune di Roma chiedendo la risoluzione del contratto per inadempienza del concedente, pretendendo il pagamento dei costi sinora sostenuti e un risarcimento che dovrebbe arrivare sino a 100 milioni di euro”⁵⁴. Oltre al danno la beffa. I lavori si bloccano, si cancella un’opera di importanza strategica per la Capitale e le imprese chiedono i danni al Comune di Roma.
C’è altro?
Sì, la Metro C che, dopo lo scandalo Expo e Mose, rappresenta la terza voragine mangiasoldi più grande d’Italia. Leggendo un articolo del Corriere della Sera, si scopre che è l’opera più lenta, oltre che la più grande incompiuta d’Europa⁵⁵. Orgoglio tutto italiano.
Era il 1990 quando fu presentato il primo progetto. La scadenza? Il 2000, per il Giubileo. Ma non ci sono Papi o Santi che tengano, i cantieri della Metro C sono ancora lì in bella mostra, da piazza San Giovanni, a piazza Venezia, sino alla via dei Fori Imperiali, solo per citare gli obbrobri presenti in centro città. Che poi, ci sarebbe da capire gli effetti di vent’anni di polveri sottili per i residenti e i cittadini che ano lungo i cantieri. Ma se ne parlerà tra altri 20 anni. La Metro C doveva costare un miliardo e 925 milioni. Ma nel 2004 il Cipe arriva a prevedere un costo stimato di 3 miliardi e 47 milioni di euro. Senonché, nel 2011, la Corte dei Conti fotografa una situazione oramai diventata ingestibile, stimando un costo totale che sfiora i 6 miliardi di euro. Volete una facile metafora? Un pozzo senza fondo. Una valle di miliardi di euro di soldi pubblici. La vergogna più grande d’Italia. Ma il problema rimane. A Roma i cittadini non sanno come muoversi. La beffa è poi rappresentata dal fatto che, dagli originari 43 chilometri, il percorso si è ridotto sino a giungere a una ventina appena. Nonostante le ingenti risorse sino ad ora spese, la Metro C si è ristretta. Tanto per fare un paragone: la Metro C sino a ora è costata 200 milioni per chilometro. Dato scandalosamente alto se si raffronta ai 6 milioni per chilometro spesi per la metropolitana leggera di Torino, laddove anche i costi per il prolungamento della Metro B sono stati più contenuti, con 6,35 milioni a chilometro. Fatto sta che i lavori per la Metro C partono nel 2001, quando le stime iniziali annunciavano la consegna dell’opera nel 2000. E va bene, si dirà, siamo in Italia. Ma la realtà supera qualsiasi più fosca previsione. La Metro C, a oggi, rimane un miraggio ben pagato.
Come ogni grande opera italiana che si rispetti, non sono mancate le inchieste. Ben tre indagini aperte dai giudici contabili.
La prima sull’individuazione delle varianti in corso d’opera che hanno provocato ritardi su ritardi; la seconda sui possibili danni che gli scavi potrebbero arrecare ai beni archeologici; la terza sui finanziamenti erogati al consorzio Metro C, responsabile dei lavori e formato dalle società Ansaldo, Astaldi, dalle cooperative Cmb e Ccc, e Vianini, azienda di proprietà del gruppo Caltagirone. E la politica in tutto ciò? Per voce del procuratore regionale della Corte dei Conti Raffaele De Dominicis: “Nella vicenda metro C la politica è vittima. La posizione di Marino è molto scomoda e complessa, ma il professore ha agito bene. Tutti gli amministratori locali, anche Alemanno, hanno agito correttamente, è l’aspetto tecnico che non funziona”⁵ . Il progetto è nato male, peccato che ci siano voluti 23 anni per capirlo. La politica non c’entra. Il progetto si è scritto e approvato da solo. Una sorta di dogma laico. Un mistero doloroso della via crucis romana. Ed è sempre De Dominicis che, al pari di un gufo rosicone, aggiunge: “La Linea C è un’opera pensata male e realizzata male. Arriverà, forse, a San Giovanni, non di più”. Sentenza che non lascia alcuna speranza. E i ritardi? Sempre De Domincis afferma: “Il ritardo accumulato è dovuto al fatto che se i lavori durano di più, le opere costano di più. Le responsabilità sono di tutti, ma bisogna dire che, in un certo senso, la politica è vittima di questo sistema subdolo, atto a favorire l’interesse privato su quello pubblico attraverso una serie enorme di varianti in corso d’opera”. Da cittadino è difficile capire. È un po’ come quella storia se sia nato prima l’uovo o la gallina. È nata prima la mala gestione politica o il sistema subdolo? Se neanche la Corte dei Conti sa dare risposta, non resta che alzare le mani e dichiararsi prigionieri. Una spiegazione forse c’è: le varianti in corso d’opera. Solo nel 2012 erano state 39. Perché la Metro C è ostaggio delle varianti in corso d’opera con conseguente lievitazione della spesa?
Perché, allorquando si doveva decidere come affidare l’opera, non si è optato per frazionare l’intera opera per lotti funzionali indipendenti, ciascuno con il proprio appaltatore e responsabile dei lavori, ma si è preferito dare tutto in mano a un mega-consorzio. Con lotti indipendenti il controllo sarebbe stato più facile, con il mega-consorzio controllare è stato pressoché impossibile. Il “consorzione” ha un bel dire sul proprio sito istituzionale: “Metro C sa è una società di progetto formata dalle società Astaldi, Vianini Lavori, Ansaldo STS, Cooperativa Muratori e Braccianti di Carpi, Consorzio Cooperative Costruzioni, costituita per la realizzazione della nuova linea C della Metropolitana di Roma. Cinque Soci, attraverso Metro C sa, hanno dato vita ad un Contraente Generale (General Contractor) che dispone delle tecnologie e delle risorse manageriali necessarie per la realizzazione “chiavi in mano” di questa importante commessa. Nata come società per azioni (Metro C spa), subentra all’Associazione Temporanea d’Imprese guidata da Astaldi che si è aggiudicata la gara d’appalto indetta da Roma Metropolitane per conto del Comune di Roma per la realizzazione della terza linea della metropolitana della Capitale. Nel settembre 2007 cambia ragione sociale per diventare una società Consortile per Azioni. Le imprese che costituiscono Metro C sa sono aziende leader nel campo della costruzione di grandi opere civili e di infrastrutture di trasporto. Si caratterizzano per il know how acquisito nella costruzione di opere sotterranee, per la collaudata esperienza internazionale nella realizzazione di appalti con la formula General Contractor e per la produzione di sistemi di automazione e di materiale rotabile tecnologicamente avanzato”⁵⁷. La realizzazione “chiavi in mano”, a oggi, sembra una feroce battuta di spirito. Humor nero, direbbe qualcuno.
E il sindaco “Marziano”? Marino ha di fatto chiuso la stalla quando i buoi erano già ampiamente usciti. Il 17 luglio del 2014 firma un’ordinanza con la quale revoca i vertici di Roma Metropolitane Srl, partecipata integralmente dal Campidoglio⁵⁸. Vanno via i vertici nominati da Alemanno (il presidente Massimo Palombi coi due consiglieri del Cda, Andrea Laudato e Massimo Nardi).
Ma il problema resta, oltre alla sensazione che la rimozione non sia stata altro che una sorta di spoil system. Infatti, rimossi i vertici nominati dal Centrodestra, il Cipe si sveglia, pronto a rimettere mano al portafoglio per pagare l’ultimo Sal, in ordine di tempo, dopo un blocco dei pagamenti durato un anno. Appena nominato il nuovo presidente di Roma Metropolitane Srl, tale Paolo Omodeo (ex Andersen e Deloitte), arrivano i soldi. Altri 100 milioni di soldi pubblici che, stando alla penosa faccenda vissuta sino a oggi, sono destinati a finire nel grande pozzo senza fondo della Metro C. A movimentare la questione ci pensa Matteo Renzi con il suo “Sblocca Italia” che, per l’occasione, viene rinominato “Sblocca Roma”. A fine agosto la fragorosa notizia, ribattuta da tutte le agenzie stampa e riportata a nove colonne sui maggiori quotidiani nazionali: “Sblocca Italia, 305 milioni per i lavori nella Capitale”⁵ . Il decreto, licenziato dal Consiglio dei Ministri, viene poi firmato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il 13 settembre, quando del decreto se ne erano perse le tracce. Ignazio Marino, dagli Stati Uniti, fa sapere: «Ripartono grandi opere pubbliche, si creano nuove opportunità di sviluppo, posti di lavoro e si garantiscono alla città infrastrutture strategiche. Roma si sblocca».
Di che si tratta? Una pioggia di milioni di euro che dovrebbero sbloccare il prolungamento della Metro C dal Colosseo a piazza Venezia (145 milioni) e il Ponte dei Congressi (altri 150 milioni) che collega la Roma-Fiumicino al quartiere Eur. Spuntano anche 2 miliardi per l’aeroporto di Fiumicino, a patto che, dichiara il ministro delle infrastrutture Maurizio Lupi: «Si provveda all’approvazione del piano urbanistico degli aeroporti» . Dov’è l’inghippo? C’è una postilla, nell’accordo col governo, fondamentale: «Se i cantieri non saranno realizzati in 10 mesi - dice il ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi - saranno ritirate le risorse». A proposito del finanziamento per il prolungamento della linea C, dal Colosseo a piazza Venezia, Lupi spiega in
maniera ancora più esplicita: «Con condizione che le opere siano cantierabili entro il 31 dicembre 2014» ¹. Se si tiene conto della vicenda della Metro C, si capirà bene che, “gufi rosiconi” o meno, i dubbi sono davvero tanti. Per le grandi opere non è mai stato un problema di risorse finanziarie, quanto di ritardi sull’inizio dei lavori e sui tempi di consegna, tangenti e modifiche in corso d’opera. Con buona pace di Paolo Masini, assessore ai lavori pubblici di Roma Capitale, che afferma: «Il percorso avviato in questi mesi proseguirà, da parte nostra, con l’impegno ad accelerare l’iter per l’avvio dei cantieri, e la prosecuzione del proficuo contatto aperto con il governo nell’ottica di valorizzare, anche dal punto di vista delle risorse, il ruolo della Capitale d’Italia e l’importanza strategica delle sue infrastrutture» ². Mi permetto, caro assessore, di nutrire forti dubbi. Di fatto, una volta di più, arrivano i milioni, senza però che vi sia una radicale riforma in materia di lavori pubblici.
Almeno per ora.
L’ATAC è al capolinea
Il trasporto su gomma a Roma è allo sfacelo. Al di là dei mezzi logorati che ti possono lasciare a piedi da un momento all’altro, al di là della calca di gente che ti costringe a scendere a metà percorso per poter respirare evitando uno svenimento, al di là dei borseggiatori, il problema è che intere zone di Roma restano isolate dal centro città. Se vivi a Cinecittà Est, a Tor Bella Monica, in cima alla Cassia, a Castel Giubileo, o hai la macchina oppure in centro non ci arrivi. Tanto più che, per tagliare i costi di gestione dell’Atac, il sindaco ha pensato bene di eliminare alcune corse che univano le periferie con il centro città. Dal suo sito istituzionale, quando era ancora impegnato nel suo tour elettorale, Marino annunciava: “Le periferie sono importanti quanto il centro della città. Tutte le zone devono essere unite dai servizi, dal decoro urbano e dai trasporti per poter creare una comunità unita. Roma non è solo il centro storico. Proprio per testimoniare la nostra attenzione sul tema, abbiamo già detto che è nostra intenzione destinare i nuovi autobus alle periferie” ³. Non è vero. Dalle pagine de Il Messaggero del 6 maggio 2014 si legge: “Il primo o per salvare Atac riguarda il taglio di 15 linee per un totale di circa 3,5 milioni di chilometri. È previsto dal piano firmato dall’assessore ai Trasporti, Guido Improta. Coinvolgerà, a partire da lunedì prossimo le tratte appoggiate alle rimesse di Tor Sapienza, Collatina e Tor Vergata. Poi toccherà a quelle di Magliana, Grottarossa e Portonaccio, a settembre. In questo caso i tecnici stanno ancora decidendo quali linee sopprimere. Ma questo non è che l’inizio, perché il disegno finale, che dovrà concludersi il più presto possibile, comprende il taglio complessivo di 19 milioni di chilometri dei tragitti coperti da Atac e altri 6 milioni di quelli coperti da Roma Tpl, in tutto 25 milioni di chilometri in meno, ovvero il 20 per cento complessivo delle corse, che dovranno essere recuperati attraverso il taglio delle linee «morte» (quelle con bus vuoti all’85 per cento), ma anche con il ridimensionamento dei transiti complessivi della rete del trasporto pubblico romano” ⁴.
Marino poi, a gennaio del 2014, ha provato a dare la sua ricetta. Un piano finalizzato a recuperare circa 100 milioni. La prima misura da adottare? Semplice: far entrare dalle porte anteriori i viaggiatori. Per chi vive a Londra questa è già la norma. Insomma, se sei costretto a entrare dalla porta anteriore, il conducente deve controllare che tu abbia il biglietto. Se non ce l’hai, scendi. E infatti, per voce dell’assessore alla mobilità Guido Improta: «L’evasione del ticket vale circa 40 milioni di euro l’anno» ⁵. Vecchio vizio dei romani quello di non pagare il biglietto. Ma la spiegazione c’è. Per decenni a Roma non ci sono stati i controllori sui bus. Nonostante l’infornata di dipendenti di Alemanno ad Atac, pochi se la sono sentita di andare a fare le multe ai “portoghesi”. Il Comune ha preso provvedimenti. È notizia di maggio del 2014 il potenziamento della rete di controllori. Ecco i numeri, secondo il Tempo: “20 squadre composte da tre controllori e divisi in cinque macro zone (Eur Fermi, Termini, Grottarossa, Anagnina, Ponte Mammolo). Circa 60 persone (in totale sono 77) che ogni giorno provano a sanzionare l’orda di portoghesi che sale sugli autobus e i tram della Capitale”. Qualcuno parlerebbe di un buon inizio. Altri di una misura insufficiente. E, a badare bene, è la stessa Atac che certifica l’irrisorietà della cosa: «Il potenziamento del servizio di verifica ha portato, da settembre 2013 a marzo 2014, a incrementare del 16,2% le sanzioni emesse». I famosi 40 milioni di euro di mancati incassi rimangono una chimera difficile da raggiungere. Dicevamo dell’obbligo di ingresso dal portello anteriore e che nei paesi civili questa misura funziona. A patto che però il conducente svolga anche la funzione di controllore, e quindi di intimare a scendere a chi si presenta senza biglietto. Da un articolo del Il Fatto Quotidiano di gennaio 2014, si scopre che i controllori sono sì 70, ma su un totale di 12.000 dipendenti . Una goccia nell’oceano. La maggior parte del personale preferisce stare negli uffici. E su questo aspetto
Marino ci può fare poco. Oltre al fatto che i sindacati si sono espressi più volte contro l’eventualità che il conducente svolga anche la funzione di controllore. Quindi, la soluzione dell’obbligo di ingresso dall’entrata anteriore è persa in partenza. Colpa dei sindacati, colpa dei dipendenti Atac che non vogliono fare i controllori, fatto sta che a Roma buona parte dei viaggiatori continua a non pagare il biglietto. Ma il problema rimane, anche ammesso che tutti paghino. Atac ha dei costi di gestione doppi rispetto, ad esempio, alla società di traposto londinese. E sfido chiunque a paragonare il sistema di traporto di Roma con quello di Londra. Si dirà che la metro a Londra costa cara. Ma è pur vero che a Londra il trasporto pubblico funziona talmente bene che possedere una macchina è cosa superflua. Tutto ciò significa che, finché non si tagliano i costi di gestione, i bus continueranno a logorarsi, le corse a essere sempre meno frequenti e i tempi di attesa immensi. Oltre al fatto che non vi saranno nuove linee a servire le lande desolate delle periferie romane. Inoltre si stimano sprechi per oltre 500 milioni di euro (somma pari a quella che il Comune di Roma deve recuperare con il piano triennale di rientro del debito). Se anche dovessimo svegliarci domani in una Roma perfetta, dove tutti pagano il biglietto, questa entrata riuscirebbe a coprire solamente i due terzi del costo totale di gestione. Il che la dice lunga sulla grave situazione in cui versa oggi il servizio di trasporto pubblico a Roma.
Il paradosso? Durante la presentazione del Piano di rientro triennale da parte del “Marziano”, per Atac era stato previsto un incremento di risorse, da 518 a 531 milioni ⁷. A occhio e croce, non sarà una manciata di 13 milioni di euro a migliorare il sistema di trasporto pubblico su gomma. C’è da scommetterci. Così come, a settembre 2014, di ritorno dalle sue lunghe vacanze estive, Marino
si trova a dover fare i conti con un ammanco di 240 milioni senza i quali, dal mese di ottobre 2014, Roma Capitale si troverebbe nelle condizioni di non poter pagare lo stipendio al personale Atac. Che fare? Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio, è stato fin troppo generoso, trasferendo a Roma Capitale prima 100 milioni per il 2013 e poi altri 140 milioni. Ma non bastano. Gli altri 240 milioni dove prenderli? Marino esclude un aumento delle tariffe dei biglietti, anche perché il servizio di trasporto pubblico fa così schifo a Roma che l’aumento del biglietto non sarebbe sostenibile. Così si rivolge, una volta di più, al Governo Renzi: «Fino al 2009 il Comune di Roma riceveva 300 milioni di euro all’anno per far funzionare il tpl. Nell’ultimo anno, la presidente che ha preceduto Nicola Zingaretti ha indicato, come somma per tpl di Roma, zero euro. Zingaretti, su mia richiesta, l’anno scorso ha inserito 100 milioni e, quest’anno, 140 milioni di euro, facendo degli sforzi importanti perché ha ereditato un bilancio regionale con disavanzi miliardari. Questa è la Capitale d’Italia, se deve avere un trasporto pubblico all’altezza, deve avere i fondi per poterlo fare, per questo abbiamo presentato il problema a Palazzo Chigi» ⁸. Il governo, manco a dirlo, non risponde. Tanto che l’assessore alla Mobilità di Roma Guido Improta, annusando l’aria ha dichiarato: «Non si può dire: il piano di rientro va bene ma la questione dei trasporti se la devono vedere Roma Capitale e la Regione, altrimenti vuol dire che c’è un problema con il piano di rientro di Roma Capitale» . Nonostante Improta, l’unica graziosa concessione da parte del Governo Renzi è quella di trattenere 100 milioni dal Piano di rientro triennale. Insomma, “un prestito da parte della gestione commissariale del debito capitolino precedente al 2008, che ogni anno incassa una buona fetta (il 4 per mille) dell’addizionale Irpef dei romani, proprio per ripianare un po’ alla volta quei debiti. L’ipotesi più praticabile è che il Campidoglio possa essere autorizzato, per quest’anno, a trattenere 100 milioni da destinare all’Atac”⁷ . A pensarci bene, Marino dovrebbe amministrare Londra.
Ma purtroppo gli è toccata Roma.
Il Supremo e i due Marino: Roma, pattumiera a cielo aperto
Partiamo da un’Ansa. È l’11 luglio 2014 e il Campidoglio fa sapere perentorio: “Al via il Piano straordinario per il decoro e la pulizia della Capitale dopo l’emergenza rifiuti. In arrivo una task-force di 30 squadre di pronto intervento Ama. La giunta capitolina ha programmato un piano di interventi che consentirà entro 10 giorni di riportare la situazione della raccolta alla normalità e che impedirà che le emergenze possano riproporsi. Il sindaco Marino annuncia 100 controllori che in ogni municipio verificheranno il lavoro di spazzamento e raccolta dei rifiuti”⁷¹. Che sarà mai successo? Roma è invasa dai rifiuti. “È una situazione gravissima, io sono molto arrabbiato e abbiamo preso misure immediate. Sono fiducioso che entro la fine di luglio questa situazione verrà superata e verrà superata per sempre”⁷².
Marino è arrabbiato, ma perché è contrariato ad appena un anno dalla sua elezione? Semplice: la discarica di Malagrotta è stata chiusa. Dopo trent’anni di onorevole servizio, la discarica della vergogna chiude i battenti. Non solo, il “Supremo”, tale Manlio Cerroni, viene arrestato. E con lui altre sette persone. A Roma il sindaco Marino e il suo omonimo assessore all’ambiente, Estella Marino, twittano trionfanti la notizia della chiusura. Quasi fossero andati loro fisicamente a mettere i lucchetti a Malagrotta. Ma così non è. La discarica di Malagrotta avrebbe dovuto chiudere già il 31 dicembre 2007, in forza al divieto di conferire in discarica rifiuti allo stato grezzo, come una direttiva comunitaria prescrive. Da quel momento Malagrotta figura nella lista dei siti che «costituiscono una seria minaccia alla salute umana e all’ambiente»⁷³.
Ma, come succede spesso in Italia, l’allora Presidente della Regione Lazio e Commissario Straordinario per l’Emergenza Rifiuti del Lazio ad interim, Piero Marrazzo, aveva prorogato il termine sino al 25 luglio del 2007. Senonché, l’allora Governo Prodi bis aveva fatto una proroga della proroga, spostando il termine sino al dicembre del 2008. Sono solo le prime due delle innumerevoli revoche che hanno permesso a Manlio Cerroni di vedere accrescere il proprio patrimonio e ai romani di dormire sonni tranquilli. Di proroga in proroga, intanto l’Italia viene denunciata alla Corte Europea di Giustizia della Commissione Europea per l’ambiente. La colpa? I rifiuti scaricati a Malagrotta non sarebbero stati trattati per mezzo del processo meccanico biologico per ridurne il volume e facilitarne quindi il recupero. Insomma, i rifiuti vengono scaricati “tali e quali”, così come vengono raccolti in giro per le strade della Capitale, senza badare a stabilizzare la loro parte organica. Arriviamo così al 13 agosto del 2013, quando Marino, da poco sindaco di Roma, annuncia che Malagrotta verrà finalmente chiusa. Chiusura che viene annunciata ufficialmente il primo ottobre dello stesso anno. In una bella conferenza stampa il “Marziano”, in compagnia di quello che avrebbe dovuto essere il sindaco in pectore di Roma, Nicola Zingaretti, annuncia: “Sono davvero molto felice perché, insieme a un gruppo di amministratori seri e rigorosi, iniziando dal presidente della Regione Zingaretti, stiamo festeggiando una data epocale. Credo davvero che sia stata premiata una politica che non entra nel dibattito violento e aggressivo e, in silenzio e umiltà, lavora nell’interesse della città”. E aggiunge: “Malagrotta era una discarica aperta da un terzo di secolo e durante la campagna elettorale regionale e comunale avevamo detto che l’avremmo chiusa. Su questo nostro impegno c’è stato grande scetticismo dopo le diverse proroghe e i rinvii. Durante questi ultimi mesi c’è stato un lungo lavoro tecnico: da un lato chiudere una discarica gigantesca, dall’altro decidere dove conferire il prodotto del trattamento. Un lavoro che ci ha permesso di chiudere Malagrotta”⁷⁴.
A Roma si chiude una discarica dopo sette anni dalla richiesta della
Commissione Europea, l’Italia viene denunciata perché continua a non chiuderla, Manlio Cerroni ha potuto continuare a prosperare e Marino si dice soddisfatto. Come se tutto ciò possa essere un merito. Qual è il merito? Aver dato seguito a ciò che l’Europa chiedeva all’Italia da anni?
Sì, in Italia, come a Roma che ne è la capitale, questo è un merito. A differenza di Paesi più civili, fondati sullo stato di diritto, dove Marino e Zingaretti si sarebbero dovuti scusare a nome delle istituzioni e dei politici che li hanno preceduti.
Il sospetto che la chiusura di Malagrotta sia arrivata quasi in tempo per togliersi dall’imbarazzo per ciò che di lì a poco sarebbe successo, è forte. Che sia arrivata una soffiata? E infatti, il 9 gennaio del 2014 il NOE arresta 7 persone, tra cui Manlio Cerroni e l’ex presidente della Regione Lazio Bruno Landi. Di colpo la cronaca romana si mette a raccontare il sistema di Manlio Cerroni. Un sistema basato sulla monnezza che diventa oro. Un mondo fatto di intrallazzi, accordi, telefonate e pacche sulle spalle, che vede la politica al servizio del “Supremo”, come verrà definito nelle intercettazioni Manlio Cerroni. Il sindaco Marino e il presidente della Regione Lazio avrebbero fatto un bel servizio alla comunità se, durante la trionfante conferenza stampa, avessero stigmatizzato come l’indagine, che era già in corso dal 2012, avrebbe potuto radere al suolo il monopolio assoluto di Cerroni, basato sulla piena e convinta connivenza del sistema politico e istituzionale per oltre trent’anni. Avrebbero potuto affermare come sia stata una vergogna aver affidato senza alcun bando pubblico la raccolta dei rifiuti (che va ricordato essere per legge attività di pubblico interesse) sempre a un unico soggetto, che nel frattempo si era incoronato “Supremo”. E invece no.
I due si sono bullati come con gli amici al bar, ignorando il pregresso e facendo finta di non sapere cosa sarebbe di lì a poco successo a Roma: l’ondata di rifiuti per le strade della Capitale.
Ma chi è Manlio Cerroni? Chi è colui che ha governato la raccolta dei rifiuti a Roma per quarant’anni? La leggenda narra che Cerroni fosse così potente a Roma e nel Lazio che apriva le porte degli uffici degli assessori con un calcio. Quasi fosse il Far West. Ed effettivamente la raccolta dei rifiuti a Roma, come in Italia, è stata, ed è, un vero e proprio Far West. Il Gip Massimo Battistini, nell’ordinanza di arresto, fissa l’inizio dell’impero di Manlio Cerroni a partire dal 1960 quando, in occasione delle Olimpiadi di Roma, il Campidoglio assegna un appalto per il trasporto e lo smaltimento dei rifiuti. L’affidamento è a favore di quattro società nell’orbita Cerroni. Poi, per mezzo di innumerevoli proroghe, nel 1970 Cerroni continua il suo corsus honorem con la pubblica amministrazione, sino a diventare socio della Sogein, a cui il Campidoglio dà in gestione la raccolta dei rifiuti, controllata per il 67% dall’Acea e per la parte restante dalla Sorain Cecchini di Cerroni e dalla Slia di Aurelio Merlo. Nel 1986 la Sogeisn fallisce ma Cerroni continua a crescere. Così, si inventa la Colari (Consorzio laziale rifiuti), il Ctr e la Giovi, più una miriade di altre società. Ma il miracolo avviene con l’invenzione di Malagrotta, la mega discarica di Roma e del Vaticano. Da qui in poi la strada per l’avvocato Cerroni è tutta in discesa, trovando grande appoggio da parte del mondo politico per oltre un trentennio. Per capire l’entità dell’impero di Manlio Cerroni è istruttivo leggere un’inchiesta del giornalista Corrado Zunino pubblicata su La Repubblica: “Dopo quarantotto anni di dura intrapresa e di intensi rapporti con le ventitré amministrazioni che si sono succedute nella capitale d’Italia, l’ex sindaco Dc di Pisoniano, paese fra i Monti Prenestini, si è allargato. Manlio Cerroni oggi smaltisce e (secondo alcune procure) inquina in Italia e nel mondo. Gestisce discariche e impianti di
trattamento a Brescia, Collegno, sulla dorsale che da Roma raggiunge Perugia ando per il Trasimeno e l’Alta Valle del Tevere, fino a Tempio Pausania. In mezza Europa. A nord del Cairo, in Brasile, a quaranta chilometri da Sydney (c’era il premier del Nuovo Galles del Sud al taglio del nastro)”⁷⁵. Un impero sul quale il sole non tramonta mai.
Ma perché Manlio Cerroni viene arrestato? L’inchiesta del Noe parla di documenti falsi, emergenze artefatte, tonnellate infinite di rifiuti che, anziché essere differenziati vengono scaricati a Malagrotta “tal quali”, ovvero senza essere trattati. Nonostante i rifiuti non fossero trattati, Cerroni incassava milioni di euro come se la monnezza venisse differenziata. E con tutta questa immondizia indifferenziata che occupava spazio a Malagrotta, Cerroni dichiarava le emergenze, costringendo l’amministrazione pubblica a individuare sempre nuovi siti. Siti che, manco a dirlo, erano o diventavano di sua proprietà. Come scrive il Gip Battistini: “In sostanza, si prendevano soldi per trattare i rifiuti che, invece, venivano scaricati nella discarica come indifferenziata. E la discarica, così facendo, pian piano si è pure esaurita”. Con questo giochetto, Manlio Cerroni avrebbe guadagnato, almeno dal 2006, 11 milioni di euro dalla gestione dell’impianto di raccolta e trattamento dei rifiuti di Albano Laziale. Altri 8 milioni di euro li avrebbe guadagnati dalla faccenda della discarica di Monti dell’Ortaccio. Qui avrebbe, sempre secondo l’accusa, realizzato l’invaso di una futura discarica, “ponendo così in essere una incisiva trasformazione urbanistica, smaltendo poi le rocce e le terre da scavo (da qualificarsi come rifiuti) all’interno della discarica di Malagrotta, simulando l’esistenza di titoli autorizzativi di fatto inesistenti”. Stando alla tesi dell’accusa, Cerroni faceva come gli pareva. E la politica? Restava a guardare. Ma non solo. È lo stesso Cerroni che, bersagliato dalle accuse e agli arresti domiciliari, si sfoga contro quei politici che per decenni lo hanno corteggiato.
“Dovreste farmi un monumento per quello che in questi anni ho fatto in tema di rifiuti. Nonostante un sistema burocratico folle ho evitato che a Roma si creasse una emergenza come quella vissuta in Campania”⁷ . Così Cerroni, durante l’interrogatorio davanti al Gip Battistini.
In un certo qual senso, non gli si può dare torto. Lo Stato, per 48 anni, non ha mai controllato, si è più volte rivolto a lui, trovando sempre una soluzione. Peccato che l’Europa prima e la magistratura poi abbiano trovato che tutto ciò non fosse regolare. Ma eravamo rimasti a un Marino prima trionfante, in compagnia di Zingaretti, e poi imbronciato, in compagnia del suo omonimo assessore Estella Marino. Il “Marziano” si sveglia improvvisamente con la Capitale piena zeppa di rifiuti. I cittadini protestano, tenendo anche conto del fatto che la tassa sulla raccolta dei rifiuti è destinata ad aumentare, sempre in virtù della necessità di rientrare del debito mostre certificato dalla Corte dei Conti, che ha portato al salasso dettato dal Piano triennale di rientro.
Marino, che della politica dell’immagine ha fatto il proprio mantra, ha una geniale trovata: 10 giorni per riportare Roma alla normalità. Così se Alemanno si ridusse con la pala in mano a spalare neve, Ignazio ed Estella Marino si riducono ad andare in giro per Roma a fare visita ai cassonetti della nettezza urbana. Dando vita a una serie di scenette di comicità nonsense alla Monty Python. Specie quando il sindaco, in abito blu, di fronte a un cassonetto visibilmente svuotato per l’occasione, gli si para davanti, apre il coperchio e ci infila quasi la testa dentro. Al pari di un Man in Black in cerca di chissà quale strano alieno.
Momento quiz!
Chi disse, davanti ad una montagna di rifiuti: “Fra 10 giorni sarò qui per un incontro con tutti i sindaci e per verificare che il nostro intervento d’emergenza abbia riportato la situazione alla normalità”⁷⁷?
Era Silvio Berlusconi dinnanzi all’emergenza rifiuti di Napoli.
Corsi e ricorsi storici, verrebbe da dire. Ma il mistero rimane. Perché 10 giorni? Nessuna sa dare risposta a questo quesito. Tranne che 10 giorni fanno cifra tonda. E c’è da dire che, almeno all’epoca, l’allora premier si era occupato in prima persona della faccenda rifiuti, con il suo luogotenente Guido Bertolaso, dando poi la colpa all’allora sindaco di Napoli Rosa Russo Jervolino.
Mentre il premier Renzi che fa?
Il Matteo nazionale, fresco di “accoltellamento” al suo sodale Letta, preferisce glissare sulle questioni spinose. Ma, come abbiamo già scritto, il ceffone a Marino arriva lo stesso. Non da Renzi, che evita di sporcarsi le mani ma dal Ministro all’ambiente Galletti che, dinnanzi alla richiesta da parte di Marino di nominare un Commissario Straordinario per l’emergenza rifiuti, ribatte: «Se è vero che Roma è a un o dall’emergenza rifiuti, Comune e Regione non possono pensare di scaricare sul Governo le loro responsabilità».
C’è però una novità politica in tutto ciò: a salvare Roma dai rifiuti sarà Bruno Vespa!
E sì, perché è proprio il pluripremiato anchorman della Tv di Stato che una
mattina, così come è successo a Marino, si accorge di essere immerso in una pattumiera a cielo aperto. E così, come un Renzi qualsiasi, twitta: “A San Pietroburgo, 5 milioni di abitanti, non ho visto un solo rifiuto sulla strada. Mi sono vergognato di abitare a Roma. @ ignaziomarino”⁷⁸. È il 6 luglio 2014. Poco più di una settimana dopo, Marino dà il via al piano straordinario di recupero della Capitale⁷ . Insomma, se voi romani avete un problema, oggi sapete cosa dovete fare: ditelo a Bruno Vespa. Vedrete che il sindaco Marino si muoverà per risolverlo.
Parte così il Piano straordinario per il decoro e la pulizia della Capitale. Una task-force di 30 squadre, per un totale di 100 operatori alle dirette dipendenze dei municipi di Roma e dei singoli cittadini. Cittadini che possono addirittura twittare al sindaco Marino che, con la bicicletta e la pedonalizzazione dei Fori Imperiali, ha ben mostrato di saper rappresentare plasticamente la “fuffa” del fare. Un sindaco che, degno del miglior Matteo Renzi nazionale, inizia a fare la ronda per i quartieri di Roma, cassonetto dopo cassonetto, in compagnia di un sempre meno sorridente assessore Estella Marino. Quest’ultima deve essersi chiesta cosa se l’era presa a fare la sua benedetta laurea in materia ambientale, se poi avrebbe dovuto ridursi a queste buffonate. Ma oramai l’operazione farsa è partita e bisogna pur portarla a termine.
E anzi, perché non rilanciare? Marino nel day after dell’invasione della monnezza a Roma, si lancia ad annunciare: “Dopo la chiusura di Malagrotta Roma Capitale ha iniziato a lavorare per un ciclo dei rifiuti più moderno e sostenibile; la realizzazione di un ecodistretto trasformerà i rifiuti in risorsa, sfruttando le tecnologie più avanzate già in uso in alcuni paesi europei. Prevista inoltre la realizzazione da parte di Ama di biodigestori per il trattamento della frazione organica, con la collaborazione di altri partner industriali”.
Il Piano straordinario non si limita però solo a questo. C’è di più: “Attivazione di un tritovagliatore aggiuntivo (che verrà installato entro una settimana e sarà attivo entro fine mese) posizionato all’interno del perimetro dello stabilimento Ama di Rocca Cencia, con una capacità di trattamento di 200 tonnellate/giorno; attivazione di aree provvisorie di selezione e cernita (chiuse e ambientalmente protette) di materiali riciclabili a o della filiera della differenziata, direttamente collegati alle esigenze dei Municipi circostanti; accordi con i fornitori che effettuano servizio di trasporto e smaltimento dei rifiuti trattati fuori dal Lazio, per aumentare numero e regolarità dei mezzi disponibili ed evitare le difficoltà legate a possibili ritardi e blocchi”. Senza contare che i lavoratori dell’Ama dovranno fare ciò che non hanno fatto in decenni a Roma: evitare di andare in massa in malattia. E Marino, dando seguito alle sue critiche all’Ama di lavorare poco e male, fatte al gennaio del 2014, rinnova il disappunto: «Credo sia venuto il momento di far saltare qualche testa. Sono molto stanco e arrabbiato della situazione. È vero che abbiamo chiuso la discarica di Malagrotta ma adesso Ama deve funzionare meglio. Abbiamo un 18% di assenteismo che è inaccettabile, così come è inaccettabile che i dirigenti non controllino i dipendenti»⁸ . Quell’Ama che Alemanno aveva riempito di amici di amici, “figli e mogli di”. Quell’Ama che, stando al Piano triennale di rientro del debito, si vedrà decurtare 94 milioni di euro⁸¹. L’impresa del sindaco ciclista si annuncia ardua. Ci sono voluti sette anni per chiudere Malagrotta, e Marino annuncia che: “In due anni, entro il 2015, Roma potrà diventare modello virtuoso anche grazie alla diffusione in tutto il territorio cittadino del nuovo modello di raccolta differenziata a 5 frazioni (carta, vetro, multimateriale ‘leggero’, organico e indifferenziato)”.
Anche perché Malagrotta (1 e 2) è ufficialmente chiusa, ma ufficiosamente rimane aperta. Infatti, nonostante la conferenza stampa del duo MarinoZingaretti, in cui questi si vantavano con gli amici al bar per la storica chiusura del sito tossico, anche Marino proroga. Nonostante il decreto prefettizio di
Giuseppe Pecoraro che aveva ordinato «le interdittive» nei confronti delle società di Manlio Cerroni, Roma non può fare a meno delle sue discariche. Così, mentre il Supremo è agli arresti domiciliari, Marino firma l’ennesima ordinanza per “il superamento delle situazioni di criticità riguardanti il processo di gestione del ciclo dei rifiuti urbani della città”⁸². Per alti 120 giorni Roma continuerà a scaricare i rifiuti a Malagrotta. Dopo trent’anni di monopolio Cerroni, non c’è altra via d’uscita. È una grande sofferenza per Marino che, solo qualche mese prima, ancora tronfio per aver “chiuso” Malagrotta, affermava “non ci saranno proroghe”⁸³. Ed anzi, rilanciava un progetto di recupero di Malagrotta, favoleggiando di come la discarica “sarà trasformata in un parco con 100.000 alberi”. E mentre Marino pensava agli alberelli sulla collinetta di terra che avrebbe dovuto ricoprire la discarica di Malagrotta, Renzi, tanto per distinguersi, rilasciava una dichiarazione che era sale sulle ferite del “Marziano”: “Tutte le città, a partire da Roma, nei settori come acqua, depurazione, rifiuti, devono fare un salto di qualità, altrimenti rischiano la procedura d’infrazione non dall’Europa, ma direttamente dai cittadini”. Insomma, il premier pare dire a Marino: i problemi di Roma? Sono affari tuoi. A rendere poi tutta la faccenda alquanto comica, è la testata web fieradellest.it che in occasione della visita ispettiva del sindaco tra i cassonetti di Tor Bella Monaca, scrive: “Sarà una data epica per il VI Municipio quella del 24 luglio: i cittadini hanno visto per la prima volta le loro strade curate, pulite e i loro rifiuti raccolti con intervalli di dieci minuti”. A riprendere il concetto della farsa, il consigliere comunale Pd Dario Nanni: “Purtroppo, come spesso accade, quando arriva una importante autorità in un quartiere periferico, in questo caso il Sindaco di Roma, nei giorni precedenti si procede con le grandi pulizie, dando la sensazione che quello che ci si trova davanti è la normale situazione”⁸⁴. Insomma, il sospetto da più parti è che l’operazione Piano Straordinario, di straordinario abbia unicamente lo spazio guadagnato sui giornali e sui media della Capitale. Un po’ come gli 80 euro di Matteo Renzi per far ripartire l’economia e i consumi. L’operazione “Roma Pulita” termina, mediaticamente, il 5 agosto 2014. E difatti
lo stesso Marino, dopo aver ispezionato personalmente, con la sua fida Estella, centinaia di cassonetti, con la stessa compostezza di un notaio, a dire: “Roma è fuori dall’emergenza rifiuti”⁸⁵. Perché? Perché lo ha deciso lui!
E infatti, i cittadini romani nei giorni seguenti continuano insistentemente a segnalargli via Twitter cassonetti stracolmi di immondizia e rifiuti sotto casa. “Maledetto Twitter!”, deve aver pensato Marino. Ma non può dimenticare che il primo ad aver dato inizio alla farsa social è stato proprio lui.
Chi di Twitter ferisce, di Twitter perisce.
Ma non finisce qui.
A rendere il quadro ancor più grottesco c’è la sentenza della Corte di Appello che impone all’Ama di pagare un debito monstre di 80 milioni di euro alla Colari. Infatti, a maggio del 2014, la Corte d’appello conferma quanto era stato stabilito nell’arbitrato tra l’Ama e la Colari nella sentenza del febbraio 2012: “Di questi oltre 75 mila (76.391.533,29 oltre interessi) sono a titolo di rimborso dei maggiori oneri connessi all’obbligo per il Colari di assicurare la gestione post operativa della discarica di Malagrotta per almeno 30 anni anziché per 10. Poi ci sono 1.133.115,49 (oltre interessi) per l’incremento delle ore di lavoro notturno e 847.067,91 (oltre interessi e rivalutazioni) per l’ordinanza del 2 marzo 1999, dell’allora sindaco sco Rutelli, che imponeva la lavorazione dei rifiuti anche nei giorni festivi”⁸ . D’altronde, si tratta pur sempre di una buona uscita onorevole per un gran “benefattore” che di nome fa Manlio Cerroni.
Sì, perché il monopolio di Cerroni ha interessato sindaci leggendari come Vetere, Petroselli, Amerigo Petrucci fino a Rutelli e Veltroni. Il monopolio della Colari ha prosperato perché a Roma la politica ha fallito, nel non saper trovare una valida alternativa. Non ha saputo decidere sulla costruzione di gassificatori. Non è riuscita ad avviare una decente raccolta differenziata. E l’eventuale condanna di Cerroni e dei suoi sodali, con il conseguente sventramento del suo monopolio, non migliorerà certo le cose. L’unica conseguenza certa, ad oggi, è che la raccolta di rifiuti a Roma costerà più cara. Perché Cerroni, in cambio dell’assicurazione da parte della politica del suo monopolio, praticava prezzi stracciati. La discarica di Malagrotta ha fatto risparmiare almeno due miliardi di euro ai romani. A Milano, come in qualsiasi altra città italiana di grandi dimensioni, la raccolta e lo smaltimento rifiuti costa quasi il doppio. Insomma, di certo c’è che i cittadini pagheranno di tasca propria la fine di un vergognoso monopolio. Questo è uno dei compiti del sindaco Marino: mettere sempre di più le mani nelle tasche dei romani.
Sempre più un “curatore fallimentare”.
Sempre meno sindaco.
Rom e Immigrati? Per Marino il problema non esiste
Prendete il programma elettorale di Ignazio Marino, provate a cercare le parole “Rom”, “Sinti”, “Caminanti”. Non sono presenti. Troverete citata, una sola volta, la parola “nomadi”, a pagina 55, in riferimento agli sgomberi dei campi “nomadi” effettuati dalla precedente amministrazione Alemanno⁸⁷. Non sorprenda ciò. Tradizionalmente, per la sinistra, il problema Rom non è mai esistito. O meglio, si è sempre evitato di affrontarlo. Per lo più, l’intellighenzia di sinistra si è posta il problema semantico: “zingari”, “rom”, “caminanti”, “sinti”? Qual è il termine più corretto da utilizzare per non fare la figura da razzista nei bei salotti romani radical chic, così come al Teatro Valle Occupato? Magari, il fatto che pure Papa sco abbia sbagliato, chiamandoli “Zingari”, può aver consolato qualcuno⁸⁸. Il problema è così sentito da coloro che vogliono essere “politically correct” che Ignazio Marino, volendo risolvere questa intricata e cruciale faccenda, ha pensato bene di firmare una circolare che vieta il termine “nomadi”. Con il suo fare notarile ha affermato: “Devo registrare come, nel linguaggio comune, le comunità Rom, Sinti e Caminanti vengano impropriamente indicate con il termine di ‘nomadi’. Per questo motivo chiedo che d’ora in poi – nelle espressioni della comunicazione istituzionale e nella redazione degli atti amministrativi – in luogo del riferimento al termine ‘nomadi’ sia più correttamente utilizzato quello di ‘Rom, Sinti e Caminanti’”⁸ . Amen
Risolto il problema semantico, rimane il problema reale.
I campi abusivi, i furti nelle stazioni metro e ferroviarie, i minori costretti a chiedere l’elemosina sulla metro e agli angoli delle strade del centro città? Marino preferisce non vedere. Così nel III municipio di Roma, nel luglio 2014, ha luogo un evento paradossale. I Rom sgomberati dal campo abusivo di via Val d’Ala si presentano davanti alla sede municipale di piazza Sempione . Rifiutano di andare nelle case-famiglia, dove sarebbero costretti a dividersi tra uomini e donne. Chiedono una soluzione alternativa. L’assessore e il presidente municipali li fanno sistemare nell’androne del municipio. L’accampamento si sposta così dal Parco delle Valli ai locali del Municipio III. Poi, dopo un batti e ribatti tra il municipio e l’assessore per le politiche sociali Rita Cutini, il giorno dopo i Rom vengono caricati su un paio di mezzi Atac e portati alla vecchia Fiera di Roma.
La Giunta Marino?
Un’altra volta caduta dalle nuvole. Eppure il problema degli insediamenti abusivi Rom affligge la città da decenni. Si fa fatica a ritrovare nel programma elettorale di Ignazio quali misure intendesse adottare per il problema Rom. Come abbiamo già detto, il “Marziano” ha glissato bellamente il tema. Un po’ seguendo la tradizione del pensiero progressista di sinistra e italiota, laddove, rimanendo vittima del relativismo culturale, si preferisce rispondere: “Non possiamo negare a un popolo di vivere secondo le proprie abitudini”. Ma i romani, di destra e di sinistra, presentano il conto. Tanto più che, a leggere un rapporto edito dall’associazione “21 luglio” dal titolo “Campi nomadi SpA”, si apprende che Roma Capitale, solo nel 2013, ha speso circa 24 milioni di euro: 16 milioni per la gestione dei campi Rom; 6 milioni per la gestione dei tre centri di raccolta; 2 milioni per i 54 sgomberi forzati. Dallo studio si apprende, inoltre, che solo un’esigua parte della spesa complessiva è stata destinata alle attività di integrazione e sicurezza. Per non parlare del fatto che quasi la totalità dei 24 milioni di euro sono stati affidati senza bando pubblico. Così come non c’è una
valutazione ex post sui risultati ottenuti ¹. D’altronde, se si affidano le somme di denaro senza bando pubblico, poco importa poi capire l’efficacia delle attività messe in campo. Al netto di tutte le storture richiamate dal rapporto, rimane il dato inconfutabile che Roma Capitale, oggi Città Metropolitana, sta perseverando in una politica fallimentare. Al sindaco Marino, tra un concerto dei Rolling Stones, un plastico del futuro e avveniristico stadio della Roma, la pedonalizzazione di un altro pezzo di Foro romano e la presentazione della maratona rock a piazza del Popolo, poco importa. Così lascia che il suo assessore alle politiche sociali litighi con quello del III municipio e che i cittadini di Città Giardino assistano al triste spettacolo di 30 Rom accampati alla disperata nell’androne della sede del proprio municipio. La povera Rita Cutini si ritrova sotto l’attacco congiunto, nell’ordine: della Croce Rossa, dell’associazione “21 luglio” e, cosa sorprendente, di Sant’Egidio. Quest’ultima è l’istituzione cristiano-cattolica da cui la stessa Cutini proviene.
La Croce Rossa l’attacca per lo stato pietoso del campo Rom de La Barbuta, regno di tensioni e violenze, compresi roghi di materiale plastico e rifiuti qua e là lungo la zona: “La situazione è fuori controllo, e l’assessore alle Politiche Sociali resta in silenzio” ².
Poi è il turno dell’associazione “21 luglio”, che stigmatizza l’operato della Cutini, arrivando a chiedere al sindaco Marino il ritiro della delega per la questione Rom.
E per finire, Sant’Egidio, che era stato il main sponsor dell’assessore Cutini: “La Comunità di Sant’Egidio esprime profonda preoccupazione per il clima di intolleranza che si sta creando nei confronti delle persone che vivono per strada
a Roma. Chiediamo al Sindaco e al prefetto di interrompere gli sgomberi e di studiare soluzioni alternative a queste situazioni di precarietà abitativa”. Gli sgomberi sono quelli ai danni delle roulotte che la stessa Comunità di Sant’Egidio aveva messo a disposizione di alcuni senza dimora.
In tutto questo bailamme, Marino tace. Il poveretto ha già dovuto cedere alla politica degli sgomberi degli insediamenti abusivi. Pratica massicciamente utilizzata dal suo predecessore Alemanno. Il “Marziano” ha da sempre pensato che sgomberare, per spostare il problema da una parte all’altra della Città, non fosse una buona strategia. Ma poi, pressato dall’opinione pubblica sempre più rabbiosa nei confronti dei Rom, ha dovuto anche lui adottare tale pratica. D’altronde, Marino non ha mai avuto una strategia per il problema Rom. Una sola volta si limitò a dire a Paesesera.it: “Quello che non voglio più vedere sono i bambini nelle stazioni della metro che chiedono l’elemosina, il loro posto è nelle scuole: devono studiare. Quello che non si può più tollerare sono i furti di rame sulle tratte ferroviarie che rappresentano un danno per chi le gestisce e per chi le utilizza. Ma l’altra faccia di questo principio è che i diritti devono essere riconosciuti a tutti. Per la comunità rom, in particolare, dobbiamo seguire le indicazioni dell’Unione europea su casa, lavoro, istruzione e salute. Le comunità straniere a Roma rappresentano una ricchezza, non possono essere un problema” ³. Peccato che, ad oggi, i bambini rom continuino a chiedere l’elemosina in giro per la città e i furti di rame non si siano placati.
Infine, si ricorda una magra figura fatta dal nostro primo cittadino. Il povero “Marziano”, nel suo afflato semantico, voleva festeggiare la giornata Rom a Roma. Un’idea molto veltroniana, che in altre epoche avrebbe trovato il plauso da parte della sinistra radical chic della città. E invece?
Marino, lasciato solo, ha combinato l’ennesimo pasticcio. L’associazione “Nazione Rom” di Firenze, componente istituzionale del Tavolo di inclusione nazionale delle persone Rom, Sinti e Caminanti, aveva chiesto la sala della Protomoteca per il congresso del Consiglio Nazionale Rom. Il Campidoglio prima dà la disponibilità della sala, poi, causa il malumore dei cittadini romani nei confronti delle angherie subite dai Rom in giro per Roma, la ritira. «Alla luce delle dichiarazioni e delle informazioni circolate in queste ore in merito a un presunto patrocinio di Roma Capitale all’iniziativa dell’associazione Nazione Rom, che si sarebbe dovuta tenere domani nella Sala della Protomoteca, il Campidoglio precisa che si tratta di notizie totalmente prive di fondamento. Roma Capitale, infatti, non ha concesso alcun patrocinio, ma soltanto l’utilizzo a pagamento della sala, come da regolamento comunale. Si informa inoltre che, essendo decorso inutilmente il termine di pagamento, è stata disposta la revoca della concessione dell’utilizzo della Sala della Protomoteca» ⁴. Una penosa quanto imbarazzante marcia indietro del sindaco amante della semantica. Rimane pur sempre il fatto che il problema dei Nomadi (pardon!) dei “Camminanti, Sinti e Rom” sta dando un’immagine deleteria della Capitale: accampamenti abusivi privi di ogni controllo e di ogni minima condizione di igiene, gruppi di Rom che accerchiano i turisti e i cittadini romani a ogni stazione metro per derubarli, minori costretti a chiedere l’elemosina suonando sempre la stessa triste melodia sudamericana con una sgangherata fisarmonica.
Non è un bello spettacolo.
Con buona pace del relativismo culturale dei bei salotti radical chic romani, i Romani meritano molto di più di una precisazione semantica.
Ma non finisce qui. A Roma nel settembre del 2014 scoppia una bomba a orologeria. Siamo a Corcolle, profonda periferia est della Capitale.
Come tutte le periferie di Roma, Corcolle è una terra dimenticata dal sindaco Marino, tutto intento a prendersi cura del centro città, a uso e consumo dei turisti. Questa volta a farne le spese sono due autiste dell’Atac che, nel giro di ventiquattro ore, sono vittime di una sommossa violenta a opera di qualche decina di immigrati, ospitati nella palazzina di via Fermignano, trasformata in centro di accoglienza per richiedenti asilo politico. Il gruppo di immigrati si scaglia a suon di lanci di pietre e bottiglie contro i due bus. Ventri rotti, minacce di morte e profondo stato di shock per le due conducenti ⁵. La reazione dei cittadini di Corcolle non si fa attendere. Sono di certo abituati a essere trascurati dall’amministrazione del sindaco Marino (compresa la precedente di Alemanno), ma questa volta trovano la forza di dire basta. Purtroppo l’esasperazione sfocia nella violenza: due immigrati in ospedale . Per taluni, quei cittadini sono dei violenti razzisti, per altri, sono solo romani esasperati da una situazione di profondo disagio e abbandono. Marino, oramai ebbro di slogan, dice la sua: «In questo momento a Roma abbiamo in totale oltre 7.400 tra rifugiati e richiedenti asilo. Di questi circa 500 persone sono nel Municipio di Corcolle. Non possiamo pretendere che il disagio sia concentrato in alcuni quartieri della nostra città. Ed è per questo che ho chiesto che venga ridisegnato il piano di accoglienza e di distribuzione. Ci sono quartieri che non ospitano nessuno e ritengo che la distribuzione debba avvenire in maniera equa e, quindi, anche in quelle zone che non ne hanno. Penso ad esempio ai Parioli» ⁷. E bissa subito con un’altra splendida idea: «Con il sottosegretario Manzione abbiamo immaginato che, oltre all’affido pediatrico, anche gli adulti possano essere affidati alle famiglie. Con lo stesso attuale investimento di 900 euro al mese crediamo di poter destinare questi soldi alle famiglie che ospitano gli immigrati» ⁸. Il risultato? Il giorno dopo le due dichiarazioni bomba, Marino non farà più riferimento alla proposta di aprire un centro ai Parioli e subirà una reprimenda da parte del Ministro agli interni Angelino Alfano sulla proposta di far ospitare un immigrato nel proprio tinello di casa: «Vorrei essere chiaro, senza polemiche, con il primo
cittadino di Roma: il ministero non tirerà fuori un euro per questo. Ogni ipotesi di lavoro che mi dovesse essere presentata in questo senso, da chiunque provenga, sarà da me certamente bocciata» . Quale migliore rappresentazione plastica dell’inadeguatezza del sindaco Marino dinnanzi ai problemi della Città? Marino una volta di più, ove mai ve ne fosse stato bisogno, dimostra di non essere l’uomo giusto al posto giusto.
Cultura: Roma chiude per fallimento
Se lo ricordano ancora i Romani il Centrosinistra del “Modello Roma”, caratterizzato da una ricca offerta culturale e dalla creazione di luoghi di incontro e condivisione. La casa del Jazz, la Casa del Cinema, il Maxi, il Macro, i concerti gratuiti a piazza del Popolo e in via dei Fori Imperiali, le Notti Bianche e l’Estate Romana. Su tutto poi, il simbolo di quella fortunata stagione romana: l’Auditorium Parco della Musica, con il Roma Jazz Festival, ma ancor meglio, con la Festa del Cinema e il Roma Fiction Fest. E oggi? Oggi Roma langue. Langue perché, in tempo di crisi e di stagnazione, di debito pubblico alle stelle e di rispetto del parametro del 3%, i soldi non ci sono più. Per fare grande la cultura, servono risorse pubbliche.
Un fatto che può dare il segnale di quanto Roma non possa più permettersi di avere eventi culturali degni di una Capitale europea è ciò che successe nell’estate del 2014. Gli operatori culturali, così ben innestati negli ambienti del Centrosinistra romano (da Rutelli a Veltroni), protestano contro il bando dell’Estate Romana. I soldi sono pochi, ragione per cui alcune manifestazioni culturali che hanno fatto la storia dell’Estate Romana non vengono finanziate. Volontà precisa, dice qualcuno, del taglio innovativo che l’assessore alla cultura Flavia Barca ha voluto dare. Più sperimentazione e meno intrattenimento. Così saltano “Le Notti di cinema” a piazza Vittorio e il “Festival jazz” di Villa Celimontana. Di fatto, i tagli imposti a Roma per rientrare dal debito monstre hanno dimezzato
i fondi. A ciò si è aggiunto il lavoro di fantasia dell’assessore, quasi dimissionario, Flavia Barca. Il paradosso si raggiunge quando, gli stessi esponenti della maggioranza che dovrebbe sostenere Marino, si fanno promotori di una mozione. Chiedono più soldi, chiedono di salvare alcune tra le manifestazioni non inserite nella graduatoria del bando. Così sco D’Ausilio (capogruppo Pd), Gianluca Peciola (capogruppo Sel), Massimo Caprari (Centro democratico), Luca Giansanti (Lista civica) e il coordinatore della maggioranza Fabrizio Panecaldo, nonché la presidente della commissione Cultura Michela Di Biase (compagna di Dario schini, Ministro della Cultura del Governo Renzi), scrivono: “L’Estate romana rappresenta da anni uno dei fiori all’occhiello della programmazione culturale della città. Una manifestazione che ha fatto scuola nel resto d’Europa e che da sempre contribuisce a incentivare l’integrazione sociale e la promozione culturale. Chiediamo che si garantiscano subito i fondi necessari e aggiuntivi per assicurare lo svolgimento delle attività in cartellone da parte di tutte le associazioni vincitrici del bando. Sono state escluse infatti manifestazioni storiche come ‘Notti di cinema’ a piazza Vittorio e alcune associazioni hanno lamentato di non avere i fondi necessari a garantire qualità e fruibilità delle attività in cartellone: chiediamo subito un impegno da parte della Giunta per ampliare l’offerta culturale e far scorrere le graduatorie”¹ .
Il risultato?
Arriva un’altra manciata di fondi pubblici e si salvano un paio di eventi, tra cui la manifestazione cinematografica di Piazza Vittorio. Così i politici di Centrosinistra hanno salvato la faccia e Marino fa l’ennesima brutta figura. Per non parlare dei rapporti ormai deteriorati tra il sindaco e il suo assessore alla cultura. E difatti, Flavia Barca qualche settimana dopo si dimette.
È il 26 maggio del 2014 e, nella sua lettera di dimissioni, la Barca, sorella di un alto dirigente del Pd (Fabrizio Barca, sì, quello del “catoblepismo”) annuncia: “È stata un’esperienza di grande valore e ringrazio il sindaco Marino per avermi concesso l’opportunità di mettermi a servizio della cultura di questa città. Al momento non sussistono più le condizioni necessarie per affrontare un così delicato e strategico ruolo istituzionale e garantire alle politiche culturali di Roma quell’impulso che il rilancio socio-economico della Capitale richiede”¹ ¹. Insomma, la Barca sembra dire tra le righe al “Marziano”: “Caro sindaco non mi va di fare la figura della cioccolataia per colpa tua”. E infatti, il o indietro di Marino sul bando dell’Estate Romana ricalca oramai una sua personale cifra stilistica. Prima dice che non ci sono i soldi, agendo di conseguenza, poi, dinnanzi ai malumori di qualche esponente del Pd, fa marcia indietro, addossando la colpa all’assessore di turno. Con la stessa modalità si era dimessa anche Daniela Morgante, assessore al bilancio.
Dopo le dimissioni di Flavia Barca, inizia la traversata nel deserto di Marino alla ricerca del nuovo assessore alla cultura di Roma.
Ora, voi mettevi nei panni di un professionista che si sente chiamare da Marino che per proporgli di fare l’assessore alla Cultura delle Giunta più odiata dai romani degli ultimi 20 anni. E per di più, assessore alla cultura della Capitale d’Italia che ha le casse comunali erose dai debiti. La ricerca, infatti, è lunga e tocca punte di estremo imbarazzo. Tanto che, dopo tre settimane dalle dimissioni della Barca, un gruppo di intellettuali (tra i quali, Piero Maccarinelli, Michele Placido, Gabriele Lavia, Sergio Rubini, Manuela Mandracchia, Annamaria Guarnieri) firma un appello da far recapitare al sindaco, con il quale chiedono che entro il 14 luglio venga nominato il nuovo assessore. A dire il vero, è il secondo appello di intellettuali che Marino riceve. Il primo arrivò durante la campagna elettorale ed era a sostegno della sua candidatura. Recitava quanto segue: “Votiamo Ignazio Marino sindaco, per ridare a Roma
dignità e vivibilità. Il 10 giugno la nostra città, la Capitale d’Italia, deve uscire dalla desolante condizione di disamministrazione, di degradazione, di buio culturale, di subalternità ai poteri forti, soprattutto immobiliari, in cui è piombata con la Giunta Alemanno e ritrovare la dignità, la vivibilità, i servizi perduti”¹ ².
“Desolazione culturale” dicevano gli illuminati intellettuali in quell’appello elettorale. La stessa che gli rimproverano gli intellettuali appena un anno dopo l’elezione, chiedendogli di nominare un sacrosanto e benedetto assessore alla Cultura. Chiunque esso sia, fosse anche Topolino, perché “la vita culturale romana sta collassando per una paralisi istituzionale, non certo creativa”¹ ³.
Ignazio Marino, pressato dall’accorato appello degli intellettuali di sinistra, cede. A 50 giorni dalle dimissioni di Flavia Barca, da più parti definita “inconsistente”, arriva Giovanna Marinelli. Un pezzo di repertorio del “Modello Roma” che tanto aveva fatto sognare i romani. Un po’ come riproporre al Festival di Sanremo Al Bano e Romina Power. Pura operazione amarcord. Guardando la foto di Giovanna Marinelli, non le si può voler male. Ha il tipico volto della professoressa di lettere che ognuno di noi ha tanto amato. Ha 67 anni, dal 2001 al 2008 è stata direttrice del Dipartimento cultura del Comune e, cosa che fa battere i cuori degli orfani del “Modello Roma”, braccio destro di Gianni Borgna. Indimenticato assessore alla Cultura della Giunta Rutelli e pure di quella Veltroni.
Marino pensa così di averla sfangata. Ma i giudizi sul suo operato rimangono astiosi, cinici, cattivi. In un eloquente articolo de Ilgiornaledell’arte.com¹ ⁴, ne possiamo leggere alcuni con i relativi autori: Massimiliano Tonelli, direttore di Artribune: “Il sindaco sarebbe giustificato a disinteressarsi della cultura se assorbito al 100% a risistemare la città dal punto di vista economico, del degrado, della legalità, dell’appeal turistico ormai perduto, della morsa della malavita in ogni comparto produttivo, dell’inefficienza totale a ogni livello, del
funzionamento inaccettabile dei servizi a rete (dai trasporti alla luce, dall’acqua ai rifiuti). E invece non è così: la cultura è abbandonata, ma in cambio l’amministrazione non appare concentrata su nulla di più importante benché qualcosa di più importante da fare effettivamente ci sarebbe pure. E allora?”. Rincara la dose l’artista che si lancia in una dura metafora: “Marino è un albero secco da tagliare perché penetri più luce”. E chiudiamo con il giornalista Edoardo Sassi: “Caro sindaco Marino, ora che un assessore c’è (sia pure con clamoroso ritardo) perché non smetterla di stringere accordi «culturali» in cambio di soldi (a volte neanche molti, vedi il milione di euro dell’Azerbaigijan) o scambi avvilenti, con Paesi che non rispettano i diritti umani? Immorale, vergognoso vederla saettare di gioia dopo l’apertura della borsa da parte dell’Arabia Saudita, Paese dove, per dirne solo una, l’omosessualità è punita con la pena di morte? Ah già, pecunia non olet, dicevano i Romani”.
Insomma, Marino non piace. Non piace perché, a detta di molti, non ha una visione della città. Non piace neanche quando, con il cappello in mano, stringe accordi con paesi e magnati stranieri per far restaurare qualche monumento. Vittima delle casse vuote e della Troika messa a punto dal Governo Renzi, che lo fa controllare dall’inflessibile sottosegretario all’economia Giovanni Legnini. Tanto che Marino propose a Legnini, a suo tempo, l’assessorato al bilancio. E questi rifiutò. Chissà, Legnini avrà pensato che sarebbe stato più comodo gestire il bilancio di Roma direttamente da via XX Settembre.
Sarebbe però opportuno ricordare ai denigratori del “Marziano” che, senza soldi, è difficile “avere una visione”. O meglio, è difficile per chi Roma non la conosce minimamente. Insomma, la colpa di Marino può essere stata quella di aver accettato la proposta di candidarsi a sindaco di una città di cui ignorava i problemi. Ma ditemi voi: chi sarebbe stato in grado di resistere alle lusinghe di Goffredo Bettini?
E come se non bastasse, c’è la faccenda del “Teatro Valle Occupato” che grava sul Campidoglio. Patata bollente lasciata dall’amministrazione Alemanno. Con
l’aggiunta dei compagni “di lotta” del “Marziano”, il vicesindaco Luigi Nieri e il capogruppo di Sel Gianluca Peciola che, a ogni piè sospinto, incoraggiano gli occupanti a non darsi per vinti. Marino, una volta trovata una persona disponibile a fare da assessore alla Cultura, trova il coraggio di annunciare lo sgombero al Teatro Valle Occupato. Gli dà man forte proprio la Marinelli che annuncia: “Il teatro va sgomberato perché ci sono da fare i lavori di restauro”. Insomma, cari occupanti, non vi chiedono di andare via perché da tre anni gestite nell’illegalità più completa uno spazio pubblico, ma perché ci devono entrare i restauratori. Per addolcire la pillola, in questa vergogna tutta italiota, la Marinelli assicura agli occupanti che gli sarà garantito un luogo alternativo. Gli occupanti, posti dinnanzi all’ultimatum del Campidoglio, finiranno per lasciare la struttura l’11 agosto 2014. Non prima di aver inscenato l’ennesima infantile protesta, con il diniego ad abbandonare il foyer del teatro¹ ⁵.
Hanno comunque vinto gli occupanti. Si prendono il teatro più antico della Capitale, lo gestiscono a spese del comune per tre anni, ci fanno un guadagno sopra e per lasciarlo contrattano una nuova sistemazione. Alla faccia dello stato di diritto e della parità di accesso alla gestione di luoghi culturali. Come riassume bene il giornalista de La Stampa Sandro Cappelletto: “Vivere nell’illegalità significa non versare agli artisti i contributi Enpals, non riconoscere agli autori i diritti Siae, non pagare le utenze (le paga il Comune) e occupare un luogo pubblico, creando concorrenza sleale con gli altri luoghi di spettacolo. Non emettere biglietti, ma affidarsi alle offerte volontarie del pubblico”¹ .
Un manicomio.
Se non fosse che, a rendere ancor più surreale la situazione, è lo stesso Marino, che svende il Circo Massimo ai Rolling Stones.
È il 21 giugno, quando Marino, per un piatto di lenticchie (meno di 8.000 euro), regala il Circo Massimo alla storica rock band inglese. Leggendo vari articoli sulle cronache romane di quel periodo, si parla di una spesa totale di circa 176.000 euro. Tutta a carico degli organizzatori. Di questa, appena 8.000 euro per l’occupazione di suolo pubblico. E uno penserebbe che il concerto si sia tenuto in un megaparcheggio fuori mano, oppure in una discarica di Cerroni. E vorrei vedere se “Il Supremo” avesse concesso ai Rolling Stones una delle sue maleodoranti aree per soli 8.000 euro! E invece no. Il concerto si tiene al Circo Massimo. Uno dei “ruderi” dell’Antica Roma che il mondo ci invida. Roba da far cascare le braccia. Dal Corriere della Sera, ad esempio, si apprende che a Londra: “Lo scrupoloso regolamento di The Royal Parks, l’Agenzia del Dipartimento britannico della Cultura, dei media e dello Sport che gestisce i nove grandi parchi londinesi, prevede un preciso tariffario per l’organizzazione di eventi negli spazi pubblici. Secondo i dati disponibili, aggiornati al febbraio 2012, per un concerto a scopi commerciali in un parco londinese gli organizzatori devono pagare un fee, una tariffa, di 3,50 sterline a biglietto”¹ ⁷. Provate a moltiplicare questa tariffa per i 70.000 spettatori del Circo Massimo. Fanno circa 245.000 sterline, che al cambio fanno su per giù 300.000 euro.
Capito Marino?
Marino si giustifica dicendo che non avrebbe potuto fare diversamente, visto che lui aveva ereditato le ridicole tariffe per l’occupazione di suolo pubblico dalla ata amministrazione, ma che in sede di nuovo bilancio avrebbe provveduto a moltiplicare per dieci la tassa di occupazione di suolo pubblico per gli eventi futuri. Ancora una volta, come nel caso della rimozione dei vertici di Roma Metropolitane, Marino chiude la stalla quando i buoi sono oramai scappati.
La risposta effettivamente fa cascare le braccia. Possibile che il sindaco e l’intera
sua amministrazione non avessero trovato il modo, magari per mezzo di un accordo di co-marketing, di farsi pagare una cifra un po’ più alta di 8.000 euro? Chissà, avrebbero potuto chiedere un contributo per le manifestazioni dell’Estate Romana, visto che di lì a poco si sarebbe scatenato l’inferno sul maldestro bando dell’assessore Flavia Barca. L’impressone, allora, fu che Marino, mal consigliato da qualche consulente di immagine del suo staff, si fosse fiondato con la bava alla bocca sull’evento dei Rolling Stones. Volendosi vantare con la cittadinanza: avete visto chi vi ho portato? I Rolling Stones! Quasi i romani fossero una lontana tribù di indigeni a cui vendere collanine e conchiglie in cambio dell’oro. A chiudere la faccenda, arrivano le indagini della Corte dei Conti sul pasticciaccio brutto del concerto dei Rolling Stones. La Corte dei Conti vuole stabilire se gli 8.000 euro chiesti alla band inglese abbiano provocato un danno erariale ai danni del Comune di Roma. La reazione del sindaco non si fa attendere: «Sbagliato affittare il terreno ai prezzi dell’amministrazione precedente, fa bene la Corte a indagare»¹ ⁸. Come se, ad affittare il Circo Massimo per appena 8.000 euro, non sia stata la sua amministrazione. Come se Marino fosse scisso in due personalità distinte. Un Marino “sindaco inadeguato” che combina guai e l’altro, il Marino “saggio”, che gioisce per le indagini sui pasticci che lui stesso combina.
Ma è oramai chiaro che la cultura a Roma non è più ritenuto un asset strategico. E, a dire il vero, diventa difficile immaginare, oramai, quale ambito sia considerato strategico, visto che mancano i soldi anche per il trasporto pubblico, per la riqualificazione urbana, le scuole, la sicurezza e i servizi ai cittadini.
Mentre lo storico Teatro Eliseo non ha più i soldi per andare avanti e viene sfrattato, il panorama culturale di Roma subisce una ferita mortale. È la “Morte del cigno” di quel poco di “Modello Roma” che era rimasto.
Il Teatro dell’Opera di Roma licenzia l’orchestra e il coro.
Al Teatro dell’Opera, da qualche mese, stava andando in scena una disputa rusticana tra i sindacati e il sovrintendente Carlo Fuortes. Tanto da spingere quest’ultimo ad affermare: «A questo punto, non c’è altra strada che la chiusura del teatro»¹ . Alla fine, il 3 ottobre del 2014, Ignazio Marino e il sovrintendete Carlo Fuortes annunciano il licenziamento di 182 persone, tra orchestrali e coristi. Si esternalizza tutto. Fuortes invita i licenziati a costituirsi in cooperativa e a partecipare al bando per l’anno seguente. È altamente simbolico che a sancire la fine di un sistema virtuoso della cultura a Roma sia proprio Carlo Fuortes, già amministratore delegato della Fondazione Musica per Roma che ha gestito e portato al successo l’Auditorium Parco della Musica. Insomma, fiore all’occhiello del “Modello Roma”. La stessa persona, indubbiamente capace, è costretta, con l’amministrazione Marino, a licenziare gli orchestrali. Vi consiglio di guardare il video della conferenza stampa, durante la quale Ignazio Marino annuncia il licenziamento dei 182 artisti¹¹ . Al suo fianco c’è Fuortes. Il suo viso è visibilmente contratto, mentre Marino, nell’annunciare il mega licenziamento, sembra non rendersi conto dell’enorme ferita inferta alla vita culturale della Città.
La situazione esplode all’indomani delle dimissioni del Maestro Riccardo Muti, stella internazionale del firmamento della musica classica e dell’Opera. «Non ci sono le condizioni per garantire la serenità necessaria al buon esito delle rappresentazioni»¹¹¹. È un Muti lapidario quello che si smarca dal fallimento del Teatro dell’Opera di Roma. C’è chi dice che le sue dimissioni siano state dettate dal comportamento dei
sindacati degli orchestrali, che si sono spinti sino a fare irruzione nel suo camerino. C’è chi dice che Muti, abituato a ben altre realtà artistiche, abbia abdicato perché “non si fanno le nozze coi fichi secchi” e quindi, a conoscenza dell’imminente licenziamento degli orchestrali e del coro, decide di abbandonare la nave. Ad oggi, nessuno sa quale sia la verità. Ma una verità incontrovertibile c’è: a Roma non ci sono più i soldi per la cultura. Il Teatro dell’Opera, emblema di questo stato di cose, sopravvivrà, ma con un’orchestra e un coro esternalizzato, scelto in base a bandi pubblici che terranno sì conto della qualità artistica, ma pure dell’offerta economica più vantaggiosa, ovvero più bassa. Con il rischio che la qualità artistica possa risentire delle offerte al ribasso d’asta.
Tanto più che al Governo Renzi pare interessargli poco la faccenda dell’Opera di Roma. Il governo Renzi batte un colpo solo all’indomani della sofferta decisione del duo Marino-Fuortes. È lo stesso Ministro della Cultura Dario schini che, in sostegno all’amara e lancinante decisione di mandare a casa gli orchestrali, afferma: «Auspico che in futuro si vada verso situazioni in cui orchestre e coro siano interni ai teatri ma con contratti a termine. Una procedura che potrebbe essere applicata ai nuovi assunti. È un modo per aprire ai giovani e per mettere fine alle rendite di posizione»¹¹². Insomma, laddove, si apre ai giovani solo quando c’è necessità di risparmiare. E si risparmia riconoscendo meno diritti ai lavoratori. E mentre c’è il premier Matteo Renzi che va in giro per il mondo a pontificare, nel suo inglese da macchietta, sul Rinascimento, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Meucci e il “Made in Italy”, a Roma la cultura muore. Come se l’Opera lirica non fosse una delle massime espressioni proprio di quel “Made in Italy” di cui Matteo Renzi si riempie la bocca nei convegni internazionali e durante le sue visite di Stato.
Sullo sfondo rimane Ignazio Marino, impotente testimone e sindaco inadeguato di una Città che sta perdendo la propria identità, perché non ci sono più i soldi per la cultura. Perché il licenziamento degli orchestrali sindacalizzati ben a la politica innovatrice del governo Renzi, tutto intento a controbattere i sindacati sull’articolo 18, per inaugurare la nuova stagione dei licenziamenti facili. L’Opera di Roma, diventa così il case study più fulgido del paradigma renziano in materia di mercato del lavoro.
E Marino ne pare ben lieto.
La Roma di Marino e Totti: il nuovo stadio della “Maggica”
Il primo miracolo del nuovo stadio degli Americani: la conversione di Antonello Venditti. Era il luglio del 2013 quando Venditti tuonò: “Via i miei inni, questa non è più la mia Roma!”. Ed ancora: “Gli americani hanno costruito una società senz’anima!”¹¹³. Ma ad un anno e poco più, con il progetto del nuovo stadio della Roma a Tor di Valle, si assiste alla conversione del cantautore, “Pallotta si sta guadagnando la cittadinanza onoraria della Capitale”, ed ancora, “Il nuovo stadio? Vorrei essere il primo a suonarci!”¹¹⁴. Insomma, la summa dell’italianità in salsa romanista.
Che cosa è successo?
Che James Pallotta, proprietario della AS Roma, sta finalmente realizzando il sogno di tutti i romanisti: l’edificazione del nuovo stadio. D’altronde, era un’idea che il magnate americano aveva sin dall’inizio quando, a fine 2011, acquistò la malconcia compagine giallorossa. Era il 9 ottobre del 2012, quando James l’Americano rilasciava queste dichiarazioni al Sole 24 Ore: «Io avrei usato il Colosseo per il nuovo stadio di Roma ma mi hanno detto che era occupato. Scherzi a parte, siamo quasi pronti: abbiamo già avuto numerosi incontri con il Sindaco di Roma e con gli uffici tecnici del Comune: abbiamo esaminato 100 siti, ne abbiamo selezionati 12 e infine con l’advisor Cushman & Wakefield siamo arrivati a una short list di 2 aree. Ora siamo alla scelta finale: lo stadio, che avrà 60.000 posti, negozi e ristoranti, è stato progettato da un architetto di fama mondiale come Dan Meis e dovrà essere pronto per i campionati europei del 2016»¹¹⁵. Le due aree erano: Tor di Valle, del costruttore Luca Parnasi, e un’area di
proprietà dell’Eni al quartiere Testaccio, cuore giallorosso della capitale. Alla fine Pallotta opta per Tor di Valle, scatenando le ire del costruttore Caltagirone, proprietario, tra le altre cose, del quotidiano più diffuso nella Capitale: il Messaggero. Basterebbe solo questo a scatenare una guerra mediatica sul nuovo stadio della Roma. E infatti così è.
E la politica romana che fa?
Non rimane certo a guardare. D’altronde si preannuncia per la città una cascata di milioni di dollari. Anzi, di miliardi. Le danze si aprono ufficialmente il 26 marzo del 2014, quando James Pallotta, in compagnia del Ceo della AS Roma Italo Zanzi e dell’archistar Dan Meis, autore del progetto, presenta il nuovo gioiello della “Maggica”. Il tutto avviene nella sala della Promoteica, alla presenza del sindaco Marino, dell’assessore Caudo, di una manciata di giocatori della Roma, tra cui il capitano sco Totti, e di un gruppo di consiglieri comunali, per lo più del Pd. È lo stesso Dan Meis a rimestare nella retorica da Impero romano, annunciando trionfante: “Col nuovo stadio della Roma vogliamo riproporre la gloria e la potenza del Colosseo”¹¹ . Con Marino che afferma: “Oggi è una giornata molto importante per la Roma e per la città di Roma, perché oggi diamo avvio a un’opera molto attesa. Un progetto che dimostra come a Roma si stia voltando pagina e che un’opera del genere si può realizzare in tempi brevi. Voglio lanciare una sfida a Pallotta: dal 2016-2017 vogliamo che sco e gli altri possano giocare in questo stadio”.
Ma a pensarci bene, non c’è traccia nel programma elettorale del sindaco Marino del nuovo stadio della Roma.
Al pari del mega concerto dei Rolling Stones, Ignazio Marino pensa bene di dare il via a una nuova “operazione simpatia”. In debito di consenso, sia da parte dei cittadini romani che da parte del Pd, in grave difficoltà politica, tenuto conto della fallimentare amministrazione del suo primo anno da sindaco, Marino decide di pompare la faccenda dello stadio. Trovando, tra le alte cose, anche ampie sponde da parte dei suoi sodali di partito. Quel Pd che, dinnanzi alle grandi opere cittadine, si fa sempre in quattro per trovare la quadra del cerchio. E ai piddini pare di essere ancora nell’epopea del “Modello Roma”, durante la quale si spandeva e si spendeva all’insegna del motto Panem et circensens. Dopo il primo anno di amministrazione, fatto di tagli al bilancio, dimissioni di assessori, proteste per il salario accessorio, incuria della città, pedonalizzazione selvaggia del centro, mezzi pubblici che rendono un inferno la vita dei romani, aumento della criminalità comune ed organizzata, accampamenti Rom e borseggi nelle principali stazioni metro e ferroviaria, Marino e il Pd hanno deciso: i romani vogliono il nuovo stadio. Succede un fatto strano, il mondo politico romano, i consiglieri comunali di Centrosinistra, i dirigenti di partito, anche quelli minori, creano una bolla mediatica. A Roma, da fine luglio fino a tutto agosto, il Pd parla solo del nuovo stadio della Roma. Finalmente un argomento di grande impatto, specie per i cittadini romani e romanisti. Una bolla mediatica che permette ai politici capitolini di smarcarsi dalle tematiche più scottanti e contingenti della Città. Tutti, ma proprio tutti i politici romani, specie del Pd, aprono la stagione di caccia a chi la spara più grossa. A chi ha più a cuore le sorti della AS Roma e dei romanisti. Con l’appoggio delle radio cittadine che adesso, a un anno dal miracolo di Garcia, incensano Pallotta e la sua cordata di investitori, pronti a riversare su Tor di Valle metri e metri cubi di cemento al motto di “Vinceremo lo scudetto!”. Una volta di più, si crea quella commistione di senso civico e fede calcistica. La Roma, la “Maggica” è da sempre stato un argomento di sicura presa sui cittadini
della Capitale. Qui l’ultimo scudetto fu festeggiato per tre mesi e sco Totti potrebbe benissimo essere candidato a sindaco della Città, certo di un sicuro successo elettorale. I cittadini sono abbindolati dal sogno di vedere la “Maggica” al pari delle maggiori e più blasonate società sportive europee, mentre la politica romana con il pallottoliere calcola i milioni di dollari che di lì a poco verranno catapultati in Città. Dicevamo della presentazione nella Sala della Promoteica in Campidoglio. Sin da subito si apre la disputa, tutta incentrata sul concetto di “interesse pubblico”. Quasi a voler salvare la faccia di fronte a un’operazione di mera speculazione edilizia. È Marino a rompere subito gli indugi e a volare, in compagnia dell’assessore Caudo, a New York alla corte di Pallotta, al cui fianco siede il costruttore Luca Parnasi. Una rara rappresentazione di sottomissione della politica al potere economico e finanziario del patron della Roma e del costruttore romano.
Che ci va a fare Marino a New York?
Marino va letteralmente con il cappello in mano a elemosinare il nuovo stadio della Roma. Ci va per “scucire” a Pallotta altri milioni di euro, oltre ai 270 milioni già previsti. L’interesse pubblico ha un costo: altri 50 milioni nel piatto. Per farci cosa? Il collegamento metro tra la stazione Magliana e Tor di Valle e il rafforzamento della linea ferroviaria Roma – Lido. Opere in virtù delle quali il 50% dei tifosi romanisti diretti al nuovo stadio si muoveranno con i mezzi pubblici. Il 21 agosto 2014 il patto viene siglato con una stretta di mano. Il 29 agosto, a una settimana dall’incontro di New York, Pallotta, in accordo con il solito Parnasi, deposita il progetto integrativo del nuovo stadio, con l’aumento dello stanziamento da 270 a 320 milioni. Pallotta e il costruttore diramano una nota stampa: “L’aumento di circa 50 milioni di euro consentiranno di spostare
oltre il 50 per cento dei visitatori verso il trasporto pubblico. L’aggiornamento presentato è conferma dell’impegno a continuare a lavorare in stretta collaborazione con le autorità locali per rendere lo stadio della Roma un progetto completamente integrato, di importante interesse pubblico per la città di Roma”¹¹⁷. Il nuovo stadio della Roma è realtà! Marino, il Pd e i romanisti possono esultare.
Ma c’è subito un problema. Quale?
Il progetto finanziario di James Pallotta prevede che la proprietà dello stadio sia intestata a una società diversa dalla AS Roma. “Il nuovo stadio dunque non sarà proprietà direttamente del club, ma della società statunitense AS Roma spv Llc che, attraverso la holding Neep Roma, possiede la squadra”¹¹⁸. Le motivazioni? Se la AS Roma dovesse far gravare sul proprio bilancio il costo dell’operazione, nel giro di due anni farebbe la serie B, non potendo operare sul calciomercato. Una motivazione solida, specie se ci si rivolge a una città in cui il tifo calcistico si fonde con il senso civico. Infatti, i timori sono quelli che, una volta finito lo stadio, James Pallotta potrebbe decidere di vendere la AS Roma, mantenendo la proprietà dello stadio e quindi avendo interesse a fare una mera speculazione edilizia. È lui stesso, però, a far sapere: “Non ha alcun senso per il gruppo di proprietà vendere lo stadio dopo due anni, sarebbe assurdo. Io voglio rimanere per almeno 20 o 30 anni, a meno che qualcuno non mi butti nel fiume. Questo tipo di accordo per lo stadio è la cosa migliore per la Roma, che attualmente paga 8 milioni di euro all’anno per l’affitto dell’Olimpico. Quando sarà costruito lo stadio i costi scenderanno a 2 milioni, quindi a beneficio del club. Non c’è nessuna speculazione in atto. Stiamo facendo tutto questo per la città, non solo per la squadra”¹¹ . Ma al Comune, desiderosi sì di concludere l’affare, ma non volendo perdere la
faccia, non si fidano. E così il Comune propone agli americani la soluzione: t venture tra AS Roma e la holding di Pallotta proprietaria dello stadio, in più il diritto di prelazione della società sullo stadio per 30 anni e incassi dell’arena per gli eventi condivisi con il club. In cambio, il management della Roma dice no all’intestazione dello stadio alla squadra, e dice anche no alla decadenza dei benefici con una penale di 160 milioni in caso di vendita separata della società e dell’impianto. L’accordo si trova nella notte tra il 3 e il 4 settembre. Una riunione a cui prende parte tutta l’intellighenzia capitolina del Centrosinistra. Tutti romanisti doc e tutti impegnati per l’Interesse pubblico. La quadratura del cerchio si trova ed è il lupacchiotto e dirigente Pd Enzo Foschi a darne l’anticipazione, sopravanzando di qualche minuto il consigliere, sempre Pd, Fabrizio Panecaldo: “Si costituirà una sorta di t venture commerciale tra il club calcistico e la società che costruirà lo stadio in modo da rendere indissolubile il legame tra le due”¹² . Segue poi la dichiarazione del capogruppo Pd in Campidoglio sco D’Ausilio: “Gli americani hanno accettato tre importanti clausole, non previste nelle intese originarie: una clausola rescissoria qualora da qui a 30 anni la proprietà dello stadio si distanziasse dalla AS Roma Calcio; un impegno prima della firma della convenzione urbanistica, in sostanza prima dell’avvio dei cantieri, a costituire una t venture tra la Roma Calcio e la società che costruirà lo stadio, per far compartecipare l’AS Roma ai ricavi di tutto l’impianto, non solo delle partite di calcio; un diritto di prelazione sull’acquisto dello stadio per la Roma Calcio, dal primo giorno e fino al 30esimo anno”¹²¹.
Vittoria!
Gli americani hanno ceduto al pressing del Pd romano. D’altronde i piddini hanno chiesto a Pallotta di salvargli la faccia. Lo stadio si farà, i soldi arriveranno e la Roma potrà vincere lo scudetto, non avendo il bilancio gravato dei costi per la costruzione del “suo” stadio, che proprio suo non è. Una soluzione all’italiana, in salsa americana.
L’interesse pubblico a Roma coincide con la competitività sportiva della AS Roma. Ma, in verità, sembra sempre più che questo interesse pubblico debba coincide con l’opportunità di Pernasi di moltiplicare i suoi guadagni. Infatti, i terreni intorno allo stadio, una volta costruito il “nuovo Colosseo”, moltiplicheranno il proprio valore di almeno otto volte, arrivando a costare al pari di un metro quadrato a uso ufficio all’Eur. Come si evince da un articolo de Il Fatto Quotidiano a firma del giornalista Marco Pasciuti, Pernasi, nella migliore delle ipotesi potrebbe arrivare a guadagnare fino a 800 milioni di euro. Nella peggiore, fino a 450 milioni di euro¹²².
Per quanto riguarda il panorama calcistico europeo, a nulla vale riportare l’esempio dell’Arsenal. Questi mentecatti di inglesi si sono fatti lo stadio di proprietà, facendo gravare sul bilancio della loro società sportiva ben 500 milioni di sterline, con un mutuo ventennale. Poveracci. Per anni non hanno vinto nulla, salvo poi però rifare una squadra con i controfiocchi e giocarsi la Premiership, così come la Champions. Dilettanti e sprovveduti, direbbero i piddini romanisti. Sì, ma vincenti e proprietari per intero dello stadio dove giocano. Ci si attende, almeno, che la Roma nei prossimi due o tre anni vinca lo scudetto e la Champions in uno stadio che è di sua proprietà, ma solo per finta.
Ultima postilla. Il progetto prevede che i lavori si concludano nel 2017. Si può essere scettici? Sì. I precedenti non lasciamo molte speranze: la Nuovola di Fuksas, la Città dello sport di Tor Vergata, le piscine e i palazzetti dei Mondiali di nuoto del 2009, i lavori per la Metro B e C e tante altre grandi opere “succhia soldi” sono rimaste incompiute. Sempre lo stesso copione. La politica romana si accomoda al tavolo per dire la sua davanti al progetto, per poi sparire quando i lavori si arenano. Quando va in scena lo spreco dell’opera incompiuta.
Nel caso del nuovo stadio poi, si assiste a un fenomeno tutto romano: la commistione tra il principio di “interesse pubblico” e il tifo sportivo. Difatti, la questione che ha tenuto banco non è stata tanto la natura di interesse pubblico dell’opera, quanto il rischio che, mettendo sul bilancio della società sportiva AS Roma le risorse necessarie per il nuovo stadio (circa 500 milioni di euro), la “Maggica” vedrebbe limitata la sua azione sul calciomercato per almeno 10 anni. Come se l’acquisto di un fuoriclasse sia nell’interesse pubblico della collettività della Città. Cosa ha a che fare il nuovo stadio della Roma con i problemi quotidiani dei romani? Nulla. Ma come ben si sa, la forma dello stadio ricorda tanto quella di una bella torta. E poi Roma rimane pur sempre la città di sco Totti e della “Maggica”. A questo punto, appare certa la futura candidatura del Pupone Totti a sindaco di Roma. Più che una boutade, una eventualità concreta.
D’altronde a Roma prima che cittadini, si è romanisti. E poi, a Roma, se ce l’ha fatta Marino, perché non dovrebbe farcela il Capitano?
Marino e la fuffa delle coppie gay
Chi l’avrebbe mai detto! Angelino Alfano, ministro degli interni del governo Renzi, serve un assist a chi si trova in crisi di consenso, con la fuffa delle coppie gay: Ignazio Marino¹²³. Il tutto avviene all’indomani della polemica Stato-Regioni in virtù della manovra “elettorale” del governo Renzi che, annunciando un taglio delle imposte di 18 miliardi, comprensivo di un taglio di risorse di 4 miliardi verso le Regioni, costringerà queste ultime ad aumentare la pressione fiscale locale.
Inizia Alfano che, vedendo ridotto il consenso verso il suo partitino, spara “No ai matrimoni gay!”. Ribatte il sindaco Ignazio Marino che, pure lui in crisi di consensi (specie dopo il sondaggio commissionato dal capogruppo Pd capitolino D’Ausilio), manda in scena nella sala della Protomoteca (la stessa della presentazione del nuovo stadio della “Maggica”) il riconoscimento farlocco di 16 coppie gay sposate all’estero. Sullo sfondo, il prefetto di Roma, tale Giuseppe Pecoraro, a cui non rimane che ribadire una cosa ovvia: in mancanza di una legge dello Stato in materia, Marino dovrà rimangiarsi le 16 firme apposte sugli atti di registrazione delle coppie gay.
Tutti felici e contenti.
Sindaco, vicesindaco e assessori. All’happening arcobaleno c’era Ignazio Marino che ha prima tentato la fuffa della bicicletta, poi quella della pedonalizzazione del centro storico, poi quella del concertone al Circo Massimo dei Rolling Stones, continuando con la trattativa per il nuovo stadio della Roma, per finire con la sceneggiata dei tavolini selvaggi e dell’occupazione del Ministero dei trasporti, dopo che l’inaugurazione del tratto di Metro C ha fatto flop.
C’era anche il vicesindaco, Luigi Nieri, che è stato intercettato mentre rassicurava uno dei leader degli occupanti dell’Angelo Mai sul proseguo di una sacrosanta indagine da parte della magistratura. Lo stesso che poi ha sponsorizzato il buffo progetto di fare della sopraelevata della Tangenziale Est un giardino con tanto di pista ciclabile. Ennesimo annuncio, poi abortito, di un’amministrazione “peciona” ed inadeguata. A commuoversi, anche l’assessore ai servizi sociali, Alessandra Cattoi, che è rimasta ectoplasma dinnanzi ai campi rom abusivi e ai fattacci di Corcolle. Ed in ultimo, a tenere la mano alle 16 coppie, c’era l’assessore Marta Leonori, impotente e silente dinnanzi alle difficoltà del commercio capitolino. Tutti commossi dinnanzi alle 16 coppie gay ed allo stesso tempo, inadeguati nel ricoprire il ruolo per il quale sono stati chiamati ad agire.
La verità è che Marino, assieme alla sua Giunta, dopo un anno e poco più si è ritrovato in debito di consenso tra le proteste dei romani. Dissenso destinato a salire perché, al ritorno dalle vacanze (chi le ha potute fare), i cittadini della Capitale si sono ritrovati vittime di una pressione fiscale locale da record dei primati. Pressione fiscale destinata a salire, proprio in virtù della manovra finanziaria “elettorale” di Matteo Renzi.
Risultato? Ignazio Marino finisce sulle prime pagine dei maggiori quotidiani nazionali. E ci finisce per qualcosa che non gli compete: rendere effettive le nozze celebrate all’estero di 16 coppie gay. Per il resto, i problemi di Roma rimangono tali e quali. Anzi, sono destinati a peggiorare.
Ai romani non resta che consolarsi. Roma e il suo sindaco sono “gay friendly”. Con buona pace di chi voleva un sindaco semplicemente capace di governare Roma e di migliorare le condizioni di vita dei propri cittadini. Perché la verità è una: firmare 16 atti di matrimoni gay celebrati all’estero non costa niente, specie in mancanza di una normativa nazionale in materia. Governare Roma costa sangue e sudore. Bisogna esserne capaci.
Una specie di conclusione
Non sta fallendo solo Ignazio Marino, ma tutto il Centrosinistra romano. La sequela di nomi che periodicamente si susseguono quali possibili candidature alla carica di primo cittadino della capitale è un triste segnale di come il “Progetto Roma” del Centrosinistra, a poco più di un anno di amministrazione Marino, stia fallendo miseramente. Il fallimento di Marino è però anche il fallimento del Governo Renzi. La messa in scena di un Governo nazionale che prende le distanze dal “Marziano”, che ne ignora le richieste, che non si pone alcun problema nel prenderlo a ceffoni, che taglia i fondi per la gestione della Città, non fa altro che rendere visibile l’impotenza di uno Stato nel are il governo della propria Capitale. Roma è abbandonata a se stessa in balia di una classe politica incapace di governarla. Marino e il suo governo sono di fatto sottoposti a un rigido controllo da parte della Troika di Palazzo Chigi. Lì, dove la Cabina di Regia se ne sta nelle stanze dei bottoni. Quella cabina di regia che ha predisposto il piano di rientro triennale del debito, che ha deciso il drastico taglio delle risorse per i servizi sociali, la manutenzione delle strade, delle scuole, del trasporto, dei servizi pubblici e della lotta alla piccola e grande criminalità. E che, al contempo, ha inasprito la pressione fiscale cittadina. Tutto ad uso e consumo del Leader Matteo Renzi che accresce il suo consenso, in virtù di una sbandierata manovra finanziaria che taglia 18 miliardi di tasse. Taglio fiscale che però viene regolarmente scaricato sulle regioni e i comuni. Marino non è altro che un soldato semplice a cui hanno demandato il compito di metterci la faccia. Lui che non aveva più futuro politico, ha accettato la parte in scena. Sicché, più che farsi crescere la barbetta da scano, non può fare. I tempi sono duri e a Marino, non resta che indossare il saio ed elemosinare, al
pari di un frate mendicante, gli spiccioli al Governo Renzi, o a qualche magnate straniero.
Roma è in vendita.
Così, a distanza di un anno e poco più, ci si è accorti che non è sufficiente una “brava persona” per governare Roma. Servono risorse finanziarie al servizio di un progetto strategico della Città. E invece, abbiamo un curatore fallimentare, pronto a prendersi tutte le colpe di una fallimentare amministrazione che governa una Città diventata invivibile, caotica, violenta, pericolosa e pericolante. Intorno al sindaco, una corte di politicanti di vecchio e nuovo conio, accolita di renziani della prima e dell’ennesima ora (ex-bersaniani ed ex democristiani renzianizzati), vendoliani e para-sinistrorsi, pronti a usufruire di una promozione sul campo da parte del Capo. Matteo Renzi. La storia racconta però che, a fronte di una fallimentare amministrazione cittadina, gli elettori preferiscono affidarsi all’ignoto, anziché rivotare uno schieramento che ha prodotto il fallimento. Il Pd non esiste più. O almeno il Pd del 25% è stato surclassato dal PdR (Partito di Renzi) del 41%. Un consenso che sarà però difficile tramutare in realtà alle prossime (forse imminenti) elezioni amministrative romane.
Come dissero quelli del fu Pdl: “Dopo Alemanno, non vinciamo manco se dovessimo candidare Gesù Cristo”. E il Centrosinistra dopo Marino?
Idem.
Note
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Indice
Santo Condono prega per noi
I Marino sindaco per caso
L’identikit del Marziano: breve storia di un cattolico 2.0
Chi ha appoggiato Marino?
Primarie FLOP! Marino vince facile
I romani disertano le urne: Marino sindaco
La Giunta Marino: non è Roma, è politica
II Marino, sindaco o curatore fallimentare?
Da Aledanno al Marziano
Quanto durerà Marino?
Sindaco o curatore fallimentare?
I tre ceffoni di Renzi al Marziano
III Roma fa schifo
I Fori pedonalizzati: Roma ai Romani? No, ai turisti!
Il mito della bicicletta. Questa non è Londra, è Roma!
La Metro C: the italian job
L’ATAC è al capolinea
Il Supremo e i due Marino: Roma, pattumiera a cielo aperto
Rom e Immigrati? Per Marino il problema non esiste
Cultura: Roma chiude per fallimento
La Roma di Marino e Totti: il nuovo stadio della “Maggica”
Marino e la fuffa delle coppie gay
Una specie di conclusione
Note
Perchè Marino è diventato sindaco di Roma? Dopo l'ecatombe dell'amministrazione Alemanno, la Capitale va incontro ad un altro disastro? Quale ruolo ha avuto e ha il Centrosinistra romano nel tracollo della Città? Marino è un sindaco o un "curatore fallimentare"? Che responsabilità ha il governo Renzi in tutto ciò? E soprattutto, quanto durerà Marino? Insomma, perchè Roma fa schifo? A poco più di un anno dalla sua elezione, Ignazio Marino, il sindaco "Marziano", si sta rivelando inadeguato. Un sindaco che si barcamena tra un concerto dei Rolling Stones e il nuovo stadio della "Maggica" Roma, mentre la Città sprofonda. Un viaggio attraverso i cantieri bloccati delle grandi opere, lo scandaloso sistema del trasporto urbano, la viabilità impazzita, le strade colabrodo, le piste ciclabili inesistenti, la piccola e la grande criminalità, l'isolamento delle periferie, l'emergenza rifiuti e quella dei campi nomadi. Compresa la cultura azzerata. Questo è il "Modello Marino", copia sbiadita del "Modello Roma".
Enrico Pazzi Laurea in Scienze Politiche, da oltre dieci anni è giornalista di cronaca politica romana e nazionale. Dopo aver collaborato con alcune testate municipali di Roma, ha fondato e diretto due testate giornalistiche web ("Tramonline" e "Roma2013.org"). Oggi cura il proprio blog "Cose da Pazzi", sulla testata web Romatoday.it.