Mimmo Incollingo I sogni degli altri Lettere Animate Editore
isbn:978-88-6882-365-8
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Questa è un’opera di fantasia. Tutti i personaggi, gli episodi e le battute di dialogo, tranne che per occasionali riferimenti a personaggi pubblici, sono immaginari e non vanno riferiti ad alcuna persona vivente.
Un uomo si giudicherebbe con ben maggiore sicurezza da quel che sogna che da quel che pensa Victor Hugo
Chi si fa carico dei sogni degli altri dovrebbe portarli avanti con impegno e rispetto, perché spesso per qualcuno, dietro la realizzazione di un sogno, si nasconde la chiave per la libertà Yami No Sekai
Introduzione
Che cosa sono i sogni se non dei meravigliosi e affascinanti viaggi, anche se solamente immaginari. In essi è facile riscontrare situazioni e persone a noi familiari, ma è altresì vero potersi trovare immersi in circostanze e contesti meravigliosamente dissimili da quel che siamo e dalla nostra realtà. Sogniamo per un recondito bisogno di rendere concreto ciò che la nostra mente immagazzina durante la giornata: volti, suoni, parole, emozioni si mischiano assieme e rimangono a sedimentare nel nostro inconscio per poi prendere forma solamente durante il sonno. I sogni, però, sono di varia natura e forma. Sono così disparati che sarebbe giusto raggrupparli per categorie, suddividerli in livelli e uno di essi potrebbe essere quello in cui, durante il sogno, non ci si rende conto che esso sia tale. Tutto appare totalmente reale anche se avvengono episodi surreali e grotteschi; in questa fase si è consapevoli di ciò che sta accadendo, ma allo stesso tempo non si è in grado di realizzare di essere in uno di essi. I sogni, quindi, sono frutto delle esperienze emotive recondite accumulate nel corso della nostra giornata, ma se quel sogno che ci apprestiamo a vivere non fosse il nostro? Se le esperienze emotive vissute appartenessero ad altri? Allora, quel viaggio a cui si faceva riferimento, avrà ancor più degli sviluppi imprevisti e surreali. Ma la domanda alla quale forse non sarà mai possibile dare risposta e che, probabilmente, è la chiave di tutte le infinite complicazioni esistenziali, è ben più eccezionale: e se poi la realtà non fosse altro che l’infinito sogno di qualcuno?
Prologo
L’uomo è solo nel letto d’ospedale. Ha gli occhi bendati da una sottile garza che gli cela alla vista il soffitto di quella sala operatoria, gli nasconde il lavoro quasi certosino dell’infermiera che, con cura maniacale, sta preparando su quel piccolo carrello, gli attrezzi che il chirurgo dovrà utilizzare durante l’intervento. L’uomo è solo perché nella sala operatoria non possono esserci altri che lui e l’equipe medica, ma è solo anche perché non avrebbe alcuno da poter tenere lì al suo fianco, nessuno al quale stringere la mano nel momento in cui si sentirà impaurito dalle manovre che andranno a eseguire nei suoi occhi. L’uomo è solo e così, con gli occhi bendati, pensa a quel suo stato di quasi totale abbandono dagli altri, ma può solo biasimarsi poiché unico artefice di quella situazione. All’uomo è celata la vista, ma non gli altri sensi e, infatti, ci sente benissimo e cerca di distinguere dai rumori i movimenti delle persone a lui accanto. Una mano delicata con garbo gli sfila via dagli occhi quella leggera garza, ma l’uomo non può vedere ugualmente, i suoi occhi sono ancora chiusi e tali rimarranno. «Ora stia calmo e si rilassi» gli dice una voce femminile, ma lui è restio a ubbidirle. Di seguito una carezza gentile sulla sua fronte aggrottata gliela fa distendere cedendo alle richieste in precedenza impartitegli. Sente un altro rumore alla sua destra, come un sibilo, come una ruota forata e fa per girarsi istintivamente verso quel rumore. La mano gentile torna a toccarlo e a riposizionargli il capo col naso all’insù. Poi sente poggiarsi sul viso, a coprirgli solo il naso e la bocca, ciò che lui suppone sia una maschera e, sotto le carezze delicate di quella mano, sente abbandonarsi. L’uomo è solo sul letto d’ospedale e non ha più gli occhi bendati, ma non vede comunque nulla: né il fondo delle palpebre, né di là da esse. L’uomo è solo come tanti altri al mondo e da solo si abbandona in quel dolce oblio. Poi più nulla.
Primo sogno. Sotto anestesia
Dissolvenza.
La situazione era diventata improvvisamente insostenibile e a quello stato d’insostenibilità pareva non esserci rimedio. Era necessario elaborare un piano nel minore tempo possibile, per far sì che si creasse una modifica a quello status quo. L’inventiva non era certo un elemento mancante nelle caratteristiche di Flavio, anzi ne era un portatore sano tanto da renderlo quasi famoso per le sue mirabolanti stramberie che era in grado di inventare per uscire a districarsi da qualsiasi situazione critica. Si sarebbe potuto tranquillamente definirlo un mago dello sgusciamento per il modo scivoloso e silenzioso con il quale veniva fuori da determinate situazioni intricate; scivoloso come quei biscioni che nelle giornate assolate d’estate inaspettatamente attraversano le strade di campagna scorrendo via quietamente. Quindi, azzardò come un abilissimo giocatore di poker. «Credo sia inopportuno.» «Cos’è che crede inopportuno?» chiese incuriosito l’uomo con la fronte imperlata di sudore, osservando attentamente il volto di Flavio. «Suppongo che ci sia uno stretto e vitale collegamento tra il raziocinio e la libertà individuale.» L’uomo parve ancor più incerto sulla questione che d’improvviso Flavio aveva intrapreso. «Lei si riferisce alla possibilità che ha ogni singolo individuo di poter fare della propria vita e quindi della fede, quel che più crede sia giusto?» «Per non parlare poi della sensibilità di alcuni. Sa, alle volte, le persone molto sensibili sono quelle più recettive e la normale conseguenza è la loro
inclinazione nel subire degli abusi… i bambini per esempio. Prenda come esempio i bambini» incalzò Flavio. «Vorrebbe affermare che quelle piccole creature sono fautrici degli abusi ignobili che troppo spesso subiscono?» asserì sospettoso l’uomo. «Lei crede a una cosa del genere? Lei crede o meglio il suo dio la porta ad affermare una cosa del genere?» ribatté Flavio disegnandosi sul viso un’espressione di serio rimprovero. «Credo che lei non abbia capito…» sovvenne quasi incredulo l’uomo, anche se non gli era ben chiaro di cosa stessero parlando. «Oh no, no. Lasci stare che io la capisco bene la gente come lei, sempre pronta a giudicare e denigrare. Che cosa credete che la verità vi si sia riposta nella tasca? Oh buon uomo, questi discorsi non attaccano con me.» L’uomo si guardò attorno attonito. Si tolse il cappello di colore marrone chiaro mostrando una bella testa priva di capelli, fatta eccezione per quelli presenti sui lati del cranio e dietro la nuca i quali se ne stavano lì come una corona d’alloro. Si deterse la testa sudata con un fazzoletto bianco che in seguito ripose nella tasca del pantalone color beige. Il sole ce la stava mettendo tutta per far sentire la sua influenza e, dalle chiazze che andavano allargandosi sotto le ascelle dell’uomo, si capiva che il suo intento era andato a buon fine. Sbatté le palpebre più volte quasi a volersi destare da quello pseudo incubo che improvvisamente lo aveva avvolto. Quel discorso era illogico, come l’immediata necessità che ebbe di orinare, ma si trattenne. «Lei mi vuole prendere in giro giovanotto, ma io non starò qui a farmi canzonare dal primo pinco pallino che a per strada. Lei deve solo stare attento alla giustizia divina perché è scritto che la fine del mondo verrà e solo i puri potranno salvarsi e aspirare a una vita eterna. Mentre lei, caro giovanotto, è sulla via della perdizione, sul sentiero dissestato dell’immoralità, del vizio e del peccato. Lei è ancora giovane e ha tempo per redimersi e capire che la vita vera non è quella che andate predicando e praticando voi altri. Ah no, mio caro giovanotto, la vostra vitaccia fatta di lussuria e mere necessità, non fa altro che condurvi in un percorso tortuoso e… aaaaaahh!» Sette, erano sette. Flavio riuscì a contarle tutte le otturazioni che l’uomo aveva in bocca. Quattro nell’arcata inferiore e tre in quella superiore e, a onor del vero,
erano fatte anche piuttosto bene; appena avrebbe smesso di urlare, gli avrebbe dovuto chiedere chi era il suo dentista. Spostò il suo piede destro che era ben schiacciato su quello dell’uomo ed egli smise di urlare. Flavio non sapeva più come uscire da quella situazione, così aveva pensato bene di calpestare violentemente il piede dell’uomo il quale ora lo fissava in cagnesco. «Lei è un folle» gridò l’uomo mentre tentava di massaggiarsi il piede con tutta la scarpa, assumendo una posa piuttosto buffa. «Lei è davvero un pazzo furioso. Spero le prenda un accidente… Cristo se glielo auguro» anatematizzò l’uomo andando via percorrendo la strada nel senso contrario a quello di Flavio, il quale parve sollevato. Era riuscito, anche se in modo non semplice, a svincolarsi da quella situazione intricata. Del resto non aveva mai potuto soffrire i testimoni di Geova, soprattutto quelli che infastidivano nelle situazioni meno opportune, proprio come quella, poiché era diretto velocemente al bar. Posto sacro, ritrovo dei perduti o semplice luogo nel quale rifugiarsi per non pensare ai problemi dai quali si è afflitti, che siano essi lavorativi o sentimentali o di qualsiasi natura. Il bar Rial Caffè era il classico bar bettola che si può facilmente incontrare in qualsiasi periferia di una qualsivoglia città italiana. Il bar bettola è agli antipodi del bel bar situato sul corso principale della città o a ridosso di un luogo d’interesse turistico o storico, perché il bar bettola punta a tutt’altra clientela, offrendo tutt’altro servizio. Flavio sapeva benissimo cosa aspettarsi una volta entrato in quel bar e ciò perché, in quel luogo, da anni ci ava il suo tempo libero e ne aveva molto a disposizione. Il nome del bar non aveva alcun significato specifico, semplicemente il proprietario voleva chiamarlo Real Caffè, ma poiché quel nome era già stato utilizzato da un altro bar bettola che distava pochi metri e l’insegna era già stata ordinata, il proprietario si era visto costretto a modificare il nome Real in Rial. All’insegna bastò coprire con del nastro adesivo le tre linee della E così da tramutarla in I e il gioco era fatto. Entrando nel bar, Flavio fu accolto com’erano accolte tutte le persone che bazzicavano di frequente il locale ovvero, con totale indifferenza. Genesio, il vecchio postino ormai in pensione, era assorto nella lettura delle notizie di calcio mercato sulla Gazzetta dello Sport. Marione, con la solita maglietta degli Iron Maiden, era intento in un rapporto al quanto intimo con il vecchio flipper che, il più delle volte, andava in tilt. Al bancone Valerio serviva un’acqua tonica a Serena, una donna di sessant’anni la quale da giovane, si raccontava in giro, la dava per due giri di vodka e due Martini. Ora, probabilmente, si sarebbe accontentata dei soli due giri di vodka ma Flavio l’aveva sempre vista con
davanti un bicchiere di acqua tonica e sul volto l’espressione di leggera tristezza che ha una donna consapevole di aver perso il suo fascino, se pur prezzolato. «Fossi in te, andrei in giro con un cartello al collo con la scritta saldi» esordì Flavio sedendosi su uno degli sgabelli al bancone di fianco alla donna. «Invece, ai coglioni come te, dovrebbero attaccare un campanaccio al collo così, annunciando il loro arrivo, noi altri possiamo rifugiarci dalle infinite cazzate che da lì a poco saremmo costretti ad ascoltare.» «Oh, oh, siamo nervosette oggi? Cos’è non hai cavato nessun ragno dal buco?» aggiunse Flavio ridendo sonoramente di una battuta che solo lui aveva apprezzato e di fatti, guardandosi attorno, nessuno parve dargli retta. Serena lo guardò e mugugnò, poi si voltò dandogli le spalle e si mise a osservare la televisione nella quale, il bel presentatore di turno, parlava con fare deciso e professionale delle avventure amorose e a limite del legale del politico di turno. «Ah, vorrebbero farci credere che adesso un politico del suo rango e con così tanti soldi, perda del tempo a pagare quattro sgallettate minorenni? Che brutta bestia è l’invidia anzi, meno male che c’è lui altrimenti sai che palle sto’ Paese» affermò la donna con gli occhi puntati sul televisore. «Comunisti del cavolo ecco cosa sono. Nient’altro che comunisti! Sono solo bravi a criticare e farci credere che la verità sia solo nelle loro parole e gettano fango su chi cerca di fare qualcosa di buono per questo fottutissimo Paese» intervenne ardito Valerio, mentre con una pezzuola non del tutto linda, asciugava dei bicchieri. «Sante parole Valerio» disse Genesio il postino che fino allora sembrava riversasse in uno stato catatonico. «Io, quegli schifosi rossi, li ho combattuti e so come agiscono. Sono delle carogne che vivono in attesa che il proprio nemico faccia una mossa sbagliata e là zang, gli segano la testa. Loro macchinano il tutto e i giornalisti, loro amici, sono manovrati come marionette. Ah, se ne avessi ancora la forza, spaccherei il culo a tutti» e mestamente osservò la sua mano che, guantata dal mostro invisibile del Parkinson, era pervasa da un tremolio ininterrotto. «Diciamocela tutta: quest’uomo che i giornali non fanno altro che diffamare, in realtà è un tipo forte. Quanto meno lui se la sa con delle belle gnocche
mentre, quegli altri barbosi, non fanno altro che dire cose… barbose, ecco» argomentò Marione mentre addentava una barretta di cioccolato. L’uomo, per natura, è stupido a differenza degli animali. Non si è mai sentito dire che un animale sia stupido mentre l’uomo lo è. Lo è perché è presuntuoso e si erge a essere superiore, intelligente e a giudicarsi è se stesso. Come potrebbe essere intelligente un essere che si giudica da solo? Nessuno dovrebbe giudicare se stesso, dove sarebbe l’intelligenza? Magari la superiorità si evince dalla sua capacità di parlare, ma spesse volte gli uomini parlano e non comunicano, al contrario degli animali che scambiano tra di loro informazioni di qualità. Il punto nevralgico però sta nel fatto che gli umani fanno nascere dalle parole l’immaginazione ed essa, a sua volta, induce a fare sogni, ad avere desideri. I desideri e i sogni hanno sostanza aulica e il aggio da essi all’illusione è davvero breve e quest’ultima si potrebbe ben definire un osso duro da digerire soprattutto quando svanisce. Gli animali non hanno sogni e quindi illusioni, hanno solo necessità di mangiare e sopravvivere quindi, il crollo delle illusioni, è un problema prettamente legato all’essere umano il qual crollo lo fa riversare nello stupore. Il termine stupidità nasce da una condizione d'incapacità o insensibilità, indotta da meraviglia, sorpresa e di conseguenza si deduce che, al crollo delle illusioni e al sopravvento dello stupore, l’essere umano riverserà inesorabilmente nella stupidità. Seguendo questo ragionamento è chiaro che gli animali non hanno parole, non hanno i sogni, né i desideri né le illusioni: che culo! È evidente come mai l’essere umano è il più stupido degli animali e tutto è dovuto al fatto che l’uomo ha la parola. Socrate di tutto ciò ne era cosciente, infatti affermava che: «L'alfabeto genera l'oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitare la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall'interno di se stessi, ma dal di fuori attraverso segni estranei. Ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria, ma per richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l'apparenza, perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di moltissime cose senza insegnamento, si crederanno d'essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti.» Questo fu il ragionamento pseudo filosofico che elaborò Flavio osservando e riflettendo sulla puerilità delle argomentazioni date dai suoi attuali compagni. Ma ben diversa e più usuale fu la frase che pronunciò di seguito. «Ma soltanto io mi sono reso conto che quello non è un benefattore, ma soltanto un pappone che se la fa con delle ragazzine scemette?» affermò Flavio con la
fronte corrugata osservando le immagini al televisore. Si guardò attorno, ma si accorse che la sua frase era caduta nel vuoto e nessuno gli dava credito. Nessuno poteva dargli retta perché non se la sentivano, in cuor proprio, di dar ragione a un ritardato. Sua madre lo definiva speciale e a lui faceva infinitamente piacere immaginarsi così, come un super eroe, come Spider-Man che tanto amava. Non gli diedero retta anche perché, in fondo, sapevano che aveva ragione, ma tanto ormai lo scoramento generale che pervadeva la nazione non poteva indurli ad assecondare il suo ragionamento né tanto meno quello di un manipolo di comunisti anticlericali, pronti solo a sfruttare l’occasione per assicurasi il potere che non erano mai stati in grado di acquisire. «Ma va là, cosa ne vuoi sapere tu di queste cose. Hai appena un filo di peli sul viso e vuoi metterti a discorrere di politica? Su, su, vai a giocare ai videogame» disse qualcuno, ma Flavio non lo vide perché era ancora rivolto a guardare il televisore posizionato su un braccio di metallo, attaccato alla parete in alto. Osservava quelle scene dell’uomo politico di spicco che sornione e sorridente usciva dal tribunale e dopo essersi sollevato sul predellino dell’auto blu, salutava come un divo d’altri tempi la folla acclamante. Sarò pure un giovane mentecatto, si disse Flavio, ma a me sembrano loro i veri deficienti. Smise di corroborare su tali iniquità che sembrarono improvvisamente non essere di grossa importanza, a lui bastava leggere Spider-Man e mangiare fette di pane spalmate di Nutella e tutto era okay. Si voltò in direzione di Valerio, il barista, e gli ordinò un bicchiere di Coca-Cola. «Ne sei sicuro Flavio?» domandò Valerio stufo per quella scena che quasi ogni giorno si andava ripetendo. «Non è che ti fai prendere dagli attacchi di mal di pancia come ogni stramaledetta volta?» e lo guardò con fare nervoso e preoccupato assieme. «Sì, sì, sta tranquillo. Ecco qua i soldi» e posò sul bancone una moneta da due euro che sbattendo contro il metallo del ripiano, emise un forte rumore. Nel giro di pochi secondi il bicchiere stracolmo di Coca-Cola frizzante era di fronte al ragazzo il quale lo osservava con occhi trepidanti. Flavio mandò giù la bevanda tutta d’un fiato, sotto gli occhi sconsolati dei presenti. «Dieci, nove, otto… » cominciò a contare divertito Marione. «Non facciamo scherzi, non di nuovo» esclamò Valerio sensibilmente
preoccupato. Il volto di Flavio, improvvisamente, cominciò a sbiancare e a imperlarsi di sudore, sintomo di una sofferenza interna che andava pian piano palesandosi. «Sette, sei, cinque, quattro… » continuava a contare ad alta voce Marione. Ora l’attenzione di tutti era rivolta solo ed esclusivamente a Flavio e a quello che ormai era chiaro sarebbe nuovamente successo da lì a breve. Quella scena era solo una riproposizione di ciò che era accaduto già diverse altre volte e con la medesima sequenza. «Tre, due, uno» concluse Marione di contare posando l’accento sul numero uno, come a voler dare risalto al termine dell’attesa per lo pseudo spettacolo. Flavio aveva il volto contrito e con gli occhi strabuzzanti osservò implorante Valerio. «La chiave Valerio, la chiave del bagno. Presto» disse il ragazzo scattando in piedi. «Eh no, cazzo. Non di nuovo, l’ultima volta ho dovuto chiamare una ditta per pulire il bagno» affermò sconfortato il barista, mentre velocemente si apprestava a porgere la chiave al ragazzo che ormai sembrava in balia di bisogni intestinali incontrollabili. «Stai attento a non sporcare, ti prego» aggiunse implorante Valerio rivolgendosi a Flavio, il quale gli scippò le chiavi di mano e velocemente corse nel bagno. «Però pure tu Valerio, lo sai che ogni volta è così e allora non dargli da bere quella roba» affermò Serena in modo di rimprovero. «Non ti ci mettere pure tu, che già mi basta quel che dovrò pulire. Dio santo aiutami tu» disse l’uomo sollevando il volto e le braccia in cielo, implorando un aiuto divino. Seduto sul water, Flavio era contorto da spasmi intestinali che sembravano non aver termine. Maledisse quella bevanda e la sua irrefrenabile voglia di berla che, ogni volta gli arrecava i medesimi dolori e fastidi, ma che irrimediabilmente continuava imperterrito a bere. Già sentiva i rimproveri della mamma quando avrebbe saputo che per l’ennesima volta non aveva dato retta alle sue raccomandazioni e aveva fatto nuovamente di testa sua. Sbuffò solo all’idea, mentre dall’interno del suo stomaco, venivano fuori rumori non del tutto
rassicuranti. Poi sollevò il capo e si mise a osservare le varie scritte presenti sulle pareti del piccolo bagno. Erano tante e scritte con penne dal colore diverso: ora nere, ora blu e anche rosse e verdi, ma tutte con un solo tema specifico. Una, tra le molte, lo fece sorridere, anche se non la capì pienamente. La frase campeggiava sulla parete alla sua sinistra ed era di colore rosso e dal tratto si capiva bene che fosse stata scritta con un pennarello e diceva: A FORZA DI VEDÈ FICHE GLI SI È RIZZATO ANCHE AL MURO! Sorrise ancora una volta leggendo quella frase figurandosi e, non con poca difficoltà, l’ipotetica scena, ma una nuova scarica intestinale lo riportò subito alla critica situazione attuale. Alzò gli occhi al cielo infastidito da quella brutta circostanza, ma allo stesso tempo si biasimò per quella sua stupidità ripetuta che lo aveva costretto a stare seduto su quel water, in quel bagno maleodorante e poco pulito, checché ne dicesse Valerio. Sicuramente stava contribuendo e non poco allo scarso profumo che campeggiava tutto in torno, ma non poteva fare altrimenti, certo lo avrebbe voluto fortemente non esserne fautore, ma si sentiva morire per la forte colica che lo aveva colpito. D’improvviso i suoi ragionamenti furono messi a freno dal rumore della porta che si apriva. Restò impietrito: chi si era arrischiato di entrare nel bagno sapendo che vi era lui e soprattutto in quello stato particolare? Non seppe darsi una risposta, ò in rassegna tutti i volti di coloro i quali erano presenti nel bar e gli parve di credere che nessuno di loro avrebbe fatto una cosa del genere. Magari era qualcuno di aggio nel locale e quindi non di sua conoscenza? Si chiese interdetto Flavio sempre pietrificato, quasi non respirando più per non far alcun rumore. Poi, quel qualcuno, aprì il rubinetto e subito un forte rumore di acqua corrente riempì il silenzio ridondante che si era andato a creare. Flavio osservò la porta di legno chiaro, anch’essa decorata con diverse scritte, e cercò d’immaginarsi la figura presente al di là. La immaginò premere la levetta del dosatore contenente il sapone liquido e, una volta avutolo nel palmo, strofinarsi energicamente le mani così da far venir fuori una schiuma profumata. Di seguito la vide sciacquarsele sotto il getto fresco dell’acqua e, una volta chiuso il rubinetto, asciugarsi le mani al piccolo ventilatore d’aria calda. Infatti, d’improvviso, il rumore del ventilatore imperversò sostituendosi a quello dell’acqua che scorreva in precedenza. La persona di là della porta impiegò ancora qualche attimo nel compiere altri gesti che Flavio non riuscì a decifrare, poiché troppo assorto a cercare di bloccare una nuova scarica intestinale che si stava facendo via via più pressante, ma non vi riuscì e un forte rumore di scoreggia riecheggiò tutt’intorno, come un tuono, che parve ancor più forte
poiché amplificato dal water. Flavio strizzò gli occhi e serrò forte i denti bloccando un’imprecazione che gli si era affacciata tra le labbra. Quel nuovo ospite smise di armeggiare con non si sapeva cosa, evidentemente sorpreso da quell’orrido rumore e di nuovo un silenzio penetrante riprese potere. Flavio cercò di rimanere il più immobile possibile, quasi cercasse di scomparire e poco dopo, la figura sconosciuta, tornò a compiere i suoi atti interrotti in precedenza. In seguito un rumore di i e l’aprire e chiudere di una porta, indussero Flavio a comprendere che fosse di nuovo solo in quel regno del fetore e si rilassò. Di nuovo tornò a chiedersi chi diavolo poteva essere quella persona e perché mai gli avevano dato il permesso di entrare, giacché vi era lui dentro, ma scrollò le spalle e cercò di non pensarci più. Per fortuna i dolori di pancia parvero aver cessato di esistere e quindi poté uscire da quel luogo angusto e poco accogliente. Si avvicinò al lavandino e aprì il rubinetto e, dopo essersele insaponate, si sciacquò energicamente le mani; arrestò il flusso d’acqua e scrollandosi le mani alzò il volto e si osservò allo specchio poco brillante. Vi scorse un viso pallido con i sintomi ancora vivi delle sofferenze patite in precedenza, aveva i capelli impiastricciati sulla fronte dal sudore e gli occhi segnati dalle troppe ore ate davanti al monitor del computer. «Non devi are troppo tempo davanti al computer» gli ripeteva fin troppe volte la mamma, «lo sai che ti fa male e ti fa venire brutti pensieri e poi la notte dormi poco e tu devi dormire caro, sei speciale perciò hai bisogno di riposare». Arricciò il naso e serrò le labbra mostrando il fastidio che provava al solo ricordo di quelle pressanti raccomandazioni. Voleva tanto bene alla sua mamma e sapeva che lei si faceva in quattro per lui, così gli ripeteva sempre, io mi faccio in quattro per te, però certe volte non la sopportava e aveva voglia di mettersi le dita nelle orecchie e cantare ad alta voce per non sentirla. Cessò improvvisamente di pensare a quella scena, come se niente fosse e subito si dedicò a un nuovo gioco che si stava per compiere: afferrare l’aria calda. Pigiò il pulsante rosso sul piccolo ventilatore attaccato alla parete di fianco al lavandino e subito venne fuori un forte rumore. Flavio cominciò subito la sua improbabile battaglia contro il getto d’aria, cercando di afferrarla tra le mani, ma il vincitore era chiaro ancor prima che tale assurdo scontro avesse inizio. Di seguito, improvvisamente, un rumore dapprima indistinguibile cominciò a farsi vivo, ma sempre coperto da quello del piccolo ventilatore. Il ragazzo cercò di tendere l’orecchio per intuire di capire, ma non vi riuscì fin quando il rumore del ventilatore cessò e il suono fu chiaro come il punto da dove proveniva. Flavio si piegò sulle ginocchia e guardò sotto il lavandino, dove trovò una cesta con dentro un piccolo fagotto. Il suono non era altro che il vagito di un bambino evidentemente impaurito dal fracasso precedente. Il ragazzo sgranò gli occhi nel vederlo; era piccolo e avvolto da una
copertina di colore giallo, e dai suoi occhi scendevano copiose lacrime, accompagnate dal tremolio di quelle piccole labbra. Piangeva, ma stranamente non era un pianto fastidioso, era piuttosto melodico tanto che Flavio, accennando un sorriso, cominciò a inclinare il capo da un lato e poi dall’altro a tempo e con gli indici scimmiottò un direttore d’orchestra. Il piccolo però parve perdere la pazienza giacché modificò quel suo pianto melodioso, in urla di raccapriccio. «Oh, oh, oh, non fare così piccino» disse Flavio preoccupato, «su, su, vieni da zietto» e raccogliendolo dalla piccola cesta, se lo portò al petto e sollevandosi in piedi cominciò a cullarlo e a sussurrargli nelle orecchie le medesime nenie che la mamma era solita cantargli quando era lui a fare i capricci e il bambino parve tranquillizzarsi. Così facendo si ritrovò di nuovo a osservarsi allo specchio, ma questa volta di rimando ebbe una doppia figura: il suo volto emaciato e bianco, in contrasto con un piccolo viso di un neonato di colore. Era piccolo e gli parve dolcemente indifeso. Aveva smesso di piangere, ma gli occhi erano ancora velati dalle lacrime così da rendere quel loro colore blu ancora più lucente. Erano davvero belli soprattutto per il contrasto che si andava a creare rispetto al colore scuro della pelle. Il naso era piccolissimo, con le narici ben delineate e Flavio non ebbe la forza di resistere all’istinto di toccarlo. Posò il dito indice su quel nasino che all’apparenza pareva morbido, ma che invece risultò al tatto duro e resistente. Al bambino piacque quel gesto, tanto che accennò a una specie di sorriso e comunque emise un piccolo gridolino di piacere. Flavio sorrise e i due si osservarono per un brevissimo, ma intensissimo tempo, fissi negli occhi. Come mai quel bambino era lì? Si chiese improvvisamente Flavio, come se fino a quel momento trovare un neonato in un bagno pubblico fosse una cosa naturale. Forse era stata la persona che era entrata in precedenza a lasciarlo lì; forse voleva che qualcuno - lui? - lo trovasse e lo portasse in salvo, magari una mamma che non poteva tenerlo e quindi preferiva lasciare che fosse il destino a occuparsi di quel piccolo bambino. Il ragazzo non ebbe né la prontezza, né la coscienza per giudicare negativamente tale gesto, ma fu solo capace di capire che quel bambino era da salvare e lui se ne sarebbe fatto carico. Nel frattempo il piccolo si era appisolato, quindi lo ripose nella cesta dove lo aveva trovato. Era una cesta semplice, non di vimini, ma di un materiale che ne ricordava le fattezze, molto probabilmente di plastica e anche di quella dozzinale. Flavio si alzò in piedi, si poggiò al lavandino e cercò di riordinare le idee e dare un significato a quella vicenda, ma non vi riuscì poiché era troppo
complicata per la sua semplice mente. Ruotò di nuovo i pomelli del rubinetto e fece scorrere l’acqua con la quale aveva intenzione di sciacquarsi il viso. La toccò per accertarsi che fosse calda, ma così non era perciò ruotò maggiormente il pomello dell’acqua calda e, in pochi secondi, ne venne fuori un getto bollente facendo salire su un vapore intenso. In breve tempo, il vapore, appannò completamente il piccolo specchio e come per magia comparve sulla figura liscia del vetro una scritta: mi fido di te. Flavio la lesse senza troppa importanza e di seguito tornò di nuovo a cercare di miscelare l’acqua dandole una giusta temperatura così da potersela gettare sul viso. Mentre era intento nello sciacquarsi, un’idea gli balzò alla mente e sollevando repentinamente il capo, lesse di nuovo quella frase comparsa d’improvviso. Realizzò solo allora che quello non era altro che un messaggio lasciato per lui da parte di chi aveva abbandonato il neonato. Era un messaggio di speranza, ma anche una richiesta di aiuto fatta nei suoi confronti e lui non lo avrebbe disatteso. Ma come fare? Come doveva comportarsi con quella piccola creatura? Non aveva mai accudito un bambino e per un attimo ebbe paura di non esserne in grado, ma poi pensò che la persona la quale aveva lasciato a lui quel neonato, invece, ci credeva fortemente altrimenti non lo avrebbe fatto. Osservò dall’alto quella cesta e quel frugoletto che beatamente dormiva e teneramente gli promise che si sarebbe occupato di lui. Si accovacciò e lo raccolse di nuovo portandoselo in braccio. Lo poggiò col piccolo ventre sulla spalla sinistra, facendogli voltare la testolina di lato e, con la mano destra poggiata sulla schiena, lo tenne fermo così da non farlo cadere. Tra le sue braccia si accorse ancora di più quanto fosse piccolo, poteva avere all’incirca tre mesi, suppose Flavio. Ora però doveva portarlo fuori da quel lurido posto e quindi si affrettò a uscire, non prima però di aver dato di nuovo uno sguardo allo specchio dove la frase andava via via scomparendo, ma alla quale Flavio comunque ribadì la sua promessa, poi la porta si chiuse alle sue spalle. La sala del bar e i suoi inquilini accolsero Flavio con il medesimo atteggiamento che gli avevano rivolto in precedenza ovvero ignorandolo. Ognuno era preso dal proprio ruolo da interpretare: Valerio asciugava i bicchieri, Serena li svuotava, Genesio leggeva le cronache sportive e Marione intraprendeva degli pseudo rapporti amicali con il flipper. Rispetto a quando li aveva lasciati, di diverso c’era la musica che fuoriusciva dalle casse del juke-box: risuonavano forte nell’aria le note di Live is life degli Opus. La cosa gli parve piuttosto strana, non tanto per la canzone, ma quanto per il juke-box stesso il quale, per quanto spesso frequentasse quel locale, non lo aveva mai visto. Strinse le labbra perplesso, ma
risolse il tutto con una semplice scrollata di spalle. Nel frattempo un gatto bianco, sotto un tavolino blu, beveva in una ciotola un caffè nero bollente. Flavio, con in braccio il suo piccolo tesoro, si avvicinò al bancone da Valerio e lo guardò fisso in volto in attesa che gli chiedesse qualcosa, ma parve non accorgersi di nulla. «Beh, non noti nulla di strano?» chiese Flavio al barista, indicandogli con un movimento della testa il piccolo bambino nero avvolto nella copertina gialla che aveva sulla spalla sinistra. «Non ho tempo per gli indovinelli» rispose piccato l’uomo che imperterrito asciugava bicchieri i quali, quasi nessuno, chiedeva di riempire. Serena, voltandosi, lo osservò incuriosita: «Cos’è che hai lì?» e gli indicò il fagottino sulla spalla. Flavio fu finalmente felice che qualcuno si fosse accorto di quella presenza poiché non vedeva l’ora di trovarsi al centro dell’attenzione e lasciare tutti sgomenti con quella sua scoperta. Quindi, delicatamente, voltò il bambino per farlo vedere a tutti. «Guardate un po’ tutti che bel bambino ho trovato!» disse Flavio sorridente, ma le espressioni sul viso dei due erano tutt’altro che sorprese anzi, piuttosto preoccupate. «Ma per quale motivo hai avvolto quel cane in quella coperta?» domandò quasi inorridita Serena. «Ehi, non voglio animali nel mio locale. Esci fuori immediatamente» aggiunse Valerio protendendo il braccio per indicare la porta del locale. «Che succede di tanto interessante?» chiese Marione avvicinandosi. «Flavio se n’è uscito con una delle sue: ha portato un cane, scambiandolo per un bambino, e Valerio s’è incavolato» rispose Serena. «Certo che mi sono incavolato, animali non ne voglio nel mio locale.»
«Ma non è un cane, non vedete che è un bambino? L’ho trovato nel bagno, qualcuno lo ha abbandonato.» «Ragazzo, di stronzate ne ho sentite in vita mia, ma questa le batte tutte per la miseria» pronunciò divertito il vecchio postino che d’improvviso si era interessato alla discussione. «Quello è un cane, quant’è vero che i comunisti mangiano i bambini» chiosò l’anziano. Flavio parve non capire, voltò il bambino verso di lui per appurare che davvero non fosse un cane come tutti affermavano e di fatti il volto assonnato del neonato gli si palesò dinanzi. Osservando quei piccoli tratti e quelle labbra imbronciate, si sentì intenerire il cuore. Come potevano definirlo un cane? Era un bambino bellissimo e se avessero visto i suoi occhi, ora chiusi, avrebbero capitolato com’era accaduto a lui poco prima. «Siete solo degli invidiosi perché l’ho trovato io e non voi, ma non m’interessa. Andiamo via di qua piccolo, queste persone non ti vogliono bene e io invece sì» affermò Flavio e, posandosi il bambino sulla spalla, si affrettò a uscire dal locale. «Questo è davvero tutto matto» dissero tutti in coro tornando poi ognuno a interpretare il proprio ruolo.
Fuori dal locale la vita scorreva lenta e le persone erano impegnate nel vivere la propria. Il sole era sempre vivo in cielo, forse i suoi raggi erano un po’ meno forti rispetto a poco tempo prima, ma non per questo incapaci di riscaldare e far sentire la loro presenza. Flavio si coprì per un attimo, parandosi da quella forte luce che offendeva i suoi occhi ancora abituati alla scarsa luminosità del locale e cercò di avanzare nella speranza di riuscire a imboccare la strada giusta che lo avrebbe condotto a casa. Percorse circa cento metri e si ritrovò nella piccola piazza dove una giostra che girava al contrario, suonava una musica che non si udiva, mentre un bambino che non sapeva giocare cavalcava il cavalluccio bianco che non dondolava. A fendere il cielo della piccola piazza, c’era una lunga fune tesa legata a due enormi pali e sotto uno di essi vi era un vecchio funambolo che, afflitto dalla paura dell’altezza, osservava amareggiato in alto e si malediceva poiché non più in grado di percorrere quella medesima fune. Una bambina saltava con la corda e pareva una figura d’altri tempi che agli occhi di Flavio sembrò essere
completamente tinta di bianco e nero. La bambina saltava e osservava il vecchio funambolo che mirava il cielo sconsolato.
Il funambolo e la bambina.
La bambina in bianco e nero saltava la corda a ritmo veloce e preciso ed era chiaro che, vista la maestria con la quale la saltava, fosse uno dei suoi atempi preferiti. «Mela, pera, susina, albicocca» ripeteva la bambina a ritmo dei saltelli. La piccola piazza era vuota fatta eccezione per il vecchio funambolo che, seduto al ridosso di uno dei pali posti a sorreggere la fune, osservava mestamente quel luogo che pareva non essere più suo. La bambina curiosa gli si avvicinò e dopo averlo osservato per un attimo, sempre fermo nella medesima posizione, gli chiese: «Signore, cosa fa lì seduto?» Il vecchio funambolo ebbe un piccolo fremito, evidentemente sorpreso da quella domanda improvvisa poiché era completamente assorto nei suoi pensieri, tanto da non notare la comparsa della bambina. «Guardo la fune che non percorrerò più» e volse nuovamente lo sguardo al cielo a osservare quella corda tesa, quasi invisibile poiché velata dai intensi raggi del sole. La bambina ristette e si mise a osservare assieme all’uomo la medesima figura, poi sovvenne: «Signore, perché non percorrerà più quella fune?» e la indicò con il suo piccolo dito indice. L’uomo sospirò e senza guardarla le rispose: «Mah, forse perché ho paura; forse è proprio la mia vecchiaia che m’induce ad aver paura!» «Cos’è la vecchiaia?» chiese curiosa la bambina. L’uomo parve sorpreso da quella domanda e, guardandola con i suoi occhi segnati dall’età, cercò di trovare una risposta, ma fu più complicato di quanto si fosse immaginato. Non si era mai chiesto cosa effettivamente fosse la vecchiaia. «Mmm… credo che la vecchiaia non si possa definire, ma ahimè si subisca.» Alla bambina, la quale voleva assolutamente sapere cosa fosse la vecchiaia, quella risposta elusiva non piacque affatto e un’espressione d’insoddisfazione le
si mostrò su quel suo piccolo viso. «Signore, cos’è la vecchiaia?» tornò a chiedere dopo pochi secondi la bambina. Il vecchio funambolo era ancora seduto a terra con le spalle posate al palo, indossava una tuta aderente ottima per praticare l’arte ormai non più sua e ai piedi calzava un paio di scarpette con la suola di gomma morbida tale da facilitargli il cammino sulla fune. Aveva i capelli bianchi e radi, ma comunque lunghi e tutti arruffati. «Ti farò un esempio così potrai capire cosa sia la vecchiaia» tornò a dire il funambolo il quale aveva l’attenzione della vispa bambina. «La vecchiaia potresti paragonarla agli ultimi cento metri di una corsa prima del traguardo.» «Allora è una cosa bella perché è a un o dalla meta» disse gaiamente la bambina. L’uomo inclinò leggermente il capo in senso di sconforto e affermò: «Dipende piccola, perché si da il caso che tale traguardo, nello specifico, è la fine della vita.» La bambina rimase perplessa e silenziosa, di seguito si sedette di fianco al vecchio funambolo e gli strinse la mano. L’uomo osservò quel tenero gesto e poi entrambi tornarono a fissare la fune tesa sopra le loro teste. Una leggera brezza ebbe a sollevarsi così da andare ad accarezzare quelle due figure quasi ancestrali, scompigliando i pochi capelli dell’uomo e la fulgida capigliatura della bambina. Trascorsero minuti come fossero stati anni o forse secoli. «Allora lei preferisce rallentare prima del traguardo così da raggiungerlo lentamente in modo triste, anche se fino allora ha corso con tutto il fiato che aveva?» domandò d’improvviso la bambina. «Preferisce essere triste per quei cento metri anziché sentire il cuore che batte forte nel petto per via della corsa? Credo che lei non sia un vero corridore e, fino a ora, ha corso inutilmente» così dicendo la bambina lasciò la mano dell’uomo e tornò a saltare la corda ripetendo a tempo le solite parole: «Mela, pera, susina, albicocca.» Il vecchio funambolo non capiva se era più divertito o sorpreso dalle frasi di quella bambina, ma di certo si trovò a convenire sull’esattezza delle sue argomentazioni. Forse aveva davvero ragione quella piccolina, probabilmente la paura di perdere quegli ultimi anni che gli erano rimasti, lo aveva indotto a
subirli e a non viverli. Prontamente si alzò in piedi e in poco tempo si trovò a percorrere la scaletta che lo avrebbe portato in cima al palo. Dall’alto l’emozione fu forte e tornò a sentir battere nel petto quel cuore che supponeva avvizzito. Aveva vissuto proprio per quello e ne sarebbe tranquillamente anche morto. Percorse i primi i sulla fune ed ebbe un attimo d’incertezza, ma poi tranquillizzandosi capì che quello era il suo vero centro di gravità. Osservò in basso quel piccolo pubblico accorso che lo guardava dalla strada e si sentì felice di trovarsi lì su in alto. La mia vita è qui su questa fune, pensò l’uomo, è qui nel cielo che trovo il mio giusto equilibrio, proprio come i sogni dei poeti e mai potrei vivere come voi altri che avete sempre la falsa certezza della terra sotto i piedi.
Flavio si lasciò alle spalle quell’insolito spettacolo e continuò spedito il suo cammino che lo avrebbe condotto presto a casa. Chissà cosa avrebbe detto sua madre vedendolo arrivare con quel neonato, chissà cosa avrebbe pensato, si chiese mentre il suo o si faceva sempre più spedito e sicuro. Notò gli sguardi delle persone che incrociava e riscontrò in essi una forte curiosità, si sentì importante. Finalmente le persone non lo guardavano con noncuranza, ma parevano altresì interessati a lui e alla sua presenza. Era diventato il centro dell’attenzione generale e a quegli sguardi rispondeva con sorrisini e ammiccamenti come a voler dire: «Eh sì, ho qualcosa d’interessante qui con me e non vi svelerò facilmente il mio segreto, dovrete guadagnarvelo.» Camminava spedito, ma gli pareva di volare come se ai piedi avesse le ali; d’improvviso si sentì un moderno Ermes, che alati li aveva per davvero i piedi, pronti a condurlo velocemente alla meta desiderata. Il quartiere nel quale abitava era un luogo storico della città, era stato insignito della medaglia al valor civile per aver resistito all’attacco nazi-fascista. I palazzi, al cospetto degli altri quartieri, erano composti di non più di sei piani, conseguentemente erano tutti bassi e più simili a palazzine che alle strutture tipiche delle grandi città. In quel quartiere c’era nato e cresciuto, su quelle strade aveva giocato con i suoi amici e trascorso infinite e romantiche ore. Tutti sapevano chi era e tutti gli volevano bene; sei speciale erano solito dirgli, le persone come te hanno qualcosa in più e non in meno, aggiungevano con sorrisi malinconici. Lui ne andava orgoglioso e non vedeva l’ora che qualcuna di quelle persone, adesso, potesse scorgerlo così da pavoneggiarsi della sua scoperta mostrando quel piccolo tesoro che dolcemente dormiva tra le sue braccia, ma
non incontrò nessuno. Incredibilmente il quartiere era avvolto da un’insolita desolazione, come se tutti si fossero rintanati in casa o in qual si voglia luogo. Decise allora, prima di tornare a casa, di are dal piccolo negozio di generi alimentari dove, la signora Susanna, lo avrebbe sicuramente accolto con molto interesse e probabilmente gli avrebbe fatto i complimenti per quel tenero bambino. Arrivando a ridosso del negozio notò, stranamente, che la serranda era abbassata e ciò gli parve strano poiché erano da poco trascorse le cinque del pomeriggio e, in linea generale, a quell’ora era sempre aperto. Sollevò le spalle in senso di non noncuranza e, voltandosi, attraversò la strada che lo separava dal palazzo nel quale abitava. Percorse il piccolo viale acciottolato che lo avrebbe condotto al portone e, con non poca difficoltà per non far cadere il neonato, riuscì ad aprirlo. Chiamò l’ascensore il quale non si fermò al piano terra, ma sprofondò verso il basso, anche se di piani interrati non ve ne fossero. Flavio strabuzzò gli occhi perplesso, ma anche in questo caso gli bastò sollevare le spalle in risposta a quell’assurdo episodio, ora però avrebbe dovuto affrontare la fatica nel percorrere a piedi le scale per ben cinque piani. Ah, se solo avessi le ali come Icaro potrei volare su per la tromba delle scale ed essere a casa in breve tempo e senza sprecare una goccia di sudore, pensò tra sé Flavio che, mestamente e faticosamente, si apprestava a intraprendere quell’impresa. Era di corporatura grossa e, probabilmente, anche leggermente in sovrappeso e ciò non gli era certo di aiuto per quella sua attuale fatica. Col volto imperlato di sudore e le ascelle ormai completamente madide, si apprestò a compiere gli ultimi sforzi, prima di inserire la chiave nella toppa del portone il quale si aprì dolcemente. L’odore consueto del suo appartamento gli diede il benvenuto e in un attimo si sentì protetto da qualsiasi pericolo. «Mà, ehi mà. Ci sei?» domandò a voce alta sperando di ricevere una risposta da qualche luogo della casa, ma non avvenne. Molto probabilmente sua madre era andata dall’inquilina del terzo piano, come del resto era solita fare. Accorgendosi del cambiamento di ambiente, il bambino si svegliò improvvisamente e cominciò a piangere in modo insistente ma Flavio non parve impressionarsi e non curante si diresse alla sua stanza. Aprendo la porta, figure familiari gli invasero la vista. Quella stanza era per lo più la sua vita, lì aveva tutto: la ione per l’astronomia si mostrava con diverse sfere, appese al soffitto, rappresentanti pianeti e satelliti; alle pareti, i poster dei miti dei fumetti, campeggiavano ovunque; sulla sua piccola scrivania c’erano in bella mostra diversi albi di Spider-Man e altri eroi “fumettati” e un libro piuttosto voluminoso e presumibilmente dalla lettura alquanto impegnativa. Su di esso la scritta
Filosofi e miti greci campeggiava a caratteri dorati e cubitali: un’altra delle sue ioni. Vedendolo, quel libro catturò immediatamente la sua attenzione, facendogli dimenticare all'istante il bambino e il suo ininterrotto pianto così da indurlo a poggiarlo in modo indifferente sul suo letto, dedicandosi velocemente alla lettura. Il neonato però, evidentemente affascinato dallo spettacolo dei pianeti attaccati al soffitto, cessò subito il suo pianto modificandolo in gridolini divertiti. Seduto alla scrivania, Flavio era assorto nella lettura per lui così avvincente, ormai da diverso tempo. Lo aveva letto svariate volte quel testo eppure ne era sempre attratto, quasi lo calamitasse. La sua attenzione per quel libro pareva non cessare fintanto che non sopraggiunse alle sue narici un odore piuttosto stomachevole. Sollevando il capo e porgendo il naso all’aria come un segugio, cercò di capire da dove quell’odore tanto sgradevole potesse sopraggiungere. Si annusò sotto le ascelle, ma l’odore per quanto spiacevole anch’esso, non era il medesimo. In seguito si alzò e si avvicinò al bambino del quale si era completamente dimenticato. Il piccolo se ne stava beatamente sdraiato supino con le piccine braccia e gambe che si muovevano imperterrite. Flavio si accorse immediatamente che la fonte di quel cattivo odore era il contenuto del pannolino che indossava il bambino. «Per la miseria» esclamò turandosi il naso e disegnandosi sul volto un’espressione di raccapriccio causata dal forte tanfo. Non avrebbe mai immaginato che un così piccolo esserino potesse essere in grado di emanare una puzza talmente forte. Si apprestò subito ad aprire la finestra così da cambiare l’aria ormai stagnante, ma il problema principale rimaneva immutato: il contenuto del pannolino andava rimosso. Suppose che sua madre fosse rincasata, ma dopo averla cercata per l’appartamento e aver compreso che invece così non era, capì che aveva bisogno di qualcun altro che potesse aiutarlo. Ragionò su chi potesse fare al caso suo e subito gli venne in mente.
«Devi starci più attento a queste cose, non si può lasciare un neonato a se stesso» Miranda ammonì Flavio mentre finiva di sciacquare sotto l’acqua corrente del lavandino, il piccolo sedere nero dell’infante. Miranda lo osservava con occhi dolci ma decisi e pronti a palesare quel che una vera mamma ha dentro: forza
insormontabile, resistenza al dolore e volontà indomita di portare avanti da sola ciò che farebbero tre uomini assieme. Lei non era una vera mamma, ma avrebbe tanto voluto esserlo, se solo quel maledetto incidente… Flavio non ci aveva pensato su un secondo quando si era trovato di fronte alla decisione di scegliere da chi farsi aiutare per pulire quel fagotto farcito e così si era recato da Miranda la quale viveva in una casa situata non troppo lontano dal suo palazzo. Aveva percorso quelle poche centinaia di metri che li dividevano sorreggendo il neonato a braccia tese e a debita distanza dal suo naso, assumendo sempre più espressioni di disgusto mal celato. Per giungere al portone d’ingresso di casa di Miranda, bisognava salire una piccola rampa di sei gradini e, sul piccolo pilastro del breve corrimano, c’era acciambellato un morbido gatto grigio col musetto macchiato di bianco. Cagliostro era solito sonnecchiare in quel punto dove il sole, a quell’ora del giorno, filtrava appena e i suoi raggi lo riscaldavano delicatamente. Era un gatto docile e Flavio lo sapeva bene poiché altre volte vi aveva giocato amichevolmente. Gli aveva fatto dei grattini sulla testa e il gatto, di rimando, aveva risposto con delle dolci fusa. «La tua padrona è in casa Cagliostro?» gli chiese con voce dolce, come se stesse parlando a un bambino e nel frattempo cominciò a salire le scale. «Certo, è in casa che aspetta te» la risposta del gatto gli fece arrestare il o e strabuzzare gli occhi. Flavio si voltò con la fronte corrugata ma Cagliostro non curante si drizzò sulle zampe, sollevò la schiena nella posa plastica che sovente hanno i gatti nello stiracchiarsi e, sbadigliando, saltò giù e andò via. Probabilmente aveva le traveggole, pensò Flavio e stringendosi nelle spalle bussò alla grande porta verde. Il rumore classico della camminata di Miranda gli annunciò la sua pronta visione e quando gli si mostrò dinanzi, Flavio ebbe un sussulto. Gli occhi verdi e grandi della donna lo avvolsero ferocemente tanto che lui si fece risucchiare inerme. Quegli occhi, Dio santo, erano un dolce schiaffo sulla guancia; non aveva mai fatto l’amore con quella donna, in realtà non lo aveva mai fatto e basta, ma con quegli occhi, maledizione, infinite notti si era coricato nei suoi pensieri e li aveva amati trepidamente. Un sorriso calamitante si stampò sul volto di Miranda, evidentemente lieta di avere quell’ospite e la sua felicità la mostrò ancora di più: «Flavio! Che bello vederti, ma che…» disse ma s’interruppe nel notare il bambino di colore che aveva in braccio. Flavio si destò dallo stato catatonico nel quale era riversato dopo aver visto quella creatura per lui così celestiale e, osservando dapprima il suo viso, per poi
poggiare il medesimo sguardo sul neonato, capì l’espressione di sorpresa. «Se mi fai entrare ti spiego tutto, è una storia piuttosto complicata.» «Ce-certo, ovviamente. Entra pure» gli fece strada Miranda che, nella sua camminata ciondolante, avanzò inoltrandosi nell’abitazione, seguita dai due nuovi ospiti, sempre più impaziente e curiosa di capire. Ora se ne stava lì, con quel bebè in braccio, bella come una Madonna, pensò Flavio osservandola e quasi divorandosela con gli occhi. Ne era sempre stato innamorato e lei lo aveva ben capito e cercava di comportarsi con lui nella maniera più cortese possibile, ma senza dar animo a quella sua infatuazione. «Mi stai ascoltando Flavio? Hai capito quel che ti ho detto? I bambini vanno accuditi, non puoi pretendere di prenderti cura di loro per poi abbandonarli a se stessi» disse Miranda al ragazzo. «Emm… sì, sì, certo che ti sto ascoltando. Solamente quel bambino aveva un odore così cattivo e io non sapevo che fare.» «È una bambina, non un bambino.» «Una bambina?» ripeté sbalordito Flavio. «Come una bambina?» «Beh sì, una bambina. Hai presente una bambina? Quella creatura carina con i capelli lunghi e la gonnellina?» disse in modo di scherno Miranda che nel frattempo era concentrata nell’infilare un pannolino pulito alla piccina. «Uff, certo che so cos’è una bambina» rispose borbottando offeso Flavio, «quel che volevo dire era che… insomma, io non so come ci si comporta con una bambina, ecco. Con un maschietto era un conto, ma con una bambina le cose cambiano.» Miranda lo osservò di sottecchi. «Spiegami: com’è che cambierebbero le cose ora che sai che è una bimba? Credo che tu debba comportarti alla stessa maniera, se vuoi davvero onorare la richiesta di aiuto e se, soprattutto, te la senti di farlo, o sei un cagasotto?» aggiunse la donna e, senza farsi vedere, sorrise dolcemente.
«Ma quale cagasotto!» rispose prontamente Flavio tirandosi in piedi dalla sedia. «Certo che me la sento, che diamine. Quella persona mi ha chiesto aiuto e io, cascasse il mondo, mi occuperò di quel neonato e non ha alcuna importanza che sia femmina o maschio, per me non farà alcuna differenza.» «Bravo Flavio, ora sì che ti riconosco» affermò Miranda gioiosa e porse un tenero bacio sulla fronte del ragazzo. Il viso di Flavio avvampò e crollò seduta stante sulla sedia, con lo sguardo immobile. Lo schiudere delle labbra di Miranda sulla sua pelle gli arrecò un dolce brivido che lo percorse fin giù alla punta delle dita dei piedi. Da quando si conoscevano non avevano mai avuto un rapporto così intimo e quella dolce sensazione lo destabilizzò facendolo sentire, in una frazione di secondo, l’uomo più felice del mondo. S’immaginò di volare tra i grattacieli della città, come solo Spider-Man sapeva fare ed eccolo lì, mentre ciondolava tenendosi coi fili della sua ragnatela, nuotare in aria con maestria. Eccolo avvistare quella giovane ragazza che, in preda a urla di terrore, si affaccia dalla finestra del palazzo in fiamme. Lui è lì pronto a portarla in salvo e, solo avvicinandosi, si rende conto che ha il volto e le sembianze di Miranda. Anzi no, quella ragazza è Miranda. «Ti salverò io, Miranda» afferma deciso l’impavido eroe. «Ma che cavolo stai dicendo?» le risponde la giovane donna. L’eroe non capisce, sembra interdetto. «Ehi, ci sei? Sei qui tra noi? Miranda chiama Flavio, rispondi» disse la donna facendo dei gesti con la mano di fronte allo sguardo fisso nel vuoto di Flavio che si destò da quel momentaneo delirio. «Ma si può sapere che ti è preso? A un certo punto hai fatto una faccia buffa e hai cominciato a pronunciare delle frasi sconclusionate.» Flavio non sapeva cosa risponderle così rimase a bocca aperta e col pensiero di nuovo rivolto a quel dolce bacio che pochi attimi prima aveva ricevuto. «Va beh, prendi qua» e gli posò tra le braccia la piccola e tenera bambina che l’osservò con occhi grandi e indagatori. La tenerezza infinita dei neonati è racchiusa prettamente nei loro occhi luminosi e profondi che, solo all’idea di percorrerli, si viene travolti da una inarrestabile allegria. La lucentezza di quei bulbi invase Flavio e tra i due si avviò una comunicazione non verbale, fatta solamente di sguardi incondizionatamente amorevoli. Madre natura aveva
davvero pensato a tutto quando, nel realizzare l’incapacità dei neonati di parlare, aveva sopperito quella mancanza con un linguaggio ancor più incisivo: la potenza dello sguardo. Seduto sulla sedia di legno grezzo, sorreggendo tra le braccia quel piccolo essere, Flavio, a un osservatore esterno, avrebbe suscitato tenerezza e fatto sorridere dolcemente. Quel suo sguardo semplice e sorpreso, quel suo osservare quasi misticamente la bambina, faceva supporre che tra i due l’ingenuo fosse lui. Flavio era sempre pronto a sorprendersi delle cose della vita, come se fino a un attimo prima si fosse trovato inglobato in una grossa sacca embrionale che lo avesse protetto dal mondo esterno per poi espellerlo improvvisamente al di fuori. Di sovente si trovava a fissare incredulo scene della natura così familiari a chicchessia, ma non per lui. Un arcobaleno, un uccello dal piumaggio colorato, un gattino dagli occhi cisposi, un bambino attaccato al seno della madre o anche un semplice grillo lo rendevano stupefatto. Molto probabilmente, però, non dovrebbe cadere nella normalità delle cose porre l’accento su questa sua peculiarità come un fattore insolito, ma piuttosto come qualcosa di normale dove, invece, l’anormale risiede in tutti coloro i quali, dinanzi a queste immagini, si stringono tra le spalle e si dicono: «Ah sì, l’ho già visto.» Stanno semplicemente morendo e non se ne rendono conto. Probabilmente sono già morti coloro i quali non si entusiasmano per tutta la vita che gli gira attorno, di certo sono morti coloro i quali danno per scontato un amore e vivono di superbia. Certamente sono morti coloro i quali accolgono un affetto come qualcosa di dovuto e non fanno vibrare le loro membra; hanno fatto un o avanti verso l’oblio coloro i quali scordano la propria ingenuità per apparire forti, ma con l’inconsapevolezza che essere forti, scordando la gentilezza del cuore, è solo un atto di arroganza. Vanno verso un non ritorno coloro i quali non corrono più contro le onde del mare, non giocano, non ringraziano, non chiedono scusa, non si mettono in discussione, non ridono di se stessi e invece ballano giornalmente con la propria alterigia. Vivono tutti quelli che, a parere dei precedenti, vengono apostrofati semplici con raccapriccio e senso di superiorità. Vivono le persone speciali. Viveva Flavio e lo si vedeva negli occhi raggianti della bambina. «MJ» pronunciò improvvisamente Flavio. «Come dici?» «MJ, la bambina, la chiamerò MJ come Mary Jane Watson, la fidanzata di Spider-Man» dichiarò Flavio rispondendo alla domanda di Miranda e al contempo osservando intensamente la bambina che gli regalava dolci sorrisi. «Ti
piace il nome MJ?» le chiese teneramente. «Mi sembra un’ottima idea, così almeno saprai come chiamarla, quando ti rivolgerai a lei» aggiunse Miranda avvicinandosi ai due. Flavio parve felicissimo di quell’idea. Aveva avuto davvero una felice intuizione, pensò orgoglioso il ragazzo, io sarò per te il tuo Peter Parker e mi dedicherò sempre alla tua persona. D’improvviso, però, MJ cominciò a disegnarsi sul volto delle espressioni di sconforto e, in poco tempo, cominciò a piangere insistentemente. Il ragazzo parve non capire quel mutamento di umore della bambina e cercò soccorso nello sguardo di Miranda. «Ho come l’impressione che la tua piccola MJ abbia una fame da lupi. Falle un po’ di coccole, mentre vado a preparale del latte» affermò Miranda che subito, con il suo incedere ciondolante, si diresse in cucina. Flavio cercò di mettere un po’ a freno quei pianti isterici, ma per quanti dolci movimenti potesse compiere nel tentativo di farla rilassare, parevano non essere mai sufficienti. Pensò bene ti tirarsi su in piedi e eggiare un po’ per il piccolo salottino e questo cambiamento di posizione parve piacere alla piccola. Flavio camminava e cullava tra le braccia quel piccolo fagottino dal visino tutto nero e imbronciato e nel frattempo si guardava attorno. Osservava avidamente quella stanza e quella mobilia piuttosto dozzinale; un grosso mobile di colore scuro copriva due pareti della stanza. Era un mobile che palesava inesorabilmente i suoi anni, non antico ma vecchio, di quelli con la vernice un po’ scorticata. Era composto di diverse ante, sia sul piano alto che in quello inferiore e molti cassetti di diverse misure; c’era una vetrinetta dove, tramite il vetro lucido, si riusciva a scorgere i tanti oggettini di cristallo presenti all’interno. Posti su alcuni ripiani c’erano dei libri dalle copertine varie e colorate, erano perlopiù libri di cucina e di giardinaggio sebbene la casa non avesse un giardino e nemmeno piante, a eccezion fatta per i tre vasi di gerani presenti sul muricciolo esterno a ridosso della porta d’ingresso. Osservando un po’ più in là, Flavio scorse alcune cornici contenenti vecchie foto di Miranda che la ritraevano in diverse situazioni. Ce n’era una nella quale, in un primo piano, sorrideva raggiante all’obiettivo della macchina fotografica mentre abbracciava un uomo anziano il quale, molto probabilmente, era il suo papà. I due avevano lo stesso taglio degli occhi, grandi ed espressivi con il colore verde a caratterizzarli entrambi. Una foto però catalizzò maggiormente la sua attenzione ed era quella nella quale, la figura di Miranda, si stagliava in costume da bagno su di una spiaggia, mentre alle sue spalle vi era un meraviglioso sole arancione che, molto probabilmente, si apprestava a tramontare. Miranda era là ferma e sorridente con entrambe le gambe belle e snelle. Sorreggeva tra le mani,
con le braccia tese sopra la testa, un pareo dai colori forti e allegri. L’abbronzatura era molto viva, sintomo di un periodo intenso trascorso al sole. Ma quelle gambe, quella gamba… «Bella quella foto, vero?» la voce di Miranda lo sorprese alle spalle facendolo sussultare quel tanto che permise a MJ di riprendere il pianto interrotto. Flavio si ricompose e inavvertitamente posò più del dovuto lo sguardo sul pezzo di legno che fungeva da protesi della gamba destra di Miranda. La ragazza notò quel particolare, ma fece finta di nulla e, prendendo la bambina dalle braccia di Flavio, si mise a sedere e le diede il biberon colmo di latte. MJ cominciò a bere avidamente la bevanda. «Ero nello Yucatan, a Progreso, il luogo in cui sono nata e cresciuta» aggiunse Miranda con un sincero sorriso. «Si trova nel golfo del Messico ed è un posto incantevole.» «Non sapevo fossi messicana, non si nota minimamente quando parli.» Miranda sorrise nuovamente. «I miei genitori sono entrambi italiani e a casa parlavamo prettamente italiano, ecco perché la mia pronuncia non ha nulla di spagnolo.» MJ continuava a ingurgitare avidamente il suo cibo e non prestava alcun interesse ai due adulti e ai loro incomprensibili discorsi. «Come mai i tuoi genitori erano lì?» «Mio padre era un famoso chef e ha lavorato presso un rinomato ristorante italiano per dieci anni poi però, la nostalgia della terra madre, li ha ricondotti in questo posto» rispose Miranda osservando con sguardo di sconforto il luogo attorno a sé. Ogni qual volta si muoveva, la sua gamba di legno emetteva lo stesso rumore che avrebbe potuto creare un bastone su di un pavimento. Quel rumore così rigido, contrastava fortemente con la sua figura gentile, soprattutto in quel momento in cui era intenta a nutrire quella piccola creatura, così da renderle un aspetto tanto carico di magia mistica. Flavio scorse quel pezzo di legno che sbucava da sotto il tavolo, quasi a confondersi con le gambe dello stesso e pensò nuovamente a quelle meravigliose gambe presenti nella foto sul mobile. «Perché non provi a chiedermelo?» disse improvvisamente la donna senza
distogliere lo sguardo dalla bambina che aveva tra le braccia. «Che cos-cosa dovrei chiederti?» pronunciò imbarazzato Flavio, ma allo stesso tempo cosciente di quale fosse la domanda che Miranda voleva che le fosse rivolta. «Non vuoi sapere com’è successo? Come sono finita ad assomigliare a un personaggio dei fumetti di Topolino?» aggiunse Miranda con la solita ironia che da sempre la contraddistingueva. Flavio aveva le ascelle sudate dall’imbarazzo, ma al contempo si ritrovò ad apprezzare il modo che aveva Miranda di affrontare quel suo problema. «Sai Flavio, anch’io come te sono un po’ speciale, agli occhi degli altri» aggiunse e poi, inclinandosi col corpo verso Flavio, pronunciò quasi sotto voce: «Però, quello che non sanno, è che noi davvero siamo speciali, ma non dirglielo, non vorrei venissero meno le loro certezze.» Di seguito sorrise e gli strizzò l’occhio. MJ aveva terminato di mangiare e si era addormentata. Miranda si sollevò in piedi e la porse a Flavio. «Ora è meglio che tu vada a casa, tua madre ti starà aspettando e di sicuro avrà già chiamato la polizia non vedendoti tornare» sovvenne lei incrinando le labbra in un lieve sorriso di scherno che Flavio non capì se rivolto a lui o alla mamma. «Porta con te anche questa busta, ci ho messo dentro dei pannolini puliti, delle confezioni di latte in polvere e il biberon» aggiunse consegnandogli la busta. «Miranda, scusami, ma perché hai tutte queste cose per bambini?» chiese curioso Flavio, poiché lei non aveva bambini suoi. «Fai troppe domande Flavio.» «Cosa c’è di male, sono curioso di sapere. Non credi?» «Oh, lo vedo bene che sei un ragazzo curioso e credo anche che valga sempre la pena fare una domanda, ma non sempre di darle una risposta.» La replica fu tanto enigmatica ed evasiva da lasciare Flavio sgomento con un’espressione incredula sul volto e non ebbe il tempo di controbattere che, dato una carezza a lui e un bacio alla bambina, Miranda mise i due alla porta. Lui osservò MJ che sonnecchiava e si strinse nuovamente tra le spalle.
«Dio benedetto e lodato, sei vivo! Ringraziamo la Madonna.»
La frase quasi urlata di benvenuto, pronunciatagli dalla mamma, faceva supporre che la donna fosse stata in pena per il figlio, ma quei suoi modi apprensivi erano ormai normalità per Flavio. La donna saltò in piedi dalla vecchia poltrona presente nel salottino, nel momento esatto in cui aveva sentito aprire il portone di casa. Flavio se l’era vista arrivare incontro nel corridoio buio, con alle spalle la fioca luce della piccola lampada posta sul tavolino di fianco la poltrona. Di fianco alla mamma c’erano anche due signore: una dai capelli rossi e ricci e un’altra con una folta chioma nera corvina ed erano, rispettivamente, le inquiline del terzo e quinto piano. «Che sia lodato il cielo» aggiunsero le due donne, rimanendo un o indietro alla mamma e rischiarate maggiormente dal cono di luce. Flavio in un primo momento parve non capire poi però, scrutando l’orologio posto sul mobile all’ingresso, comprese il perché di tanta trepidazione. «Ti rendi conto di che ore sono? Disgraziato, non sai che spavento mi sono presa» ora la mamma era ata dall’essere cosciente della salvezza del figlio, e quindi estasiata nella benevolenza degli inquilini del Paradiso, alla rabbia per il comportamento insano del figlio. Gli darò una bella lezione appena ritorna, si era ripromessa nell’attesa, ma lo aveva fatto più per avere la certezza che così lo avrebbe avuto finalmente tra le braccia, che per l’effettiva voglia di infliggergli una punizione. «Si può sapere dove sei stato?» gli chiese mentre Flavio continuava a fissarsi attorno cercando un posto, se pur piccolo, nel quale rifugiarsi per venir meno ai rimproveri severi e petulanti della madre. «Ero… ero in giro, a-avevo da fare» cercò di scusarsi, però la frase venne fuori piuttosto stonata e non come se l’era realizzata nella mente. «So io dove sei stato: da quella svergognata, ecco dove sei stato!» disse imperiosa la donna mentre alle sue spalle, a sentir pronunciare tali parole, le due donne si fecero pudiche il segno della croce, blaterando sottovoce un qualche mea culpa. «Avanti confessalo: sei stato da quella donna senza Dio?» Ecco di nuovo la medesima storia, uguale come ieri e non dissimile dal giorno precedente. Oggi era la povera Miranda a fare le spese del mondo bigotto della madre. La storia si ripeteva sempre uguale, forse cambiavano i personaggi e le situazioni, ma c’era sempre un peccatore da additare, un atteggiamento da
ammonire e moralizzare, una pagliuzza nell’occhio altrui da osservare a discapito della trave di traverso infilata nel proprio. Miranda aveva un unico grande problema agli occhi della madre: era una donna non sposata e soprattutto atea. Tutto ciò non era concepibile, secondo la morale della donna; per lei non poteva esserci vita senza fede, solo la vita in comunione con Dio era rispettata e tutti coloro i quali non vi rifugiavano, erano soltanto portatori di peccato e servi del demonio. Non è che fosse una vera timorata di Dio, ma una fervente cattolica di certo. «Ma mamma, avevo bisogno di aiuto e tu non c’eri» gli occhi della donna sgranarono a tale affermazione, come fosse stata trafitta di sorpresa da una spada. «Cosa vorresti affermare, Flavio? Sai bene che ero dalla signora Borromei» affermò la mamma voltandosi appena indietro nella ricerca di un segno di complicità dalla donna dai capelli rossi che, prontamente, mosse il capo in un gesto di assenso. Il ragazzo si accorse di aver commesso un errore facendo irritare maggiormente la mamma e quindi cercò di elaborare velocemente una soluzione. MJ, certo. Perché non ci aveva ancora pensato? La mamma adorava i bambini, spesse volte l’aveva vista estasiata di fronte ai visi paffutelli dei figli dei loro conoscenti; sicuramente ne sarebbe rimasta ugualmente colpita nell’osservare il volto angelico di MJ. Spostò delicatamente il lenzuolino col quale copriva la neonata e la voltò dolcemente verso la donna, per far sì che potesse essere ammirata. La scena sembrò non finire mai. L’attenzione delle donne parve incredibilmente e repentinamente convogliare su quel gesto lento. «Guarda cos’ho qui con me? Non è la bambina più bella che tu abbia mai visto?» chiese il ragazzo mostrando definitivamente la figura fino allora celata. Le tre donne acquisirono contemporaneamente la stessa espressione di stupore poiché, le parole di Flavio, contrastavano completamente con ciò che veniva loro mostrato. «Ma ti sta dando di volta il cervello? Quello è un cane…» affermò la mamma, con la voce quasi rotta dal pianto. La donna stava per crollare per via della tensione accumulata in quelle ore di angosciante attesa. Sapeva molto bene quanto il figlio fosse problematico. Aveva sacrificato una vita intera per quel suo ragazzo, cercando di non fargli mancare nulla e, possibilmente, d’indurlo a sentirsi il meno diverso possibile. Autistico lo avrebbe definito un medico o una persona esterna, speciale era solita apostrofarlo lei. «Le persone come Flavio
sono regali del cielo e non supplizi per le nostre pene» le diceva spesso don Giulio la domenica dopo l’omelia. eggiavano spesso assieme fuori dalla chiesa e mentre Flavio correva dietro i piccioni facendoli volare via, ma sempre sotto lo sguardo vigile dei suoi occhi caritatevoli e stanchi, don Giulio la esortava a non cedere con parole che spesse volte non erano prive di retorica clericale. «La ragionevolezza del Signore è presente in ogni dono che ci dà, anche quando essi sembrano non aver alcun valore o comunque non paiono ai nostri occhi corrispettivi dell’amore che noi offriamo a Lui, ma sbagliamo. Ci sbagliamo, cara Donatella, quando ci permettiamo di giudicare la vita e le sfaccettature che il cielo ci ha donato, ma dal canto nostro però, dobbiamo sempre fare ammenda dei peccati da noi commessi e confidare nella misericordia di nostro Signore e pregare» le suggeriva il prete mentre, postosi davanti, le stringeva le spalle a braccia tese osservandola dall’alto della sua statura, con quegli occhi piccoli e penetranti. «Prega cara Donatella, perché solo la preghiera cristiana arriva nella profondità del cuore, nel quale scaturisce il perdono e la gioia che ci consente di amare il prossimo» e Donatella aveva pregato e continuava a farlo, quasi ogni giorno. I pomeriggi si recava nell’appartamento della signora Borromei e assieme recitavano il rosario, con la speranza di farsi trovare col cuore puro e non empio in attesa della vita eterna, ma più subdolamente, Donatella chiedeva che quel suo cuore fosse sempre stracolmo di amore e forza per affrontare le difficoltà che quel suo figlio speciale le arrecava. Se almeno ci fosse stata la buonanima di suo marito ancora lì con lei, se non fosse stata per colpa di quel maledetto incidente… «Figlio mio, ma come puoi definire bambina quel… quel cane?» ora Donatella era sprofondata nuovamente sulla poltrona, dopo aver arretrato di qualche o all’indietro quasi barcollando, ma sempre sotto l’occhio attento e vigile delle due donne che, preoccupate, cercavano di far vento alla povera donna agitando le mani.
«Ah, sventurata Donatella! Quante sofferenze che deve are con quel figlio così» disse la signora Borromei una volta fuori casa e lasciati dentro la mamma e il figlio. «Già, già» rispose laconicamente l’inquilina del quinto piano mentre con una mano cercava di coprirsi il petto piuttosto scoperto, mentre un venticello fresco veniva su dalle scale fino al pianerottolo. «E poi, andare a casa di quella donna
senza Dio» aggiunse facendosi il segno della croce, seguita prontamente dalla signora Borromei. «In questo caso non si sbaglierebbe nel dire che: buon sangue non mente. Si vede che era destino che Donatella dividesse i suoi uomini con quella donnaccia. Povera donna già ha dovuto soffrire per la mancanza di un marito il quale le avrebbe fatto comodo avere accanto, ma quel maledetto incidente…» La signora Borromei, al sentir pronunciare quella frase, si avvicinò furtiva all’altra donna cercando di non farsi udire da orecchi indiscreti. «Ma di preciso, di che incidente si è trattato?» chiese di sottecchi. «Ma come, non lo sa?» domandò sorpresa l’inquilina del quinto piano e allo stesso tempo entusiasta di poter informare l’ignara donna. «Ah, sia dannato quell’incidente e il giorno nel quale avvenne. Venga, venga da me che le racconto tutto.»
«Io non ne voglio di animali in casa, sia ben chiaro» ammonì Donatella che finalmente si sentiva libera di sfogare il suo malessere, ora che le due donne erano “gentilmente” andate via. Chissà quanto, di quello che era accaduto, avrebbero spifferato in giro quelle due pettegole, pensò tra sé Donatella, ma verrà il tempo di redimersi anche per loro. Di nuovo con questa storia del cane, pensò Flavio che per l’ennesima volta si sentiva ripetere quella frase, mentre il viso angelico di MJ gli si mostrava dinanzi. L’aveva appena appoggiata sul divano del salotto e coperta con il lenzuolo per non farle sentire freddo, quando la mamma aveva pronunciato quelle parole. «Mamma non è un cane, è una bambina. Perché dici una cosa così malvagia a una creatura tanto bella?» «Vorrai scherzare spero, lo sai che io odio gli animali e non potrei mai definire bella quella… quella cosa» pronunciò la donna indicando la bambina riversa sul divano. «Che figura meschina abbiamo fatto di fronte alle signore» aggiunse sprofondando di nuovo nella poltrona e coprendosi il viso con le mani. Flavio d’improvviso parve non accettare più quell’atteggiamento di sua madre.
Era diventato inaspettatamente iroso e collerico, evidentemente stava covando dentro un forte rancore verso quelle scene fin lì compiute. Non aveva più la forza di sopportare oltre, aveva sentito umiliare Miranda, la sua dolce Miranda; aveva sentito offendere MJ definendola un cane e questo forse solo perché era di colore, ma sentirsi accusare di essere stato colui il quale l’aveva messa in ridicolo di fronte alle sue amiche beh, quello era troppo anche per lui. Respirò profondamente e tirò fuori un grido terrificante: «Adesso bastaaa!» Donatella saltò via dalla poltrona per lo spavento e con gli occhi strabuzzati, osservò Flavio in preda a un tremito convulso. Subito si apprestò a soccorrerlo. «Tesoro mio piccolo, scusa. Scusa tanto, tanto. La mamma ha sbagliato, ma solo perché era in pensiero per te, ma ora è tutto okay. Sta tranquillo, andrà tutto bene e se vorrai potrai tenere il tuo cagnolino.» «Non è un cane, mamma. È una bambina» rispose gridando Flavio ancora più scosso. «Oddio, ti chiedo scusa di nuovo. Sì, sì, volevo dire la bambina. Sì, potrai tenerla se vorrai, la bambina. Però ora cerca di calmarti. Adesso la mamma ti prepara una bella camomilla e ti porta anche le pasticchette che tanto ti fanno star bene. Sei d’accordo?» Flavio parve tranquillizzarsi e si sedette sul divano ai piedi di MJ che sonnecchiava beata, ignara di tutto ciò le accadeva attorno. Donatella stampò un bacio sulla guancia del ragazzo e, dopo avergli fatto una carezza, si allontanò per recarsi in cucina. Il silenzio trionfò e la stanza, naturalmente immobile, sobbalzò d’improvviso e Flavio ebbe la sensazione di cadere. La stessa sensazione d’improvvisa assenza del terreno sotto i piedi che a volte si ha durante i sogni. «Dove l’hai trovata quella bambina?» le chiese la voce della mamma proveniente dalla cucina. «Sono davvero curiosa di saperlo.» Seduto sul divano, ai piedi del neonato, Flavio aggrottò per un momento le sopracciglia e di seguito inclinò il tronco in avanti poggiando i gomiti sulle gambe e con le mani si sorresse stancamente il viso. «Nel bagno del bar.»
ò qualche secondo e poi la donna pronunciò con voce sorpresa: «Nel bagno del bar?» «È quello che ho detto.» «Come credi sia possibile trovare un bambino nel bagno di un bar?» «Lo credo possibile come trovarne uno in un cassonetto, non le ascolti le notizie alla tivù?» «Uhm… ma sai, un conto è quello che raccontano in tivù, un altro è che una cosa del genere possa capitare veramente. Sai, quelle sono delle notizie che quando le ascolti non pensi possa mai accaderti personalmente, non so se mi spiego» disse la donna facendo il suo ingresso nel salotto con in una mano una tazza fumante e nell’altra una piccola pasticca bianca. Il ragazzo osservò attentamente la mamma e soprattutto quella pasticca. Lei aveva sul viso un’espressione di finta serenità che cercava di trasmettergli, ma il risultato era pessimo. Aveva la stessa espressione che si disegnava sul viso le volte in cui insieme andavano dal dottor Giuliani, cercando di fargli are per divertente un incontro che odiava come poche cose al mondo. Gli mostrava il suo miglior sorriso, ma con l’unico risultato di renderlo ancor più nervoso e meno propenso a are un’ora con quell’uomo il quale invece di rasserenarlo, gli rovinava completamente la giornata. «E invece queste cose accadono anche a noi. Anche a te è capitato di avere un figlio speciale come me e non solo in televisione.» Donatella non parve sentire quella frase o molto probabilmente fece finta di non aver udito. «Ti ho preparato una bella tisana rilassante. Però prima prendi la pasticchetta così ti rassereni, mentre io preparo la cena. Stasera mangeremo purè e piselli» affermò porgendo la tazza a Flavio e infilandogli in bocca la pasticca. Così non avrò stimoli e tu te ne starai tranquilla a pregare con il rosario recitato alla radio, pensò Flavio mentre ingoiava quella medicina senza sapore, ma dall’effetto amaro, decisamente sgradevole. Sgradevole come sua madre in quel momento, la quale pareva premergli un fantomatico pulsante posto sulla testa con la scritta on/off e ovviamente sarebbe rimasto pigiato sull’indicazione off.
Però non fece storie, come sempre accettò il verdetto ovvero, essere quello che gli altri vogliono. Sono speciale? E allora è giusto che io mi comporti da tale e che se ne vadano anche al diavolo i miei desideri, le mie riflessioni, la mia identità. Sono migliore? Ebbene che migliore sia. Che faccia come se fossi malato, che la gente attorno mi accondiscenda sempre, hai visto mai che dia di matto perché sai, poverino, è un po’ particolare e bisogna starci attento. E allora vada per la pasticchetta che mi rende sereno e mi lobotomizza il cervello ecchisenefrega! Corroboravano i suoi pensieri e quel piccolo bottone insapore, inodore, indolore ma amaro, appestante e tagliente scendeva giù per l’esofago per andare a raggiungere il suo stomaco da dove avrebbe sprigionato la sua infinita bontà e addio. Innaffiò tutto con una bella sorsata di camomilla e sentì il fluido caldo percorrere il medesimo percorso intrapreso in precedenza dalla pasticca. Non si sa per quale motivo o forse per la sensazione di beatitudine che la medicina già gli arrecava, ma a Flavio in quel momento venne in mente la storia della tastiera qwerty. Aveva letto o sentito da qualche parte che il nome qwerty derivava dalla sequenza delle lettere dei primi sei tasti presenti sulla riga superiore della tastiera. Questo sistema venne brevettato nel 1864 da un certo Sholes il quale lo installò nella macchine da scrivere perché, fino ad allora, i tasti presenti erano inseriti in ordine alfabetico e questo invogliava i dattilografi a una scrittura veloce e di conseguenza, i martelletti troppo ravvicinati tra loro, si storcevano e s’incastravano inducendo così, chi scriveva, a rimuoverli manualmente e rischiando di sporcare d’inchiostro i fogli. Invece, con la tastiera qwerty, le coppie di lettere maggiormente utilizzate, furono separate. Lui si sentiva, in quel momento, dopo aver ingoiato la pasticca, proprio come una tastiera qwerty nella quale tutti i tasti filavano via lisci senza intoppi e non come poco prima, come il vecchio sistema di battitura, dove i martelletti non facevano altro che intricarsi tra loro. Flavio sorrise di se stesso e di quel buffo pensiero che lo aveva assalito improvvisamente, ma si sa che la mente umana è un infinito groviglio d’impulsi e cercare di risolverne l’intrigo è mera utopia. Sorseggiò ancora l’infuso nella tazza, la quale era calda per via di quel liquido contenuto in essa; voltò lo sguardo a osservare MJ che beatamente ancora dormiva. In aria l’odore di piselli si cominciava a fare reale e consistente e s’accorse di avere fame. Poco dopo il richiamo della mamma dalla cucina lo avvertì che la cena era pronta. Ormai aveva la vitalità di un ottantenne e trascinando i piedi, andò a onorare la tavola, non prima però di aver reso grazie.
Rizzandosi velocemente dal letto e mettendosi a sedere, svegliato da chissà che
cosa, fu colto da un tremendo capogiro il quale gli fece roteare velocemente la stanza tutt’intorno. Gli sembrava di trovarsi su di una giostra, anche se in realtà non c’era mai salito in vita sua. L’aveva vista solo girare senza mai provare l’ebbrezza di montarci sopra, ma doveva essere molto divertente almeno a giudicare dalle espressioni estatiche di coloro i quali, seduti su quei seggiolini, giravano velocemente con le gambe penzolanti sopra la sua testa. In quel preciso momento però, quel turbinio di pareti e d’immagini della sua stanza, non è che fossero un granché divertenti anzi, gli davano il volta stomaco. Le mani si posarono prontamente alle tempie con lo stupido intento di dare fine a quel giro tondo e incredibilmente ciò avvenne. Flavio aveva il volto sudato e, circondato dal buio, solo una fioca luce filtrava tramite le piccole fessure delle tapparelle della finestra. Piccoli tondini di luce fendevano quel buio pesto: luce dei lampioni della strada sottostante. Al suo fianco MJ continuava a dormire teneramente. La sveglia sul comodino, posto alla sua destra, gli mostrava l’orario: le cinque e ventisei minuti del mattino. Sospirò profondamente dilatando le narici, di seguito bevve a grosse sorsate l’acqua dal collo della bottiglia. Tornò a sdraiarsi senza ricordare il perché di quel risveglio così brusco. arono pochi secondi che subito tornò a sedersi con gli occhi sgranati, di nuovo memore di ciò che lo aveva indotto a svegliarsi in precedenza. Fissò la figura che appena si stagliava nel buio, la stessa figura che evidentemente gli aveva parlato sollecitandolo a destarsi. La vedeva appena, ma la voce gli era parso di riconoscerla. Quella voce così amata, così bramata e desiderata. La voce della persona che più al mondo adorava e guardava con ammirazione. I suoi occhi divennero lucidi quando, nuovamente, quel timbro così rauco e inconfondibile ebbe a diffondersi nella stanza. «Nella notte, quando ha spento la vista degli occhi, accende a se stesso una luce…» Eraclito, pensò entusiasta Flavio nell’udire tali parole e prontamente continuò a declamare la frase, così da impedirlo alla figura presente al di là del letto: «…da vivo, mentre dorme, l’uomo si avvicina a un morto; da sveglio, si avvicina a uno che dorme.» Era chiaro chi fosse quella persona. «Papaaà!» gridò Flavio riconoscendo in quella voce e soprattutto in quella citazione, il suo caro amato padre. «Oh, piccolo Flavio» gli rispose affettuosamente. «Papà, papà» ripeté il ragazzo mettendosi in ginocchio, cercando di raggiungere
la figura paterna. «Dove sei, voglio stringerti forte. Anzi no, fortissimo.» «Sono qui Flavio» rispose restio l’uomo o meglio ancora la figura, perché ancora solo di quello si trattava. «Ma non avvicinarti figliolo, perché tanto non potrai abbracciarmi, né tantomeno vedermi e quindi ti prego di non accendere la luce.» «Perché papà, perché?» chiese Flavio aggrottando le sopracciglia perplesso. «Io voglio abbracciarti, mi sei mancato tanto.» «Ti capisco caro, ti capisco bene ma è così e devi essere forte nel desistere. Mi prometti che lo farai?» il ragazzo non pareva essere troppo felice di quella richiesta. «Se lo farai, allora potrò stare qui ancora un po', altrimenti sarò costretto ad andarmene» aggiunse l’uomo con voce ferma. «No, no, non andartene. Ti prego, farò il buono. Farò quello che mi chiedi: non tenterò di abbracciarti, né di accendere la luce. D’accordo, però non te ne andare» rispose implorante il ragazzo. «E sia» aggiunse laconico il padre. Flavio se ne rallegrò e batté le mani giovialmente. Suo padre, il suo caro estinto padre, era lì con lui e non se ne sarebbe andato. Era tornato da chissà quale posto, che sia stato esso inferno, purgatorio o meglio ancora il paradiso, in quella notte di sudore, solo per stare in sua compagnia e per parlare. Magari avrebbero parlato dei filosofi e miti greci, e per lui avrebbe discorso come faceva un tempo con i suoi alunni, con quella sua favella forbita e fluida non priva di tecnicismi che lo inorgoglivano al solo udirli. «Papà, ma tu non sei morto?» chiese prontamente Flavio, ma parve che quella sua domanda non scompose minimamente il padre. «La morte è quanto vediamo da desti, il sonno è quanto vediamo dormendo.» Flavio non parve capire appieno ciò che volesse intendere il padre o meglio, ne capiva il senso compiuto ma molto meno il perché di quell’affermazione. Forse stava sognando? Forse tutto quello era un sogno? Eppure pareva reale. No, era sicuramente reale. «Figliolo non sono qui per discorrere con te sulla mia incorporeità, perché sai bene che ormai non calpesto più l’acciottolato davanti casa, ma allo stesso tempo l’intero e non intero, concorde e discorde, convergente e divergente, da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose. Tutto sarà sempre il contrario di tutto; il mondo e, di conseguenza i suoi abitanti, non
saranno mai buoni o cattivi ma entrambe le cose o una loro somma.» L’uomo si prese una pausa con l’intento di far sì che quelle sue parole venissero digerite consapevolmente. «Flavio caro, sono qui per un motivo preciso: voglio che tu, qualunque cosa accada o ti venga detta, voglio che tu creda sempre in quello che provi nei miei confronti. Vedi figliolo, un uomo non è quello che gli altri dicono di lui o quello che pensano di lui, bensì quello che effettivamente ha compiuto nella sua esistenza. Sono un essere imperfetto e come tale ho trascorso i miei anni, ma sempre con l’intento di giungere a qualcosa di più simile a un atto compiuto secondo coscienza. Alle volte, nel nostro percorso di vita, si commettono dei gesti che secondo il nostro discernimento sono impeccabili, ma agli occhi di terzi paiono miserrimi. Vorrei che tu mai giudicassi per quel che ti viene mostrato, ma per quello che giudiziosamente ponderi e soprattutto plasmi alle tue emozioni recondite. Vorrei che tu cercassi nei cassetti dei tuoi ricordi il vero valore riposto nei miei confronti, perché solo nella tua anima c’è la verità. Non giudicare mai, perché somigliano ai sordi coloro che dopo aver udito non hanno comprensione.» Se prima era la confusione ad albergare nella mente di Flavio, ora vi era il caos più totale. Quelle frasi gli parvero così sconnesse: che suo padre fosse uscito fuori di senno una volta raggiunta l’immaterialità corporea? Forse doveva porgere più attenzione a quelle parole, molto probabilmente suo padre stava cercando di dirgli qualcosa di estremamente importante. Allora perché non riusciva a coglierne il senso? La sua espressione apparve sicuramente interdetta, perché il padre gli fece la domanda successiva: «Riesci a comprendere ciò che ti dico, figliolo?» «In realtà» rispose prontamente Flavio, «non propriamente anzi, direi di no.» L’uomo trasse un profondo e rumoroso respiro. «Devi sapere, caro Flavio» iniziò il padre ad argomentare con voce profonda e pacata, come quella di un professore nell’atto di spiegare un argomento piuttosto difficoltoso «che nessun uomo, a fine giornata, verrà giudicato per quello che non ha fatto, ma solamente per ciò che ha fatto. Così io. Perché anch’io sono stato e sarò ancora giudicato per quello che, alla fine della mia giornata, ho portato a termine. Sarò giudicato da alcuni benevolmente, ma da altri meno. Però vedi, caro figliolo, ciò che mi rende immune alle cattive critiche è la consapevolezza di aver fatto tutto secondo coscienza. Molto probabilmente ho errato, ma chi non sbaglia mai, sapresti dirmelo?»
Il viso di Flavio pareva ora interessato alle argomentazioni del padre e, a quella sua domanda retorica, rispose muovendo il capo in senso di diniego. «Ora comprendi cosa voglio dire?» chiese l’uomo ancora celato nelle tenebre della stanza. «Intendi cosa sto cercando di farti capire?» Con la medesima espressione sul volto, Flavio compì lo stesso gesto di negazione muovendo il capo da un lato e l’altro. «Oddio, ma sei uno zuccone alle volte!» affermò spazientito il padre. «Uhm, insomma: non sono mai andato a mignotte. Ecco. Ora cerca di non dare retta alle voci maligne che potrebbero giungere alle tue orecchie. Ho sempre amato e l’ho sempre fatto con cognizione di causa.» Le guance del ragazzo avvamparono all’udire tali parole. Suo padre era sempre stato una persona pudica ed elegante nei modi, quanto nelle parole. Ora però, quel suo modo di parlare così poco ameno, quasi lo imbarazzava. Quel linguaggio lo metteva a disagio poiché il mito di suo padre mal si collocava con quelle parole anzi, non avevano nulla a che fare con lui. «Papà, ma che dici?» chiese con disgusto. L’uomo comprese il suo senso di malessere. «È proprio quello che volevo farti intendere: non giudicare mai nessuno per un solo gesto o una frase detta in malo modo. L’uomo è imperfetto e come tale va osservato e perché no, anche amato. L’imperfezione di ognuno di noi ci rende unici e distinguibili dagli altri. Dei pregi ci s’innamora, ma è nelle imperfezioni che ci si ama. Cercami sempre nei tuoi ricordi, anche quando la mia figura ti parrà sbiadita e incomprensibile, dissimile da quello che hai sempre realizzato di me. Io sono e sarò sempre a un o da te.» «Papà, ma chi dovrebbe parlarmi male di te? Chi è che vorrebbe questo?» domandò Flavio con raccapriccio, ma quelle sue domande non ebbero risposta poiché la stanza era tornata muta e desolatamente vuota. Suo padre o la figura che lo rappresentava, era sparito. Flavio ebbe l’impulso di accendere la luce per costatarne l’effettiva assenza, ma non lo fece per non incorrere nel rischio di farlo andare via proprio con quell’atto. Magari era ancora lì e, accendendo la luce, lo avrebbe costretto ad andarsene. Voleva rifugiarsi in quella remota possibilità.
«Papà…» chiamò dolcemente sottovoce, ma non ebbe alcuna risposta. Pensò che molto probabilmente volesse starsene lì al buio a osservarlo senza parlare. Sicuramente voleva vegliare su di lui in silenzio e con questi pensieri per la testa tornò a coricarsi. Aveva il cuore gonfio per quello che era accaduto, per l’immensa gioia di aver parlato con suo padre, il suo grande amore. Ora però, col capo sul cuscino, gli si riempirono gli occhi di lacrime, ma non volle farsi sentire mentre piangeva. Suo padre, del resto, era lì e non voleva farlo stare in pensiero. Tirò su forte col naso e una nuova consapevolezza lo assalì. «Papà, dove sei?» chiese sotto voce.
Erano tutte noiose le riviste che si trovavano sempre in quella cesta di quella sala d’aspetto. Non solo le riviste erano noiose, ma anche le persone che, sedute in quelle scomode poltroncine, aspettavano come loro. A sua madre, però, pareva piacere quel genere di lettura poiché era assorta in una di quelle riviste dai temi medici o roba simile. Cosa non avrebbe fatto per avere ora, in quel preciso momento, una copia dell’ultimo albo di Spider-Man e invece si ritrovava a dover scegliere tra: Il malato e il dottore, Psicanalisi 2000 e Mens sana. Aggrottò le labbra disgustato osservando quei titoli. Di seguito cominciò a osservare la segretaria che, a ogni squillo del telefono, rispondeva con la sua inconfondibile voce nasale e col timbro impostato da perfetta centralinista, ripetendo sempre la medesima frase: «Studio di psicoanalisi Giuliani, buongiorno. Sono Vanessa, come posso esserle utile?» Vanessa era una ragazza non troppo appariscente anzi, piuttosto anonima. Capelli sottili e poco folti, raccolti in una coda dietro la nuca. Carnagione rosea, come quella dei disegni dei bambini quando, cercando di raffigurare un essere umano, danno loro quel colore rosa pastello. Occhi nascosti dietro un paio di occhiali dalla montatura spessa in osso e due mani affusolate che stringevano, una la cornetta del telefono, l’altra una biro con cui poter trascrivere su di una piccola agenda, gli eventuali appuntamenti del dottor Giuliani. Sarebbe corso via in quel momento, pur di evitare l’incontro con il dottore che da lì a poco si sarebbe svolto. Sarebbe entrato come sempre da solo, con il conforto dello sguardo della mamma e con quel suo sorriso che pareva dirgli: «Vai caro, vedrai che dopo starai (starò) meglio.» Eppure non si sentiva per nulla bene: una volta uscito da quello studio dall’arredamento moderno, con quelle poltrone di finta pelle e il sorriso mellifluo del dottore, di sovente si sentiva peggio di quando era entrato. Era per lo più pervaso da una sensazione di scoramento e da una scarsa vitalità che sua madre definiva
tranquillità. «Hai visto che ti ha fatto bene parlare con il dottore? Adesso sei tanto tranquillo e sereno. E tu che fai sempre tante storie» e quelle parole di sua madre battevano forte in testa come un enorme martello. Come non poteva accorgersi che lui dentro provava un forte senso d’insofferenza e una stramaledetta voglia di vomitare. Ma molto probabilmente anche lui aveva la sua buona dose di colpe poiché a quelle parole rispondeva con gesti di accondiscendenza. E poi, dopo ogni seduta, lo portava a mangiare il gelato a tre gusti: nutella, fior di latte e pistacchio. Così, anche quella volta si era fatto convincere ad andare in quel luogo angusto dove le persone si recavano per farsi sistemare gli ingranaggi del cervello, almeno a dar retta all’immagine presente sulla porta a vetri dell’ingresso. Su quella vetrata campeggiava una grossa immagine stilizzata di una scatola cranica aperta come il coperchio di un barattolo e, una chiave inglese posta su di essa, tentava di stringere i bulloni degli ingranaggi che fuoriuscivano. Sotto l’immagine, una scritta imperiosa diceva: «Ci prendiamo cura di voi» ma a Flavio, secondo la sua esperienza, quella frase pareva una vera e propria menzogna.
«Mi dispiace, ma io non voglio fare l’imperatore. Non voglio né governare né comandare nessuno. Vorrei aiutare tutti: ebrei, ariani, uomini neri e bianchi. Tutti noi esseri umani dovremmo unirci, aiutarci sempre, dovremmo godere della felicità del prossimo. Non odiarci e disprezzarci l’un l’altro. In questo mondo c’è posto per tutti. La natura è ricca e sufficiente per tutti noi. La vita può essere felice e magnifica, ma noi l’abbiamo dimenticato. L’avidità ha avvelenato i nostri cuori, fatto precipitare il mondo nell’odio, condotti a o d’oca verso le cose più abiette. Abbiamo i mezzi per spaziare, ma ci siamo chiusi in noi stessi. La macchina dell’abbondanza ci ha dato povertà, la scienza ci ha trasformati in cinici, l’abilità ci ha resi duri e cattivi. Pensiamo troppo e sentiamo poco. Più che macchine ci serve umanità, più che abilità ci serve bontà e gentilezza. Senza queste qualità la vita è vuota e violenta e tutto è perduto. L’aviazione e la radio hanno avvicinato la gente, la natura stessa di queste invenzioni reclama la bontà dell’uomo, reclama la fratellanza universale. L’unione dell’umanità. Persino ora la mia voce raggiunge milioni di persone. Milioni di uomini, donne, bambini disperati, vittime di un sistema che impone agli uomini di segregare, umiliare e torturare gente innocente. A coloro che ci odiano io dico: non disperate! Perché l’avidità che ci comanda è soltanto un male eggero, come la pochezza di uomini che temono le meraviglie del progresso umano. L’odio degli uomini scompare insieme ai dittatori. Il potere che hanno tolto al popolo, al popolo
tornerà. E qualsiasi mezzo usino, la libertà non può essere soppressa. Soldati! Non cedete a dei bruti, uomini che vi comandano e che vi disprezzano, che vi limitano, uomini che vi dicono cosa dire, cosa fare, cosa pensare e come vivere! Che vi irreggimentano, vi condizionano, vi trattano come bestie! Voi vi consegnate a questa gente senza un’anima! Uomini macchine, con macchine al posto del cervello e del cuore. Ma voi non siete macchine! Voi non siete bestie! Siete uomini! Voi portate l’amore dell’umanità nel cuore. Voi non odiate. Coloro che odiano sono solo quelli che non hanno l’amore altrui. Soldati, non difendete la schiavitù, ma la libertà! Ricordate che nel Vangelo di Luca è scritto: «Il Regno di Dio è nel cuore dell’Uomo». Non di un solo uomo, ma nel cuore di tutti gli uomini. Voi, il popolo, avete la forza di creare le macchine, il progresso e la felicità. Voi, il popolo, avete la forza di fare sì che la vita sia bella e libera. Voi che potete fare di questa vita una splendida avventura. Soldati, in nome della democrazia, uniamo queste forze. Uniamoci tutti! Combattiamo tutti per un mondo nuovo, che dia a tutti un lavoro, ai giovani la speranza, ai vecchi la serenità e alle donne la sicurezza. Promettendovi queste cose degli uomini sono andati al potere. Mentivano! Non hanno mantenuto quelle promesse e mai lo faranno. E non ne daranno conto a nessuno. Forse i dittatori sono liberi perché rendono schiavo il popolo. Combattiamo per mantenere quelle promesse. Per abbattere i confini e le barriere. Combattiamo per eliminare l’avidità e l’odio. Un mondo ragionevole in cui la scienza e il progresso diano a tutti gli uomini il benessere. Soldati! Nel nome della democrazia siate tutti uniti!»
Charlie Chaplin, nelle vesti de Il grande dittatore, pronunciava quel discorso alla tivù e Flavio si era trovato assorto a fissarlo. Non erano tanto le parole a calamitare la sua attenzione, ma quanto le movenze che l’attore compiva con tanta maestria. Le immagini in bianco e nero gli rimandavano la grandezza di una filmografia di un’altra epoca, di un altro tempo. Insieme a Freak, quello era uno dei suoi film preferiti. Il primo perché lo faceva molto ridere: la goffaggine del personaggio di Chaplin gli dava le lacrime agli occhi dalle risate. Il secondo perché… molto probabilmente perché c’erano delle persone speciali un po’ come lo era lui agli occhi orbi di chi lo osservava con poca attenzione. Era avvenuta proprio al termine del discorso pronunciato dall’attore, la richiesta di sua madre di prepararsi perché sarebbero dovuti andare dal dottor Giuliani. «Eccheppalle mà!» fu la sua risposta.
«Flavio» tuonò Donatella, «sai bene quanto io non tolleri quel linguaggio e poi non fare tante storie, abbiamo un appuntamento col dottore e se non ti sbrighi rischiamo di fare tardi. E io non sopporto di fare tardi.» La piccola MJ sarebbe rimasta sola, ma solamente per un paio d’ore. Si premurò comunque di posizionarla al centro del suo letto così che non rischiasse di cadere a terra. Gli occhi di sua madre divennero malinconici nell’osservare quella scena, nel vedere quel suo caro figlio premurarsi di quella bestia come se si fosse trattato di un essere umano. Ma per fortuna l’incontro col dottore lo avrebbe aiutato a ragionare e mettere fine anche a quella nuova follia. «Signora» disse la segretaria rivolgendosi a Donatella, «è il vostro turno. Il dottor Giuliani vi aspetta nello studio, vi faccio strada.» Donatella prontamente si rizzò in piedi e, posando la rivista che stava leggendo così apionatamente, fece segno a Flavio di andare. Silenziosamente i due seguirono il o svelto della ragazza la quale, ticchettando sul marmo del pavimento, li condusse lungo un corridoio con alle pareti diversi quadri raffiguranti piante medicinali. Una volta arrivati di fronte alla porta dello studio del dottore, la ragazza bussò delicatamente e senza aspettare risposta aprì la porta. «Dottore, il suo prossimo appuntamento.» «Li faccia pure entrare, signorina.» La ragazza si fece di lato e, con un sorriso smagliante, li invitò a entrare. Donatella, seguita da Flavio, cerimoniosamente fece il suo ingresso nella stanza e dietro di loro la porta si chiuse. Siamo in trappola, pensò Flavio. «Ben ritrovato Flavio» esordì il dottore sollevandosi dalla poltrona dietro una grossa scrivania e avvicinandosi ai due ospiti, «sono sempre lieto di rivederla, signora» aggiunse stringendo la mano di Donatella. Che uomo affascinante, pensò la donna. La stanza era proprio come se la ricordava Flavio: grande e poco confortevole. Arredamento fin troppo moderno, come quelli che si vedevano nei loft americani nelle pellicole cinematografiche. Una grossa pianta dalle foglie verdi fosforescenti era presente all’angolo in fondo alla stanza, forse l’unico tocco di colore tra quella mobilia interamente scura.
«Come stai campione, l’hai già letto l’ultimo Spider-Man?» chiese affabilmente il dottore, poggiando una mano sulla spalla di Flavio, conducendolo verso una delle due sedie disposte di fronte alla scrivania. Lasciandosi guidare, Flavio attraversò la stanza e con lui sua madre che non lo mollava di un centimetro. «Beh, a dire il vero no. La mamma ancora non me l’ha comprato.» «Ma lo farò presto» ebbe a puntualizzare prontamente la donna. Il dottore la guardò bonariamente facendola sentire in difetto. «Sono convinto che ti piacerà sicuramente, come tutti gli altri del resto» sovvenne il dottor Giuliani. «Per il resto come stai, hai più avuto quei forti mal di testa?» «No dottore, non ne ha avuti più. Anche se gli ho sempre dato quella medicina che lei mi aveva consigliato» rispose Donatella drizzandosi con la schiena. Ora, la donna e il ragazzo, erano seduti sulle sedie mentre il dottore, con aria da manager intraprendente, era seduto sulla scrivania con una gamba leggermente sollevata e l’altra poggiata a terra. «Signora, la prego» intervenne l’uomo, «sto parlando con Flavio. Lo lasci rispondere.» «Certo dottore, ha ragione. Mi scusi» disse Donatella inclinando mestamente il capo. Lo sguardo del dottore si fece di nuovo affabile e tornò a posarsi su Flavio il quale osservava la scena intimorito. «Allora Flavio, hai avuto ancora quei mal di testa?» «Beh, io… no. Ma non ce li ho mai avuti. Non erano mal di testa, era solamente la forte voglia di fare qualcosa e non sentirmi costretto in casa a vegetare.» «Certo caro, certo» rispose accondiscendente l’uomo, lanciando uno sguardo di complicità alla donna che rispose di rimando. «Ora tu e io faremo una chiacchierata e la tua mamma ci lascerà un po’ soli. Ti va di chiacchierare con me?» Ovviamente no, avrebbe voluto rispondere fermamente Flavio, ma non ne fu
capace. «Allora io vado, ti aspetto fuori» pronunciò Donatella rivolgendosi al ragazzo al quale stampò un tenero bacio sulla fronte. «Stai sereno, ci vediamo tra poco» aggiunse sussurrandogli nell’orecchio. «Grazie signora. Dopo la seduta i di nuovo qui da me» disse il dottore. Donatella fece solamente un gesto di assenso col capo e lasciò i due da soli. Ora sono davvero in trappola, pensò nuovamente Flavio quando sentì la porta dello studio chiudersi. Il dottor Giuliani se ne stava lì, con quella sua aria da bell’uomo brizzolato a sfoggiare sorrisi come i migliori venditori d’automobili. Aveva un viso lievemente abbronzato e scarno. Il corpo asciutto di chi si tiene in forma con l’esercizio fisico e, dalle foto presenti sulla scrivania che lo ritraevano con un caschetto calcato in testa e in sella a una rossa bicicletta, si poteva supporre che il ciclismo fosse una delle sue ioni. L’abbronzatura era dovuta, molto probabilmente, a quella disciplina praticata all’aria aperta. Aveva i capelli corti e ben pettinati; indossava una camicia a sottili righe verticali blu, che fasciavano il suo busto sottile. I pantaloni grigio scuro che indossava, andavano a terminare in un paio di Church’s dalle stringhe sottili. «Eccoci finalmente tu e io soli» affermò il dottore mettendosi a sedere sulla sedia di fianco a Flavio. «Oggi, se a te va, volevo parlare di quello che ti è capitato in questi giorni. La tua mamma mi diceva che hai un amichetto nuovo.» Il ragazzo aggrottò le sopracciglia in un’espressione d’incomprensione. A che cosa si riferiva il dottore? Si chiese Flavio, forse a MJ? «Sto parlando di quel cagnolino che hai portato a casa» aggiunse il dottor Giuliani. «Ma… ma non è un cane: è una bambina!» rispose sdegnosamente il ragazzo. Perché anche quell’uomo se ne veniva fuori con quell’assurdità? «Già, certo. Mi ha detto anche questo tua madre. Mi diceva che tu ti riferivi a quella bestiola come se fosse una neonata.» Flavio era sconcertato. «Ma tu nemmeno l’hai vista, come fai a dire se è una bambina o un cane? Io l’ho vista, io l’ho salvata e saprò bene se è o no una bambina. E per la miseria se lo è!»
«Ascoltami Flavio» pronunciò l’uomo sospirando profondamente e portandosi la mano destra alla testa grattandosela oziosamente, «i nostri incontri hanno uno scopo ben preciso e tu lo sai. Non ci vediamo una volta la settimana perché io sia qui di fianco ad accondiscendere tutto quello che tu dici. Non ti tratterò mai come una persona speciale come potrebbero fare altri, ma piuttosto vorrei cercare di farti ragionare, di mettere in moto gli ingranaggi della tua preziosa mente. Il tuo stato ti comporta alcuni atteggiamenti, ma ciò non deve indurti a evitare di ragionare, di formulare dei pensieri razionali e nell’evitare di osservare il mondo che ti circonda per quello che è anziché osservarlo per quello che vorresti che fosse. Non vivi in un mondo immaginario, ma nel mondo reale e nel mondo reale quello che tu chiami bambina non è nient’altro che un cane.» «Cosa ti fa credere di aver ragione?» chiese in modo spocchioso Flavio. «Non si tratta di avere o meno ragione, si tratta di dare un senso razionale a quello che ci circonda. A quello che ti circonda…» Flavio sorrise. «Ma…» «Aspetta Flavio, aspetta che arrivi il tuo momento per parlare. Fammi terminare» proseguì il dottore, «devi capire che il tuo stato di salute non deve indurti a crogiolarti in esso e fare quel che più ti pare fregandotene delle regole, come potrebbe essere il non rispettare i tempi di una discussione e allo stesso tempo realizzare ogni volta un mondo tutto tuo nel quale rifugiarti e costringere gli altri a comprenderlo. Non è questo quello che cerchiamo di fare ogni volta che ci incontriamo in questo luogo.» L’aria nello studio era mossa da un ventilatore a pale fissato al soffitto e pure, a Flavio, parve che fosse immobile. Gli parve non ci fosse aria respirabile in quel luogo. La sua fronte cominciò a imperlarsi di sudore insieme all’improvvisa accelerazione dei battiti cardiaci. Ogni volta era così. Ogni stramaledetta volta era così. Quell’uomo lo metteva sempre di fronte a una realtà che non amava sentirsi dire, che non desiderava realizzare, una realtà non sua ma disegnatagli da altri. «Tu sai chi sono le persone speciali come me?» chiese Flavio senza attendere risposta. «Le persone speciali come me, sono quelle che sfuggono al cinismo di un mondo - il mondo di cui tu parli - che non fa altro che creare altarini votati alla bellezza, alla perfezione, alla linearità. Sfuggono da queste cose e da quel
mondo, dove nulla è dissimile dall’altro e se anche ci fosse una piccola cosa all’apparenza diversa dal contesto che la circonda, subito verrebbe segnalata e indotta a correggere quella sua diversità o meglio ancora a perire. Il mondo di cui parli è come un bel quaderno con i fogli dalle righe diritte e parallele; il mondo vissuto dalle persone speciali come me è un grosso foglio bianco sul quale, a tracciare le linee, siamo noi altri. Non ci sono vie prestabilite, ma un immenso e sconfinato spazio bianco pronto a essere riempito dall’immaginazione. Il mondo nel quale vivo e, del quale vorrei che anche tu ne fi parte, così da renderti conto della bellezza che lo abita, è un mondo nel quale ci sono solo nascite ed è privo di morte. La morte è fuori, è chiusa via perché in quel mondo non è ammesso perire. Si nasce ogni giorno, anche se tutti sono nati anni addietro. Si nasce ogni giorno perché ogni giorno siamo pronti a smascherarci e vivere degnamente senza vincoli creati dalle righe parallele; si nasce ogni giorno poiché il nostro cuore è libero dal becero cinismo che avvolge i vostri. Voi che avete sempre la risposta in tasca, voi che nella vostra vita cercate disperatamente di piacere a tutti e a tutti i costi non rendendovi conto che non piacete nemmeno a voi stessi. Vi piantate di fronte a determinati canoni e lì, ogni medesimo giorno, v’intestardite nell’intento di riuscire a raggiungerli. Ma non sarebbe molto più semplice essere se stessi e non quello che gli altri vorrebbero? È una lotta impari poiché per qualcuno non andrete mai bene e, per quanti sforzi facciate, ci sarà sempre un dito pronto a indicarvi senza rendersi conto che, stretta in quella medesima mano accusatrice, altre tre dita indicano l’accusatore. Se solo il mondo di cui parli fosse in grado di sorridere di se stesso, se riuscisse a essere meno serio, se fosse un po’ speciale come lo sono io beh, quante cose potrebbero andare nel verso giusto. Tu credi che non sia giusto apostrofarmi con la parola speciale, ma sai cosa c’è di nuovo? Io sono immensamente felice di essere speciale anziché uguale a tanti altri appena usciti dai loro stampini. Sono come sono e nessuno, dico nessuno, potrà cambiare questo mio essere. E ora dai, dammi pure la tua sentenza per questo mio sproloquio, dammi pure le tue medicine con le quali redimermi dai miei peccati. Eccomi pronto a ricevere la tua condanna e non ho paura perché sono trafaldamoriano e tale resterò.» Se il dottore fu sorpreso di questo soliloquio di Flavio, non lo ebbe a dimostrare. La sua esperienza era tale da affrontare quella situazione con la massima tranquillità, come se quello sfogo appena andato in atto, fosse la cosa più normale che potesse accadergli. Quel ragazzo parlava di un mondo differente, dove le regole erano pura invenzione facendo are quello reale per un posto vecchio e polveroso, abitato da soli cinici e meschini conformati ai canoni di una
società che privilegiava la perfezione a discapito della normalità. Non è che avesse tutti i torti, pensò il dottore. «È la tua scarsa propensione a interagire con gli altri che mi preoccupa, non il conformismo della nostra società» sentenziò l’uomo, «è il rifugiarti in te stesso, è il mancato dinamismo e questo tuo autolesionismo nell’idealizzare situazioni che non esistono per poi, inevitabilmente, scontrarti tristemente con la realtà» concluse il dottore lasciando sospesa nell’aria la frase con l’intento di farla metabolizzare al ragazzo. Rischiava fortemente di ferire la sensibilità di Flavio, ma era necessario. Non era tollerabile che continuasse a vivere perennemente in un mondo idealizzato il quale, sempre più, lo trascinava fuori dal contesto sociale, inducendolo fortemente a evitare rapporti coi suoi pari. Aveva ormai quattordici anni e, per quanto gli studi affrontati fino allora sulla sua patologia affermassero che non vi fossero rimedi, egli non vi credeva. Era convinto, fortemente, che approcciandosi a lui come fosse normale, avrebbe indotto il ragazzo a comportarsi da tale e a migliorare così la qualità della sua vita. «Credimi Flavio, noi tutti, tua madre in primis, vorremmo che tu fossi felice» pronunciò in modo sibillino l’uomo avvicinandosi al ragazzo con l’intento di afferrargli le mani, «ma devi seguire i nostri consigli.» Flavio fece uno scatto divincolando le sue mani da quelle del dottore. Aveva il volto velato dalla preoccupazione e dal dispiacere nell’udire quelle parole. «Non toccarmi, non toccarmi, non toccarmi» ripeté convulsamente il ragazzo, portandosi la testa tra le mani. Il dottore si accorse che quell’incontro stava scivolando via dal suo controllo. «Tu, con i tuoi consigli, cerchi di correggere il percorso della mente delle persone come me, impieghi il tempo della tua vita ad assorbire i nostri mali, ma una volta via di qua torni a casa e chiudi tutto. Puoi recuperare le forze e inventare nuove vite per noi, ma tu e io non siamo uguali: io, una volta a casa, non riposo, non curo il mio male» affermò improvvisamente e con voce pacata Flavio. «E allora, cosa fai? Come fai?» Il ragazzo sogghignò. «Vivo, semplicemente vivo.» La stanza, le loro due sagome e ogni cosa, divennero improvvisamente
inanimate. Si fermò tutto come in un fermo immagine quasi a voler creare la giusta suspense nello pseudo osservatore che fissava tale immagine. In leggero sottofondo, come un mormorio, dagli altoparlanti posizionati ai due angoli della stanza i Talking Heads cantavano This must be the place e, sebbene fino ad allora Flavio non vi aveva fatto caso alla musica che usciva da quelle casse, si ritrovò sereno nell’ascoltare quella canzone. Era una canzone che gli piaceva molto e la voce di David Byrne era davvero accattivante. Un attimo dopo era fuori dalla stanza e, sbirciando nello spiraglio della porta accostata, vide sua madre confabulare animatamente col dottore per poi cadergli tra le braccia piangendo. L’uomo cercava di consolarla offrendole dolci carezze sulla schiena, mentre il suo volto era sprofondato nel collo del dottore. Flavio aggrottò le sopracciglia e si strinse tra le spalle: «Vai a capirli i grandi.»
Era bella. Sdraiata sul suo letto, con le gambette paffutelle che si muovevano irrequietamente, era davvero incantevole. MJ offriva infiniti sorrisi che avrebbero reso tenero anche il cuore più duro al mondo. I suoi occhi lucenti di un blu oceanico, avvolgevano e calamitavano l’attenzione di Flavio che già da un’ora era impegnato a giocare con la bambina. Le dava dei teneri baci sul suo morbido collo e poi soffiava forte facendo esplodere la bambina in tenere risate. Egli rideva di gusto a quei gridolini e più soffiava e più la bambina rideva e maggiormente lui ne godeva. Un cane ti hanno definita, pensò con ribrezzo il ragazzo, se solo avessero un briciolo di umanità e riuscissero a mettere da parte i loro pregiudizi, molto probabilmente ne godrebbero anche loro di questa meraviglia. Non riusciva davvero a capacitarsi del modo in cui lo avevano trattato e soprattutto la spocchiosa arroganza utilizzata nell’apostrofare la piccola MJ come un cane, mah. Quei piccoli, grandi occhi blu e quei sorrisi sdentati erano fonte d’infinita gioia e lui avrebbe fatto di tutto per proteggerla, lo aveva promesso. Già, la promessa, si ricordò d’improvviso Flavio, ma chi era stato a fare quella richiesta di aiuto? Perché mai avevano abbandonato quella piccola creatura? Come avevano avuto il coraggio di lasciarla lì sola, in un putrido bagno? Le domande lo assalirono repentinamente, ma non sapeva darsi una risposta plausibile. Forse una mamma in difficoltà, ma allora perché non rivolgersi a un centro infantile o qualcosa di simile, ci sarà pure un ente apposito? Il ragazzo sapeva solo porsi interrogativi ai quali difficilmente poteva offrire soluzioni. L’unica certezza che aveva era quella di doversi far carico della protezione di MJ, anche se ciò non sarebbe potuto durare in eterno. Presto o tardi la piccola avrebbe dovuto far ritorno dalla sua mamma, solo lei le avrebbe dato
l’amore e l’assistenza necessaria, ma dove trovarla? D’improvviso la testa gli stava andando in fiamme, troppe le domande, i punti interrogativi in quella storia e perché fino ad allora non ci aveva posto attenzione? Cos’era stato quel delirio di onnipotenza che lo aveva indotto ad affrontare quella storia con così tanta spavalderia? Che stupido era stato, si rimproverò Flavio infliggendosi dei piccoli colpi con la mano alla tempia. Chi avrebbe potuto aiutarlo in quella situazione? Molto probabilmente solo Miranda, solamente lei era stata comprensiva con lui e soprattutto con MJ. Lei non l’aveva trattata come un cane, ma semplicemente per quella che era. Tra le sue braccia MJ si era sentita protetta, aveva trovato una figura materna, ciò che lui non era. Solamente Miranda poteva dare delle risposte a quella serie di domande e dubbi che lo stavano assillando; solamente lei gli avrebbe indicato la retta via da intraprendere in quella storia: doveva andare a trovarla. Non fece in tempo a realizzare tale ipotesi che lo sguardo imperioso della mamma gli affiorò alla mente. Cazzo, imprecò tra sé Flavio. Doveva trovare una scusa plausibile per uscire da lì, ma sapeva bene che a sua madre non sfuggiva nulla, le sarebbe bastato osservarlo in faccia per rendersi conto che stava cercando di prendersi gioco di lei. Ma doveva rischiare, non poteva fare altrimenti. Raccolse la bambina e se la mise tra le braccia, le sistemò uno dei suoi cappelli con la visiera per ripararla dal forte sole pomeridiano, anche se le stava immensamente grande. Inforcò degli occhiali da sole con i quali cercare di mascherare la sua espressione agli occhi della madre, e uscì. Mosse i i delicatamente e, una volta nel corridoio, con la mano pronta sulla maniglia del portone, salutò la mamma: «Ciao mà, io esco.» «Dove vai?» fu la pronta risposta della donna, la cui voce proveniva da una delle stanze interne. «Emm… vado a fare un giro» rispose con poca convinzione Flavio. Ora Donatella era in corridoio e il ragazzo sentì la sua presenza dietro di sé. «E si potrebbe sapere di preciso dove?» «Beh, di preciso…» rispose intimidito Flavio sempre dandole le spalle, «non so, faccio un giro. Tutto qua.» «Potresti voltarti mentre mi parli?» chiese la donna che subito cambiò espressione quando vide suo figlio con quel cane in braccio che indossava un cappello e, soprattutto, notando gli occhiali sul naso di Flavio. «Ti toglieresti gli occhiali?» aggiunse con tono indagatore.
Il ragazzo ubbidì. Si tolse gli occhiali, ma abbassò lo sguardo palesando le sue intenzioni. «Stai andando di nuovo da quella sciagurata?» tuonò la donna, con un’espressione sdegnata. «Mà, faccio solo un giro e…» «Non raccontarmi balle, Flavio. Lo so bene che vai da lei» affermò Donatella con tono trafelato dalla rabbia che le montava su, «anche tu, come tuo padre, sei caduto nelle grinfie di quella sgualdrina!» Flavio a quell’affermazione sgranò gli occhi e fece un o indietro. «Che cosa hai detto?» «Hai sentito bene, non serve che te lo ripeta. Ma non permetterò che prenda anche te. No, questo mai» e così dicendo si mise tra Flavio e il portone, impedendogli di uscire. Il ragazzo era allibito e turbato da quello che stava accadendo. Si era sbagliato o la madre aveva detto che suo padre se la faceva con Miranda? Cosa stava accadendo improvvisamente? Flavio davvero non capiva. La donna lesse nuovamente, negli occhi del figlio, il suo stato d’animo. «Tuo padre era un brav’uomo, ma mi ha tradito con quella sgualdrina. Ha preferito una prostituta a noi e non voglio che ciò accada anche con te.» Osservò sua madre e i suoi occhi impietositi, ora pieni di lacrime. «Perché dici questo? Il tuo odio è così grande da farti inventare tutta questa storia?» «Ma non capisci figlio mio, è la pura verità. Non ho inventato nulla.» «Mi spiace mamma, non ti credo. Ora lasciami are» disse Flavio cercando di scansare la donna. «Aspetta, ti prego» urlò Donatella, «non andartene, non mi abbandonare» e s’inginocchiò a terra, stringendosi alle gambe del figlio. Flavio ebbe un tentennamento vedendo sua madre riversa lì a terra. S’inginocchiò anch’egli e la osservò amorevolmente negli occhi. Le scostò una ciocca di capelli che le copriva il viso, quel suo viso ormai consumato dagli anni e dai dispiaceri,
sapendo bene che tra quei dispiaceri bisognava annoverare anche lui. Osservò i suoi occhi lucidi dalle lacrime che rendevano ancora più intenso il loro colore marrone. Ah, quanto amava quella donna, ma quanto poco effettivamente fosse l’amore che lei invece riversava in lui; molto probabilmente avrebbe preferito un figlio atletico e sano e invece, un destino infido, le aveva rifilato quel reietto e, stando alle sue parole, anche un marito infedele. «Mamma, ti amo. Ti amo più di quanto tu possa amare me, perché accetto le tue imperfezioni che ai miei occhi sono solo peculiarità. Ti amo perché non ti giudico, ma ti ammiro. Ti amo perché, a differenza tua, ti accetto per quello che sei e ringrazio il cielo per averti accanto. Ti amo quando, la sera stanca, preghi un dio che possa redimere i tuoi peccati e probabilmente tra loro ci sono anch’io. Ti amo per i sacrifici che fai nel tentare di accettarmi, senza renderti conto che sarebbe più semplice amarmi. Ti amo per le carezze che mi dai e che sogni un giorno di poter regalare a un figlio perfetto che, purtroppo per te, mai diverrò. Ti amo perché è più semplice farlo che odiarti per quello che potresti darmi e non mi dai. Ti amo perché non ti rendi conto che non ti appartengo, perché non capisci che la vita è mia ed è bella così com’è» pronunciò dolcemente Flavio senza smettere di fissarla un solo attimo, «e sai una cosa? La mia vita non la cambierei con niente al mondo» poi le diede un tenero bacio sulla bocca. La donna lo guardava con occhi tristi e col viso stropicciato dai rimorsi e dal dispiacere per l’amore tenuto in serbo per giorni migliori. Di seguito Flavio si alzò e, sorridendo amorevolmente a MJ, aprì la porta di casa e uscì senza sbatterla dietro di sé. In breve tempo si ritrovò dinanzi ai pochi gradini che portavano all’ingresso dell’abitazione di Miranda; sei gradini e forse avrebbe trovato risposta ad alcune delle sue innumerevoli domande: era davvero una prostituta? Realmente aveva avuto una relazione con suo padre? Domande alle quali desiderava ardentemente avere una risposta e che solamente lei avrebbe potuto darle. Pochi gradini e, in un modo o nell’altro, avrebbe dato pace a quei suoi interrogativi. MJ, con il cappello a proteggerle il viso e il capo dal sole abbacinante, sonnecchiava teneramente tra le braccia del ragazzo. Cagliostro, anch’esso, sereno dormiva nel solito posto e col corpo acciambellato come sempre, ma questa volta non proferì parola o forse Flavio non ebbe a udirla. Poggiò lentamente i piedi sul primo gradino e così sul secondo fino ad arrivare, quasi titubante, al pianerottolo. Sospirò profondamente e rumorosamente prima di bussare alla porta verde e in breve tempo Miranda gli si parò davanti. Il suo sorriso era grande e lucente, come ogni qual volta lo aveva visto. Aveva i capelli umidi, appena bagnati e
abbandonati sulle spalle. Profumava di gelsomino e quella sua canottiera leggera a far intravedere due seni sodi, gli fece presto aumentare le palpitazioni. Cristo se era bella, pensò Flavio. Lei gli prese la mano e, senza dire nulla, lo tirò dentro casa. Poi lo baciò dolcemente sulle labbra. Aveva delle labbra morbide e fresche, a Flavio parve di assaporare una pesca succosa che rilasciava il suo dolce sapore e quel succo sembrò colargli giù dagli angoli della bocca per andare ad affogare nel suo minuto e giovane petto. Di seguito la donna raccolse premurosamente la bambina e la adagiò sul divano. Tornò a fissare Flavio negli occhi e quello sguardo ebbe la forza di rendergli un dolce brivido a lui fino allora sconosciuto. Ebbe improvvisamente un’erezione che non sfuggì agli occhi di Miranda la quale sorrise, ma più per l’imbarazzo che in seguito colpì Flavio che per la situazione in sé. «Miranda, io…» tentò di pronunciare Flavio, ma la donna lo bloccò prontamente poggiandogli sensualmente un dito sulla bocca, quello stesso dito che un attimo dopo fu sostituito nuovamente dalle sue labbra. Uno o forse dieci furono i giri che il suo giovane e dolce cuore saltò nei secondi in cui Miranda, avvolta dall’essenza di gelsomino, sprofondò tra le sue labbra. Flavio non sapeva baciare o meglio, non sapeva se ne era in grado poiché non lo aveva mai fatto fino allora, fatta eccezione per i baci casti dati alla mamma, ma quelli non potevano essere annoverati in quella categoria. Quei baci esulavano da quello che stava facendo in quel preciso momento: in quei secondi stava scoprendo il vero valore della parola emozione. Lei era a meno di un centimetro dal suo naso e, vista così da vicino, pareva più buffa che bella, però allo stesso tempo non voleva che tutto ciò, qualunque cosa fosse, finisse. Anzi, sperava che potesse durare in eterno e invece non fu così poiché Miranda si staccò e tornò a osservarlo con quei suoi occhi che sembravano due proiettili i quali scalfivano le sue carni e gli facevano un male cane. Penetravano inesorabilmente dentro e parevano rigirarsi nelle carni per infliggere maggiormente dolore. Poi la donna raccolse le sue mani che inermi ciondolavano lungo i fianchi e, carezzandole dolcemente, se le pose sul cuore a un centimetro dal suo seno, quel suo morbido e meraviglioso seno. Il ragazzo raggelò dalla paura e dalla voglia matta di poterglielo tastare. «Si può toccare?» chiese ingenuamente e con gli occhi sognanti. La donna sorrise teneramente e senza dire nulla fece scivolare la mano del ragazzo lungo il suo corpo, poi la portò sotto quella canottiera leggera e le fece compiere il tragitto nel verso opposto, ma questa volta lambendo la sua morbida pelle. Era vellutata e le dita scorrevano leggere come su di un panno morbido.
Flavio di nuovo rabbrividì avvertendo quella sensazione sotto i suoi polpastrelli, ma avido proseguì il suo cammino verso l’alto, sempre guidato dalla mano di Miranda. Percorse una dopo le altre, come piccoli scalini, le dolci costole facendo ondulare le sue dita su di loro come su di un’onda poi, d’improvviso, la carne della donna ebbe a rialzarsi e in un attimo si ritrovò ad accarezzarle un turgido capezzolo. Oh mio Dio, sospirò dentro di sé il ragazzo e, prima di chiudere gli occhi in uno stato di estasi, vide che anche la donna si stava lasciando andare al medesimo piacere. Con le dita sfiorò dolcemente quel lembo di carne che pareva divenire via via sempre più rigido e non ne capiva il motivo, ma istintivamente ne godeva. Quell’atto durò un’ora, forse due o meglio ancora una vita, ma terminò. Miranda diede fine a quel bellissimo gioco, ma solo per proporne un altro. Fissandolo nuovamente negli occhi e senza dire una parola lo invitò a seguirla nella sua camera dove si lasciò cadere amorevolmente sul letto. Una sirena è quello che pensò Flavio vedendola lì riversa con i suoi capelli sparsi sul cuscino e le braccia poggiate in alto a mostrargli due ascelle glabre. Aveva gli occhi chiusi e le labbra imbronciate in un’espressione sensuale. La canottiera leggera era pronta a coprirle il piccolo busto, ma non a celare l’eccitazione disegnata sui suoi seni. Indossava una gonna spaziosa di colore rosa con delle sfumature bianche e, in fondo a essa, sbucavano fuori le gambe nude o meglio, la gamba nuda. Offriva un forte contrasto quella protesi di legno di fianco a quell’arto tutto rosa e bello d’aspetto. Ma non vi prestò troppa attenzione poiché desiderava quella donna e la voleva così com’era, anche monca. Però era impietrito e se ne stava impalato in piedi senza sapere precisamente cosa fare: il suo pisello gli era diventato duro e quindi? Voltò lo sguardo attorno a sé osservando quella stanza che fino allora non aveva mai visto e si soffermò a fissare alla sua sinistra, rimirandosi in un grosso specchio. Ai suoi occhi si palesò la sagoma di un ragazzo con i capelli neri e ricci anche piuttosto lunghi, il viso era tondo e velato dall’acne. I suoi occhi erano piccoli e spauriti, ma il loro colore nocciola rimaneva lucente. Indossava una polo blu abbastanza grande anche per la sua corporatura appesantita e un paio di jeans scoloriti. Ai piedi portava delle semplice scarpe da ginnastica perché così non avrebbe fatto difficoltà a camminare, gli diceva di sovente la mamma. Ma quei vestiti, in breve tempo, furono riversi a terra ai piedi del letto poiché, Miranda, glieli aveva tolti di dosso. Fidati di me, gli aveva detto e lui si era fidato. Successivamente si era ritrovato il corpo di lei addosso pronto a insegnargli ad amare una donna. Glielo aveva insegnato senza dire nulla, ma con i semplici movimenti del suo corpo e Flavio si ritrovò incredibilmente bravo nel comprenderli. Endorfine percorsero il suo corpo, ma forse fu soltanto amore che s’impadronì di lui facendogli assaporare il valore della vita.
«Non smetterò di amarti mai» le disse una volta stravolti dalla lotta dell’amore, mentre felici assaporavano il gusto della vittoria. «Sì che lo farai» rispose telegrafica. «Come fai a dirlo, che ne sai tu?» «E tu che ne sai? Come fai a sapere con certezza che non smetterai mai di amarmi?» «Mmm, lo so e basta.» «Bella risposta» aggiunse sorridendo la donna, «ma la verità è che non lo sai perché non puoi saperlo. Come puoi realizzare ciò che ti accadrà nel futuro e, soprattutto, ciò che accadrà ai tuoi sentimenti?» «Cosa vuoi dire, che le promesse pronunciate col sentimento, con l’amore sono fandonie, assurde bugie?» «Le bugie si possono affermare con coscienza oppure no» rispose Miranda aggiustandosi la voce in un tono serio, «le promesse fatte dagli amanti sono solo dei viaggi compiuti al buio con la cecità agli occhi e prive di ragionevolezza. Non sono bugie dette con l’intento di mentire, ma comunque infide poiché non possono avere alcun riscontro reale. Nessuno può promettere di poter fare qualcosa in eterno, sono infinite le varianti che potrebbero coglierci nel percorso di ognuno di noi e indurci a cambiare il modo di pensare e di vivere. Come può un sentimento così volubile come l’amore essere eterno? Semplicemente non può. Il cuore e i suoi battiti sono indecifrabili, non programmabili. Osservo sdegnosamente coloro i quali prendendo in giro se stessi e un dio che dicono di rispettare pronunciano giuramenti al suo cospetto sapendo, in cuor loro, che quel loro impegno non è calcolabile e di conseguenza non vincolabile. Mi spiace Flavio, ma t’inganni quando dici o pensi di amare qualcuno in eterno, poiché d’infinito non vi è nulla su questo mondo. Un giorno potresti incontrare un’altra persona in grado di farti palpitare il cuore e magari farti innamorare come ora lo sei di me o forse ancor di più.» «O forse no!» «O forse no» assentì Miranda.
Flavio rimase muto a osservare il lampadario, è così che ci si sente dopo aver fatto l’amore? Si chiese ingenuamente, è questa la sensazione che tanti cercano invano di descrivere? Beh, ora capisco la loro difficoltà nel pronunciarsi limpidamente al riguardo. Rifletté a quello che gli aveva appena detto Miranda e pensò a suo padre e sua madre. «È così che è successo a mio padre?» domandò prontamente. La donna si voltò di lato un secondo, ma tornò presto a fissare anche lei il soffitto. «A cosa ti riferisci?» «Al fatto che mio padre decise di lasciare mia madre per te. Anche lui un giorno ha incontrato un’altra persona che gli ha fatto battere il cuore?» «È molto probabile» rispose laconica Miranda. «Com’è successo?» «Cosa sai?» domandò di rimando la donna. «Quello che mi ha detto la mamma: che tu sei una prostituta e che le hai rubato il babbo.» «Uhm…» «È così?» domandò Flavio voltandosi su di un fianco e osservandola di profilo. Una piccola lacrima le rigò il viso e lui aggrottò le sopracciglia. «Ebbene sì, ero una prostituta, ma ormai non lo sono più e del resto a chi vuoi che possa interessare una sciancata come me» ammise amaramente Miranda sferrandosi un pugno sul bastone di legno che le fuoriusciva dalle carni della gamba, «un tempo avevo una discreta clientela, ma molte di più erano le cattiverie che mi circondavano. Il perbenismo delle persone del vicinato, persone sempre pronte a giudicare anziché esaminarsi loro stesse, facevano di me un facile bersaglio. Poche erano le persone che mi rispettavano e tante coloro che mi disprezzavano, però poi incontrai tuo padre. Tu eri ancora piccolo quando entrò nella mia vita e non lo fece mai come cliente, lui non voleva mercificare il mio corpo, mi disse un giorno. Lui voleva portarmi in salvo, voleva che la mia
stella potesse brillare in alto anziché riflettere nelle pozzanghere dei marciapiedi luridi. Non so perché s’innamorò di me e non lo seppi mai, ma so cosa accadde al mio corpo quando cominciai a conoscerlo. Niente era quello che avevo provato fino allora poiché immenso fu quello che mi mostrò; era così buono e parlava bene con me, mi trattava come un essere umano e non come un pezzo di carne. Volle insegnarmi la filosofia che di mattina cercava d’indottrinare ai suoi alunni e ciò era buffo perché faceva di me una puttana filosofa» Miranda cominciò a ridere di gusto e ad alta voce. Poi quella sua risata divenne isterica e di seguito mutò in un pianto silenzioso, privato. Flavio la osservava e l’ascoltava immaginando suo padre e cercò di capire cosa aveva provato in quel periodo, ma un pensiero di commiserazione volò anche nei confronti di sua madre che sola se ne stava con quel figlio speciale, ma nell’amore, purtroppo, non c’è ragione che tenga. «Mi abbandonò per te» affermò mestamente Flavio. «No, non lo avrebbe mai fatto» rispose Miranda singhiozzando, poi cercò di darsi un contegno. «Un giorno decise che era venuto il momento e, di comune accordo, partimmo per il Messico o per lo meno ci provammo. Saremmo partiti con un volo diretto, ma una volta lì e, trovata una sistemazione, sarebbe tornato indietro per recuperarti e tenerti con noi, anche se non era ben chiaro come avrebbe potuto opporsi al volere di tua madre. Purtroppo però quel viaggio non lo facemmo mai» la donna sospirò profondamente, era evidente che quella storia le recava ancora un forte dispiacere. «In autostrada una vettura sbandò e ci venne addosso facendoci sbattere contro il guardrail. Tuo padre istintivamente si buttò su di me cercando di proteggermi e ci riuscì, ma lo stesso non fu per lui. Morì sul colpo mentre a me si maciullò la gamba. Non ho mai amato nessuno, fatta eccezione per tuo padre col quale però non ho mai fatto l’amore, ma molto probabilmente qualcosa di più profondo.» «Oggi hai fatto con me quello che avresti voluto fare con lui?» «No, con te ho fatto quello che sentivo fortemente di voler fare. Non lasciare che siano i rimorsi a colmare le assenze della tua vita, Flavio. Non abbandonarti mai» disse la donna osservando il ragazzo con occhi amorevoli, accarezzandogli dolcemente quel suo viso paffuto. Era molto strano ciò che Miranda gli raccontava, pareva surreale, ma forse era
giusto così. Per anni aveva vissuto con determinate certezze e ora, quelle stesse convinzioni, andavano a farsi benedire. La vita è davvero un miracolo, pensò sorridendo Flavio. «Non so più cosa pensare, né tanto meno che fare» affermò sconfortato il ragazzo. «A cosa ti riferisci?» «Beh, a tutto direi, ma in particolare a MJ. Non so davvero come comportarmi» rispose e tornò a fissare Miranda, «ero venuto da te per chiederti un consiglio. Aiutami ti prego!» La donna ristette per un attimo e poi cacciò fuori, preso chissà da dove, un foglio bianco ripiegato su se stesso e glielo porse. «Cos’è?» «Leggilo, è per te.» Flavio trasse dalle mani di Miranda il foglio e incuriosito lo lesse.
Come potrei mai ringraziarti per quello che hai fatto, davvero non saprei. Sono stata molto fortunata a incontrare una persona buona e giusta come te, ma ora e per fortuna ho necessità che la mia piccola bambina torni da me, dalla sua mamma. Vieni al bar, aspettami nel bagno. Sarò presto lì. D.M.
Alzò lo sguardo dal foglio con la speranza di cercare risposte nel volto di Miranda la quale gli sorrise dolcemente. La donna della lettera chiedeva di poter nuovamente abbracciare la sua creatura e lui doveva ancora una volta accondiscendere alle sue richieste. Era la cosa giusta da fare, era la soluzione all’intrigo che quella storia stava prendendo. Forse c’erano altri interrogativi da risolvere e uno dei tanti era perché quella lettera l’avesse Miranda, ma si sa che i sogni sono inconsistenti e sconclusionati, non per forza ci deve essere uno
sviluppo razionale in quel che accade, Flavio non lo sapeva, ma si comportò come se lo sapesse. «Credo che io debba andare» affermò il ragazzo, «c’è qualcuno che mi aspetta con ansia.» «Lo credo anch’io» rispose Miranda ancora avvolta dal profumo di gelsomino, ma i suoi capelli erano ormai asciutti e voluminosi. «Fai presto, una mamma non vede l’ora di poter riabbracciare la propria figlia. Non puoi tardare a quest’appuntamento.» Flavio mosse il capo in senso di approvazione e porse nuovamente il pensiero alla sua di mamma. Di seguito baciò castamente Miranda e si apprestò a onorare il suo impegno. Poi, vi fu una dissolvenza.
La porta del bar si aprì leggera sotto la pressione della spinta di Flavio. S’immaginò di vedere i soliti ospiti di quel luogo nei loro rispettivi posti, nei loro medesimi ruoli, ma sorprendentemente non vi era nessuno. Il locale era completamente deserto, ammobiliato come sempre, ma completamente vuoto. Nell’aria risuonava una canzone che il ragazzo conosceva appena, era una vecchia canzone che la sua mamma amava ascoltare e, spesse volte, nel mentre la sentiva, l’aveva vista piangere. Era una canzone italiana di quel gruppo dal nome strano, un nome che aveva a che fare con il pane, il forno o qualcosa del genere. Ecco, ora ricordava: la Premiata Forneria Marconi e la canzone che in quel momento le casse buttavano fuori era Impressioni di settembre. Il motivo gli era familiare, ma le parole erano a lui sconosciute, non le aveva mai memorizzate. MJ tra le sue braccia sembrava sorridere, sembrava le pie quella canzone e allora anche lui fu contagiato dalla stessa serenità della piccola bambina. Osservandola ancora e forse per l’ultima volta, costatò che davvero quella creatura fosse qualcosa di meraviglioso, d’estatico. Non aveva mai ragionato sulla bellezza dei neonati, forse perché quasi mai ce n’era stata l’occasione, ma MJ gli risultava un essere speciale capace di rendere tenero anche il più duro dei cuori perché, ne era convinto, nessuno sarebbe stato in grado di rimanere indifferente di fronte a uno spettacolo del genere. Occhi luccicanti, quelli della piccola, erano fissi su di lui che cercava di sorriderle dolcemente e faceva delle facce buffe con l’intento di divertirla. La bambina, difatti, se ne rallegrava.
Flavio si destò da quell’attimo di onirica venerazione per volgere nuovamente l’attenzione all’ambiente che lo circondava e ora, improvvisamente, dietro il bancone faceva capolino Valerio che, come il solito, s’impegnava a rendere lucidi dei bicchieri che probabilmente mai lo sarebbero divenuti. Alzò leggermente il capo quando vide il ragazzo e lo salutò con un semplice gesto dello stesso per poi inclinarlo di nuovo verso il basso a osservarsi le mani e il lavoro che stava compiendo. Flavio si strinse tra le spalle offrendo la giusta risposta all’assurdità di quei momenti. I sogni ano lenti come ore, giorni, settimane o addirittura mesi, ma non sono altro che piccoli frammenti, frazioni di attimi, pochi secondi nei quali la mente vola via dalla sua gabbia e migra in ogni direzione possibile esulando da schemi e costrizioni. Nei sogni viviamo la nostra vera identità e lo facciamo inconsapevolmente, come se fosse reale senza porci troppi interrogativi, magari vivendo le situazioni da noi create con diversi stati d’animo, ma di reale non vi è nulla se non per l’appunto, le emozioni provate. Così Flavio viveva quei momenti, stringendosi tra le spalle e andando spedito verso il suo obiettivo, verso la meta designata seguendo esclusivamente il proprio istinto e dando spazio ai sentimenti, all’impulso e non di certo alla ragione. Si diresse verso la porta del bagno, abbassò la maniglia e questa volta, senza l’ausilio della chiave, si aprì dolcemente senza emettere alcun rumore. Un forte odore di candeggina gli fece arricciare il naso e stringere per un secondo gli occhi, Valerio stavolta c’aveva dato giù duro, penso tra sé. Istintivamente poggiò la mano a coprire la bocca e il naso di MJ per evitarle il medesimo impatto. Il piccolo bagno era angusto e più stretto di come lo ricordava. Le pareti parevano soffocarlo e stringersi, rendendo il tutto piuttosto claustrofobico. Il lavandino con lo specchio gli era proprio dirimpetto, ma sotto di esso non vi era più la cesta che poco tempo prima (ore, giorni, settimane?) conteneva la piccola MJ che allora non sapeva ancora di chiamarsi in quel modo. Alla sua destra una porta di legno lo separava dal piccolo stanzino nel quale era presente il water circondato da pareti ironicamente e volgarmente griffate. Si domandò se doveva aspettare lì in piedi oppure entrare in quello stanzino; la donna nella sua lettera affermava che sarebbe arrivata in breve tempo, ma il tempo si sa, non è nient’altro che una concezione personale. MJ si era nuovamente appisolata e al ragazzo cominciarono a stancarsi le gambe ed ebbe il desiderio di sedersi quindi optò per il piccolo stanzino. Entrando si chiuse alle spalle la porta e, abbassando il coperchio del water, si sedette su di esso. Le pareti erano proprio come le ricordava: tutte colorate da delle scritte ora buffe, ora volgari ma pur sempre pronte a far compagnia a chi doveva, per forze maggiori, trascorrere in quel
luogo del tempo più o meno breve. Sistemò la neonata sulle sue gambe e, portandosi le mani incrociate dietro il capo, si poggiò alla parete alle sue spalle stiracchiandosi i muscoli della schiena. Chiuse gli occhi un momento e pensò all’attimo in cui avrebbe dovuto dire addio a quella piccola creatura che ora, morbidamente, dormiva sulle sue gambe. Provò tenerezza e un forte senso di protezione, proprio lui che non era altro che un adolescente e per di più speciale; viveva fortemente quello stato d’animo quasi paterno nei confronti della bambina. I pregiudizi mossi nei suoi confronti non avrebbero mai ammesso o concepito una simile situazione, per tutti gli altri era molto più semplice affermare che fosse una persona da compatire e da osservare con occhi caritatevoli, trattandolo come un diverso. ettini delicati, leggeri ticchettii sul pavimento esterno al luogo nel quale si trovava, lo destarono da quel suo attimo di riflessione. «Flavio, sei lì dentro?» fece una voce di donna a lui completamente sconosciuta. «Sì, sono qui» rispose supponendo fosse la mamma di MJ, «sei la mamma di MJ?» le chiese successivamente. «Di MJ?» chiese curiosa la voce all’esterno. «Se ti riferisci a Jahzara allora sì, sono la sua mamma.» «Allora è così che ti chiami, Jahzara?» affermò Flavio osservando la piccola ancora sdraiata sulle sue gambe e supponendo che quel nome le si addiceva molto di più. «Credi di rimanere lì dentro per tutto il tempo o pensi di venir fuori prima o poi?» domandò la mamma di Jahzara. «Oh sì, esco subito» rispose il ragazzo affrettandosi a uscire. Aprendo la porta Flavio pensò di trovarsi di fronte una donna di colore corpulenta e dal seno grosso, ma quella donna tutto era fuorché ciò che aveva immaginato. Per osservala negli occhi dovette reclinare vistosamente il capo verso il basso dove al suo cospetto si palesò una nana dai tratti somatici asiatici e con indosso un tutù rosa da ballerina. «Oh, mia dolce Jahzara!» disse la donna nell’osservare la piccola bambina e protese le braccia per poterla afferrare. Flavio ristette un attimo, ma poi cedette
quando vide che la bambina, nell’udire la voce della donna, si destò dal suo docile sonno e sorridendo cominciò a sgambettare osservando con occhi sgranati la sua mamma. Delicatamente la donna portò al suo viso quello della piccola e chiudendo gli occhi, dolci lacrime scesero lungo le sue gote. Fece un dolce e meraviglioso balletto e le pareti luride e incolori di quel modesto bagno, mutarono in alte mura finemente decorate. La stanza si allargò e divenne un salone ottocentesco che aveva al soffitto sofisticati e brillanti lampadari. Sul fondo della stanza un’orchestra suonava un valzer viennese e le due figure femminili occupavano il centro della sala muovendosi a ritmo di musica, vorticando su loro stesse. Che bello, pensò Flavio guardando estasiato tutt’intorno, accarezzando con lo sguardo i ghirigori dorati presenti sulle colonne ai lati della stanza; dalle enormi finestre s’intravedeva una luna tonda e splendente. Loro due ballavano e giravano, due i a sinistra e due a destra, poi di nuovo un giro intorno. La donna sorrideva e piangeva insieme, evidentemente felice di ciò che stava vivendo, Jahzara emetteva dei gridolini felici e Flavio sorrise con lei. Di seguito tutto tornò com’era nel preciso istante in cui la donna smise di ballare. Le pareti fatiscenti, il lavandino e il lurido specchio tornarono al loro posto. «Grazie Flavio, grazie infinite per quello che hai fatto» affermò la donna facendo una carezza sul viso del ragazzo. «Sapevo perfettamente che potevo fidarmi di te e della tua infinita bontà, non ho titubato un minuto» aggiunse con occhi bonari. Flavio sollevò di nuovo le spalle e non disse nulla, forse imbarazzato da quelle parole. «Credi che sia tanto normale ciò che hai fatto? Io suppongo di no» sovvenne la donna, «molti al tuo posto avrebbero lasciato questa mia piccola creatura al suo destino e invece tu no. Tu ti sei preso cura di lei, anche se non sapevi affatto chi fosse e ora l’hai riportata qui da me, rendendomi il mio pezzo di cuore mancante.» «Ho fatto quello che pensavo fosse giusto, tutto qua» rispose quasi giustificandosi. «La tua grandezza risiede proprio in questo: hai fatto qualcosa di bello, di giusto in un mondo brutto e malsano e lo hai fatto con tutta la naturalezza possibile. Sei davvero una persona speciale.»
Flavio rimase fermo a osservare quella mamma e la sua bambina l’una completamente differente dall’altra, ma allo stesso tempo pensò che niente era più azzeccato di quel connubio. Aveva alcune domande da porle, ma solo una gli venne da chiederle: «Perché tutti la vedevano come fosse un cane?» e posò dolce lo sguardo sul tenero viso della bambina. La donna sorrise amaramente e al contempo un’espressione ironica le si pose sul suo viso minuto, facendole socchiudere maggiormente quei suoi occhi stretti e sottili, tipici degli asiatici. «Perché al mondo sono poche le persone che osservano con il cuore e di più quelli che lo fanno con la mente e i suoi pregiudizi. Come ti dicevo, il mondo è corrotto, è bruciato, è cattivo e ahimè fin troppo cinico e razionale. Solo coloro i quali hanno la forza, il coraggio e la bellezza di poter vedere il mondo con sguardo supplichevole e giusto, possono capire le bellezze nascoste in esso. Tu hai visto una vita da salvare, una dolce creatura d’amare mentre le altre persone hanno osservato in te un ragazzo folle che delirava, ma ben sapendo che invece sei tutt’altro. Sei una persona buona che si è apprestata a compiere un gesto che loro per primi avrebbero evitato; nessuno ormai s’impegnerebbe ad agire allo stesso modo perché è molto più semplice l’indifferenza, il menefreghismo rispetto all’impegno che l’amore verso l’altro comporta. Ormai siamo tutti ciechi di fronte alle difficoltà degli altri poiché pensiamo solo ai nostri bisogni, alle nostre necessità e così facendo diventiamo sempre più grigi e vuoti. Ci vorrebbero più persone speciali come te, su questo mondo» di seguito la donna si avvicinò a Flavio e, mettendosi sulle punte dei piedi avvicinandosi al viso del ragazzo, gli diede un tenero bacio sulla guancia. Poi si voltò e andò via. Flavio sembrò per un attimo stordito, un velo di brividi lo attraversò e con esso una specie di capogiro. Di seguito vi fu solo una lenta dissolvenza e tutto ebbe fine.
Secondo sogno. Ancora sotto anestesia
Dissolvenza.
Katrina era seduta sul suo sedile con le cinture ben allacciate e fissava sorridendo i eggeri della prima fila. Al suo fianco Celine, nella medesima posizione, regalava lo stesso trattamento ai medesimi eggeri. Il comandante aveva da poco annunciato che si stavano apprestando ad atterrare sulla pista dell’aeroporto di Ciampino dove ad accoglierli ci sarebbe stata una temperatura pari a venti gradi e un bellissimo sole primaverile. L’aereo fece qualche sobbalzo evidentemente infilatosi in un vuoto d’aria e le due h si scambiarono un leggero sguardo per poi rivolgersi ancora, più sorridenti, ai eggeri i quali le osservarono impauriti. «Don’t worry, it’s okay» rassicurò loro Katrina, la quale aveva ormai collezionato più di cinquemila ore di volo e sapeva riconoscere quei movimenti che stava compiendo l’aereo e cercava, con la sua esperienza, di trasmettere ai eggeri la sua stessa tranquillità. Il signore obeso che si trovava sul sedile di fianco al finestrino cominciò a sudare copiosamente e con un fazzoletto cercò di tergersi il sudore sulla fronte. Era visibilmente impaurito. Celine, anche se sapeva che non era affatto professionale, trattenne a stento un sorriso che fu prontamente ammonito dallo sguardo severo della sua collega più adulta, ma quell’uomo era stato inopportuno e fastidioso con le sue richieste per tutto il volo e quindi ora si godeva la sua rivincita. In poco tempo l’aereo sorvolò il quartiere Cinecittà di Roma, la periferia capitolina e il piccolo centro di Ciampino per poi apprestarsi all’atterraggio sulla pista dell’aeroporto a loro riservata. L’atterraggio fu molto delicato e lo stridere delle gomme sull’asfalto fece intuire a tutto l’equipaggio l’effettivo contatto col suolo. A quel rumore i eggeri sciolsero la loro tensione con un sonoro applauso. Katrina, per quanto la sua esperienza di volo fosse consistente, non riusciva ancora ad abituarsi a quella curiosa abitudine che avevano i eggeri e
soprattutto gli italiani i quali, secondo la sua opinione, mostravano con quel gesto la loro scarsa fiducia e di fatti li riteneva fondamentalmente dei malfidati. Ma al contempo tirò anche lei un sospiro di sollievo per essere ancora una volta arrivata a destinazione senza alcun problema serio. Il pilota stava ancora percorrendo la pista di atterraggio per arrivare al punto in cui potersi fermare. Il segnale luminoso sopra le varie postazioni indicava ai eggeri di non slacciare le cinture di sicurezze e di non alzarsi, ma qualcuno pensò bene di anticipare i tempi per guadagnare terreno rispetto agli altri e si alzò. «I’m sorry mister, but you can’t get up» ammonì fermamente Celine, rivolgendosi a colui il quale cercava di posizionarsi al centro del corridoio. L’uomo sembrò sorpreso e molto probabilmente non capì cosa la donna gli stesse reclamando, ma lo intuì osservandole il viso rabbuiato e tornò a sedersi. I soliti italiani, pensò Celine e con la mente vagò a quell’immagine in cui Berlusconi, nella foto ufficiale di tutti i capi di stato durante il vertice dell’Unione Europea, gaiamente faceva le corna come uno scolaretto nel ritratto di classe. Pensò a quella sua facciotta paffutella e a quel sorriso sornione e se la figurò posata su ognuno di quei eggeri: gli italiani erano davvero tutti uguali. Si tolse dalla mente quel pensiero e tornò a concentrarsi sul suo lavoro. Ancora poco e avrebbe potuto riposare qualche ora prima del rientro a Dublino, magari avrebbe trascorso quel tempo in compagnia di Daniel, il secondo pilota. Ci sperava fortemente anche perché erano trascorse ormai diverse settimane dall’ultima volta che avevano fatto sesso e d’allora c’erano stati solo sguardi di circostanza. L’aereo si arrestò e il comandante ringraziò i eggeri per aver viaggiato con la loro compagnia e salutandoli con un arrivederci al prossimo volo. In stereofonia cominciò a suonare Blowin’ in the wind di Bob Dylan e i eggeri sorridenti iniziarono, disordinatamente, ad apprestarsi ad alzarsi dai loro posti per raggiungere l’uscita. Tutti, in modo confuso, si muovevano e cercavano di uscire dall’aereo a parte il signore della sesta fila, posto finestrino. Se ne stava lì rannicchiato e sembrava dormisse. Katrina se ne accorse e, dopo aver salutato tutti i eggeri, gli si avvicinò. Una volta raggiuntolo, ferma nel corridoio, lo osservò un secondo inclinando leggermente il capo di lato e le parve che davvero dormisse serenamente. Provò a scuoterlo delicatamente e, al primo contatto, l’uomo assunse immediatamente la posizione eretta e con occhi strabuzzati e pieni di sonno, la osservò interdetto. «Mi scusi signore, ma siamo giunti a destinazione» annunciò la hostess in
inglese, «siamo da poco atterrati a Ciampino e ad aspettarla c’è la navetta che la porterà all’interno dell’aeroporto.» L’uomo pareva fosse giapponese per i tratti del viso tipici delle persone asiatiche, ma allo stesso tempo non erano molto marcati, erano quasi ammorbiditi. La osservava con sguardo intontito come di chi si è appena destato da un lungo e pesante sonno. Trasse un profondo respiro e si stropicciò gli occhi. La sua giacca e la camicia erano totalmente sgualcite e i capelli, sulla nuca, assumevano una forma strana, scarmigliata. Alla donna fece tenerezza. «Perfetto, la ringrazio» rispose l’uomo in un inglese quasi perfetto, leggermente macchiato dall’intonazione italiana, forse toscana. Poi si ricompose e ò oltre i due sedili che lo separavano dal corridoio. La donna si fece da parte per lasciargli libero il aggio; l’uomo, una volta in piedi, si diede una sistemata dopo di che prese una piccola borsa dalla cappelliera posta sopra i sedili e, salutando la donna, si apprestò anch’egli a uscire. Un sole abbacinante lo accolse nell’attimo in cui uscì dal portellone dell’aeroplano e cercò di fendere con la mano quella forte luce, così da proteggersi gli occhi ancora assonnati. Inforcò degli occhiali da sole e percorse la scaletta che lo avrebbe condotto a terra dove lo aspettava la navetta. Scese quei pochi gradini con o deciso a dispetto del sonno che ancora lo ottenebrava e in pochi attimi si trovò ammassato in quel piccolo pulmino, con addosso non solo i corpi degli altri eggeri, ma anche i loro sguardi duri poiché infastiditi dall’attesa dovuta a quel suo ritardo. L’autista li trasportò per quelle poche centinaia di metri e, arrivato a ridosso dell’entrata dell’aeroporto, aprì le porte e i eggeri scesero disordinatamente. L’uomo aspettò che quella fiumana di gente defluisse e poi, per ultimo, scese dalla vettura. Il piccolo aeroporto lo accolse con una tranquillità comata: nella sala del recupero bagagli c’erano pochi viaggiatori, molto probabilmente vi erano solamente coloro i quali avevano viaggiato con lui. Notò che tutti erano attorno a un nastro trasportatore che lentamente gettava fuori bagagli, ma lui non aveva alcuna voglia di starsene lì a spintonarsi con gli altri per recuperare la sua valigia e quindi si diresse al bagno. ò per un attimo di fronte allo specchio, ma non volle vedersi e quindi andò diretto all’orinatoio. Posò a terra la borsa che aveva tra le mani e tirò giù la lampo dei pantaloni. Lì in piedi si sentì come di fronte a un plotone di esecuzione e chiuse gli occhi reclinando il capo all’indietro. In breve vi fu il rumore dell’acqua che cominciò a scorrere mischiandosi col giallo della sua urina. La mente gli si annebbiò per il sonno arretrato che, come una
morsa, lo attanagliava tanto da stordirlo. Non aveva chiuso occhio la notte precedente e solo all’ultimo momento era riuscito a prendere quel volo per l’Italia, il primo a disposizione. L’effetto della droga era quasi svanito, ma si sentiva ancora frastornato e poco padrone di se stesso. Si tirò su la lampo e si diresse al lavandino dove lo specchio lo aspettava inesorabile. Poggiò gli occhiali da sole sul ripiano di marmo e si sciacquò le mani e il viso, quest’ultimo più volte ed energicamente. Osservò l’uomo nello specchio che, con occhi più sottili del dovuto, lo guardava con sufficienza. «Guardati, hai un aspetto pietoso» asserì l’uomo dello specchio, ma non gli badò, anche se non poteva di certo biasimarlo. Il suo viso era terribilmente emaciato e dalle piccole fessure dei suoi occhi, venivano fuori due bulbi iniettati di sangue. Si asciugò il viso e diede una ravviata ai suoi sottili capelli; un velo di barba gli copriva il volto e ciò lo infastidì giacché era solito radersela tutte le mattine. Con le mani cercò di dare una stirata alla giacca e una sistemata al bavero della camicia, ma parvero gesti vani. «Credi che bastino per sistemarti?» l’uomo allo specchio tornò ad ammonirlo. «Sei convinto che l’apparenza possa ingannare o soprattutto ingannarti? Guardati, sei corrotto dentro.» L’uomo rimase immobile per alcuni attimi, poi arricciò il naso in senso di raccapriccio. «Fottiti, sfigato» rispose sibillino, di seguito inforcò gli occhiali, si chinò per raccogliere la borsa e uscì dal bagno. Sul nastro trasportatore vi era un solo bagaglio e nessuno lì attorno. Riconobbe subito in quel piccolo trolley il bagaglio che aveva con sé per quel viaggio. Lo tirò via dal nastro nel momento in cui gli ò davanti e si apprestò a raggiungere l’uscita. Le sue scarpe Edward Green calpestarono tutto il corridoio e lo portarono all’esterno dell’aeroporto. Il sole era alto e faceva sentire forte i suoi raggi, l’umidità di Roma era quasi insopportabile anche in quel periodo dell’anno: rimpianse il suo ato londinese. Cercò con lo sguardo il parcheggio dei taxi e lo raggiunse. «È libero?» domandò al tassista poggiato contro la vettura, mentre era intento a leggere un giornale che presto chiuse e ripose all’interno dell’auto. «Certo dottò» rispose quello con forte accento romano, precipitandosi subito ad afferrare il trolley dell’uomo per collocarlo nel porta bauli. L’uomo entrò nella
vettura tenendo con sé la borsa, si sedette sul sedile posteriore e attese che il tassista fe il suo ingresso. L’auto profumava di fresco e questo gli piacque a discapito però dell’autoradio accesa su un canale sportivo dove due tizi, sempre in romanesco, s’infervoravano sui risultati poco felici della squadra di calcio cittadina. «Dove la porto, dottò?» esordì il tassista entrando. «A Roma, in via dei Coronari al civico quindici» rispose telegrafico l’uomo e si ò la mano sulla fronte velata di sudore. «Perfetto» fu il commento del tassista che si avviò spedito. Dagli altoparlanti della vettura veniva fuori il chiacchiericcio di una trasmissione calcistica alla quale, imperterriti ascoltatori, partecipavano telefonicamente argomentando le loro riflessioni sugli accadimenti della settimana. L’uomo, quei discorsi, non li soffriva affatto. Il tassista mosse il capo in senso di approvazione ascoltando le parole di rimprovero pronunciate dal presentatore radiofonico e, osservando il suo eggero dallo specchietto retrovisore, affermò: «È un periodaccio per la squadra, speriamo che si riprenda. Il problema è sempre uno: i calciatori guadagnano troppi soldi e quindi nun je frega niente de corre in campo. Pensano solo a fa la bella vita e la domenica c’hanno le gambe de legno» e continuò a guardare l’espressione dell’uomo dallo specchietto e, notando la sua indifferenza, aggiunse: «Lei dottò, non lo segue il calcio?» «No, affatto. E le sarei grato se spegnesse la radio e mi lasciasse in pace: sono appena arrivato da un viaggio piuttosto faticoso» pronunciò seccato l’uomo con il volto sempre rivolto al finestrino alla sua destra. Il tassista capì l’antifona, spense la radio e il suo viso assunse un’espressione di sincera e ingenua incomprensione. Ah, ‘sti ricchi, sempre con la puzza sotto il naso, pensò sdegnato il tassista e tornò a concentrarsi sulla guida. L’uomo, seduto sul sedile posteriore, cominciò ad avvertire un lieve mal di testa e così iniziò a massaggiarsi le tempie con le dita, sperando che quel gesto potesse arrecargli sollievo. La via Appia sfrecciava veloce davanti ai suoi occhi; il traffico non era intenso e nel giro di una mezz’ora sarebbe arrivato a casa. Già si immaginava immerso nella sua vasca idromassaggio, ne aveva un gran bisogno anche perché si sentiva piuttosto sporco e appiccicaticcio. Percorsero la via
Appia in breve tempo, incrociando poche volte il rosso dei semafori; costeggiarono la basilica di San Giovanni, poi svoltarono su via Labicana e di seguito ai loro occhi si palesò il Colosseo a dar loro il benvenuto. La città eterna la definiscono, pensò l’uomo con il mal di testa che si faceva velocemente più intenso, ma di eterno vi è rimasta solo la sua immobilità. Il resto del mondo cresce, le capitali europee diventano sempre più internazionali e qui, invece, sono ancora allo stato di emergenza dopo un forte acquazzone, e si trovò a rimpiangere i suoi trascorsi parigini. Attraversarono via dei Fori Imperiali e Piazza Venezia, percorsero Corso Vittorio Emanuele e poco dopo imboccarono la piccola via dove abitava. Il taxi si muoveva lento su quei sampietrini ballonzolando leggermente e arrestò il suo percorso dirimpetto al civico dall’uomo indicato. Il tassista non disse una parola, uscì dall’auto per recuperare il bagaglio del eggero e attese che scendesse. Una volta fuori dalla vettura, l’uomo afferrò il trolley e, pagando la corsa, disimpegnò il tassista il quale lo salutò garbatamente. Nell’androne del palazzo ci fu il portinaio ad accoglierlo porgendogli gli auguri di una buona giornata e rassicurandosi che il suo viaggio fosse stato buono. L’uomo ringraziò e rassicurò Roberto pregandolo di non far accedere nessuno al suo appartamento, egli acconsentì alla sua richiesta e prontamente chiamò l’ascensore che in breve tempo si aprì di fronte ai loro occhi. Ancora un augurio di buona giornata da parte del solerte Roberto, le cui parole morirono tra la chiusura automatica della porta dell’ascensore. Le porte si riaprirono al quinto piano mostrandogli un semplice pianerottolo con un solo portone, quello di casa sua. Poco distante dall’entrata vi erano due vasi contenenti entrambi la stessa pianta: la Gloriosa. Quelle piante dai petali di colore giallo e arancione, erano un regalo dell’ambasciatore dello Zimbabwe quando, due anni prima, recatosi in Africa per affari, aveva avuto modo di trascorrere del tempo con quell’uomo che risultò una splendida persona e non di meno un eccellente anfitrione. Gli aveva mostrato lati interessanti di quello Stato e, quando gli fece vedere quella pianta, ne rimase estasiato e apprese, successivamente, essere la pianta simbolo nazionale. Erano però molto delicate, avevano bisogno di cura e del giusto influsso solare e, dall’aspetto che avevano e dai raggi del sole che filtrando dalla finestra le avvolgevano delicatamente, era chiaro che Roberto se ne fosse occupato con diligenza. Pensò che per le festività di Pasqua avrebbe dovuto fargli un cospicuo regalo, se lo meritava. Si avvicinò al portone d’ingresso e digitò sulla tastiera il codice per l’apertura.
Un rumore metallico segnalò l’apertura della porta blindata e l’uomo la spinse delicatamente per entrare. L’aria era fresca poiché tenuta sempre alla giusta umidità dal programma di deumidificazione. Chiuse la porta dietro di sé facendo scattare la serratura, di seguito maneggiò con la tastiera posta sul muro alla sua sinistra la quale attivava il computer collegato alle varie funzioni della casa e in breve, una leggera musica, si diffuse tutto intorno mentre la Jacuzzi nel bagno entrò in funzione. Era una casa piuttosto futuristica per i canoni poco elevati del resto della popolazione, ma non così tecnologicamente avanzata rispetto a quelle che aveva avuto modo di osservare in giro per il mondo. A progettarla era stato lo stesso architetto della favolosa villa di Lionel Richie a Los Angeles nella quale aveva soggiornato per un week end cinque anni prima e della quale si era perdutamente innamorato tanto da farsi indicare, dal famoso cantante, il nome di colui il quale l’aveva progettata. Era stato piuttosto complicato rendere quell’appartamento secolare un’abitazione moderna, se non futuristica. Tutta la casa era gestita da un computer al quale poteva impartire comandi, anche se si trovava all’altro capo del mondo. «È più avveniristica di quella di Lionel» gli aveva confidato Vladimir, l’architetto russo, una volta terminati i lavori mentre bevevano vino bianco nella sua nuova cucina, «e per non contare che questa casa si trova nella città più bella del mondo, mentre la sua è a L.A. nella finzione più totale, ma non dirglielo per carità, lo sai quanto è competitivo» concluse Vladimir facendosi una grassa risata. Sul gas una teiera era già con l’acqua in ebollizione; l’uomo posò la piccola borsa e il trolley, gettò la giacca sul divano e si apprestò a versare l’acqua calda in una tazza nella quale immerse una bustina di tè. Nell’attesa che si freddasse, ingoiò una compressa di Alka-Seltzer per alleviare il suo mal di testa che imperterrito non lo mollava. Gettò via le scarpe da cinquecento euro, togliendosele con i piedi e sorseggiando l’infuso si diresse al bagno, dove la vasca idromassaggio lo attendeva con le sue bolle d’acqua. Una dolce musica di pianoforte risuonava nelle casse presenti in ogni stanza della casa, le dita del pianista avano leggere sui tasti mutando quei piccoli bastoncini bianchi e neri, in feticci capaci di rendere animato ciò che non lo era: tramutare l’aria in un suono melodioso. Yiruma metteva in musica la sua River flows in you e l’uomo, immerso nella vasca idromassaggio, con la tazza di tè in mano, ne godeva amabilmente. Ascoltando la delicatezza di quelle note pensò alla fragilità, ma non a qualcosa in particolare, ma alla fragilità stessa. I
sentimenti sono fragili, l’amore anche lo è e pensò a se stesso: in molti lo avrebbero descritto come un uomo deciso, ma intimamente non lo era. I suoi occhi, che un momento prima erano fermi, ora parevano scossi da un breve tremolio. Pensò a sua sorella e a quanto dolesse in lui quella sua scomparsa. Il pianista suonava imperterrito ed egli si sentì fragile. Tutti in fondo lo sono, pensò l’uomo, tutti hanno stampato addosso la scritta: manovrare con cura; tutti mettono in mostra l’elmetto per nascondere la paura; tutti sanno piangere, ma nessuno è in grado di ammetterlo. E pianse. In seguito reclinò il capo all’indietro e chiuse gli occhi; il torpore conseguente allo scomodo viaggio e ai residui del crack ancora presenti nelle sue vene, stavano lentamente scomparendo. Era stato costretto a salire su quell’aereo di una compagnia low cost, poiché era arrivato tardi all’aeroporto e, proprio lui che aveva sempre viaggiato con voli di linea in business class, si era trovato oppresso su di un sedile duro e piuttosto ravvicinato a quello davanti, ma le poche ore di sonno e l’enorme quantità di droga fumata, l’avevano tramortito e fatto crollare in un sonno profondo e agitato. Ricordava ben poco della nottata precedente, ne aveva una visione frammentata e fumosa, come se quei ricordi fossero stati avvolti da una fitta nebbia che poco o nulla lasciava trapelare. La sua mente faceva cilecca e questo lo innervosì. Non era solito fare uso di droghe proprio perché non voleva che il suo raziocinio scivolasse via dalla sua volontà; rabbrividiva all’idea di non essere stato padrone di se stesso e di conseguenza non avere memoria di quello che gli era accaduto. Scosse il capo in senso di diniego, aprì gli occhi e guardò il soffitto dove vi era attaccato un grande specchio che rifletteva la sagoma di un uomo dal viso piuttosto pallido, immerso in una vasca con della schiuma a celare il suo corpo nudo. L’uomo nello specchio lo fissò con un’espressione di rimprovero e di disapprovazione. «E tu saresti l’uomo tutto d’un pezzo? Colui il quale si trova all’apice della piramide di una delle aziende più importanti dell’intero continente?» asserì con rimprovero l’uomo nello specchio, mentre le sue carni si ammorbidivano tra i massaggi di bolle d’acqua. «Tu che non accetti compromessi e hai la morale ben salda, saresti tu colui il quale tutti osservano con timore reverenziale? Beh, guardati, sei un fallito. Non sei stato nemmeno in grado di trovarla.» L’uomo immerso nella vasca, col mento all’insù, osservava l’altro se stesso riflesso e nell’udire quelle parole, rispose in modo sibillino: «Lasciami stare, stronzo!» e immerse il capo sotto l’acqua. Dal naso gli venne fuori un fiotto di sangue e, la tinta chiara dell’acqua, divenne rossa immediatamente.
Aveva già avuto modo di recarsi in altre occasioni a Dublino e, sin dalla sua prima visita, non aveva riscontrato grande interesse per quella città. Non era per nulla affascinato dalla capitale irlandese, né dai suoi monumenti né dall’architettura che ne caratterizzava i palazzi e le varie strade. Vi aveva soggiornato pochi giorni e sempre per questioni lavorative; se pure fosse stato in grado di saper parlare un inglese impeccabile - ascoltandolo si sarebbe tranquillamente potuto definirlo madre lingua - gli rimaneva incomprensibile lo slang utilizzato dagli irlandesi. Pensava a loro come a un popolo di ubriaconi e pecorari, ma gli affari sono affari e non si guarda in faccia a nessuno, purtroppo i soldi non hanno odore, si ricordava spesso. Aveva fatto affari con la Corea del Nord e con altri Paesi nei quali la democrazia e la libertà dei propri cittadini erano mere utopie, ma lui non poteva cambiare di certo il mondo, lui era su quel pianeta solo per aiutare a farlo girare. Lavori, scambio d’interessi e profitti per la propria azienda e, di conseguenza, impiego per i propri dipendenti, questo era il suo apporto per far sì che quel pianeta potesse imperterrito proseguire nel suo quasi eterno roteare, il resto lo lasciava ad altri, con risultati meno positivi di quanto ci si potesse attendere. Ma poi, in fondo, aveva capito che ogni Stato si sentiva nel giusto e cercava come poteva di portare avanti la propria battaglia con l’intento di essere rispettato e non ignorato dal resto del mondo. Ricordava bene le parole che il presidente degli Stati Uniti d’America gli disse una volta in un breve colloquio personale. Gli posò la mano sulla spalla e con una faccia bonaria, ma al contempo ferma e decisa Obama gli disse: «Vede signor Fukamizu, per quanto i nemici degli U.S.A. possano anatemizzare contro questo meraviglioso Paese, il momento americano non è ancora ato. Respingo fermamente quei cinici che dicono che questo nuovo secolo non possa essere un altro in cui, con le parole di Franklin Roosvelt, guideremo il mondo nella battaglia contro il male e nella promozione del bene. Io credo ancora che l’America sia l’ultima e migliore speranza sulla terra.» A quelle parole rispose solo con un gesto di assenso del capo, ma se non erano frasi di sana onnipotenza quelle pronunciate dal presidente del Paese più democratico del mondo, allora cos’erano? E quel concetto, magari esposto in maniera diversa, lo aveva sentito pronunciare da piccoli e grandi capi di Stato più o meno legittimi, ma anche da dittatori da quattro soldi, deliranti di potere. Si era conseguentemente reso conto che in fondo tutti pensavano di aver ragione e si sentivano in dovere di farsi rispettare e perciò decise di dar adito al suo cinismo e non fare differenza, per ciò che riguardava il campo degli affari ovviamente.
Anche in quell’occasione, come nelle precedenti, aveva alloggiato nel Four Seasons Hotel, anche se si trovava un po’ fuori dal centro di Dublino, ma lo preferiva poiché non amava la zona centrale di quella città, soprattutto di sera. Bevevano molto gli irlandesi e diventavano molesti, perciò preferiva averci poco a che fare, standone alla giusta distanza. In quell’hotel si trovava benissimo, era uno dei migliori della città, ma ciò che amava maggiormente era la discrezionalità del personale: ligio al dovere e privo di slanci di confidenza non richiesta. Era arrivato in città con un volo in business class e all’aeroporto ad attenderlo c’era una vettura dell’hotel, solo per lui, che lo aveva condotto al suo alloggio. Aveva prenotato una delle migliori stanze, la 206, poiché vi aveva risieduto meravigliosamente la precedente volta in cui era stato lì. L’uomo ricordava benissimo il momento in cui aveva messo piede nell’albergo, la mancia elargita al facchino che gli avrebbe portato il piccolo bagaglio nella sua stanza, il benvenuto del direttore e la firma lasciata sul registro: Fukamizu Haruki. Aveva pagato anticipatamente con la carta di credito e chiesto gentilmente di farsi recapitare nella stanza un tramezzino al prosciutto e una spremuta d’arancia rossa. Se si fosse sforzato avrebbe potuto anche ricordare il sapore di quella pietanza che aveva ingurgitato una volta sdraiato sul letto della stanza 206, mentre a piedi nudi osservava la cartolina fautrice di quell’assurdo viaggio. Tre giorni prima del suo viaggio per Dublino, dopo una giornata ata a trattare con dei testardi piccoli imprenditori milanesi, arrivato a casa, il solerte Roberto gli aveva recapitato la posta personale. In generale se ne occupava la sua segretaria personale, ma c’era una determinata corrispondenza alla quale teneva particolarmente e perciò se la faceva recapitare direttamente alla sua abitazione romana. Tra quei piccoli pacchi e lettere varie notò, una volta poggiato tutto sulla scrivania del suo studio, una cartolina raffigurante uno scorcio di Dublino. La foto ritratta era piuttosto brutta, ma secondo il suo metro di giudizio nessuna sarebbe potuta essere definita in altro modo. Aggrottò le sopracciglia osservandola e la raccolse tra le dita. Osservò ancora una volta curioso quell’immagine e poi, facendola roteare tra l’indice e il medio, la esaminò posteriormente. La sorpresa fu grande quando lesse:
Lucciola, lucciola vien da me ti darò il pan del re; pan del re e della regina, lucciola, lucciola fiorentina. Lucciola, lucciola vieni abbasso, ti darò il
castagnaccio. Il castagnaccio di panìo, mezzo tu e mezzo io. Lucciola, lucciola vien da me, ti darò il pan del re; pan del re e della regina, lucciola, lucciola vieni vicina. N.
Impallidì nel leggere quella vecchia filastrocca che conosceva sin da bambino e che in tenera età recitava sempre in compagnia di sua sorella. Gliela aveva insegnato il loro papà, lui che a sua volta l’aveva imparata per acquisire maggiore dimestichezza con quella lingua talmente diversa dalla sua. Uomo di altri tempi e di antiche tradizioni era suo padre che, per mancanza d’altro, in compagnia di sua moglie incinta e con un bambino di pochi anni, era partito per l’Europa, per l’Italia. Firenze li aveva adottati quando di giapponesi ce ne erano ancora pochi in città e aveva donato loro una nuova cittadinanza. Suo padre si era dedicato a costruire un piccolo regno nella provincia toscana mettendo su uno dei primi ristoranti giapponesi e, proprio dal suo modo di lavorare, Haruki aveva appreso l’arte del commercio e degli affari. Si sentiva intimamente giapponese, ma dal cuore toscano e dalla mente cosmopolita. Grazie ai sacrifici della sua famiglia aveva potuto studiare e, merito del suo impegno, con una cospicua borsa di studi, aveva avuto modo di frequentare una delle migliori università londinesi. Merito di suo padre e della sua dottrina, se oggi poteva sentirsi fiero dell’uomo che era e per ciò che era stato in grado di creare. Però quella filastrocca e quella N come firma non lasciavano adito a interrogativi: a spedirgliela era stata di certo Natsumi, sua sorella. Era scomparsa da sei anni e intimamente la credeva ormai morta. L’acqua della vasca era sempre alla giusta temperatura e Haruki, ora di nuovo col capo riverso all’indietro, ma questa volta per fermare un’epistassi improvvisa, con la mente vagava a quel giorno e ciò che sentì accendergli dentro mentre stringeva tra le dita quella cartolina raffigurante una città a lui così indifferente, almeno fino a quel momento. Si era ormai arreso all’idea di non poter rivedere viva sua sorella, ogni notte tornava a coricarsi e volgeva un saluto a quella persona con la quale aveva condiviso l’infanzia e che tristemente supponeva di non poter più abbracciare; ma quante volte si era chiesto il perché di quella sua repentina scomparsa, perché quell’abbandono improvviso e soprattutto senza farne parola alcuna con lui. Erano sempre stati inseparabili, vivevano in simbiosi come fossero due gemelli, ma molto probabilmente erano
qualcosa di più, qualcosa che andava al di là di quel legame. Troppo era stato il dolore nello scoprire che lei, la persona e la donna più importante della sua vita, era scomparsa. Giorni di terrore e di attesa frenetica per una possibile telefonata di richiesta di riscatto, che però non arrivò mai. Gli occhi smarriti di sua madre confortati da uno sguardo non meno spaesato di suo padre: i due anziani genitori parevano non capire, non rendersi conto appieno di quello che stava accadendo. Le ore si accumularono ai giorni e poi alle settimane, così ai mesi e agli anni, ma di Natsumi non se ne seppe nulla. La polizia archiviò tutto brevemente come un semplice episodio di scomparsa e molto probabilmente consenziente, ma non lui, non Haruki il quale conosceva troppo bene la sua Nanà che mai se ne sarebbe andata così senza alcun motivo o semplicemente per un capriccio e negli anni si arrese all’idea che fosse morta: in che modo e per quale motivo non poteva davvero realizzarlo, ma non poteva essere viva, non sarebbe mai scappata da lui, non in quel modo. Però, il giorno che lesse quella cartolina, tutti i suoi pensieri e supposizioni crollarono immediatamente. Natsumi era viva e molto probabilmente era scappata e ciò che gli faceva male, era sapere che non lo aveva reso partecipe di quelle sue intenzioni. Perché, perché, perché? Si era domandato quasi impazzendo e stringendo forte quel pezzo di carta tra le mani. Non disse nulla a nessuno, né tanto meno ai suoi genitori ai quali avrebbe solo arrecato dolore se quella notizia si fosse rivelata un macabro scherzo di qualche idiota. Ma nel giro di pochi giorni partì per Dublino con l’intento di ritrovarla. Sarebbe stato capace di trovarla e portarla finalmente a casa perché sapeva benissimo che quella criptica cartolina non era altro che una richiesta di aiuto. Nemmeno ascoltò e tentò di scorgere l’uomo nello specchio posto sopra di lui che sicuramente lo avrebbe coperto di epiteti per quel suo fallimento, poiché il viaggio a Dublino si era rivelato infruttuoso, un buco nell’acqua. Aveva iniziato le ricerche immediatamente, anche se non sapeva bene da dove cominciare e quindi pensò di lasciare l’albergo e con un taxi raggiungere il centro della città. Si fece condurre al locale più in voga, dove si potesse ascoltare della buona musica poiché sua sorella era un’abituale frequentatrice di simili locali. Entrò nel Farewell Club sotto lo sguardo arcigno di due muscolosi buttafuori che in un primo momento non vollero farlo are, ma dopo aver loro elargito una cospicua mancia, divennero meno restii. Il locale era grande e già quasi interamente pieno. Nell’aria aleggiava l’olezzo di sudore di quella scalmanata marmaglia di bevitori che si dimenavano come fossero tarantolati. Haruki era sicuramente abituato a tutt’altro genere di locali, ma abbozzò poiché la missione che aveva intrapreso era solamente agli inizi. Si diresse, non con troppa facilità, verso il bancone il quale stranamente non era affollato e ordinò alla giovane
barista un Martini. Osservò nuovamente quella tribù in movimento e non li invidiò per nulla, ormai erano trascorsi i tempi nei quali anche lui si dimenava in quelle bolge di corpi trepidanti che sprizzavano vita da tutti i pori. Ormai era altro ciò di cui sentiva l’esigenza. Successivamente tirò fuori dalla tasca dei pantaloni una foto ripiegata di Natsumi di sei anni prima, scattata proprio alcuni giorni prima che sparisse, quando di anni ne aveva trentatré e sorrideva felice a lui che era dietro l’obiettivo e magari la prendeva in giro come spesso capitava. La barista richiamò la sua attenzione servendogli un piccolo calice contenente un liquido biancastro. Haruki lo prese e pagò, ma nel dare la banconota da dieci euro alla ragazza, le afferrò il braccio. La ragazza ristette e per un momento parve impaurita, ma l’uomo non le diede il tempo di esserlo veramente che subito le domandò: «Hai mai visto questa ragazza?» e le mostrò la foto che aveva nella mano. La ragazza scosse il capo e sfilò via decisa la sua mano dalla presa dell’uomo. «Mi spiace, ma lavoro da poco in questo locale e non mi è parso di vederla.» Haruki mosse leggermente il capo in senso di approvazione e la ragazza si congedò. L’uomo si sedette allo sgabello e affogò gli occhi in quel piccolo bicchiere. La musica attorno era fortissima, ma lui parve non udirla così come non sentì, in un primo momento, i commenti del ragazzo al suo fianco. «È così vero? Anche lei è qui per Fanny?» gli domandò quel ragazzo dal mento volitivo e dai bicipiti troppo grossi che parevano far esplodere la camicia che li conteneva, mentre con il capo faceva un piccolo gesto a indicare la ragazza nella foto poggiata sul bancone. Haruki lo osservò e poi guardò nuovamente sua sorella che gli sorrideva in una foto scattata ormai in un’altra vita. «Credo che lei si sbagli, la ragazza nella foto si chiama Natsumi e non Fanny» rispose l’uomo. «Oh, non so quanti altri nomi abbia, ma qui nei suoi spettacoli si faceva chiamare Fanny e mi creda, anche se è molto più coperta in quella foto che nei suoi spettacoli, la riconosco benissimo» disse sorridendo il ragazzo mentre un’espressione d’incomprensione si disegnava sul viso di Haruki. «Peccato che ormai non si esibisca più» aggiunse affranto. «Ma di che genere di spettacolo sta parlando?» domandò l’uomo con leggera preoccupazione.
«Lo scopra da sé, sta per iniziarne uno proprio adesso. Certamente la ragazza non sarà meravigliosa come Fanny, ma anche lei fa dei giochetti niente male» e si allontanò dirigendosi verso il fondo della sala dove era allestito un palco e, stringendo nella mano una bottiglia di birra, gli strizzò l’occhio in senso di complicità maschile. La musica era cessata e ora l’attenzione di tutti, sia uomini che donne, era rivolta a quel piccolo palco dove un cono di luce intensa attendeva la sua star. Una musica sensuale si riverberò nell’aria e una donna, in abiti succinti, fece il suo ingresso sul palco e fu immediatamente inondata di applausi e fischi goliardici. Era una bellissima ragazza dai capelli lunghi e sottili come spaghetti, tinti di un colore dorato molto probabilmente non naturale. Indossava solamente un perizoma e un piccolissimo reggiseno che a stento conteneva due prorompenti seni, ai piedi indossava un paio di scarpe dai tacchi vertiginosi, ma sui quali si muoveva con invidiata maestria da parte delle donne presenti nella sala. Il palco era spoglio, vuoto, fatta eccezione di un palo per la lap dance che brevemente divenne quasi un tutt’uno con la donna la quale si avvinghiò a esso e su di esso cominciò a roteare, iniziando una danza che per alcuni versi, all’uomo, parve dolce più che sensuale. La donna saliva e scivolava lungo la pertica metallica e reclinando il capo all’indietro, sfiorando con la sua chioma dorata il pavimento, attirava l’attenzione di tutti i presenti e pareva goderne. L’uomo cercò di osservare i volti delle persone che gli erano accanto e notò su di loro espressioni diverse, i loro occhi parevano tremolanti di attesa, come se ciò che stavano osservando era solamente un’introduzione al vero spettacolo. Haruki sembrava non cogliere appieno ciò che stava capitando e ancora non riusciva a trovare un nesso tra quella donna sul palco e sua sorella. Si domandò cosa voleva veramente affermare quel ragazzo quando gli aveva detto che quella donna non era brava come sua sorella, ma che era comunque in grado di praticare dei giochetti niente male. Nel frattempo la ballerina si tolse il reggiseno mettendo in mostra i suoi traboccanti seni, compì ancora qualche piroetta avvinghiata al palo e di seguito fecero il loro ingresso sul palco una sedia e una valigetta i quali oggetti furono accolti con sonori applausi e grida da parte del pubblico. La donna ballò ancora un po’ assumendo delle espressioni sensuali che andarono a catturare maggiormente l’attenzione degli spettatori, soprattutto quelli maschili. Di seguito si voltò di spalle e chinandosi in avanti, mostrando delle sode natiche, tolse via con un solo movimento quel piccolo perizoma che indossava rimanendo interamente nuda. Le grida furono quasi assordanti quando la donna si mostrò in tutta la sua bellezza, di seguito si andò a sedere sulla sedia e accennò ancora a qualche o di danza, poi si chinò e raccolse dalla valigia un enorme vibratore dal colore fluorescente. L’uomo capì che la valigia conteneva svariati sex toy, strumenti che molto probabilmente la
donna avrebbe utilizzato per il suo spettacolo: rabbrividì pensando a sua sorella. Con movimenti sensuali la donna si ò quell’oggetto su tutto il corpo, fregandolo sui seni, giocandoci con la bocca e strofinandoselo tra le gambe. Poi osservò il pubblico e con il dito indice fece segno a qualcuno di salire sul palco. Un ragazzo dai capelli lunghi, con addosso una camicia rossa, fece il suo ingresso sul palco; pareva impacciato e un po’ intimorito, ma ci mise poco per abituarsi agli occhi fissati su di lui e in breve tempo si ritrovò a penetrare la donna con quel pene finto. Le sopracciglia di Haruki si aggrottarono in un’espressione di raccapriccio osservando ciò che si stava compiendo davanti ai suoi occhi, ma soprattutto perché immaginò sua sorella intenta in quelle pratiche. Involontariamente ebbe un’erezione e non fu in grado di capire se ciò gli arrecava più piacere o disgusto. Non poteva o forse non voleva credere che sua sorella potesse essere la regina di tali spettacoli, la Fanny che quel ragazzo poc'anzi gli parlava con tanto trasporto. Afferrò la foto e osservò ancora una volta il viso angelico di Natsumi; il solo e unico viso che aveva in mente il quale non si adattava affatto a una diva degli spettacoli porno. Bevve in un solo sorso il suo Martini e scappò via dal locale, mentre la donna sul palco fingeva godimento per un pubblico assetato di lascivi piaceri. Haruki ricordava le scene viste in quel locale e ora, immerso in quella vasca, nel posto più sicuro al mondo, con una dolce musica in sottofondo si sentì libero di sfogare le sue emozioni. Improvvisamente ebbe un’erezione e d’istinto afferrò il suo pene nella mano. Pensò a quella donna sul palco e inevitabilmente anche a sua sorella; socchiuse gli occhi e cominciò a masturbarsi mentre il nome di Natsumi gli sfiorò le labbra e il cuore cominciò a pompare come un ossesso.
I muscoli delle gambe cominciarono a ingrossarsi e a tendersi, i polmoni parvero infiammarsi alla loro base, i bicipiti delle braccia erano tesi e velati da un lucido sudore così da metterne in risalto la tonicità, i tendini del collo parevano delle corde tirate alle estremità, il viso era una maschera di tensione per lo sforzo protratto ormai da circa un’ora. I i veloci e cadenzati sul nastro del tapis roulant rimbombavano per tutta la sala. Haruki ansava, ma non voleva mollare, non ora che era riuscito anche per un breve momento a cancellare dalla mente il pensiero di sua sorella. Non voleva cedere poiché sapeva che se lo avesse fatto, nel preciso momento in cui avrebbe smesso di correre, il ricordo di Natsumi gli sarebbe accorso alla mente e non lo voleva. Sperava di restare ancora per qualche minuto fuori da quel pensiero che ormai era parte integrante della sua
vita. Era tornato da Dublino con nulla di concreto e ormai non sapeva nemmeno quanto tempo fosse ato dal suo rientro. Ore, giorni, settimane, mesi, anni che importanza aveva se poi quello per cui aveva intrapreso quel viaggio si era rivelato un niente di fatto? Correva su quel nastro mentre osservava il televisore nel quale il cronista della BBC spiegava l’andamento dei mercati mondiali. Grafici su grafici prendevano forma sul monitor in simboli simili a geroglifici e l’uomo li osservava e intimamente se ne rallegrava poiché favorevoli alla sua azienda e al mercato nel quale operava. Non si era recato al suo ufficio poiché avrebbe svolto il lavoro da casa: in quei giorni non era dell’umore adatto per incontrare persone e perciò aveva fatto annullare tutti gli incontri in programma lasciando esterrefatta Marisa, la sua segretaria. «Si sente bene signore, vuole che le fissi un appuntamento con il dottor Vitali?» le aveva chiesto premurosa, ma al contempo sorpresa di quella decisione assolutamente inusuale del suo datore di lavoro. «Non si preoccupi Marisa, sto benissimo. Lei si adoperi a farmi ricevere qui, a casa mia, tutto ciò di cui ho bisogno. Non deve cambiare nulla nel nostro solito lavoro, s’immagini che io sia lì nel mio ufficio» le rispose deciso e la donna non si scompose e tornò ad adottare un tono e un modo assolutamente professionale. Al raggiungimento del decimo chilometro, Haruki arrestò il nastro e si asciugò la fronte madida di sudore, si dissetò e si sdraiò sulla panca e cominciò a sollevare il bilanciere. Stendeva e piegava le braccia, sotto il peso di quell’asta, fino allo stremo e sentiva i muscoli pompare e indurirsi per la fatica. Ripeté l’esercizio ancora altre due volte, dopo di che si dedicò agli addominali. Adorava l’esercizio fisico, si sentiva vivo nel realizzare i muscoli del suo corpo stressati dalla fatica; godeva nel vedere il suo corpo asciutto e teso come una corda pronta a scattare. Cercava di dedicare all’attività fisica più tempo possibile e perciò si era creato una piccola palestra in casa, un posto dove poteva allenarsi e allo stesso tempo dedicarsi al lavoro. Si fermò soltanto nel momento in cui sentì la parete addominale in fiamme e allora, ansante, si sedette a osservare le immagini che scorrevano sul televisore. Il suo telefono personale vibrò per un attimo e poi cessò, lo raccolse e lesse il messaggio ricevuto. Era Jasmine che, nella chat privata, gli aveva inviato un’immagine di lei in Russia, davanti il Cremlino.
Ieri è stato estenuante e mi è parso di sfilare per ore, ma per fortuna adesso ho
qualche ora di svago. Che bella Mosca, quando veniamo insieme a arci un week end romantico? Ti penso spesso e per fortuna la settimana prossima ci vediamo a Milano… è vero che ci sarai? ♥☺
Lesse quel messaggio scritto in se con noncuranza e senza alcun trasporto, non aveva alcuna voglia di chattare poiché aveva ben altro per la testa che flirtare e soprattutto con quella ragazza alla quale non sapeva ancora che posto dare nella sua vita, se mai posto ce ne fosse stato. Una modella se conosciuta in una serata di gala e amata per alcune notti, non era di certo una persona che poteva avere un ruolo importante nella sua vita e perciò ripose il telefonino e andò a farsi una doccia. Nudo di fronte allo specchio osservò il corpo teso e asciutto e muscolarmente definito di un uomo di quarantatré anni, ma dall’aspetto ancora giovanile. Gli occhi sottili tipici del suo popolo non evitavano di mostrare due pupille contornate da un lucente marrone chiaro, gli zigomi pronunciati a caratterizzare un viso piacente di un uomo affascinante con delle labbra carnose e all’apparenza morbide. I capelli, ora bagnati dal sudore, erano di un nero corvino e solitamente pettinati all’indietro mostrando così una chioma fulgida e corposa che faceva venire voglia di accarezzarla. Non arono che pochi attimi prima che l’uomo nello specchio tornasse petulante a far sentire le sue parole di rimprovero. «Ti senti felice ora che hai sfogato la tua rabbia con l’allenamento?» Haruki lo osservò fisso negli occhi e deglutì rumorosamente. «Che cosa vuoi da me?» gli chiese. «Non voglio assolutamente nulla da te» rispose l’uomo nello specchio, «però mi piacerebbe sapere come ci si sente a essere quello che sei, ovvero un perdente e un meschino.» «Ma cosa avrei dovuto fare? Eeeh, me lo spieghi?» gridò Haruki stringendo forte i pugni, quasi conficcandosi le unghie nei palmi delle mani. «Sono andato fino a Dublino per cercarla e non l’ho trovata, non l’ho trovata in nessun luogo.» «Sei sicuro di quel che dici?» sovvenne l’uomo nello specchio, «Davvero non l’hai trovata? O forse ti sei convinto che ciò non sia accaduto perché hai
preferito abbandonarti al ricordo di quello che lei era e che molto probabilmente non lo è più?» Haruki pareva ora essere scosso da un tremito incondizionato e le parole dell’uomo sembravano infilarsi nelle carni come lame taglienti. «Non è forse vero che hai preferito cullarti nel dolce ricordo di una lei del ato, piuttosto che aiutare la Natsumi che è ora? Guardati, la promessa che hai fatto a te stesso l’hai tradita nel momento esatto in cui hai capito che nulla potrà mai essere come prima.» Ora Haruki era col capo chino verso il basso e le spalle ricurve come sottoposte alla mole eccessiva delle parole che gli venivano scagliate contro e con la mente tornò a quei giorni irlandesi alla ricerca di Natsumi. La serata ata al locale nel quale aveva scoperto che molto probabilmente sua sorella era diventata una star del porno, era stato uno shock troppo intenso da poter essere assimilato facilmente. Uscito dal locale aveva vagato come uno zombi in giro per le strade affollate e piene di vitalità. Non sapeva darsi una spiegazione per ciò che era capitato a sua sorella e perché mai si fosse dedicata a un’arte così volgare, sgradevole e assurda per lui e per il ricordo che aveva di lei. Non che Natsumi non fosse capace di colpi di testa o pazzie varie, ma scendere così in basso e dedicarsi alle marchette, beh quello era davvero fuori da ogni possibile ragionevolezza. Per quanto quelli potessero essere definiti spettacoli e le donne che li interpretavano apostrofate come artiste, lui in tutto ciò ci vedeva un triste spettacolo porno condotto da una mignotta e nient’altro. Ma cosa aveva davvero indotto Natsumi a compiere quel o così deciso e fuori dall’immagine che aveva di lei, ebbe a domandarsi perché lui sapeva realmente chi lei fosse. Solo un evento straordinario poteva essere stato in grado di indurla in quel gesto folle. E se fosse stata soggiogata da qualcuno? Se fosse tenuta sotto perenne minaccia e quindi indotta a prostituirsi? Quante domande gli percorrevano la mente mentre solo vagava per le strade buie di una Dublino sconosciuta e sempre più odiata. Una città che irrimediabilmente diveniva portatrice di sventura o quanto meno di cattive notizie. Difficile gli risultava credere che sua sorella, quella parte di sé, fosse divenuta qualcosa che era lontanissimo da ciò che mai avrebbe potuto immaginare di lei. Non aveva mai riposto nel cassetto il sogno di poterla vedere un giorno lavorare al suo fianco, ma lei di quella possibilità non ne voleva nemmeno sentir parlare; più volte gli aveva manifestato il suo quasi disgusto per quel suo lavoro. Lei che nell’ultimo periodo si sostentava facendo la cantante in un piccolo e piuttosto mediocre gruppo punk. Haruki era andato anche ad ascoltarla in un locale, uno di quei centri sociali affollati di ragazzi vestiti in modo bizzarro, dove tutto intorno si avvertiva un forte olezzo di sudore, anche se in quel frangente era lui a essere
vestito strano, era lui la nota stonata. L’aveva vista dimenarsi su di un piccolo palco, udita urlare in un microfono parole dal significato incomprensibile, ma non era riuscito ad andare contro quella sua volontà proprio perché, una volta scesa dal palco, con la faccia stanca, ma con un sorriso pieno di soddisfazione, si era sentito felice per lei e si era detto che beh, avrebbe avuto tempo per decidere cosa fare della sua vita e che forse era giusto così. Era giusto che si godesse i suoi momenti e le sue ioni mentre ora avrebbe pagato oro per vederla nuovamente felice su di un palco, ma a cantare e non a giocare con falli finti che lascivamente si strofinava sul corpo e tra le gambe. Rabbrividì nuovamente a quel pensiero e diede un calcio a un sassolino facendolo schizzare via, come a immaginare che in esso fossero racchiuse tutte quelle immagini distorte di Natsumi, le quali voleva sparissero dalla sua mente. Aveva bisogno di bere, uno stramaledetto bisogno di bere, di buttare in fondo a un bicchiere quella sgradevole sensazione di amaro in bocca. Affogare in un buon whisky, nuotarci dentro, immergersi completamente e, come in un battesimo eretico, bagnarsi il capo e abbandonarsi alla divinità dell’alcol. Aveva necessità di lordarsi nella confusione dei fumi alcolici. Come un tossico ne sentiva l’incontenibile esigenza, lo avvertiva dal prurito sotto pelle, nelle vene, nel sangue. Il locale che lo accolse per assecondare quelle sue irrefrenabili esigenze del momento, non era nient’altro che un posto dalle luci soffuse con un grande bancone e diversi tavolini sparsi attorno. Era tutto rivestito in legno e, in fondo alla sala, su di un palcoscenico, un ragazzo dai capelli lunghi e con indosso un pantalone di pelle marrone e una camicia nera, sembrava copulasse con l’asta del microfono scimmiottando Jim Morrison. La voce non era bella, ma del resto neanche quella dello Sciamano in fondo lo era. Morrison aveva rappresentato e forse ancora lo faceva, il mito della libertà, della fuga dagli schemi, un angelo libero di volare dove meglio gli aggradava e generazione di ragazzi si specchiavano in lui e in quei suoi occhi ora sognanti, ora persi in vacue visioni suggestionate dagli acidi. Non aveva mai amato follemente i Doors né tanto meno la scarsa musicalità e potenza della voce del suo leader, ma al contempo non poteva che riconoscerne la loro genialità. Il ragazzo cantava The End, mentre Haruki chiese al barista di versargli qualcosa di veramente buono, qualcosa che avrebbe maggiormente aiutato l’ascolto della musica psichedelica dei Doors. L’uomo al bancone non parve felice di quella sua affermazione, sarà stato forse per gli innumerevoli album della band americana collocati in ogni dove, sarà stato forse per la maglietta con la loro effige, sarà stato per il nome dello stesso locale che ebbe a scoprire in seguito si chiamasse Morrison proprio in onore del cantante. Comunque sia gli servì un bicchiere di Bushmill’s, un whisky prodotto nell’Irlanda del nord, come ebbe a dirgli il barista. Haruki ringraziò gentilmente
e, con le spalle rivolte alla band, sorseggiò la sua bevanda che gli scendeva giù lenta e corposa, come fosse una lava incandescente pronta a riscaldargli le parti più nascoste del suo corpo e della sua anima, parti che parevano essersi raggelate al freddo provato nel comprendere cose che non pensava potessero esistere. Fece ancora un paio di sorsi e finì tutto il liquido presente nel bicchiere e indicò al barista di versargliene un altro. Il ragazzo sorrise delicatamente, soddisfatto dell’apprezzamento del suo attuale cliente e, dopo avergli cambiato bicchiere, gliene riempì un altro e poi un altro e un altro ancora. Haruki ora era davvero immerso in quel liquido alcolico, vi era completamente annegato così come le sue inibizioni e il suo classico aplomb ormai completamente annientato e impossibile da ritrovare in qualsiasi parte, se pur remota, del suo essere. Con la faccia beota e soddisfatta, si voltò finalmente a osservare la band che continuava imperterrita nel suo spettacolo. Lo pseudo Morrison in quel momento cercava di fare l’equilibrista sul limite del palcoscenico, come il suo idolo faceva decine di anni prima, ma non cadde come spesso accadeva allo Sciamano nei suoi deliranti concerti. No, il ragazzo eggiò con maestria su quel lembo di palcoscenico mentre imperterrito cantava People are strange mandando in estasi quattro ragazzine sedute ai tavolini sotto di lui. Ora, sarà stato per via dell’enorme quantitativo di alcol nelle vene, ma quel ragazzo gli pareva davvero bravo e quella musica più bella di come la ricordasse. Si trovò a battere il piede a ritmo di musica e a guardarsi attorno, a osservare meglio la clientela di quel locale che fino ad allora pareva non interessargli minimamente. Vide una donna seduta a un tavolino non distante da lui. La osservò lì sola con il volto disteso e attento ad ascoltare la musica. Ne vedeva il profilo che pareva molto bello e delicato; indossava una giacca leggera e una gonna corta a mostrare due gambe lunghe e sottili, la fissò maggiormente e lei, come avesse sentito quello sguardo addosso, si voltò nella sua direzione. Haruki le sorrise, cercando di darsi un tono, e sollevò il bicchiere a mo’ di brindisi, ma la donna assunse un'espressione d’insoddisfazione e si voltò dall’altra parte. In breve tempo sbucò da chissà dove un uomo che le si sedette accanto e la baciò, poi entrambi si voltarono verso di lui e scambiarono delle battute tra di loro e parvero ridere. A Haruki sembrò stessero ridendo di lui.
People are strange when you’re a strange Faces look ugly when you’re alone
Women seem wicked when you’re unwanted Streets are uneven when you’re down When you’re strange, faces come out of the rain When you’re strange, no one re your name When you’re strange, when you’re strange.¹
Sogghignò amaramente alla visione di quella scena che gli parve alquanto patetica mentre le parole della canzone riverberavano nell’aria quasi profetiche, didascaliche, come volessero sottolineare quel momento, quella sua condizione attuale. Era solo in quella città. Era solamente uno straniero e le persone accanto a lui lo compresero. Annusavano l’aria che gli era attorno, quasi lasciasse una scia pregna di un odore particolare tale da permettere a quegli indigeni di capire la sua estraneità a quei luoghi e forse anche la sua avversità. La gente è strana quando sei uno straniero e nessuno ricorda il tuo nome e le donne sono malvagie quando sei indesiderato. Quella stessa donna, in un altro contesto e magari nella sua nazione, molto probabilmente avrebbe fatto di tutto per potersi accompagnare a lui, per ottenere un invito a cena. Ma poiché era nel suo territorio lo rifiutava e lui capì che la sua avvenenza e il suo fascino erano bollati come estranei, indesiderati. Tracannò amaramente il suo anestetico alla vita e si voltò nuovamente verso il bancone poggiando il bicchiere e d’improvviso una foto, posta poco in alto, catturò la sua attenzione. In quell’immagine un po’ sfocata, gli parve di riconoscere una Natsumi diversa, dai capelli biondissimi e con abiti succinti, mentre mandava baci verso l’obiettivo. Una scritta a pennarello, forse una dedica, campeggiava sotto l’immagine. L’uomo aguzzò la vista alla ricerca di una visione più nitida. «Ehi amico, hai visto che bella compatriota hai?» esordì il barista osservando lo sguardo attento di Haruki verso la foto. Poi la afferrò e con essa si collocò di fronte all’uomo, ormai sempre più interdetto. «Fanny era la migliore, ha fatto alcuni spettacoli anche qui da noi. Roba soft eh, mica come al Farewell» ci tenne a precisare il barista in un irlandese quasi incomprensibile, «ma quella ragazza era comunque capace di resuscitare anche i morti. Che corpo che ha, ragazzi.» Haruki scippò la foto dalle mani del barista che non ebbe nemmeno il tempo di
recriminare. La strinse forte tra le dita fino a far sbiancare i polpastrelli e quasi a bruciarla per l’intensità con la quale la osservava. To Tony with love, Fanny era la dedica scritta sulla foto e dal sorriso beota del barista, molto probabilmente quel Tony doveva essere lui. Sotto quella parrucca e dietro quel trucco un po’ pesante, lo sguardo e gli occhi erano inconfutabilmente di Nanà. Cristo, che cosa cazzo le è successo, si domandò Haruki mordendosi le labbra e trattenendo a stento le lacrime. «Dov’è adesso, dove si esibisce?» chiese concitato al barista. «Ehi amico, non sono mica il suo agente io. Cosa cavolo ne so. L’ho ingaggiata qualche volta per degli spettacoli tutto qua, ma per quel che ne so, credo che si sia ritirata dalle scene» rispose riprendendosi la foto e ricollocandola nel posto dove l’aveva presa, poi si voltò e aggiunse: «Sono trentacinque euro.» Haruki lo osservò interdetto e stringendosi nelle spalle domandò: «Trentacinque euro? E per cosa?» «Per tutto quello che hai bevuto, amico. Non fare lo scherzo che anneghi i tuoi ricordi nell’alcol» rispose alquanto indispettito il barista facendo un gesto con la mano a esortare il compenso dovutogli. Haruki si scusò e gli diede due pezzi da venti dicendogli di tenere il resto. L’uomo li prese senza ringraziare lasciando Haruki da solo col bicchiere vuoto e coi suoi pensieri che si facevano sempre più confusi e intricati. Doveva ormai arrendersi all’idea che la Natsumi che aveva sempre conosciuto non esisteva più e aveva fatto spazio alla brutta copia di quel che era, anche se, da ciò che aveva capito, molto probabilmente si era ritirata dalle scene forse per redimersi e molto probabilmente, quella cartolina inviatagli, era una richiesta di aiuto per poter completamente uscire da quel sistema. Sì, forse qualcuno la costringeva a quella vita e voleva che lui l’aiutasse per venirne fuori, per liberarsene. «Se cerchi Fanny, so come aiutarti» pronunciò un uomo al suo fianco del quale, fino a pochi attimi prima, non ne aveva scorta la presenza. L’uomo aveva pronunciato quella frase senza osservarlo, ma tenendo fisso lo sguardo sul bicchiere che aveva di fianco. «Allora, sei interessato o no? Guarda che non ho tempo da perdere» aggiunse sempre mantenendo la medesima posizione. Haruki lo guardò con sospetto. Era un omino piccolo con addosso una giacca pesante col risvolto di pelliccia bianca. Alle dita indossava vistosi anelli, anche piuttosto appariscenti e pacchiani e le sue mani erano rovinate e piene di pustole o
qualcosa di simile: erano orripilanti. «Tu chi sei, che cosa hai a che fare con Fanny?» gli chiese Haruki. «Troppe domande amico, risposta sbagliata» replicò l’uomo il quale bevve interamente il contenuto nel bicchiere e fece per andarsene. Allora Haruki lo bloccò per il braccio impedendogli di andare via, ma l’uomo, con un movimento veloce, gli scostò la mano e afferrandogli il braccio, glielo girò dietro la schiena arrecandogli un dolore lancinante. «Brutto stronzo» sibilò l’uomo ora alle sue spalle, sempre tenendogli fermo il braccio in un’angolazione poco naturale, «non permetterti mai più di toccarmi, hai capito?» domandò con voce rauca a pochi centimetri dal suo orecchio. «Hai capito?» ribadì ora con tono più forte, non udendo risposta. «Sì, sì ho capito» rispose Haruki con un filo di voce, mentre la sua faccia era completamente schiacciata sul bancone e bagnata da quel poco di birra presente sulla superficie. «Se sei interessato, domani avrai mie notizie. Fatti trovare alla hall dell’albergo alle diciannove in punto» affermò l’uomo e, dopo aver dato uno scossone al braccio di Haruki, arrecandogli un nuovo e più forte dolore, così da fargli emettere un gemito, si scostò e se ne andò. Haruki ci mise qualche secondo per ricomporsi e tirarsi su dal bancone e, guardandosi attorno, stranamente si accorse che nessuno aveva fatto caso a quel che era successo. Nessuno lo osservava, nessuno si curava di lui: la gente è strana quando sei uno straniero; i volti ti guardano minacciosi quando sei solo; le donne sembrano malvagie quando sei indesiderato; le strade sono accidentate quando sei giù, sei un estraneo, i volti escono dalla pioggia; quando sei un estraneo, nessuno ricorda il tuo nome; quando sei un estraneo, quando sei un estraneo.
Erano le undici di sera di un giorno qualsiasi della settimana, di un mese imprecisato in un anno indefinito e le strade di Roma erano insolitamente deserte. eggiava per quelle vie a volte asfaltate di un manto omogeneo, alle volte acciottolate con i classici sampietrini e su quelle strade, che parevano più somiglianti a sentieri, tentò di raggiungere una meta piuttosto lontana. Si sentiva lo stomaco pieno per una cena che non ricordava di aver consumato, ma che doveva per forza essere l’unica spiegazione a quel senso di sazietà che in quel
momento provava. Voleva irrefrenabilmente raggiungere un locale a lui tanto caro, un posto dove era solito andare. Uno di quei locali nel quale tutti ti conoscono e dove ti senti a casa; dove puoi chiamare tutti per nome. Però sbagliò strada più volte e così si ritrovò in un posto imprecisato della città, un luogo a lui sconosciuto e, senza capirne il motivo, trovò il locale che stava cercando proprio nella via all’angolo. Per certi versi la città che gli si palesava non aveva le fattezze di quella che lui conosceva anzi, pareva completamente un’altra città e di fatti, il locale si trovava proprio su Ponte Vecchio, e quella ora era Firenze. Eccolo lì il Dinner, il locale che si trovava in via Veneto a Roma, su Ponte Vecchio a Firenze, era proprio quello che stava cercando. All’entrata un ragazzone di colore, con un auricolare all’orecchio, gli offrì un sorriso smagliante e, riconoscendolo, lo salutò e gli aprì la porta. Haruki lo salutò con un cenno del capo ed entrò. Quella sera era vestito in maniera elegante, niente di elaborato, ma elegante. Stranamente non c’era molta gente, ma ciò non lo turbò anzi, lo preferiva. Subito Agnes lo accolse e gli fece strada accompagnandolo in una zona riservata, in uno dei posti migliori del locale dove si sedette su di un divanetto e si fece portare una bottiglia di vino bianco fresco, senza indicare la tipologia poiché si fidava ciecamente delle loro proposte. In breve tempo si trovò a sorseggiare da un calice quella fresca bevanda e ad assaporarne le qualità. Si sentiva bene e anche quella sensazione di pesantezza allo stomaco pareva ormai un vecchio ricordo. Il locale era molto grande e piano piano cominciò ad animarsi. Era frequentato da gente altolocata o finta tale. C’erano molte persone della Roma bene e molte, fin troppe però, erano quelle che cercavano, con la loro presenza in quel luogo, di poter acquisire un ruolo in quello spaccato di una società a lui quasi mal sopportata. Le vedeva lì a mostrarsi e a mendicare delle amicizie utili per i propri interessi, atte a fare da lasciaare per ambienti esclusivi. Haruki li osservava con curiosità, non li giudicava, anche perché sapeva perfettamente che di quell’assurdo circo ne faceva parte anche lui, ma allo stesso tempo non poteva non avere un po’ di comione per quelle loro vite grette e banali. Li compativa? Sì, molto probabilmente provava comione per gli sforzi vani che facevano nel cercare ancor di più di apparire. Apparire era essenziale anzi, era l’unica cosa intelligente per i loro canoni. Se non vi è sostanza, che allora ci sia almeno l’apparenza. Sospirò e sorseggiò di nuovo il suo vino. Dal posto in cui era, nascosto e al riparo dalla massa, poteva osservarli indisturbatamente. Chi lo conosceva sapeva dove trovarlo e, allo stesso tempo, chi sapeva dove trovarlo aveva il suo benestare affinché gli fe compagnia. Di sicuro tra quelle persone era annoverato Carlo, il proprietario del locale. Romano da quattro generazioni, com’era solito ricordare, suo padre aveva aperto quel locale quando ancora a Roma c’erano le persone perbene.
«Mastroianni era un cliente abituale» ripeteva come un mantra, «ah, che signore che era. Gentile, garbato e no come ‘sti attoruncoli che girano oggi e che si credono ‘sto cazzo.» Ora Carlo, con il suo viso tondo, la stempiatura incipiente e il suo grosso naso a patata con sopra poggiati un paio di occhiali dalla montatura leggera, gli era seduto di fianco, sullo stesso divanetto. Non beveva alcolici perché era sempre in procinto di ingurgitare qualche medicina strana e quindi Haruki non gli chiese di bere con lui. Ho problemi di reflusso gastroesofageo, gli diceva ogni volta e assieme gli ricordava il nome di una medicina improbabile che doveva assumere per combattere quel male, associata a tante altre per le più disparate malattie delle quali diceva essere affetto. Ma fondamentalmente era un ipocondriaco perso e per quella malattia non c’era medicina che potesse aiutarlo. «Le vedi quelle due?» gli chiese indicando due donne sedute su dei divanetti in fondo alla sala e vestite in modo piuttosto appariscente. «Beh, quelle sono due mignotte.» «Va beh Carlo, adesso non ti sembra di esagerare?» domandò quasi sconfortato Haruki. «Ma de che?» obiettò Carlo con il suo forte accento romano che gli veniva fuori ogni qual volta si agitava. «So’ per davvero du mignotte. Scusa se te lo dico, ma quelle due meretrici, mi costano due piotte ciascuna e solo per starsene sedute lì a bere. Mio figlio mi ha detto, testuali parole, Papà se vuoi che il locale faccia soldi, ce devi mette dentro du mignotte. Ed eccole qua, ‘ste du zoccole anche se loro se fanno chiamà pierre: public relation. A Haruki, ma de che stamo a parlà? Ormai sta città è bella che finita e hai voia a ricordà a dolce vita» terminò sconsolato il suo soliloquio e ingurgitò una pasticca che diceva lo aiutasse a contrastare gli attacchi d’ansia. Haruki non poteva non dargli ragione anche perché quella città era troppo cambiata dai tempi che Carlo ricordava con affetto e, molto probabilmente, in quel tempo trascorso aveva perso molto del suo fascino e, ormai svuotata della sua anima, non le rimaneva che la scorza buona solo da osservare. Pareva tutto finto, fittizio, pronto alla mercificazione, proprio come gli sguardi che le due ragazze regalavano agli uomini lì presenti e solo per potersi far offrire da bere. Le osservò e pensò alle due prostitute che aveva ricevuto nella sua camera d’albergo a Dublino. Poco prima delle diciannove, trepidante, si era accomodato sul divano della hall dell’albergo in attesa che quel brutto soggetto conosciuto al Morrison si fe vivo, ma soprattutto che gli portasse notizie importanti inerenti a Natsumi.
Quello schifoso aveva a che fare con la sua Nanà e ciò lo inorridiva e allo stesso tempo gli montava su una rabbia all’idea che sua sorella potesse essere capitata nelle grinfie di quel tipo. Maledetto, lo apostrofò mentalmente, mentre si mise a massaggiare il braccio ancora dolente dalla torsione inflittagli da quel gran pezzo di merda. Solo perché lo aveva colto alla sprovvista, altrimenti lo avrebbe gonfiato di botte, cercò di convincersi Haruki disegnandosi sul viso un’espressione cattiva, ma che mal gli si addiceva. Il suo viso era teso e le guance un po’ incavate, ma questo non faceva di lui un duro poiché le sue espressioni, in fondo, apparivano buone. Attese seduto su quel divano, con la schiena dritta, per un tempo imprecisato ma che non faceva altro che aumentargli l’ansia per quell’incontro. Un cameriere gli servì un whisky con ghiaccio che lui bevve quasi come fosse acqua, senza nemmeno accorgersi del tasso alcolico presente in quella bevanda: pareva un alcolizzato ormai allo stadio terminale. Alle diciannove e tredici minuti, un uomo piuttosto elegante, si sedette di fianco a lui. La hall dell’albergo era interamente vuota. L’uomo prese il giornale posto sul tavolinetto dinanzi a lui e, posizionando bene la schiena al divano, cominciò a leggere. Haruki non sapeva cosa fare. «Stai tranquillo, nessuno ti farà del male» esordì l’uomo sempre con la faccia per metà nascosta dal quotidiano, «so che il mio amico non è stato molto gentile con te, ma ti manda le sue scuse. Sai, è facilmente irritabile soprattutto quando qualcuno che non conosce lo tocca.» Haruki aggrottò le sopracciglia e, girandosi leggermente, cercò di osservare il viso dell’uomo alla sua destra. «Adesso le farò la stessa domanda che ho rivolto al suo amico: chi sei e che cosa hai a che fare con Fanny?» domandò Haruki con cipiglio. L’uomo ripiegò il giornale, lo collocò sul tavolo e si accese una sigaretta. «Ehi amico, non ti hanno insegnato che è maleducazione fare troppe domande?» pronunciò l’uomo mentre un fumo denso gli usciva dalle narici. «Non deve interessarti sapere chi io sia, sono solo qui per proporti un affare» di seguito spense la sigaretta nel bicchiere ormai vuoto di fronte a Haruki, «so che cerchi Fanny e noi possiamo dartela, ma sappi che ha un prezzo molto alto, però credo che tu possa permettertela. Fanny non fa più spettacoli, ormai lavora privatamente e lo farà anche per te stanotte basta solo che tu lo voglia e che tiri fuori la grana, mi sembra ovvio.» «Quanto mi costerebbe?»
«Oh, una sciocchezza e per te siamo pronti anche a fare uno sconto, bastano duemila euro e credimi amico, c’è chi l’ha pagata molto di più.» «Okay, quando posso vederla?» «Ehi amico, quanta fretta. Non ce la fai più a tenerlo nelle mutande eh?» pronunciò l’uomo ridendo, mettendo in mostra una serie di denti che avrebbero tanto avuto bisogno di un bravo dentista. «Visto che sei così voglioso, farò in modo che sia qui diciamo per le ventidue. Credi di farcela a resistere fino a quell’ora? Male che vada ti porti avanti col lavoro da solo» aggiunse sarcastico e ridendo sguaiatamente. «Va bene, voglio che sia in camera mia non più tardi delle ventidue.» «Sarà fatto Romeo» rispose l’uomo e fece per alzarsi. Girò attorno al tavolinetto e, una volta di fianco a Haruki, si chinò avvicinandosi al suo orecchio. «Mi raccomando muso giallo, non fare scherzi. Appena arriva la ragazza le dai tutti i soldi e in contanti, altrimenti il mio amico non sarà così clemente come l’ultima volta» pronunciò col suo alito pesante e, dandogli una pacca sulla spalla, se ne andò. Haruki era rimasto fermo, come impalato, la lezione l’aveva imparata bene. Ora non gli restava altro che aspettare, non sapeva bene ancora come fare una volta incontrata Natsumi, ma a quello avrebbe pensato in seguito quando sua sorella gli avrebbe spiegato tutto ciò che le era accaduto. Restò fermo in quella posizione ancora per molto tempo, cercando di metabolizzare tutti gli eventi accaduti in quei due giorni e gli pareva di essere su di una giostra che girava via velocemente, forse anche troppo. La sua proverbiale calma, il suo famoso raziocinio e la sua saggezza che erano peculiarità del suo essere, parevano lontani ricordi poiché si sentiva pervaso da una tensione irrefrenabile la quale, probabilmente, lo avrebbe indotto a commettere delle scelte sconsiderate e avventate. Si fece indicare dove trovare uno sportello automatico dal quale ritirare i contanti, ma nel momento in cui uscì dall’albergo si arrestò. Non aveva alcuna intenzione di prelevare quei soldi, pensò improvvisamente, perché, una volta incontrata Natsumi, sarebbe subito scappato via con lei prendendo il primo aereo per l’Italia. Certo, avrebbe fatto sicuramente così. La calma, il raziocinio e l’intelligenza stavano ormai divenendo suppellettili del suo carattere. ò poco tempo che si ritrovò sdraiato sul letto a fissare un televisore spento e
si accorse che le pareti della stanza non facevano altro che vorticare. Maledette, non stavano mai ferme. Aveva il braccio penzolante fuori dal letto e sentì le dita della mano lentamente cedere facendo cascare a terra la bottiglia di vino ormai vuota. Cadde a terra emettendo un suono sordo, ma non tanto forte però, nella testa di Haruki, parve un colpo di cannone. Si strinse il capo tra le mani e, strizzando gli occhi, implorò che quel frastuono terminasse presto. Di seguito crollò in un sonno profondo dal quale si svegliò circa un’ora dopo con la bocca completamente impastata e la testa come immersa in una bolla. Si tirò su a sedere e quel gesto non fece che aumentare il senso di nausea facendogli venire su un rigurgito acido. Corse o per lo meno ci provò, fino al bagno dove, abbracciando la tazza, vomitò tutto. Pareva un fiume in piena, gli sembrava che si stesse risvoltando al contrario, che gli organi interni a momenti gli schizzassero via dalla bocca. Le lacrime agli occhi non gli permisero di assistere a quella scena pietosa, alla sua figura: un uomo e un imprenditore rispettato e ammirato in tutto il mondo, inginocchiato di fronte a un water mentre compiva un gesto triste e riprovevole. In seguito si fece una doccia con l’intenzione di riprendersi, si gettò di nuovo sul letto e chiamò il servizio in camera facendosi portare un sandwich e una spremuta di mirtillo che ingurgitò con poca voglia, ma aveva necessità di compensare l’enormità di alcol ingerito. Si era rifugiato nuovamente nell’alcol alla ricerca di una via di fuga a quella situazione che si faceva sempre meno tollerabile e comprensibile. Dopo diversi anni poteva finalmente rivedere sua sorella e questo lo rendeva felice quasi quanto la paura che lo stava assalendo, un terrore incontrollato di dover fare i conti con un pezzo del ato a lui ignoto e incomprensibile. Osservò l’orologio: un quarto alle ventidue. Si tirò di nuovo su a sedere, ma questa volta pareva reggere la pressione e così decise di vestirsi. Indossò dei pantaloni scuri e una camicia chiara, si pettinò i capelli all’indietro e cercò di massaggiarsi delicatamente gli occhi per attenuare il loro gonfiore, ma risultò vano: aveva una faccia pessima. Cinque minuti alle ventidue e la pressione aumentava, in quel momento desiderò di fumare una sigaretta, anche se non era un fumatore. Alle ventidue in punto squillò il telefono della stanza. Haruki fece un balzo nell’udire quel suono e prontamente sollevò la cornetta. La voce di un uomo gli comunicava che c’era una visita per lui e Haruki lo pregò di farla salire nella sua stanza. Alle ventidue e tre minuti, mentre l’uomo era seduto sul letto con le gambe che parevano irrefrenabili, qualcuno bussò alla sua porta ed egli rispose di entrare. La sorpresa fu grande, a tutto avrebbe pensato fuorché a quello che vide in quel momento. Il cuore per un momento gli si arrestò e subito balzò in piedi con gli occhi che quasi gli schizzavano fuori dalle orbite.
«E voi chi diavolo sareste?» domandò l’uomo sconcertato. Le due donne si guardarono e poi sorrisero allegramente. Erano due splendide ragazze di colore che, senza dire nulla, si tolsero i soprabiti e misero in mostra un fisico mozzafiato. Con pochi indumenti a coprire lembi di carne, quelle due pantere si avvicinarono lascive all’uomo che indietreggiò prontamente. «No, no, deve esserci stato un errore» incalzò l’uomo protendendo le braccia in avanti nell’intento di arrestare la loro sensuale avanzata. «Io ho chiesto esplicitamente Natsu… ehm, Fanny. Perché non è venuta?» Le donne si osservarono di nuovo e in seguito, guardandolo con espressione dubbiosa, si strinsero tra le spalle. Haruki non credeva ai suoi occhi, lo avevano fregato. Gli avevano promesso Natsumi e invece gli avevano mandato due mignotte… e che mignotte! Fu lo squillo del telefono a interrompere quella scena grottesca e Haruki rispose prontamente. La stessa voce di prima questa volta gli comunicava che c’era una telefonata per lui e gliela ò. «Ehi amico, mi spiace dell’inconveniente» esordì l’uomo che poche ore prima aveva incontrato nella hall, «ma quella stronza di Fanny ha fatto i capricci. Lo sai come sono le artiste, no? Comunque ti ho mandato due bocconcini niente male e per sdebitarmi ti farò un maggiore sconto: tutte due a soli mille euro. Che ne dici, un vero affare, non credi?» Haruki d’incredibile riteneva solo ciò che stava accadendo. Quel pezzo di merda gli proponeva un baratto, voleva che si scoe quelle due in cambio di Natsumi. Ciò era inconcepibile. «Tra noi c’era un accordo» rispose Haruki irritato, «e tu sei venuto meno. Ora voglio sapere dove posso trovare Fanny.» «Ma di quale cazzo d’accordo stai parlando? Forse non ti è ben chiaro con chi stai parlando. Volevi farti una scopata indimenticabile? E allora divertiti e non ci pensare a quella frigida di Fanny.» «Io voglio lei e basta!» «Senti amico, non fare tante storie, okay? Altrimenti vengo lì e ti gonfio quel muso giallo che ti ritrovi» inveì l’uomo al telefono, «non è colpa mia se quella troia si è puntata nel non voler venire, nel momento in cui le ho detto che avrebbe allietato la serata di un suo connazionale. Molto probabilmente ti conosce e le fai schifo. Ora ti saluto perché non ho tempo da perdere, buona
scopata Romeo» e la comunicazione s’interruppe. Haruki scaraventò via il telefono con tutta la forza che aveva in corpo, mischiata alla rabbia che in quel momento provava. Le due donne indietreggiarono impaurite emettendo gridolini di terrore. L’uomo tornò a ricordarsi di loro e, osservandole con occhi spiritati, disse loro: «Dov’è Fanny, voi lo sapete vero?» Le donne parevano mute o forse non conoscevano la lingua. Poi una di loro, quella con i capelli tinti di biondo, si staccò dall’altra e pronunciò: «La puoi trovare al quattordici di Main Street, nel quartiere di Coolock. È là che sta di solito ed è lì che riceve la sua clientela.» Haruki assentì col capo senza dire niente, di seguito prese duecento euro dal portafogli e fece per darli alle ragazze che nel frattempo si stavano rivestendo, ormai consapevoli della conclusione della serata. La donna dai capelli scuri, colei la quale era stata zitta per tutto il tempo, guardò dapprima i soldi posti nella mano col braccio teso dell’uomo e poi il suo viso. Sul suo volto si disegnò un’espressione di disprezzo. Gli diede le spalle e, lasciando Haruki in quella posizione plastica, prese per il braccio la sua collega e insieme uscirono dalla stanza. L’uomo non fece una piega e ripose i soldi nel portafogli, di seguito si avvicinò alla finestra che dava sull’entrata dell’albergo e, quando vide le donne uscire e salire su di un taxi, indossò un soprabito e uscì. Il tassì sfrecciava veloce per le strade buie di una Dublino ancora più plumbea del solito. Le luci dei lampioni erano offuscate dalle gocce di pioggia presenti sulla superficie del finestrino che erano cadute copiosamente nelle ore precedenti. In quel momento dal cielo scendeva una leggera pioggerellina che rendeva l’aria più rigida del solito. Diversi semafori rossi arrestarono il loro cammino, l’uomo al volante era concentrato alla guida e non badava minimamente al suo eggero, ma probabilmente si era domandato perché quell’uomo dall’aspetto così distinto, avesse deciso di recarsi in un posto piuttosto malfamato. Coolock era un sobborgo nella periferia nord della città, il principale centro operaio della zona e comunque un’area nella quale risiedeva parte della popolazione meno abietta. Il taxi si fermò di fronte a una palazzina grigia con una piccola scalinata sul davanti. Haruki osservò l’immagine da dietro il vetro e per un attimo fu tentato di chiedere al tassista di riportarlo all’albergo. «We've arrived mister, this is the fourteenth of Main Street» pronunciò il tassista voltandosi indietro, «twenty euro, please» aggiunse indicando il tassametro.
Haruki pagò la corsa e scese dalla vettura. Si era alzato un vento gelido e per proteggersi da esso, sollevò il bavero del soprabito. Il suo sguardo salì all’insù osservando dapprima le scale di fronte e poi via via l’intera palazzina di appena tre piani, soffermandosi all’unica finestra con la luce accesa nella vana speranza di riconoscere la sagoma di sua sorella. Si fece coraggio e cominciò a salire quella piccola scalinata di soli quattro gradini, ma che a lui parvero infiniti e pesanti. A ridosso della porta cercò il citofono che però sembrava non esserci e poi, fondamentalmente, a chi avrebbe suonato? Non poteva certo aspettarsi di trovare un camlo con su scritto Fanny o Natsumi, pensò tra sé l’uomo e in quel preciso momento il portone venne aperto in modo irruento e l’uomo che ne venne fuori, a momenti gli crollò addosso. «I’m sorry» si scusò prontamente l’uomo che, vedendo Haruki al quanto disorientato, cercò di rassicurarlo. «If you are looking for Fanny she’s upstairs. Tonight she’s in great form²» e ammiccando andò via. A Haruki si fermò il cuore all’idea di sapere sua sorella lì, a un paio di piani da lui, intenta a fare del sesso a pagamento con chicchessia. Ma non poteva mollare, non ora che c’era quasi; non ora che era finalmente giunto a un o dal riabbracciare sua sorella e poterla riportare a casa all’affetto dei suoi genitori. Entrò nell’abitazione e un odore intenso e pregnante gli inondò le narici. Non seppe distinguere nitidamente cosa fosse quell’odore, ma di certo non era dolce e delicato, ma piuttosto pungente e a tratti irrespirabile. Lo stabile non aveva nulla se non delle pareti grigie e disadorne e una piccola scala che conduceva in alto. L’uomo entrò con o restio e, a ridosso dei primi gradini, guardò in alto nella tromba delle scale come a voler intravedere la sagoma di Natsumi, ma ovviamente ciò non avvenne. Salì i gradini titubante, con l’orecchio teso a ogni minimo rumore, ma non udì alcunché. Arrivato al primo piano, si trovò due porte una di fronte all’altra, ma dall’aspetto e dalla polvere che vi era addosso, era palese che fossero chiuse da tempo immemore. Percorse la seconda scalinata con lo stesso timore riservato alla precedente e, al secondo piano, si presentò una scena simile se non identica a quella vista poc’anzi e quindi desistette nel tentare di aprire le due porte. Rimaneva una sola rampa di scale la quale, molto probabilmente, lo avrebbe condotto alla stanza nella quale Natsumi si esibiva in grande forma. Il o si fece ancor più timoroso di quello precedente e l’udito ancor più attento; in cima alle scale, su di uno scarno pianerottolo, c’era una sola entrata e senza porta, ma una sola tendina, leggermente trasparente, come varco. Haruki vi si avvicinò e lentamente la scostò. Una luce fioca venne dall’interno della stanza nella quale, sembrò di intravedere la figura di una donna
inginocchiata che pareva intenta nel compiere un fellatio a un uomo dall’addome schifosamente prominente. Trattenne il fiato nell’osservare quella scena, ma soprattutto perché gli parve di riconoscere nel profilo del viso della donna, quello della sua Nanà. Un conto è immaginarsele certe cose, ben diverso è vedersele di fronte, pensò sbalordito e affranto l’uomo che però pareva non riuscire a distogliere lo sguardo da quella scena raccapricciate e allo stesso tempo calamitante. Sua sorella se ne stava lì, dopo diversi anni finalmente era lì a pochi i da lui, però era inginocchiata a fare un pompino con una maestria alla quale non riusciva a credere. Gli salirono quasi le lacrime agli occhi e fu avvolto da un dispiacere profondo come fosse un amante ferito dopo aver scoperto la propria amata nell’atto del tradimento. Osservava quel viso così angelico per lui, anche se contornato da dei capelli biondi palesemente finti, e ripensava ai giochi fatti assieme in tenera età. La donna continuava imperterrita nel suo atto poi, lentamente e senza interrompersi, voltò lo sguardo verso di lui e per un attimo lungo una vita, i loro occhi s’incrociarono e si riconobbero. Lei si arrestò un momento, ma la mano eccitata dell’uomo subito l’afferrò per i capelli inducendola a continuare. Lui soffocò un respiro e scappò via. Corse via velocemente come probabilmente mai aveva fatto in precedenza. Vagò veloce per le vie di Dublino con la pioggerellina che gli bagnava leggermente il viso e i capelli impomatati e si arrestò solamente quando sentì i polmoni esplodergli e i muscoli delle cosce prendergli fuoco. Era avvolto dalla confusione più totale, si aggirava per delle vie che non conosceva minimamente, in un quartiere dall’aspetto poco rassicurante. Voltò diversi angoli, attraversò innumerevoli incroci, ma gli parve di essere fermo sempre allo stesso punto come se non ci fosse via di uscita, come fosse costretto a rimanere perennemente in quella zona quasi fosse un girone dantesco. La pioggia era leggera ma fitta e intensa, però lui parve non accorgersene così frastornato e sconvolto com’era. Ogni qual volta chiudeva gli occhi gli riaffiorava alla mente la scena di sua sorella che a bocca aperta muoveva ritmicamente il suo capo avanti e indietro. Quell’immagine lo colpiva allo stomaco come un pugno ben assestato provocandogli conati di vomito i quali tentò ripetutamente di mandare giù, lasciandogli però in bocca un sapore acido. Voleva piangere e dimenticare tutto. Non poteva sopportare l’idea che sua sorella fosse diventata davvero una prostituta da quattro soldi; già inorridiva all’idea che fosse una star di spettacoli porno, figurarsi saperla una sgualdrina. No, se sua sorella era diventata quella persona beh, preferiva perderla che riaverla. Si morse le lingua nell’attimo in cui fece quell’assurdo pensiero e con le lacrime agli occhi cominciò a barcollare e trascinarsi per le vie della città. Voltò ancora un angolo di strada e si accasciò a terra, riverso in una piccola pozzanghera con la pioggia che imperterrita gli cadeva addosso. Si portò il volto
tra le mani e pianse tutte le lacrime che non aveva, implorò e maledisse se stesso e il destino avverso, si compianse e si consolò. Volle follemente consolarsi illudendosi che quella che aveva visto non poteva giurare essere sua sorella, del resto non le aveva parlato e non le aveva visto per intero il viso. E poi la luce era fioca, la tendina gli copriva parte dell’immagine e sebbene si fossero osservati occhi negli occhi, ciò non significava assolutamente nulla. Aveva una gran voglia di bestemmiare, anche se molto probabilmente non ne sarebbe stato capace oppure, come gli era accaduto in ato, si sarebbe ritrovato a incidersele sul cuore, a lasciarle per sempre lì indelebili anche perché i conti con se stesso sapeva ben farli consapevole che alla fine il totale non sarebbe comunque cambiato. Ma lui era fatto così, come se avesse dentro di sé due cuori: uno buono e l’altro cattivo. Però non piangeva mai se non era davvero solo. E pianse. «Ehi, tu» fece una voce all’improvviso. «Tutto bene?» chiese un uomo a pochi metri da lui, in un gaelico impastato dall’alcol. Era seduto a terra con indosso dei vestiti lerci e inzuppati d’acqua ed emanava un fetore nauseabondo. Haruki sollevò il capo e lo osservò. Di seguito si guardò attorno scrutando attentamente quella via angusta e buia nella quale si era fermato. A pochi i dal barbone c’era un altro uomo sdraiato a terra, di fianco a dei cassonetti dell’immondizia, che pareva dormisse. «Sì sto bene, grazie» rispose poco convinto Haruki cercando di ricomporsi. «Vuoi un goccio?» domandò il barbone porgendogli la bottiglia che stringeva per il collo. Haruki lo guardò titubante. «Su, non fare lo schizzinoso. Prendi e bevi.» «Ma cos’è?» «Ma insomma, quante storie per un goccio! Bevi e falla finita, ti assicuro che è roba forte e da quel che vedo, credo che tu ne abbia uno stramaledetto bisogno.» Haruki si avvicinò e afferrò la bottiglia. All’inizio sorseggiò solamente ma poi, accorgendosi della bontà della bevanda, ne buttò giù una gran bella sorsata sotto lo sguardo soddisfatto del barbone.
«Che ti dicevo, roba forte eh?» «Sì, davvero forte. Mi ci voleva proprio» rispose Haruki porgendo la bottiglia all’uomo. «Problemi di donne?» domandò il barbone. «Cosa, scusa?» «Senti amico, se uno come te, così ben vestito, con indosso quelle scarpe costose se ne sta riverso a terra sotto la pioggia e con le chiappe nell’acqua, vuol dire che qualche donna gli ha fatto are un brutto quarto d’ora. Mi sbaglio?» «Forse sì. Magari ti sbagli e comunque non sono affari tuoi» rispose con cipiglio Haruki. «Ehi, ehi, non ti scaldare. Volevo solo fare due chiacchiere, a me sai quanto me ne frega? Ho smesso da molto tempo ormai di preoccuparmi degli altri» pronunciò il barbone e poi, voltandosi verso l’uomo riverso a terra, gli diede degli scossoni cercando di svegliarlo. «Ma cosa cazzo vuoi?» disse quello tirandosi su con scarsa voglia. «Abbiamo ancora un po’ da fumare?» gli chiese il barbone. «Oddio Lenny, te l’ha mai detto nessuno che sei un fottuto drogato? Beh, se non l’ha mai fatto nessuno lo faccio io ora: sei un fottuto drogato!» «Su Aaron, fai il bravo e tira fuori un po’ di quella roba» implorò Lenny. «Ehi, ma chi cazzo è quello?» domandò Aaron accorgendosi della presenza di Haruki. «Uno che pare abbia problemi di donne, ma che è meglio se non glielo chiedi perché sennò s’incazza» rispose ironico Lenny. «Ah!» disse laconico Aaron «Allora credo che sia davvero il caso di fumarci su.» «Ecco bravo, tira fuori la pipa» affermò impaziente Lenny.
I due cominciarono a trafficare tra di loro sotto lo sguardo curioso di Haruki. Colui il quale si faceva chiamare Lenny, tirò fuori una piccola cannuccia trasparente con un beccuccio da una parte e un piccolo imbuto all’altra estremità; Haruki sapeva perfettamente cosa fosse: era una pipa per fumare il crack. L’altro, Aaron, tirò fuori una bustina trasparente contenente delle scaglie bianche simili a quelle di sapone e le collocò nell’imbuto della pipa. Sarebbe stato però Lenny il primo a fumare, infatti, si portò il beccuccio alla bocca e con un accendino surriscaldò le scaglie bianche che in breve tempo cominciarono a crepitare emettendo i classici scricchiolii che danno origine al nome di quella tipologia di droga, per l’appunto crack. L’uomo aspirò avidamente il fumo in alcune boccate e poi, estatico, ò la pipa al suo compagno che ripeté l’operazione per poi cederla a Haruki il quale la raccolse con non poca titubanza, ma gli occhi dell’uomo lo esortarono a provare. Nel giro di pochi minuti Haruki si sentì pervaso da un’insolita energia mista a euforia e incondizionata vivacità. «Perdio, che bomba ragazzi» urlò l’uomo rivolgendosi ai due barboni. «Che cazzo ti dicevo, eh? Che cazzo ti dicevo? È roba forte o no?» gli chiese Lenny con uno strano luccichio negli occhi e si avventò di nuovo sulla pipa. «Fanculo le donne, amico» intervenne Aaron, «servono solo a complicarci la vita.» Di seguito fece un altro tiro e ò la pipa a Haruki che fumò avidamente. Si sentì il cervello schizzargli via dalla calotta cranica e formarsi un sorriso ebete sul viso e cominciò a ridere sguaiatamente. «E quella era lì inginocchiata a fargli un pompino, roba da non credere» disse sempre ridendo Haruki ormai preso dai deliri della droga. Fumarono ancora e ancora fino quasi a stordirsi. Ormai era diventato l’animatore della serata; saltava, parlava a gran voce, rideva, baciava e abbracciava i suoi nuovi compagni e li ringraziava per quell’invito alla loro mensa. I due uomini si guardarono con sguardi complici e di assenso: quell’uomo era come uno di loro. «È uno di noi, è uno di noi» cominciò a dire a gran voce e giovialmente Lenny e poco dopo gli fece eco Aaron e insieme batterono le mani a ritmo. «È uno di noi, è uno di noi» faceva quel coretto in quella via angusta e tetra rivolgendosi a Haruki il quale, udendoli, parve destarsi da quel momento di estasi. «Ma cosa cavolo state dicendo?» urlò l’uomo con rabbia osservando i due barboni che parevano non comprendere quel suo momento di ira. «Brutti stronzi,
io non sarò mai uno di voi. Io non sono un lurido barbone come voi altri. Mi fate schifo, brutti lerciosi irlandesi.» A quelle parole i due smisero di parlare e rabbuiandosi osservarono l’uomo il quale, in piedi, li sovrastava da lì seduti a terra. «Ehi, muso giallo, vacci piano con le parole» inveì Aaron e fece il gesto di alzarsi, ma prontamente fu fermato da un calcio di Haruki assestatogli sui denti. Successivamente fu Lenny a voler intervenire, ma ottenne il medesimo trattamento. Ora i due erano riversi a terra e Haruki continuò a infierire su di loro con calci e pugni e non fu sazio finché non li seppe tramortiti. Si sentiva un demonio, aveva in corpo un’energia tale che avrebbe sollevato mille pilastri di cemento armato e quei due schifosi barboni irlandesi avevano avuto quello che spettava loro. Come si erano permessi di paragonarsi a lui, un imprenditore di altissimo livello conosciuto in tutto il mondo, si domandò Haruki il quale, voltando le spalle ai due corpi, se ne andò via verso una meta non chiara e ormai dimentico che da lì a poche ore, avrebbe dovuto prendere un aereo per l’Italia, ma senza la sua Natsumi.
L’acqua scorreva veloce nel lavandino. Usciva limpida e fresca dal rubinetto per poi vorticare sulla ceramica e scomparire delicatamente nello scarico. Era chiara e trasparente, ma di seguito si colorò di un verde chiaro e spumoso. I rimasugli del dentifricio, misti all’acqua, scesero giù per i condotti di scarico e Haruki si sciacquò la bocca prima di abbassare la manopola del rubinetto. Ora il silenzio nel bagno era totale. L’uomo si tirò su col capo e si osservò all’enorme specchio che aveva davanti; le sue labbra erano bagnate e qualche goccia gli cadde giù dal mento. Afferrò il piccolo asciugamano blu che aveva di fianco e se lo strofinò sul viso. La morbidezza del panno e il suo profumo si adagiarono delicatamente sul suo viso da poco rasato, arrecandogli una dolce sensazione di piacere. «Farai meglio a fare i conti con la realtà.» Se lo aspettava, lo sapeva per certo che si sarebbe fatto vivo con la sua paternale retorica. Tolse l’asciugamano dal viso e, senza osservare lo specchio, lo ripose nel posto in cui lo aveva preso in precedenza. Nella sua visuale comparve l’orologio digitale che segnava le sei e tre minuti del mattino e pensò che fosse in perfetto orario per prendere l’aereo delle dieci e trenta che lo avrebbe portato a Sydney per un importate incontro di lavoro, uno di quelli nei quali si sarebbe
discusso di ingenti somme d’investimento a favore della sua azienda. «È solamente aprendo la porta a quello che non vuoi ammettere, che potrai fare pace con te stesso» proseguì l’uomo allo specchio e questa volta Haruki non poté ignorarlo. «Cos’è, sei diventato criptico?» domandò Haruki poggiando le mani al lavandino e avvicinandosi minacciosamente al vetro. «Un tempo eri più diretto e tagliente, invece ora sembri aver perso la tua superbia.» «Può anche darsi che sia meno superbo come tu dici, ma non dimenticare una cosa: io sono quello che tu sei. Non vivrei se tu non ci fossi, non sono altro che lo specchio del tuo essere più viscerale e, se un tempo ero sfrontato e tagliente, lo dovevo solamente al tuo ego. Ma adesso è arrivato il momento che tu apra la porta a tutto ciò che hai finora negato.» Haruki si scostò dallo specchio e sorrise beffardamente. «Non ho tempo da perdere con te, ho ben altre cose più importanti di cui preoccuparmi» rispose rivolgendosi all’uomo nello specchio e, chiudendosi la porta alle spalle, uscì dal bagno senza vedere la crepa che immediatamente si formò sulla superficie in vetro e il sangue denso che colò da esso. Si vestì in breve tempo indossando il suo abito porta fortuna che metteva su ogni qual volta doveva affrontare un incontro di lavoro importante (poiché l’incontro era previsto per il giorno seguente, una volta arrivato a Sydney lo avrebbe fatto lavare per poterlo rindossare), si spruzzò addosso un po’ di Caron e inforcò i suoi soliti Ray-Ban dalle lenti scurissime così da mascherare i suoi occhi da troppo tempo ormai inespressivi. Osservò l’orologio al polso e costatò di essere in perfetto orario, il taxi sarebbe stato sotto casa a momenti e quindi si apprestò a uscire. Digitò il codice sulla tastiera col quale azionò il sistema di sicurezza che si sarebbe innescato una volta uscito e aprì la porta. Il frastuono nel suo cuore fu grande come la sorpresa che ebbe nell’osservare il corpo riverso a terra, sul pianerottolo di fronte l’entrata di casa. Il corpo della donna era adagiato lì ai suoi piedi con il capo poggiato su di una sacca ed era distesa su di un fianco, come se dormisse. Un gatto le girava attorno e, facendo le fusa, le strofinava la testa contro. Poi si accorse della sua presenza e abbaiò. Haruki non ci fece caso, preso com’era dall’incredibile immagine che gli si mostrava e per lo sgomento, lasciò cadere la piccola borsa da viaggio che stringeva nella mano.
«Star-moon» esclamò quando la riconobbe. Senza nemmeno ragionarci troppo gli era tornato alla mente quel nomignolo che le aveva affibbiato in un tempo e in un luogo che parevano ormai così lontani, sperduti, tali da sembrare degli sparuti miraggi. Star-moon, lei che aveva sempre brillato di luce propria e mai riflessa proprio come una stella. Così lucente da indurre chiunque a mirarla per tempi senza fine. Ma allo stesso tempo era simile alla luna perché, proprio come lei, una sua parte rimaneva oscura ed evitava di rivelarla, mostrandosi al mondo ancora più affascinante e misteriosa. Quel suo lato oscuro era solo un’ombra buona a nascondere le sue paure, le sue vanità. Si era sempre definita cinica perché, com’era solito affermare, dava alle cose il giusto disprezzo che meritavano, ma secondo lui tutto era dipeso solamente da quella sua accentuata sensibilità che le aveva arrecato molte disillusioni inducendola così a quella incondizionata ostilità verso il mondo. S’inginocchiò al suo fianco e le sorresse dolcemente il capo che pareva inerme, privo di forza come se tutti i muscoli del suo corpo non avessero più alcuna capacità. Forse dormiva, forse era persa in sogni a lui nascosti ma fondamentalmente bramati e si trovò amorevolmente ad accarezzarle il viso. Aveva la pelle liscia e quei suoi capelli sottili e di un nero corvino, gli sfioravano delicatamente la mano recandogli un gradevole solletico. Sua sorella aveva preso di nuovo le sembianze di un tempo e non più le fattezze di quella donna dai capelli biondi che aveva visto in quella foto nel locale dublinese. Ora le sue labbra erano leggermente socchiuse e castamente inclinate verso il basso, completamente differenti dall’ultima immagine che ricordava di lei. Haruki strinse gli occhi e scosse leggermente il capo nell’intento di scacciare dalla mente quelle immagini per lui troppo insane da sopportare. L’uomo allo specchio aveva avuto ragione poiché solo aprendo la porta, avrebbe avuto modo di fare i conti con la realtà e ora quella verità gli era tra le mani. Coccolò delicatamente il capo della donna e dolcemente pronunciò il suo nome avvicinandosi all’orecchio, ma non vi fu nessuna reazione. La donna probabilmente dormiva, ma pareva nemmeno respirasse e quindi pensò terribilmente che fosse morta. «La morte è quanto vediamo da desti, il sonno è quanto vediamo dormendo» disse d’improvviso il gatto rivolgendosi all’uomo come se gli avesse letto nei pensieri. «Ma sei stato tu a parlare?» chiese Haruki disegnandosi un’espressione di sorpresa sul volto.
«Certo che sono stato io, chi altri sennò? La bella addormentata?» rispose piccato il felino indicando la donna e poi aggiunse: «Ti facevo più intelligente, ma probabilmente m’ingannavo.» «Ma i gatti non parlano» affermò l’uomo ancora incredulo per quel dibattito. «Ah sì? E allora che cosa starei facendo in questo momento?» «Beh, stai parlando ma…» «Allora non abbiamo altro da dire al riguardo, anche perché non ho voglia né tempo da perdere in queste futili disquisizioni» chiosò il gatto con espressione saccente, «credo, piuttosto, che dovremmo preoccuparci della ragazza, sei d’accordo?» L’uomo mosse il capo assentendo. «Bene» continuò il gatto e fece qualche o in avanti avvicinandosi al viso della donna. A ogni ettino, il piccolo camlo che aveva attaccato al collo, emetteva un dolce tintinnio. Era un bel gattone grigio con una macchiolina marrone di poco sopra l’occhio sinistro e, a un’attenta osservazione, Haruki si accorse che i due occhi erano di colore diverso: uno nero e l’altro blu. «Io sono il suicidio dei sogni. Devi sapere che ognuno ha un sogno recondito o meno al quale sin da piccolo aspira o sul quale fantastica futuri idilliaci. C’è chi spera di diventare un famoso pittore, chi il classico astronauta e chi, come te, un ammiraglio di epoche ate.» Haruki strabuzzò gli occhi nel sentire quelle parole e si chiese come fe quel gatto a sapere di quel suo sogno d’infanzia ormai quasi completamente dimenticato e si apprestò a chiederglielo. «Zitto, non interrompermi o mi farai perdere il filo del discorso» lo precedette il gatto. «Come dicevo, io sono il suicidio dei sogni. Rappresento la fine delle aspettative degli esseri umani che, per ragioni diverse, decidono di mettere a tacere; praticamente ammazzano le proprie ambizioni e, in linea generale, sono fedele al mio compito: chi fa suicidare il proprio sogno, vivrà per sempre con una parte mancante dentro di sé e, naturalmente, non lo riavrà più e io adempio a questo ingrato compito. Ma nel caso di Natsumi, ho voluto fare uno strappo alla regola e quindi ho deciso di ridarle quello che ha sempre desiderato o per lo meno, renderle un alito di speranza che in fondo è il motore di voi umani.»
Per Haruki il discorso sembrava inerpicarsi per vie impervie che però non voleva assolutamente percorrere o almeno gli pareva non averne la forza e quindi desistette nel porre domande. Di seguito il gatto si avvicinò ulteriormente al viso di Natsumi, fino a sfiorarle le labbra che prontamente leccò. Sembrava quasi che l’animale stesse baciandola, più che lambirne le labbra e a quel contatto la donna pareva rispondere piacevolmente. In un attimo la bocca di Natsumi si aprì e il gatto, lentamente, ci infilò la testa dentro. Gli occhi dell’uomo si sbarrarono quando vide la bocca di sua sorella spalancarsi in una posizione innaturale sembrava quasi le si fosse slogata la mascella - e il gatto inoltrarcisi dentro con tutto il corpo. L’ultima immagine che ebbe dell’animale, fu la parte finale della coda che scomparve dolcemente nell’attimo in cui la bocca si chiuse dietro di sé. Haruki a stento trattenne un conato di vomito. Poco tempo dopo la donna aprì gli occhi e, riconoscendo lo sguardo familiare del fratello, pianse silenziosamente. Non aveva smesso di piangere per un solo momento; non era un pianto eccessivo, rumoroso, ma tutt’altro: era silenzioso, delicato, soffocato. Haruki l’aveva sorretta tra le braccia e aiutata a entrare in casa. Le aveva sfilato gli stivaletti che indossava ai piedi e stesa sull’enorme e comodo divano. Il caminetto lì di fronte, con la semplice pressione su di un pulsante, fu attivato dall’uomo così che potesse riscaldare le membra della donna che parevano gelare a un freddo che però non vi era. Piangeva e soffocava i suoi singulti mentre da una tazza sorseggiava un caldo tè verde. Era ata più di mezz’ora da quando erano rientrati in casa, ma la situazione pareva non voler cambiare: lei stesa sul divano, lui di fronte alla finestra in balia di vorticosi pensieri. Haruki aveva chiamato la sua segretaria personale alla quale, senza dare troppe indicazioni, aveva chiesto di annullare il viaggio a Sydney e di non disturbarlo per tutta la giornata. La donna aveva ubbidito diligentemente senza porre interrogativi e lui l’aveva apprezzata per questa sua efficienza. E adesso, da circa trenta minuti, era fermo immobile a osservare dalla finestra il sole che andava lentamente illuminando la città, donandole una luce particolare che solo in determinati periodi dell’anno era possibile scorgere. Anche lui aveva in mano una tazza fumante di tè verde e, bevendolo, sentiva piacevolmente quella bevanda scendergli giù per l’esofago riscaldandogli le interiora e facendolo sentire vivo. «Ho lo stomaco sottosopra, mi sento come se avessi ingurgitato un bue intero» furono le prime parole che gli rivolse Natsumi. Haruki si voltò immediatamente nell’udire, dopo tanti anni, quella voce a lui così cara.
«Lo credo bene» rispose l’uomo figurandosi la scena del gatto che le entrava in bocca, ma non le offrì spiegazioni quando sua sorella lo osservò con fare interrogativo. «Nanà, a parte lo stomaco, come ti senti?» le domandò premuroso, avvicinandosi e inginocchiandosi al suo fianco. La guardò fissa negli occhi e si trovò immerso in un ato così familiare, così felice e pieno di affetto. Si sentì pieno di amore e forte di ione per quella donna che sentiva quasi come un prolungamento del suo corpo il quale per tanto, troppo tempo gli era stato amputato. Amava lei come un’esigenza vitale. Allo stesso modo in cui sentiva la necessità di respirare, così avvertiva l’inarrestabile e impellente bisogno di amarla sempre e incondizionatamente. Un amore non si costruisce, ma se ne sente l’esigenza. «Mmm, mi sento bene» rispose la donna portandosi la mano alla testa, «forse appena frastornata.» «Vuoi che ti dia qualcosa che so, un’Alka-Seltzer?» le domandò premuroso e fece per alzarsi. «No, no. Non ho bisogno di nulla, resta qui accanto a me» rispose Natsumi afferrandolo per la manica e inducendolo a inginocchiarsi al suo fianco. Lei era sempre sdraiata sul divano, in quella casa a lei così poco familiare. Forse era stata in quel posto un paio di volte nella sua vita, ma non poteva affermarlo con esattezza. Non è che le dispie far visita al fratello, ma preferiva incontrarlo in qualche locale, oppure eggiare in sua compagnia per le vie della città, ma questo sempre in un ato che ormai pareva un’altra vita. Poi si tirò su a sedere e avvertì un leggero capogiro. «Ho voglia di tornare a cantare» esordì tenendo gli occhi chiusi con l’intento di far are quello stordimento. «Credevo che questo sogno infantile mi avesse abbandonato, ma ora mi è come rinato dentro. Così, d’improvviso» aggiunse stringendosi nelle spalle e rivolgendo i palmi delle mani verso l’alto non sapendosi dare una spiegazione. Haruki la osservò senza proferire alcuna parola, poi si tirò su in piedi e, afferrandola per le mani, la baciò castamente sulle labbra. «Mi sei mancata, Nanà» le disse. La donna lo osservò laconicamente.
La radio suonava una musica che Haruki in un primo momento parve non riconoscere. La melodia era delicata e accattivante allo stesso tempo; si udivano degli archi che facevano da cornice alle parole dolcemente cantate da una voce femminile che sapeva familiare, ma gli rimaneva difficile riconoscere.
All that no one sees You see what’s inside of me Every nerve that hurts You heal deep inside of me You don’t have to speak, I feel³
«Bjork» fece Natsumi ascoltando la canzone, «ti ricordi il concerto al quale mi accompagnasti?» Già Bjork, pensò Haruki, la voce alla radio era quella della cantante islandese e ricordava perfettamente il concerto al quale avevano assistito insieme e ne conservava dei bellissimi ricordi. «Certo che me ne ricordo, come potrei dimenticarlo.» I due erano seduti entrambi al tavolo della cucina e si osservavano fissi negli occhi, ma senza parlare come se bastasse quella comunicazione non verbale a ricoprire storie e anni ati senza sapere nulla l’uno dell’altra. «Hai voglia di parlare un po’?» domandò Haruki. «Di cosa vorresti che parlassimo?» chiese di rimando la donna. «Beh, potremmo cominciare dall’inizio. Perché sei sparita così all’improvviso?» Lei desistette un momento poi domandò: «Perché invece non mi offri qualcosa da mangiare? Ho improvvisamente una fame da lupo.»
L’uomo accennò a un gesto di assenso col capo e si alzò dalla sedia. Ai piedi non indossava scarpe né calzini e i suoi i sul parquet lasciarono un piccolo alone, un velo leggero delle sue ombre impresse a terra. Natsumi le osservò e ne sorrise teneramente. Haruki prese da uno sportello una confezione di pane di segale integrale tagliato a fette e lo ripose sul ripiano. Aprì il grande frigorifero dagli sportelli color acciaio e ne trasse fuori della lattuga imbustata, dei pomodori, una confezione di fesa di tacchino a fette e del burro e ripose il tutto di fianco al pane. Sciacquò l’insalata e i pomodori che successivamente tagliò a fette sottili. Imburrò il pane e ci pose dentro un paio di fette di fesa e farcì il tutto con i pomodori e l’insalata. Preparò un altro sandwich alla stessa maniera e li adagiò in un piatto che poi pose di fronte alla sorella. Sempre senza dire nulla, riempì due bicchieri con del succo d’arancia rossa, uno per sé e l’altro per la donna. Poi si sedette al tavolo e, sorseggiando il succo, la osservò mangiare avidamente, pareva quasi non mangiasse da tempo immemore o forse era da molto che non assaporava qualcosa preparatole con affetto. «Da piccolo avevi quel buffo modo di pronunciare la esse e io ti prendevo in giro, te ne ricordi?» «Sì che me ne ricordo e non dimentico che ciò mi dava tanto fastidio. Non potevo soffrire l’idea che tu, mia sorella minore, ti prendessi gioco di me e soprattutto di fronte ai miei amici.» «Ahahahah» sorrise amorevolmente Natsumi, stringendosi le ginocchia al petto e poggiando la guancia destra su di esse. «Non credi sia giusto che tu mi dica che cosa ti è capitato?» domandò prontamente Haruki rompendo quell’idillio che si prolungava da diverso tempo e che lo stava silenziosamente straziando. La faccia della sorella si fece d’improvviso seria e, drizzando lo sguardo, lo fissò decisa negli occhi. «Ho scoperto che i ricordi a volte fanno male come lame affilate, come pugni sferzati con violenza inaudita» gli rispose criptica. «Ti prego Natsumi, sono anni che vivo col dolore nel cuore perché incapace di dare una ragione alla tua scomparsa quindi, t’imploro, cerca di essere meno evasiva e il più chiara possibile.»
La donna si portò una ciocca di capelli dietro all’orecchio sinistro e trasse un respiro profondo. Indossava una canottiera nera dietro la quale s’intravedevano due piccoli seni nudi e parte del petto bianco e magro. Al collo indossava una collanina nera di cuoio intrecciato e alle orecchie due enormi orecchini dalla forma sottile e circolare. Le mani parevano esangui, ma allo stesso tempo non palesavano alcun tremolio, sembravano in preda a una ferma decisione. Natsumi era sempre stata, una ragazzina prima e una donna poi, estremamente decisa, caparbia e dall’aspetto fiero, come lo era in quel preciso momento. «Sono fuggita perché un giorno, un ricordo che probabilmente avevo riposto in cassetti sperduti, è venuto freddamente a riscuotere un esoso tributo. Un ricordo che nemmeno sapevo esistesse, ma che ho avuto la brutta sorpresa di sapere che invece era lì e non sarebbe mai andato via. Il panico mi ha avvolta, per la prima volta in vita mia la razionalità mi ha abbandonata e il mio raziocinio è stato sopraffatto dalla paura. Haruki, quel giorno ho perduto la mia vita precedente e sono fuggita in contro all’ignoto.» Parevano parole senza senso, ma Haruki sapeva che se avesse atteso, se avesse avuto pazienza ne avrebbe capito il significato. Poi Natsumi buttò giù l’ultimo sorso di succo d’arancia e ripose il bicchiere di fianco al piatto vuoto. «Ho vagato per mezza Europa alloggiando da amici e conoscenti o da persone che incontravo sul posto. Sono stata per mesi con un gruppo di gitani che vagavano per la Spagna vivendo di espedienti e piccoli furti. Ho incontrato persone che mi hanno dato tanto e aiutato a dimenticare il male vissuto nella mia vita precedente, ho fatto l’amore con diversi uomini e a volte con più di uno allo stesso tempo. Ho amato per diversi mesi una donna con la quale non ho avuto rapporti sessuali, ma qualcosa di più, qualcosa che va al di là di ogni comprensione carnale e quella donna mi ha fatto capire che non potevo rimanere ferma in un posto se volevo trovare la mia nuova vita, ma viaggiare per il mondo. Così ho sofferto il freddo in Russia e nei paesi del nord Europa, ho vissuto nei sobborghi di Parigi e Amsterdam per poi finire naufraga sulle sponde dell’Irlanda dove un vecchio mormone in esilio è riuscito a leggermi dentro. Ha scrutato in una ciotola contenente dei sassolini, sabbia bianca e la mia saliva, il mio destino. Mi ha detto che il mio corpo non mi apparteneva e che per potermi sentire libera dovevo cederlo ed elevare il mio spirito che, una volta estraniato dall’involucro che lo imprigionava, si sarebbe collocato in uno più adatto. Ma qualcuno ha travisato il suo pensiero e quindi la mia volontà e mi ha indotto a fare qualcosa che non era nelle mie intenzioni. Mi hanno indotta a credere che,
mostrarmi su di un palcoscenico mettendo in mostra le mie carni e spolparmi da esse, mi avrebbe fatto raggiungere il mio destino. Da lì alla prostituzione il o è stato breve finché non mi sono destata da quell’incubo e ho provato a reagire, ma ho ottenuto solo la rabbia dei miei protettori.» La donna sembrava sciorinare quella cronologia di eventi senza alcun sentimento, come se quegli episodi fossero capitati ad altri e non a lei e in tutto questo Haruki l’ascoltava con trasporto e immaginava lo stato d’animo nel quale si trovava la sua amata Nanà mentre le capitavano tutte quelle assurde vicissitudini. «Mi sono trovata in balia degli eventi» continuò Natsumi, «ma senza la forza di potermi ribellare e fuggire via da quella situazione tremenda che mi lasciava dentro ferite profonde quasi quanto quelle dalle quali ero fuggita. In tutti quegli anni, però, una sola figura campeggiava sempre nel mio animo e nei miei ricordi ed eri tu. Mio fratello, la persona che più ho amato al mondo e che però avevo schifosamente tradito andando via senza farlo partecipe di quella mia decisione. Però sapevo che solo tu potevi aiutarmi e quindi ti ho inviato quella cartolina anonima per evitare che chi mi controllava potesse capire la mia richiesta d’aiuto, ma allo stesso tempo sapevo che tu avresti compreso al volo la situazione. Poi il resto lo sai» concluse Natsumi abbassando la testa e riappoggiando la guancia sulle ginocchia.
Si pinzava stretto le narici con un fazzoletto bianco per arrestare il sangue che improvviso era zampillato fuori, cascando sul tavolo. Forse tutte quelle notizie e tutte insieme, gli avevano arrecato quell’inattesa epistassi e ora se ne stava lì, col naso all’insù, aspettando che si coagulasse. «Ti senti bene?» domandò Natsumi rimanendo seduta al solito posto. «Sì, non è niente di grave. Ora mi a» rispose Haruki con voce nasale, dopo di che tolse il fazzoletto dal naso e appurò l’avvenuto arresto della piccola emorragia. Gettò il fazzoletto macchiato di sangue nella pattumiera e si sciacquò il viso e le mani al lavandino, per poi tornare a sedersi di fronte alla sorella schiarendosi la voce. «Quello che mi racconti ha dell’incredibile, lo sai?»
«Può darsi, ma è ciò che mi è realmente accaduto» rispose con tono inespressivo la sorella. «Ma come ci sei arrivata fin qui, come sei riuscita a fuggire dai tuoi protettori?» Natsumi scosse il capo e sollevò le spalle assumendo un’espressione di leggero sgomento. «Non ne ho la più pallida idea. L’ultima cosa che ricordo è il momento in cui mi sono sdraiata nel lercioso letto di quella squallida stanza nella quale alloggiavo e il pensiero che ho avuto prima di coricarmi» la donna a quel punto fece una pausa come a voler riordinare le idee e i ricordi. «Ho pensato a ciò che avevo rinunciato in favore di quella misera vita che mi trascinavo ormai da troppo tempo e cioè, al sogno di una vita: cantare. Poi, quando ho riaperto gli occhi, ero sdraiata sul pavimento fuori casa tua e ti osservavo dritto in viso, ma come ci sia arrivata lì non lo so.» Haruki sconfortato e frastornato, si portò le mani sul viso e si massaggiò gli occhi. Natsumi capì il suo momento di disagio e quindi si sporse verso di lui e gli sfiorò le mani accarezzandogliele. L’uomo se le tolse dal volto e le pose in quelle della donna e tornò a osservarla, ma sapeva di avere un viso colmo di punti interrogativi. «Perché sei scappata via da me, da noi?» La donna sospirò profondamente e strinse le mani dell’uomo come a voler bloccare quella domanda che, sapeva già per certa, presto o tardi le avrebbe posto. Non sapeva in che modo, ma avrebbe dovuto rispondergli e, osservando in più punti della casa, sembrò cercare in essi le parole adatte. «Non so dirti di preciso in che occasione fosse, ma ricordo perfettamente la scena che mi ha come folgorata. Papà era seduto su di una sedia in una stanza che ora ricordo vuota, ma molto probabilmente non era così, ma è del tutto irrilevante. Stava lì seduto e non vedeva me che lo osservavo e lo guardavo con amore, con gli occhi amorevoli che una figlia può avere nei riguardi del proprio padre. Poi però qualcosa è mutato, una variabile non calcolabile ha scheggiato la perfezione del sistema. A un certo punto l’ho visto chiamare qualcuno e, con il gesto della mano, invitarlo a raggiungerlo. Poco dopo una bambina, forse di appena sette anni, è entrata a far parte della scena. Era una bambina piuttosto piccola di statura, ma alquanto carina. Aveva delle meravigliose trecce ai lati della testa e indossava un grazioso vestitino a fiori colorati. Papà le disse
qualcosa che io non udii e poi, sollevandola, la portò a sedere sulle sue ginocchia. La scena di per sé, e vista dall’esterno, poteva sembrare fin troppo tenera, ma non lo fu per me. Non so dirti come, ma qualcosa scattò nei miei ricordi; come una chiusura a scatto che si era aperta d’improvviso. Quella bambina sulle ginocchia di nostro padre, in quel momento divenni io. Divenne la me di un ato inconsciamente rimosso o forse solamente accantonato perché mi bastò osservare gli occhi di quell’uomo, per farmi tornare alla mente un episodio che mi ha devastata nel profondo più intimo.» Natsumi si arrestò un momento e deglutì rumorosamente. «Haruki, nostro padre mi ha violentata carnalmente quando avevo più o meno l’età di quella bambina!» Haruki strabuzzò gli occhi e un brivido freddo gli attraversò la schiena facendogli rizzare la pelle e quella sensazione gli serrò la mascella in uno spasmo incondizionato. «Non so come, ma quella scena aveva aperto cassetti nascosti dentro di me che erano chiusi da sempre, ma evidentemente pronti ad aprirsi nel momento in cui avrei trovato la chiave giusta. Osservai quell’immagine atterrita e, quando papà alzò lo sguardo e c’incrociammo con gli occhi, a entrambi fu chiaro cosa io stessi ricordando e provando. A nulla valse il suo tentativo di parlarmi per magari riporre via quel ricordo, poiché ero già fuggita» concluse Natsumi sensibilmente scossa nel citare quell’episodio. «Sei sicura di quello che dici, vero?» chiese Haruki con poca convinzione e gli bastò osservare per un attimo il luccichio negli occhi della sorella per rendersi conto della futilità di quella domanda e si morse il labbro inferiore. Poi si tirò su in piedi e, scavalcando con il corpo il tavolino, abbracciò con forza il corpo esile della donna. I due rimasero così per un tempo imprecisato come volessero fondersi l’uno nell’altra, come a suggellare un’unione che andava al di là del semplice amore fraterno, poiché loro si sentivano qualcosa di ben più importante e profondo. Di seguito fece un o indietro e tornò a sedersi. «È terribile quello che mi hai appena detto e mi ha disorientato» chiosò Haruki. «Non dirlo a me» rispose con un sorriso amaro Natsumi. L’uomo pareva non voler credere alle sue orecchie e si sentiva come stesse camminando su di un filo teso sull’orlo di un precipizio, ormai certo che tra breve sarebbe caduto di sotto.
«Scusami un momento» le disse, poi si alzò e si diresse in bagno. Lì si aspettò di trovare l’uomo dello specchio, ma stranamente non c’era e intimamente se ne dispiacque perché paradossalmente sentì il bisogno di parlare con qualcuno che veramente lo conosceva e chi meglio del suo ego? Di seguito si spogliò, s’infilò sotto la doccia e si lavò accuratamente quasi a volersi togliere di dosso le parole che sua sorella gli aveva gettato contro. Parole che però sapeva non sarebbero andate via con del semplice sapone e forse con nient’altro al mondo. Suo padre era un lurido pedofilo, questa era la concreta verità. Poi alzò il capo in alto e, aprendo la bocca, si fece scorrere l’acqua in gola come a voler sciacquare non solo l’esterno del suo corpo, ma anche l’interno. Uscì dal bagno con indosso un accappatoio bianco candido, col cappuccio calcato sulla testa e con le mani si frizionava i capelli tentando di asciugarli. D’improvviso arrestò il suo o e si osservò intorno e notò che qualcosa era cambiato, la casa era vuota. Ma non era vuota per la mancanza di mobilia, ma per l’assenza dell’anima: Natsumi era sparita. Il cuore dell’uomo parve saltare un giro, poi udì squillare il suo telefono personale e si diresse verso di esso con o spedito. Lo raccolse da terra di fianco al divano e lesse trepidante il nome sul display che lampeggiava imperterrito come se volesse spronarlo a rispondere. Guardò quel nome atterrito come mai gli era capitato prima, come forse mai pensava gli sarebbe accaduto. Sospirò profondamente e, facendosi coraggio, premette il pulsante raffigurante la cornetta verde il quale avrebbe dato l’avvio alla comunicazione e, avvicinandosi il cellulare all’orecchio, rispose: «Pronto papà? Sai, pensavo proprio a te in questo momento…» Poi fu tutto nuovamente buio.
Terzo sogno. Sempre sotto anestesia
Dissolvenza.
Nuotavo. Sì, la sensazione che provavo in quel momento era di nuotare in acque dense, melmose come quelle di un lago fangoso. Con le braccia e le gambe facevo una fatica indescrivibile nel tentare di farmi largo tra quelle acque limacciose eppure ero certo di essere un ottimo nuotatore, ma ciò pareva non essere sufficiente e anche la mia prestante struttura fisica, in quel momento, era del tutto irrilevante. Avevo praticato nuoto sin da piccolo del resto, vivendo l’intera infanzia in una piccola cittadina di mare, si poteva tranquillamente affermare che l’acqua fosse il mio elemento naturale. Eppure, tra quelle piccole onde che ora imperversavano attorno a me, sembrava quasi non avessi mai nuotato in vita mia. Mi sforzavo al massimo, battevo forte le braccia e le gambe e sentivo i muscoli come se stessero prendendo fuoco e in seguito irrigidirsi come pezzi di granito. A dire il vero non saprei affermare se ciò nel quale stessi nuotando fosse acqua o qualunque altro elemento perché, in realtà, non vedevo assolutamente niente: attorno a me c’era solamente il buio più totale. La sensazione che provai era quella di trovarmi con gli occhi chiusi, serrati e, per quanti sforzi fi, non riuscivo a capire se effettivamente era così o se invece fossi caduto in un buco nero, nell’infinità del cosmo nel quale probabilmente stavo fluttuando da chissà quanto tempo. Continuai a lottare per cercare di portarmi avanti, nel tentativo di avanzare di qualche metro, ma mi sentivo il corpo imbrigliato come fosse bloccato da tante alghe o piante simili. Il respiro si fece corto e avvertii il cuore cominciare a battere all’impazzata, mentre in gola mi pareva d’avere una colata di sabbia e mi sopraggiunse un impellente bisogno di bere. L’istinto, la sopravvivenza o forse l’incondizionata paura di morire mi avvolsero e mi spinsero a lottare con tutte le forze, ma parevano non bastare. Mi sembrava che nemmeno se avessi avuto la forza di mille uomini, sarei stato in grado di potermi districare tra quelle acque (ma poi, erano davvero delle acque?) e portarmi avanti verso una meta che però non esisteva poiché erano solo le tenebre a caratterizzare quel luogo a me sconosciuto e informe. Come ci fossi capitato in quella situazione, non sapevo spiegarmelo, ma l’unica risposta che mi
davo era quella di andare avanti, uscire da quel buco nero, percorrere quella via non propriamente segnata e raggiungere un punto luminoso, vitale. D’improvviso sentii che le forze mi vennero meno e i muscoli mi s’irrigidirono e fui sopraffatto dai crampi. Il dolore che mi prese ai polpacci mi fece crollare e rapidamente mi sentii scivolare verso il basso, inghiottito da quella melma. Cominciai a sbracciare con la vana speranza di trovare un appiglio al quale tenermi, sorreggermi per non andare a fondo ma poi, per mia fortuna, con i piedi toccai il fondale e mi accorsi che allo stesso tempo riuscivo a stare con il capo fuori da quelle acque. Nel momento in cui toccai terra, mi rilassai e i muscoli si distesero e ripresi fiato tranquillizzandomi. Feci un paio di respiri profondi e inalai più ossigeno possibile, anche se non mi fu propriamente chiaro se ciò che stavo respirando fosse davvero ossigeno o qualcos’altro, ma per il momento non me ne preoccupai. Con i piedi tastai bene il terreno e rabbrividii quando mi accorsi che il suolo non era per nulla duro e denso come la terra bensì molle e sotto il mio peso, a ogni o, mi sentivo sprofondare di qualche centimetro. Avanzai lentamente e non senza fatica tra quei cuscinetti melmosi che si spandevano sotto i miei piedi, mi pareva d’essere capitato in un film di Cronenberg e, tra l’altro, uno dei più riusciti. Però avanzai, imperterrito mi feci largo con i piedi e le braccia buttando via da me quell’acqua, ma sempre senza vedere assolutamente nulla. Poi improvvisamente mi sentii come spinto da una forte corrente e di fatti, cominciai ad avanzare più velocemente, sempre di più. Ora le mie forze erano rivolte ad arrestare quella mia avanzata e non più a favorirla. Avevo paura di dove quella corrente mi stesse portando e, puntando i piedi, per quel che mi era possibile vista la scarsa densità del suolo, tentai di fermare l’avanzata o almeno rallentarla, ma furono gesti vani. La corrente aumentò sempre più finché mi accorsi di non avere più terreno sotto di me e sentii che stavo scivolando verso il basso. Tutt’a un tratto ero cascato in una sorta di canale e ora stavo filando via velocemente lungo un condotto contorto, sbattendo da una parte e l’altra. Mi sentivo come su di uno scivolo di un parco acquatico, uno di quelli con tante curve che ti fanno vorticare in modo divertente, anche se, in quel caso, tutto provai fuorché divertimento. La mia discesa pareva non voler mai terminare, correvo giù andando sempre più in basso con l’acqua che facilitava quel movimento ed evitava il possibile attrito con la base di quel canale. Scivolavo velocemente, ma in un modo così repentino che non ebbi neanche il tempo di ragionare e quindi di provare paura. Ricordo solamente che il respiro mi si bloccò in gola e che nel petto il cuore pareva esplodermi; l’adrenalina ormai era l’unica sostanza che mi teneva in vita o almeno faceva sì che non svenissi. Mi sentivo i capelli impiastricciati al contatto con quell’acqua e alcune gocce vennero a contatto con le mie labbra e,
assaggiandole, ne assaporai il gusto e la consistenza. Pareva un budino, ma il sapore non era altrettanto piacevole anzi, aveva un retrogusto acidulo che prontamente m’indusse un conato di vomito. Tossii in modo convulso e così intenso che sentii schizzarmi gli occhi fuori dalle orbite, mentre inarrestabilmente continuavo la mia discesa lungo quel canale, avvolto sempre dalle tenebre. Scivolavo giù senza mai rallentare e solo il buon Dio, o forse in quel caso sarebbe stato meglio scomodare Satana, sapeva dove stessi andando. Poi qualcosa cambiò: il buio cominciò a fendersi leggermente e una sottile luce arancione, quasi crepuscolare, fece il suo ingresso dando visibilità ai miei occhi. Di seguito caddi a terra. Il canale nel quale stavo scendendo, s’interruppe come fosse spezzato e io caddi a terra compiendo un volo di diversi secondi. Anche se l’atterraggio non fu per nulla comodo, fortunatamente non avvertii alcun dolore quasi come se il mio corpo fosse diventato magicamente di gomma. Mi tirai su a sedere e frastornato mi guardai attorno cercando di capire dove diavolo mi trovassi, ma sconcertato non sapevo ancora dirlo. Osservandomi mi accorsi di essere nudo, se si faceva eccezione per un minuscolo panno bianco che mi copriva le parti intime lasciandomi però scoperte le natiche. Volsi lo sguardo da una parte e poi dall’altra e dinanzi ai miei occhi si palesarono immense distese di terra rossa come quelle del pianeta Marte che avevo visto raffigurato nei libri di scienza e su, in alto, c’era un cielo senza nuvole e dello stesso colore della terra sottostante che non permetteva di distinguere dove terminasse uno e iniziasse l’altro. Titubante, ma curioso di capire dove mi trovassi, avanzai per quelle lande desolate senza sapere dove andare, ma qualcosa pur dovevo fare, non potevo certo rimanere lì immobile ad aspettare un aiuto divino. Il suolo era completamente regolare e caratterizzato da una calda temperatura che donava un leggero piacere alle carni dei miei piedi. Avanzai su quel terreno senza osservarlo, ma fissando il mio sguardo all’orizzonte che però sembrava senza fine. La regolarità di quel suolo d’improvviso mutò e mi sembrò di camminare su dei sassi sconnessi e separati gli uni dagli altri. «Ehi, per la miseria! Fa attenzione a dove metti quei piedi, figliolo» fece una voce proveniente dal basso. Istintivamente alzai un piede e osservai a terra e, strabuzzando gli occhi, vidi che sotto i miei piedi c’erano le teste di due anziani signori. L’uomo che aveva parlato e la donna al suo fianco, erano interamente seppelliti sotto terra con l’unica eccezione della testa. Guardando bene, però, mi accorsi che accanto a loro vi era un’altra testa e poi un’altra e un’altra ancora e via così a perdita d’occhio.
«Mi scusi» mi affrettai a dire a quell’uomo, ma non potendo fare altro, mi spostai su di un’altra testa lì di fianco che presto mi rimbrottò. «Ehi, accidenti. Cerca di essere un po’ delicato, ho già un mal di testa straziante oggi.» «Sono molto spiacente, ma non saprei davvero dove poggiarmi. Del resto il suolo è fatto di tante teste e solo su di esse posso camminare» tentai di giustificarmi. «Lo so bene, sono una di loro» rispose il capo sotto il mio piede. «Ma cosa ci fate tutti lì, infilati sotto terra in quella posizione?» domandai più sgomento che curioso. «Prendiamo la tintarella, che altro sennò?» rispose piccato l’uomo sotto di me e poi aggiunse: «Ma che razza di domande fai, sarai mica scemo? Siamo qui in attesa di giudizio e nel frattempo espiamo le nostre colpe.» «In attesa di giudizio» ripetei come un pappagallo. «Esattamente, aspettiamo che la grande mano ci dissotterri e ci conduca finalmente alla luce» affermò l’uomo. Io non capii esattamente di cosa stesse parlando, ma ebbi paura di formulare altre domande. Tutt’intorno c’era una grande quiete, tutte quelle teste se ne stavano lì in religioso silenzio e ciò mi fece rabbrividire. «Ehi tu, dico a te» fece una testa tre fila più avanti girandosi verso di me, «vieni qua, fai presto.» Lentamente, cercando di poggiare il più delicatamente possibile i piedi su quelle teste e chiedendo scusa a ogni o e a ogni loro imprecazione, raggiunsi quella che mi aveva chiamato. Era una donna dal viso grasso con delle guance enormi e cascanti, aveva i capelli vaporosi e di un rosso accesso. Mi fissò con degli occhi penetranti ma carichi di una luce buona che mi rasserenò. «Giovanotto, me lo faresti un favore?» disse la donna muovendo convulsamente il naso. «È una vita che sto impazzando perché ho un capello sul naso e mi dà un fastidiosissimo prurito. Saresti così cortese da togliermelo?» domandò con occhi supplichevoli.
Le offrii un tenero sorriso, mi accostai a lei e delicatamente le toccai più volte il naso cercando di toglierle di dosso quel capello a me invisibile da quella distanza. «È andato via?» le domandai. «Sì, grazie. Che il cielo sia lodato. Ora però, se non ti è di troppo disturbo, potresti grattarmelo delicatamente?» Assentii con un gesto del capo e le offrii nuovamente il mio aiuto. La donna parve bearsene. «Sei stato davvero gentile, non sai che tortura è stata per me. Quasi un supplemento a quella che già sto vivendo» sospirò la donna. Ma perché stavano vivendo quel supplizio, cosa avevano fatto, gli domandai. «Bah, semplicemente abbiamo vissuto le nostre vite» rispose affranta la donna e osservando la mia espressione evidentemente carica d’incomprensione, tornò a domandarmi: «Ma sai dove ti trovi?» «No, nel modo più assoluto» le risposi stringendomi tra le spalle. «Oh, figliolo caro» fece la donna con tono materno, «davvero non sai dove ti trovi? Allora deve essere davvero una brutta visione questa per te» concluse la donna. «Non capisco, d’improvviso mi sono ritrovato a nuotare in una specie di fiume denso, melmoso e dal sapore nauseabondo e poi sono precipitato qui, in questo posto assurdo e irreale» dissi interdetto osservandomi attorno. «Credo che tu abbia nuotato in un affluente dell’Acheronte che ti ha fatto arrivare fin qui» affermò la donna, facendo una pausa e poi aggiunse serafica: «Tu ti trovi nel purgatorio e noi tutti siamo in attesa di raggiungere il Regno dei Cieli.» Ritrassi il capo all’indietro e fui sovrastato da un tremito incondizionato e carico di terrore. Ero morto! Per trovarmi in quel luogo dovevo essere per forza morto, pensai tra me. Ma non ricordavo affatto di essere ato alla così detta miglior vita e allora perché mi trovavo in quel luogo, perché?
«Tutto ciò sta a significare che io…» dissi, ma non riuscii a terminare la frase poiché le parole si arrestarono in gola. «Bah, non credo» intervenne un ragazzo dai capelli lunghi e dal volto magro. «Se tu fossi morto non ti troveresti lì su, ma qui giù tra noi.» Mi trovai concorde con quella sua disamina e tornai a tranquillizzarmi, ma ciò non spiegava il perché mi trovassi lì in quel luogo. Cos’ero, un moderno Dante? «Com’è possibile che allora io mi trovi in questo luogo?» provai a chiedere porgendo la domanda più a me che a lui. Il ragazzo mosse leggermente il capo in senso di diniego e disse: «A questa domanda non saprei davvero cosa risponderti.» «E pure deve esserci una spiegazione. Se non sono morto, come posso trovarmi in questo luogo?» «Forse sei un ritornante» affermò una voce un po’ più in là. Allora mi drizzai con la schiena per cercare di scorgere la testa dalla quale era provenuta e, individuandola, mi diressi verso di lei. «Scusi, ma cos’è che sarei?» chiesi una volta arrivato. «Beh, non lo so per certo, ma potresti essere un ritornante» ripeté quell’anziano signore dalla testa calva e rugosa. «E cosa sarebbe un ritornante?» domandai. L’uomo scosse il capo e, fissando lo sguardo in alto, mi osservò diritto negli occhi. «Non è da molto che sono in questo posto, ma allo stesso tempo ho sentito parlare spesso di questi ritornanti però io non ne ho mai visto uno» affermò l’uomo che poi continuò, evidentemente spronato dal mio sguardo carico di domande. «Pare ci siano alcune persone che in qualche modo riescono a venire in questo mondo ma solo per visitarlo per poi, appunto, ritornare nell’altro di mondo, quello dei vivi. Non si sa bene come facciano e perché, c’è chi dice che siano coloro i quali si trovano in stato comatoso ed è permesso loro di fare un veloce aggio da questa parte così da poterlo raccontare una volta tornati in vita. Una specie di pubblicità, un aparola. Ma ti ripeto, io non li ho mai visti, forse potresti essere tu il primo che incontro.»
«No, no, ma che stai dicendo» intervenne una ragazza più in là. «Non è possibile che lui sia un ritornante perché, altrimenti, non gli sarebbe permesso interagire con noi. Ai ritornanti è solamente concesso sorvolare queste terre, osservarle e nei casi estremi, ascoltare le voci dei propri cari qualora si trovassero qui. Ma in nessun caso potrebbero relazionarsi con noi, così come sta facendo» chiosò la ragazza la quale aveva un viso piuttosto grazioso e mi riusciva difficile immaginarmela morta. «Ma allora, si può sapere cosa ci faccio qui?» domandai sconfortato ancora una volta. La ragazza mi offrì un’espressione desolata di chi è dispiaciuto nel non saper dare risposta a una domanda postagli. Anch’io la guardai affranto ormai pervaso dallo sconforto e dalla paura di non sapere come uscire da quella situazione intricata e quindi decisi di avanzare sempre cautamente, ma comunque avvolto dagli improperi delle povere persone sotto di me. Camminavo a oltranza, anche perché non vedevo fine all’orizzonte che congiungeva il cielo con quella terra cosparsa di corpi seppelliti fino al collo. Pensai alla loro sofferente attesa per un giudizio che avrebbe permesso loro di are il tempo futuro nella beatitudine della vita eterna e mi trovai a compatirli, condividendo intimamente quel loro disagio. Fino ad allora non mi ero mai fatto un’idea precisa del purgatorio, magari del paradiso e dell’inferno sì, ma del purgatorio dovevo ammettere di non essermi mai posto la domanda su come fosse strutturato. Nell’immaginario collettivo ci sono due luoghi ben chiari: il paradiso, un posto soave riposto tra le nuvole, tra schiere di angeli beati che suonano magistralmente delle enormi arpe e cantano le lodi del Signore e l’inferno, infestato da enormi fiamme, avvolto in un caldo insopportabile mentre dei diavoli rossi, coi loro forconi, infliggono le penitenze più atroci alle anime dannate. Però ‘sto purgatorio mi rimaneva davvero poco concreto nella mente e forse, anche a scuola, dovevo aver saltato quella parte della Divina Commedia che molto probabilmente, in quella situazione, mi sarebbe stata di grande aiuto. Poi, improvvisamente, mi vennero alla mente i miei vecchi i quali, ormai da alcuni anni, erano partiti per quel viaggio senza ritorno. Il primo ad andarsene era stato il babbo il quale, dopo alcuni anni di sofferenza per colpa di un brutto male, era venuto a mancare in un letto d’ospedale. Ricordo che ogni giorno andavo a trovarlo e insieme giocavamo una partita a scacchi, e intimamente vivevo nella speranza che durasse il più a lungo possibile perché, in modo infantile, credevo che quanto più sarebbe durata quella partita, tanto più lui sarebbe rimasto in vita. E di fatti non ebbe mai fine, ma solo perché qualcuno decise che dovesse andarsene prima.
Ancora possiedo quella scacchiera con tutte le pedine nel posto in cui le avevamo lasciate, sempre in attesa di una sua nuova mossa. Invece la mamma morì poco dopo, sensibilmente ed emotivamente provata dalla scomparsa del marito, si era lasciata andare e nel giro di un anno ci lasciò pronunciando il nome di mio padre come ultima parola. Le ultime immagini che ho di lei sono quelle di una donna dal viso trasfigurato e completamente straziato dal dolore, velato da una perenne luce grigia, un viso ormai diverso da quello della donna che da bambino ho amato. Pensai a loro e mi domandai se si trovassero in quel luogo o se avessero preso il volo diretto senza fare scalo lì, ma era in pratica impossibile che potessi trovare tra quell’infinità di persone proprio i miei genitori. Ma non feci i conti con la provvidenza divina la quale va al di là di ogni effimero ragionamento umano. «Mario, Mario» mi sentii chiamare ripetutamente. Mi voltai più volte alla ricerca di quella voce femminile che mi chiamava, ma non riuscivo a capire dove si trovasse. «Mario, Mario» ripeté con voce più ansante e trepidante e allora ne riconobbi la provenienza, ma non a chi appartenesse. Avanzai come sempre con massima cautela e nel frattempo cercai di rielaborare quel timbro di voce nell’intento di poterla riconoscere, ma non ci riuscivo. Avanzavo su quel manto di teste seguendo la voce che imperterrita mi chiamava e cercavo di assimilarla sperando di trovarne una uguale in qualche cassetto isolato dei miei ricordi, ma era un lavoro vano. Quando fui arrivato, mi fermai di colpo e rimasi impietrito a osservare il viso della donna e dell’uomo al suo fianco. «Mamma, papà!» dissi con la voce rotta dall’emozione. Immediatamente mi accovacciai e li baciai. «Mario! Il mio piccolo Mario» pronunciò mia madre con le parole interrotte dai singulti. Aveva un aspetto molto più giovane di quando era scomparsa, ora aveva all’incirca trent’anni: ecco perché non riconoscevo la sua voce! E anche papà era più giovane, non aveva il viso scavato dalla malattia e portava i capelli un po’ lunghi, con una bella chioma castana. «Mamma, papà… siete così belli» dissi loro ando lo sguardo ripetutamente dall’uno all’altra: erano incredibilmente belli come in quelle vecchie foto, dove c’erano loro due da ragazzi. La mamma sorrise carinamente e inclinò il capo a sfiorare l’orecchio di papà il quale, a sua volta, reclinò il capo per avvicinarsi alla moglie. Fu una scena tenerissima e mi sentii il cuore esplodere di gioia.
«Ma come mai siete così giovani?» domandai loro scioccamente. «Rispondo io o vuoi farlo tu?» chiese la mamma rivolgendosi a papà il quale, senza parlare, le fece un cenno per cederle la parola e lei continuò. «Siamo giovani, come tu dici, perché più tempo si a in questo luogo a espiare le proprie colpe, più la propria anima ringiovanisce.» La guardai esterrefatto e dissi: «E fino a quando dovrete stare qui?» «Oh, questo non lo sappiamo. Non lo sa nessuno, ma di sicuro, quando le nostre anime saranno pronte, lasceranno questi nostri corpi e voleranno verso il paradiso. Quando l’enorme mano vorrà prenderci, noi ci faremo trovare pronti» concluse mia madre e di nuovo inclinò il capo verso quello di papà il quale era stato fino ad allora stranamente laconico. «Papà, non mi dici niente?» gli domandai come un bambino offeso. L’uomo mi guardò con degli occhi grandi e luminosi, con un viso a me poco familiare se non per quello che avevo potuto scorgere in alcune vecchie foto, ma comunque carico della stessa espressione del papà che avevo ancora fisso nella mente. «L’hai poi finita quella partita a scacchi?» mi domandò e un brivido mi attraversò la schiena. A quella sua domanda risposi con un sorriso prima e una risata poi, che presto mutò in un tenero pianto. «No, non l’ho più terminata» risposi con la voce leggermente rotta, «non c’è nessuno che possa portarla a termine, se non tu» e lo baciai forte sulle guance. Anche in quel momento non disse nulla, ma si limitò a mescolare le sue lacrime alle mie. Poi mi tirai su e mi ricomposi; delicatamente con le dita asciugai il viso di mio padre e gli sistemai i capelli che avevo sbadatamente arruffato. Osservai nuovamente mia madre la quale, anche lei, era stata sopraffatta da forti emozioni e poi domandai loro: «Perché sono qui? Aiutatemi non so davvero cosa pensare.» I due si osservarono per un attimo lanciandosi sguardi d’intesa per poi tornare a volgere i loro occhi su di me. «Figlio mio, devi fare i conti con Tosca» disse con tono amorevole mia madre. «Questo tuo viaggio qui, non è altro che un’occasione in più per correggere,
finché sei in tempo, il percorso della tua vita. Non puoi farti sempre vincere dal rancore, dall’indifferenza e da quell’incomprensibile orgoglio, ma devi vivere la vita come fosse il bene più prezioso che tu abbia. Non sprecare il tuo tempo, torna a riabbracciare Tosca: solo così io e tuo padre saremmo finalmente ed eternamente felici.» Ascoltai quelle parole in religioso silenzio, stringendo forte i pugni e mordendomi la lingua fino a che il sapore forte del sangue non invase interamente la mia bocca. Respirai profondamente e rumorosamente. Quello che mi stavano chiedendo era un’estrema richiesta, un testamento con le loro memorie che in cuor mio sapevo di dover rispettarlo. Li osservai ancora per molto tempo e poi chiusi forte gli occhi cercando di metabolizzare quella loro richiesta.
Nel momento in cui li riaprii, il paesaggio attorno a me era completamente mutato. Sotto di me non c’era più una distesa di corpi seppelliti né tantomeno i miei genitori, ma un immenso manto verde, un’erba sottilissima bagnata dalla brina. Inginocchiato afferrai ferocemente dei ciuffi d’erba, li strappai lanciandoli in aria e continuai così finché stremato, non mi accasciai a terra poggiando il capo sulle braccia. Ero incazzato e amareggiato dall’improvvisa scomparsa dei miei genitori, avevo fatto appena in tempo ad accarezzare i loro visi, che già me li avevano portati via e ciò mi straziò nel profondo. Avrei voluto ancora, per un tempo indefinito, i miei genitori lì accanto per parlarci, chiedere loro tante cose e cercare di capire il perché di Tosca. Loro desideravano che tornassi a riabbracciarla e che in qualche modo sfruttassi quell’assurdo viaggio in quel luogo, per far sì che potessi correggere il corso della mia vita la quale, secondo il loro parere, era condizionata e sprecata dall’orgoglio. Mi costava fatica ammetterlo, ma forse c’era un po’ di verità in quel loro pensiero. Tosca, pensai dentro di me, non sapevo quasi più chi fosse. Mi tirai sulle ginocchia e tornai a offrire attenzione al nuovo ambiente che mi circondava. Pareva mi trovassi in un paesaggio scozzese, immerso in una brughiera velata da un’intensa nebbia che posava sul mio corpo una leggerissima brina. Anche se ero completamente nudo, non avvertivo il benché minimo freddo anzi, pareva fossi diventato insensibile alle temperature eppure, da quel che vedevo, il clima non doveva essere di certo temperato. S’intravedevano delle basse colline verdi e qua e là piccoli gruppi di alberi, forse meli. Mi alzai in piedi
e mi guardai tutt’intorno, ma la situazione non cambiò poiché il paesaggio rimase uguale e ripetuto all’infinito. A un tratto, però, mi parve di scorgere una figura nera, forse un uomo, in fondo alla leggera discesa che avevo davanti. Tentai di aguzzare la vista nel vano sforzo di cercare di identificarla, ma la figura rimase immutata. «Ehilà» urlai rivolto a quella sagoma che però non mi sentì o fece finta di non udirmi e quindi decisi di raggiungerla. A ogni o l’erba si abbassava sotto il mio peso lasciando così impresse a terra le mie orme. Avanzai stando attento a non scivolare su quel prato bagnato e per quanto camminassi, però, sembrava non riuscissi mai ad arrivare alla figura nera che si stagliava lontana e in fondo alla vallata. Era come se la distanza aumentasse corrispettivamente al mio avanzare, ma non demorsi e imperterrito continuai a camminare. In breve mi ritrovai sudato anche se, come dicevo, non avvertivo nessuno sbalzo termico, avevo la fronte imperlata di sudore e sul mio corpo c’era una leggera patina lucida. Ma la figura era sempre lì, alla medesima distanza. Cominciai a innervosirmi e spazientirmi e tornai di nuovo a chiamarla: «Ehi, tu lì in fondo. Mi senti?» ma ottenni il medesimo risultato avuto precedentemente. Decisi quindi di cominciare a correre. Dapprima le mie gambe parvero essere molto contratte e quasi arrugginite, poi però cominciarono a sciogliersi e a prendere ritmo. I i si fecero cadenzati e anche il respiro si fece regolare; sentii i battiti del cuore accelerare rapidamente e i muscoli delle spalle irrigidirsi e poco dopo fui sopraffatto dalla fatica e così rallentai fino ad arrestarmi. Mi piegai poggiando le mani sulle ginocchia con l’intento di recuperare fiato e rallentare i battiti poiché il cuore pareva esplodermi nel petto. Imprecai dentro di me perché, per quanti sforzi avessi fatto, quella stramaledetta sagoma rimaneva imperterrita alla medesima distanza. «Ben arrivato» fece una voce lì accanto. Mi tirai su repentinamente accorgendomi che quella figura che tanto bramavo di raggiungere, ora era lì di fronte a me. Era seduta su di una poltrona dallo stile barocco e dinanzi aveva un piccolo tavolino con su riposta una scacchiera con le pedine schierate, pronte per essere mosse per la prima volta. «Prego siediti» aggiunse indicandomi una misera sedia in legno posta dall’altra parte del tavolo. Sgomento e silente, con ancora il fiatone, mi apprestai a eseguire la sua richiesta e così mi ritrovai seduto a tavolino con la Morte. Già
perché, quella figura nera che avevo tentato di raggiungere, non era altri che la Morte o almeno pensai fosse lei, del resto era vestita nel modo classico: enorme saio nero con il cappuccio tirato sulla testa a celarle il viso e l’immancabile falce al suo fianco. «Ma lei è…» provai a chiedere, ma fui interrotto prontamente. «Non fare domande vane o delle quali già sai la risposta.» «Certo, le chiedo scusa» dissi palesemente intimorito da quello che sarebbe potuto accadere se mai si fosse inalberata nei miei confronti. «Mario, ti prego, diamoci del tu. Non amo troppo i convenevoli.» Assentii col solo gesto del capo. «Ho saputo che sai giocare a scacchi, ti va di sfidarmi?» tornò a domandarmi. Sfidarla, pensai, qui le cose si mettono male. «Mah, non è che sia poi così bravo» tentai di giustificarmi per eludere il suo invito. «Oh, ma non aver paura, non c’è niente in palio» aggiunse con la voce leggermente modulata da un sorriso. Sospirai sollevato e dissi: «Se proprio ci tieni.» «Te ne sarei molto grata. Sai, qui non c’è poi tanto da fare e io mi annoio» aggiunse drizzandosi bene a sedere, avvicinandosi alla scacchiera. «Beh, immagino che in questo posto non ci sia grande lavoro per te» affermai osservandomi di nuovo attorno e guardando quello scenario nebuloso che ci circondava, tinto di un colore verde intenso. Eravamo seduti uno di fronte all’altra con un tavolinetto a dividerci e un albero di mele che faceva da corollario a quella scena assurda. «Già» disse laconicamente la Morte e poi aggiunse: «A te la prima mossa.» Sospirai profondamente, mi apprestai a muovere la mia prima pedina e subito dopo la Morte rispose con la sua mossa.
«Questa è una scena che farebbe rodere dall’invidia gente come Ingmar Bergman» affermai sorridendo e ancora incredulo di quel susseguirsi di avvenimenti. La Morte, allora, alzò il capo che aveva sino allora reclinato sulla scacchiera in attesa di una mia mossa e mi osservò o almeno mi parve, poiché il suo volto rimaneva ancora celato dall’ombra e io rabbrividii di paura. «Lo conosci?» mi domandò. «Chi, Bergman?» dissi aggrottando le sopracciglia. «Sì, Ingmar. Lo conosci?» «Beh, personalmente no. Mi sarebbe molto piaciuto, ma purtroppo non ho avuto questo onore» risposi un po’ sorpreso di quella domanda così strana. «Mi deve pagare ancora i diritti per la scena de Il settimo sigillo che, tra l’altro, gli ho suggerito in un incontro simile a questo e il giorno che sono andata a prenderlo per portarlo da quest’altra parte. Sai cosa ha risposto alla mia richiesta di risarcimento?» Feci di no col capo e attesi che continuasse. «Ma va là! Caso mai dovresti essere tu a pagare me, giacché ti ho fatto diventare una star del cinema. Prima di quel film eri solo una reietta e invece ora sei simile a una diva di Hollywood. Ecco cosa mi ha risposto quel pidocchioso normanno» affermò stizzita la Morte. Ci fu un breve silenzio, ognuno di noi perso evidentemente nei propri pensieri, ma poi tornai a fissarla e dissi: «Io voglio sapere, non credere, non supporre. Voglio sapere. Voglio che Dio mi tenda la mano, mi sveli il suo volto, mi parli.» La Morte allora pose decisa il suo sguardo su di me e con voce profonda rispose: «Il suo silenzio non ti parla?» Sul mio volto si posò un delicato sorriso nel sentirla pronunciare tali parole che non erano altro che uno stralcio del discorso tra il cavaliere e la morte nel film di Bergman e lei, la Morte, aveva recitato magistralmente il suo ruolo e poi aggiunsi: «Gran bel film però, non pensi?»
«Non potrei di certo affermare il contrario. Ora però, fa la tua mossa.» Assentii con un semplice gesto del capo, mossi un’altra pedina e rimasi in attesa della sua contromossa che non si fece attendere. Andammo avanti nel giocare la partita in modo silente e concentrato. Brevemente la Morte cominciò a prendere il sopravvento ed eliminò diverse mie pedine. «Cos’è questo posto? Perché mi trovo qui, sapresti almeno tu darmi una risposta?» domandai anche con l’intento di distrarla, ma lei rispose senza togliere lo sguardo dalla scacchiera. «Mario, non cadere anche tu nella banalità. Cos’è questo, il momento delle domande esistenziali?» «Beh, non saprei. Però avrei tanto bisogno di capire cosa ci faccio qui.» «Credo che tua madre sia stata abbastanza esaustiva, non pensi?» «Mmm» mugugnai fissando lo sguardo oltre, in lontananza senza però osservare nulla in particolare. «Tocca a te.» «Certo, certo» dissi tornando a concentrarmi sulla partita e feci la mia mossa, accorgendomi troppo tardi di non aver fatto un giusto spostamento. «Qui ti volevo» affermò soddisfatta la Morte. «Scaccomatto!» Aggrottai la fronte e sbuffai stancamente. «Cos’è, sei arrabbiato per aver perso? Nessuno può battermi» affermò la Morte. «Mmm, non ne sarei così sicuro. A volte capita che tu non vinca» risposi in modo pungente. «Può capitare è vero, come è vero che prima o poi tutti debbano perdere con me, nessuno escluso» rispose beffardamente. Sospirai profondamente cercando di immagazzinare più ossigeno possibile e insieme a esso buttai giù anche quell’affermazione con la quale, mio malgrado,
mi trovai concorde. «Davvero non vuoi dirmi nulla sulla mia presenza in questo luogo? E so bene cosa ha detto mia madre, ma cosa c’entra questo posto con Tosca o con la mia esistenza? Non sono di certo morto!» affermai e poi, raggelando per un pensiero che mi sopraffece, aggiunsi: «Perché non sono morto, vero?» La Morte sorrise o mi parve che lo fece e poi si alzò in piedi e si avvicinò. Si pose dietro di me, appoggiò le mani sulle mie spalle e a quel contatto fui invaso da un freddo gelido, innaturale e battei i denti per la paura. «Non sei morto, stai tranquillo. Ma allo stesso tempo io non posso, non voglio e non so dare una risposta alle tue domande. Cosa credi che io sia, un indovino? Un guru? Un Buddha o lo stesso Dio? No, Mario. Io sono semplicemente una lavoratrice instancabile, anche se in questi giorni la fatica mi sta un po’ sfiancando, ma sfido chiunque a portare dietro in eterno quell’enorme falce. Sapessi quanto pesa. Mi spiace, ma io non sono adatta a dare queste risposte, ti conviene parlare col saggio, lui ne sa molto più di me sui quesiti esistenziali di voi umani. Va da lui» mi disse sempre tenendo le sue mani spolpate su di me. «Il saggio?» ripetei come un pappagallo. «Esatto, chiedilo a lui. Sicuramente avrà una perla di sapienza anche per te» rispose la morte con un’ironia neanche tanto mascherata. «Ti stai prendendo gioco di me?» le domandai. «No, affatto. Anzi guarda, è proprio là» e indicò un uomo di spalle seduto su di una moto, non troppo distante da noi. Fissai per un attimo le spalle dell’uomo che, dalla leggera nuvoletta che veniva su, pareva stesse fumando. Poi alzai lo sguardo in alto a osservare la Morte la quale mi fece un gesto col capo come a invogliarmi a raggiungere quello che lei chiamava il saggio. «Che aspetti, vai» mi esortò. Allora mi alzai titubante e feci qualche o per andarmene. «Allora io vado» dissi ancora insicuro.
«E vai!» mi esortò nuovamente spazientita facendo dei gesti con entrambe le braccia come a volermi spingere via e quindi mi allontanai voltandole le spalle, ma poi mi sentii chiamare. «Ah, Mario» mi disse, «un’ultima cosa.» «Dimmi» proferii arrestando il mio incedere e voltandomi verso di lei. «Lo so che te lo stai chiedendo però sta tranquillo perché, se anche ci rivedremo, non sarà tanto presto.» Feci un respiro profondo e dissi: «Grazie. Allora, arrivederci.» «Arrivederci» rispose facendo un saluto col braccio al quale risposi e mi voltai per riprendere il mio cammino.
Il saggio era seduto sulla sua moto fumando e dandomi ancora le spalle. Indossava un cappotto di panno nero e aveva i capelli chiari e tirati indietro, proprio come i divi del cinema degli anni cinquanta. Gli girai attorno e, con fare cerimonioso, mi posi davanti cercando di catturare la sua attenzione. Non sapevo ancora bene cosa avrei potuto trovarmi di fronte né tanto meno cosa mi aspettassi di trovare, ma non di certo potevo immaginare che il così detto saggio fosse colui il quale scoprii poco dopo. «Mi scusi» esordii con voce timorosa, «mi manda la morte» e proprio nel momento in cui affermai tali parole, mi rimproverai per la gaffe che avevo commesso. Mi ero presentato come un emissario della morte e non era di certo un bel biglietto da visita. L’uomo alzò lo sguardo e mi fissò dritto negli occhi e disse: «Amico, di’ alla tua signora che è già ata nel cinquantacinque.» Impallidii nel vedere il viso di quell’uomo, quel volto cosparso da un pallore quasi malato e agli occhi aveva profonde borse che gli donavano un aspetto stanco, assonnato, affranto. Rimasi sbalordito nel vedere quei capelli tirati indietro, come fossero una criniera di leone e che, associati a quella sua espressione stanca, gli conferivano un aspetto affascinante. Non riuscivo a credere di avere di fronte l’uomo che pensavo fosse. Mi guardò ancora un attimo
lasciandomi attonito, prima di nascondere quei suoi occhi grigio-azzurri sotto le scure lenti di un paio di Ray-Ban. Aspirò profondamente la sigaretta fino a terminarla e poi la gettò via con un gesto preciso delle dita e, reclinando il capo in alto, gettò in aria una nuvoletta intensa di fumo. «Mi spiace, ma non volevo dire quello che ho detto, cioè sì o meglio, volevo dire quello che ho detto ma non come l’ho detto. Oddio, sto facendo una gran confusione» pronunciai imbarazzato e grattandomi confuso la testa. L’uomo mi osservò e sorrise dolcemente. Sotto il cappotto nero indossava una semplice maglietta bianca e un paio di jeans blu. Ai piedi portava un paio di stivaletti neri; era proprio come lo ricordavo, esattamente come nelle varie foto che troppo spesso avevo visto nelle riviste di cinema e non solo, sembrava appena uscito da un set cinematografico. «Sta tranquillo, tanto ormai è acqua ata» affermò con molta calma, poi infilò una mano nella giacca e ne venne fuori con un pacchetto di Chesterfield Blu. Me lo porse, ringraziandolo presi una sigaretta e lo stesso fece anche lui. Ripose il pacchetto nella stessa tasca dalla quale lo aveva preso e poi, infilandosi una mano nella tasca dei pantaloni, tirò fuori un accendino col quale accese la sigaretta che avevo in bocca e di seguito fece lo stesso con la sua. Per un po’ fumammo in silenzio: lui un po’ ricurvo su se stesso che guardava alla sua sinistra, io fermo con lo sguardo fisso su di lui. Ero ancora incredulo all’idea che stessi fumando con James Dean. «Come va la moto?» gli domandai indicandola con un gesto della testa e con lo scopo di instaurare una conversazione. Lui si voltò a guardarmi per un tempo che parve lunghissimo, sembrava quasi fosse sorpreso della mia presenza. Di seguito guardò la moto sulla quale era seduto e stringendosi nelle spalle affermò: «Sicuramente non va come quando scorrazzavo di notte lungo Mulholland Drive, ma la mia piccola ancora si difende» e diede un paio di tenere botte sul serbatoio. Era una Triumph Tropy Custom del ’55 simile a quella che guidava Marlon Brando ne Il Selvaggio e del resto James Dean si era molto ispirato a quel personaggio o comunque alla figura del famoso attore hollywoodiano. «Porta i miei jeans dell’anno scorso, suona il mio bongo dell’anno scorso e anche la moto che guida è quella mia dell’anno scorso» ebbe a dire Brando
riferendosi a Dean, ma ciò non aveva di certo ridimensionato il suo valore o la sua popolarità, anzi. Silenziosi tornammo a fumare anche se, onestamente, ero quasi preso dalla voglia di spegnerla quella sigaretta per poterla conservare e avere così un ricordo di quel fatidico momento, senza realizzare però che tutto ciò che stavo vivendo in quel momento era estremamente aulico, onirico, incredibile. «Sa signor Dean, lei è davvero un mito e io sono molto entusiasta di starle di fianco e poter fumare in sua compagnia» dissi con voce ridicolmente imbarazzata, sembravo una scolaretta alle prime armi. Quel ragazzo lì di fronte mi metteva a disagio pur essendo notevolmente più vecchio di lui. L’uomo si grattò la fronte con la mano, si sistemò gli occhiali e inalò nuovamente una boccata di fumo e poi, come in precedenza, lo espirò via in aria. «Qui di signore forse ce n’è solo uno e credimi, amico, non siamo né io né tu e quindi, faresti meglio a chiamarmi Jimmy e a darmi del tu, che ne pensi?» rispose con voce calma e stanca. «Credo tu abbia ragione» affermai quasi rimproverandomi per il modo sciocco col quale stavo portando avanti quella conversazione. «Ciò non toglie che tu sia davvero un mito per intere generazioni» aggiunsi con voce sicura. L’uomo ristette un attimo come se fosse lusingato da quelle mie parole e, da quel che disse successivamente, molto probabilmente lo era davvero. «Sai cosa penso?» domandò senza attendere risposta. «Penso che ci sia una sola forma di grandezza per l’uomo. Se un uomo può colmare il vuoto tra la vita e la morte, voglio dire, se riesce a vivere anche dopo che è morto, allora forse quello è un grande uomo. Per me l’unico successo, l’unica grandezza è l’immortalità.» E allora tu sei davvero un grande, pensai ma non glielo dissi poiché sarei parso alquanto puerile. «Credi di essere stato grande anche in vita, su quell’altro mondo intendo?» tornai a domandargli. «Uhm, credo che quel mondo, quello dei vivi intendo, non dia alcuna possibilità di grandezza poiché gli esseri umani sono come ronzini legati al palo dei condizionamenti. Un pesce nell’acqua non sceglie di essere ciò che è: se potesse nuotare nella sabbia, allora sì che sarebbe un genio. In quel mondo siamo tutti
pesci in mezzo al mare.» Siamo tutti pesci in mezzo al mare, ripetei dentro di me. Da quelle parole si evinceva la profondità dell’uomo o forse sarebbe stato meglio definirlo ragazzo poiché aveva appena ventiquattro anni. C’era tenerezza nelle sue parole e un forte senso di sconforto, di disagio verso una vita che pareva non gli avesse offerto grandi soddisfazioni, ma anzi gli aveva arrecato solamente dolori. Però la sua figura era andata ben oltre la sua vita, era diventata qualcosa di più per intere generazioni e il suo motto, sogna come se dovessi vivere sempre, vivi come se dovessi morire oggi, ne era il giusto manifesto. «Non credi però che si possa correre il rischio di imbarbarirsi nello smanioso desiderio di raggiungere quella che tu definisci immortalità e poi, come si fa a diventare immortali e a non aver paura della morte?» «Credo piuttosto che l’immortalità sia una possibilità alla quale ogni uomo deve aspirare e, le aspirazioni, se nascono da un sano desiderio, non muteranno mai in sopraffazioni e divenire immortali è molto più semplice di quanto si possa supporre. Molto spesso, durante le nostre esistenze, ci dimentichiamo che la risposta più semplice alla preoccupazione per la morte ce l’abbiamo tra le mani e senza accorgercene la utilizziamo tutti i giorni» affermò James, «il miglior anestetico alla morte e, allo stesso tempo il miglior auspicio all’immortalità, sta nel semplice dire: “ciao, ci vediamo domani”. Affermando solamente questa breve frase si diventa immortali poiché, diamo per certo che un domani ci sarà sempre, senza porre alcuna fine alla nostra esistenza. Un ciao può renderti eterno.» Poco dopo Jimmy eseguì le stesse movenze che aveva compiuto in precedenza nel prendere il pacchetto di sigarette, offrirmene una - che rifiutai gentilmente prendere l’accendino e darle fuoco. Fumava una sigaretta dopo l’altra con molta naturalezza, pareva non fe altro per tutto il tempo. «Sei qui per una donna, vero?» mi domandò. «Onestamente non saprei. Non so perché mi trovo qua, in realtà speravo potessi aiutarmi in qualche modo.» «Sai, anche io sono qua per via di una donna: la mia piccola bastarda⁴» affermò senza preoccuparsi minimamente di quel che avevo appena detto.
Non risposi nulla, immaginando ciò che in quel momento potesse pensare, magari stava riflettendo sulla sua vita terrena che, se pur breve, l’aveva vissuta pienamente rimanendo fedele al suo motto. «E Pier Angeli?⁵» tornai a chiedergli timoroso di ferire la sua sensibilità, ma allo stesso tempo curioso di sapere. «Mah, ogni tanto la rivedo qua in giro» rispose in modo spocchioso, ma mi diede la sensazione che stesse mettendo in mostra una sicurezza che non aveva. «Si è pentita amaramente di avermi mollato per quello smidollato, ma ormai è una storia talmente vecchia che non vale neanche la pena che io ne parli e comunque non è di certo per lei se mi trovo qua» chiosò Jimmy sbuffando via una nuvola di fumo. Mi accarezzai il viso pensieroso tornando per un momento a riflettere sulla mia posizione attuale e domandandomi nuovamente il perché della mia presenza lì, in quel posto magico e straordinario. «Sai, credo che in fondo tua madre avesse ragione nel dire che dovresti sfruttare quest’occasione per far un po’ di ordine nella tua vita» affermò improvvisamente Dean lasciandomi interdetto. «Credo che partire da Tosca sia la cosa più sensata.» Rimasi per un momento in silenzio con l’intento di metabolizzare quel che mi aveva detto e tentai di non pormi la domanda su come lui potesse sapere di quel discorso intrapreso con i miei genitori anche perché avrei dovuto pormi ancora altri e più complicati quesiti. «Ma se questo è il purgatorio o un surrogato, come potrei mai incontrare Tosca che, per quel che ne so, è viva e vegeta?» «E tu sei pienamente sicuro che questo sia un purgatorio o qualcosa del genere? E se poi non fosse altro che un sogno?» disse Jimmy rivolgendomi quell’interrogativo che fino allora non mi ero posto. «Beh no, non saprei affermarlo con certezza e potrebbe essere, come tu dici, un sogno. Effettivamente non ci avevo pensato. Però questo mi porta ancor di più in confusione.» «E allora che sia la confusione a regnare e chi se ne frega della normalità. Quello
che voglio dire è che, se sei confuso, non credo sia totalmente insensato. Del resto guardati attorno: cosa c’è di normale in tutto ciò che vedi? Te lo dico io, niente.» «Ma se allora è un sogno come dici, non devo pormi degli interrogativi né tanto meno vivere questa esperienza come una possibilità per rimediare a chissà quali errori della mia esistenza. Se è un sogno, vorrà dire che svanirà con il mio risveglio» affermai con infinita tranquillità, ma osservando l’espressione del mio interlocutore capii di non averlo in alcun modo convinto. «Era Yates che diceva che nei sogni cominciano le responsabilità e quest’affermazione mi trova completamente concorde. Vedi amico, se qualcuno o qualcosa ti ha dato la possibilità di fare un giro da questa parte e che sia esso un viaggio reale o un sogno non conta, perché la cosa importante è che tu ne tragga profitto. Nei sogni è tutto irreale, probabilmente anche io lo sono, ma reali invece sono i tuoi sentimenti, le tue emozioni che permettono di creare mondi paralleli nei quali vivere la vita che si vorrebbe e allora vivila. Cogli la palla al balzo e sfrutta quest’occasione» affermò Jimmy e si ò una mano tra i suoi biondi capelli ravviandoli un po’. «Afferro il senso di ciò che stai cercando di farmi capire. Quindi questa non è la mia morte, ma un mio sogno» dissi con tono vivace. «Continui a sbagliare il punto di vista. Morte, sogno sono cose senza senso. La morte è quanto vediamo da desti, il sonno è quanto vediamo dormendo» pronunciò criptico Jimmy che nel frattempo si era l’ennesima sigaretta. Sigarette che fumava una dietro l’altra alla stessa velocità con cui un bambino scarterebbe un sacchetto di caramelle. Rimanemmo in silenzio per un po’ ognuno preso dai propri pensieri e ognuno con lo sguardo smarrito in direzioni opposte. Osservai ancora il panorama che si stagliava attorno a noi, una distesa collinare tinta di un verde , fosforescente. La nebbia non si era affatto diradata anzi, resisteva imperturbabile come un moto perpetuo. James Dean, il saggio, aveva tentato di dare delle risposte ai miei quesiti, ma non mi era parso che ci fosse riuscito. Aveva parlato di tutto, ma anche del nulla più completo. I suoi discorsi mi erano parsi vaghi e mai diretti a raggiungere un obiettivo o comunque a dare una risposta definitiva ai miei dubbi, ma forse, come lui affermava, tutto ciò che vedevo era solo un parto della mia mente e di conseguenza le sue parole rappresentavano quel che
io volevo che lui dicesse. Tutto quello che osservavo quindi era solamente un mio sogno, pensai, e mi sarebbe bastato aprire gli occhi per uscirne, ma allo stesso tempo poteva trattarsi di un viaggio dentro di me che mi avrebbe permesso, forse, di affrontare i miei demoni. Nei sogni cominciano le responsabilità! D’improvviso i miei pensieri furono interrotti dal rombare della moto di Dean la quale aveva prontamente . Il rombo del motore invase interamente lo spazio circostante annientando ogni mia minima forma di pensiero. «Cosa fai?» gli domandai. James Dean, abbottonandosi il cappotto e portandosi sulla fronte gli occhiali da sole, tornò a fissarmi con quei suoi occhi che dicevano molto di più di tante parole, occhi che parevano predicare bene, ma affogare nel male. Occhi che sembravano cercare sensazioni dolci tra quelle amare, occhi infinitamente positivi ma allo stesso tempo velati di una sana malinconia, quella malinconia di chi ha paura di mostrare la fragilità tipica delle persone timide, di quelle che se ne stanno lì zitte non perché non hanno nulla da dire, ma solamente perché ne hanno fin troppo e preferiscono tacere e ascoltare. La sua era un’anima triste tanto che pareva potesse uccidere chi gli fosse di fianco anche perché, troppo spesso, un’anima triste uccide più velocemente di un male incurabile, di una lama affilata fatta scorrere sul collo, di una vita vissuta col rimorso. I suoi occhi chiari e profondi, con un leggero strabismo a caratterizzare l’occhio destro, erano fissi su di me e fecero da preambolo a quello che disse: «È ora che io vada. Tu, amico mio, continua a camminare lungo il percorso che hai intrapreso e non temere di bussare alle porte dei tuoi sogni perché solo in questo modo potrai dare risposte alle tue domande.» Rimanemmo in silenzio ancora per un po’, con il solo rumore della moto a tenerci compagnia. Provai lo stesso disagio che si avverte nel salutare un caro amico che parte per un lungo viaggio e che magari non rivedrai più. «Grazie Jimmy, sono davvero felice di averti conosciuto e mi raccomando, resta sempre ribelle e non buttarti via» gli dissi poggiandogli una mano sulla spalla e lui rispose con lieve cenno del capo. Di seguito tornò a coprirsi gli occhi con i suoi Ray-Ban e, ingranando la marcia, andò via sgommando e presto scomparve dalla mia vista. Malinconicamente mi parve che risuonasse nell’aria una vecchia
canzone di Frank Sinatra, il cantante tanto ascoltato e amato dal giovane Dean. Sorrisi orgogliosamente pensando a quella meravigliosa esperienza che avevo vissuto, mi sentivo bene e fiero di me stesso: del resto non era di certo da tutti avere come conoscente un mito come lui. Mi diedi idealmente una pacca sulla spalla e mi congratulai con me stesso, un po’ come fanno i pazzi ai giardinetti, quelli che vedi lì in giro a chiacchierare da soli. Questo idillio con me stesso però ebbe vita breve poiché una voce da bambina mi sorprese e mi fece sussultare. «Sei ancora quello che non crede nelle torte al formaggio e nei sogni?» pronunciò una voce alle mie spalle e voltandomi verso di essa, vidi una bambina a me familiare. Una bambina di molti anni fa: era Tosca da piccola, vestita allo stesso modo in cui mamma la preparava per i giorni di festa. «Tosca?» domandai interdetto. «Beh, cos’è quella faccia? Sembra che tu abbia visto un mostro e non quella bella bambina che ti ritrovi per sorella.» In quella situazione sarebbe stato forse corretto che mi fossi posto delle domande, degli interrogativi sull’assurdità della scena che avevo davanti, ma non ero nei giusti panni - escludendo il fatto che mi trovassi con addosso solamente uno striminzito panno - poiché avevo da poco salutato un divo del cinema morto negli anni cinquanta e quindi preferii tacere con me stesso. «Scusa la mia sorpresa, ma dovresti avere due anni meno di me e invece sei una bambina» affermai, ma lei parve non farci caso. «Allora, vuoi rispondermi?» tornò a domandare con voce impertinente, proprio come l’aveva da piccola. «A quale domanda vorresti che risponda?» Tosca, o quella che era la sua rappresentazione fanciullesca, sbuffò stizzita a quella mia domanda e si poggiò le mani ai fianchi. «Ti ho chiesto se sei ancora il solito testone che non crede alle torte al formaggio e nei sogni?» La osservai incuriosito e felice di rivedere quella bambina che per tanti anni mi aveva fatto compagnia durante la mia infanzia, con quel suo nome buffo che era
stato fonte di tanti scherzi da parte dei nostri compagni di giochi. Lei Tosca e io Mario, nomi scelti da un amore dei nostri genitori verso l’omonima opera teatrale che, per renderle omaggio, avevano deciso di affibbiare ai propri figli i nomi dei due personaggi principali. I nostri genitori si erano amati definitivamente una sera osservando a teatro la famosa opera e, com’era solita raccontare mia madre, lei era caduta in un dolce tremito quando all’atto terzo e sulle note di E lucevan le stelle, mio padre le aveva amorevolmente stretto la mano. Era la prima volta che fecero l’amore, ci disse nostra madre quando divenimmo più adulti e ce lo affermò con un dolce luccichio negli occhi che è facile riscontrare in cuori intrappolati in sinceri sentimenti. Fecero l’amore in modo incorporeo, fatta eccezione per quel loro intrecciarsi di dita, sfiorarsi di pelle, scambiandosi solamente invisibili particelle di epidermide. Si può fare l’amore in tanti modi e loro lo fecero lì. in quel teatro, in mezzo a tanta gente con un trasporto tale che in nessun’altra occasione ebbe modo di ripetersi e perciò sembrò per loro il minimo chiamarci come i due amanti dell’opera pucciniana. «Uhm, credo proprio di sì. Crederò nelle torte al formaggio nel giorno in cui confiderò nei sogni» le risposi con cinismo. «Che buffo che sei, ma non ti rendi conto che ti stai ingannando?» affermò Tosca con un visino vispo e furbetto. «Tu stai già confidando nei sogni perché ci sei dentro.» «Forse lo sto vivendo, può anche darsi che ne sia l’ideatore, che sia l’artefice di tutto questo» dissi girandomi su me stesso a braccia tese a indicare lo spazio attorno a me. «Ma questo non sta di certo a significare che io creda in loro. I sogni sono per quelli che hanno poca coscienza di se stessi e della realtà che li circonda. Sognano coloro i quali fuggono dalla propria vita per immergersi in vacui mondi senza avere le palle per affrontare le difficoltà che giornalmente avvolgono le esistenze di tutti quanti. No, io non sarò mai un sognatore e non confonderò con loro il senso concreto della realtà come neppure capirò le torte al formaggio. I dolci e i formaggi saranno sempre agli antipodi, come la vita e il sogno.» «Non cambierai mai» affermò Tosca. «Da quando eri bambino non fai altro che dire che il dolce è un concetto mentre il formaggio un effetto e io sta cosa qui non l’ho mai capita.»
«E come potresti, non hai mai avuto il senso della concretezza» le risposi sogghignando. Che carina che era in quel vestitino rosa con delle sottili strisce bianche. Ai piedi indossava delle ballerine nere con dei calzini bianchi di pizzo ricamati che le arrivavano fin oltre i polpacci. I capelli chiari e lisci erano tenuti su da un nastrino nero e alle orecchie le penzolavano due semplici orecchini. Occhi grandi e intensi come sempre avrebbe avuto e con i quali troppe volte avrebbe indagato in me e dai quali sarei sempre fuggito. «Hai ancora il vizio?» Quella domanda esplose in cielo come un tuono, ma me l’aspettavo. Sapevo saremmo arrivati a parlarne, che sarebbe arrivato il momento puntuale come l’ultima volta che c’eravamo visti. Ero davanti casa sua ed era la vigilia di Natale. Faceva freddo o forse no, ma non ha importanza perché di sicuro il freddo che provai dentro, quello sì che fu reale. Ero lì con in mano un regalo per mia nipote, la mia tenera nipote di undici mesi che feci appena in tempo a scorgere nel piccolo spiraglio della porta che Tosca aveva lasciato aperto. Mia sorella mi fissava con fare duro, con le braccia conserte a chiudere se stessa di fronte a suo fratello. «Puzzi Mario, puzzi d’alcol come sempre» mi rimbrottò a muso duro. «Ma questa volta non voglio che finisca come le altre, non sono così forte da raccoglierti di nuovo da terra mentre vaneggi nei tuoi deliri. Non ce la faccio più» e trattenne a stento le lacrime. «Mi giudichi Tosca? Mi stai giudicando?» le domandai amaramente. «Non si tratta di giudicare, Mario» affermò e col dorso della mano si asciugò una piccola lacrima e poi tornò a stringersi tra le braccia. «È che davvero non ne posso più di quello che sei diventato. Lo sai bene quanto di me e della mia vita ho sacrificato negli ultimi anni per starti dietro.» «Ah, allora è di questo che si tratta? Sarei un sacrificio per te?» dissi stizzito. «Oh Cristo, Mario. Per cortesia evitami i tuoi vittimismi, non mi sembra il caso. Sai bene cosa intendo dire» mi ammonì indispettita. «E allora fammi entrare.»
«No!» sentenziò mia sorella bloccando col corpo il mezzo o che feci in avanti per guadagnare spazio. Ci fissammo negli occhi: i suoi lucidi e vitrei, i miei rossi e annebbiati. Una piccola manina sbucò per un frangente nello spiraglio della porta alle sue spalle o forse immaginai di scorgerla. Quella creatura così innocente e fragile era all’opposto della scena che si stava consumando tra di noi. Ero un uomo con le sue fragilità, ma non per questo avevo voglia di essere emarginato e messo da parte. Meritavo di dedicare del tempo a mia nipote e a lei, mia sorella: la donna che mi metteva alla porta con sconfortante freddezza. «Si sta concludendo così?» le domandai. «Cos’è che dovrei dirti, Mario? Che va bene così, che tanto poi a e tutto si sistema? No, questa volta non sono sicura di sopportare gli occhi pietosi con i quali gli ospiti ti guarderebbero e la loro finta comprensione, il loro odioso perbenismo. Non credo potrei reggere nel vedere i resti dell’uomo che eri e che ormai hai gettato in fondo a una lurida bottiglia.» Poi distolse lo sguardo in preda a un visibile dispiacere. I capelli le scesero giù pietosi a coprirle parte del viso ma feci in tempo a notare il suo labbro inferiore in balia di un tremito. Posai a terra il dono che avevo tra le mani e le voltai le spalle andandomene. Scesi pochi scalini e di seguito arrestai il mio o nell’udire la sua voce. «Mario» chiamò, «torna quando sarai nuovamente quel che eri, Gioia ti aspetta.» Non le risposi e tornai ad avanzare per non rivederla più. In quel momento, come in quella sera ormai lontana, ebbi un fremito al cuore sentendomi ferito e colpito in un punto vivo e sempre dolente quasi da rendermi inerme. «Allora, bevi ancora?» m’incalzò. «Ogni tanto» le risposi tra i denti distogliendo lo sguardo, ma senza vederla sentivo forte i suoi grandi occhi su di me. «È proprio vero, non cambi mai!»
«Oh, senti. Cos’è, il momento della paternale?» le domandai stizzito sovrastandola con la voce e con la statura. «Ehi, ehi, non usare quel tono con me. Hai capito?» mi rimproverò inducendomi a ritrarmi, più che altro perché mi sentivo a disagio nel litigare con una bambina. Poi sospirò e aggiunse: «Ehi fratellone, mi sei mancato e anche alla piccola Gioia che adesso non è più poi così tanto piccola.» La osservai teneramente riconoscendo nei tratti di quella bambina, la donna che sarebbe diventata in seguito. «Anche voi mi siete mancate, ma sai…» «Mmm, lo so. Lo so molto bene» asserì e poi, tirandola fuori da chissà dove, mi porse una foto. «Questa è tua nipote.» Mi avvicinai e presi tra le dita quel piccolo ritaglio di carta lucida sulla quale era impressa l’immagine di una graziosa bambina. Era un primo piano nel quale la bambina osservava l’obiettivo di profilo, indossando un cappellino di lana bianco dal quale fuoriuscivano dei biondi boccoli. Aveva un cappottino rosso abbottonato sul davanti con una doppia fila di bottoni dello stesso colore. Mia nipote mi osservava con occhi grandi come quelli della madre, ma più vispi e dall’aria intelligente; aveva due rosee guance tra le quali era incastonata una tenera bocca mossa in un leggero sorriso. Era molto più grande di come la ricordavo e molto più graziosa di come immaginavo. «È davvero molto bella» affermai rivolto a mia sorella, però senza distogliere lo sguardo dalla foto. «E sapessi quanto è vivace» pronunciò con sconforto Tosca. Le porsi la foto accennandole un sorriso di comprensione. «È solamente una bambina, sarebbe un peccato se non lo fosse.» «Bah, forse hai ragione» concordò afferrando la foto. Poi il suo volto si fece serio e tornò a posarsi su di me. Per lei a parlare erano quei suoi occhi, mi raccontavano la voglia di rivedere in me il fratello che ero sempre stato e che sapevo di non essere più. La vita mi aveva messo di fronte ad alcune difficoltà e avevo trovato nell’alcol il giusto espediente per combatterle, o per lo meno per ritrovare rifugio da esse. «Ho incontrato mamma e papà» affermai improvvisamente, ma sul suo viso non
vi fu alcun mutamento visibile. «Lo so» rispose laconica. «Come fai a saperlo?» le domandai sapendo già che non avrei avuto alcuna risposta, perché non ce n’era. «La mamma ha ragione, è ora che tu torni a prendere in mano la tua vita.» Eccone un’altra, pensai, tutti concordi con mia madre e pure quella donna in vita non aveva trovato mai nessuno che le avesse dato retta, mentre ora parevano tutti pendere dalle sue labbra. «Siete tutti pieni di saggezza e pronti a darmi il giusto consiglio, eh? Ma io non ho bisogno di voi altri. Io la vita me la creo e vivo come più mi pare» dissi con una vampata di rabbia che mi venne su fino ad arrossirmi il volto. Mia sorella sogghignò e mosse il capo in senso di diniego disegnandosi sul viso un’espressione di rimprovero. «Come potevo anche minimamente sperare che qualcosa in te fosse cambiato, che ti fosse tornato un po’ di sale in quella zucca vuota che ti ritrovi» asserì e avvicinandosi e tirandosi sulle punte dei piedi, mi diede uno scappellotto sul braccio. «Ahi!» dissi ad alta voce mentre con una mano mi accarezzavo la parte colpita. «Ma che ti prende, sei impazzita?» «Ce ne vorrebbero molte di botte da darti e molto più dure.» «Senti Tosca, non sono di certo venuto qui per farmi maltrattare da una bambina.» «Ah no, e cosa saresti venuto a fare? Sentiamo.» «Uhm, di preciso ancora non saprei dirlo, ma di sicuro non per starmene ad ascoltare la tua ramanzina o quella di chiunque altro» affermai poco convinto e compii alcuni i per poi andarmi a sedere su di un grosso sasso. Improvvisamente fui sopraffatto da un’inaspettata stanchezza ed ebbi il forte bisogno di sedermi. Lei rimase nel medesimo punto, mi seguì solamente con lo sguardo.
«Capirai Mario, molto presto capirai. Tu hai un dono ed è molto speciale. Questo dono che possiedi ti offre la possibilità di andare ben oltre ogni ragionamento umano. La razionalità ha poco a che fare con te, anche se ti reputi materialista e cinico, sei una persona molto sensibile e capace di osservare le vere profondità degli esseri umani. Sei quello che alcuni studiosi definirebbero uno shining.» «Uno shining» ripetei incredulo, «vuoi dire come il film?» Mia sorella accennò a un breve gesto di assenso con la testa. «All’incirca. Sai cos’è uno shining?» mi domandò, ma non le seppi rispondere. «Lo shining è un luccichio, è la straordinaria capacità che alcuni hanno nel riuscire a estendere la propria coscienza al di là dei limiti temporali contingenti, arrivando a toccare e influenzare quella di altre persone.» La guardai sbalordito con l’incomprensione disegnatami sul volto per le parole che stava dicendo. «Vorresti farmi credere che avrei dei poteri telepatici, è questo che stai dicendo?» «Lo so che può apparire strano, ma è così. Ancora non lo sai, ma presto ne prenderai coscienza e tutto, per quanto possa sembrare folle, ti apparirà chiaro.» «Questa sì che è roba grossa, ragazzi» affermai ridendo con l’intenzione di canzonare ciò che stava cercando di farmi credere mia sorella. «Va bene Mario, scherzaci pure, ma presto o tardi penserai amaramente a queste tue risate» disse stizzita. «Oddio scusami, ma sta storia è troppo buffa che non ce la faccio a non ridere» le risposi sempre immerso nella mia risata. «Ma tu mi ci vedi come fenomeno paranormale? Magari uno di quelli che indica i numeri che saranno estratti alla lotteria, nelle emittenti televisive locali.» Ridevo e lo facevo di gusto immaginandomi nella scena che avevo appena descritto, ma Tosca non parve divertirsi alla stessa maniera. «Sei un coglione Mario, e io a un deficiente non ho nulla da dire. Torna presto a smaltire le tue sbornie così potrai capire e credere a quello che ti dico.» «Ehi, ehi, non prendertela sorellina. Lo sai che mi piace scherzare e non è vero che non credo a quello che dici, però devi anche capire il mio stato d’animo: non
è che tutti i giorni ci si senta dire di essere un telepatico» affermai tornando ad assumere un tono più serio, più che altro per non indispettirla maggiormente. «Ora vado.» «Dov’è che vai?» le chiesi preoccupato e feci per alzarmi dal sasso sul quale ero seduto, ma era come se ci fosse stata una forza che mi tratteneva lì, ancorato a quella pietra. Provai a divincolarmi, ma non ci riuscii. «Vado via perché il tempo ormai è scaduto e anche l’effetto dell’anestesia sta per terminare» dichiarò guardandomi con occhi inespressivi. «Ma di che diavolo stai parlando? Lo sai che sei davvero strana, sorellina? Non ti capisco, non capisco il senso di quel che dici» affermai costernato. «Posso capire il tuo disagio nel sentirmi pronunciare tali parole, ma presto ne afferrerai l’esattezza. Ti saluto fratellone» asserì e si voltò per andarsene. «Aspetta Tosca, quando ci rivedremo?» urlai arrestando il suo incedere spedito e leggero, sembrava quasi che fluttuasse nell’aria. «Quando inizierai a credere nei sogni e nelle torte al formaggio» rispose senza voltarsi, per poi riprendere il cammino intrapreso. Io non ebbi la forza né il coraggio per replicare. Cedetti alla spinta che mi attirava costringendomi a rimanere seduto su quel sasso ed esausto sospirai profondamente. Non avevo più pensieri nella testa, o forse ne avevo troppi per ragionare ancora una volta su quello che mi era accaduto, sentivo il cervello esplodermi. Pareva avesse aumentato le sue dimensioni spingendo forte contro le pareti della calotta cranica. Un lieve mal di desta subito mi avvolse e quindi chiusi gli occhi con l’intento di rilassarmi, per far sì che quel dolore sparisse in breve tempo. Non fu così immediato, anzi il mal di testa rimase lì a pulsarmi nel cervello per tutto il tempo. Mi sorpresi però nel percepire nella mia testa, oltre all’emicrania, una canzone che feci fatica in un primo momento a decifrare. La realizzavo chiara nella mente, la sentivo precisa nelle sue sonorità, ma non riuscivo a ricordarne il titolo o qualche parte del testo. Mi grattai la fronte e cercai di concentrarmi su quelle note che improvvisamente parevano essere diventate la cosa più importante in assoluto. Poi ecco, come per magia, le parole mi apparvero chiare
e capii che si trattava del brano dei Cure, Boys don’t cry.
Misjudged your limit Pushed you too far Took you for granted I thought that you needed me more Now I would do most anything To get you back by me side But I just keep on laughing Hiding the tears in my eyes Because boys don’t cry.
Canticchiai amaramente quella canzone dentro me e pensai al viso di mia sorella da bambina, a quello giovane e senza rughe dei miei genitori, a quello tormentato e privo di rimorsi di James Dean, a quello ossuto e vuoto di futuro e speranza della Morte e a tutti quei volti regalai un mio momento. Forse quell’assurdo viaggio poteva avere un significato, per forza doveva averlo. Mia madre voleva che rimediassi alla mia vita oramai costellata di malumori e sonore bevute, totalmente priva di affetti, soprattutto quello di mia sorella la quale, invece, mi considerava un fenomeno da baraccone: un portatore sano di poteri ESP in grado di realizzare fittizie connessioni extra sensoriali con altre persone. Io ci capii ben poco, forse anche perché nulla c’era da capire. Ma, come compresi in seguito, il mio tempo lì, in quel luogo immaginario o assurdamente reale che fosse, era terminato. Ora dovevo tornare a svegliarmi, ora che l’effetto dell’anestesia stava svanendo, ora che il mondo dei vivi reclamava la mia presenza, ora che il tempo per i vaneggiamenti e i viaggi ultra corporei erano terminati. Sentii un arpeggio di chitarra acustica suonarmi nella mente, poggiai la testa tra le mani e mi strinsi tra le spalle. Una forza sconosciuta e irreale
pareva mi stesse risucchiando, sembravo improvvisamente come finito nel vortice di un aspirapolvere il quale mi tirava dentro di sé. L’arpeggio continuò a risuonarmi in testa, poi sentii un forte senso di oppressione allo stomaco e un dolore lancinante agli occhi. Li avevo ancora chiusi e anche se non potevo osservarli sapevo, o mi pareva, che stessero sanguinando. Di seguito la vista mi fu preclusa e ci fu solo un colore a tingere le mie immagini e fu quello di un rosso , sanguigno. Capii che stava finendo tutto, che mi stavo staccando da quel sogno o finta realtà che fosse e nel momento in cui lo capii, tutto ebbe termine.
Epilogo
La stanza dell’ospedale era spoglia e composta di poca mobilia e del tutto essenziale. C’erano due letti, due armadi, due comodini, tre sedie, due scomode poltrone, un tavolinetto sul quale consumare i pasti e nient’altro. Non è che ci si potesse aspettare oltre dal servizio sanitario locale il quale era, come sempre del resto, in perenne deficit economico. I tagli ormai erano stati effettuati a pieno regime e molti ospedali e ambulatori della zona erano stati chiusi; reparti creati pochi anni prima, erano stati murati solo perché non c’erano abbastanza fondi per poterli utilizzare. Macchinari di ultima generazione, praticamente mai usati, erano lasciati alla polvere del tempo. Lo sperpero del denaro pubblico era una delle piaghe che mai sarebbe scomparsa col tempo e a nulla sarebbero valse le continue inchieste giornalistiche del caso né tanto meno le manette che puntualmente venivano fatte penzolare di fronte al politico e primario di turno. Il mal costume non aveva mai tempo per cedere il o al buon senso civico. Quello era solo uno dei tanti ospedali che vacillavano sul terreno instabile della sanità locale che, come un cerchio nell’acqua, si allargava fino a coinvolgere gran parte della nazione. Qualcuno disse, in periodi non sospetti, che terribili sarebbero state quelle epoche in cui degli idioti avrebbero governato dei ciechi. Forse la storia si ripete sempre simile a se stessa, forse gli uomini sono talmente orbi da non fare ammenda delle esperienze vissute per non cadere negli errori ati o forse il mondo gira proprio perché, se ci fosse uno stato di quiete nel quale tutto si muovesse nel verso giusto e coscienzioso, nulla più avverrebbe: i governanti non avrebbero da governare e da controbattere ai propri avversari - o simili -, i critici non avrebbero nulla da rimproverare e alcuno da additare, gli storici non sarebbero tirati in causa per capire come in ato ci si era comportati dinanzi a problemi simili e il popolo, che è di per sé una bestia da ammansire, impazzirebbe nello sconforto della libertà. Di conseguenza gli errori storici esistono e sempre ci saranno perché sono il motore di questo assurdo roteare che il pianeta Terra, ormai da troppi secoli, ha intrapreso e pare non voler portare a termine. Quella stanza d’ospedale, quindi, era la figura emblematica dello stato catatonico e spoglio nel quale riversava una nazione intera e proprio in quella stanza
d’ospedale mi ritrovai fermo a fissare il soffitto nel vano tentativo di capire se, quella macchia che vedevo, fosse un principio di muffa o un ragno nero dalle dimensioni di un pugno. Però non riuscivo minimamente a distinguere se fosse l’una o l’altro, mentre era chiaro che la vista in quel momento non era per nulla pulita e limpida, ma non me ne lagnai anche perché ero da poco tornato a vedere. L’operazione era andata a buon fine e di questo me ne rallegravo; ero molto felice di essere tornato a vedere il mondo che mi circondava, anche se, realizzare la stanza nella quale mi ritrovavo e lo stato in cui essa riversava, non era sicuramente un granché come prima immagine. Il dottore che mi aveva operato, subito dopo il mio risveglio dall’anestesia, aveva fatto capolino nella mia stanza e, bussando sul battente della porta aperta, era entrato con o fiero e un sorriso sincero ben fisso sul suo viso paffutello. «Come sta signor Vettori?» mi chiese ponendosi ai piedi del mio letto, leggendo la cartella clinica che aveva tra le mani. «Beh, credo sia più giusto che me lo dica lei. Come sto, dottore?» domandai di rimando. L’uomo fece una fragorosa risata e strizzò l’occhio destro. «È vero, ha perfettamente ragione, però vorrei sapere se avverte dolore. Sa, abbiamo eseguito un intervento molto particolare su di lei, dovendole operare entrambi gli occhi» affermò il dottore con quel sorriso sempre stampato sul viso. Probabilmente era una di quelle persone che, rendendosi conto di non risultare estremamente simpatica, faceva di tutto per apparire tale, ma gli riusciva malissimo. «Sì, avverto un po’ di dolore. Niente di troppo forte, intendiamoci, ma comunque un lieve fastidio. Sembra quasi che abbia qualcosa negli occhi che mi disturba» risposi e mossi leggermente gli occhi per costatare, qualora ce ne fosse stato ancora bisogno, se era vero ciò che avevo affermato. Infatti, muovendo i bulbi sotto le palpebre chiuse, avvertivo come la sensazione di avere un corpo estraneo a rendere difficili tali movimenti. L’uomo mosse il capo non tanto in senso di approvazione a quello che stavo dicendo, ma piuttosto per metabolizzare quelle informazioni e confrontarle con le sue conoscenze. «Non si preoccupi, signor Vettori, è tutto nella norma. Il fastidio di cui parla, molto probabilmente, è dovuto alla presenza dei punti e al taglio che abbiamo praticato. Tenga presente che ci vorranno un paio di mesi per
far sì che i suoi occhi possano guarire» di seguito l’uomo venne più vicino e sporgendosi in avanti, sopra di me, mi chiese di voltare gli occhi al soffitto. Obbedii senza esitare e, sempre sotto le sue indicazioni, mossi gli occhi prima da una e poi dall’altra parte, mentre lui, sempre su di me, emetteva degli uhm che non seppi se di natura positiva o meno. Poi si ritrasse e scrisse qualcosa sulla cartella che aveva tra le mani. Rimasi zitto immobile cercando di capire qualcosa solamente dalle espressioni del suo viso, ma fu uno sforzo vano. Il suo viso paffuto e roseo aveva un’aria bonaria ed emanava serietà e un forte senso di fiducia. Poteva avere sì e no quarantacinque anni, ma forse anche meno poiché il suo viso era glabro e privo di qualsiasi forma di peluria che pareva quello di un adolescente. Aveva gli occhi infossati e lievemente cerchiati e un naso grande; nel complesso non si poteva di certo definire un bell’uomo anche perché, i capelli pettinati con la riga da un lato, non aumentavano per niente il suo, se mai ci fosse stato, fascino. «Dovremo procedere all’asportazione dei punti, ma le diremo quando ciò avverrà e non sarà di certo a breve» affermò il dottore tornando a fissarmi e, poggiando la cartellina sotto il braccio sinistro, infilò le mani nelle tasche del camice il quale, sotto quella pressione, assunse una forma tesa e rigida sui fianchi e sulle spalle. «Molto probabilmente sarà necessario eseguire un nuovo intervento chirurgico per modulare il risultato ottenuto, ma per ora non glielo so dire con precisione, in seguito dovremmo sostenere degli esami per capire in maniera dettagliata l’esito dell’operazione. Per il momento seguirà una cura a base di colliri che assumerà qui sotto la nostra attenzione e in seguito una volta dimesso. In oltre è molto importante, una volta fuori di qua, che protegga gli occhi dai raggi del sole indossando degli occhiali scuri sia all’esterno sia dentro casa.» Assentii con un gesto del capo e poi affermai: «Dottore, ma io non ci vedo bene!» L’uomo sorrise e rispose: «Lo credo bene. Lei, fino a qualche ora fa, era completamente cieco, si ricorda? Beh, ora non potrà di certo pretendere di vederci in maniera limpida. Dovrà, come tante altre persone, indossare degli occhiali che le permetteranno di correggere quegli errori visivi. Ma stia tranquillo, ci sarà tempo per tutto. Per il momento si riposi, in giornata erà l’infermiera per applicarle il collirio di cui le parlavo.» «Ho capito» risposi sprofondando con la testa nel cuscino e poi tornai a
chiedere: «Quand’è che potrò tornare a casa?» «Quanta fretta, signor Vettori» affermò il dottore sorridendo «ha da poco subito un importante intervento e già pensa di fuggire a casa. Stia tranquillo, nel giro di qualche giorno sarà dimesso. Ci dia almeno il tempo di tenerla un po’ sotto osservazione.» «Certo, ha ragione. Ma sa com’è…» «Certo, certo, lo so perfettamente. Però ora si riposi e dia respiro a quei suoi poveri occhi straziati. Noi ci rivedremo a breve» affermò l’uomo e, facendo un gesto di saluto con la mano, uscì dalla stanza lasciandomi solo. Sentivo gli occhi appesantiti e infastiditi dall’operazione e quindi decisi di dare retta ai consigli del dottore e mi appisolai. Dormii per circa un paio d’ore e mi svegliai riposato e con un maggior vigore rispetto a prima. Gli occhi erano sempre dolenti e, infatti, nell’attimo in cui li aprii, feci non poca fatica. Parevano come fossero incollati e pieni di sabbia; erano secchi e ruvidi e fui tentato di strofinarmeli per bene, ma non lo feci per paura di poter arrecare qualche danno. Nel giro di poco tempo arrivò una giovane infermiera che però mostrava sul viso i segni della fatica di un lavoro che lascia poco tempo al riposo e si prese subito cura di me e in particolare dei miei occhi. Li deterse e li pulì con una piccola garza di cotone, facendo molta attenzione a non provocarmi dolore né tanto meno a compromettere l’operazione da poco subita. Di seguito mi chiese di fissare il soffitto e, tenendomi ferma la palpebra superiore, mi applicò delle gocce di collirio in entrambi gli occhi. Nel frattempo che quel liquido fe presa e che si asciugasse, scambiammo qualche parola; le mie domande erano rivolte soprattutto alla richiesta di cibo poiché erano ore che non mangiavo nulla e la donna mi rassicurò dicendomi che a breve mi avrebbero portato qualcosa da mettere sotto i denti. Di seguito raccolse i suoi strumenti e mi lasciò nuovamente solo. Il silenzio era il padrone in quella stanza, si sentiva solo un leggero chiacchiericcio provenire dal corridoio fuori la stanza; forse due degenti che discutevano tra loro, o due infermieri, o forse dei parenti accorsi in quel triste luogo a far visita a un loro caro. In quel momento anch’io desiderai di poter ricevere la visita di un parente o un amico e invece, se per un momento avessi riflettuto sulla mia vita, avrei riconosciuto in essa un profumo unico e facilmente distinguibile: quello della solitudine. E quindi, me ne stavo lì col naso all’insù solo con me stesso, a cercare ancora imperterrito di decifrare quella macchia sul soffitto che ormai era chiaro che si trattasse di un alone di muffa e non di un
ragno dalle dimensioni preoccupanti. Reclinai il capo di lato e osservai il letto vuoto accanto al mio il quale aveva il copriletto celeste teso senza nessuna grinza, così come il lenzuolo bianco con il suo risvolto. Il cuscino era privo di federa e completamente lindo, nel complesso quel letto emanava un forte senso di pulizia e ordine e pensai a colui il quale lo avrebbe occupato e con quale stato d’animo. Poi volsi lo sguardo oltre, verso le due grandi finestre che davano sulla vallata antistante all’ospedale. Dalla mia posizione si poteva vedere la piccola pineta e, poco più in là, il raccordo stradale sul quale delle piccole automobili colorate sfrecciavano in direzioni opposte. Il sole non era intenso anzi, aveva la classica luce fioca dell’imminente tramonto che da lì a qualche ora sarebbe arrivato puntuale come ogni altro giorno. Trassi un respiro profondo e con esso mi parve di poter buttare giù le varie ansie che in quel periodo mi avevano avvolto. Pensai a come mi ero ridotto e allo stato in cui ero riversato nell’ultimo periodo della mia vita, il quale non era altro che costellato da giornate all’insegna delle bevute senza limite. Mi ero completamente disinteressato alla vita o almeno alle varie complicazioni e oneri che essa comportasse. Mi ero davvero perso. Pensai alla paura che presi il giorno in cui, svegliandomi nel mio modesto appartamento - eufemismo per non definirlo una latrina -, mi accorsi di vedere ben poco, quasi nulla. Mi ero accorto di avere difficoltà alla vista molto tempo prima, ma non avevo voluto dargli troppa importanza anche perché non mi era facile scindere i momenti nei quali ero lucido, da quelli in cui la percentuale di alcol nelle vene era maggiore dello stesso sangue. Saranno i fumi dell’alcol, mi dicevo o tentavo d’ingannarmi finché quella benedetta mattina non fui sopraffatto dalla paura di diventare cieco, ciò che in seguito avvenne. Corsi al pronto soccorso dell’ospedale oftalmico e, spiegando i miei sintomi, fui immediatamente visitato. Le espressioni sul viso del medico di turno non mi rassicurarono per nulla e fu lì che seppi di una malattia a me sconosciuta fino ad allora: il glaucoma. «Il glau che?» gli domandai con espressione accigliata. «Il glaucoma, signor Vettori» ripeté cortesemente il medico, «e non è altro che una patologia degenerativa lenta ma progressiva e accompagnata, come nel suo caso, dall’aumento della pressione intraoculare. Lei si è mai accorto di avere dei disturbi visivi?»
«Di che genere?» «Mah, che so: forti dolori e cefalee, occhi iniettati di sangue, offuscamento della vista e comparsa di aloni osservando delle fonti luminose» elencò il medico. Avrei voluto rispondergli di sì e, aggiungere, soprattutto dopo ogni sonora sbronza che puntualmente mi prendevo. «Beh, ora che mi ci fa pensare alcuni di quei sintomi credo di averli avuti» risposi più correttamente, anche se rimanevo dell’idea che i sintomi appena elencati non erano altri che quelli della sbornia. Preciso, preciso. «Davvero mi vuol far credere che lei non ha mai, fino a questo momento, dato alcuna importanza a questi sintomi?» mi domandò stupito l’uomo dal camice bianco. Non ebbi il coraggio di rispondere, così mi strinsi tra le spalle assumendo un’espressione idiota che indusse il medico a un sonoro sospiro. Successivamente e nelle ore seguenti, fui sottoposto a diversi controlli con dei macchinari curiosi e per niente rassicuranti. Parevano delle macchine della tortura le quali mi costringevano a tenere, uno per volta, gli occhi completamente spalancati e fissi su dei punti luminosi mentre, dall’altra parte del macchinario, il medico compiva i controlli del caso. La situazione era molto complicata e il rischio che diventassi cieco era più che probabile e così fu. Mi ricoverarono d’urgenza quando ormai non riuscivo più a vedere nulla e, l’unico rimedio possibile, era un immediato intervento tramite un laser che avrebbe permesso di abbassare la pressione intraoculare, la quale non era altro che la fonte dei miei mali. E adesso mi trovavo lì ed ero felice di poter pensare a quell’esperienza come un episodio ormai avvenuto e per lo più portato a buon fine, ma quell’accadimento mi aveva fatto ragionare e ponderare molto sulle diverse sfaccettature della mia vita. Tornai a fissare il soffitto mentre un gorgoglio rumoroso venne su dalla mia pancia la quale reclamava chiassosa del cibo. Mi sporsi fuori dal letto per afferrare la bottiglia d’acqua appoggiata sul comodino lì di fianco e bevvi dal suo collo una grossa sorsata, speranzoso che con quel gesto potessi attenuare i morsi della fame, ma non fu così. Per fortuna di lì a breve fece capolino nella stanza una signora alquanto abbondante la quale pose sul carrello, ai piedi del letto, che in seguito spinse fino a me, un vassoio contenente quel che sarebbe stata ormai la mia cena. Mangiai tutto e con grande voracità, così in fretta da non
rendermi conto se quel cibo era buono o meno, tanta era la fame. Di seguito vennero a riprendere il vassoio, ma non fu la stessa signora di prima, ma un uomo grosso e baffuto. Tornai a coricarmi e fissai nuovamente fuori dalla finestra. Ora, su quel pezzo di strada ormai avvolto dalle tenebre, si vedevano solamente dei puntini luminosi che sfrecciavano in direzioni opposte. Sembravano tante fiammelle, erano simili a tanti fuochi fatui, come riverberi di anime del purgatorio e quel pensiero mi scosse. Le anime, il purgatorio, erano immagini che mi riportarono a qualcosa che avevo vissuto e che mi pareva di aver visto da qualche parte, ma non riuscivo a ricordare. Erano immagini poco chiare, di scarsa forma e consistenza, come avvolte dall’appannamento di un sogno. Già, un sogno pensai. In quelle ore, sotto gli effetti dell’anestesia, avevo fatto dei sogni o forse dei viaggi ultra corporei verso situazioni e mondi fisicamente irraggiungibili. Mi fu improvvisamente chiara l’immagine dei miei genitori e fui sopraffatto dallo sconforto realizzandoli immersi sotto terra fino al collo in attesa di un giudizio. Li rividi lì, seppur con i loro visi giovani, sepolti assieme a un mare di corpi in attesa del loro destino e della possibilità di abbandonare l’involucro dei loro corpi, per volare in paradiso. Le immagini si facevano via via sempre più chiare, come la scena di me che giocavo a scacchi con l’oscura signora e la sua promessa di rivederci non a breve; e poi James Dean, il saggio, e la sua filosofia, il suo volto carico di sofferenza interna e infine il volto di quella bambina che un tempo fu mia sorella. Tosca e le sue frasi di rimbrotto per quella mia vita dissennata e annegata in fiumi di alcol. Tosca che non faceva altro che ricordarmi e raccomandarmi di tornare a essere quel che ero. Tosca che sperava che riuscissi a credere nelle torte al formaggio e di conseguenza a confidare nei sogni. Sbuffai rumorosamente a quel pensiero e alla vacuità di quella speranza. Sempre lei che affermava di percepire in me poteri extra sensoriali paragonandomi a uno shining. Un momento! Ragionai improvvisamente, mia sorella mi aveva definito uno shining? Quel ricordo mi destabilizzò e, tirandomi su a sedere, scossi la testa nel vano tentativo di riordinare le idee. E già, Tosca aveva esattamente detto questo, cominciai a ricordare e realizzare quell’incredibile discussione che avevo avuto con lei. Tutto ciò era folle. I miei pensieri e quel sogno che avevo intrapreso, per quanto mi fosse sembrato reale, erano un folle parto della mia mente e non potevano lasciarmi così interdetto. Spesso siamo in balia dei nostri sogni, ma non per questo possono condizionare la vita reale, il presente. Mah, sarà stata tutta colpa dell’anestesia, pensai. Scossi di nuovo il capo e sentii nuovamente gli occhi stanchi e pesanti, così decisi di tornare a riposare. Mi coricai cercando di togliermi dalla testa quegli assurdi pensieri e caddi subito in un sonno profondo, privo di sogni.
Mi risvegliai con la vana speranza di trovarmi in un altro luogo, magari a casa mia così da credere che tutto quel che mi era accaduto fosse soltanto un sogno, frutto della mia immaginazione, ma non era così. La stanza d’ospedale era ancora lì attorno a me e io mi trovavo ancora disteso in quel triste letto. Gli occhi mi arrecavano ancora lo stesso fastidio che avevo avvertito il giorno precedente: mi sembrava di averli lasciati per l’intera notte in un secchio di sabbia e per cercare di renderli meno ruvidi provai a inumidirli battendo più volte le palpebre. Mi parve che andasse meglio, ma solo lievemente. Una leggera luce filtrava dalle finestre e al di là del vetro un nuovo giorno si mostrava a me. C’era un sole limpido, ma ancora caratterizzato dalla poca intensità che di solito ha nelle prime ore del mattino. Avevo dormito tanto, non meno di undici ore e, infatti, mi sentii pienamente riposato e con un impellente bisogno di orinare. Tolsi via le coperte e mi sedetti sul bordo del letto, ma dovetti fermarmi un momento poiché fui sopraffatto da un lieve capogiro. Un fastidioso fischio mi riempì le orecchie, ma nel modo repentino col quale si era manifestato, così scomparve. Infilai i piedi nelle pantofole e trascinandomi - le gambe le avvertii appesantite come se non le avessi utilizzate da molto tempo -, mi diressi verso la porta del bagno presente nel lato della stanza a me di fronte. Il bagno era piccolo e angusto. In esso erano presenti solamente un piccolo lavandino con uno specchio opaco, un bidet e un water. Pensando alla mia scarsa vista e alla poca stabilità che avevo nelle gambe, decisi di orinare sedendomi sulla tazza. La ceramica fredda, a contatto con le mie gambe, mi offrì una spiacevole sensazione che m’indusse a stringere i denti e modificare il mio viso in un’espressione di fastidio. Al contrario, la sensazione che provai nello svuotare la vescica, fu piacevolissima come se mi stessi sgravando di un peso insostenibile. Quando terminai, tirai lo sciacquone e mi diressi al lavandino, dove mi pulii le mani e mi rinfrescai il viso. Osservai il mio volto allo specchio e mi parve di vedere una faccia più vecchia di quella che ricordavo. Tirandomi la pelle sotto gli occhi, cercai di notare in loro qualcosa che mi mostrasse l’avvenuta operazione, ma non mi parve di scorgervi nulla di rilevante. Diedi una ravviata ai capelli e feci per uscire. Sul tavolo c’era un vassoio coperto che prontamente mi apprestai ad aprire e felicemente scoprii contenere la mia colazione che si componeva di una ciotola con latte e caffè, una confezione sigillata con tre fette biscottate e una piccola confettura di marmellata di pesche. Mangiai tutto avidamente e neanche in quel caso feci caso alla qualità dei prodotti, ormai mangiavo tutto e senza gusto. Circa quindici minuti dopo arono a recuperare il vassoio, ma neanche allora vidi chi lo fece poiché ero nuovamente in bagno ma questa volta preso da
bisogni di natura solida. Erano le otto e trenta del mattino e io non sapevo già più cos’altro fare e così cominciai a contemplare, come fanno i pensionati al parco, il cielo fuori dalla finestra e gli uccelli che in esso volavano, ma le ore parevano comunque non trascorrere mai. Così mi apprestai a fare due i lungo il corridoio fuori dalla stanza, ma non c’era nessuno e quindi sbirciai all’interno delle altre stanze dove, per lo più, i degenti se ne stavano sdraiati nel letto a fissare anche loro una possibile macchia al soffitto. Me ne tornai mesto nella mia camera e mi coricai. Poco dopo decisi di leggere un opuscolo che il parroco dell’ospedale gentilmente mi aveva consegnato e che avevo accettato, ma non di buon grado, cogliendo così l’occasione per invitarmi a seguire le funzioni che si sarebbero tenute tutte le mattine e le sere nella cappella presente all’ultimo piano dello stabile. Ebbi l’accortezza di ringraziarlo, ma era chiaro a entrambi che non vi sarei mai andato. Tentai di leggere quell’opuscolo, ma lo sforzo per decifrare le piccole lettere stampate sopra, mi fece lacrimare gli occhi e quindi desistetti. Poco dopo si presentò l’infermiera - non la stessa della prima volta - che mi deterse gli occhi e li umettò con del collirio che mi diede presto sollievo. Alle dodici in punto mi portarono il pranzo che si componeva di un piatto di pasta al sugo, una porzione misera di purè e due fette di prosciutto cotto, un piccolo panino e una mela cotta. Mangiai quasi tutto, sbocconcellai parte del purè, mentre la mela non ebbi nemmeno il coraggio di annusarla. Attesi pazientemente che qualcuno venisse a portar via quel che restava del mio pranzo. Tornai a riposare nuovamente e dormii altre due tre ore. Mi svegliai un po’ intontito e per riprendermi bevvi una lunga sorsata d’acqua. Feci di nuovo pipì e dopo, quattro i lungo il corridoio, questa volta però incontrai un po’ di persone le quali erano per lo più parenti in visita ai loro cari ammalati. Anche in quella circostanza me ne tornai mestamente in camera mia a osservare fuori dalla finestra. «Ehi, vecchio cieco» fece una voce familiare. Mi voltai verso la porta d’ingresso e vidi stagliarsi la figura di Mino detto il sardo per via della sua minuta statura e della sua proverbiale cocciutaggine. Era lì fermo, al centro della porta, con le braccia allargate come il Cristo di Rio e in una mano stringeva una bottiglia. «Allora, come stai? Sei felice che il tuo caro amico ti abbia fatto visita?» mi domandò e si avvicinò al mio letto. «Ehi sardo, che ci fai qui?» gli chiesi con tono serio che palesava la mia mancata felicità di rivederlo. «Ma come, io ti vengo a trovare e tu mi accogli così? Che vuol dire che ci fai
qui, sono o no un tuo caro amico? Beh, gli amici si ano quando sono in difficoltà. Ora fatti abbracciare, vecchio brontolone» affermò il sardo e si avvicinò per stringermi tra le sue braccia e io glielo feci fare, ma non risposi al suo abbraccio rimanendo immobile, gelido. «Uhm, grazie per la visita» dissi esprimendogli riconoscenza a modo mio. «Ehi cazzo, non metterci tutto questo entusiasmo però, non vorrei che ti agitassi troppo» asserì ironico e non senza ragione. «Guarda piuttosto cosa ti ho portato e poi non dire che non ti voglio bene» aggiunse e mi porse una bottiglia dal contenuto violaceo. L’afferrai e me l’avvicinai al viso per capire di cosa si trattasse, ma poi lessi l’etichetta e capii. «Succo di mirtillo? Grazie tante» pronunciai con sdegno e l’uomo sorrise beatamente. «Sì, succo di mirtillo è quello che c’è scritto, ma in realtà è succo d’uva» affermò Mino a bassa voce, con un sorriso beffardo sulle labbra mentre si osservava attorno per paura di essere udito, «è vino rosso e pure di quello buono: è un Sangiovese.» Gli occhi mi brillarono nell’udire quelle parole e anche il sardo se ne accorse tanto che mi strizzò l’occhio in senso di complicità. Dio, che voglia matta avevo di farmi un goccio, di lubrificarmi il gargarozzo e di scaldarmi nuovamente le vene. Era una vita che non bevevo, pensai tra me e me, mentre la salivazione aumentò e dovetti deglutire rumorosamente per mandarla giù. «Ti va se ne beviamo un goccio assieme?» chiese il sardo e io risposi di sì con un semplice gesto del capo. «Prendi un paio di bicchieri di plastica che sono nel comodino» gli indicai mentre ero intento a stappare la bottiglia e assaporarne il dolce contenuto. Presto riempii i due bicchieri e, dopo un rituale brindisi, buttammo tutto giù in un paio di sorsate. Cristo se era buono, pensai, mi aveva risvegliato per intero le papille gustative. Ce ne facemmo ancora un altro buttandolo giù rapidamente, mentre con il terzo rimanemmo lì ad assaporarlo un po’, come fanno gli amanti della degustazione. Sorseggiando quel buon vino, mi sentii nuovamente in pace o almeno ebbi un attimo di riposo mentale; il sapore corposo e intenso di quel rosso indusse i miei sensi al rilassamento e con essi mi parve anche di sentire meno tensione in tutti i muscoli del corpo.
«È buono, eh?» mi domandò entusiasta Mino il quale se ne stava seduto su quella poltrona scomoda di fianco al letto. Risposi con un leggero cenno di assenso con il capo e ingerii ancora un altro sorso di quella beneamata bevanda. Lo osservai lì, con quella sua piccola figura e con quei suoi occhietti neri lucidi di una gioia che gli invidiavo, seduto a fissarmi e a godersi quel suo momento di gloria. Era chiara la sua soddisfazione nel potermi regalare, in quel mio momento di difficoltà, un attimo di beatitudine seppure effimera. Era un uomo strano Mino, per certi versi mi era anche antipatico, ma di sicuro faceva parte di quella schiera di persone dall’animo buono e prive della capacità di compiere del male a chiunque in maniera volontaria. Aveva i capelli di un nero intenso e li portava sempre pettinati all’indietro, impomatati con una brillantina lucida com’era di moda negli anni venti. Indossava un giacchetto di jeans chiaro che copriva una t-shirt dai colori improbabili e con raffigurato un gatto dalla bocca spalancata e minacciosa. Anche i pantaloni erano di jeans, ma dalla tonalità più scura e ai piedi indossava un paio di stivali da cowboy pitonati. Alle dita della mano che stringeva il bicchiere, erano infilati diversi anelli e alcuni dal gusto al quanto opinabile. Era lì fermo, con gli occhi limpidi e il sorriso fisso come in una paresi, a fissarmi in un modo che sembrava quasi volesse idolatrarmi. «Che c’avrai da ridere?» domandai con tono ironico e non privo di rimprovero, ma lui parve non farci caso. «Sai, ho un progetto tra le mani che se va in porto stavolta faccio il botto» irruppe come un tuono a ciel sereno. Ecco ci risiamo: un’altra delle sue trovate del cazzo, pensai e dall’espressione che assunsi, immaginai fosse palese quel mio pensiero. «E non fare quella faccia» si apprestò ad ammonirmi con fare serio, «guarda che davvero stavolta posso dare un cambio concreto alla mia e alla tua esistenza.» «Sì certo Mino, come le altre volte» affermai quasi sbuffando. Il sardo era famoso per le sue idee le quali sarebbero state in grado di dare una svolta decisiva alla sua esistenza e a quella di coloro i quali avrebbero creduto in lui. Ogni volta c’era la possibilità - quasi mai reale -, di guadagnare ingenti somme di denaro con le quali vivere una vita di rendita e di soli piaceri. Tra le più famose c’era l’apertura di un ristorante di pesce sul Cervino, rilevando uno
dei rifugi lì presenti per portarvi quell’assurdo cambiamento. «Chi mai ha pensato di vendere pesce su in montagna a duemila metri di altezza?» ci domandava a noi altri poveri diavoli che, seduti al bancone del solito bar, lo ascoltavamo più per lo strazio delle sue insistenze che per un vero e proprio interesse. Un motivo ci sarà, era una delle più normali obiezioni. Oppure quell’assurdità di dipingere quadri usando come pennello il proprio pene: quella folle idea era partorita da un commento che sentì rivolto da qualcuno - un folle non meno di lui -, a un dipinto di Pollock che lo reputò essere stato dipinto, testuali parole, col cazzo. E per un tempo non breve si cimentò in quell’arte che presto denominò penismo. Noi altri la relegammo a mera cazzata. Follia, follia pura era ciò che partoriva quella sua mente alla quale, era ormai certo, mancassero un paio di rotelle anche perché, con quell’assurdità, egli era convinto di ricavarci soldi e non pochi. «Credimi, questa volta è diverso» tornò a tentare di convincermi e assumendo ancor di più un’espressione seria. Alzai gli occhi al cielo e, stringendomi nelle spalle, gli chiesi: «Sentiamo un po’, quale sarebbe questa nuova e formidabile idea?» Felice di quella mia domanda e finalmente fiero di aver catturato il mio interesse, si mise a sedere con la schiena dritta e compiendo un paio di colpi di tosse, si schiarì la voce. «Aprire in Egitto una catena di pizzerie con un angolo sexy shop.» «Ma vaffanculo!» sbottai in maniera plateale sentendo quell’assurdità e alzando il braccio per porre l’accento sul mio pensiero. «Ehi, credi che sia una scemenza, vero?» mi domandò con fare contrito. «No, credo che sia una vera e propria stronzata!» «Ma non capisci che è una svolta?» «Sì, ma è una svolta a U in autostrada.» «Ma va là, fatti spiegare meglio nei dettagli.» «Ah, perché ci sarebbero anche dei dettagli?» domandai con sarcasmo beffeggiandomi di lui.
L’uomo trasse un profondo respiro, poi bevve ancora un goccio di vino e si apprestò a spiegare. «In Egitto mangiano da schifo, hanno una cucina pessima e soprattutto non sanno fare la pizza e lo sai bene anche tu perché ti lagni sempre di come siano state monopolizzate le pizzerie italiane da pizzaioli egiziani e che, soprattutto, non la sanno fare. È vero o no che dici sempre che la pizza fatta dagli egiziani fa cagare?» «Sì è vero, ma cosa c’entra?» mi trovai ad approvare mal volentieri. «Certo che c’entra anzi, è il punto centrale perché se noi portiamo in Egitto il vero gusto della pizza nostrana, quelli faranno a botte per poterla mangiare.» Già il fatto che parlasse al plurale non mi piaceva affatto perché ciò stava a significare che facevo parte, non volutamente, di quel suo folle progetto. «Uhm» risposi laconico a quella sua argomentazione, «e il sexy shop?» A quella mia domanda il suo viso s’illuminò di una luce che mi fece rabbrividire per il terrore. «È proprio quella la genialità, il colpo da maestro che ci farà fare il botto.» «Ah sì?» «Eh sì, caro mio. Va bene la pizzeria, ma qualcuno potrebbe obiettare che in Egitto già ci sono pizzerie dal nome e dalla qualità italiana.» «Certo» affermai. «Certo» ripeté lui, «e allora noi li stupiremo con l’angolo dedicato al sesso.» «Grande genialità, non c’è che dire, ma mi spieghi cosa c’entra il sesso con la pizza?» gli domandai esterrefatto e con l’incredulità che andava aumentando a ogni sua affermazione. «Beh, non c’entra niente, ma tu sai bene quanto quel popolo sia stato represso e quanto abbia bisogno di svoltare, di assaporare il gusto della libertà. La primavera araba lo sta dimostrando: quel popolo vuole finalmente vivere e dare spazio alla propria identità e alle più recondite perversioni personali. Non dobbiamo farci sfuggire l’occasione di colmare per primi quel vuoto, presentandoci col nostro brand italiano sinonimo di qualità e libertà. L’Italia, del
resto, è la pizza e le belle donne.» Stentavo a credere alle mie orecchie e alla quantità di assurdità che quell’uomo stava, in brevissimo tempo, vuotandomi addosso. «E quindi ti toccherà trasferirti in Egitto?» a quella mia domanda il suo volto si rabbuiò e mi fissò tetro. «Ma che sei matto? Io andare a vivere in mezzo a quei mangia cammelli? No, no, controlleremo tutto da qui, dall’Italia e lo faremo tramite internet. Certo in un primo momento dovremo fare dei sopralluoghi sul territorio, trovare i locali e i posti adatti, reperire e formare il personale, ma poi l’attività andrà avanti da sola e noi la supervisioneremo da qui con l’ausilio di telecamere e della tecnologia di internet. Quando prenderà il volo, apriremo altre filiali in tutto l’Egitto e andremo lì forse una volta al mese o al massimo due, ma per il resto ce ne staremo comodamente seduti sulla poltrona a goderci i nostri guadagni e credimi, saranno tanti. Fidati Mario, questa è una svolta. Questo è il futuro e ho già in mente il nome: Sexy Pizza» e scorse con la mano come a scrivere nell’aria un immaginario cartellone pubblicitario, di seguito sprofondò soddisfatto nella poltrona. «Allora dimmi, che ne pensi?» «Mi chiedi che ne penso?» gli domandai di rimando e osservai il suo volto soddisfatto mentre col capo compì un gesto di assenso. «Penso che sia una cazzata pazzesca, una delle più grandi e tu sei uno stramaledetto folle alcolizzato.» «Ma come…» disse l’uomo incredulo. «Cristo santo, ma le senti le bestialità che caga quella fogna della tua bocca? Ti ascolti quando dici ‘ste cazzate colossali? Secondo me no, perché se un poco le ascoltassi o cercassi di capirle, ti renderesti conto che sono il parto di una mente folle, priva di senno e completamente fuori dal modo. Dio santissimo, tu sei fuori. Aprire una sexy pizzeria, ma sentite cosa dice ‘sto matto» dissi rivolgendomi a nessuno in particolare e poi aggiunsi: «E da me, sentiamo, cosa vorresti?» Mino mi guardò, poi abbassò il capo e restio disse: «Tu dovresti metterci il capitale.» A quell’affermazione sbottai in una sonora e fragorosa risata che mi sembrò
quasi farmi uscire gli occhi dalle orbite. «Oddio Mino, sei davvero un mito. Cazzo se lo sei» dissi con la voce interrotta dalla risata. «E a quanto ammonterebbe questo capitale?» «Beh, sarebbero circa cinquantamila euro, ma vedrai che i soldi li incasseremo subito e quindi in breve tempo avrai modo di rifarti del capitale investito e…» Non fece in tempo a terminare quella sua sgangherata argomentazione perché mi fiondai su di lui, ma fu più lesto di me a divincolarsi e a sfuggirmi di mano. «Vieni qui, fottuto pazzo. Vieni qui, che te li do subito i cinquantamila euro» tuonai pervaso dalla rabbia. «Fottiti Mario, non sai a cosa stai rinunciando. Ora fai tanto il gradasso, ma quando verrai a implorarmi di entrare in società perché con questa mia idea avrò fatto un pacco di soldi, allora mi ricorderò di questo momento e me la riderò e…» anche in quel caso non gli diedi modo di terminare il suo demente discorso perché scappò via dalla stanza inseguito dalla bottiglia di vino che gli scagliai contro e che andò a infrangersi contro il muro che presto macchiò. Sulla parete si allargò un alone scuro e mentre fissavo quella macchia spandersi verso il basso, sentii nuovamente un opprimente senso di solitudine invadermi.
La Madonna aveva il viso triste come pervaso da mille afflizioni perché probabilmente, l’artista che l’aveva scolpita, se l’era immaginata costernata e angosciata dalla morte di quel suo unico figlio. I suoi occhi erano ricurvi verso il basso così come gli angoli della sua bocca minuta; aveva le mani basse coi palmi rivolti verso l’alto e sotto il piede destro teneva costretta a terra la testa di un serpente che pareva completamente in balia di quella pressione. Il bene che soggiogava il male, l’eterna battaglia che pareva però non avere né fine né tanto meno vincitori e vinti. Fissavo quella piccola statua raffigurante la Beata Vergine mentre me ne stavo seduto su di una panchina piuttosto scomoda, in quello spazio ricavato tra i due corridoi del reparto ospedaliero. Era un angolo anonimo nel quale i degenti potevano prendere un po’ d’aria senza allontanarsi troppo dalla propria stanza e nel quale, magari, scambiare due parole con altri ricoverati o parenti in visita. Quella statuetta dal colore bianco e celeste era collocata su una colonnina con attorno diversi vasi contenenti piante dagli scialbi colori; se il suo scopo era quello di dare conforto alle anime afflitte dalle preoccupazioni beh, il risultato pareva essere l’opposto, ma forse era solo il mio pensiero e cioè
quello di un irrimediabile materialista. Ero seduto su quella panchina ormai da circa mezzora e il sedere, poggiato su quel legno dozzinale e tinto di colore azzurro, cominciava a dolermi. Non credo avessi avuto un ottimo aspetto giacché portavo indosso un pigiama dai colori improbabili con sopra disegnati una serie di rombi, tralasciando la barba che da diverso tempo non avevo rasato e che mi conferiva un’immagine piuttosto trasandata che da bello e dannato. Ero uscito dalla mia stanza con l’intenzione di compiere un paio di i per sgranchirmi le gambe e allo stesso tempo per schiarirmi le idee e svagare per qualche minuto il mio cervello che pareva fondersi sempre chiuso tra quelle mura, le quali apparivano ogni giorno sempre più strette. Non era stato facile spiegare all’infermiera cosa fosse accaduto e perché una bottiglia di vino era stata infranta contro la parete della mia camera, ma in qualche modo c’ero riuscito, però subito dopo mi ero sentito esausto, sfinito e soprattutto affranto. Mino era solo un elemento di tutti quelli purtroppo tanti, forse troppi - che da diverso tempo costellavano la mia esistenza. Improvvisamente mi ero ritrovato a riflettere su quello che ero, sulla mia vita e di quello che ne avevo fatto, in poche parole ero stato assalito da una crisi esistenziale e decisi di fuggirne per non compiere assurde congetture che mi avrebbero indotto, magari, ad alienarmi. Quindi ero uscito dalla stanza e avevo cominciato a gironzolare per l’ospedale, di reparto in reparto per poi ritrovarmi chissà perché -, lì e soprattutto su quella panchina di fronte alla statua della Madonna. Mi poggiai con i gomiti sulle gambe, mi raccolsi la testa tra le mani e cominciai a fissare dapprima le mie assurde pantofole, in seguito il pavimento e fu in quel momento che la incontrai, che ebbi modo di conoscere la persona che diede il via a una serie di episodi che mi sconvolsero e ai quali faccio ancora fatica a credere. Arrivò con o leggero che a stento riuscii a distinguere. Pareva volasse sfiorando appena il pavimento e, con quel suo incedere felpato, si sedette poco distante da me e in breve tempo cominciò a recitare, a bassa voce, il rosario. Sentendo quel bisbiglio, mi tirai su e fissai quella figura che improvvisamente era comparsa lì di fianco. Era una donna minuta, avrà avuto forse cinquant’anni, dagli occhi piccoli e intensamente fissi sull’icona della Vergine Maria mentre, con maestria, sgranava tra le dita un rosario tutto nero. Le labbra si muovevano impercettibilmente pronunciando parole a me incomprensibili poiché emesse con un filo di voce, quasi stesse recitando una silenziosa nenia. La fissai interessato e
lei non parve far caso a me né al mio incuriosito interesse nei suoi confronti; poco dopo, distolsi lo sguardo per non invadere quel momento riservato di una donna che cercava conforto - anche se lo ritenevo effimero -, nella preghiera rivolta a quel che ritenevo nient’altro che un feticcio. Restò lì a recitare le sue preghiere per un tempo imprecisato, ma talmente lungo che m’indusse ad abituarmi alla sua presenza tanto che quasi mi dimenticai di lei. «Lei è credente?» mi fece d’improvviso la donna con voce carica di ione. Ero di nuovo accovacciato su di me, con i gomiti sulle ginocchia e le mani a sorreggermi il capo rivolto verso il basso. Tenevo lo sguardo fisso cercando di memorizzare ogni piccola imperfezione del pavimento così da impegnare il tempo ma, nell’udire quelle parole, mi tirai su e penetrai i miei occhi nei suoi i quali erano piccoli e neri, simili a quelli di un topo. «Come scusi? Ce l’ha con me?» le domandai portandomi il dito indice al petto. La donna sospirò e voltò nuovamente lo sguardo a fissare la statuetta. «Io sono una fervente cattolica e quindi molto credente. Credo in Dio e soprattutto confido nell’amore che ha per tutti noi la Beata Vergine poiché lei, come me, è stata una mamma che ha sofferto molto per l’amore che provava nei confronti del proprio figlio. Eppure, nonostante quella sua sofferenza e il male che hanno fatto a suo figlio e di conseguenza a lei, ha sempre predicato l’amore per il prossimo e il perdono. Vede» tornò a rivolgersi a me con lo sguardo, «io prego tutti i giorni perché Iddio e la Madonna mi diano la forza e mi avvolgano nella loro beatitudine per sopportare le sofferenze e le afflizioni che il mio essere mamma comporta.» «Uhm… certo, credo che lei faccia bene» dissi non pienamente convinto. «E lei non è un credente, non prega?» «Beh, sto cercando di smettere» risposi sogghignando. La donna non replicò, ma mi guardò con uno sguardo intenso e carico di disapprovazione il quale mi mise a disagio. Aveva sì degli occhi piccoli, ma erano comunque profondi e quasi senza fine. «Lei è qui per un parente?» le domandai così, per porre termine a quel silenzio imbarazzante che si era andato a creare dopo la mia battuta infelice. Quei suoi occhi cambiarono e si velarono di trepidazione e angoscia. «Sono qui proprio per il tormento di cui le dicevo, per le sofferenze che l’essere mamma
comporta.» Da quella frase dedussi che fosse lì per qualcosa accaduta a un suo probabile figlio o per lo meno lo credetti. «Lei ha figli?» tornò a domandarmi. «No, non ne ho.» «Beh, allora non credo possa capirmi. Il mio Flavio è un ragazzo speciale ed è proprio quel suo essere che mi affatica e mi affligge.» Nell’udire quella frase qualcosa s’innescò in me, qualcosa che non capii subito, ma che mi fu più chiara quando in seguito ebbi modo di ripensarci. Flavio, speciale, furono parole che mi arrecarono un leggero capogiro, un senso di stordimento tanto che chiusi gli occhi nel tentativo di riavermi. Sembrava che qualcosa mi avesse portato indietro in un posto che ancora mi era poco chiaro, ma nel quale vi avevo trascorso del tempo. La donna, scorgendomi in quello stato di confusione, mi domandò se mi sentissi bene e se avessi bisogno di qualcosa, magari di un bicchiere d’acqua. «No, no, non si disturbi. È stato solo un piccolo giramento di testa, ma già mi sento meglio. Comunque grazie» le dissi tornando a osservarla e proprio allora mi accorsi di notare in lei qualcosa di familiare, già noto. Non sapevo dove, ma quella donna l’avevo già vista. «Ha una cera poco salutare, ma del resto non sarebbe in questo luogo se stesse bene» affermò la donna, «anche il mio povero Flavio si è sentito improvvisamente male e d’allora non si è ancora ripreso.» A parte i rituali gesti scaramantici che adottai immediatamente, ma senza farmi scorgere dalla donna, le porsi una domanda: «Flavio è suo figlio? È ricoverato qui?» «Sì, Flavio è il mio unico figlio ed è in quest’ospedale da ormai dieci giorni e pare non abbia voglia di destarsi.» Un’espressione di rammarico si palesò sul suo viso e la mia fronte si aggrottò e mi sentii stupido per quella mia domanda.
«Mi spiace, non credevo fosse in coma.» «Di fatti non lo è, almeno tecnicamente» ci tenne a precisare la donna. «Che cosa vorrebbe significare che non lo è tecnicamente?» «I medici mi hanno detto che Flavio non è in coma, bensì riversa in uno stato soporoso.» «Uhm… e cosa vorrebbe dire?» «Beh, da quello che ho potuto capire, durante il coma non si è in grado di rispondere a stimoli né dolorosi né tantomeno verbali, mentre in quello soporoso si è capaci di dare una risposta a tali stimoli, o per lo meno in maniera istintiva come potrebbe accadere in seguito a un dolore indotto, a uno schiaffo per esempio.» «Quindi suo figlio è come se stesse dormendo?» «All’incirca, poiché dal sonno ci si può svegliare se stimolati mentre, nello stato nel quale si trova Flavio, non c’è possibilità che ciò possa accadere. Quel che penso è che lui se ne stia lì a sognare, più che dormire.» Ebbi un sussulto al cuore nell’udire quella frase e fui pervaso da un brivido che mi attraversò per intero la schiena. Avevo dinanzi una donna straziata dal dolore per la consapevolezza di rischiare di non poter più riabbracciare il proprio figlio e per lei provai tristezza. Che misere erano le mie sofferenze e preoccupazioni al confronto. Era vero, non avevo figli, ma potevo certamente intuire cosa si potesse provare nell’avere una persona tanto cara in una situazione del genere. La fissai con comione e mi parve che lei ne godesse, pareva essere lieta di indurmi quello stato d’animo. I nostri occhi rimasero fissi gli uni negli altri per un periodo piuttosto lungo e in quello sguardo, in quel viso, riscontrai ancora una volta qualcuno a me familiare. Quella donna, era certo, io la conoscevo. «Le va di fare la conoscenza del mio Flavio?» mi domandò la donna con una voce affabile e carica di emozione. «Pensa che ciò le possa far piacere?» «E a lei, farebbe piacere?»
Rimasi un momento in silenzio per capire se effettivamente avevo voglia di vedere un ragazzo su di un letto riverso in uno stato catatonico e mi risposi che sì, avevo voglia di conoscerlo. «Sì, mi farebbe molto piacere poter conoscere suo figlio» le risposi deciso. «Allora venga, la conduco da lui. La stanza si trova proprio qui dietro» così dicendo la donna si alzò e mi fece strada. Camminammo in silenzio: lei col suo solito o leggero, io ciabattando e facendo attenzione a dove mettevo i piedi per non inciampare poiché la vista non mi era chiara. Arrivammo alla stanza e la donna si arrestò e voltandosi verso di me, mi offrì un lieve sorriso, appena percettibile. Di seguito aprì la porta e insieme ci ritrovammo di fronte al letto che ospitava il ragazzo. Rimasi pietrificato nello scorgere quel viso e davanti ai miei occhi si mossero mille pallini che s’ingrandivano e scoppiavano come bolle di sapone. Ebbi nuovamente un capogiro, ma questa volta fu più intenso tanto che dovetti sorreggermi alla parete per non rischiare di cadere. «È sicuro di sentirsi bene? Vuole che avverta un medico?» domandò preoccupata la donna accostandosi a me. «No, sul serio, stia tranquilla. È già tutto ato» la rassicurai e lei, se pur restia, mi diede retta. Osservai nuovamente il ragazzo il quale, sdraiato sul letto, se ne stava lì a occhi chiusi perso nel suo mondo. Aveva attorno diversi macchinari i quali emettevano dei piccoli suoni; macchinari che molto probabilmente monitoravano le sue funzioni vitali. Aveva il petto scoperto e di un colore latteo al quale erano applicati degli elettrodi che gli davano un aspetto da androide, una specie di uomo macchina. Però, quello che mi aveva destabilizzato non era quella scena di per sé già dolorosa, ma a lasciarmi sgomento fu proprio lui, Flavio. Anche se era la prima volta che lo vedevo, sapevo esattamente chi fosse; io lo avevo vissuto durante le mie ore di anestesia. Era stato, in qualche assurda maniera, protagonista dei miei pensieri o, forse ancora, mi ero comportato da spettatore dei sui pensieri nel periodo in cui, anestetizzato, mi sottoponevo all’intervento agli occhi. E lei, la donna accanto a me, la madre del ragazzo, anche lei era stata protagonista di quel medesimo sogno. Ma com’era possibile? Quelle persone per me erano completamente estranee fino a pochi attimi prima eppure erano state lì, dentro la mia mente. Sei una persona molto sensibile e capace di osservare le vere profondità degli
esseri umani. Sei quello che alcuni studiosi definirebbero uno shining. Quella frase mi risuonò forte in testa come un gong e mi tornò alla mente la figura di Tosca bambina che la pronunciava e alla quale io rispondevo con una fragorosa risata. Mia sorella in sogno mi aveva definito uno shining, qualcuno in grado di osservare le vere profondità degli esseri umani e chissà, forse mi era accaduto qualcosa di simile con quel ragazzo. Forse ero entrato in stretto contatto con lui e in qualche modo, a me sicuramente ignoto e razionalmente assurdo, le nostre menti si erano fuse l’una nell’altra e i suoi sogni, i suoi pensieri erano entrati in comunicazione con me. Forse fu l’espressione d’incredulità che mi disegnai sul viso che indusse la donna ad affermare, quasi con pudore, che Flavio era autistico. «Ha l’aspetto simile a tanti altri ragazzi della sua età, ma dentro non è propriamente uguale agli altri. Io lo definisco speciale perché vorrei che si sentisse così e non certamente inferiore a nessuno. Ha la sindrome di Asperger, sa di cosa si tratta?» Le risposi con un semplice gesto di diniego del capo e la donna tornò a parlare. «È una forma di autismo e Flavio ne è affetto sin dalla tenera età. Per me rimane sempre il ragazzo più in gamba e sensibile che io conosca, ma allo stesso tempo, questo disturbo, lo induce a una scarsa empatia e di conseguenza tende a isolarsi e a non relazionarsi con gli altri. La sua vita è fatta d’interessi sempre uguali e perseguiti con ostinazione come, per esempio, la sua ione per i fumetti, va matto per l’Uomo Ragno, e l’innato bisogno di legarsi a una persona guida. La sua vita è fatta di routine e i cambiamenti sono per lui sconvolgenti.» Ascoltai le parole della donna in religioso silenzio mentre entrambi posavamo pietosi i nostri occhi su quel giovane corpo, avvolto da quell’insano torpore. Era un ragazzo grassottello e dal viso simpatico; aveva gli occhi chiusi e di conseguenza non seppi mai il loro colore, ma non so il perché, però me li immaginai di un nocciola intenso. I suoi capelli erano mossi, ma ben pettinati; era evidente che la madre, durante il giorno, si prendesse cura di quel corpo inerme. «Cosa gli è accaduto, perché è in questo stato?» le domandai sempre tenendo lo sguardo fisso sul corpo del ragazzo. La donna non rispose e, compiendo alcuni i, si sedette sulla sedia posta di fianco al letto e, ando una mano tra i
capelli del ragazzo, diede loro una ravviata e poi gli donò una tenera carezza. La donna sospirò, ma i suoi occhi riposero imperterriti la loro attenzione solamente al ragazzo. «Non so come sia successo, ma qualche giorno fa è uscito da casa da solo. Flavio non si muove mai senza di me, lui è sempre attaccato a me e non compie un o senza la mia presenza o il mio benestare e pure, qualche giorno fa, è uscito da solo e si è andato a infilare in un bar sotto casa. Non ci era mai andato in quel locale, né tantomeno ho avuto mai modo di accompagnarcelo eppure ha deciso di recarsi in quel luogo. Molto spesso mi era capitato di are dinanzi a quel bar in sua compagnia ma non mi ero mai accorta che in lui stesse crescendo il desiderio di volervi entrare; un desiderio talmente forte da invogliarlo a vincere le sue più profonde paure. Il proprietario del bar in seguito mi ha riferito che Flavio è entrato di corsa nel locale e, senza render conto a nessuno, si è precipitato direttamente in bagno e da lì non è più uscito fintanto che il barista non si è insospettito ed è andato a controllare. Flavio era seduto sul water immobile, come se stesse dormendo. Proprio come adesso.» «E cosa è successo, perché si è trovato in questo stato?» «Questo non si sa» rispose affranta la donna, «i medici stanno facendo degli accertamenti, ma preferiscono ancora non esprimersi al riguardo. Ma è assolutamente evidente che quel cambiamento della sua normale vita, gli abbia creato un forte stress.» «Capisco» fu il mio laconico commento. Prontamente ripensai a quello che il Flavio del mio viaggio onirico aveva vissuto, di quelle assurde vicende e di come si fossero tutte concluse nel bagno di un bar, proprio come era accaduto nella realtà. Pensai alla puttana dalla gamba di legno, alla neonata di colore e alla sua ritrovata mamma con indosso un tutù, ma di più riflettei sui suoi stati d’animo, sulle sue emozioni e i sensi di rivalsa che aveva provato nei confronti di tutti coloro i quali lo definivano semplicemente un diverso. Una persona da compatire perché priva di senno o di qualità riscontrabili nel restante genere umano. Avevo ben impresso le emozioni di quel ragazzo che lo palesavano come una persona molto diversa da quella che poteva apparire. Magari era un ragazzo goffo e privo di empatia, probabilmente la sua sindrome gli comportava scarsa capacità comunicativa come affermava sua madre, ma da quello che avevo potuto vedere e vivere in quel fantastico viaggio in lui, Flavio era un ragazzo pensante e non privo di raziocinio con una
sensibilità difficilmente riscontrabile in altri. Sospirai rumorosamente e buttai giù le ansie accumulate in quel momento. Di seguito ricordai la forte ione che Flavio - almeno secondo ciò che avevo appreso durante quel viaggio assurdo - aveva nei confronti del padre morto. «Suo marito, il padre di Flavio, è morto?» domandai con volto contrito consapevole che quella mia domanda avrebbe lasciato di stucco la donna poiché non poteva immaginare che io sapessi. «Oh santissimo Iddio. No, mio marito è vivo e vegeto. Perché mi ha chiesto una cosa simile?» asserì la donna con sgomento e io mi sentii sprofondare per la vergogna. «Oddio, mi scusi. Non volevo essere insolente, ma vedendola da sola…» tentai di rimediare. «Ha pensato che fossi vedova. No, mio marito è vivo, solamente non è qui perché è impegnato col lavoro. È un professore universitario, uno stimato esperto di filosofia e mitologia greca, una materia che cerca di far apprendere anche a Flavio ma pare che a lui rimanga un po’ indigesta» affermò garbatamente la donna, «Flavio ama moltissimo il padre, ma il mio adorato Saverio è poco presente in casa poiché troppo spesso si trova all’estero per delle conferenze, proprio come in questi giorni che è a Edimburgo, ma a breve sarà qui accanto a noi.» «Mi scusi, sono stato davvero uno sciocco ad affermare ciò che ho detto» tentai nuovamente di scusarmi, mentre mi grattavo nervosamente il capo. Flavio, nel suo viaggio-pensiero, aveva rappresentato il padre come fosse morto, forse perché l’uomo era continuamente lontano dalla famiglia e di conseguenza da quel figlio che maggiormente avrebbe avuto bisogno di avere accanto la figura paterna. Lo aveva immaginato morto perché forse era così che lo avvertiva e io ero incappato in quella distorsione della realtà o, meglio ancora, in quella trasformazione della realtà che era di per sé distorta mentre Flavio aveva tentato di darle un giusto senso. Alla mente mi affiorò anche la figura di Miranda, la puttana dalla gamba di legno, ma non ebbi il coraggio di fare una domanda, se pur velata, alla donna. Decisi di tacere a tale riguardo e forse feci una scelta assennata. La stanza che ci ospitava era piccola e priva di luce. Dalle tapparelle abbassate
non filtrava il fioco chiarore del sole esterno, ma l’ingrato compito di rischiarare le tenebre di quel luogo già di per sé angusto, spettava a una piccola lampadina incastonata nella parte alta del letto rendendo maggiormente spettrale la figura del ragazzo sotto di essa. Solamente il rumore del bip-bip del macchinario collegato al petto di Flavio risuonava attorno ai nostri improvvisi silenzi, ma presto fu coperto dal o pesante dell’uomo barbuto e panciuto che fece il suo ingresso nella stanza. La donna, vedendolo, lo osservò con occhi trepidanti e speranzosi. Occhi di donna che ogni uomo vorrebbe sentirsi poggiare almeno una volta addosso, almeno per provare il piacere che fa. L’uomo nemmeno fece caso alla mia presenza e, con incedere deciso, si avvicinò alla donna e le poggiò delicatamente la mano destra sulla spalla e gliela strinse appena. La donna parve trarre un profondo respiro e poi voltò lo sguardo alla figura inerme sdraiata nel letto. L’uomo esordì con tono solenne. «Signora Donatella, ho appena avuto modo di confrontarmi con il medico che si sta occupando di Flavio al quale ho riferito tutto il suo percorso clinico. È un buon medico e sicuramente farà un ottimo lavoro, ma non si preoccupi perché sarò sempre qui presente per monitorare personalmente la situazione.» «Grazie dottor Giuliani, chi meglio di lei conosce il mio piccolo Flavio?» affermò la donna. Il dottor Giuliani era lo psicologo dal quale Flavio si recava per instaurare dei colloqui, lo ricordavo benissimo quel nome, ma era molto diverso da come lo aveva rappresentato nel suo viaggio onirico poiché in esso aveva le fattezze di un uomo giovanile e attraente che mal si accostavano a quell’uomo dalla barba grigia e folta e dall’aspetto corpulento. In fondo nei sogni o nell’immaginazione, ci creiamo una realtà che è più possibilmente simile alle nostre aspettative o alle nostre sensibilità ed era stato così anche per Flavio, il quale aveva vissuto una vita tutta sua, diversa da quella reale che forse lo annoiava maggiormente o nella quale trovava pochi lati positivi. Comunque la si fosse messa, di sicuro c’era da uscirne fuori di senno se solo mi fossi fermato ancora un momento a ragionare su quell’assurdità di eventi che si stavano susseguendo e sulla eventuale e incredibile capacità che avevo - ma ce l’avevo? - di potermi mettere in contatto con le altre persone solamente con il pensiero. Ero uno shining come mi aveva detto la mia piccola sorellina: altra assurdità che avrebbe reso chiunque talmente folle da essere ricoverato d’urgenza.
«Comunque stia tranquilla perché a Flavio tengo tantissimo, ormai sono anni che mi occupo di lui e come suo dottore so perfettamente quali sono le sue esigenze, le sue necessità e farò in modo che questa mia esperienza pregressa con lui, possa essere utile ad aiutare i medici che se ne prenderanno cura.» «Lei è uno psicologo, vero?» domandai improvvisamente, sempre fermo immobile al solito posto, piuttosto lontano dal siparietto che si era appena compiuto davanti ai miei occhi. L’uomo fu talmente sorpreso nell’udire la mia voce che quasi compì un balzo, prontamente tolse la sua mano dalla spalla della donna e, puntandomi addosso un paio di occhi carichi di sorpresa, balbettò qualche mah di stupore. La donna lo rassicurò. «È un signore che ho conosciuto qui e al quale ho voluto presentare il mio piccolo Flavio» poi mi guardò e, come se le fosse venuta improvvisamente solo allora una domanda in mente, mi chiese curiosa: «Sa che non ci siamo neanche presentati? Qual è il suo nome?» «Mario, mi chiamo Mario signora…?» anche se avevo da poco sentito pronunciare il suo nome dal dottore, volli comunque che fosse lei a nominarmelo. «Donatella» aggiunse prontamente, «e lui è il dottor Giuliani e non è uno psicologo, bensì un neuropsichiatra infantile e si occupa di Flavio da moltissimo tempo.» «Ah!» risposi sorpreso e fissai il dottore che, con un lieve gesto del capo parve presentarsi a me. Ancora una volta Flavio me l’aveva fatta, pensai tra me e me, ogni qualvolta mi lasciavo andare alle certezze di ciò che avevo vissuto durante quel viaggio, mi accorgevo quanto quel ragazzo si burlasse della vita che lo circondava. Nessuno per un po’ parlò e sentii quel silenzio fin troppo pesante e imbarazzante per i miei gusti, così decisi di andar via. «Signora Donatella mi scusi, ma ora devo proprio rientrare nella mia stanza perché a breve dovrò sottopormi alle medicazioni giornaliere, ma spero di rivederla presto.» «La ringrazio per la sua cortesia e, mi raccomando, preghi ogni tanto. Io lo farò
anche per lei.» «Ne sono lusingato. Salve dottore» mi rivolsi all’uomo lì presente e gli strinsi la mano. Poi volsi lo sguardo verso Flavio e gli regalai un sincero sorriso; mi resi conto di aver condiviso più cose con quello sconosciuto ragazzo che con tante altre persone a me vicine. Lo salutai con un cenno della mano con la speranza di poterlo rincontrare presto e magari non solamente in un viaggio onirico, in un sogno poiché io non credevo ai sogni. Di seguito chiusi la porta silenziosamente dietro le mie spalle e uscii dalle loro vite.
Pensavo alla parola shining ininterrottamente come quando si tenta di contare le pecore prima di addormentarsi; anche se in realtà non credo esista poi davvero qualcuno che in vita sua, per addormentarsi, abbia mai contato delle pecore immaginarie che gaie saltano una staccionata. Però il problema restava e nei giorni seguenti al mio incontro con Flavio e di conseguenza alla possibile esattezza delle affermazioni della piccola Tosca, mi ritrovai in uno stato di perenne confusione. Cercavo di trovare un senso logico a quel che mi era accaduto, a quella specie di viaggio ultra terreno e sensoriale che teoricamente avevo compiuto, ma per quanti sforzi fi non riuscivo mai a venirne a capo. Era davvero possibile che fossi in grado di vivere le vite degli altri? O meglio ancora i sogni degli altri? No, tutto ciò era davvero fuori da ogni logica, però allo stesso tempo non potevo far finta di nulla e credere che non fosse accaduto quello che avevo vissuto poiché ero assolutamente certo del fatto che Flavio e io eravamo diventati una sola mente, una incastonata nell’altra. ai i successivi giorni corroborando su quell’ipotesi e, quando arrivava il momento di addormentarmi, lo facevo non privo di terrore per quel che mi sarebbe potuto accadere una volta chiusi gli occhi. Ero pervaso dal terrore di potermi trovare nuovamente nel sogno di qualcun altro e di conseguenza costatare l’effettiva veridicità delle mie preoccupazioni. Però non feci sogni strani, né tanto meno immaginai episodi e vicissitudini di persone che non conoscevo. A dire il vero non saprei nemmeno affermare se in quelle notti feci alcun sogno, forse dormii senza spostare il mio cervello dal corpo rimanendo piantato ben saldo alla realtà. Sembrava strano ma quello spostamento metafisico da me compiuto durante l’intervento e quindi sotto l’anestesia, era stato l’ultimo dei sogni che avevo fatto, da quel momento in poi il mio cervello si era fermato, si era messo in pausa. Mi trovai diverse volte assorto nei miei
pensieri e mentre mi medicavano, durante le visite oculistiche, ma anche nei momenti più insoliti, pensavo ai sogni e al loro recondito significato. Molti, forse troppi, danno loro una grossa importanza quasi che in essi possano in qualche maniera riconoscersi mentre io non facevo altro che biasimare costoro. Eppure quella mia incredibile esperienza mi aveva in qualche modo cambiato o per lo meno mi aveva indotto a pormi delle domande sui sogni - cosa che prima non mi avrebbe nemmeno sfiorato la mente - e di conseguenza cominciai a mettere in discussione le certezze che avevo al riguardo. I sogni come aspirazione, come oggetto astratto sul quale confidare per un futuro o ancora, sogni come scappatoia per una realtà migliore, futuribile nella quale rifugiarsi ed evadere dalle storture di quella reale perché fin troppo infida e difficilmente modificabile. Erano discorsi che mal si accostavano al mio modo di ragionare, al mio cinismo e materialismo fosse altro per il modo che avevo di vivere, nel quale relegavo tali sensazioni e futili ragionamenti a mere considerazioni di una vita vissuta camminando col naso all’insù, a fissare le stelle troppo spesso così da non potersi rendere conto del palo della realtà contro il quale irrimediabilmente si rischia di scontrarsi. Oh no, i sogni rimanevano per me astratti e troppo vicini a uno stereotipo di uomo che non potevo essere; un uomo poetico e per l’appunto sognatore che perdeva tempo a grattarsi il capo e a fantasticare, invece di dedicarsi alla vita da vivere. I sogni erano per me una perdita di tempo, anche se però… però quell’esperienza assurda, incredibile e fantastica stava mettendo maledettamente in crisi la mia concretezza, le mie certezze, il mio modo di vivere e di pensare. I sogni e le torte al formaggio: e chi ci credeva? Non di certo io. Eppure ci pensavo perché quel viaggio lo avevo compiuto, quel ragazzo e sua madre li avevo vissuti, le viscerali emozioni di Flavio erano state reali, concrete e se mi fossi fermato a pensare a quei momenti, ero certo che avrei potute sentirle quelle sensazioni. Le avrei provate di nuovo come se fossero nate da me e dentro di me; la sensazione di vuoto allo stomaco mi avrebbe invaso e la paura, la gioia del primo rapporto sessuale di Flavio paradossalmente erano su di me, dentro di me. Le farfalle allo stomaco le avevo avvertite per davvero osservando la puttana zoppa col corpo nudo e poggiando la mano qui, proprio sul mio petto, avrei potuto sentire un battito diverso del cuore poiché non si sarebbe trattato del mio, ma di quello del ragazzo. Quel suo sogno era una fuga dalla vita reale, ma solo per dare sfogo al suo vero essere e proprio in quel sogno, Flavio, era riuscito a mostrarsi realmente per quel che era e ben diverso da come veniva recepito nella realtà. Maledizione, tutto ciò era davvero troppo e io stavo impazzendo all’idea di poter dare un senso reale, concreto a qualcosa che sicuramente non avrebbe mai avuto
tali connotazioni perché non lo sarebbe mai stato poiché i sogni sono fatti della stessa essenza delle anime: sono immateriali, vivono in noi e aspirano all’eterno. Eppure mi ritenevo nient’altro che un miserabile nel gonfiarmi il petto con l’intento di magnificare la mia figura e il mio intelletto cercando di dare un misero significato ai sogni e di conseguenza sminuire la loro immensità. Stavo vacillando irrimediabilmente e ciò mi destabilizzò ancor di più. Il cappellano, la statua della Vergine Maria, il rosario da sgranare, il quotidiano La Repubblica, il latte col caffè, i politici che si azzuffavano alla tv, le mie medicazioni giornaliere, la puzza del purè a cena, il mio pigiama celeste, le partite di calcio e chissà a quant’altra roba e banalità e finta certezza mi appigliai pur di non cadere vittima di quelle destabilizzazioni che mi avvolgevano. Purtroppo, però, fare i conti con se stessi non è certo un’impresa semplice anzi, è un percorso arduo e impervio come la scalata di un monte ghiacciato e sdrucciolevole, dove ogni o malfermo è un rischio in più per cadere rovinosamente a terra e scivolare inesorabilmente verso il basso per poi battere la testa e rendersi conto di quanto possa far male la concretezza, la scorza dura della realtà. Ormai era certo: i sogni erano parte di me… o io di loro?
Feci appena in tempo a masturbarmi e a venire nel fazzoletto che riposi nel comodino lì di fianco a me, che l’infermiera si presentò puntuale come sempre a medicare i miei occhi. Avevo necessità di sfogare le tensioni accumulate in quei giorni e l’unica soluzione che mi sentii in grado di adottare fu la masturbazione e quindi mi menai un po’ l’uccello. Era da qualche tempo che non lo facevo perché generalmente, quando non avevo nessuna frequentazione con l’altro sesso, me ne andavo al solito night e lì sapevano come farmi sbollentare e riequilibrare le valvole. Ma in quel momento particolare e trovandomi in quel letto d’ospedale, quello che feci mi parve l’unica valvola di sfogo. Era il gioco più vecchio del mondo e io sapevo giocarvi e lo feci. L’infermiera che mi medicò ormai era di mia conoscenza: si chiamava Carla ed era una donna di circa sessant’anni. Aveva gli occhi vispi e una voce simpatica, ma i suoi modi erano alquanto rudi, induriti da anni di servizio e di continue lotte con pazienti non troppo ligi a quell’appellativo ospedaliero. Sognava di andare presto in pensione e di trasferirsi in campagna a occuparsi del suo orto e dei nipoti, due maschietti e una femminuccia. Vedessi che amore di bambini che sono, mi diceva con occhi trasognanti mentre con movenze decise mi medicava gli occhi e io pregavo un dio affinché quella donna non mi fe del male.
Quel giorno, mentre era indaffarata con colliri e disinfettanti vari, mi comunicò che molto probabilmente in giornata o al massimo la mattina seguente, mi avrebbero dimesso. «Dici sul serio?» domandai con un tremito nella voce dovuto all’eccitazione poiché non vedevo l’ora di uscire da quel posto pregno di puzza di malattia. «Certamente, cosa credi che racconti frottole io?» rispose indispettita la donna. «erà il dottore per comunicartelo.» «Speriamo tanto mi dimettano oggi anche perché non so se la reggo un’altra nottata qui dentro.» «Piuttosto siamo noi a non sapere se riusciamo a sopportarti ancora un’altra notte.» «Ma va, che mi adorate così tanto che non saprete cosa fare in mia assenza» le risposi facendo delle smorfie con la bocca. «Ma finiscila» disse sorridendo Carla e andando via. Effettivamente, prima dell’ora di pranzo e quindi, prima che mi portassero qualche altra pietanza dal sapore e dalla consistenza di plastica, il solito dottore dal viso paffutello e roseo venne a comunicarmi che ero libero di lasciare l’ospedale. Mi diede tempo per organizzarmi e riordinare le mie cose poi, successivamente, sarei dovuto are nel suo piccolo ufficio nel quale avrei ricevuto la scheda di dimissione. Nel bagno mi sciacquai la faccia e, osservandomi nello specchio, vidi il mio viso che aveva assunto nuovamente aspetto sano e di un colorito roseo. I miei occhi nocciola erano arrossati e segnati ancora profondamente dall’intervento subito, ma soprattutto parevano privi di emozioni. Diedi una ravviata ai capelli i quali erano un po’ più lunghi del solito, mi massaggiai il viso e mi carezzai la fulgida barba che mi era cresciuta, ma stranamente sembrava essere tenuta in maniera accurata. Tolsi finalmente quel pigiama che ormai era divenuto come una seconda pelle e indossai un paio di pantaloni chiari, una camicia azzurrina e un maglioncino scuro. Ai piedi infilai le mie solite polacchine scamosciate e mi coprii col trench che indossavo nel giorno del mio ricovero. Infilai i miei pochi averi nella borsa nera che avevo con me e mi diressi dal dottore, il quale mi raccomandò di avere massima cura dei miei occhi e di prestare molta attenzione nell’eseguire tutte le indicazioni che mi aveva appuntato su un foglio, che mi consegnò infilandolo in una cartellina la
quale già ne conteneva altri. Ci saremmo rivisti la settimana successiva per compiere dei controlli accertandoci, quindi, se sarebbe stato necessario un nuovo intervento che scongiurai con gesti canonici i quali fecero sorridere un’infermiera lì presente. Nel frattempo avrei dovuto indossare degli occhiali dalle lenti scure per evitare traumi agli occhi. «Ne ha con sé un paio?» chiese il dottore. «Ovviamente sì. Nella vita mai uscire da casa senza avere con sé un paio di occhiali da sole e un ombrello. La vita è fin troppo imprevedibile» risposi deciso e il dottore mi osservò con stupore. Di seguito inforcai i miei Persol e, dopo aver stretto la mano al mio interlocutore e aver salutato l’infermiera, uscii dalla stanza. Percorsi il lungo corridoio e ammiccai salutando qualche viso conosciuto in quei giorni di forzata reclusione. Arrivai all’ascensore e attesi che si aprisse al mio piano. Vi entrai e scesi di un paio di piani in compagnia di un anziano signore che teneva stretta la mano di un bambino dai capelli rossi. Una volta al piano terra mi apprestai a uscire da quell’edificio orrendo e nauseabondo. Come misi il naso fuori, inalai profondamente l’aria fresca di quella mattinata inoltrata; il sole era timido o forse erano le lenti scure a darmi quella sensazione, ma non potei togliermele per fare un confronto. Presi più aria possibile nel vano tentativo di togliermi dalle narici quell’odore sgradevole di malattia che in tutti quei giorni si era impigliata nei peli del mio naso. Stetti un attimo immobile lì all’ingresso con lo scopo di adattarmi a quell’aria piena di ossigeno, mentre le persone mi avano di fianco senza minimamente accorgersi della mia presenza. Ripresi il mio cammino fino ai parcheggi e mi guardai attorno. Sotto i miei piedi c’era del brecciolino e camminandoci sopra avvertii il classico rumore che fa la ghiaia sottoposta a pressione; quel dolce scricchiolio mi diede una sensazione di strano benessere, anche se non seppi spiegarmi il perché, forse mi crogiolai nella sicurezza di quel rumore, la certezza dell’ovvietà. Avanzai ancora riparato dalle fronde di alcuni sempre verdi e proseguii in direzione opposta al flusso di gente che si accingeva a raggiungere l’entrata dell’ospedale. Poco più avanti si palesò dinanzi ai miei occhi un piccolo spiazzo il quale era costeggiato da un lato dall’ospedale, mentre sul versante opposto c’era un piccolo edificio sul quale campeggiava la scritta bar ristoro. Alla sola lettura di quell’insegna, il mio stomaco brontolò rumorosamente ricordandomi del pranzo che non avevo fatto e quindi decisi di dedicarmi finalmente a un pasto che avrebbe ridato gioia alle mie papille gustative o per lo meno lo sperai. Mi diressi a o spedito verso il bar ristoro il quale aveva le pareti esterne, che si componevano di soli due lati, per buona parte composte di enormi vetrate le quali permettevano ai
anti di osservare gli avventori che, assiepati ai vari tavolini, addentavano le diverse pietanze. Non ero troppo entusiasta di mangiare standomene in vetrina, ma mi strinsi tra le spalle ed entrai comunque spinto dai morsi della fame che si facevano sempre più insistenti. Aprii la piccola porta a vetri e un rumoroso chiacchiericcio mi avvolse quasi stordendomi, poiché ormai avvezzo al silenzio quasi religioso che nell’ultimo periodo mi aveva avvolto. Il locale era affollato, mi parve di vedere gente in ogni posto e in ogni angolo che affannosamente sgomitava per occupare un posto e per servirsi delle pietanze messe a disposizione nei vari banchi. Era un bar ristoro self-service, uno di quei luoghi in cui, muniti di vassoio e set di posate, si scorre tra i vari banconi alla ricerca del piatto già preparato e pronto per essere mangiato. Ancora una volta scrollai le spalle e, come tutti i presenti, presi un vassoio blu dalla pila, una bustina trasparente contenente una forchetta e un coltello, un bicchiere e mi appropinquai alla caccia del piatto preferito. Tralasciai il reparto antipasti e quello composto solamente di ciotole stracolme d’insalata mista e mi avvicinai al bancone dei primi dietro il quale, due uomini con i camici bianchi, servivano piatti fumanti di pasta. Diedi una rapida scorsa alle pietanze, cercando di farmi spazio tra i capannelli di gente lì dinanzi assiepata. Mezze maniche al ragù, pennette con funghi piselli e pancetta, pasticcio di pasta al forno con funghi e salsiccia e risotto alla milanese erano i piatti del giorno e io optai per la pasta al ragù che mi fu prontamente servita in grande abbondanza. Ringraziai e proseguii oltre. Al reparto secondi mi servii di uno stufato di manzo dall’aspetto piuttosto invitante e una porzione di spinaci. Prima di arrivare alla cassa, presi una bottiglietta di vino rosso e in seguito mi apprestai a pagare il conto. Porsi alla cassiera una banconota da venti euro e ricevetti, accompagnato da un gentile grazie e buon appetito, il resto dovutomi; di seguito cercai con lo sguardo un posto dove consumare finalmente il mio pasto. L’odore del cibo sotto il mio naso non faceva altro che aumentare il desiderio di addentare immediatamente quelle pietanze, ma pareva dovessi ancora attendere quel bramato momento poiché, a occhio, non sembrava esserci un posto libero, ma fui fortunato. Proprio a due i da me, un signore dal viso scarno e dagli occhi tristi, liberò il tavolino al quale era seduto. Attesi che portasse via il suo vassoio con ciò che restava del suo pranzo e mi apprestai a sedermi. Collocai la borsa sotto il tavolo, tolsi il trench e lo poggiai sulla spalliera della sedia e mi accomodai. Trassi un profondo respiro nel momento in cui poggiai le chiappe sulla sedia come se mi fossi sottoposto a un lavoro estenuante e assai faticoso. Tutto attorno a me era un vociare di gente, alcuni con tono alto, mentre altri li vidi, tra un boccone e l’altro, confabulare in modo fitto e con l’inflessione della voce dimessa. Molti degli avventori facevano parte del personale medico e paramedico dell’ospedale;
era evidente che quel luogo era utilizzato come mensa per coloro i quali lavoravano presso la struttura sanitaria e per i parenti in visita o in assistenza ai pazienti ricoverati. Poiché l’ospedale non aveva una mensa tutta sua e per offrire i pasti ai ricoverati, si appoggiava su una struttura esterna, una specie di catering, ma di scarsa qualità, mi rallegrai di non essere ancora una volta costretto a ingurgitare quel cibo incolore e insapore, quella specie di surrogato bensì quegli allettanti piatti fumanti sotto il mio naso. Scartai la bustina contenente le posate e, afferrando la forchetta, impilai un paio di maccheroni e con voracità li infilai in bocca. Non era cibo estremamente prelibato, ma allo stesso tempo a me parve mangiare finalmente qualcosa di davvero eccellente, anche se effettivamente così non era. Impilai ancora più velocemente il restante della pasta e in men che non si dica mi ritrovai col piatto completamente sgombro. Trassi un respiro di sollievo - avevo mangiato con tale voracità che avrei potuto far impallidire un maiale - e bevvi un sorso di vino. Un’espressione di raccapriccio mi si disegnò sul volto quando buttai giù quella bevanda dal sapore più simile all’aceto, ma dopo il terzo bicchiere cominciò a parermi più buono. ai così allo stufato e agli spinaci caratterizzati da un colore verde talmente limpido che parevano finti, di plastica ma ancora sopraffatto da una fame quasi convulsa, infilzai impietosamente lo spezzatino e lo addentai. «È libero? Le dispiace se mi accomodo qui con lei?» Alzai il volto dal piatto per osservare l’uomo che in piedi di fronte a me, con in mano il vassoio contenente quello che doveva essere il suo pranzo, mi guardava con occhi indagatori. Io, con l’espressione celata dietro le lenti scure, volsi lo sguardo attorno, come a controllare se davvero quell’uomo si stesse riferendo a me. «Mi rincresce disturbarla durante il pranzo, mi creda, ma non c’è un posto libero e se lei fosse così gentile da dividere il tavolo con me, le sarei infinitamente grato» aggiunse quell’uomo che imperterrito se ne stava lì in piedi ben accomodato nei suoi pantaloni di velluto e il suo cappotto di panno. «Guardi, il tempo di consumare il pasto e tolgo subito il disturbo… non so lei, ma io mal digerisco gli scocciatori.» Forse fu quella sua ultima affermazione a convincermi a essere caritatevole e non indurmi nel rispondere con un sonoro: «Aspetti il suo turno» e quindi, con un ghigno disegnatomi sul volto, il quale voleva apparire un sorriso di circostanza, feci spazio sul tavolino per il suo vassoio.
L’uomo accolse con delicato entusiasmo quella mia decisione. «La ringrazio davvero tanto. Non l’avrei disturbata se non fossi stato costretto, ma questo posto oggi è affollato come non mai e…» «Non stia a preoccuparsi» lo interruppi prontamente, già logorato da quella sua parlantina. «Mangi pure con comodo, c’è spazio per entrambi.» L’uomo mi osservò silente: parve aver colto l’antifona o è quello che intimamente sperai. In un primo momento mangiammo entrambi in silenzio, ognuno preso dai propri pensieri o forse no. Forse di pensieri ad albergare nelle nostre menti non ce n’erano, può darsi che l’unico stimolo celebrare a condizionarci in quel momento era il naturale e atavico bisogno di cibarci, tutto là. Poi però il telefonino dell’uomo cominciò a squillare interrottamente, come un ossesso. L’uomo rispose e cominciò a confabulare con tono di voce perentorio e deciso, tipico di chi è abituato a ordinare. Però non era burbero o arrogante, ma semplicemente deciso, fermo. Ripose il telefono e tornò a dedicarsi alla sua ciotola d’insalata mista, ma in breve tempo quel trillo tornò a farsi udire e la scena ebbe a ripetersi uguale a quella di prima, quasi si trattasse di un déjà vu e, subito dopo la telefonata, come aveva fatto in seguito alla precedente, ripose il telefono nella tasca dei pantaloni tornando a mangiare. Se non parlava al telefono, diventava silente e si dedicava unicamente al suo cibo. Cercai di sottecchi di scrutare il viso di quell’uomo perché - anche se non seppi darmi una spiegazione -, pareva avere un volto a me familiare. Un viso conosciuto e rimirato in altre situazioni, ma che in quel momento parevano sfuggire dai miei ricordi; un po’ come mi era capitato con Flavio, il ragazzo autistico. Di nuovo lo squillo del telefono a rompere un silenzio caratterizzato unicamente dal tintinnio del battere dei denti delle forchette contro la ceramica dei piatti. L’uomo rispose ancora una volta, ma fu meno diplomatico e concluse la telefonata - era chiaro che all’altro capo vi fosse una donna - impartendo l’ordine di non essere più disturbato. Di seguito spense completamente il telefono, lo ripose nella tasca del cappotto e, osservandomi fisso, si scusò con me. «Sono desolato, le avevo detto di mal sopportare gli scocciatori eppure io mi sto comportando come tale. Le chiedo scusa per questo mio atteggiamento maleducato, ma le garantisco che da questo momento in poi non sentirà alcun suono di telefono.»
«Uhm… non stia a preoccuparsi, immagino siano telefonate importanti alle quali non può esimersi dal rispondere.» «Effettivamente è vero. Quando si è gravati dagli oneri di un lavoro che non lascia tempo a nessun altro scampolo di vita, è nelle mie condizioni che ci si ritrova» affermò sommessamente l’uomo. «Ormai sono come un prigioniero la cui vita è solamente quella lavorativa, anche se non credo sia corretto definirla vita.» Lo osservai intensamente e sempre più fui assalito da quello strano sentore, il medesimo giramento di testa che mi aveva avvolto osservando Flavio disteso nel letto d’ospedale. Mi sorressi il capo con una mano, ma cercai di contenermi per non dare motivo di preoccupazioni al mio interlocutore. Bevvi un sorso di vino e quel sapore acidulo e forte mi scosse, mi svegliò da quella specie di torpore che mi aveva avvolto. Quell’uomo, dall’inflessione tipicamente italiana ma dai tratti asiatici - non seppi dirmi se fosse giapponese, cinese o roba simile poiché per me erano tutti uguali - e dal fisico asciutto e atletico, mi balzava alla mente come una figura nascosta da qualche parte, in un angolo offuscato dei miei ricordi; una figura vissuta, ma chissà perché dimenticata. «Lei lavora per l’ospedale, è un dirigente o qualcosa del genere?» domandai cercando di carpire qualcosa in più di quell’uomo per me così enigmatico. «Oh, no, niente affatto» si apprestò a spiegare. Poi si pulì gli angoli della bocca con il tovagliolo e proseguì: «Il mio lavoro è un po’ particolare. Per semplificare potrei dire che sono a capo di un’azienda che opera in tutto il mondo e che offre servizi particolari alle più importanti nazioni.» Lo guardai accigliato palesando la mia incomprensione. «Quindi si trova qui per motivi personali.» Mi accorsi della mia affermazione poco opportuna quando vidi l’uomo rabbuiarsi in viso e colorarsi gli occhi di una tinta grigia, fosca e mi apprestai a scusarmi: «Mi perdoni, sono stato inopportuno.» «Non si preoccupi» si affrettò a consolarmi, «nessuno mai è in questi luoghi a cuor leggero e neanche io lo sono. È qui ricoverata, presso l’ospedale, una persona a me molto cara.» «Capisco.» «E lei, se non sono indiscreto, come mai si trova in questo posto? Qualcuno al
quale fare visita?» «No, nessuno da venire a salutare perché, fino a poche ore fa, ero io da visitare.» D’improvviso si dilatò tra noi e tutto attorno, quasi a fagocitare il frastuono fino allora imperante, un silenzioso dispiacere per le nostre disavventure in quel momento palesate. Fossi stato un pittore, avrei rappresentato quella scena con tinte scure, con colori spenti e invernali. La colorata primavera poteva solamente essere un lontano miraggio. Tornammo a dedicarci alle nostre pietanze in religioso silenzio. «Ero cieco» esordii improvvisamente, «ero cieco come un pipistrello, fino a pochi giorni fa. Cieco non dalla nascita, sia chiaro, ma lo sono diventato a seguito di una forma grave di glaucoma e poi, grazie a un intervento, sono tornato a vedere. Ho ancora qualche difficoltà, ma posso ritenermi soddisfatto.» «Non doveva sentirsi in obbligo di spiegare» affermò l’uomo con fare compìto. «Oh no, non stia a preoccuparsi. L’ho detto perché mi andava, lo prenda come uno sfogo.» «Certo, capisco. A volte si sente l’esigenza di dare sfogo alle proprie preoccupazioni ed è sicuramente più semplice farlo con un estraneo, che con qualcuno di nostra conoscenza.» Tornammo di nuovo ognuno nel suo angolo. Ognuno a contare i secondi che ci avrebbero separati dal successivo round e lì fermi, riflettemmo sui pugni dati e presi e ancora su quelli che avremmo potuto infliggere. Anche se in realtà avevamo più bisogno di essere colpiti per scuoterci dal torpore causato dalla paura che solo un luogo pregno di malattia, come un ospedale, può offrire. «È per Nanà che mi trovo qui» fu il gancio destro che mi mollò improvvisamente, senza nemmeno aspettare il gong della ripresa. Mi ero sbagliato o quell’uomo aveva effettivamente pronunciato il nome Nanà? Un nome che fece andare in bambola il mio encefalo il quale parve come sballottato nella sua scatola cranica. Un nuovo déjà vu e ancora una volta ebbi un capogiro, questa volta più intenso rispetto al primo, ma fui comunque in grado di non mostrarlo al mio interlocutore. Mi ricomposi e dissi: «Mi scusi, ma credo di non aver afferrato bene. Lei è qui
per Nanà?» «Sì è quel che ho detto, ma è chiaro che lei non possa aver capito» rispose con fare dimesso. «Nanà è il nomignolo che uso per chiamare Natsumi, mia sorella, la quale è ricoverata in quest’ospedale da diversi giorni e nessuno sa fino a quando dovrà rimanerci poiché se ne sta’ lì che dorme.» «Dorme?» ripetei con sgomento. Anche quella donna di cui mi parlava si trovava nella medesima condizione di Flavio? «Beh, all’incirca. Tecnicamente è in stato soporoso ciò vuol dire che è come se dormisse; una specie di leggero coma» cercò di spiegarmi qualcosa che però già sapevo. «Sì, so di cosa si tratta. Ho conosciuto un ragazzo che versa nella stessa condizione» risposi ancor più allibito. Cominciai a sudare freddo e sentii i battiti del cuore accelerare repentinamente come se stessi correndo all’impazzata. Nanà o Natsumi, ora ricordavo, era la ragazza che avevo vissuto in un altro sogno; in un altro viaggio onirico e mirabolante. «Ha detto che si chiama Natsumi, vero?» domandai per avere maggiori certezze. «Sì, Natsumi e il suo nome vuol dire speranza e io vorrei averne tanta» e così dicendo abbassò mestamente il capo, poi lo risollevò e cercò di fissare i miei occhi oltre le lenti scure che li celavano e in quel momento il suo viso mi divenne familiare e riuscii ad associarlo a Haruki l’uomo che, in quel viaggio onirico che avevo compiuto, era alla perenne ricerca della sorella dispersa. «Mia sorella diversi anni fa è scomparsa tanto che noi tutti, io e i miei genitori, ci eravamo quasi arresi all’idea che non l’avremmo mai più rivista. Poi però, alcuni giorni fa, uscendo da casa me la sono ritrovata riversa atterra e nelle medesime condizioni nelle quali tuttora si trova. Non saprei dirle però come ci sia finita lì, dove sia stata e soprattutto cosa abbia fatto in tutti questi anni. So solamente che un attimo prima ero ancora pervaso dalla disperazione per la scomparsa di una sorella, mentre quello dopo ero lì a sorprendermi per la sua repentina e incredibile comparsa e successivamente di nuovo sono stato sopraffatto dall’angoscia di quel suo stato comatoso.» L’uomo pronunciò quelle parole con trasporto ed evidente patema d’animo. Potevo intuire quelle sue preoccupazioni, quelle sue paure perché io, non so come, le avevo già viste, sentite, annusate. Io, come con Flavio, avevo vagato
nei meandri di un mondo a me oscuro, ignoto e grazie a una comunicazione cerebrale, ero riuscito a valicare confini inimmaginabili. Però quel viaggio non lo avevo compiuto attraverso quell’uomo, bensì tramite sua sorella. Era chiaro che quelle due persone - Flavio e Natsumi - riversando in quello stato soporoso avevano aperto le loro menti e io, in qualche modo (forse davvero ero uno shining come affermava Tosca!) ero entrato in loro contatto e facendomi accompagnare per mano, avevo vagato nei loro mondi osservando le loro emozioni, le loro speranze, i loro sogni. Un fremito mi colse e mi pervase per intero il corpo. Solo in quel momento afferrai ciò che fino allora non era altro che un vago pensiero. Solo allora, osservando con occhi fuori da condizionamenti, mi accorsi di essermi impadronito di ciò che non era mio: di aver vissuto i sogni degli altri. «Si sente bene?» mi domandò l’uomo osservando il mio viso evidentemente trasfigurato dalle rivelazioni che via via si facevano sempre più chiare dentro di me. «Oh sì, mi sento bene. Non si preoccupi» tentai di rassicurarlo e con una mano cercai di togliermi, imbarazzato, idealmente una ciocca di capelli dalla fronte. Poi tornai a chiedergli: «Lei crede nei sogni?» L’uomo, se fu sorpreso da quella mia incomprensibile domanda, non lo diede a vedere. «Sì, nel modo più assoluto. Se non avessi creduto nei sogni, oggi non sarei quel che sono e, per quanto difficile possa essere attualmente la situazione, se avessi perso la fiducia nei sogni, probabilmente non avrei mai più ritrovato mia sorella.» «Ma non li reputa futili chimere, delle mere illusioni buone solo a riempire la testa di frottole dei perditempo?» «No caro amico, per niente affatto. Tutta la vita, tutto ciò che ci circonda, per chi ha fede, è la realizzazione di un sogno, di un progetto, di una speranza. Vede, per quanto possa un uomo essere pervaso e mosso dal cinismo più becero, non può non ammettere che, di fatto, sono sempre e comunque i sogni a dare forma alla realtà.» Mi presi il mio tempo. Tutto il tempo necessario per assimilare, almeno un po’, quelle emozioni e quelle mirabolanti vicissitudini che in breve tempo mi ero ritrovato a vivere. Pensai a mia sorella e a quello che mi era capitato, al modo
vuoto col quale avevo deciso, fino allora, di vivere i miei giorni. Osservai la bottiglia di vino e riflettei sui malanni che essa rappresentava. L’afferrai e la strinsi forte nella mano quasi a volerla far esplodere nel mio pugno. Poi versai un po’ del suo contenuto nel bicchiere e lo bevvi avidamente: va bene i sogni, che asse anche il fatto che fossi una specie di santone, ma un giorno era troppo poco per redimere tutti i miei peccati. Di seguito il cigolio delle ruote di un carrello mi distolse dai miei pensieri e mi voltai verso quel rumore. Una cameriera era intenta nello spingere un carrellino con diversi ripiani sui quali erano riposte delle fette di torta. Come mi fu accanto, le afferrai un braccio facendole arrestare il o. «Mi scusi signorina, crede sia possibile avere uno di quei dolci senza che i nuovamente per la cassa?» «Certo signore, può pagare direttamente a me.» «Oh, perfetto. Allora vorrei quella lì» e le indicai il pezzo di torta che tra i tanti preferivo. La ragazza me lo porse e poi con lo sguardo osservò l’uomo di fronte a me come a voler sapere se anche lui ne gradiva uno, ma egli ringraziò con un gesto di diniego. Pagai e le dissi di tenere pure il resto. Di seguito osservai il piattino con il dolce posto proprio sotto il mio viso. Lo guardai come se lo stessi vedendo per la prima volta in vita mia e forse era effettivamente così. Rimasi fermo immobile per un tempo indecifrato tanto da incuriosire il mio commensale. «Che fa, non lo mangia più?» mi domandò con la voce incrinata da un flebile sorriso. «Certo, adesso lo mangio. Solamente credevo che per davvero non mi sarebbe mai capitato di farlo» risposi sorridendo, con la certezza che quell’uomo non avrebbe mai potuto capire il senso di quella mia frase criptica. La piccola forchetta affondò leggera nell’impasto senza trovare alcuna resistenza. Offrii maggiore pressione quando incontrai il biscotto il quale si ruppe in un lieve rumore sordo. Inforcai il piccolo pezzetto di torta e lo portai alle labbra. Tutto terminò quando il sapore del dolce al formaggio invase per intero la mia bocca, offrendole un sapore nuovo, inaspettato.
Ringraziamenti
Dai miei genitori ho avuto la fortuna di ricevere una bella educazione. Difficilmente mi hanno detto, puntandomi contro il dito indice, cosa dovessi o non dovessi fare, né tanto meno come ci si sarebbe dovuto comportare al cospetto delle altre persone giacché, il loro insegnamento, me lo hanno fornito semplicemente vivendo e io, da brava piccola spugna, ho assorbito il loro modo di fare. Tra le tante cose buone che ho appreso una, forse per me tra le più importanti, è stata il ringraziare. Trovo immensamente piacevole rivolgere la parola grazie a chi, ovviamente, ne è meritevole ed è altresì delizioso e gratificante sentirselo rivolgere. Alla fine di queste pagine mi trovo così nella gradevole situazione di ringraziare in primis te lettore che hai avuto voglia, interesse e spero piacere nel leggere questo romanzo il quale mi auguro sia riuscito in qualche maniera, se pur minima, a sfiorare le corde delle tue emozioni e mi auspico che esso, come un seme prolifico, possa sedimentare dentro te per poi lasciare gradualmente il suo frutto. Ringrazio la mia fantasia che ha dato modo alle mie dita di battere decise e bramose sui tasti di questo vecchio computer portatile. Ringrazio la mia sconfinata fiducia e ione per i sogni i quali rappresentano per me sempre un nuovo punto d’arrivo. Finché ci sono loro, ci sarà sempre un obiettivo da raggiungere e una voglia nuova di vivere il giorno a venire. Ringrazio le sconfitte poiché sono un potente motore di rivalsa. Ringrazio i miei cari; Doc per le chiacchierate illuminanti fatte scalando le montagne, in sella a una bicicletta, davanti a bottiglie di vino sempre troppo vuote; Chiara per la sua presenza, il suo occhio attento e vispo, per il suo encomiabile lavoro di revisione; i libri, i film, i fumetti, la musica e tutti i personaggi che da quei magazzini sono affluiti nella mia mente e da essa li ho riversati celandoli in questo romanzo.
Buona vita a tutti. Mimmo
1) La gente è strana quando sei uno straniero/I volti ti guardano minacciosi quando sei solo/Le donne sembrano malvagie quando sei indesiderato/Le strade sono accidentate quando sei giù/Quando sei un estraneo, i volti escono dalla pioggia/Quando sei un estraneo, nessuno ricorda il tuo nome/Quando sei un estraneo, quando sei un estraneo.
2) Sono spiacente/Se cerca Fanny è di sopra. Questa sera è in grande forma.
3) Tutto ciò che nessuno vede/Tu vedi quello che ho dentro/Ogni nervo che fa male/Tu guarisci nella mia profondità/Non serve che parli, lo sento.
4) Little bastard (piccola bastarda) era il nome con il quale James Dean aveva ribattezzato la Porsche Spider 550 con la quale il 30 settembre del 1955 ebbe un incidente mortale.
5) Anna Maria Pierangeli, conosciuta semplicemente come Pier Angeli, è stata un’attrice degli anni cinquanta e sessanta, ma soprattutto il grande amore infranto e per alcuni versi non corrisposto del giovane Dean.
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