I quaderni nascosti del figlio del repubblichino
Rolando Guerriero
Battitore libero
Titolo originale: “I quaderni nascosti del figlio del repubblichino” © 2014 Giovane Holden Edizioni Sas - Viareggio (Lu) I edizione cartacea febbraio 2014 ISBN edizione cartacea: 978-88-6396-457-8 I edizione e-book maggio 2014 ISBN edizione e-book: 978-88-6396-494-3 www.giovaneholden.it
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I quaderni nascosti del figlio del repubblichino
Indice dei contenuti
Prologo I II III IV V VI VII L'Autore
Alla memoria di mio cugino Luciano Di Gaddo morto, nemmeno ventenne, il 2 aprile 1945 nel campo di concentramento di Kahla in Germania.
Prologo
Prima lettura
4 giugno 1943 Accidenti a’ nomi e a chi l’ha inventati! Per me è sempre stata una bella fregatura avecci il nome come quell’altro, quello famoso! “Benito, non fai per niente onore al tuo nome. Non ti impegni, non mostri forza di volontà!” Era sempre così, per ogni nonnulla andavano a cercare che mi chiamavo come il Duce e che lui alla mia età era più bravo, più disciplinato e così via! Andate tutti a prendervelo in quel posto! Maestro, Preside, direttore e tutto il resto! Poi, come se non bastasse, tiravano fuori la storia che mio padre era una camicia nera della prima ora, un volontario di Spagna e tutti si aspettavano da me grandi cose. Ero così stufo che una volta mi sono portato a scuola il rivolvere di mi’ padre. Volevo farlo vedere al maestro e dirgli: “Con quest’affare sono bono a fare le grandezzate anch’io!”, ma gli altri bimbetti lo videro e cominciarono a starnazzare come polli. Il maestro volle sapere di che si trattava, corsero i bidelli, mi sequestrarono il rivolvere e mi portarono dritto dritto dal Preside. Quel citrullo mandò a chiamare mi’ madre… Mi fecero un liscia e bussa che non finiva mai e mi sospesero per un mese. Questo è nulla, rispetto a quello che mi fece mi’ padre. Prima mi cardò ben bene con la cinghia dei pantaloni, poi mi prese per un orecchio e mi accompagnò a
scuola e voleva di legge che mi riammettessero, perché, diceva lui, un mese in istrada e io assaltavo come minimo qualche banca. Ma il Preside non volle senti’ ragioni e disse che proprio perché ero figlio di cotanto padre dovevo dare l’esempio agli altri e non mi potevano fare sconti. Fu così che mi ritrovai a giro e, come aveva predetto quel citrullo di mi’ pa’, m’andai a infilà ne’ rafani. M’aggregai a una ghenga di ragazzi più grandi di me e che si divertivano a pescà con le bombe a mano. E bischero, bischero me ne feci esplode una in mano. Deve essere questo il motivo per cui le chiamano bombe a mano, perché trovano sempre uno che, per fà vedé’ che è più ganzo degli altri, ci rimette almeno qualche dito. Io, giusto perché ero svelto, ci rimisi solo un paio di falangette e, per un pelo, non perdetti anche un occhio. Però mi lasciò una bella cicatrice sulla fronte, che mi accompagnerà per tutta la vita. Così mentre prima ero segnato dal nome, dopo son diventato anche segnato nel corpo: qualche compagno, per farmi dispetto, mi chiama il monchino. A ogni modo persi l’anno, anche perché mi’ padre, incazzato com’era, volle andà dal Preside a cantanni la messa. Prese il Preside per il gravattino e ni disse: “Vede cosa succede a lascià i bimbetti per le strade!” Poi mi levò dalla scuola pubblica e disse che mi avrebbe mandato a una privata, dove i bimbetti vivaci erano tenuti più a freno. Però tra ninnole e nannole quell’anno lì lo perdetti. La gente diceva che avevano voluto dimostrà che le scenate di mi’ padre non valevano una cea, anche se era fascia littorio e che mi avevano espulso da tutte le scuole del Regno, ma non era vero un bel nulla. Eppure c’era stato un tempo in cui tutti mi facevano le moine e dicevano: “Ma che bel lupacchiotto ci ha Ricciotto! Benitino qua, Benitino là.” Forse dipendeva dal fatto che ero più piccolo e ancora non andavo a scuola e mi’ padre, tornato dalla guerra di Spagna, tutto bardato col cinturone e il pugnale, mi portava alle sfilate e alle riunioni dei sabati fascisti. Io stavo in braccio a lui o a mia madre e intorno tutti battevano i tacchi e facevano il saluto romano. Il ricordo più antico che ci ho è quello del trasporto di Costanzo Ciano. La mi’ mamma mi aveva preso in braccio e mi indicava tutti quelli del corteo che via via ci avano di faccia e io stavo sempre a chiede: “Quando viene babbo? Quando viene babbo?”
ò il Duce, il Re con tutti l’occhi rossi, Balbo, quello dei quadrimotori, le corone di Hitler, Galeazzo… Mi’ padre ò insieme a tanti altri vestiti come lui e non mi fu possibile riconoscerlo. Oppure ascoltavamo il discorso di quell’altro che si chiamava come me, Benito, ma era più famoso e acclamato da tutti. Ricordo la grande piazza piena di gente, con camice e uniformi nere o grigio verdi, bandiere, gagliardetti, stendardi ricamati e tutte le facce rivolte verso il balcone da cui si affacciavano i pezzi grossi, tutti in montura e stivaloni. Poi si udiva un ordine: “Saluto al Duce!”, e un urlo si levava dalla piazza, come un’ondata inferocita e subito dopo, mentre il silenzio ricadeva improvviso, un vocione prendeva a gridare: “Soldati di terra, di mare, di cielo…” Io cercavo di vedere tra i pochi spiragli che mi lasciavano le persone, ma sul balcone tutti stavano sull’attenti e con le bocche chiuse. Allora tiravo la manica della giacca a mi’ padre: “Dov’è lui? Dov’è il Duce!” “E dove vuoi che sia? è a Roma, a palazzo Venezia! Qui c’è l’altoparlante!” Quella volta lì me la ricordo proprio bene, perché oltre che a un gran gridare, ci fu poi anche una bella festa, con un corteo con le bandiere e tutti che cantavano e bevevano e gridavano come matti. “La guerra! La guerra! Vogliamo riprende Nizza, Savoia e la Corsica!” Erano tutti contenti, specialmente i giovani e i ragazzi, ma specialmente quelli con le divise del Partito. I marinai erano invece più seri, stavano in disparte e guardavano la gente che si agitava, come se la cosa non li riguardasse. Rifiutarono anche l’offerta di un fiasco di vino. “Quando si è in divisa, bisogna avere un certo contegno!” mi spiegò il babbo che però si era attaccato a un fiasco insieme ad alcuni suoi camerati. Poi fecero un corteo con tutte le bandiere e fecero un bordello o andarono a finire nella via del bordello, questo non lo so di preciso, perché ero piccolo e mi’ padre mi dette per mano alla mi’ sorella Romana e ci rispedì a casa dritti come fusi. Io volevo andare dietro alla confusione, ma mi’ padre, aggrottò le ciglia e alzò la bazza, così come faceva Lui, il Duce, e partimmo di corsa nella direzione che lui ci indicava. Mi’ pa’ si chiama Ricciotto, ma a casa nostra comandava come il Duce. Ma
tornando al fatto di Benito, la gente cominciò a sbucicchià un po’, quando, invece d’andà tutti a prende la Corsica, che in fondo ’un è neppure tanto lontana e certe giornate si vede spuntà dietro alla Capraia, i corsicani ci mandarono i bombardieri a fa’ casamicciola nel porto di Livorno e sulle case più vicine. La gente un po’ se la prendeva con i corsicani o li inghilesi, un po’ con Mussolini, che aveva dichiarato la guerra, ma ‘un s’era preoccupato di difende Livorno. Essì che il campo d’aviazione era poco lontano, a Pisa! Bastava chiamalli e quelli venivano e spazzavano via tutti gli aerei nemichi.
Anch’io quando lessi per la prima volta queste righe, scritte in corsivo con una calligrafia chiara e precisa, ma ancora un po’ infantile, rimasi piuttosto scosso e non mi arrestai fino alla fine. Nonostante i numerosi errori grammaticali e le parole gergali l’autore aveva rappresentato in modo vivace i suoi sentimenti nel mezzo di un mondo scosso violentemente dalla guerra. Tornai a guardare la data scritta in cima alla pagina, collocando l’autore di quello sfogo nel suo tempo storico, vale a dire quasi settant’anni fa. Avevo aperto a caso uno dei quaderni scolastici che avevo trovato in una specie di doppio fondo di una vecchia scrivania acquistata a un mercatino dell’antiquariato, tenutosi la settimana precedente in un piazza di Lucca. Il cassetto segreto conteneva cinque o sei grossi quaderni di scuola, le cui pagine erano quasi tutte riempite di scrittura. Chi era quel Benito, che trovava ingombrante il nome assegnatoli dai genitori? Facendo attenzione poteva anche essere attribuito un ordine cronologico ai quaderni. Scorrendo qua e là mi accorsi che il periodo che interessava la scrittura andava grosso modo dall’estate del 1943 al settembre del 1944. Un quadernino più smilzo, che aveva per titolo: “Brutte copie dei temi di quarta” e cominciava con l’ottobre 1942, mi fornì maggiori informazioni sull’autore di quelle righe. Quei temi svelavano il piccolo mistero: i quaderni erano stati scritti da un bambino livornese di una decina di anni, sfollato poi in quel periodo bellico nelle campagne pisane, come tanti altri suoi concittadini.
I
Quaderno dei temi dell’alunno Benito Ucciadi
Ottobre 1942 - XX E.F.
Tema: Mio padre Svolgimento: Mio padre si chiama Ricciotto, non perché sia riccio, ma perché c’era un garibaldino che faceva di cognome Ricciotti. Anche mio padre è un po’ garibaldino. È entrato da giovanissimo nei fasci e ha fatto a botte con tutti i rossi, anche con suo fratello maggiore. Lui dice che è scappato di casa varie volte, anche per andare alla Marcia su Roma nel 1921, quando aveva quindici anni, ma probabilmente doveva avere un padre meno duro, perché quando io faccio qualcosa di testa mia, mi tonfa ben bene. È un gran lavoratore. Oltre a lavorare sul porto infatti, di tanto in tanto va a fare il ciacchista a Tirrenia, dove fanno i film. Cosa faccia il ciacchista non lo so. L’ho chiesto a mio padre, ma ho capito poco la spiegazione. Dice che sta dentro uno studio e che se non dà il segnale lui nessuno comincia a lavorare, né le attrici, né gli attori, nessuno. Mi ha promesso di portarmi un qualche giorno a Tirrenia, dove c’è la Città del Cinema e dove ci ha molti amici e amiche. Conosce praticamente tutti gli artisti e gli autori delle pellicole. Però è sempre occupato e può fare una scappata a casa solo di rado. Questa cosa non piace tanto a mia madre, che dice che è stufa che lui venga a casa tra una guerra e l’altra ed è di môrto, ma di môrto gelosa.
Mio padre è alto, bello, moro, con i capelli neri, corti e ricci. È forte e muscoloso. Ha fatto anche il pugilatore, ma poi ha smesso perché l’allenatore voleva che si fe rompere il naso apposta, per non preoccuparsi troppo della bellezza. Adesso è Centurione della Milizia, ma è stato a combattere in Abissinia contro i mori e in Spagna contro i rossi. Per sposare mia madre ha leticato anche con il padre di lei, nonno Paride. Mio padre lo chiama “brutto contadinaccio sovversivo” e non vuole sentirlo neppure nominare. Ha conosciuto mia madre quando è stato ricoverato in ospedale per uno scontro (forse un incidente o un combattimento con i sovversivi). Mia madre era molto giovane quando nacque Romana, la mia sorella maggiore. Quando torna a casa, mio padre, porta sempre dei regali per tutti e vuole guardare la lezione, sia a me che a mia sorella. Vuole che conservi le brutte dei temi perché gli fa piacere sapere come la penso. Dice che non bisogna fidarsi dei “rossi” e che rosso non è buono neppure il capretto. Quando ero più piccolo mi veniva da piangere, perché pensavo che dicesse a me che ci ho i capelli rossi, ma poi ho capito che è uno scherzo, perché subito dopo mi mette una mano tra i capelli e me li scarruffa!
Novembre 1942 – XX E.F.
Tema: La tua città Svolgimento: La mia città si chiama Livorno ed è la città più bella del mondo. C’è il porto, le navi, l’Accademia Navale e i marinai. Ma soprattutto c’è il mare e così quando non c’è la scuola si pole andare a fare il bagno e divertissi al mare. Al mare ci si pole andare sempre, tanto non chiude: i pescatori ci vanno a pescà, le signorine a fumare sugli scogli senza che nessuno le guardi, chi pole tira fori la barca e va a pescà al largo o a farsi un giro.
Ma enno pochi quelli che ci hanno la barca e allora gli altri stanno sui moli o sulla Terrazza a guardà le barchette che vanno a vela di qua e di là, sperando che quando finisce la guerra la barca potranno comprassela anche loro. Livorno è una delle poche città italiane che ha sofferto qualche danno per la guerra. In una notte dell’anno scorso, i si hanno osato venire a sganciare una bomba al buio sopra una delle case di Livorno, per vendicarsi che l’Italia gli aveva dichiarato la guerra. Ma a noi livornesi non ci fanno paura, perché ci abbiamo la Madonna di Montinero che ci protegge e così le bombe vanno tutte a finì in mare. Anche se ci ho il dubbio che la Madonna non conosce tutte le diavolerie delle guerre moderne e non fa troppa attenzione ai sottomarini inghilesi, che senza dì né ai, né bai, navigando sott’acqua, sono venuti ad affondare i traghetti dell’Elba. Quando avremo vinto la guerra, con l’aiuto della Germania, ritireremo su i palazzi, più belli di prima e l’inglesi li incateneremo tutti come i quattro mori, così imparano a fa’ i prepotenti!
Dicembre 1942 – XX E.F.
Compito per le vacanze: I nonni raccontano… Svolgimento: Non ho molto da scrive su quello che raccontano i nonni, in quanto quelli materni stanno molto lontano, in montagna, oltre Lucca e ho avuto finora poche occasioni di vedelli. Mi sembra di aver capito che sono contadini e non hanno grandi simpatie per mio padre e lui, per ripicca, non ci porta a trovalli. Dei mi’ nonni paterni è rimasta la mia nonna, Libera. Mio nonno era stato un garibaldino, aveva combattuto in Francia, durante l’altra guerra ed era stato ferito piuttosto gravemente nelle Argonne. Perciò è morto prima che nascessi. Nonna Libera vive con noi e, quando non sapevo leggere, mi leggeva il Corrierino dei Piccoli e libri come Pinocchio e le Fiabe. Fin da piccolino mi
accompagnava ai giardinetti, al Parterre, e mi raccontava un sacco di cose, anche se io non le capivo del tutto. Però, a furia di ripetere quelle storie, alla fine mi sono entrate in testa e ce l’ho come inchiavardate in fondo al cervello. Non so se sono ricordi della mi’ nonna, perché lei diceva che erano storie vere e che mi avrebbe fatto comodo conoscerle. Però nonna Libera è piuttosto strana, a cominciare dal nome che le aveva messo suo padre che era garibaldino anche lui, ma anche massone e libero pensatore. Mi pare che una volta abbia detto che non era stata battezzata e che quel nome lo aveva fatto scrivere suo padre in Comune. A quel tempo usava così e difatti le amiche di mia nonna, quelle con cui giocava a tombola di soldi, si chiamavano quasi tutte in modo strano: Itala, Unità, Redenta, Anita, Riscossa. Nonna Libera mi ha raccontato che era stata una bellissima ragazza, alta, coi capelli lunghi e rossi, dalla pelle di pesca e che tutti i marinai si voltavano a guardarla quando ava per via Grande. Io non ci ho mai creduto un gran che, perché quando l’ho conosciuta io era piccola, con una gobbetta sulla schiena, il naso lungo, un po’ all’ingiù, sempre con una gocciola pendente, il viso rugoso e grinzoso, giallo, pieno di grossi porri pelosi. Dice che sono il suo nipote preferito, forse perché anch’io sono rosso di capelli, ma io cerco di starle lontano per via di quella gocciolina al naso e di quella specie di ceci pelosi sul naso e sul mento. Se fosse stata un uomo sicuramente sarebbe stata un garibaldino anche lei, ma essendo una donna si contentava di battibeccare con i preti e con i signori. Si era infatti sposata in Comune con un garibaldino, quello che era andato a combattere i tedeschi nei boschi della Francia e ci aveva rimesso un polmone, e aveva fatto seppellire il padre e il marito al Cimitero dei Lupi, senza l’accompagnamento del prete. Diceva che erano stati due funerali bellissimi con tanti garibaldini in camicia rossa, picchetti di marinai armati, carrozze di lusso, bandiere e tante corone. Poi però nessuno le aveva mai dato niente e lei aveva tirato su quattro o cinque figlioli, grazie a un banchetto di frutti di mare che le avevano dato il permesso di mettere su in piazza dei Mille. Poi la femmina era morta di spagnola, subito dopo l’altra guerra, il figlio maggiore, Giusto, che lavora sul porto, viene malvolentieri a casa nostra, forse perché non va d’accordo con mio padre. C’è un’altra femmina che ha sposato un fattore del piano di Pisa, ma la vede di rado. Nonna Libera ha due o tre vizi, che, dice, l’aiutano a tirare avanti. Il primo è per
me il più fastidioso: ha una scatolina d’argento con il coperchio che si apre a scatto. Di tanto in tanto la apre, vi prende con due dita una presina di tabacco nero, come la pece, e se lo infila ne’ bui del naso, tanto che di lì a poco starnutisce rumorosamente, come se sparasse una cannonata. Poi se lo soffia con un fazzoletto a quadroni rossi e blu, ripetendo ogni volta: “Si scopron le tomba, si levano i morti…”, come se cantasse l’inno di Garibaldi. Il secondo vizio è quello del gioco del lotto. Ogni giovedì mi porta al botteghino del lotto, quello piccolo, stretto, in quel vicolo a metà della strada, dove fuori ci sono appesi tutti i foglietti dei numeri usciti alle diverse ruote. Si ferma un’ora a discutere con le sue amiche su quali numeri deve tirar fuori dai sogni che ha fatto nella settimana e poi a a giocare. La donnetta della ricevitoria, una grassona, tutta pitturata e incipriata da far paura, con un faccione grosso come quello di un mascherone, le dice: “Libera, se io ci avessi un sogno come il vostro, con dei numeri così belli, dati da una persona seria come vostro padre, io non mi limiterei a giocare un ambo solo sulla ruota di Firenze!” E dai a pomparla per farla giocare anche su altre ruote, terni, ambi ecc. È una filona, quella brutta vacca! Anche lei ci ha il vizio della presa di tabacco e, per convincere la nonna ad aumentare la posta, le offre un cicchetto dalla sua tabacchiera, che è più grossa di quella della nonna, ma anche più sporca e unta. Io me ne sto lì su una seggiolina, un po’ ascolto i discorsi di quelle donnette sul significato dei sogni, sulle disgrazie della vita, un po’ leggo delle riviste che la grassona tiene di là dal banco. Il sabato la grassona mette alla vetrina un foglio con su scritti i numeri estratti alle diverse ruote e le vecchine si fermano a guardare e commentare. Quasi sempre i numeri che i suoi morti le hanno dato non sono usciti. Qualche volta quelli usciti sono quelli che aveva giocato il sabato precedente. Questo fa andà fori dai gangheri la mi’ nonna. Dice che anche laggiù, dove si trovano i sù morti, c’è qualcuno che li frega, così come erano stati fregati in terra dai loro falsi amici. Il terzo vizio è quello della Tombola. Le vecchiette si riuniscono ora a casa di una o a casa dell’altra e tirano fuori i soldi per avere una o due cartelle. Quella più ricca tiene il cartellone e tira fuori da un sacchetto di tela azzurra, una alla volta, le pedine con i numeri. Quello che mi fa ride è il fatto che qualche volta invece del numero dicono delle cose buffe, che chiamano smorfia. Per esempio, invece di 90 dicono la paura oppure le gambe delle donne. E così tutte quelle vecchiette ridono a crepapelle.
Qualche volta questo lavoro della estrazione lo fanno fare a me, dicono che ci ho la mano innocente. Sulle cartelle i numeri vengono segnati con i fagioli. Io però dopo un po’ mi annoio e rischio di far cadere i fagioli dalle cartelle, così le donnine mi danno da mangiare le seme o i lupini per tenemmi bono. In definitiva mia nonna Libera ci ha poco tempo per raccontare le sue storie. Quello che ho capito è che si stava meglio quando si stava peggio, almeno così dice lei.
Gennaio 1943 - XXI E.F.
Tema: Racconta il tuo più bel Natale Svolgimento: Il più bel Natale per me è stato quello di quando avevo sette anni e mio padre è tornato dalla guerra di Spagna. Anche mia madre era a casa, avendo avuto un giorno di permesso dall’ospedale. Mia sorella aveva fatto il presepio e ci aveva messo lo specchietto per far credere che ci fosse l’acqua di un laghetto. Le montagne le avevamo fatte con dei pezzi di legno e sopra c’era la carta da pacchi e la borraccina. In cima alle montagne c’erano le casette e i castelli di sughero. In pianura c’erano le palme, i cammelli, i pastori e le pecorelle. Andavano tutti verso la grotta, dove c’era il bambinello Gesù. Le strade erano fatte di segatura. Mia madre ci ha dato un paio di pugnetti di farina e così abbiamo potuto spargerla qua e là, come se fosse neve, impolverando le cime dei monti e la capanna. A uno dei Re Magi si era staccata la testa dal corpo: ho dovuto accomodarlo con la colla! Dopo la testa ci stava, ma un po’ chinata. Quell’anno mio padre portò in casa anche la cima di un pinacchiotto e vi attaccò ai rami delle palle di vetro colorate e delle candeline attorcigliate di tutti i colori. Era bello a vedersi con quelle fiammelle che ardevano tutto intorno , in mezzo al brillare delle palle multicolori. Mia nonna brontolava dicendo che quello era un sistema sicuro per mandà a foco tutta la casa. Mio padre le rispose che quella
dell’albero di Natale è una bella tradizione germanica e che nelle case dei ricchi si usa così. La mattina del giorno di Natale mi svegliai presto: stando a letto sentivo un rumore strano, come di un motore, ma non lontano, veniva da sotto il letto. C’era un carro armato giocattolo, con tanto di cingoli di gomma e cannoncino, che andava avanti e indietro, mentre dal cannone uscivano delle scintille. Aveva una carica a molla. Mio padre e mia madre dicevano che lo aveva portato nella notte Gesù Bambino. Io diventavo pazzo dalla gioia. Mio padre rideva divertito e ancor più rideva, quando scoprii che vicino all’albero c’era anche un fucilino a fulminanti, lasciato lì anche quello da Gesù Bambino. Anche mia sorella era contenta: c’erano dei regali anche per lei, mi ricordo un braccialetto d’oro. Per la mamma c’era una catena tutta d’oro, mentre per la nonna c’era uno scialle nero, ma tutto ricamato, come quelli che usano in Spagna. A pranzo c’era un sacco di cose buone: brodo di cappone, tortellini, lesso con i sottaceti e poi cavallucci e cantuccini col vin santo e mandarini. La nonna diceva che quella del Natale era una dello poche invenzioni buone fatte dai preti. Nel pomeriggio facemmo due i fino al porto a guardarci le navi e i quattro mori. Quello fu il mio più bel Natale! Sul tardi fecero la loro comparsa lo zio e la zia per dare un saluto a nonna, poiché era un po’ che non venivano. Portarono dei dolci come torroni e caramelle. Nonna Libera fu contenta di vederli, mio padre uscì invece di casa. Mio zio Giusto è più vecchio e più basso di mio padre, ha tutti i capelli grigi, quando sorride si vede che gli mancano i denti. Mia nonna dice che ha sofferto molto nelle lotte con i fascisti, prima che vincesse Mussolini. Mia zia Berenice è piccolina, ma tutta d’un pezzo. È proprio la moglie che ci vuole per Giusto, almeno così dice mia nonna. Hanno due figlie: Marisa e Palmira. Una è più grande di me, avendo quasi l’età di Romana, l’altra è più giovane. Abbiamo giocato tutti a tombola e sono riuscito a vincere venti centesimi.
Febbraio 1943 - XXI E.F.
Tema: Cosa penso di fare da grande Svolgimento: Non sono ancora sicuro di quello che intendo fare da grande. Ci sono tanti mestieri che mi attraggono moltissimo: l’aviatore, il meccanico, il maestro, l’esploratore. Sono tutti mestieri moderni, in cui c’è bisogno di giovani forti e coraggiosi, come me. Sfortunatamente in quasi tutti c’è molto da studiare e questo mi piace molto meno, ma, come dice la mi’ nonna, quando si va al ballo, bisogna ballare. Quello in cui c’è molto da studiare è il mestiere del maestro: devi leggere molti libri (e questo mi piace), anche quelli di matematica (questo mi piace meno) e dopo vai nelle scuole a raccontare tutto quello che sai ai bimbetti. Potrei così leggere molti libri di geografia e storia, che invece adesso non sono previsti dal programma ministeriale. Vorrei cercare di vedere chiaro su alcuni problemi del ato, che però ci sono anche adesso e mi sembra che siano stati studiati poco. Uno di questi riguarda la Storia. Perché Napoleone che era tanto intelligente andò a fare la guerra alla Russia e fece la fine che fece? E qui entra in ballo la geografia. Quanto è grande la Russia e quanto freddo ci fa l’inverno? Io ascolto i bollettini di guerra della radio e guardo le riviste illustrate che parlano della campagna di Russia delle Forze dell’Asse. Spero sempre che il Fiurer abbia letto tutti i libri su questo argomento prima di mandare le sue armate in Russia. Però mi sembra di capire che adesso le gloriose armate dell’Asse non stiano più avanzando e anzi nell’inverno scorso hanno sofferto molto il freddo e si siano ritirate su posizioni strategiche più forti. Quindi secondo me i maestri bravi in storia e geografia sono sempre necessari. Mi piacerebbe anche fare il meccanico. Costruire e riparare macchine velocissime e motori potentissimi. Così i nostri soldati potrebbero avanzare nelle pianure sterminate della Russia più velocemente e arrivare a Mosca prima dell’inverno. Poi i grandi corridori automobilistici come Tazio Nuvolari vincono sempre e sono ammirati da tutti. Un altro mestiere che mi piacerebbe molto sarebbe quello dell’aviatore: te ne vai in giro con il tuo aeroplano, bombardi i nemici, affondi le navi, in un attimo traversi il mare o il deserto. Magari per fare l’aviatore dovrei anche saper fare il meccanico, in modo da riparare l’aereo se si guasta. Penso che se Mussolini
avesse mandato più aerei in Russia, sarebbero morti meno alpini nella neve! Ma dice che siamo un paese povero e gli aeroplani costano un fottio. E allora dico io: quanto sono ricchi gli americani che continuamente ci mandano fortezze volanti per bombardare le città italiane? Fa un po’ ridere pensare che abbiamo tanti ufficiali di aviazione tutti eleganti nelle loro divise azzurre, ma che non possono volare perché senza aereo! L’esploratore poi sarebbe proprio il massimo: andare per mare o per terra, eventualmente a bordo di un aereo, alla ricerca di terre inesplorate, ricche di tesori naturali di cui l’Italia è povera, oro, ferro, petrolio, cacao, caffè, banane! Andare in giro per il mondo come ha fatto Italo Balbo oppure Nobile con il dirigibile. Dopo, al ritorno, l’esploratore viene accolto con tutti gli onori e scrive dei libri dove racconta tutte le sue avventure e le sue scoperte, un po’ come Cristoforo Colombo o Amerigo Vespucci, salvo che loro alla fine si sono fatti fregare dagli stranieri. L’importante comunque è riuscire a diventare grande!
Marzo 1943 - XX E.F.
Tema: Risparmiano uomini, animali, e piante. risparmia anche tu e contribuirai alla Vittoria e alla grandezza della Nazione Svolgimento: Il maestro ci ha spiegato che le piante e gli animali durante la bella stagione mettono da parte quanto gli serve per quando le condizioni di vita saranno più difficili. Così le formiche portano sottoterra i semi che trovano in giro, le api vanno a raccogliere il miele di fiore in fiore, che poi portano dentro la loro casa, che si chiama arnia. Dice che lo scoiattolo riempie di noci e nocciole la sua tana, ma io non l’ho mai visto. Anche le piante durante la buona stagione mettono da parte delle riserve per il periodo invernale, quando perdono le foglie e dormono.
Anche l’uomo dovrebbe fare come gli animali più prudenti e le piante sagge e mettere da parte i risparmi portandoli nelle banche, dove poi servono al Governo per comperare le armi e le munizioni per fare la guerra e vincerla. Sfortunatamente a casa mia i soldi delle paghe di mio padre e mia madre servono solo per campare. Mio padre dice che vorrebbe poter arrivare a mettere da parte qualche soldo per comprarsi una barca. Mia madre, invece, dice che prima che alla barca bisognerebbe pensare alla casa. Dice che adesso stiamo in una specie di topaia e dobbiamo dormire nella stessa stanza io, Romana e nonna Libera e che questo non è bene. Però nonostante questo il padrone di casa minaccia continuamente di alzare l’affitto e bisogna mandare babbo a parlarci. Mia nonna prima della guerra aveva qualche soldo da parte, di quando la lira faceva aggio sull’oro (così dice lei, anche se io non lo capisco), poi però tutti i prezzi sono cominciati ad aumentare: pane, pasta, latte, vino, fagioli, margarina, vestiti, scarpe, ecc. E lei è stata costretta a levare ogni mese qualche soldo e così ora li ha finiti e chiede a mio padre (suo figlio) i soldi per il tabacco e l’ambo da giocare al lotto. Gli unici che stanno bene sono quelli che hanno nei depositi il lardo e i prosciutti nascosti oppure i contadini che volta volta rialzano il prezzo del grano e delle patate e invece di portalle all’ammasso le nascondono per venderle al mercato nero. Io sono d’accordo con questo fatto del risparmio e difatti ho un salvadanaio di coccio in cui metto di tanto in tanto qualche spicciolo che riesco a ottenere. Lo scuoto via via per assicurarmi che ci siano sempre dentro i soldi che ci ho messo, ma l’occasione per infilarci dentro le monete c’è di rado. L’ultima volta è stato a Natale, quando vinsi venti centesimi a tombola e mio zio Giusto mi dette per regalo una lira. Sono fiero di risparmiare per contribuire alla Vittoria!
Aprile 1943 - XXI E.F.
Tema: Parla del libro che ti è piaciuto di più
Svolgimento: Fino a poco tempo fa mi pareva di aver letto molti libri, perché avevo letto tutti quelli che c’erano in casa: una decina! Da quando sono arrivato in classe quarta e sono potuto entrare nella Biblioteca della scuola, mi sono reso conto che ho letto solo una piccola parte dei libri che si trovano su quelle scansie. Se penso poi che, come dice la maestra, tutti i libri che sono stati stampati non si possono riunire in una biblioteca, per quanto essa sia grande, mi sento quasi scoraggiato. Comunque io ho cominciato a leggere quelli adatti alla mia età, perché gli altri non me li fanno leggere. Ho letto Pinocchio, le Fiabe dei Fratelli Grimm, Fata Autarchia, I tre peli d’oro nella barba del Diavolo, Le più belle fiabe di Andersen, I racconti di mamma Oca, il libro Cuore, I ragazzi della via Pal, Il diario di Gian Burrasca. Ormai sono troppo grande per le fiabe e le novelle, però tra tutte mi piacciono di più quelle di Andersen. Penso che davvero se certi oggetti o animali potessero parlare, si esprimerebbero come è scritto in quelle fiabe. Il libro Cuore è complessivamente noioso, anche se ci sono di tanto in tanto dei racconti interessanti, come il “Tamburino sardo”, “Sangue romagnolo” e così via. Però tutti questi ragazzi coraggiosi finiscono sempre per fare una brutta fine. Mi sembra proprio che chi ha scritto quel libro si diverta a far star male i lettori. Anche per I ragazzi della Via Pal è un po’ la stessa cosa, di bello c’è la storia di quelle due bande che si combattono tra loro, ma poi si ricasca nel piagnisteo e poi ci sono tutti quei nomi stranieri difficili che vengono a noia a leggerli. Il libro che mi è piaciuto di più finora è quello di Gian Burrasca. È la storia vera di un ragazzo sveglio che viene sempre tormentato dalle sue sorelle maggiori e dai suoi genitori. Lui vorrebbe fare del bene agli altri, ma alla fine succede che le cose vadano di traverso e la colpa ricaschi sempre su di lui. È un po’ come succede a me, che devo vedermela con mia sorella Romana, che è una vera peste, però sa come fare per incolpare me. Da quando ho letto questo libro, mi sono messo anch’io a scrivere un diario, per raccontare tutte le ingiustizie che ho subito.
Maggio 1943 - XXI E.F.
Tema: I grandi personaggi della storia. Svolgimento: Il libro di Storia è pieno zeppo di personaggi grandi e famosi che hanno fatto un sacco di cose belle e importanti, come le guerre, spicinando i nemici e occupando tanti paesi e territori. Il primo che mi viene in mente è Giulio Cesare, che era romano e guerreggiò in Francia, in Ispagna, in Grecia, in Egitto e invase anche l’Inghilterra, piantando l’aquila di Roma indove gli pareva, proprio come adesso facciamo sotto la guida del Duce. La maestra ci ha spiegato bene tutto, facendoci vedere la straordinaria somiglianza tra questi due geni italici. Anche Cesare, come il Duce, faceva tanti sacrifici per la gloria di Roma: non dormiva mai, era sempre in mezzo ai legionari, faceva bei discorsi e dettava contemporaneamente a sette scrivani, senza imbrogliarsi. La sfortuna di Cesare fu che si fidava troppo di quelli che gli stavano dintorno e così fece quella brutta fine alle Idi di Marzo. Il Duce è troppo amato da tutti, uomini, donne e bambini e attorno a lui fanno buona guardia i legionari della Milizia. L’altro personaggio della storia che mi è rimasto impresso è Giuseppe Garibaldi. Anche lui ha combattuto tanto e in tanti paesi, ma non ha conquistato niente per l’Italia. Forse era bravo come Cesare, ma non aveva le invincibili legioni , perché ai suoi tempi l’Italia era tutta frazionata in staterelli, come il vestito di Arlecchino. Garibaldi aveva con sé le Camicie Rosse, che, a quanto ho capito, erano tutti giovani coraggiosi, ma molto confusionari. Loro non facevano le guerre, una dopo l’altra, come i Romani, ma dopo una liberazione tornavano a casa, per riprender dopo qualche anno a combattere un’altra guerra, con un altro nome e contro, qualche volta, nemici diversi. Per questo Garibaldi mi è meno simpatico: bisogna ricordare tanti nomi, tante date. Ora combatte contro il Re di Sardegna, ora contro i brasiliani o contro gli austriaci o contro i si, poi per il Re di Sardegna e poi va in soccorso dei si.
Penso che Garibaldi avesse le idee meno chiare di quelle di Cesare.
II
Diario di guerra di Benito Ucciadi balilla livornese
Il quaderno dei temi, arrivato a questo punto, presentava molte pagine bianche. C’era però una grossa Agenda con la copertina di cartoncino, rilegata in velluto rosso, simile a un vero e proprio libro. A ogni giorno era dedicata una pagina, ma le date, tutte riferentesi all’anno 1938, erano state cancellate con un tratto di penna. Nel mezzo della prima pagina campeggiava a stampatello la scritta:
DIARIO DI GUERRA DI BENITO UCCIADI BALILLA LIVORNESE
Nel rovescio della copertina c’era incollata una lettera, scritta da una calligrafia diversa, femminile, molto elegante, che tuttavia tradiva una irreprimibile ansia e nervosismo.
Caro Benito, ti scrivo queste due righe, perché sono stata precettata dal Podestà, come tutti gli altri medici e infermieri, dopo il bombardamento dell’altro giorno. Io farò di tutto perché mi assegnino al gruppo dei feriti gravi nel quale si trova Romana. Ti voglio bene, ma adesso quella che sta peggio è lei e bisogna che io le stia vicina. Dicono che una parte dei feriti gravi verrà trasferita a Pisa, così come molti sfollati. Se questo avverrà ho chiesto di seguire il percorso di Romana. Vorrei
che anche tu venissi con gli sfollati a Pisa e mi sono trovata d’accordo con la signora Arianna, che abitava nel nostro palazzo. Spero che tuo padre abbia una licenza per venire ad abbracciarti e seguirti in questi momenti difficili. Abbiamo perduto la casa, con tutto quello che c’era dentro, compresi i tuoi libri, album e quaderni. Soprattutto abbiamo perso nonna Libera, a cui volevi tanto bene. L’importante è che Romana ce la faccia, nonostante la sua tremenda ferita. Ringrazio Dio che tu ti sia salvato. Tu ora devi stare un po’ di tempo con la sora Arianna. Ho scritto a nonno Paride, perché venga a trovarti e vedere di cosa hai bisogno. Vedrai che è un buon nonno e che ci vuole bene. Io vorrei starti vicina, parlare con te, discutere con te, così come facciamo sempre, ma capisci che non posso, ora devo star dietro a Romana che è tra la vita e la morte e dovrà essere operata alla testa. Un modo per sentirci vicini però c’è. So quanto ti piace scrivere. Avevi imparato a tenere un Diario come quello di Gian Burrasca, che hai tanto amato. Quel Diario è andato a finire sotto le macerie, te ne lascio uno nuovo, tutto da scrivere. Potrai pensare di parlare con me o con Nonna e questo sfogo ti farà bene. Me lo ha insegnato un professore di quelli proprio bravi, che ho conosciuto all’ospedale. Tu dovresti scrivere ogni giorno su un quaderno, tutto quello che pensi e mi vorresti raccontare oppure vorresti raccontarlo a nonna. Dovresti raccontargli anche i tuoi sogni, se te li ricordi, così come faceva lei con noi. Ci diceva sempre che le cose brutte bisogna tirarle fuori. Nonna Libera, che sicuramente è in Cielo, (dopo tutto quel che ha sofferto!) leggerà subito quello che scrivi, magari scuotendo la testa, come faceva quando stavi facendo la lezione! Io leggerò poi tutto, più tardi quando potrò fare una scappata a casa e magari tu dormi! Per questo ti lascio il tuo vecchio quaderno dei temi, che ho ritrovato e una bella agenda che mi hanno regalato all’ospedale. Ti metto anche una penna stilografica nuova, nuova, leggerissima, che mi ha regalato il professore. Mi raccomando Benito, non fare colpi di testa, obbedisci alla sora Arianna, non farla ammattire. Ti abbraccio, Mamma.
Livorno 30 maggio 1943 Nella prima pagina bianca iniziava il Diario di Benito.
1 giugno 1943 Do inizio a questo mio Diario senza sapere proprio cosa scrivere. Mi hanno portato a Pisa su un camion, senza niente, senza cartella, senza i miei giocattoli, senza tutte le mie cose preziose. Dice che la mia casa di quattro piani adesso è un mucchio di macerie, nemmeno tanto alto. L’hanno buttato all’aria per cercare le persone che c’erano rimaste sotto. Fortuna che io ero a scuola! Sotto ci sono rimasti in diversi, tra cui mia nonna e Romana. Non schiacciate, perché erano rintanate nel vano di una porta, ma un trave è caduto in testa a Romana e nonna è stata sbatacchiata al muro. Mi domando e dico se questa è una guerra. Non combattono più i soldati tra di loro con i cannoni e le trincee, ma danno addosso all’improvviso alle persone che sono tranquille nelle loro case. E questa guerra spacca tutto quello che trova senza guardare in faccia nessuno, come fanno le bimbette bizzose quando pestano un nido di formicole. Dice che ora la guerra è così. Perché non ci hanno pensato prima? Quando dicevano che bombardavano Malta o altri posti dove c’era da piegare la resistenza nemica!
5 giugno 1943 Ieri è venuto a cercarmi a Pisa mio Nonno Paride. Io non ricordavo di averlo visto prima. È un uomo di mezza statura, ben piantato, con i capelli bianchi e un gran paio di baffi ugualmente bianchi, mentre le ciglia sono ancora scure. Sorride da tutti i denti bianchi e dagli occhi vivaci come quelli di una lucertola. Io guardavo con un po’ di diffidenza quest’omo con in testa un cappello di panama e ai piedi un paio di scarponi piuttosto consumati, che la Soranna mi diceva essere mio nonno. Lui ha tirato fuori una mano dal giaccone alla cacciatora di velluto, si è strusciato la bocca, in modo da liberarsi le labbra e poi
è scoppiato a ridere e nello stesso tempo ha fatto alcuni i avanti, si è messo in ginocchio e mi abbracciava stretto: “Benedetto, Benedetto…..ma sei proprio tu?” Io non sapevo cosa dirgli. Mi sembrava una domanda un po’ scema. Mi limitavo ad aspirare l’odore del suo giaccone verde. Non aveva un odore di vecchio. Aveva un buon odore come quello della borraccina che a Natale si mette sul presepe, forse un po’ più dolce, come di liquirizia. Mi ha detto che appena ricevuto la tua lettera è partito per vedere come stavamo. Cercherà di entrare nell’ospedale per vederti e magari vedere Romanina. Intanto gli venivano i lucciconi agli occhi e si soffiava il naso con un fazzoletto grande a riquadri rossi. Dice che ha avuto molta difficoltà a rintracciarci perché gli sfollati di Livorno sono stati sistemati in più posti. Noi siamo finiti nelle baracche del Villaggio Veneto, fuori delle mura della città. Nonno dice che qui non ci bombarderanno di certo. Prima di tutto perché a Pisa non ci sono obiettivi militari, poi è una città d’arte con tanti bei monumenti, infine qui dove stiamo noi non c’è niente, solo campi. Alla fine ha tirato fuori dalla valigia un bottiglione di olio, un pane rotondo, grande quasi come una ruota di topolino, una forma di formaggio e un salame. Ha consegnato tutto alla Soranna, dicendogli che era per noi, ma che poteva prenderne anche lei un po’. Io ero così contento che gridavo, ma la Soranna mi ha detto di stare zitto perché se lo sanno gli altri sfollati che ci abbiamo tutto quel ben di Dio, ce lo rubano di sicuro. Mi ha chiesto se avevamo salvato qualcosa della casa, ma io non sapevo cosa dirgli. Quando sono uscito dal rifugio, c’era un gran polverone nell’aria e tutti mi spingevano chi qua e chi là, tutti gridavano e piangevano e io non capivo niente. Poi mi hanno detto: “Bimbo, quella è la tua casa”. Ma io non vedevo altro che macerie e qualche muro ritto sbrecciato con delle cose attaccate alle pareti, tutte al sole. E nell’aria c’era un puzzo strano, che mi è rimasto nel naso per tanto tempo. Poi è arrivata la mia mamma e mi ha abbracciato forte. Anche lei era polverosa e aveva in testa quella bustina bianca che le sta proprio bene. Ha parlato con la Soranna, piangendo. Io ero stanco e non capivo cosa stava succedendo. Poi mamma mi ha detto di andare con la Soranna, che in realtà si chiama signora Arianna, e di stare buono con lei. C’era un gran trambusto intorno a noi,
ambulanze, pompieri, marinai, militari. Era tutto un corri corri. Poi si è fermata un’auto e hanno chiamato mia madre. Era un dottore dell’Ospedale e diceva: “Fortuna, Carla, che l’ho vista!” Poi hanno portato delle coperte di lana della Marina Militare e io mi sono addormentato. Ma tornando a mio nonno Paride. Ha tirato fuori un coltello ha tagliato due belle fette di pane e ci ha messo nel mezzo una fetta di lardo bianco, che aveva in un fagottino, e poi ha detto alla Soranna: “Ora porto Benedetto con me a fare una eggiata e vedo se posso parlare con mia figlia. Lei non si preoccupi: lo riporto nel pomeriggio!” Ha preso con sé una specie di rotolo e insieme siamo andati verso la strada che porta alle mura della città. Dopo una piccola indecisione il nonno ha riconosciuto il posto e camminava sicuro. Mi ha confidato che conosce molte città. Praticamente ha girato tutto il mondo: Roma, Milano, Genova, Marsiglia, Parigi, Londra, Nuova York, Nuova Orleans, Rio de Janeiro, Costantinopoli e tanti altri nomi che non ricordo. Andava a vendere statuine di gesso. Miccino a miccino, dice lui, ha messo da parte un po’ di soldi e si è comprato una casa e un pezzo di terra al suo paese. Strada facendo mi raccontava queste cose, mentre io mi guardavo attorno. A Pisa tutto è tranquillo, per la strada ci sono biciclette e barrocci e bimbetti che giocano, sembra che non sappiano che Livorno è stata bombardata. Si è preso una strada dritta, che probabilmente mio nonno conosceva, perché stava cercando una bottega. Finalmente l’abbiamo trovata: “Vieni andiamo dal Doccini,” mi ha detto il nonno entrando. La bottega era piena di biciclette, per lo più usate, alcune appese al muro, altre appoggiate le une sulle altre. C’era un odore di gomma, di petrolio, di mastice. Nel mezzo c’era una bella bicicletta da corsa nuova nuova con attorno un ometto con indosso un maglione e un paio di pantaloni da corridore ciclista e un ragazzotto magro tutto sporco e strapanato. Mio nonno ha cominciato a parlare con questo Doccini, il quale dapprima sembrava piuttosto scocciato di essere stato interrotto. Poi quando ha sentito che mio nonno lo aveva visto correre al Giro d’Italia, prima della guerra, si è sciolto e ha fatto cenno a mio nonno di avanzare dentro la bottega. Io stavo finendo di
mangiare quel fettone di pane col lardo e perciò sono rimasto sull’uscio. Non credevo che la cosa mi interessasse. Il ragazzotto mi è venuto vicino e mi guardava la bocca tutto ammirato. “È lardo quello lì?” mi ha chiesto mentre staccavo un altro boccone. “Sì, me lo ha portato il mi’ nonno!” gli ho risposto, mentre guardavo quel volto magro e scuro, forse per l’abbronzatura, forse per lo sporco, e quei suoi occhietti vogliosi. “Me ne dai un boccone? Ti do…” nel dire così si frugava le tasche del giubbotto militare lacero e bisunto che indossava. “Ti do… un pacchetto di figurine!, un bottone dell’aviazione germanica…” Aveva tirato fuori la mano e mi mostrava le sue ricchezze. “Non voglio niente!” gli risposi seccato della sua sfrontatezza, ma i suoi occhi mi mettevano a disagio, mi ricordavano quelli di un cane, che a Livorno mi veniva dietro per ruscolare un pezzo di pane. “Però se vuoi posso darti questo cantino che mi è rimasto, giusto giusto, dove non ci ho messo ancora la bocca!” “Grazie, ma per me va bene anche dove ci hai morso tu; me ne giovo!” mi replicò rapidamente, allungando la mano, forse nel timore che continuassi a mordere quel pezzo di pane che mi era rimasto. Lasciai che afferrasse il pane con quelle dita scure, gialle di nicotina sulle punte e le unghie bordate a lutto. Faceva bene a giovarsi del mio pane, io, pur non essendo schizzinoso, non mi sarei giovato di lui. Aveva dei denti bianchissimi e azzannava il pane col lardo a piccoli morsi, per farselo durare più a lungo. Voltai la testa per non fare vedere che lo stavo osservando, anche se lui ora aveva chiuso gli occhi. Intanto il Doccini aveva staccato da un gancio della parete una bicicletta da ragazzo e la stava facendo rimbalzare sul pavimento sconnesso della bottega, battendo con il pugno sopra il sellino. Mio nonno guardava attentamente i fascioni, faceva girare le ruote, provava i freni e da ultimo la dinamo. Forse con quel fisico massiccio non era mai stato un ciclista, ma di biciclette doveva intendersene. I due uomini discussero un po’, poi si dettero la mano e il Doccini batté sulla
spalla di nonno Paride. Questi tirò fuori dalla cacciatora un portafoglio grande quasi come un libro e ne tirò fuori dei fogli che consegnò al ciclista in modo che noi non vedessimo. Poi portò la bicicletta nell’anti-bottega e mi chiese di salirci sopra. Cavolo, era proprio vero!, la bicicletta era per me. Mio nonno senza tante storie, mi aveva ricomprato la bicicletta! Ero confuso e non sapevo cosa fare per ringraziarlo. Stavamo per uscire, quando si accorse che mancava la pompa a mano. Chiamò il Doccini e si fece consegnare una pompa grigia, adatta per la bici. Discussero un altro po’, poi mio nonno mollò altri soldi. Intanto il ragazzo dal giaccone militare era venuto a guardare la bicicletta. “Buon per te, rossetto, che ci hai un nonno ricco e scialacquoso! Il mio sarà già a Portainferi, ammesso che ce l’abbia mai avuto! A proposito, se vuoi il camlo, vieni a cercarmi, te ne trovo uno a metà prezzo.” “Ma dove ti cerco e come ti chiami?” chiesi, così tanto per dire. “Mi conoscono tutti, come Gino, il cenciaino. Quando non sono in giro, sono al deposito della spazzatura, vicino alle mura, dietro le Gondole!”
12 giugno 1943 Con la bicicletta nuova faccio tanti giri nelle strade qua attorno. In queste casette di legno, dipinte di verde, ci abitano famiglie di poveracci, alcune sono di gente sfollata dopo il bombardamento di Livorno, ma i più sono gente che sta qui da tanto tempo, forse sono sfollati della Grande Guerra. Lo si capisce quando le donne chiamano i figlioli. Si sentono tanti nomi strani, cantilenati: Tonin, Checo, Nane, Vanni, Bepi, che qui da noi non ho mai udito. Questi ragazzi, secchi e allampanati come gatti randagi, mi guardano con invidia, specialmente dopo che hanno visto fermarsi qualche automobile davanti alla casetta che mi ospita. Mi chiamano il livornese, ma anche il figlio del fascio. Per lo più, fanno gruppo tra di loro e si tengono alla larga. Qua vicino a un fosso che chiamano fosso dei Mulini. I ragazzi ci fanno il bagno nelle ore calde e poi si stendono al sole sull’erba dell’argine ad asciugare.
Mi sembra di aver sempre nel naso la polvere dei calcinacci delle case che sono crollate sotto le bombe, così preferisco girare fuori città, in mezzo al verde, dove si respira bene. La gente dice che Livorno è stata bombardata perché c’è il porto e da lì partono le navi che portano armi e rifornimenti ai nostri soldati. Pisa non sarà bombardata perché non ci sono obiettivi militari. Ogni tanto si fa viva la mamma e mi porta notizie di Romanina. Dice che è un miracolo se è viva, ma ancora non sa dire quando potranno mandarla a casa.
17 giugno 1943 Una bicicletta senza camlo, però, sembra che non sia neppure una bicicletta. Quando giri in città, nelle strade dove c’è un po’ di gente, non ti sente arrivare nessuno. Stanno tutti in mezzo alla strada e nessuno si scansa. Invece il motore delle motociclette lo sentono e come! Corrono tutti sui marciapiedi, lasciando la strada libera. Per questo sono andato a trovare Gino sul suo posto di lavoro, in piazza delle Gondole, per vedere se davvero è in grado di procurarmi un camlo a poco prezzo. Non è molto lontano da dove abito, ma per andarci in bici c’è da fare un giro pesco, perché si trova proprio dentro le mura. Chiedendo e richiedendo ci sono arrivato. Il suo posto di lavoro dice lui! Ma è il posto dove scaricano l’immondizia di tutta Pisa. C’è questa Ditta, mi pare che si chiami Serra, che manda in giro tricicli e barrocci a raccogliere la spazzatura e poi la rovesciano tutta lì, abbastanza lontana dalle case. Ce n’è una montagna e lì attorno una decina di persone, bimbetti e donne, ognuno con un corbellino, che la frugano e la rifrugano, per tiraci fuori le cose che possono sempre servire, distinguendole per materia e categoria: insomma un lavoro da cenciai. Tirano fuori i metalli, il legno, il vetro, la carta, gli stracci, il cuoio, le ossa, le pelli e li vanno a mettere in settori separati dentro dei magazzini. Le merde (per lo più di cavallo) raccolte per strada con la granata e la pala dagli spazzini con i carretti vengono accumulate in un mucchio distinto e vengono vendute a caro prezzo a tutti quelli che hanno orti o giardini, perché dice che fanno bene alle piante. Però puzzano parecchio e perciò sono nel mucchio più lontano dalle case e più vicino alle mura. Gino l’ho riconosciuto di lontano: era in mezzo a quel gruppetto di cercatori, con in testa una bustina di carta, polverosa e unta, come quelle che i muratori fanno con i sacchi in cui viene messo il cemento, addosso una canottiera tutta buchi e
dei pantalonacci di sicura provenienza militare. Sembrava il capo di una banda di africani: tutti i ragazzi erano seminudi e con la pelle nera, forse dal sole, ma anche dallo sporco, le donne avevano in testa come dei turbanti legati dietro e gonne lunghe fino ai piedi, ma tutte strapanate. Quando nello scavare trovavano qualche oggetto un po’ strano lo mostravano a Gino e lui, dopo averlo guardato, indicava dove metterlo. Più che altro sembrava intento a leggere un libro mezzo scompaginato, frutto probabilmente di quelli scavi. Mi fece subito una grande festa, ma non sembrava ricordarsi della sua promessa. Poi finalmente mi chiese quanti soldi avevo portato. Quando mi vide tirare fuori di tasca pochi spiccioli si mise a ridere, dicendo che con quelli non ci compravo neppure un pacchetto di Macedonia. Poi, vista la mia delusione, si informò se il Podestà ci dava abbastanza da mangiare, quindi chiamò Mara, una delle ragazze che raccattavano e selezionavano gli stracci e le spiegò che doveva arraffare da una bicicletta da signori (quelli che si fermano ai caffè di Sottoborgo) un bel camlo. Le promise che in cambio io le avrei portato un bel pezzo di salame e un paio di uova. La ragazza dal turbante fatto da un vecchio asciugamano logoro mi rivolse uno sguardo un po’ dubbioso, poi mi sorrise scoprendo un sorriso bianchissimo in un volto scuro per il sole e segnato da alcune cicatrici. Anche se imbarazzato, nel salutarla le porsi la mano. Era meglio se non lo facevo: la mano di Mara era sporca, con le unghie cortissime, ma le dita di color giallo marrone per la nicotina.
29 giugno 1943 Che Dio stramaledica gli inglesi e gli americani. Sono ritornati, un mese esatto dal primo bombardamento, sono tornati a bombardare la mia Livorno! Anche questa volta in pieno giorno, quasi a dimostrare il loro disprezzo, la loro sicurezza. Quasi a vantarsi che le nostre difese antiaeree non possono nulla contro le loro Fortezze volanti. Anche a Pisa sono suonate le sirene, ma questa città non è stata attaccata. Sentivamo tremare la terra e il rumore cupo delle bombe lontane. Mia madre ha cominciato a piangere e a tremare, ma poi ha detto che soffriva perché era lontana dalla sua bimba, da Romana, che è ancora all’ospedale e sicuramente si sarà spaventata.
Più tardi il vento ha spinto sulla città una nuvola grigia con un puzzo strano, qualcuno diceva di fosforo, qualcun altro di gasolio. Questi suoni e questi odori mi hanno richiamato alla mente molte cose tristi che avevo dimenticato, come mia Nonna, Achille il lattaio, il maestro Benvenuti, Idilia la bidella, i ragazzi Palla. Insomma tutti quelli che sono morti e che conoscevo.
2 luglio 1943 Gino mi fa proprio incavolare. Avevo bisogno di sfogarmi un po’, di parlare con qualcuno e così sono andato a cercarlo. Oggi non lavorava, stava seduto sul muretto del fosso e si leggeva tranquillamente un quotidiano di alcuni giorni or sono, preso da un pacco di vecchi giornali, probabilmente recuperati dal mucchio delle immondizie! “Hai visto che robba?” gli chiesi scendendo dalla bici! “Cosa dice del bombardamento di Livorno?” Dice che è opera delle Fortezze volanti americane che vengono tranquillamente dalle basi della Tunisia. Sono i primi bombardamenti a tappeto fatti in Italia, volti a colpire non solo le industrie belliche, ma anche i servizi essenziali cittadini, a spargere terrore e morte tra la popolazione civile. Sono chiamati così perché gli aerei viaggiano in formazione, vicini gli uni agli altri, a grande altitudine, tanto da non poter essere raggiunti dai proiettili della contraerea e avanzano così sganciando bombe ad altissimo potenziale distruttivo, incatenate tra loro che coprono tutto il terreno sottostante, distruggendo tutto: casamenti di quattro o cinque piani, strade, ferrovie, ponti, caserme, fabbriche. Dopo il loro aggio non rimane più niente in piedi e le persone se non muoiono per le schegge delle bombe, rimangono seppellite sotto le macerie, oppure sono sbattute via dagli spostamenti d’aria. Non riescono a contare quanti morti ci sono stati, poiché i corpi sono stati o bruciati o ridotti a pezzetti. Io non posso smettere di piangere pensando a quello che è avvenuto a tante persone che conoscevo e di cui adesso non so più niente. “Soltanto ai perfidi inglesi potevano venire in mente queste azioni così vili e perverse! Prendersela con dei civili inermi!” ripeto, stringendo i pugni. Gino si mette a ridere. “Mi dispiace, ma agli inglesi bisogna togliere anche
questo primato!” Io l’ho guardato negli occhi furibondo. “Perché? Vuoi dire che non sono stati gli inglesi che hanno fatto questo macello?” Gino si gratta la nuca sotto la bustina sporca e unta, fa come per scuotere la testa e poi mi volta le spalle. “Cosa vuoi dire?” gli grido, prendendolo per un braccio, nel tentativo di farlo voltare verso di me. “Non è colpa degli inglesi che hanno inventato i bombardamenti a tappeto?” “Non sono invenzioni queste di cui si può andare fieri!” mi risponde lui storcendo la bocca amaramente. “Se proprio ci tieni a saperlo questo tipo di bombardamento lo hanno inventato i nostri alleati tedeschi, prima nella guerra di Spagna e poi proprio sugli inglesi nei bombardamenti di Londra! Come ti ho detto prima, sono bombardamenti che hanno lo scopo di demoralizzare i civili.” Sono rimasto annichilito da questa risposta, ma non ho voluto far vedere a Gino quanto questa mi avesse colpito e così ho subito ribadito: “Forse bisognava fare così per punire quel popolo di guerrafondai, che nel timore di perdere il loro impero hanno voluto questa guerra!” “Non credevo che ti pie parlare di politica!” fa lui, piuttosto imbarazzato. “Questa non è politica,” replico io, piccato. “Questo è voler dire la verità!” “Allora se è la verità che cerchi dovresti sapere che anche le Potenze dell’Asse si stanno dando da fare per conquistarsi un Impero, strappando qua e là le terre ad altri popoli!” E poi, senza attendere la mia risposta, mi voltò le spalle e si allontanò gridando: “E se proprio lo vuoi sapere è stato proprio il tuo grande amico Adolfo Hitler che ha dato inizio alla guerra, occupando pretestuosamente i paesi vicini come l’Austria, la Boemia e la Polonia!” Lasciato solo non mi restò che prendere la bici e andarmene, rimuginando le cose che quel sovversivo mi aveva detto.
13 luglio 1943
Sono stato in dubbio per più giorni se tornare a trovare Gino. Il suo modo di ragionare mi indispone: è un ragazzo maleducato che non ha rispetto di niente e di nessuno. Non ha studiato, però sa molte cose, quelle che sono importanti nel mondo in cui vive, ma non può venire a insegnare a me, che sono andato a scuola, almeno fino a che gli americani non l’hanno buttata giù. Probabilmente sia mia madre che mio padre non sarebbero d’accordo che lo frequentassi, prima di tutto perché bestemmia, poi perché non è fascista, anzi è un disfattista e dice male del Re e del Duce. Me ne sono andato in giro per il Villaggio, e ho cercato di giocare con questi ragazzini scalzi e sporchi, ma è come se ci fosse una divisione tra me e loro. Giocano a palline come si fa noi a Livorno, ma quando hanno saputo che mi chiamo Benito, mi hanno soprannominato figlio del Duce e così mi sono dovuto picchiare. Sono andato a prendere l’acqua alla fontana pubblica. C’era una lunga fila di donne e ragazzette con secchi e bottiglie, che parlavano degli avvenimenti del giorno. Il Giornale Radio ha comunicato che preponderanti forze angloamericane sono riuscite ad attestarsi in Sicilia, nonostante l’eroica resistenza delle truppe italo-tedesche. Non si erano accorte del mio arrivo e sparlavano a voce alta del Duce, dicevano che la guerra ormai è persa e sarebbe meglio fare la pace con gli americani. Quando mi hanno riconosciuto, lì in mezzo a loro, hanno cambiato discorso e hanno cominciato a dire povero figliolo, poveri sfollati, poereti (come dicono loro). Io ero imbarazzato e furioso. Avrei voluto dir loro qualcosa, ma oltre tutto mi facevano pena. Era per dare a loro un posto al sole che il Duce aveva conquistato l’Impero! Alcune di loro mi hanno invitato a are avanti, ma io ho rifiutato sdegnosamente: “Farò la fila come voi!” ho detto e così fino a che sono rimasto lì non hanno più calunniato il Duce e le forze armate.
22 luglio 1943 Non ho scritto più niente perché le notizie del Giornale Radio sono poco chiare e comunque piuttosto brutte. Prima dice che gli attacchi delle forze angloamericane sono stati respinti, poi che, grazie al tradimento di Pantelleria, in
qualche punto c’è stato degli sbarchi, ma le forze italo-tedesche le hanno bloccate sul bagnasciuga. Poi la gente dice che Palermo si è arresa. Ora sembra che tutta la Sicilia sia perduta e tutta l’Italia sotto bombardamento di centinaia e centinaia di aeroplani, che possono tranquillamente partire dai campi di aviazione della Sicilia. Sento proprio il bisogno di parlare con Gino. È vero che può sembrare un disfattista ignorante, ma bisogna dire che per certe cose è molto informato, perché legge tutto quel che trova e poi ascolta non solo quello che dice il Giornale Radio, ma anche quello che la gente dice a bassa voce, per non farsi sentire. Credo anch’io che sia un elemento negativo, però devo ammettere che, conoscendolo un po’, mi rendo conto che anche lui ha le sue ragioni: senza padre, né madre, senza casa, sempre con la fame addosso, il più delle volte non sa con chi prendersela e così è irritato (lui dice in un altro modo!) con tutto e tutti. Però, malgrado tutto, mi è simpatico e io lo sono per lui. Mi tratta da pari a pari, senza tutta quella spocchia che i pisani mostrano nei confronti degli sfollati livornesi. Non mi dice mai: “Tu stai zitto, perché sei troppo piccolo. Queste cose le capirai da grande!” Perciò mi dice anche cose segrete, da non raccontare in giro, perché potrebbero causargli dei guai grossi. E certe volte mi sembra che veda le cose in modo diverso dai maestri e dalle maestre, vale a dire senza tanti fronzoli! Come ad esempio questa storia dello sbarco in Sicilia degli Americani! Dopo che ebbero preso Pantelleria, Gino mi disse che adesso era la volta della Sicilia. Io gli risposi con le orgogliose parole del Duce, assicurandogli che gli inglesi sarebbero stati tutti annientati sul bagnasciuga. Gino mi rispose che gli inglesi e gli americani non erano quelle caricature che vedevamo sui giornali con in capo la scodellina rivoltata o il cappello a larghe tese dei mandriani, ma avevano un esercito pieno zeppo di cannoni, mitragliatrici, carri armati, camion, bombe, scatolette di carne, biscotti e pane. Me ne sono andato per non litigare! Ora invece lo cerco, per capire se le notizie che lui ha sono più precise di quelle che vengono diffuse dagli annunciatori del Giornale Radio. Cosa succederà adesso? La gente qui attorno dice che il Duce dovrebbe chiedere la Pace e abbandonare Hitler.
27 luglio 1943 Lunedì mia madre non è andata a lavorare, ma è voluta rimanere a casa, per prudenza. Dice che la sera ha sentito alla Radio un comunicato straordinario che la ha messa in preoccupazione. Le trasmissioni sono state interrotte e la radio ha detto: “Attenzione! Attenzione!Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo ministro e Segretario di Stato, presentate da S.E. il Cavaliere Benito Mussolini, e ha nominato Capo del Governo, Primo ministro e Segretario di Stato, S.E. il Cavaliere Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio”. Si è preoccupata per noi e quindi è rimasta in casa raccomandandomi di non uscire. In effetti abbiamo sentito un gran chiasso provenire dalle Carceri, che sono qui vicine. La gente è uscita fuori di casa, ma erano pochi quelli che sapevano le ultime notizie. Poi sono arrivati i giornali con titoli grandissimi e tutti sono andati a comprarne uno, per cercare di capire quello che stava succedendo. Sono cominciate a circolare le voci più strane. Qualcuno dice che hanno arrestato il Duce, che in città ci sono stati dei cortei e delle scazzottate. I sovversivi hanno assalito le case del Fascio. Sembrerà strano, ma i detenuti sembra che conoscano le notizie prima di quelli che stanno fuori. A ogni modo un bel po’ di gente è andata a gridare sotto le mura del carcere. I militi sono spariti di circolazione. I carabinieri si fanno vedere qua e là e la gente grida “Viva il Re!” per tenerli buoni, ma tira sassate alle finestre del Federale e dei capi fascisti. Qualcuno dice che nel corso di questi tafferugli tra sovversivi e fascisti, è stato ucciso un reduce dalla campagna di Russia, uno che i russi li aveva visti per davvero, ma non è chiaro per chi parteggiasse. Io vorrei andare fuori per mostrare che non ho paura, ma mia madre si è buttata sulle cattive e ha detto che se esco mi fa a pezzi la bicicletta. Non l’ho mai vista così infuriata. Così anch’io sto incollato alla Radio. Ha parlato Badoglio e ha detto che la guerra continua sotto la guida del Re. Mia madre dice che non è questo che la gente voleva: sperava che si uscisse subito dalla guerra.
1 agosto 1943 Quando ho aperto gli occhi stamani ho visto che accanto al mio letto c’era mio padre che mi guardava. Non era in divisa come le altre volte, però era sempre
ricciuto e anche un po’ più nero. Mi ha detto di alzarmi alla svelta perché dovevamo partire subito con la mamma e Romana. Ci portava in automobile dalla zia Anita, che lavora con suo marito nella villa di un Conte, sotto i Monti Pisani. Dice che qui è pericoloso per noi. Gli ho chiesto se era vero che la guerra sarebbe continuata, come ha detto Badoglio. Lui mi ha guardato in un modo strano e poi ha detto con tono sicuro: “Certamente! Non possiamo abbandonare i nostri alleati germanici!” Poi, rivolgendosi alla mamma, ha aggiunto: “Intanto però ha dato ordine di toglierci i fasci dalle mostrine e sostituirli con le stellette! Io però ho giurato prima fedeltà al Duce e poi al Re!” “Cosa vuoi dire, babbo!” ho chiesto inquieto. “Niente! Voglio dire soltanto che per ora è meglio non farsi vedere troppo in giro in divisa. Qui siete in mezzo a un branco di sovversivi e può succedere di tutto. Non bisogna fidarsi troppo dei carabinieri!”
2 agosto 1943 La villa del Conte è forte! Si trova su di un poggetto ed è circondata da un parco, dove ci sono tanti alberi: fichi, peri, susini, cipressi, bambù e altri che non conosco. Nella parte bassa il parco è recintato da un alto muro con tanto di cancello di ferro, verso il monte invece cominciano gli olivi. Mia zia Anita, somiglia abbastanza a mio padre, ma ha un viso più magro e più vecchio, mi ricorda molto la nonna. Come lei è piccoletta, guizzante, sempre indaffarata. Porta sempre in testa una pezzuola nera che le copre i capelli che, ho indovinato, sono grigi, come gli occhi. Non ho capito bene se è contenta di ospitarci: ha fatto tanti discorsi sul Conte, sulla villa. Mi ha riempito la testa di proibizioni: non devo andare alla villa, non devo andare al laghetto, non devo girare in bicicletta per i vialetti, quando vediamo i signori ci dobbiamo fermare, fare un inchino con la testa, ringraziare sempre, non rubare la frutta del parco, (anche se è per terra), non sporcare, fare i nostri bisogni nella latrina, non in giro. Con tutti questi ordini non somiglia per niente a nonna Libera. Suo marito, Vasco, è un omone grande e grosso, con un fazzoletto nero intorno
al collo. Avrà una cinquantina di anni, un gran naso rosso e un faccione allegro e due occhi paciosi. Di tanto in tanto mi strizza un occhio, come per dirmi di non dare troppo retta alle imposizioni di zia Anita. Ha due braccia grosse come quelle di uno scaricatore e due mani grandi come pale. In compenso ha una vocina che sembra quella di un angioletto. Forse è per questo motivo che non è mai diventato fattore: i contadini quando sono lontani possono far finta di non sentire i suoi ordini.
3 agosto 1943 I miei zii abitano in una casetta, stretta e lunga, separata dalla villa. La chiamano il Laboratorio o l’Officina, non ricordo bene. Hanno tirato su una parete di legno e paglia intrecciata e hanno separato una parte di uno stanzone e ci hanno messo lì: io, mia madre e Romana. Mio padre è ripartito. Dice che ha bisogno di avere notizie del Duce, che è stato imprigionato da Badoglio. Lui vorrebbe proporre ai tedeschi di liberarlo, prima che gli americani lo prendano e lo uccidano. Il nostro rifugio da sfollati ha qualche cosa di meglio rispetto al Villaggio Veneto, ma anche qualche cosa di peggio. Mia madre si lamenta per tutto lo sporco che entra in casa. In compenso qui abbiamo da mangiare di sicuro, visto l’importanza di mio zio Vasco.
7 agosto 1943 Oggi, visto che è sabato, sono andato con mio zio Vasco a tagliarmi i capelli. Ne avevamo proprio bisogno, sia io che lui. Lui forse più di me, perché ci va poco dal barbiere, anche se sono amici e hanno le stesse idee. Io mi sono messo in un angolo ad aspettare e così ho avuto modo di sfogliare il monte di riviste che aveva lì sopra un tavolinetto: Domenica del Corriere, Tempo illustrato, Tribuna illustrata, Sport illustrato. Mi ci sono buttato sopra a corpo morto e faticavo a staccarmene, tanto che mio zio, per scherzo, ha proposto al parrucchiere di lasciarmi lì. “Volentieri,” ha detto lui “potrebbe darmi una mano, quando ci sono tanti clienti!”
Mio zio ha risposto che avrebbe parlato con mia madre.
11 agosto 1943 Sono ritornato da Furio insieme a mia madre. Quando l’ha vista, Furio si è subito ringalluzzito, non faceva altro che farle i complimenti: “Signora qua, signora là! Se non me lo avesse detto, avrei creduto che fosse la sorella maggiore del ragazzo!” “Vedrà che qui il ragazzo si troverà bene! Gli insegnerò a insaponare le facce. Potrebbe anche rimediare qualche mancia. I miei clienti sono tutta gente per bene! Se ria uno di questi giorni le do il camice bianco del precedente apprendista e le mostro come può fare per aggiustarlo a Benito!” Mi faceva venir voglia di vomitare da tanto che era mieloso! Poi mi ha fatto vedere come si a il pennello insaponato sulla faccia e come vanno messi al loro posto gli arnesi. Non mi sembra difficile. Mi ha anche incaricato di sistemare le riviste, eliminando quelle più vecchie e più stracciate. Alcune riviste non arrivano più. Furio dice che probabilmente manca la carta.
13 agosto 1943 “Cenciaiooo, pellaiooo, stracciaiooo, robivecchi!” Il grido si diffondeva alto per le stradette del paese, nelle corti dei contadini. Le massaie si affacciavano incuriosite e scrutavano con interesse in direzione da dove proveniva quella voce sguaiata, che spezzava il silenzio del pomeriggio afoso. Anch’io uscii di casa e osservai l’uomo incappottato che si presentava in sella a una bicicletta antidiluviana, trainante un carrettino leggero con due ruote gommate. Quando fu più vicino lo riconobbi: era Gino. In testa aveva un berrettino da ciclista con la visiera, sotto il cappotto lungo e pieno di buchi, aveva una maglia a righe, sdrucita, senza maniche, forse dono di qualche gruppo sportivo. Le lunghe gambe pelose uscivano da un paio di pantaloncini ricavati forse dal taglio di una vecchia divisa fascista.
Gli corsi incontro festante. In quel momento avevo dimenticato le nostre discussioni su Mussolini e gli inglesi. “Gino! Cosa fai?” Era una domanda sciocca, in quanto si vedeva chiaramente quello che stava facendo. Infatti dopo poco il mio amico fu circondato da una turba di massaie che volevano vendergli qualcosa. È inimmaginabile quante cose riescono a mettere da parte le contadine, in attesa del aggio del cenciaio. La maggior parte avevano le pelli secche rovesciate dei conigli, che per tanto tempo avevo visto attaccate al sole ai muri delle case, senza comprenderne lo scopo. Altre avevano sacchetti pieni di piume di gallina o di papero oppure piene di stracci di lana, mezzi disfatti, vetri e bottiglie, pezzi di ferro vecchio oppure corna e ossa. Gino aveva tirato fuori dal carrettino una bilancia a romano con un grosso piatto dorato e pesava velocemente ogni cosa che gli veniva proposta, gridando ad alta voce due numeri: il peso dell’oggetto e il valore in lire e centesimi corrispondenti. Era straordinario, mentre gridava, parlava, scherzava era capace di fare mentalmente la moltiplicazione, annunciarla alla sua platea e discutere con le contadine insoddisfatte. Poi metteva l’oggetto pesato in uno scomparto o in un sacco del carrettino, distinto per categoria e qualità, e per ultimo tirava fuori dalle tasche del cappottone i soldi occorrenti per pagare le donne che gli si accalcavano attorno. Dopo un po’ di tempo capii lo scopo di quel cappottone fuori stagione: le diverse tasche contenevano monete di valore diverso: c’era la tasca delle lire, delle mezze lire, dei ventini, dei diecini e dei centesimi. In una tasca speciale, di cuoio, metteva i biglietti di carta. Non avevo mai visto una cosa simile! Forse esisteva soltanto nelle migliori pasticcerie di Livorno. Le discussioni non si accendevano sui prezzi, ma sulla qualità della merce consegnata. Gino molto spesso contestava il modo in cui erano stati uccisi i conigli, oppure come erano state conservate le pelli. Quando non gli andavano bene le buttava in terra direttamente, pur continuando a scherzare con le contadine. “O sora cosa, se tratta il marito come ha trattato questa pelle, quello dura poco!” E le donne giù a ridere. Quando l’affollamento fu finito, Gino, dopo essersi asciugato il sudore con un fazzolettone a quadri rossi, mi porse la mano, con le solite unghie listate abbondantemente a lutto e mi disse: “Sono contento di rivederti, rossetto! Hai
visto che le cose sono andate come ti avevo predetto?” Non gli risposi, ma chiesi: “Cosa hai fatto in tutto questo tempo? Non lavori più ai rifiuti? Cosa dice la gente? Come finirà questa guerra?” Si tolse anche il berretto da ciclista e si dette una ata ai capelli, prima di rispondermi: “Me la sono sata alla grande! Sono andato in giro per la città a raccogliere tutti i libri e i giornali del fascio che la gente buttava fuori di casa. Ho raccattato non so quanti busti del Duce che la gente ha tirato giù dalle finestre delle case del fascio. E poi ho raccattato tanta carta, tante camicie nere, fez, gagliardetti, che non te lo puoi immaginare. Però dovevo stare attento ai carabinieri, quelli provano gusto uguale a picchià sulle spalle dei rossi, come dei neri. La gente crede che sia tornato il bengodi e vorrebbe che Badoglio fe finire la guerra, ma gli americani continuano a bombardare e i tedeschi a combattere. Se vuoi proprio che ti dica come la vedo io, ti dico che la vedo brutta e siamo destinati a prende un sacco di botte sia dagli uni che dagli altri. Per questo ho ripreso il mio giro per le campagne”. Gli dissi dove stavo e ci promettemmo di rivederci presto.
14 agosto 1943 Mamma è venuta a casa per il Ferragosto. Con lei è venuto suo fratello Domenico, che non ricordavo per niente. Si sono ritrovati quasi per caso all’Ospedale di Pisa, dove Menico è stato mandato per una visita specialistica. Lui, che l’aveva cercata a Livorno, l’ha trovata a Pisa, invece mia madre non aveva più notizie di lui da tanto tempo e lo credeva prigioniero in Africa. Si somigliano un po’, ma non troppo. Lo zio Domenico non è molto alto, magretto e piuttosto gracilino, non somiglia per niente a mio nonno. Ha un viso scavato, quasi da bambino, gli occhi scuri, profondi e tanti capelli ondulati che gli scappano di sotto la bustina. Ha lo stesso sorriso di mamma, però se si toglie la bustina si vede che i capelli sopra le orecchie sono un po’ bianchi. Mamma dice che è per colpa dei patimenti e delle sofferenze. E infatti a mio zio ne sono capitate di tutti i colori. Quando è stato richiamato per il servizio militare, credeva di andare fra gli alpini, come quasi tutti suoi amici di Borgo a Mozzano, invece, visto che era piuttosto gracile, l’hanno messo nella artiglieria
da campagna. Sembrava una buona cosa e invece l’hanno mandato in Libia, dove c’era la guerra con gli inglesi. Il suo reparto però aveva pochi camion, residuati della Prima guerra mondiale, e così molto spesso si dovevano spostare a piedi, lungo le strade della Cirenaica. Meglio così, perché quelli che si spostavano sui camion venivano mitragliati dagli Spitfair. E loro che andavano a piedi dovevano correre per non essere catturati dalle autoblinde inglesi, quando questi avanzavano. Poi erano arrivati i tedeschi, quelli di Rommel, con camion, carri armati, camionette e tutto quel che ci voleva per fare la guerra sul serio. I tedeschi avano e li prendevano in giro, loro che scarpinavano nel deserto con il 91 a spalla e lo zaino pieno di carta. Loro, visto che erano a piedi, li mandavano nei posti peggiori. “Scavate delle trincee belle fonde e state tranquilli,” dicevano i capi, “perché qui ci sono i campi minati e di là non verrà nessuno! “ Caldo, freddo di notte, fame e soprattutto sete. Poi scoppia l’inferno, cannonate, fumo e alla fine si sono visti arrivare i tank inglesi, grandi come montagne, alle spalle! Prigionieri! Incolonnati, stanchi, assetati, hanno dovuto ripercorrere a piedi le stesse strade che avevano fatto prima con il fucile in spalla. Così almeno diceva mio zio: fino al mare. Poi qui li avevano imbarcati su di un grande piroscafo e rinchiusi, ammassati gli uni sugli altri, nelle stive fetide. Poi sono partiti; sentiva i motori che pulsavano, poi all’improvviso un boato, la nave ha tremato come se avesse urtato qualcosa, poi grida in tutte le lingue del mondo, fischi e è cominciata a entrare acqua a valanga. Qualcuno ha aperto i boccaporti: i disgraziati si spingevano, si salivano addosso, gli uni gli altri. Domenico dice che non sa come ha fatto a trovarsi fuori. Era notte, illuminata dai bagliori della nave in fiamme che, inclinata su di un lato, affondava inesorabilmente. Non ricorda di aver visto scialuppe, ma solo intorno a lui teste e braccia che emergevano da quelle acque nere come l’inchiostro: lamenti, grida, invocazioni. Ora muoio! ha pensato e ha dato qualche bracciata per allontanarsi da quella bolgia e da dove l’acqua puzzava maggiormente di nafta. Voglio morire da solo, dicendo le preghiere che la mamma mi ha insegnato! Mentre pensava così ha urtato con la mano qualcosa di duro che galleggiava: era un pianale di tavole, una porta, qualcosa del genere. Un altro naufrago che vi era sopra, l’ha aiutato
e così sono rimasti, a cavalcioni, di quel relitto, in attesa dell’alba. Quando il cielo cominciava a ingrigire hanno sentito delle voci e hanno visto venire avanti nella bruma un battellino di gomma. Erano i marinai del sommergibile tedesco che li aveva affondati. Li hanno presi a bordo o meglio in coperta e poi sono filati via, per timore degli aerei inglesi. Se fossero comparsi, l’U-boat si sarebbe immerso, lasciando affogare i naufraghi. Lui pensa che siano stati pochissimi quelli che si sono salvati dall’affondamento: erano quasi tutti prigionieri italiani! Rientrato in Italia, era solo pelle e ossa. Ha fatto il giro di tanti ospedali: Taranto, Napoli, Livorno, Pisa. Cercano di rimetterlo in sesto per rimandarlo a combattere, ma lui dice che gli si è rotto qualcosa dentro e quando sente lo scoppio delle bombe comincia a tremare e gli viene la febbre. È più forte di lui. Povero zio, mi fa pena!
15 agosto 1943 La raccolta dei cocomeri è quasi terminata. Il campo che prima brillava per tutte quelle sfere nero-verdi lucenti, ora ha un’aria di campo di battaglia: foglie e tralci strappati, cocomeri sfondati, segni di solchi. Così almeno ha detto lo zio Menico, che ha dato una mano a caricare il carro e ora sta su di un ciocco di legno e fuma una sigaretta. Se glielo chiedi, dice di non pensare a niente. Io invece ripenso al suo racconto. È pieno zeppo di cose che mi sono nuove, però mi conferma anche cose che i contadini dicevano a veglia, ma che io credevo barzellette. Perché i tedeschi hanno tutto quell’armamentario e noi no? All’annuncio che il Fascismo era caduto, Masino e gli altri dicevano che i nostri carri armati erano fatti di latta, come scatole da sardine, solo un po’ più grandi. La corazza poteva essere bucata facilmente, troppo facilmente. Anche loro dicevano che i nostri soldati erano stati mandati a morire, con armi vecchie e superate, con le pallottole contate, da non sprecare, e soprattutto con scarse razioni, viveri e scarpe e divise inadatte al fronte in cui erano assegnati. Mio zio Vasco difendeva Mussolini, dicendo che era stato ingannato dai generali e che quando andava a fare le ispezioni gli facevano vedere più volte gli stessi aerei, gli stessi carri armati, gli stessi cannoni, per convincerlo che eravamo armati come la Germania.
Ho chiesto allo zio Menico se in guerra ha ucciso qualcuno. Lui mi ha guardato scandalizzato e ha detto: “Spero proprio di no! Però ho visto intorno a me tanti feriti e moribondi e questo mi è bastato!”
20 agosto 1943 C’è un altro ragazzo che viene dal parrucchiere a leggere le riviste e i giornalini a sbafo. Si chiama Vezio ed è figlio del vinaio. Prima mi ha fatto un po’ di guerra, poi ci siamo spartiti i giornalini da leggere e allora mi ha raccontato qualcosa di quello che fa. Aiuta suo padre, va a fare le consegne con un triciclo e quando lui è fuori col barroccio a cercare il vino dai contadini, tiene aperto il negozio. È sveglio, forse fa la cresta al vino che vende, quando suo padre è fuori. Qualche volta, quando suo padre allarga il giro, lo porta con se, in modo che conduca il barroccio e stia attento al cavallo. Dice che di questi tempi è meglio avere la roba da mangiare, perché rivendendola al mercato nero c’è molto da guadagnare. I soldi del Governo perdono sempre più valore. Mi ha snocciolato tutti gli aumenti del prezzo del vino da un anno a questa parte. Gli ho detto che mi sembra strano che il Governo non conosca queste cose. Ci penseranno i carabinieri a stroncare il Mercato Nero. Ma lui ride!
1 settembre 1943 Ieri c’è stato a Pisa il primo bombardamento! All’ora di pranzo ci hanno chiamato fuori perché si vedevano lontano sopra Pisa i puntolini degli aerei da bombardamento in formazione stretta. Le nuvolette della contraerea si aprivano tutte molto sotto la formazione. Poi sono cominciati ad apparire dei bagliori e delle nuvole di fumo ad alzarsi nel cielo. Molto dopo si sono sentiti i boati delle esplosioni. Una gran nuvola di fumo nero si è alzata nel cielo fino a raggiungere gli aeroplani. Per tutto il tempo si è vista bene la Torre Pendente, segno che non è stata bombardata e che non è caduta, anche se poi alla fine Pisa era tutta dentro una nuvola nera. Ci sono state diverse ondate. A un certo punto c’erano degli aerei, che venivano
giù in picchiata, come se si dovessero schiantare a terra, e poi invece sganciavano le bombe e ritornavano in alto. Erano come dei giocattoli di una giostra che salivano e scendevano come se fossero legati ad un filo. Quando uscivano nella zona battuta dal sole, luccicavano. La gente diceva che stavano bombardando la stazione di S. Rossore. Molti hanno parenti o amici a Pisa oppure i loro figli o le loro figlie vanno a lavorare alle fabbriche di Pisa o della Fontina. Tutti gridavano e piangevano. Le donne incitavano i mariti a prendere le biciclette per andare incontro o a vedere se i figli a Pisa erano salvi. Ma c’era sempre tanta paura che gli aerei tornassero. Qualcuno dice che si sono sentite delle esplosioni anche in campagna: si tratterebbe di aerei abbattuti, non si sa se amici o nemici. La ferrovia non funziona, comunque piano piano qualcuno è tornato a casa: o in bicicletta o su qualche mezzo di fortuna. Molti anche a piedi. Parlano solo quelli che hanno visto il bombardamento da lontano, quelli che erano sotto le bombe hanno le facce stravolte e non vogliono dire niente. I miei zii mi hanno detto di stare tranquillo per mamma, in quanto sopra l’ospedale c’è disegnata una grande croce rossa e lì le bombe non dovrebbero tirarcele. Ma non si sa mai! Romana tremava tutta e diceva in continuazione: “Madonnina santa, Madonna di Montenero!” A buio è ato uno che lavora all’ospedale, per dirci che mia madre sta bene, ma non può tornare a casa per ora.
8 settembre 1943 Noi s’aveva la radio spenta, poi s’è sentito un gridio levarsi dal cortile, da quell’altre case, quelle sparse giù lungo la strada, sulla collina e la gente che usciva fuori gridando: “È finita! È finita!” Noi si gridava “Cosa c’è?” Ma già sapevamo cosa era che doveva finire. “La guerra, è finita!” urlava la gente agitando per aria tutto quello che aveva a portata di mano: granate,
tovaglie, mestoli! ”Accendete l’aradio! Accendete l’aradio! C’è Badoglio, dice che ha firmato la mistizio!” Uomini e donne, bimbetti e vecchi si abbracciavano e ballavano. Mentre mio zio Vasco rimaneva lì rintontito, mia zia era corsa in casa ad accendere la radio. Trasmetteva la musica di una marcia militare, ma poi s’interruppe e una voce che ormai aveva sostituito quella del Duce, scandì l’annuncio che ormai tutti si aspettavano. “Il Governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta...” Ascoltammo in silenzio tutte quelle parole. Mia zia piangeva, anch’io piangevo. I vicini si affacciavano alla porta e chiedevano: “Avete sentito? E adesso cosa succederà?” “Cosa deve succedere? La guerra è finita! Hanno capito che non doveva neppure cominciare. Adesso il mio Renzo torna a casa, finalmente!” Mia zia Anita, che non apriva mai bocca, che non diceva mai niente, che credevo fosse capace solo di rimbrottare, diceva quelle cose che suo fratello, mio padre, non avrebbe certo approvato. Poi anche lei corse fuori, sventolando il grembiule. Fuori i bimbetti dei contadini avevano legato tre stracci colorati a un bastone e li andavano agitando nel cielo che ormai stava diventando oscuro e cantavano: “La bandiera dai tre colori, è sempre stata la più bella, noi vogliamo solo quella, noi vogliam la libertà!” Le luci e i canti si accendevano in tutte le case sparse per la collina e la campagna, arrivava gente dalle fattorie più lontane, molti portavano fiaschi di vino, altri fiaschi venivano messi in tavola. Io stavo nell’ombra, sotto il fico, che ormai faceva cadere a terra i frutti che hanno preso il settembrino e cercavo di scoprire dentro di me se ero o non ero contento e perché non lo ero del tutto. Eppure prima con Romana avevo ballato e cantato con gli altri ragazzi. Mi venne accanto Romana. Aveva bevuto anche lei e aveva quella sua faccia strana, con quella riga rossa sotto i capelli ben evidente. “Che hai?” mi chiese “Non sei contento?”
“Penso a tutti i sacrifici che abbiamo fatto, a tutto quello che abbiamo perduto: la nonna, la casa, i vestiti, i soldatini, tutti i morti e i feriti che ci sono stati, come te ad esempio. Tutto per nulla!” “Avresti preferito che la guerra continuasse? Tanto non c’era possibilità di vincerla!” “No, non volevo che la guerra continuasse. Però mi domando perché la abbiamo fatta. Il Duce non ce la doveva neppure far cominciare! Qualcuno lo ha imbrogliato. Ci hanno imbrogliato tutti! Le guerre dovrebbero essere proibite per legge!” “Ma hai visto i popoli, come i grandi e i bimbetti, litigano tra di loro: io sono il più forte, io debbo avere il pezzo meglio!” Accidenti, stasera era la volta buona che anche le donne si mettono a discutere! Ma forse era l’effetto del vino! “Pensandoci bene hai ragione, ma si potrebbe fare come al tempo dei Romani: tre di noi, contro tre di loro! Gli Orazi contro i Curiazi!” Nell’ombra sempre più fitta, Nello, uno dei contadini che era venuto in visita, si era avvicinato al tronco del fico ed aveva colto al volo quelle parole. Rise forte e urlò ridendo agli altri: “Questi bimbetti hanno ragione: dovevamo mettere in una stanza Ciurcil e Itler, chiusi a chiave, e farli picchiare tra loro. Quello che restava in piedi era il vincitore della guerra! È così che si deve fare!” Arrivò anche gente dalla villa e allora i contadini chiesero cosa voleva dire “armistizio”, se era la stessa cosa della pace, cosa avrebbero fatto i tedeschi... Il conte disse che probabilmente tutto era stato studiato alla perfezione da quella vecchia volpe di Badoglio e che gli americani sarebbero sbarcati a Livorno, se non a Genova. I tedeschi avrebbero dovuto rispettare la nostra non belligeranza, ma a ogni modo avrebbero fatto meglio a ritirarsi subito sulle Alpi per non essere presi in trappola.
10 settembre 1943
È ritornato lo zio Menico. Le donne erano intente a fare la ata di pomodoro, bollendo tutto in un grosso pentolone sul fornello dove di solito mettono a bollire l’acqua del bucato. Gli sono andate incontro, scarmigliate, accese in volto, con le braccia sporche del rosso della salsa. Sembrava avessero ammazzato qualcuno. Nell’aria c’era un forte odore un po’ dolce, un po’ acido. Mio zio dice che adesso non c’è bisogno di rinnovare la licenza di convalescenza. Tanto più che negli uffici di comando non c’è rimasto nessuno: gli ufficiali sono tutti partiti, per primi i generali. I soldati, visto che nessuno dà ordini e che manca anche il rancio, hanno cominciato ad andarsene. Nelle caserme più grosse sono arrivati i tedeschi con le autoblinde e le mitragliatrici: hanno disarmato il picchetto di guardia, ordinato di portare le armi in cortile e hanno radunato i soldati tenendoli a bada con i mitra. Pattuglie tedesche bloccano le strade, catturano i soldati italiani, anche se in licenza, disarmano gli ufficiali e li caricano su carri piombati per il Nord Italia, forse la Germania. I soldati allora cercano di trovare vestiti borghesi, per non essere catturati, ma i tedeschi stanno attenti a tutti i particolari del vestiario: scarpe, cravatte, camicie! Alcuni ufficiali hanno tentato di resistere, aprendo il fuoco sugli ex alleati, così come aveva ordinato, in modo poco chiaro, Badoglio. Ma sono stati sopraffatti dai tedeschi, che evidentemente erano già preparati, con ordini precisi e meglio armati. Dopo Menico è stato un via vai, nelle diverse case del paese, specialmente nei cascinali più lontani dalla strada, di soldati italiani alla ricerca di vestiti borghesi. Sembrava uno spettacolo di varietà, quelli del trasformista Fregoli, a cui mi avevano portato a Livorno i miei genitori: entravano nelle case soldatini in lucenti divise e dopo poco ne uscivano contadinacci con giacche fruste e sciupate, pantaloni scoloriti e sbrindellati, scarponi scalcagnati e cappellacci di paglia sfondati. Le massaie all’inizio davano volentieri i vecchi vestiti dei mariti e dei figli, un po’ per pietà, un po’ perché pensavano che le divise, una volta ritinte, avrebbero rinnovato il guardaroba dei loro maschi. Poi la processione non finiva più, quei giovani arrivavano uno dietro l’altro, si raccomandavano in tutti i dialetti, chiamando le massaie, con i nomi più affettuosi delle loro diverse lingue: mama, bedda madri, mametta. Si contentavano di un solo indumento, poi avrebbero continuato la questua alla porta accanto. È così che sono partite anche delle camicie buone di Vasco e un paio di pantaloni di Renzo.
“Poveri figlioli!” diceva Anita “Spero solo che anche il mi’ Renzo trovi chi l’aiuta!” Gli uomini, i vecchi, sembrava che chiedessero in cambio di quelle vesti, notizie fresche: “È vero che il Re è fuggito? È vero che a Livorno hanno fatto resistenza? Di dove venite? Dove andate ora? Al tuo paese adesso ci sono gli americani? Sapete niente di quelli che erano di servizio all’Elba?” Avevano portato un fiasco e qualche bicchiere, ma solo pochi accettavano di bere. Io ascoltavo quella babele di dialetti che dicevano più o meno le stesse cose, già udite dalla bocca dei contadini: “Quei puzzoni dei generali sono scappati per primi. Cosa si doveva fare noi? Ci hanno mandato in Albania con le scarpe di cartone! I nostri cannoni si guastavano dopo un paio di colpi! La facciano i signori la guerra!”
12 settembre 1943 Stava seduto su di una seggiolina a tre gambe, con soltanto una chiappa del culone poggiata. Era proprio un ometto buffo, con i pantaloni gialli e un gilet verde su di una camicia a quadri, che gli strizzava la pancetta. Una specie di palloncino con corte gambette e bracciotti, che uscivano pelosi dalle maniche abbondantemente rimboccate. Aveva in testa un cappellaccio cencioso a larga tesa che lo riparava dai pochi raggi del sole autunnale. Davanti a lui, su di un cavalletto, c’era una tela che si andava velocemente riempiendo di segni e di colori: un pittore! Una mano era nascosta da una tavolozza, piena di colori, mentre l’altra impugnava un pennello (o una spatola) in perpetuo movimento tra la tavolozza e la tela. Mi ricordai allora che ne avevo sentito parlare dagli zii e anche da mia madre. Lo chiamavano il Professore, ma i contadini della villa lo conoscevano come il Professor Pallino. Gli arrivai alle spalle in silenzio, sbirciando le immagini che si andavano formando sulla tela. Ci sapeva fare: cominciavano a distinguersi alcune colonne del portico e il fogliame verde-giallo-arrossato del caki. “Cosa ne pensi? Ti piace?” mi chiese senza voltarsi, mostrando quindi di essersi accorto della mia presenza. “I colori sono belli, li sa scegliere bene, ma la scena è piuttosto confusa, incerta.
Forse di qua non riesce a vedere bene oppure le trema un po’ la mano. Non capisco, poi, perché ha tolto quel boschetto di canne di bambù. Io lo avrei lasciato dentro.” “Dipingi?” chiese voltandosi a guardarmi con attenzione. Era buffo anche nel viso: un gran naso pieno di venuzze, le gote paffute, rosse, un paio di baffacci grigi, macchiati di giallo e sotto dei dentacci un po’ sgangherati. Ma la cosa più buffa erano gli occhialetti che aveva sopra il naso, del tutto uguali a quelli che si vedevano nei ritratti di Cavour. “No! Però mi piacciono le cose vere, la verità. Per questo mi piace scrivere!” “Interessante! E dove la scrivi la verità?” “Nel mio Diario!” dissi gonfiando il petto e avanzando fino a essere in piena luce. “Non la modifico così come fa lei, che ha tolto di mezzo le biciclette degli sfollati e le canne di bambù stentarelle!” “Allora sei un apprendista filosofo!” Per non dirgli che non capivo cosa diceva, me ne sono andato. Un giorno o l’altro gli tiro una strombolata in una delle sue chiappe cicciute.
13 settembre 1943 Mia madre mi ha detto che quel buffo pittore è un professorone di Pisa, molto famoso, lei lo conosce bene perché ha una casa vicino a quella del nonno, in Val d’Ottavo. Mi dice che potrebbe chiedergli di prepararmi all’esame di ammissione alla Scuola Media, sempre che io i bene e le prometta di voler continuare a studiare. A far compagnia alle vecchie scritte nere firmate da Mussolini, sui muri delle case, specialmente vicino agli incroci, o sui cantoni, ora sono comparse scritte in vernice bianca: KOMMANDATUR, NACH FLORENZ, ZENTRUM, FLUGHAFEN. Quasi sempre questa nuova scritta era accompagnata da una freccia o da un grosso numero. La Wermacht aveva preso possesso di tutto e informava i guidatori dei suoi automezzi, senza dover chiedere niente agli italiani.
14 settembre 1943 Un lungo corridoio buio con in fondo una vetrata con tanti tondi opachi, che spengono la luce verde che viene da un giardino. Mi’ madre, tutta agghindata alla grande signora, vestito blu scuro, cappello con veletta, trampoli di sughero neri, mi tiene per la mano, stretto, forse temendo che scappi. In fondo al corridoio ci sono le scale, buie anche quelle, nonostante che sia giorno. Siamo quasi arrivati in cima che una voce ci fa: “Sia lodato Gesù Cristo!” “Buongiorno!” dice sulle prime mi’ ma’, poi aggiunge veloce: “Sempre sia lodato!” Dandomi uno strattone alla mano. Dal buiore è saltata fori una monaca, tutta vestita di nero, con un gran velo nero e solo un sottogola bianco, come il soggolo de’ marinai, salvo che lei lo porta davanti. Per questo mi ma’ non m’aveva voluto dà spiegazioni, né di’ niente, ma io ho capito subito che quello doveva esse un convento delle suore o una scuola o tutt’e due le ‘ose insieme! Mi’ padre aveva ceduto e mi volevano mette’ in collegio! Mi sono intecchito tutto, come se fossi stato di legno, e provavo a resiste agli strattoni che mi dava mi’ madre per fammi avanzà di qualche centimetro. “Questo bel bambino è dunque suo figlio? Ha fatto bene a portarlo!” Poi rivolta a me mi chiede: “Ti piace leggere?” E, senza aspettare che rispondessi, mi conduce in una stanza dove c’era un grande armadio, sempre con la solita vetrata a tondi opachi color marrone. Era tutto pieno di libri, da cima a fondo! Fino ad allora non avevo mai visto tanti libri in vita mia, tutti insieme. Avevano un pezzetto di carta con un numero incollato sulla costola, ma il titolo si poteva leggere. Ne prende uno bello rilegato, grosso come un mattone e me lo apre davanti, chiedendomi: “Questo libro lo hai letto?” Avrei potuto rispondere no a colpo, visto che prima di allora di libri ne avevo letti proprio pochini, ma a ogni modo lessi: Le avventure di Gulliver. Sulla copertina c’era una illustrazione a colori che mostrava un gigante che si tirava dietro sei o sette vascelli a vela.
“No!” risposi in fretta e preso il libro mi misi a sfogliarlo rapidamente. “Bene! Comincia a leggerlo, mentre io e tua madre facciamo due chiacchiere nel salottino. Se ti piace te lo presto e lo puoi portare a casa!” Hai capito la furbona! Mi sedetti davanti a un tavolo e cominciai a sfogliare il libro, guardando le illustrazioni e quello che c’era scritto sotto. Il libro poteva interessarmi. Era la storia di uno che capita in un paese dove gli abitanti sono tutti piccoli piccoli e vivono in città e case a loro proporzione. Mentre ero intento nella lettura si apre la porta e si affaccia la testa di un pretino giovane giovane, guarda a destra e sinistra, mi vede e mi fa: “Ciao, cosa fai qui solo soletto?” Avrei voluto rispondergli “Cosa mi pare e piace!”, ma quel pretino aveva un sorriso così simpatico, che, per la prima volta in vita mia, mi venne fatto di rispondere la verità: “Aspetto mi’ madre che parla con la suora!” Poi però mi pentii di essere stato così remissivo e aggiunsi: “Dobbiamo decidere se questo collegio è adatto per me e la mi’ famiglia! Volevano mandammi in Isvizzera, deh, ma con la guerra adesso ’un è più possibile!” “Ah!” fece il pretino e invece di andarsene entrò dentro e venne a sedermisi accanto. Vedi, dissi fra me, come fanno la rota, questi preti, quando ni dici che sei figliolo di signori! “Scommetto che sei uno sfollato di Livorno!” “Sì!” gli risposi sostenuto, “e che male c’è?” “Nessuno! Anzi Gesù ha detto gli ultimi saranno i primi. E io accolgo quelli che hanno sofferto per i bombardamenti con più entusiasmo dei miei paesani! A proposito io sono don Giuseppe e sto facendo il giro della parrocchia per conoscere meglio le persone che la abitano. Tu dove abiti?” “Dove stavo a Livorno non c’è rimasto neppure la strada: le bombe hanno buttato giù tutto!” “No, dicevo qui in paese!”
“Non so come si chiami il posto. Sto in una bella villa con tanto di parco e giardino!” “Ho capito!” disse il pretino, ma intanto guardava con insistenza il golfino consumato ai gomiti e i sandali che erano all’ultimo lumicino. Nel tentativo di nascondere la mano con i diti mozzi, avevo messo proprio in bella vista il gomito. “Il mi’ babbo è una persona di môrto, ma di môrto importante, gli è amico di tutti gli uomini più in vista di Livorno,” gli urlai in faccia, arrossendo mio malgrado. Fino a un paio di mesi prima avrei potuto fare il nome di Ciano, ma ora, da quel che avevo capito, quer bigongio di Galeazzo aveva creato una confusione tale che non si capiva più dove si sarebbe andati a finire! Forse con le pezze al culo! Il pretino non sembrava però molto impressionato. Anzi mi disse con grande calma, come se volesse sviare il discorso: “Guarda che questo non è un collegio. Era un collegio per le fanciulle fino a una ottantina di anni or sono. Adesso è una scuola elementare parificata. Ma cosa stai leggendo?” “Un libro pieno di fandonie!” gli risposi in modo acre, mostrandogli la copertina con il titolo. “E poi deve esse’ di un inglese e io non li sopporto gli inglesi! E anche lei dovrebbe maledirli!” Gli vidi fare una faccia strana, ma mi rispose con calma: “Ah ti riferisci forse a quella bestemmia che dice: Dio stramaledica gli inglesi? E poi per l’esattezza Jonathan Swift era un irlandese!” “Perché una bestemmia? E se l’ha detta il Duce?” “Caro figliolo, Dio è padre e non può mai maledire le sue creature!” Io rimasi un po’ interdetto, ma lui cambiò discorso. “Qual è il libro che ti piace di più? Vuoi scommettere che indovino?” “Ah, sì? E dillo!” “Pinocchio. A te piace Pinocchio di Collodi!”
“Un po’ sì, un po’ no. Ma quello che ho letto tutto d’un fiato è stato Gian Burrasca! Quello sì che è un bel libro. Mentre non posso sopportare il libro Cuore!” “Guarda, abbiamo gli stessi gusti. Anch’io m’annoio a leggere il libro del De Amicis.” In quel mentre si aprì la porta a vetri e comparve mia madre che con un fazzoletto si asciugava gli occhi e subito dietro quella svampita della Madre Superiora. Mia madre si volse per abbracciare la suora, ma questa si schernì e le disse: “Vada tranquilla, vedrà che faremo tutto il possibile perché suo figlio metta a frutto quei talenti che Dio gli ha dato! Comunque d’ora in poi il bambino risponde al nome, più cristiano, di Benedetto, che sicuramente è quello di battesimo!” “Allora a rivederci, Benedetto!” fece pronto il prete. “ A proposito io sono don Giuseppe!” La Madre Superiora scartò velocemente mia madre che stava imbambolata nel mezzo della porta e andò verso il prete con le braccia aperte e con un sorriso largo come quello di una fetta di cocomero. Facendo una voce tutto miele, cominciò a dire: “Che sorpresa, don Giuseppe! A cosa dobbiamo il piacere di una sua visita? possono esserle di qualche utilità queste povere suore?” “Sono venuto per un’opera di bene, anzi due!” fece il prete, ma poi invece di continuare si voltò a guardare me e mia madre che stavamo lì fermi. Forse non voleva che sentissimo cosa complottavano tra loro. Ma io per la verità aspettavo che la suora si ricordasse la sua promessa di prestarmi il libro, poiché per la verità, inglese o irlandese che fosse, mi interessava davvero. “Vieni, Benedetto!” disse mia madre, cercando di tirarmi via con un braccio. Ma io avevo preso con l’altra mano il librone e lo mostravo alla Suora dal faccione sorridente. “Ah! Ti sei ricordato la promessa?” fece lei, un po’ meno mielosa. “Va bene prendilo, ma non lo sciupare e riportalo a scuola, dopo che lo avrai letto!”
Il prete sorrideva in un modo che non mi piaceva molto, ma in fondo mi era un po’ simpatico, anche se aveva definito bestemmia quella frase del Duce.
15 settembre 1943 Sono cominciate le vendemmie. La mattina presto si va tutti a dare una mano ai contadini del conte che vendemmiano l’uva: zia Anita, Romana e io. Lo zio Vasco va a preparare i tini alla cantina. È un lavoro che mette allegria: si sta tutti insieme, noi opre e quelli del podere, si chiacchiera, si scherza e poi ogni tanto si mangia un po’ d’uva, quando si trova una vite che ha i chicchi dolci e sodi. Le donne dicono che è l’uva dorace, che alle donne gli piace! La zia ci ha avvertito, a me e Romana, di non mangiarne troppa, specialmente a stomaco vuoto, perché dà la sciolta. Ha fatto bene a dircelo perché di questi tempi lo stomaco vuoto ce l’ho sempre! Noi tagliamo il gambo dei grappoli e lasciamo cadere l’uva nei canestri, poi li andiamo a portare sulla viottola dove c’è il carretto con le bigonce. Lì c’è uno forzuto che con un grosso batocchio schiaccia i grappoli facendone uscire il mosto. Ho provato anch’io, ma non ce la faccio. Nella bigoncia insieme all’uva ci finiscono le foglie, i bachi, i ragni e tutte le porcherie che sono sull’uva. Vasco dice che non fa nulla tanto dopo il mosto, quando viene portato in cantina, bolle e ammazza tutto. Le donne raccontano che una volta erano loro che entravano scalze nei tini in cantina a pestare l’uva. Poi si mettono a ridere e si capisce che erano cose da prima della guerra, che forse sono state proibite dal fascio. Io avrei un posto assegnato sul filare, ma mi piace andare in giro, per ritrovare o conoscere gente. Qui la gente parla più volentieri, forse perché il profumo del mosto dà alla testa, a uomini e donne e anche ai bimbetti. Poi i filari di vite, con quelle pareti di pampane, alte più di un uomo, danno l’illusione di stare protetti. Ho sentito che tanti, quelli che hanno la radio, ascoltano, di nascosto, Radio Londra, oppure Radio Monte Ceneri (che non so dove sia), che dicono cose diverse da quelle dell’Eiar. Queste Radio hanno annunciato che i paracadutisti tedeschi hanno liberato Mussolini che era prigioniero sul Gran Sasso e che il Duce è andato in Germania a parlare con Hitler e ha fatto la repubblica Sociale Italiana. Il re infatti ha lasciato libero il posto a Roma ed è scappato con Badoglio a Brindisi, da dove dice di combattere con gli americani contro i
tedeschi. La gente è molto impaurita, dice che così la guerra non finisce più. All’ora di pranzo ci siamo messi al fresco e la massaia ci ha portato un piatto di zuppa per uno. A sera a me e Romana hanno dato un sacchetto di farina gialla e un bel piggello d’uva da mettere a seccare in casa. Me lo sono meritato: mi erano venute le galle alle dita!
24 settembre 1943 Ieri notte, dopo cena, il cielo sopra Pisa si è illuminato, c’erano tanti paracadute con delle luci gialle, brillanti, sospese, che scendevano lentamente illuminando la città. Eravamo tutti fuori a bocca aperta: si vedevano i profili della Torre e del Battistero. “Bruciano tutto!” diceva qualcuno. “Quelli sono i bengala,” dicevano i contadini che avevano fatto la Grande Guerra. “Così possono vedere meglio dove bombardare!” Infatti si udiva il rombo ossessivo dei bombardieri e si vedevano le luci delle esplosioni. Però questa volta i tedeschi si erano preparati per bene e si videro dei piccoli aeroplanini attraversare la zona illuminata e scomparire nel buio, mentre le contraeree riempivano il cielo di proiettili traccianti. Guardavamo tutti affascinati, poi una cosa infuocata uscì dal buio e puntò su di noi. “Svelti, nel rifugio!” gridò Vasco, spingendoci verso una trincea coperta di terra che i contadini avevano finito di scavare nei giorni precedenti. Le donne corsero, mentre io e Romana facevamo resistenza, volevamo vedere cosa stava succedendo. “Sentite le schegge!” urlava Vasco, mentre mia madre ci tirava giù. Effettivamente sugli alberi del bosco sembrava che piovesse. Le persone che si erano ammassate là dentro pregavano a voce alta. C’era un odore forte di terra, muffa, sudore e orina. Udii un boato forte, un po’ attutito, poi un altro, forse più grosso. Gli uomini che stavano vicino all’uscita dissero che era caduto qualcosa,
forse un paio di aerei, uno più piccolo, l’altro più grosso, dalle parti di Vecchiano. Quando siamo usciti dal rifugio la brezza aveva portato odori nuovi, di fumo, di zolfo, di cenere, strani, irriconoscibili, che provenivano da Pisa o comunque dalla pianura. I bengala si erano spenti quasi tutti. Le cose sembra che stiano tornando a posto: il Duce è stato liberato dai tedeschi e ha parlato agli italiani da Radio Monaco. L’Italia diventerà una Repubblica, senza Re, e continuerà a combattere a fianco di Hitler. Rimetterà tutto a posto lui. Tanto per cominciare ha messo Ricci a capo della Milizia. Le scuole riapriranno e io dovrò tornare a scuola: mia madre dice che qui vicino c’è una scuola di suore dove mi seguiranno meglio e che mi devo impegnare per non darle altri dolori.
27 settembre 1943 Con i figli dei contadini siamo andati per i campi a raccogliere tutte le cose che hanno buttato gli aviatori. Ci sono tantissime striscioline fini fini di carta argentata, che la gente dice viene tirata dagli aeroplani americani per confondere l’antiaerea. Mi sembra un po’ strano! È vero che gli aerei in cielo sembrano piccolissimi e brillano ai raggi del sole, ma confonderli con le striscette di carta argentata! Poi ci sono tanti manifestini tricolori, scritti in italiano. È Badoglio che invita i patrioti a resistere, a non dare le armi ai tedeschi, a non collaborare. Tante belle parole, ma poteva dirle prima! Andando in giro abbiamo incontrato anche Gino, il quale ha detto ai ragazzi che se troviamo un paracadute di seta, ce lo paga un sacco di soldi. Perché durante l’ultimo bombardamento è stata abbattuta una Fortezza volante e forse qualcuno si è buttato col paracadute. Insieme siamo andati fino al Palude di Vecchiano e sul monte di Massarosa a vedere gli aerei caduti. Io per curiosità, lui per raccogliere qualche pezzo metallico utile. C’erano in giro tanti bossoli di proiettili, alcuni esplosi, altri no. Lui sa riconoscere i diversi calibri. Di guardia agli aerei caduti c’erano però dei carabinieri e impedivano di avvicinarsi troppo.
Gino m’ha fatto vedere come prendere la polvere da sparo da dentro alle cartucce senza farle esplodere, poi, sempre per istruzione, m’ha mostrato come brucia la polvere.
10 ottobre 1943 Anche Graziani ha fatto i proclami e li ha fatti attaccare ai cantoni delle strade e ai tronchi dei platani. Dice che è arrivata l’ora della riscossa, che i veri italiani debbono riscattare la vergogna provocata dal Re e da Badoglio e che tutti i giovani dai diciotto anni in su, debbono correre nelle file dell’esercito della Repubblica Sociale Italiana per aiutare gli alleati germanici a respingere gli invasori. Ne parlavano i contadini, quando eravamo a veglia, nella stalla per sgranare le pannocchie di granturco, tutti in cerchio, buttando i tutoli dentro una botte. La gente era un bel po’ abbacchiata. Le donne, invece di sgranare zitte o di cantare qualcosa di allegro, non facevano che chiedere: “E ora cosa va a succede?” Gli uomini bestemmiavano a tutto spiano: “Mondo impestato!” ; “Maremma cane!”; poi il capoccia, distribuendo una brancata di pannocchie rosso dorate da sgranare, disse: “E vogliono tornà a fà la guera, que’ puzzoni. Brutte bodde gonfie di boria!” E i bimbetti scoppiarono a ridere. Chi ha il figlio in età militare non ha tanta voglia di confidarsi con gli altri. Ognuno sta sulle sue; chiede, poi dice: “Il mio è andato da un su’ zio a Milano....”; “A à una visita a Firenze....”; “è andato a informarsi a Roma!”. Quando invece tutti sanno che l’hanno visto girare per le campagne attorno al paese. Il più chiaro è stato lo Sbrana, forse perché l’età del soldato l’ha ata da un pezzo: “Se avessi vent’anni di meno, prenderei un fucile e me ne andrei in monte. E poi vorrei vede’ se avrebbero il coraggio di venimmi a chiappà!”
15 novembre 1943 Un giorno, mentre eravamo lì senza fare niente, perché in bottega non c’era nessuno, Furio disse: “In questo paese ci sono troppi barbieri! Sono venuti su
come funghi! Secondo me mi rubano i clienti, a me che sono il più giovane di tutti e avrei più bisogno di lavorare!” Io continuavo a guardare un giornalino che faceva vedere le avventure di Fulmine che in un’isola deserta combatteva contro gli inglesi aiutato da un camerata tedesco alto, magro con gli occhiali, ma con un cervello grande come una casa e da un giapponese piccolo e astuto. “Tu, bimbo,” mi disse Furio, “sei un ragazzino sveglio e fidato. Ho pensato che potresti andare a farti i capelli da quel mio collega che sta qui nella frazione vicina. Forse avrai visto ando la bottega: un bugigattolo che non andrebbe bene neppure come pollaio per le galline! Lui tanto non ti conosce. Te vai lì e dici che sei uno sfollato e ti vuoi fare i capelli. Ce l’hai abbastanza lunghi! Ci vai un sabato, quando c’è tanta gente. Perché quel pollaio è sempre pieno. Guardi un po’ chi c’è, se ci sono miei clienti, che tipi sono, che discorsi fanno. Sai ora ce ne sono tanti che dicono male del Duce e di Graziani. Senti se parlano della guerra, se ascoltano Radio Londra. Osserva anche che prezzi fa quel balordo. Perché io penso che attiri la gente con prezzi più bassi di quelli fissati dalla corporazione!” “È inutile che ti dica di non aprire bocca. Massimamente non fargli sapere chi sei e che lavori per me! Se ti interrogano tu fai il pesce: muto!”
23 novembre 1943 Un sabato pomeriggio, sul tardi, mi presentai alla bottega del barbiere che Furio mi aveva indicato. Il negozio era effettivamente poca cosa: stretto e lungo, la porta-finestra, attraverso cui entrava la luce, guardava verso il monte, per cui il parrucchiere, con il raccorciarsi delle giornate, era costretto ad accendere la luce. Ma la lampadina era fioca e poi l’elettricità, andava via di tanto in tanto, per cui in fondo alla bottega stavano sempre (o quasi) accesi due lumini a petrolio. Sembrava di essere al cimitero! Nonostante quel buiore la botteguccia era piena di gente che chiacchierava animatamente, almeno fino a quando entrai. Smisero subito di parlare e guardarono tutti verso la porta che si era aperta con uno squillo di camlo.
“Cosa vôi, bimbo?” mi chiese un omone grande e grosso con un faccione tondo, un po’ pelato e le venuzze rosse sui pomelli delle guance, gli occhi leggermente bovini. Doveva essere lui il padrone perché aveva un camice bianco indosso e brandiva un paio di forbici. “Venivo a chiedere se mi pole fà’ i capelli.” C’erano dentro la bottega almeno cinque o sei persone, ma lui era l’unico con il camice. Non aveva quindi né aiutanti, né garzoni. Le persone erano tutte sedute: le sedie dovevano stare allineate lungo il muro di destra, ma alcuni di quegli uomini avevano spostato la sedia, in modo da avvicinarsi alla poltrona di quello che era in quel momento sotto il barbiere. “Eh, ’un ti saprei dire, gli è proprio un problema, bimbo. Vedi tutta questa gente, chi aspetta per la barba, chi per i capelli, poi c’è chi vôle che gieli lavi e si va sul tardi!” Uno di loro intanto si era alzato e mi era venuto davanti: “Ma tu di chi sei figliolo, bimbo? Non t’ho mai visto da queste parti! O dove stai?” Proprio come aveva previsto Furio: cominciavano gli interrogatori! “Non sono di qua! Sono sfollato! Sto in un posto che è chiamato Corte Davini!” La mia risposta aizzò la canizza delle domande da parte di tutta quella gente: “Sfollato di dove? E il tu’ babbo dov’è? Come ti chiami? N’hai fatta di strada per arrivà’ fin qui!” Io, invece di rispondere, guardavo attorno per vedere meglio le facce dei miei inquisitori. Il parrucchiere mi sorrideva, come se fosse imbarazzato dell’accoglienza riservatami dai clienti. “A che ora chiude? Speravo proprio di fà’ vedé’ alla mi’ mamma che m’ero fatto i capelli, come le avevo promesso!” “Non posso fare troppo tardi: è pericoloso girare a buio. Lo sai che c’è il coprifoco? ” E si rimise a dar di forbici intorno alla testa di uno di quelli zoticoni.
Avevo visto su un tavolinetto dei giornali e delle riviste. Presi la Domenica del Corriere e avvicinandomi all’altra poltrona che era libera, dissi: “Quand’è così, allora dovrò rimandare il taglio a un altro giorno. Per oggi, mi siederei qui per qualche minuto per dà un’occhiata a questa rivista, sempre che non disturbi!” Non riuscivo a capire se erano ostili o semplicemente curiosi. Sta di fatto che, non appena aprii la rivista (come al solito vecchia di qualche mese) ricominciarono le domande: “Di dove sei sfollato? Cosa hai fatto alla mano? hai parenti in paese?” Io però nel frattempo avevo riflettuto e mi ero reso conto che, per vincere la loro diffidenza, qualcosa dovevo dire e dovevo ritornare almeno altre due o tre volte. “Sono sfollato da Livorno. Le dita le ho perse per colpa dell’esplosione di una bomba. Il mi’ babbo è sotto le armi da diversi anni e ora come ora non sappiamo dove sia. Mi ospita una zia che lavora nella villa di certi signori che stanno qui lungo monte, non mi ricordo il nome!” La mia risposta doveva averli sbalestrati, perché si chetarono, guardandosi in faccia l’un l’altro. Io feci finta di mettermi ad ammirare la tavola a colori col disegno di Molino, dopo però, visto che quelli continuavano a stare zitti come tanti allocchi, ai a leggere Le cartoline del Pubblico con quelle solite barzellette melense e senza senso, che le premiavano anche con dù’ lire. “Se ne trovi una bellina, leggicela, bimbo!” disse il parrucchiere, che in fondo era il meno peggio di quegli altri. Ce n’era una discreta sui gatti neri. Gliela lessi, malgrado ci fosse poca luce. Risero quasi tutti. Poi uno di loro, uno alto e magro come la fame, disse, rivolto al parrucchiere: “A proposito di gatti, lo sai, Renato, che Moschino di tanto in tanto, quando ci si fermano a mangià’ i gerarchi, gli fa la su’ famosa lepre alla cacciatora!” E scoppiò in una risata da far tremare tutti i vetri. Gli altri gli andarono dietro! “Non vedo cosa ci sia tanto da ridere!” rispose il parrucchiere che era l’unico ad essere rimasto serio. “I gatti sono molto più puliti dei conigli. E poi, povere bestie, di questi tempi se la ano brutta. Almeno così invece di morì un po’ per volta di fame, si beccano una bella botta in testa e via!”
“Ah, Renato, Renato, come sei cambiato. Non vuoi più bene neanche ai gatti!” “Ti sbagli, sono i gatti neri che non gli garbano! Quelli non li pole vedé’!” intervenne un ometto anziano che sedeva in fondo alla bottega. Al che tutti risero di nuovo.
12 dicembre 1943 Qui vicino si è acquartierata una compagnia di ausiliari russi: sono adibiti alla cura dei cavalli e dei carri che trasportano tutte le cose che i tedeschi hanno preso prima di ritirarsi. Anche i “russi” come li chiama la gente debbono aver poco da mangiare: vanno in giro a rubare polli e conigli. Sono tutti pelati, con i capelli tagliati corti-corti, vestono divise di un color marrone chiaro che la gente chiama cacchina. I contadini del conte hanno cercato di parlare con i “russi”, che qualcuno chiama anche mongoli. Ma non sono rimasti soddisfatti e sono tornati indietro delusi. Questi russi non vogliono sentire parlare di Stalin. “No, gut!” dicono nel loro scarso tedesco e fanno brutte smorfie e sputano per terra, come se si parlasse di una cosa disgustosa. Qualcuno si a la mano sotto la gola e dice la frase che ormai conosciamo bene: “Alles Kaputt!”, ma non è chiaro a chi è rivolta o di chi parlano. I contadini dicono che sono tutti Kulaki, ma non sanno cosa vuol dire di preciso.
III
Quaderni dei temi di classe V
A questo punto, visto che Benito era ritornato a scuola, ho cercato tra i quaderni, rintracciando quello che riportava i temi da lui svolti nell’anno scolastico 1943-44, in classe V, rinviando a più tardi la prosecuzione della lettura dei suoi Diari.
Ottobre 1943
Tema: La mia famiglia Svolgimento: La mia famiglia era composta da cinque persone, adesso però siamo rimasti in quattro, perché mia nonna Libera è morta sotto le bombe, a Livorno. Abitavamo tutti nella stessa casa, sui Fossi, ma dalle nostre finestre non si vedeva il porto, anche se eravamo al quarto piano. Anche mia sorella Romana è stata bombardata e per molti giorni abbiamo temuto che non si svegliasse più. Mia madre, che fa l’infermiera, non la perdeva di vista giorno e notte all’ospedale, così è potuta ritornare, ma non a casa, perché questa è stata buttata giù dalle bombe degli americani. Il capo famiglia è mio padre, Ricciotto, che al momento del bombardamento era lontano da Livorno, perché è sotto le armi nella Milizia Fascista con il grado di Centurione. Potrebbe avere anche un grado più alto, perché ha molto coraggio ed
è stato in guerra in Spagna insieme a molti suoi amici di Livorno e di Pisa, che adesso sono ai posti più alti del Governo, ma prima è stato danneggiato dal fatto che lo ritenevano una testa matta indisciplinata, in seguito perché era stato amico di Galeazzo Ciano. Lui dice che ci sono troppi invidiosi e arrivisti che mettono i bastoni tra le ruote di quelli che, per la purezza delle loro idee, meriterebbero di essere più vicini al Duce. Mio padre è alto, forte e tenace. Ha i capelli neri, ricci, due occhi brillanti e un paio di baffetti che fanno colpo. Non ha terminato le scuole, perché ha sempre avuto tante cose più importanti da fare, ma è più intelligente di tanti suoi amici laureati e anche più furbo. Mia madre dice, invece, che è un povero scemo e non si preoccupa di cosa farà, quando questa guerra sarà finita. Quando lui si vanta di non aver studiato, lei lo colpisce in quello che sa essere il suo punto debole. “Così non ti hanno preso all’Accademia!” E lui dice che lì non ci sarebbe andato neanche morto, perché in Marina sono tutti traditori, perché hanno sempre ammirato i britannici. Mia madre è una santa donna, è di statura più bassa di mio padre, ma ben fatta e proporzionata; ha i capelli castani, lunghi, che per comodità tiene legati in crocchia sulla nuca, così può infilarsi meglio la cuffia da infermiera. A me sembra la donna più bella del mondo, ma lei dice che i dispiaceri la hanno fatta invecchiare di vent’anni. Un bel colpo l’ha avuto senza dubbio quando mia sorella è rimasta ferita sotto il bombardamento di maggio dell’anno scorso. Era in casa insieme alla nonna, ma forse stavano scendendo le scale. La nonna l’hanno trovata intatta, senza un graffio, ma morta. Hanno detto che forse è stata sbattuta dallo spostamento d’aria contro un muro. Romana, mia sorella, invece era un po’ più in là e le era caduta una soglia o un gradino sulla testa, facendole un bel buco. Le hanno tagliato tutti i capelli a zero, per operarla, e poi è stata per tanto tempo con la testa fasciata e c’è voluto del tempo perché le ricrescessero fino a coprirle la ferita. In quel periodo mia madre non ha fatto che piangere, ma non per la nonna Libera, che tanto era la madre di mio padre ed era vecchia. Piangeva piuttosto per Romana, in quanto temeva che la botta e l’operazione al cervello l’avessero rincitrullita o magari bloccata nel parlare, nel muoversi e così via. Ma per fortuna non è successo niente di tutto questo. La Madonna di Montenero ha ascoltato le preghiere di mia madre e i dottori sono stati bravi a tapparle il buco.
Adesso Romana parla, mangia, cammina come noi, anche se a me sembra un po’ imbambolata e scrive molto lentamente e con una brutta calligrafia. Un’altra cosa buffa è che a volte parla da sola, dicendo ad alta voce le cose che probabilmente pensa e che, a regola, non dovrebbe dire, ma forse le erà col tempo, crescendo. Però prima non lo faceva! Io mi chiamo Benedetto, ma per mio padre sono Benito, perché così si dice in spagnolo Benedetto. Ho dodici anni, sono alto per la mia età. Ho i capelli rossi, mi piacciono tutti gli sport (calcio, ciclismo, nuoto, pugilato, ecc), tiro con la fionda, adesso, che mio padre non c’è, sono io l’uomo di casa. Mi piace leggere, un po’ meno studiare. Non ho molti amici qui dove sono sfollato, ma mia madre dice che è meglio così, perché quelli che avevo a Livorno mi hanno fatto fare tante bischerate di cui porto il segno. A proposito mia madre si chiama Carla.
Novembre 1943
Tema: Mia madre Svolgimento: Mia madre si chiama Carla. È alta, bella e ha i capelli biondo-castani, ora li ha tagliati a caschetto, ma prima li portava lunghi legati a crocchia dietro al capo. Ho visto anche delle foto di quando non era sposata: i capelli erano lunghi come quelli delle sirene. È molto brava, sempre allegra e sorridente: non perde quasi mai la pazienza, anche se io e mia sorella facciamo di tutto per farla arrabbiare. Lei dice che ha fatto poche scuole, ma che le sarebbe piaciuto continuare a studiare, ma a me sembra che invece sappia molte cose, forse perché legge molto o forse perché è sempre in mezzo a dottori e professori, che se non ci fosse lei, ogni tanto farebbero delle bischerate. Perché mia madre lavora in ospedale e fa l’infermiera. E questo è il brutto: in quanto mi devo ricordare quando ha il turno e non sempre, quando abbiamo bisogno di lei, è in casa. Lei dice che il suo mestiere è importante, perché i dottori ano, ma poi ai malati deve starci dietro lei e convincerli a prendere le
medicine, a curarsi come i dottori hanno detto e che a questo mondo ci vuole tanta pazienza e a volte vale più una buona parola che una medicina, specialmente se questa è amara. Lei i malati sa proprio prenderli per il verso giusto e le vogliono tutti bene. A Livorno, quando andavamo a so tutti insieme, sulla terrazza Mascagni o davanti ai Quattro Mori, c’era sempre un sacco di gente, uomini e donne, che ci fermavano per salutà mi’ madre, per ringrazialla: Sora Carla, qui, Sora Carla là! Mio padre era piuttosto seccato, ma mia madre rideva soddisfatta. Mio padre faceva il sostenuto e diceva che gli italiani sono troppo mammoni e hanno sempre bisogno di qualcuno che li coccoli, ma ora ci avrebbe pensato il Duce a svezzalli e a mandalli per il mondo a conquistassi un posto al sole! Mia madre dice invece che adesso gli ospedali sono pieni di povera gente, rovinata dalla guerra, ferita, mutilata, malata, e quel che è peggio tanti giovani, che quando comincia a parlanne le vengono i lucciconi agli occhi e dice che è meglio smettere, perché altrimenti ci rattrista troppo. Penso che sarebbe meglio se mia madre non andasse più in quei brutti posti, come l’ospedale, ma poi mi viene in mente che, se non ci andasse lei, ai malati non ci starebbero certamente dietro i dottori e i professoroni.
Dicembre 1943
Tema: Quest’anno al tuo rientro a scuola hai conosciuto dei nuovi compagni. Racconta! Svolgimento: Quest’anno ho cambiato scuola, maestro (ora è una maestra) e tutti i compagni di classe. Infatti la guerra mi ha costretto a sfollare e lasciare la mia città: Livorno. Qui la scuola è dentro una casa vecchia, grande, con poche finestre e poca luce. In compenso c’è un bel giardino con al centro una vasca con una fontana e quattro palme. È un convento di suore. Per questo non bisogna fare chiasso e camminare nei corridoi in punta di piedi. Le aule sono poche e nemmeno tanto
grandi. Siamo insieme alunni di quarta e di quinta elementare. Però siamo separati maschi e femmine. I maschi a sinistra con il grembiule nero e fiocco azzurro, le femmine nei banchi a destra con il grembiule bianco e il fiocco rosa. Siamo mescolati invece tra alunni del posto e sfollati. Non ci vuole molto a capire se sei del posto o sfollato. Quelli del posto conoscono tutto e tutti, sanno le regole, conoscono le suore, sanno quelle che sono maestre e quelle che invece non lo sono, poi parlano con una cantilena particolare. Gli sfollati invece sono sempre un po’ con la testa in aria , non sanno se fanno bene o male , alcuni non hanno il grembiule, come ordinato, poi parlano in modo diverso, più schietto. Io sono nell’ultimo banco e ho accanto un grandiglione che è sfollato da Pisa, si chiama Eugenio e sa fare bene i disegni degli aeroplani. Mi racconta sempre del suo cane, che qualche volta lo accompagna fino a scuola. Invece davanti ho due ragazzi, un po’ più piccoli di me, senza grembiule, ma devono essere del paese, perché parlano senza raddoppiare le erre e dicono: “Andiamo a fare le mattie!”, per dire andiamo a giocare. Si girano sempre , cercando di copiare , e ridono come matti. Uno si chiama Iacopo e quell’altro Bruno. I più silenziosi di tutti sono dei ragazzi, arrivati più tardi degli altri, che stanno buoni buoni e hanno tutte le cose in regola: grembiule, fiocco, quaderni, libri. Sembra che però non ci siano con la testa. Anche durante gli intervalli stanno sempre insieme e non cercano di giocare con gli altri. Però hanno una bella scrittura e conoscono bene la matematica e la geometria. Uno si chiama Palermo Mario e l’altro Ferrara Giuseppe. Hanno una gran paura delle suore, anche se queste, che danno sempre degli scappellotti ai ragazzi del posto, come Iacopo e Bruno, li trattano sempre con grandi sorrisi. Io vado d’accordo con tutti, tranne che con le sfollate livornesi. Ci sono due sorelle gemelle, le Della Bartola, che fanno di tutto per farsi notare, parlano sempre e prendono in giro non solo le suore, ma anche gli altri ragazzi, specialmente quelli più grandi. Sono bravissime nel fare le imitazioni nel parlare e soprattutto i dispetti, inoltre mi sono accorto che suggeriscono sbagliato. Hanno preso di mira le bimbe e i bimbi più tranquilli, (loro sono sempre agitatissime), come ad esempio Liliana che per me è la bimba più brava e gentile di tutta la classe. Non per niente ha i capelli biondi e gli occhi azzurri, come quelli della mia mamma.
Un giorno Liliana ha trovato il calamaio riempito di pezzetti di carta assorbente e di tante altre porcherie: non poteva scrivere. Mi sembrava che stesse per piangere e così le offerto il mio calamaio, mentre le due gemelle sghignazzavano come due papere.
Febbraio 1944
Tema: Il lavoro è fonte della ricchezza nazionale. Tutti lavorano e contribuiscono al benessere del paese. Quale è il tuo contributo? Svolgimento È il lavoro che arricchisce i popoli o almeno gli fornisce quello che gli serve per mangiare. Il mio contributo non è un gran che, in quanto o buona parte del tempo a scuola. Mia madre dice che è questo il mio lavoro, però mi piacerebbe fare qualcosa per darci modo di mangiare un po’ di più, visto che adesso le carte annonarie servono a poco. Quelli che hanno le tavole sempre piene sono i contadini, ma loro lavorano sodo: si alzano la mattina presto, quando ancora non ci si vede e vanno avanti tutto il giorno, finché non fa buio. Non conoscono né domeniche, né feste comandate, grandi e piccini, maschi e femmine! Si fermano soltanto per l’Ascensione! Io ho imparato ad andare con loro, così mi fanno fare qualcosa e così ruscolo un po’ di roba da mangiare: un pezzo di pane, della polenta, una coppia d’ova, un cavolfiore, due patate, un finocchio, quando va male qualche cesto di cicerbita. Ma in fondo sono anche buoni. Mi dicono: “Mangia, rossetto, così diventi forte!” E il capoccia mi allunga una fetta di lardo o un bicchiere di vino rosso, senza farsi vedere dalla massaia, mentre la massaia di nascosto, mentre me ne vado mi dà una nocetta di burro. Il latte poi me lo fanno bere ogni volta che voglio. Io lo dico sempre a mia sorella Romana: “Vieni anche te, forse in due si ruscola di più!” Ma lei si vergogna, dice che sono sempre sporchi e mal vestiti, puzzano di stalla, sono brutti, pieni di difetti e soprattutto comunisti. Questo è vero, me ne sono accorto anch’io. Però mi chiedo: senza il loro lavoro come si camperebbe ? E soprattutto come camperebbe il Conte, che ci ha tutta questa terra, ma non è capace di fare niente e gli danno di ogni cosa la metà!
Saranno anche comunisti, ma sono anche di molto scemi! Sono convinto che mio padre che sa tante cose, non sa quanto sono importanti i contadini. Oltre che lavorare come muli, sanno un monte di cose che noi di città non conosciamo per niente. Non parlo di quelli di città ignoranti, ma anche quelli che hanno studiato. E hanno imparato tutto da sé, senza neppure andare a scuola! Un po’ ascoltando i loro vecchi, un po’ guardando gli altri contadini, un po’ osservando attentamente come la terra e le piante reagiscono al sole, alla pioggia, al gelo e alla vangatura. Io mi diverto ad ascoltarli: hanno sempre una poesia o un proverbio per tutto. Dicono che è sapienza antica. I vecchi, sia uomini che donne, sanno tutto quello che serve e lo dicono anche a me che sto lì ad orecchi ritti. Per esempio sanno che certi terreni, che loro chiamano pesanti, non debbono essere lavorati quando sono bagnati, ma neppure quando sono completamente asciutti. Debbono avere ricevuto un po’ d’acqua, debbono essere “in tempera”, così dicono. Quando il terreno è in quelle condizioni la vanga o il coltro entrano più facilmente e la terra si sgretola: gli uomini e le bestie fanno meno fatica e il lavoro viene bene. Questo fatto, importante per il loro lavoro, si ha dopo che i terreni grossi sono stati esposti al solleone durante l’estate e poi sono stati sgretolati dal gelo durante l’inverno. Ci sono poi le piante che preferiscono i terreni pesanti e quelle invece che vanno matte per i terreni leggeri. Ma dicono anche che ci sono delle regole. I terreni coltivati sempre con le stesse piante si stancano, allora bisogna metterli a riposo, oppure cambiare le piante che vi vengono coltivate. Poi sanno un mucchio di cose sugli animali: cosa dargli da mangiare, quando mungere le vacche, quando portarle dal toro, come far lavorare i buoi, i cavalli, i ciuchi. Ma di queste cose so ancora poco e imparerò strada facendo. Ecco dopo la scuola, penso che posso lavorare coi contadini e imparare tante belle cose.
Marzo 1944
Tema: Una lezione indimenticabile
Svolgimento: Sono tante le lezioni importanti che ho ricevuto in questi anni, sia a scuola, sia fuori , dalle cose che mi sono successe. Però la lezione, o meglio le lezioni, che mi sono rimaste più impresse e più mi hanno fatto riflettere, sono quelle che ho avuto all’aperto, da mio zio Domenico, quando siamo andati , con i contadini del Conte, a potare la vigna. C’ero già stato nel vigneto in compagnia di Masino e avevo osservato con attenzione quello che faceva: sembrava quasi che , prima di dare un taglio, aspettasse di leggere l’ordine scritto da qualche parte sulla pianta che aveva di fronte. Gli avevo chiesto spiegazioni, ma lui mi aveva detto bruscamente: “Rossetto, queste sono cose da grandi!”, facendomi imbufalire davvero. Sono tornato alla carica con Menico, che è stimato dai contadini, perché conosce bene le viti e i vizzati. Lui dice che ha imparato dal nonno, che ha visto tanto mondo, letto tanti libri e seguito le lezioni dei Cattedratici ambulanti. Dice così ma non so cosa vuol dire. Mi ha spiegato che le piante, che, a differenza degli animali, non possono andare in giro a cercare le cose di cui hanno bisogno, debbono trovarle tutte lì, dove sono state piantate da giovani. È per questo motivo che il terreno sotto le piante deve essere smosso e rivoltato durante l’inverno, perché così si interra bene il sugo e si favorisce l’ingresso dell’acqua e dell’aria fino alle barbe. Però, dice lui, è importante anche che le piante abbiano aria e luce sufficiente per le foglie. Bisogna evitare che la pianta, per troppa ingordigia, cresca troppo, faccia troppe foglie, che poi chiedono tanta acqua, e magari non ce n’ è, e allora la pianta soffre e può anche morire. L’uomo deve riconoscere dalla forza della pianta, quali saranno le sue possibilità future. Perciò va ridotto il numero degli “occhi” che si trovano sui rami, lasciando solo quelli giusti. Perché dagli occhi vengono i fiori e le foglie: stanno già tutti lì dentro, pronti a venire fuori. Ci sono poi altre regole: i tralci debbono essere sistemati in modo che non ci siano guerre tra le viti vicine. I tralci, che hanno prodotto, vanno eliminati; quelli giovani , che devono portare i frutti , vanno stesi sui fili e messi bene alla luce, quelli che portano gli occhi destinati a crescere, debbono essere razzati, cioè lasciando un razzolo di due o tre occhi, in modo che gli allievi siano favoriti e vadano a cercare il sole in alto.
Masino e gli altri sanno queste cose, importanti e bellissime, ma non riescono a spiegarle. Dice mio zio che, in linea di massima, bisogna lasciare a ogni vite ogni anno la stessa carica di occhi, ma star pronti a cambiarla, se la pianta mostra di aver cambiato forza. Conoscere questi segreti mi fa sentire grande.
Il quaderno dei temi di quinta classe non mi sembra che porti altre notizie importanti su Benito e la sua famiglia. Conviene quindi tornare alla lettura dei suoi Diari.
IV
Il Diario dell’anno 1944
Senza data Vezio mi ha chiesto di accompagnarlo a fare delle consegne di vino con il barroccio. È più alto e più vecchio di me di qualche anno, tanto è vero che va a San Giuliano alle Scuole Superiori, che sono sfollate lì da Pisa. Vezio si vanta di saperla lunga e racconta barzellette sporche. Sul barroccio c’erano alcune vecchie damigiane e una piramide di fiaschi impagliati. Abbiamo fatto un bel giro, che il cavallo sembrava conoscere meglio del mio amico: osterie, trattorie, signori, poi mi è sembrato che ci si avvicinasse a Pisa. Gli ho chiesto spiegazioni e lui mi ha detto ridendo maliziosamente: “Lo sai cosa è il villino?” E poiché lo guardavo con aria interrogativa, ha aggiunto: “Il villino rosa?” Poi ridendo come un matto mi ha spiegato cosa era e cosa ci vanno a fare gli uomini. “Ci fanno con le puttane, pagando, quello che non riescono a fare con le mogli!” E poi aveva aggiunto: “Tu non potresti entrare! Io entro per servizio! Vedrò di farti are come mio aiutante!” Siamo così arrivati a una villetta bianca con le persiane verdi, chiuse da una catenella. Vezio ha fermato il cavallo sul retro; sul davanti c’erano delle auto di lusso, una camionetta della Milizia e anche una carrozza di piazza. Una serva spettinata e in ciabatte ci ha aperto. All’inizio non mi voleva far entrare, ma quando Vezio le ha detto che allora doveva aiutarlo a scaricare un paio di damigiane da cinquanta litri, ha detto che andava bene che lo aiutassi io, ma che si fe alla svelta e in silenzio. Mentre eravamo nella cantinetta, sono entrate in cucina un paio di signorine,
tutte ben pettinate, con le labbra rosse e gli occhi truccati, mezze nude, avvolte da accappatoi di seta bordati di pelo colorato. Appena se ne sono andate siamo corsi alla porta che collega la cucina con le altre stanze. Da lì proveniva un gran chiasso: musica di un grammofono, risate, canzonette cantate a squarcia gola, urla. “Capisci, ora, perché si chiama casino?” mi ha detto Vezio, aprendo un po’ un’anta della porta. Scostata una spessa tenda cremisi, infilando il capo ho visto una sala bellissima con tanto marmo, specchi dorati, quadri dalle grandi cornici, statue di alabastro, divani di velluto rosa. Non ho avuto tempo di vedere altro, perché la serva mi ha tirato indietro per la cinta dei pantaloni. In quel mentre nella sala si è accesa una discussione tra alcune voci maschili. Ci siamo allontanati dalla porta, credendo che si fossero accorti di noi. Poi abbiamo capito che la discussione, prima forse scherzosa, aveva preso una brutta piega: volavano offese atroci e urla da briai. Qualche voce femminile sembrava voler invitare a calmare gli animi. Tra le diverse voci mi sembrò a un tratto di riconoscerne un paio: una irosa, sfottente, con una forte connotazione livornese, sembrava proprio quella di mio padre; l’altra un po’ in falsetto, che ribatteva colpo su colpo, che sembrava tutta quella di Furio. Possibile? In un lampo mi ricordai che era un giorno di lunedì. La porta si aprì e lasciò entrare una signorina. “Cosa sta succedendo?” chiesero a una voce Vezio e la sguattera. “La solita buriana tra embriaghi!” rispose la nuova arrivata, versandosi un bicchiere di acqua frizzante Brioschi. “Per motivi politici?” insisté la cuoca. “Magari! Xe la solita menata tra livornesi e pisani!” “Ma perché la Signora non chiama i questurini?” “Ma che vuoi che chiami: son proprio quei de’ la milizia che fan bordel!” Poi la veneta si accorse della nostra presenza e cominciò a vociare. “Dove semo finii. Fora de qui i minorenni!” E ci spingeva verso l’uscita. Io mi feci buttar fuori, anche perché la signorina era piuttosto ben piantata, ma Vezio, incominciò a gridare che prima doveva essere pagato. In questo modo persi l’opportunità di
ascoltare i rumori che venivano dall’altra sala. Però mentre uscivo rinculando, ebbi modo di vedere che dall’altra porta entravano due donne che sorreggevano un uomo che aveva tutto il viso imbrattato di sangue. Dopo un po’ di tempo uscì Vezio: era stato pagato e per di più aveva grosse notizie. Cominciò dicendo: “Com’è piccolo il mondo! Ma lo sai chi è quell’imbecille che si è beccato un bel cazzotto sul naso? È Furio, il barbiere! Quer bischero, ha attaccato a sfotte i livornesi e poi, senza sape’ con chi aveva a che fare, ha buttato là de’ commenti sulle livornesi, e in partiolare, per fassi bravo, su una infermiera sfollata nel su’ paese. Pensa che fra quei militi o ‘un c’era proprio il marito di quella infermiera. E ‘un t’ha fatto discorsi, gli ha stioccato un cazzottone sul muso che gli deve ave’ rotto la ‘anna der naso!” Intanto aveva girato il barroccio ed incitato il cavallo, che, avendo compreso che il giro era finito, trottava allegramente verso casa. Vezio era tutto allegro ed eccitato per quel frammento di scena a cui aveva assistito, tanto da immaginare anche il resto. Ripeteva in continuazione: “Varda la ‘ombinazione!” Io invece ero mogio mogio, un po’ perché non riuscivo a stabilire se il mio amico, così furbo e maligno, aveva capito o meno chi era il milite che aveva reagito alle vanterie di Furio. Effettivamente non mi pareva che Vezio avesse mai visto mio padre, né in borghese, né in divisa. Infine l’inattesa comparsa di mio padre in quel posto, così strano e fuori dalla mia immaginazione, mi aveva riempito di tristezza. Riflettevo che sarebbe stato meglio se quel giorno non fosse mai venuto e non avessi accettato l’idea di accompagnare il mio amico nel suo giro col barroccio. Avevo un grande amaro dentro e non sapevo come sputarlo fuori. Era meglio se quel giorno non fosse mai arrivato, come il 29 maggio, il 27 luglio e l’8 settembre! Intanto, pensavo, sarà meglio che non mi faccia più vedere alla bottega di Furio, per più motivi, non ultimo il fatto che non volevo tradire Renato, che mi era più simpatico. Avevo tanti pensieri, contrastanti tra loro, e così per isolarmi dall’allegria di Vezio, finsi che il dondolio del barroccio mi avesse addormentato e rimasi così con gli occhi chiusi, anche quando ci raggiunse e ci sorò strombazzando una camionetta. Per ancor un po’ ci raggiunsero le voci che cantavano gagliardamente: “Che ce ne frega della Morte Nera?”
11 gennaio 1944 Nell’ultimo tema di classe ho detto qualche bugia o meglio non ho detto in pieno il mio pensiero e tutte le cose che conosco. Non mi fido più dei grandi e comincio ad avere dei dubbi su alcune cose che raccontano: o non sono vere o non sono giuste. C’è qualcosa in quei due compagni Palermo e Ferrara che non mi convince. La maestra ha detto che sono scampati a dei bombardamenti delle loro città, mi pare abbiano detto Roma, hanno perso tutto e sono molto scossi. Sono due bambini un po’ strani: uno è lungo, lungo, secco secco, ha grandi occhi neri e quando ti ascolta è come se volesse leggerti dentro o non capisca quello che gli dici. Non scherza mai, ma è bravissimo a giocare a dama e dice anche a scacchi, ma io questo gioco non lo conosco e non lo posso dire. Ferrara ha invece proprio un accento romanesco, a volte sembra che abbia voglia di scherzare, ma poi si ferma, dice scusa, scusa, e se ne va come se tu lo avessi offeso. È vero che sono bravi in matematica e risolvono i problemi in un baleno, ma sono delle schiappe tremende nei temi di italiano. Stanno un sacco di tempo con la testa per aria, la penna in bocca, poi scrivono poche righe tutte cancellate. La maestra dice che è colpa dei bombardamenti e che sono ancora scossi. Però anche lei ci potrebbe pensare prima di dare temi come quello sulla famiglia o sulla mamma, senza sapere se l’hanno persa. Che hanno qualche problema lo deduco anche dal fatto che ogni tanto viene don Bertini a parlare con la suora che ci fa da maestra. Ora che ci penso è venuto più volte a chiedere di loro, facendoli uscire fuori di classe, forse per dargli delle lezioni supplementari. Ma non sono di religione, perché anzi, quando viene il prete a fare l’ora di religione, viene la suora ortolana a chiedere se c’è qualche bambino che ha voglia di aiutarla nell’orto. Io una volta mi sono offerto, ma lei ha indicato i due ragazzi silenziosi. Mi è venuto il dubbio che i due ragazzi non siano quello che dicono. Per sfogarmi ne ho parlato con Gino. E lui mi ha detto che potrebbero essere giudei e mi ha consigliato di non parlarne con nessuno. Sono strabiliato! Ma Mussolini non diceva che i giudei erano i nostri nemici più tremendi, gli amici degli inglesi e degli americani? Dice Gino che i tedeschi hanno un odio tremendo verso i giudei, grandi e piccoli,
uomini e donne, in tutto il mondo, li catturano, li caricano sui carri bestiame e li spediscono in Germania nei campi di concentramento, dove li ammassano come bestie e li fanno morire di fame. Questa cosa mi è dispiaciuta molto. È tremenda come quei bombardamenti che buttano giù le case e seppelliscono tutti sotto le macerie! Forse di più, perché chi bombarda può pensare che sotto la gente abbia fatto in tempo a scappare e non ci siano bambini. Qui invece i bambini li contano, li separano dalle loro mamme e poi li spediscono nei vagoni piombati. Mi sembra impossibile che i tedeschi possano fare queste cose. Non avranno mica paura dei bambini, anche se sono giudei? A volte guardo Mario e Giuseppe e mi fanno proprio pena. Ma non credo proprio che siano giudei. Credo che siano bambini sinistrati che sono rimasti poveri. I grembiuli che indossano non sono esattamente della loro misura e glieli debbono aver dati le signore della S. Vincenzo. Un’altra cosa che non ho detto nel tema è che le due gemelle livornesi si divertono a dare dei pizzicotti nelle gote e nelle gambe dei più piccoli, facendo un male tremendo. Ma non mi piace fare la spia!
18 gennaio 1944 Sono ati di stalla in stalla i militi della Repubblica Sociale, che qui chiamano di Salò, per sequestrare cavalli, micci e carriaggi per l’esercito tedesco. I barrocciai erano inferociti: “Così ci tolgono il pane di bocca!” dicevano. Solo pochi, autorizzati per servizi pubblici, possono tenere il cavallo e il carrozzino. Qualcuno ha nascosto il cavallo nella stalla delle mucche dei contadini, ma sembra che i cavalli non vadano d’accordo con i ruminanti, forse perché puzzano, forse perché stanno a biascicare tutta la notte.
5 febbraio 1944 Da un po’ di tempo le donne, specialmente quelle che hanno i figli lontani e non sono riusciti a ritornare a casa l’8 settembre, fanno la spola tra i preti, la Croce Rossa e i federali. Da questi ultimi ci vanno tuttavia, soltanto quelle che pensano
che i loro figli non siano alla macchia. Però tutte si tormentano e non sanno dove sbattere il capo. Ora hanno cominciato a dire che in un paese vicino c’è un vecchio, uno che fa le fatture, che se una gli porta una foto, qualcosa del disperso, ti sa dire se è vivo o morto e dove si trova. Beppa da tanto tempo non ha notizie di suo figlio Ugo, che era con quelli dell’Armir in Russia. Dopo la ritirata ha saputo che un bel po’ di loro sono tornati, piano piano, seguendo strade molto tortuose, chi è arrivato dalla Polonia, chi dalla Germania. Tutti mal ridotti, molti con i piedi congelati o con tante ferite e malattie, che li avevano costretti a are mesi e mesi in Ospedali di paesi del diavolo. Aveva messo di mezzo il prete, il federale, ma nessuno le aveva saputo dire niente. Aveva rintracciato uno che lo aveva visto prima della ritirata, uno che non era sicuro di averlo intravisto nella bufera tra gli scoppi delle cannonate e la neve che turbinava, ma nessuno si era preso la responsabilità di dire: è vivo o è morto. I fascisti dicevano che i russi non facevano prigionieri o se li prendevano, poi li facevano morire di stenti e di fame sulla via della Siberia. I contadini, invece, che stravedono per i russi, dicono che tanti italiani, sono stati accolti dai russi, battezzati comunisti, si sono risposati con delle russe e vivono e lavorano laggiù, in attesa che il sole dell’avvenire spunti anche in Italia. Per la Beppa, se fosse vero, andrebbe bene anche così, ma la moglie di Ugo, dice che vuol sapere qualcosa di sicuro, altrimenti non le tocca la pensione. Così si sono decise di andare dal Mago e io mi sono aggregato, se non altro per curiosità. Il Mago sta in una casaccia appoggiata al monte. Torno torno l’aia ci sono una decina di seggiole, mezze spagliate, e sopra sembra che ci stiano le madonne dei dolori, tutte vestite a lutto e col rosario in mano. Sono le donne che aspettano d’essé’ ricevute. La nipote del Mago, una giovane bruna, dà i numeri, ritira le candele e i lumini e gli eventuali regali, poi aspetta vicino all’ingresso della stanza dove lui riceve i familiari. A quel che ho capito ci sono varie offerte. Con quella più bassa il Mago fa la ricerca col pendolino, sopra una carta geografica, corrispondente al paese da dove si hanno le ultime notizie del soldato. Con un’altra offerta, se è il caso, il disperso viene cercato anche in altri paesi. Il pendolino dice non solo dove è isso, ma anche se sta bono, cunsì-cunsà o malamente. Già perché il Mago è della
Bassa e dice solo poche parole in meridionale, che la nipote traduce per i familiari. Se è il caso, aumentando l’offerta, il Mago può dire qualcosa di più sul futuro del disperso, guardando i tarocchi. Ma bisogna tornare, così come debbono tornare quelli che vogliono parlare con il morto. Fuori sull’aia le donne ano il tempo facendo le lodi del Mago, sempre per sentito dire: “A una mia collega, ha restituito l’offerta. Aveva sentito che il figliolo era defunto!” Oppure raccontano: “Le ha detto: ‘Lei si sbaglia. Suo marito non è disperso in Yugoslavia, ma in Francia’. Lei non ci credeva. Dopo una settimana ‘un le arriva una lettera da Marsiglia!” Io ero sempre più curioso e ho infilato la testa nella tenda. Dentro c’era parecchio buio, rischiarato solo da diversi lumini. Ma si sono accorti che spiavo e hanno cominciato a strillare: “O’ picciriddo no! O’ picciriddo no!” Così le due donne sono entrate sole. Mi hanno raccontato che il pendolino del Mago ha rintracciato la camicia nera Ugo in Siberia, dove non se la a troppo bene, per via delle sue idee fasciste. Hanno pagato il supplemento e le carte hanno predetto che tornerà (è uscito il carro), più forte di prima (la torre).
7 maggio 1944 Le scuole sono finite in anticipo, però abbiamo dovuto fare gli esami comunque. Ci hanno preso di sorpresa, nessuno sapeva niente degli esami, anche se è vero che la maestra ci diceva sempre: “Studiate perché poi vengono gli esami!” Io per fortuna mi ricordavo bene i brani mandati a memoria: “Addio monti sorgenti dall’acque...” e “Scendeva da una di quella soglie...” del Manzoni e poi La cavallina storna del Pascoli. C’erano delle bimbe invece che non si ricordavano niente e si sono messe a piangere come fontane! La maestra, per scusarle, ha detto agli altri maestri, venuti da fuori che se ne stavano lì dritti come due baccalà, con le loro giacchette nere e gli occhialetti da serpenti velenosi: “Bisogna capirle, con gli spaventi della guerra, i bombardamenti, la fame...” Ma non era del tutto vero, perché alcune di quelle bambine abitano da sempre qui in paese e le poesie non le hanno mai sapute!
Comunque è andato tutto bene e mia madre per premio mi ha regalato un bel libro che parla dei viaggi interplanetari di una mosca. Anche se penso che non sia vero, però ci vuole una bella fantasia per immaginare la vita su pianeti così lontani dalla Terra, come Marte, Venere, Giove... Poi è venuto l’amaro. La maestra ha detto a mia madre che dovrei dare l’esame di ammissione alla Scuola Media, perché sono bravo, ho fantasia e, se mi applico, riesco anche nelle materie difficili. Non si sa quando ci saranno gli esami, visto anche l’andamento della guerra. Ma forse a ottobre ci sarà la possibilità di iscriversi alla Scuola Media, dove vanno soltanto i figli dei signori.
15 maggio 1944 Di tanto in tanto parlo con il Professor Rovetta. So dove trovarlo e lui è contento di parlare con me. Dice che sono un ragazzo curioso e la curiosità è una buona spinta nella vita. È bene chiedersi sempre il perché delle cose, chiedere a chi ne sa di più, ma esaminare bene le loro risposte, perché a volte le loro idee sono più sballate di quello di un bambino. Mi ha spiegato che così faceva un filosofo greco, un certo Socrate, che non spiegava mai niente, ma piano piano portava gli altri a capire. Per questo lo hanno avvelenato! Mi ha parlato anche di altri filosofi e mi ha detto che molti di loro erano bravi anche in matematica e astronomia. Cercavano nei numeri la perfezione del mondo. Così con mezzi molto semplici, come corde, bastoni, pozzi, sono riusciti a calcolare la circonferenza della terra, che corrisponde esattamente a quella che oggi conosciamo. Abbiamo parlato a lungo del giardino, o almeno di quello che rimane del giardino della villa. Anche lì c’entrano gli antichi filosofi e quelli che consideravano gli elementi fondamentali della natura: terra, acqua, aria e fuoco. Questi elementi dovevano figurare nel giardino, sia geometricamente che simbolicamente. Il giardino poi doveva richiamare il cielo, quello che gli antichi consideravano il giardino celeste. Ci dovevano essere delle piante che per i loro poteri medicinali si collegavano a costellazioni celesti, volute e protette dagli dei.
L’acqua poi era la fonte della vita e perciò aveva un posto di rilievo, sia per bellezza, che per motivo di stupore e attrazione.
18 maggio 1944 Con certa gente non c’è da stare sicuri. È tornato l’ufficiale tedesco, quello delle SS. Ha detto ai miei zii che aveva un messaggio di mio padre per me, invece non era vero niente. Mi ha parlato, sì, di mio padre, ma per dire che anche lui combatte per la vittoria delle forze dell’Asse. Che in Germania stanno preparando armi terribili che cambieranno radicalmente l’andamento della guerra. Ha detto che milioni di italiani stanno combattendo, in Italia e in Germania, per il trionfo degli ideali nazisti, in modo da avere un mondo nuovo per i prossimi mille anni! Però ci sono dei ribelli che agiscono nascostamente, sabotando questi ideali. Mi ha confidato che la polizia segreta tedesca è a conoscenza che la certosa di Farneta è un covo di banditi giudei e comunisti. Sta solo aspettando di avere in mano delle prove inoppugnabili prima di fare piazza pulita. Voleva sapere da me se sono a conoscenza di gruppi di banditi badogliani annidati sulla montagna sopra a Molina di Quosa. Gli ho risposto che non ne so niente, ma ritengo che forse si tratta di giovani scappati di casa, che non vogliono fare il servizio di leva. Mi ha guardato storto, poi ha tirato fuori una pistola Lugher e me l’ha messa sotto il naso, mostrandomi come si smonta, come si carica. Io naturalmente sbavavo dalla voglia che me la desse in mano. A quel punto lui mi ha chiesto: “Benito, la vuoi una pistola vera come questa?” Io ho fatto cenno di sì con la testa. Allora lui mi ha spiegato che se gli facevo un piacere mi avrebbe dato, in cambio, la pistola. Dovevo cercare a Lucca un prete, un certo don Paolo, e convincerlo che ero un giovane badogliano e farmi dare qualche cosa di compromettente, un messaggio eventualmente, da portare a padre Egger, rettore dei frati di Farneta. Per rassicurare il prete e farlo parlare, dovevo portare con me dei manifestini stampati clandestinamente a Lucca dai comunisti badogliani.
20 maggio 1944 Ci sono andato dal prete a Lucca! Non lo so neppure io perché! Parecchio controvoglia, un po’ per ottenere quella pistola, un po’ per vedere che tipo era e se era davvero così pericoloso. La storia è però diventata più complicata del previsto. Il frate stava riparando un sandalo, così alla buona, come fanno i contadini qui da noi. E poi aveva una bella faccia, abbronzata, schietta. Continuando a lavorare si è appoggiato a un armadio a muro, poi mi ha fatto delle domande che non avevo previsto. Chi era mio padre, come lo avevo rintracciato... e così via. Mi guardava con un paio di occhi, grandi, sinceri, che sembravano leggermi dentro. Non ho avuto il coraggio di dirgli tutta la storia che mi aveva insegnato quello delle SS e così gli ho messo davanti i manifestini della stamperia clandestina. Ma dentro di me speravo proprio che non abboccasse. In quella casa c’erano meno cose che a casa mia, forse sembrava più povera, però con tanti libri, accatastati un po’ dappertutto: sulle seggiole, sotto il letto, per terra... Leggendo alcuni titoli mi è venuto in mente un dubbio, che non mi avevano tolto né Gino, né don Bertini. Quel frate così poveraccio mi ispirava di molta fiducia, tanto che gli ho spiattellato la mia domanda. Lui mi ha ascoltato, non mi ha dato una vera e propria risposta, ma alcuni argomenti su cui mettermi a pensare; mi ha chiesto se leggevo, cosa leggevo e poi mi ha regalato un librettino del Vangelo. Mi dimenticavo: quando mi ha dato il libretto mi ha abbracciato.
21 maggio 1944 È venuto l’ufficiale delle SS: mi ha chiesto subito come era andata. Si è arrabbiato molto quando gli ho detto che il prete aveva rifiutato di prendere i manifestini e non mi aveva rivelato nessun particolare interessante. Ha cominciato a dire che era andata storta per colpa mia, che non sono così bravo come voglio far credere, che sono come tutti gli italiani: a parole bravissimi, ma scarsi nei fatti. Ha preso il librettino con i Vangeli, lo ha sfogliato nervosamente, soffermandosi su alcuni punti sottolineati con un lapis rosso. Anche a me era venuta la stessa idea, non bisogna essere SS tedesca per capire che lì c’è un messaggio nascosto, ma rivolto a chi? Uno di quei brani diceva: “Ama il prossimo tuo come te stesso!” Un altro punto
segnato diceva: “Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano; benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi calunniano. A chi ti percuote su di una guancia porgi anche l’altra e a chi ti prende il mantello non impedire di toglierti la tunica”. E ancora: “Chi è maggiore: colui che siede a tavola o colui che serve?” I brani sottolineati erano un po’ troppi e quasi tutti dello stesso tenore. Ha girato nervosamente i fogli, poi ha buttato via il libretto, incazzato nero. Se ne è andato senza tante cerimonie. Spero che non ritorni più. Sono andato a raccogliere il libretto e l’ho messo da parte. Perché ha irritato tanto l’ufficiale? Certo se effettivamente tutti si comportassero come dice il libretto non ci sarebbero più guerre e nemmeno si potrebbe pensare che un popolo sia migliore di un altro! Bisogna che lo legga per bene!
13 giugno 1944 Gli sfollati fanno la fame nera. Molti di loro avevano cominciato ad andare nei campi dove il grano è quasi maturo e, fingendo di cercare cicerbite, tagliavano con le forbici le spighe con i chicchi lattiginosi, inseguiti dalle grida dei contadini inferociti, ma ora ci si sono messi anche i Mustang e gli Spitfire. Non a giorno che non ino a volo radente, mitragliando tutto quello che vedono: persone, militari, donne, camion, carretti... Nessuno si fida più ad andare in giro. Anche ieri hanno mitragliato il treno merci che portava al lavoro gli operai a Pisa. Ci sono stati diversi feriti e morti.
14 giugno 1944 La gente dice che i tedeschi hanno impiccato un pastore perché aveva tagliato un filo del telefono, che avevano steso tra gli alberi per collegare il comando con una loro postazione. Dicono che era un povero ignorante, forse ha creduto che quel filo non servisse a niente e magari a lui poteva essere utile per legare un fascio d’erba. Dice che non vogliono che venga sepolto, ma deve stare lì attaccato a un albero a marcire, quale monito per i ribelli. Ho preso la bicicletta con addosso un’inquietudine strana, un presentimento, come se qualcuno mi ordinasse di andare a vedere quel disgraziato, che magari
era sfuggito alle bombe e alle mine per andare a incappare in un ordine severissimo, che sicuramente non conosceva, visto che i pastori non sanno leggere. Di lontano ho visto quel pupazzo penzolare dall’albero, ma la cosa che mi ha attirato di più sono stati gli scarponi, militari, chiodati con dentro i calzettoni di lana bianchi, un po’ sfilacciati. Mi sono fermato di colpo! Io quegli scarponi e quei calzettoni li conoscevo! Ho alzato lo sguardo, ma il viso era deformato dalla morte, forse dalle botte. Le mani erano legate dietro con del filo di ferro. Ma non ci potevano essere dubbi: indossava un cappotto rudimentale fatto con una lacera coperta militare e aveva i soliti pantaloni sdruciti e scoloriti, che gli arrivavano al ginocchio. Non poteva essere che lui: Gino! Anche se aveva la lingua fuori e gli occhi spalancati. Sembrava quasi che sghignazzasse, sotto quella bustina unta e bisunta da aviere, che aveva recuperato certamente tra i rifiuti. Scesi dalla bici per non cadere. Le gambe non volevano più sostenermi. Perché lo avevano fatto? Perché lo aveva fatto? Lui lo sapeva a cosa serviva quel filo! Non era un pastore! Non so quanto tempo rimasi come inebetito là sotto. Poi mi sentiti scuotere: era don Giuseppe. “Lo conoscevi?” mi chiese. “Era un cenciaio! Era un cenciaio! Era un cenciaio!” ripetevo meccanicamente. “Non dire niente! Io cercherò di farmi dare il permesso di seppellirlo. Visto che nessuno viene a reclamarlo!”
21 giugno 1944 Ero ato dalla bottega di Renato, per avere sue notizie, ma è tutto chiuso e c’è una specie di manifesto mortuario, mezzo scritto a mano, che dice che il Parrucchiere, ferito nell’ultimo mitragliamento della ferrovia, è morto. Poveruomo, aspettava con ansia i liberatori! Era già messo male, perché aveva preso la silicosi quando lavorava a Pisa. Guarda un po’ se doveva andarsi a prendere un proiettile americano nel polmone buono! Almeno spero che sia morto contento! Radio Londra non fa che ripetere le ultime grosse novità: gli americani della
quinta armata hanno occupato Roma e c’è stato un grosso sbarco degli Alleati in Normandia! Guarda se uno deve morire proprio ora che si vede la fine della guerra! Noi vorremmo che tutto finisse alla svelta, ma gli americani e i tedeschi continuano a dare botte come se niente fosse. Gli dovevo riportare alcune vecchie copie della rivista Tempo illustrato. Me le terrò per ricordo di lui. In fondo eravamo diventati amici, anche se lui era per il Pisa.
24 giugno 1944 Stamattina ho trovato Romana impegnata a lavarsi la faccia con l’acqua di una bacinella che era stata fuori tutta la notte. Ieri sera la mamma ha fatto un giro del giardino e ha raccolto dei fiori di tutti i colori e delle erbe aromatiche, mettendo tutto in una bacinella. Dice che “la guazza di S. Giovanni fa guarì da tutti i malanni!” Il Prof. Rovetta ha detto che anche la sua mamma faceva una cosa del genere. Poi abbiamo parlato a lungo di tante cose: dei filosofi, della matematica, della scienza. Quando parla non ci si stanca di starlo a sentire e sembra di capire tutto. Dice che bisogna diffidare di quando al potere c’è uno solo e vuole sempre ragione. Meglio che le cose vengano discusse e ogni cervello esponga il suo modo di vedere. C’è più confusione, ma si rischia meno di sbagliare.
26 giugno 1944 In questi giorni la via del Brennero è invasa da mandrie di mucche che i tedeschi hanno razziato nelle stalle dei contadini. I soldati sono andati in giro con i fucili spianati e i contadini hanno capito che non era il caso di stare a discutere. Gli uomini incaricati dai tedeschi di portar via le bestie, consigliavano di andare a farsi fare dal Kommandantur un foglio con indicato il numero delle bestie sequestrate. Dopo la vittoria le bestie verranno rimborsate. Le mucche erano le più restie ad abbandonare le stalle, muggivano, specialmente
quando le dividevano dai vitelli, sembrava che capissero quello che stava succedendo. Tutte quelle bestie lasciano la strada piena di fatte, grosse come schiacciate. Argia e Poldina si asciugavano gli occhi con il grembiule di canapa. “E ora chi le mungerà? Povere bestie! Gli si è sciolto il corpo anche a loro!” “Quanto sei scema!” ruggiva Masino, con le mani attaccate al manico della ramazza di stipa, ormai diventata inutile. E poi aggiungeva a denti stretti: “Vi porteremo il conto alla fine della guerra. Verrà Baffone a presentarvelo direttamente a Berlino!” Un tedesco ha visto appoggiata al muro la vecchia bicicletta di Argia e l’ha inforcata tranquillamente. Argia gli è corsa dietro, ma lui, che arrancava sui pedali, ha gridato: “Nein, Deutch Kommandantur!” Ero così abbattuto che nel pomeriggio non desideravo incontrare nessuno. Quel caporale sulla bicicletta di Argia, mi sembrava il simbolo della fine. Loro vantavano armi miracolose, che dovevano capovolgere le sorti della guerra, e poi mandano dei soldati insieme a dei cavallari a prendere le vacche ai contadini e quel catorcio di bici a una povera donna. Ammazzano un ragazzo come Gino, che era tanto meglio di loro. Sicuramente più intelligente, perché non si era fatto fumare il cervello da tutte quelle promesse e da tutti quei discorsi. E ora dove andavano a continuare la loro maledetta guerra? Pensieroso mi sono messo a camminare, risalendo il letto tortuoso di un fiumiciattolo ingombro di massi. Si stava bene lì, c’era un bel fresco, un velo d’acqua scorreva tra i sassi, formando di tanto in tanto delle gore. Le sponde erano rivestite da cespugli e da piante di ontano, le cui chiome si saldavano in una specie di volta, che ostacolava l’ingresso dei raggi del sole. Nei rari punti in cui questo riusciva a filtrare tra i rami, colpendo l’acqua creava decine di illuminelli. A un certo punto ho trovato come una specie di strettoia: il fiumiciattolo si era ristretto, scorreva nel fondo, mentre le due rive stavano in alto a qualche metro di altezza. Non era un bel posto: c’era buio e stavo per tornare indietro, quando ho sentito un nitrito. Forse un cavallo era caduto in quella voragine? Mi sono infilato nel botro e finalmente sono uscito dall’altra parte, più in alto. Lì dentro un boschetto di ontani, che cresceva in una specie di isolotto, c’era legato un cavallo, che mi guardava meravigliato. Aveva finito il fieno, che gli era
stato lasciato probabilmente vicino, e adesso con la fune non arrivava più a mangiare niente. L’ho carezzato, ho sciolto la fune dall’albero e l’ho portato dove c’era della erba fresca. Scuoteva la testa allegro e strappava via l’erba con i suoi grossi denti. L’ho portato a bere e ho cercato una via di uscita più comoda. Quindi, mettendo il piede su un sasso, gli sono salito in groppa. Siamo andati in giro per il monte, più dove voleva lui, che dove volevo io. Verso sera ha cominciato a trottare verso una casa che aveva sull’aia due o tre pagliai. Nitriva e così è venuta fuori una contadina con un grembiule nero e una pezzuola in testa, che lo ha preso per la cavezza e carezzandolo mi ringraziava di averle salvato il cavallo dalla razzia. Cosa potevo fare, mica dirle che il cavallo me lo sarei portato volentieri a casa? Mi ha dato un cantuccio di pane con dentro un bel brodo di fagioli e ci siamo lasciati con tanti saluti.
28 giugno1944 La gente ha paura dei bombardamenti che i caccia americani fanno con sempre più frequenza, di giorno e di notte, in città e nei paesi. Dicono che l’unico posto sicuro è sul monte, dove non possono arrivare neppure le cannonate. Piano piano vanno via tutti: sfollati, paesani, contadini, con quelle poche cose che hanno, tanto le stalle ora sono vuote. Chi aveva qualcosa l’ha nascosto nelle cantine e nei sottoscala, murando le porte, come se i ladri non conoscessero questi vecchi trucchi.
7 luglio 1944 Si sentono delle esplosioni forti, isolate, verso Pisa, dice che i tedeschi faranno una trincea lungo l’Arno e stanno facendo saltare i ponti, proprio quelli che gli Americani non sono riusciti a buttare giù. Hanno rastrellato gli uomini per i lavori di fortificazione. Intanto i soldati si piazzano un po’ dappertutto, nelle case, negli orti, nei giardini. Le ville sono tutte prese dai comandi. Non è prudente andare in giro c’è rischio di farsi sparare dalle sentinelle.
8 luglio 1944 Una mattina ero seduto sulla soglia di casa e mi leggevo un bel libro, quando un tedescotto tracagnotto e con una certa pancetta, traversò il cortile puntando dritto verso casa mia. Tenendo la testa bassa sul libro lo osservavo sottecchi e mi chiedevo cosa cavolo poteva volere. Era un furiere, uno addetto al rifornimento delle truppe. Quando mi si fermò davanti alzai gli occhi. “Mio nome Fritz!, tu?” E con il dito indice accennava verso di me. “Ben!” risposi un po’ seccato “Strano nome Ben!” fece il soldato. Io feci le spallucce, ma lui non si smontò. Tirò fuori un portafogli unto e sdrucito e mi mostrò una foto. C’era una signora bionda, molto in carne, con due bambini, un maschietto e una femminuccia, certamente più giovani di me. “Meinen kind!” mi disse. “Tu, Ben, lascia libro e vieni con me. Andare con cavallo a cercare cibo e vino.” Cosa dovevo fare? Forse ci sarebbe scappato anche qualcosa per me, Romana e mia madre. Andammo insieme alla scuderie, dove un cosacco aveva attaccato un cavalluccio tutto pelle e ossa a un carro con le ruote gommate. Con quello andammo in giro tutta la mattina. Fritz mi chiedeva dove erano le case abbandonate dai contadini, ma non si faceva scrupolo dal fermarsi anche dove c’era gente. Lui portava a tracolla un fucile e sulla pancia una machinenpistole, mentre il cosacco era disarmato. Abbiamo caricato sul carro un paio di damigiane di vino e una preziosa damigianina di olio, trovate in una cantina abbandonata e nascosta malamente con delle fascine. Quando entrammo nella casa dei contadini, io volevo restare fuori, ma Fritz mi spinse dentro. Dovevo spiegare che cercava roba da mangiare: Cartofen, Speck, Schinken, Kase, Butter, Weinbrand. Si arrabbiava quando non capivo la parola da tradurre, ad esempio Schinken o Speck. Allora mimava la forma dell’oggetto desiderato, la sua posizione sul corpo umano, come si tagliava o mangiava. I vecchi contadini a volte capivano prima di me: “Ah, il
prosciutto! Il lardo!” Era uno spettacolo come mimava il Weinbrand. Se l’atmosfera non fosse stata piuttosto cupa, da tagliagola, ci sarebbe stato da ridere.
10 luglio 1944 Ci sono lunghe file di donne alla fontana; guardano in silenzio il aggio del carretto del tedesco. Abbiamo visitato quasi tutte le case e le cantine. Fritz ha scorto nella pianura, in mezzo ai campi, dietro a una fila di pioppi, una casetta. Vuole andare anche là. A me sembra una catapecchia, tirata su a matton per ritto, con un tetto vecchio e mezzo rovinato. Forse prima era una capanna a cui di recente hanno dato una mano di calce bianca. Il caporale ha picchiato con il calcio del fucile alla porta mezza sconnessa e dopo poco è comparso un vecchiettino, spaventatissimo, tutto scarruffato, di pelo bianco, molto rado, che sembrava non stare neppure in piedi. Il tedesco ha gridato i suoi soliti nomi, come se fe l’appello, io che stavo dietro di lui ho tradotto con un filo di voce. Il vecchio ha scosso diverse volte la testa, finché Fritz non lo ha spinto da parte ed è entrato in quel tugurio. C’erano due, diciamo così, stanze con il pavimento fatto di mattoni traballanti, forse mai murati. In una c’era un letto disfatto coperto di stracci e un paio di rozze cassapanche: una cosa da far subito pensare alla miseria nera. Nell’altra stanza c’era un tavolo, una madia piccola, alcune sedie e il focolare nero e sporco. Su una delle sedie c’era una specie di larva con la testa fasciata da una pezzuola nera, un viso bianco, con naso e bazza appuntite. Anche l’odore che veniva da lì dentro non era proprio invitante. Ciò nonostante Fritz è andato verso la madia, la ha aperta e vi ha guardato dentro. Deve essere rimasto meravigliato, perché si è rivolto verso di me e ha chiesto: “Dove dinge zu essen?” E ha cominciato a battere il pavimento con i mattoni sconnessi e rotti. La vecchina sembrava nemmeno averci visto entrare, stava lì bona, bona, mentre il marito era entrato in agitazione e sembrava voler andare dietro al tedesco, che intanto aveva ripreso la solita litania: “Alles Kaputt! Alles Kaputt!” Ed era andato in camera a buttar fuori quello che era nelle cassapanche. Le finestre erano chiuse, la scena era illuminata soltanto da un lumino su
una mensola, davanti alla foto di un giovane sorridente in divisa militare. Una bella foto, un bel ritratto. Il vecchio, sempre scuotendo la testa, levò il dito, bianco e scheletrico, verso il ritratto, poi guardandomi disse: “Mio figlio! Nostro figlio!” Io indovinai cosa non riusciva a dirmi e corsi a fermare Fritz che buttava all’aria gli stracci che stavano nella cassapanca: “Nein, Fritz, nein essen! Sohn starbe krieg! E chiusi con una pedata la cassapanca. Il caporale fece l’atto di rimettersi a posto la divisa, salutò militarmente e uscì. Restai un po’ lì vergognoso. Ma il vecchio, pur tremolando, aveva preso un bastone ed era uscito. Mi avviai fuori anch’io; era inutile parlare alla vecchietta, quella era fuori di cervello. Il vecchietto si voltò verso di me e mi fece un cenno con la mano, come per seguirlo. Poi con il bastone mi indicò la parete della capanna, imbiancata di fresco. In alto, vicino al tetto di cannicci, c’era una lapide di marmo, che prima non avevamo visto, anche se grande, forse spropositatamente grande per quella parete. La lapide, col solito linguaggio, diceva che il loro figlio era stato decorato con la medaglia d’oro alla memoria nella guerra di Etiopia. La Patria riconoscente... Come riconoscente? E dopo aver sottratto a quei poveri vecchi l’unica loro ricchezza, la Patria aveva dato un’imbiancata alla catapecchia, messo una bella lapide e, nascondendo la miseria sotto quella medaglia, era corsa via a sprecare altre vite, altri soldi in altre guerre, per dimostrare al mondo che cosa? Che anche da due poveri braccianti sommersi dalla miseria potevano nascere degli eroi? Già, come diceva la canzone che cantavamo a scuola: Stirpe di eroi!
12 luglio 1944 C’è il pericolo delle cannonate americane, sparate a caso, come quelle del cannoncino tedesco, trainato da un cavallo che si sposta seguendo la strada di lungomonte, fermandosi di tanto in tanto per sparare a casaccio, di là d’Arno, qualche cannonata. Io vado a rifugiarmi all’ingresso del rifugio, dove c’è sempre un bel freschino. Stavo lì seduto, in santa pace, a rileggere alcune delle riviste che ho ereditato dal
povero Renato, quando è arrivata la mi’ sorella Romana. Ha cominciato a danzare lì davanti, come se seguisse una musica che io non sentivo; aveva in mano un fiore, preso forse dal giardino della villa. Io volevo continuare la mia lettura, ma quella specie di babbuino che roteava sull’erba, cominciava a darmi sui nervi. Mi venne fatto di darle un’occhiata, prima di dirle qualcosa, e vidi che girava con gli occhi chiusi, o quasi, e un sorriso sulle labbra come quelli che si vedono nei quadri o nei santini sul viso delle sante e delle martiri. Mi venne proprio da ridere, ma invece strillai: “O stronza, non poi andà a prillà da un’altra parte: Lo sai che rompi? Ma tanto…” Romana continuò a girare con le braccia alzate, come se abbracciasse qualcuno, poi andomi accanto mormorò, addolcendo in un modo irriconoscibile la sua voce, di solito roca e sgradevole: “Lasciami stare, Benito, non sai cosa mi è capitato!” Ormai era impossibile continuare a leggere. Abbassai la rivista e chiesi: “Ti senti male? Cosa stai combinando?” “Guarda, non sono mai stata meglio di ora! È come se ballassi in mezzo alle stelle!” “Hai vinto al lotto?” Lo sapevo che non era possibile, ma era sempre così che diceva nonna Libera, quando vedeva qualcuno contento. “No, meglio! Ma io queste cose non le posso raccontare a nessuno e tanto meno a te che sei un bimbetto e per di più citrullo! È un grande segreto!” Ora, sentissi offendere a quel modo , mi fece venì il sangue all’occhi e ancor più la voglia di venire a conoscenza di quel segreto. Ripresi in mano la rivista, mi rimaneva da leggere solo il romanzo a puntate pubblicato in appendice. Lo avevo sempre saltato, perché il titolo mi aveva convinto poco: L’amante dell’Orsa Maggiore di un autore straniero, forse polacco. I nomi difficili mi sono sempre andati di traverso. Dalla rabbia che avevo con mia sorella, mi sono messo a leggere anche quello. Accidenti! Era proprio interessante! L’azione si svolgeva in Polonia e c’erano dei contrabbandieri che di notte avano il confine con la Russia, tutti con le pistole infilate nella cintura. Cosa contrabbandassero non era chiaro, però era una vita pericolosissima: agguati, tradimenti, spiate, sparatorie! L’eroe
principale, che raccontava le sue avventure, viene ferito e deve rifugiarsi in un mulino, dove vivono tre sorelle. Lui si innamora di una, che di notte, al buio più completo, lo va a trovare nel suo letto, dove fanno l’amore, ma di giorno lei lo guarda con distacco, come le altre. Succedono varie cose e poi alla fine il contrabbandiere capisce che la notte andavano a fare l’amore con lui, a turno, le tre sorelle, sia quella bellissima, che le altre più bruttine. Era la prima volta che mi capitava di leggere cose del genere e per la prima volta mi sentivo formicolare addosso il sangue che si andava a concentrare in un punto. Forse era questo diventare grande? Mi intrigava questa storia di una (o più?) donna bellissima che si infilava silenziosa nel letto dell’eroe. Chissà che cosa facevano. Di sicuro stavano bene perché dopo fumavano e guardavano le stelle dell’Orsa Maggiore, senza più preoccuparsi dei bolscevichi, della polizia di frontiera, degli spari. Forse potevo bluffare con mia sorella e dirle che non ero poi tanto bambino, ma anch’io conoscevo l’amore con la A maiuscola e avevo voglia di stare in mezzo alle stelle, imparando a mente alcune frasi del romanzo che mi avevano colpito!
15 luglio 1944 Il trucco funziona! Ho assunto anch’io un’aria sognante, a guardare il cielo al tramonto sospirando, a nascondere maldestramente bigliettini, a dire che ero geloso di una stella, la più luminosa. Romana, prima scuoteva la testa, dicendo che ero stupido, poi ha detto a mia madre: “Potrebbe essere innamorato!” Poi si è fatta sotto per punzecchiarmi con le sue domande: c’era qualche ragazzina che mi piaceva, come si chiamava, cosa ci eravamo detti, cosa provavo quando pensavo a lei, cosa provavo quando le ero vicino, dove ci incontravamo? Sembrava un interrogatorio di Polizia! Io le ho risposto per lo più a tono, ottenendo la sua completa approvazione, fino a che non siamo arrivati alla parte più difficile. Mi ha chiesto di esprimere i sentimenti che provavo in presenza della mi’ dama o pensando a lei. Per rendere la cosa più credibile ho inventato il meno possibile, così come mi raccomandava nonna Libera. Ho detto che il nome della dama di cui ero innamorato non lo avrei detto neppure sotto tortura, poi visto che Romana,
convintissima, diceva sì con la testa e mi carezzava, alla fine ho detto che si chiama Regina ed è la nipote del conte. Ho detto che era bellissima, dalla pelle bianca e rosa, liscia come la porcellana, gli occhi erano due stelle blu, i capelli, fini come la seta, color ambra dorata. Romana diceva che sì era una discreta bambina, ma che io evidentemente la vedevo con occhi da innamorato. Il brutto è arrivato quando dovevo raccontare cosa ci eravamo detti e soprattutto cosa provavo. Mancavo di materia prima autarchica: dovevo andare a pescare qualcosa dal libro del polacco, con la speranza che valesse anche in Italia, senza avere la possibilità di verificare di persona. Una delle cose che mi preoccupavano grandemente era che mi mancavano alcune puntate del libro, pubblicate probabilmente nei numeri della rivista che non erano in mio possesso. Tutto questo confluì in alcune clamorose gaffe o inesplicabili dimenticanze. Romana, malgrado tutto, non è scema: ha capito che quella non era farina del mio sacco e che quando abbassavo la testa, non era per modestia, ma perché avevo bisogno di rileggere il mio testo-guida. E ha voluto che le raccontassi la storia di quel libro. Il racconto le ha fatto un brutto effetto: si è messa a piangere. Diceva: “È proprio come la mia storia! Anche da me la notte viene un innamorato che poi durante il giorno mi respinge e non mi guarda neppure!” Io invece trasecolavo alle parole di Romana: qui dalla zia dormiamo tutti e tre nella stessa stanza e non ho mai visto né sentito arrivare qualcuno né dalla porta, né tanto meno dalla finestra, come dice lei. Se poi entrasse qualcuno dalla finestra dovrebbe essere agile come Tarzan, perché la finestra è quasi a tre metri da terra! Le ho fatto altre domande, ma lei insiste nel dire che il suo innamorato viene solo quando è sicuro che io e la mamma dormiamo profondamente e che noi di certo non ci svegliamo neppure se lui tira i sassolini contro i vetri per svegliare lei. Ma quali sassolini, se non ci sono neppure i vetri! Queste obiezioni fecero andare su tutte le furie Romana. Solo con difficoltà sono riuscito a farmi dire il nome del suo innamorato segreto. Si tratta di una delle persone più potenti del gruppo di Comando tedesco: nientemeno che l’austurmfurer (o una cosa simile) delle SS Eric Muller! Povera Romanina, non solo matta, ma anche scema!
23 luglio 1944
Ormai il turco, o cosacco che sia, ha imparato tutti i miei nascondigli. Quando non è in servizio viene e vuole che andiamo da dei contadini che stanno vicini alla villa e hanno dei fiaschi di vino nascosto. Si siede, si slaccia il cinturone, e poi si mette di impegno a bere, come se fosse acqua. Gosto, il padrone di casa, dopo le prime paure, adesso ha preso confidenza e di tanto in tanto lo rimprovera. “Vassili,” lo chiama così, “non bere più, ti fa male, poi Fritz ti mette in prigione!” Il turco ride e scuote la testa. Io faccio per andarmene, ma lui dice: “No, Ben, tu stare qui, così dopo mi fai ritrovare strada!” Una di queste sere il turco ha detto a Gosto. “Tu, ricordi me mio iman! Stessi capelli bianchi, stessi mustacchi, stesso colore faccia.” Effettivamente Gosto ha una faccia tutta solcata di rughe e cotta dal sole come se fosse di terracotta. Gosto fece per levare dalla tavola il fiasco (era il secondo), ma l’altro disse: “No, iman, no! Lascia vino! Nostra religione vieta di bere vino, ma io ormai fuori, lontano da religione!” In quel mentre entrò nella stanza il Prof. Rovetta. Forse aveva sentito le voci, forse aveva bisogno di qualcosa. Quando Vassili vide sbucare dal buio e avanzare verso il chiarore della candela accesa sopra il tavolo la testa spelacchiata del professore, si alzò in piedi, facendo una faccia come spaventata. Forse non lo aveva visto prima di allora. Barcollando alzò una mano come a intimare l’alt al professore, mentre con la sinistra cercava la cintura che aveva lasciato appesa alla sedia. “Tu, giudeo! Tu giudeo!” andava ripetendo. “No, no lui Professore, vero professore!” disse Gosto che per primo si era reso conto che le cose si stavano mettendo male per il professore a causa dell’equivoco. Il poveruomo era rimato impietrito in mezzo alla stanza, con un sorrisetto scemo
sulle labbra. “No, io no juden!” Di solito Vassili se ne va dopo aver preso una bella ciucca, ma l’altra sera, dopo aver visto il professore, non voleva più andarsene, voleva stare lì a dormire sul tavolo. Parlava in una lingua strana. Dalle poche parole che si capiva, diceva che non voleva tornare con i suoi kameraden, il suo solo amico era Gosto, a lui voleva aprire il cuore. Poi si rivolgeva al professore e diceva che era in grande pericolo: “Gefahr, alles juden kaputt, alles todt, alles rotte...” E imitava con le mani e la bocca gli spari di un mitra o una mitragliatrice: ta, ta, ta. Finalmente il professore credette di capire qualcosa e disse: “Ja, ja! Dove? Wo?” Il russo sorrise e cercando di aprire gli occhietti assonnati disse parole confuse in varie lingue, facendole precedere da strani segni della mano, forse come a dire silenzio. Anche se noi lo guardavamo attenti, solo il professore sembrava capire qualcosa. Poi crollò giù, come se finalmente ora potesse dormire. Noi insistevamo con il professore perché ci dicesse cosa aveva capito, ma lui si tolse gli occhiali, si coprì gli occhi con le mani, ma continuò a tacere. “Forse voleva dirci cose che sarebbe meglio per lui non ricordare! E allora perché insistere? Andiamo tutti a dormire!” Poi fece cenno a Gosto: “Sarà bene metterlo a dormire fuori, sotto il portico. Non si sa di che umore si sveglierà domani mattina! Io consiglierei di sparire per qualche giorno. Questa è gente pericolosa, completamente nelle mani dei nazisti. Non può o non vuole tornare indietro!” Mentre ci avviavamo verso la villa, il Professore mi disse: “Io, lo avrai capito, sono una persona prudente, non mi piace infilare la testa in bocca al leone: domani me ne torno nella mia casa in Lucchesia”. Io tornai alla carica, chiedendo che cosa aveva capito del discorso del russo. Il Professore scosse la testa, poi disse: “Diceva che era un grande segreto, a casa sua, lontano lontano, in un bosco vicino al grande fiume c’è una montagna di morti: Juden alles kaputt!” “E dove è casa sua?”
“In Ucraina, dalle parti di Kiev!”
25 luglio 1944 I tedeschi con lentezza continuano a fare i bagagli, mentre gli americani non si decidono a are il fiume. Hanno lasciato che venissero minati tutti i ponti. Sembra che non sappiano come è la situazione da questa parte dell’Arno e che non ci sono più soldati tedeschi, ma solo un cannoncino che a intervalli stabiliti esce allo scoperto e spara qualche colpo di là d’Arno, dove casca casca! Eppure gli americani hanno la possibilità di tenere tutto sotto controllo, perché c’è la cicogna, un aereo piccolo e leggero, che viene a spiare cosa succede da questa parte. Sono tornato a vedere le viti che ho potato lo scorso inverno con mio zio Menico. È tutto cambiato: non c’è più traccia dei tagli; tutto sembra che sia andato a posto da sé. I butti con i grappoli si aggrappano ai fili, mentre quelli che vengono dai razzoli si arrampicano su per le canne coi viticci. I tutori hanno ripreso a germogliare. Forse anche per noi, ato il fronte, succederà la stessa cosa.
Le altre pagine del Diario sono bianche. C’era però un quadernetto nero, smilzo, un po’ squinternato. Al centro della prima pagina c’era scritto: Prosecuzione del Diario 1944 di Benedetto Ucciadi.
V
L’ultimo quaderno
L’ultimo quaderno risultava un po’ malmesso, in quanto era evidente che qualcuno aveva strappato delle pagine, forse perché si trattava di un quaderno già usato e poi destinato ad accogliere il Diario di Benito nei giorni successivi al luglio1944. La prima pagina utile portava, a stampatello, la scritta sopra ricordata:
SEGUITO DEL DIARIO DI GUERRA 1044 DI BENEDETTO UCCIADI
Val d’Ottavo, senza data Non so se sia stata propriouna buona idea questa di tenere un diario di tutto quello che mi succede. Mi sforzo di non essere superstizioso, ma da quando ho cominciato a scrivere, su di me e sulla mia famiglia sono rovinate addosso le cose più gravi e più tristi: mi hanno bombardato la casa, ammazzato la nonna, rincitrullita la sorella e poi ora da ultimo, come se non bastasse, quella poveretta se n’è andata in mezzo a tanti patimenti. Lo so che non è colpa mia, né della mia cattiveria, né dell’idea bislacca di scrivere tutto quello che vedo e mi a per la testa, come mi hanno detto che fanno i grandi uomini, a cui naturalmente accadono grandi avvenimenti. Forse quello che mi accade non interessa nessuno, non ha niente di grande, però,
mondo cane, mi fa star male, mi fa soffrire e fa soffrire le persone che mi sono care. Io non ci ho colpa, ma qualcuno se la dovrà prendere la colpa di questa guerraccia infame, che prende la gente, la stritola, la biascica e poi la sputa! Così è successo a noi: livornesi, pisani, lucchesi e chissà quanti altri mai, che io non conosco e non conoscerò mai. La chiamano guerra mondiale, perché qualcuno vi ha trascinato dentro, con le buone o le cattive, centinaia di popolazioni sparse su tutta la terra. Sto cercando di mettere ordine nel mio cervello a tutti i fatti che ci sono caduti fra capo e collo, per vedere se c’è qualcosa che ho sbagliato e che potevo evitare che accadesse. E la stessa cosa che penso stia facendo la mia mamma, che da qualche giorno mi viene dietro come un fantasma. Ma come potevamo evitare che il cervello di Romana prendesse quelle strade che ha preso? La sola cosa era evitare che lì ci fossero i tedeschi con la loro ferocia oppure gli americani con le loro bombe oppure che Mussolini e i fascisti decidessero di svegliare la bestia feroce che sonnecchiava da una ventina di anni! Ma se il suo cervello era andato, come deve essere il cervello di quelli che si ostinano a uccidere, fucilare, bombardare credendo pazzamente che la guerra dia un risultato buono? Non so come fare per sopportare tutte le cattiverie che ho visto e le paure che abbiamo avuto, io e mia madre. Non siamo riusciti a trovare un dottore per mia sorella, nonostante perdesse sangue e fosse gravemente ferita. Siamo corsi a bussare a tutte le porte. Ci hanno risposto che il dottore non c’era o era a soccorrere qualche ferito oppure era stato preso dai tedeschi o se ne stava nascosto, visto che adesso stanno prendendo tutti gli uomini e li portano via. Mia madre non s’è persa d’animo: ha tamponato la ferita, la ha fasciata, poi abbiamo messo Romana su un carretto e siamo partiti, io a una stanga, lei a quell’altra, verso Molina, dove dice c’è un ambulatorio. A Pisa, ha detto, è inutile pensare: la ferrovia è interrotta, gli americani con i loro caccia mitragliano le strade e bombardano di tanto in tanto con i cannoni la parte nord della città, proprio dove c’è l’ospedale. Mia madre non piangeva più, di tanto in tanto faceva fermare il carretto per vedere se Romana si era ripresa, ma lei continuava a lamentarsi. C’era con noi
anche la zia Anita, perché lo zio Vasco, che ci ha procurato il carretto, si tiene nascosto per non farsi prendere dai tedeschi. Dice che hanno messo un bando per cui tutti gli uomini tra i quindici e i cinquant’anni, che non si presenteranno al Kommandantur o al Comune, entro la data fissata verranno immediatamente fucilati. Io non ci rientro, ma a mio zio gli manca poco a cinquant’anni! I suoi fiaschi di vino sono però valsi a qualcosa: dice che qualcuno lo ha avvisato di sparire. Come se fosse semplice a un omone così grosso di sparire! Molta gente, sia sfollata dalla città, che qui dei paesi si è rifugiata in monte! Un po’ per non essere accoppata da qualche cannonata dai liberatori, ma anche per sfuggire a questi bandi tedeschi. Loro dicono: noi s’era in monte, di bandi di convocazione per il lavoro obbligatorio non se n’è visti. Ma i tedeschi non sentono discorsi! Mandano in giro dei reparti di SS che rastrellano e fucilano quelli che cercano di farla franca. Dice mia zia che è giunta voce che, quando sono arrivati gli americani all’Arno, i tedeschi hanno ordinato a tutti quelli che si trovavano a meno di cinque chilometri dal fiume di allontanarsi subito, per non intralciare le operazioni di difesa e per non correre rischi. Abbiamo infatti visto anche noi arrivare colonne di gente disperata con bici e carrettini carichi di valige e sacchi. E i caccia americani li mitragliavano dall’alto, pensando che fossero truppe tedesche. Alcuni di questi profughi hanno raccontato che vicino a Pisa, proprio sull’Arno, a S. Biagio i tedeschi hanno trovato una ventina di contadini (soprattutto vecchi e donne) che si erano nascosti, credendo che nessuno andasse a cercarli. Non sono stati a sentire scuse: li hanno ammazzati tutti dentro la chiesa! I vecchi dicono che quando un esercito fa queste cose è perché si prepara all’ultima resistenza: forse i tedeschi trasformeranno l’Arno in una linea di difesa, come fecero gli italiani con il Piave. La strada era quasi deserta: le porte e le finestre delle case chiuse, di tanto in tanto ava qualche auto o moto tedesca a gran velocità. Mia madre ha strappato un pezzo del lenzuolo che ricopre Romana, ci ha fatto sopra una croce con il suo sangue e poi lo ha legato a un bastone e mi ha detto di andare cinque o sei metri avanti al carretto, tenendolo bene in vista, specialmente quando
ano gli automezzi. A un certo punto abbiamo trovato una colonna di uomini che marciavano incolonnati a due a due, lungo la strada, affiancati da soldati tedeschi armati fino ai denti. Ci siamo dovuti fermare da una parte. Mia madre chiedeva se c’era un dottore, ma un ufficiale la ha minacciata con la pistola e poi ha detto: “A Lucca!” Allora abbiamo capito che quelli erano uomini rastrellati in monte. Saranno stati più di cento: erano tutti piuttosto mal ridotti, senza valige, mal vestiti, alcuni anche feriti. Tutti si lamentavano, piangevano. Poco più in là un ufficiale ha fatto una specie di selezione e ha messo da parte quelli che dicevano di non poter camminare. “Verrà un camion a prendervi! Andrete qui vicino, a Nozzano!” Abbiamo scambiato alcune parole con quelli rimasti. Ci hanno detto che li hanno presi sul monte sopra Molina, alla Romagna. C’era una specie di villaggio di tende e capannette di fortuna. Durante la notte i tedeschi li hanno accerchiati e poi buttato all’aria quei rifugi. Dicevano di cercare armi e partigiani, ma poi hanno preso gli uomini e li hanno portati giù dal monte. Mia madre voleva stare lì ad aspettare i camion. “Forse,” diceva, “a Nozzano c’è un medico!” Ma mia zia che guardava attentamente la faccia dei tedeschi di guardia e il berretto nero con la testa di morto, si è imposta: “No!” ha detto a bassa voce. “Qui ci puzza troppo di morte. Andiamo avanti qualche santo ci aiuterà!” Le preghiere servono davvero! Nel paese successivo ci hanno finalmente indicato la casa di un dottore che lavora a Lucca e ha tutti i permessi del Comando tedesco per spostarsi di giorno. Ha dato un’occhiata a Romana, ma ha detto che ha perduto molto sangue per un’emorragia interna. La ferita sembra piccola, ma è profonda. La pallottola o la scheggia è arrivata dentro e ha leso gli organi interni. Ci ha detto che l’avrebbe portata a Lucca, tanto più che deve andarci con un altro malato grave, anche lui in pericolo di vita.
agosto 1944 Lo avevo capito che il cervello di mia sorella, dopo che le bombe lo avevano aperto e i professori ricucito, non funzionava più bene come prima. Lei ava da un’espressione ebete, quando era chiusa dentro i suoi sogni, a quella feroce di
quando io o la mamma la contrastavamo per farle capire che la realtà era diversa da quello che lei immaginava. Per lei non c’era più guerra, miseria, crudeltà, ma un mondo pieno di cavalieri, principi, balli, inchini... Un mondo in cui i lupi dormivano pacificamente con gli agnelli, i poveri con i ricchi, i potenti con i deboli. Ma a noi questo non sembrava pericoloso, pensavamo di riuscire sempre a proteggerla. D’altra parte se non ci mostravamo apertamente ostili, lei si confidava tranquillamente, anzi aveva bisogno di confidarsi con qualcuno. Aveva un cervello pieno zeppo di sogni, che bollivano e premevano come i fagioli messi a cuocere dentro una pentola piena d’acqua. Ci eravamo accorti che nel suo cervello non c’era differenza tra quello che sognava e quello che era il mondo reale. Le prime volte che mi ha raccontato che la notte il Capitano delle SS l’andava a trovare nella sua camera non riuscivo a capire. Dormivamo entrambi nella stessa camera, come era possibile che Muller entrasse dalla finestra, dopo aver lanciato sassolini e andasse a inginocchiarsi ai piedi di Romana? Possibile che fosse così scemo? E io possibile che dormissi tanto profondamente da non accorgermi di niente? L’Hauptsturmfuhrer Muller era il più bello degli ufficiali tedeschi: alto, biondo, atletico con quel viso magro, affilato, gli occhi gelidi. Non lo avevo mai visto fare un gesto di gentilezza o cordialità verso nessuno di noi. Leggevo benissimo nei suoi occhi il profondo disprezzo verso gli italiani vigliacchi, che avevano tradito Mussolini e i camerati tedeschi! Anche Romana, che non si rendeva conto di quanto la ferita alla testa avesse bloccato sul suo volto una specie di sorriso vacuo di bambola, si meravigliava che il suo ardente innamorato notturno, di giorno non la degnasse neppure di uno sguardo. Povera ragazza, ava ore a disporsi i capelli in modo da coprire la cicatrice della operazione. Cicatrice che il chirurgo, secondo mia madre che aveva visto la ferita, aveva ridotto al minimo indispensabile. Di lontano non si vedeva gran che, ma, vista da vicino, si capiva il motivo di una certa rigidità del volto. E poi si provava quei pochi golfini che aveva rimediato nello sfollamento, ora con un fular, ora con quell’altro e poi univa quegli straccetti con delle spille, guardandosi e riguardandosi nello specchio: davanti, dietro, di profilo! All’inizio la prendevo in giro, poi visto che si arrabbiava come una gatta feroce, avevo lasciato perdere. Nostra madre mi aveva detto che le ragazze fanno tutte così, specialmente a quell’età. Lei, quando si sentiva pronta, andava a mettersi
vicino al cancello della villa, oppure sopra una delle grosse palle di marmo che sono ai due lati dell’ingresso, dove c’è sempre un paio di soldati di guardia. Tornava a casa tutta inviperita (a volte credo che la mandassero via): “È ato e non mi ha neppure guardato! Stanotte, quando viene a pregarmi di lasciargli baciare la manina, glielo dico io cosa penso. Non è questo il modo di trattare le propria fidanzata! Perché si vergogna di farsi vedere fuori insieme a me? Forse perché lui è un capitano tedesco e io una ragazza italiana? E allora perché viene a raccomandarsi, a dire che non può vivere senza di me, che sono cattiva a non dargli più confidenza”. Probabilmente la ferita che ha riportato nel bombardamento di casa nostra, a Livorno, gli deve aver lesionato un po’ il cervello. I dottori l’hanno curata, ma lei non riusciva più a distinguere quello che sognava da quello che le succedeva di giorno.
Senza data Ora quella mattina d’agosto, (ho perso il conto dei giorni), ci corsero a chiamare, mentre eravamo tutti dentro il rifugio, perché gli americani avevano ripreso a martellare la zona di cannonate. “Correte, correte, c’è la bimba in un lago di sangue!” E noi si corse fuori per andare dove ci indicavano, verso la villa. Infatti Romana era lì per terra, tutta mézza di sangue, non parlava per niente, non c’era verso di capire cosa era successo. La mi’ mamma, tirò fori dalla sua borsa medica quello di cui aveva bisogno e cominciò a medicare Romana lì per terra. Fece qualcosa, ma poi, visto che il sangue che usciva dalla ferita era parecchio, le mise un tampone e poi si risolse a portarla a un pronto soccorso. Le nostre peripezie lungo la strada le ho già raccontate. Ma la tragedia non era finita. Sul furgone del dottore c’era posto solo per Romana e mi’ madre, perché c’era già un malato e suo padre. Scoprimmo così che il malato era Vezio, il figlio del vinaio. Aveva una bella infezione di tetano e il dottore diceva che soltanto all’ospedale potevano cercà di
salvallo. Così partirono e io dietro, o o, con la mamma di Vezio, perché la zia Anita, tornò indietro. Strada facendo la povera donna mi raccontò che era diverso tempo che Vezio non stava bene, che gli era presa una rigidità ai muscoli del braccio, poi del collo e ora anche quelli della faccia e della mascella. Non riusciva ad aprire bocca, neppure per mandare giù un po’ di brodo. Avevano interpellato un guaritore e lui aveva detto che alla loro famiglia era stato tirato un malocchio, forse perché si arricchivano vendendo vino anche ai tedeschi. Quando l’aveva visto il dottore si era messo le mani nei capelli e aveva detto che quello era quasi di sicuro tetano e c’era poco da scherzare, c’era anche da tirarci le cuoia. La donnetta un po’ piangeva, un po’ rideva, forse era contenta che il dottore avesse finalmente capito il male misterioso che da un bel po’ aveva preso il figlio e che ora lo portasse a Lucca, all’ospedale, dove era sicura che lo avrebbero guarito. Mi chiedeva di Romana, ma io non sapevo dirle niente. Non sapevo se era stata colpita da una scheggia di qualche cannonata, oppure se le avevano sparato i tedeschi o i partigiani oppure se si era sparata da se. Effettivamente fino ad allora non ci avevo pensato, l’importante era che si salvasse. Ma mia sorella non ce l’ha fatta. Quando abbiamo ritrovato mia madre all’ospedale, in una confusione tremenda, mia madre aveva finito tutte le sue lacrime e Romanina era sotto un lenzuolo. L’abbiamo dovuta seppellire lì a Lucca, non c’era possibilità di riportarla né indietro né avanti, a Montigliano, come voleva mia madre. Continuavano ad arrivare colonne di deportati, correre camionette. Ascoltando i discorsi della gente ho imparato che i posti peggiori di Lucca sono: S. Giorgio, la Pia Casa, Porta Elisa. Dopo siamo venuti a Montigliano a portare la notizia al nonno.
Montigliano agosto 1944 M’è ata la voglia di scrivere. Mi sento giù, anche se capisco che dovrei dire qualcosa alla mamma, che siede vicino al pozzo, per ore e ore, in silenzio. L’unico che ci tiene su è il nonno, che cerca di scuoterci, inventando qualcosa. A me propone degli acchiapparelli, ma con la mamma è dura. Mi dice che dovrei fare la vedetta, andare in cima al campo, che sta a picco sulla strada e guardare
se dal fondo valle salgono uomini o camion. La sua preoccupazione adesso è Domenico, spera che non lo prendano. Ho trovato un librettino dei Vangeli e lo leggo con attenzione. Se la gente seguisse scrupolosamente quanto hanno scritto i discepoli di Gesù, non ci sarebbero più né guerre, né lotte per il potere e la ricchezza. Che mondo sarebbe!
Montigliano, agosto 1944 Ero uscito dall’ospedale, avevo preso la bicicletta e stavo andando a casa, quando mi sono imbattuto nel babbo che mi ha detto: “Dove vai a quest’ora? Non hai fame? Andiamo in trattoria! Ne conosco una qua dietro, dove si mangia in modo favoloso!” “Ma ce l’hai i soldi, babbo?” ho chiesto. “Non ti preoccupare, è un camerata, mangeremo solo quello che potremo pagare!”. Era vero, dietro l’angolo c’era una trattoria, però era piena di gente in un modo che non ne avevo mai visto una così affollata prima di allora. “Come mai tutta questa gente?” ho chiesto all’oste che ci faceva strada allegramente, spingendo qua e là le persone che si urtavano, vociavano, ridevano come impazziti. “Non lo sai che è finita la guerra? Tutti hanno voglia di mangiare e stare allegri.” ammo per diverse stanze piene di tavolate, dove la gente mangiava e bociava a voce alta. Finalmente c’era una stanza vota con una tavola libera, ma non era una stanza, bensì un cortile coperto da un pergolato di uva. Aspettavo che il cameriere mettesse la tovaglia alla tavola, quando cominciarono ad arrivare i vassoi con il mangiare. “Mangia,” mi disse mio padre, “non aspettare che portino la tovaglia e le posate. In questi giorni c’è un po’ di confusione in cucina.” Io guardai il vassoio che avevano portato, ma non riuscivo a capire cosa ci fosse
sotto una salsa rossa e densa. Dovevano essere pesci o forse molluschi, ma di un tipo che non avevo mai visto, o meglio avevo visto solo sul dizionario. Erano molluschi grossi, stranissimi. “Vengono dalle colonie!” disse mio padre. “Ma non le avevamo perse?” chiesi io un po’ stupefatto. Guardando meglio nel vassoio per prenderne uno, vidi che quei cosi strani, col guscio e i tentacoli, con una specie di testa piatta, si muovevano. Mi sembravano proprio quei molluschi dal nome strano che il dizionario diceva vivessero nei mari del Nord. “Non fare lo schifiltroso!” disse mio padre e me ne rovesciò un bel po’ nel piatto con una bella dose di sugo denso e sanguinolente. Io presi il coltello e osservai mio padre che ne apriva uno e ne trangugiava il contenuto. Intanto la stanza si era riempita. Era entrati dei contadini e una donna, che poi riconobbi essere mia sorella. Stavano lì, prima in piedi, osservandoci con attenzione, poi sedettero sulla nostra panca, tutto attorno al tavolo, ma ci rassicuravano, dicendo :“Non preoccupatevi, tanto noi non mangiamo.” Poi il proprietario cominciò a portare un monte di piatti con dentro tutti i tipi di pesce. C’era il polpo lesso, le triglie in salsa, una montagna di pesci fritti, il muggine arrosto e così via. Metteva in tavola i piatti e io guardavo preoccupato mio padre, facendogli cenno per chiedergli: ma che significa? Lui sempre a gesti mi invitava a mangiare e a non preoccuparmi. A un certo punto il bambino piccolo, che era in collo a Romana, prese a piangere e cercava di afferrare un pezzo del pesce che stavo mangiando. Mi andò via di colpo la fame. “Ma non lo vedete che ha fame?” chiesi agli altri che si stringevano intorno al tavolo e intorno a me. Ma loro fecero un gesto significativo, come dire: “Va bene e che ci possiamo fare?” Mi prese una rabbia tremenda, rovesciai un vassoio sulla tavola e poi tutti gli altri, mandando in giro, cozze, orate, muggini, seppie, polpi. “Se non mangiano loro non mangio neppure io!” dissi, rivolgendomi a mio padre
o all’oste, non ricordo. “Tanto la guerra è finita e non mi importa più chi ha vinto!” Tutti avevano cominciato ad afferrare i pesci e a portarseli alla bocca, senza dire niente, però mi pareva di sentir dire: “Facciamo come vuole Benito, così non si arrabbia!” Poi mi accorsi che accanto a me c’era mia nonna Libera, che mangiava con grande appetito e il sugo le gocciolava giù per tutto il mento, però gli occhi le ridevano. “Così si faceva ai tempi dei garibaldini,” diceva, “si mangiava tutti grandi e piccini... con le mani.” Guardai mio padre. “Ma nonna non era morta?” volevo chiedere, ma mio padre non c’era più. Fu così che mi svegliai! Che strano sogno. Se fosse stata ancora viva mia nonna Libera, forse ne avrebbe tratto dei numeri da giocare al lotto. Il Professore Rovetta mi disse una volta che i sogni hanno una loro logica, un loro significato, così almeno sostiene un professore austriaco ebreo. Ma questa idea non viene accettata da chi comanda in Germania e sostiene che gli ebrei sono tutti pazzi o degenerati. Nella Bibbia ci sono tanti sogni mandati da Dio, ma qui si tratterebbe di qualcuno che è dentro di me e che, a mia insaputa, si diverte a mescolare le carte e a farmi pensare cose che altrimenti non penserei. Infatti sono anni ormai che non faccio una bella mangiata di pesce. Non mi ricordo neppure se sono mai andato in trattoria! E poi in compagnia di mio padre e di Romana! Che idee balorde. Tanto ormai abbiamo perso tutto: casa, nonna, Romana. Però mi piacerebbe che questa maledetta guerra fosse finita e che finalmente, come dice il Vangelo, venisse un mondo in cui quelli che hanno fame e sete di giustizia siano saziati.
Montigliano, agosto 1944 Gli unici momenti sereni sono quelli che o con mio nonno. Mi racconta dei tempi di una volta, quando c’era la pace e si poteva andare in giro per il mondo con la valigia piena di santini di gesso. Ha visto tanto mondo lui. Io a volte
penso che torneranno quei tempi, a volte penso che, come dicono i repubblichini, (che si fanno vivi di tanto in tanto per cercare Domenico e costringerlo ad andare con loro), tutto finirà nella Morte Nera e in un bagno di sangue. Però mi piacerebbe andare a Nuovaiorche, a vedere le torri dei grattacieli. Mio zio dice che lui e gli altri limavano la scritta ai piedi delle statuine e vendevano lo stesso santo ai napoletani per S. Gennaro, agli irlandesi per S. Patrizio e ai neri per S. Giuseppe. Lo aveva detto lui ai figurinai di fare i santi tutti uguali, in modo da soddisfare le richieste, così come venivano. A volte stavano parecchio tempo senza poter ritornare al deposito. Allora si dovevano arrangiare. Avevano imparato che una certa sostanza, mi pare un allume, si lavorava bene e alla fine sembrava marmo, soltanto non doveva bagnarsi, prendere l’acqua, perché allora la statuina si scioglieva. Il segreto era di non riare due volte dallo stesso posto, dopo che gli avevano dato la fregatura. Una volta si sbagliò e si ritrovò davanti un negrone a cui aveva venduto una statua di marmo che poi si era sciolta sotto la pioggia. Se la vide proprio brutta! Ma l’avventura che raccontava più volentieri mio nonno era di quando a Londra, mentre vagava nella nebbia, lungo il Tamigi, con due cesti pieni di statuine e non c’era un’anima viva in giro, sentì dietro di lui una voce che lo chiamava: “Sciabigotto!” Perché tutti i ragazzi lucchesi li chiamavano familiarmente così. Si voltò e vide venire verso di lui con le braccia aperte un signore, con tanto di cappello, guanti, bastone. Insomma un signore vero, che lo voleva abbracciare. “So’ di Lucca anch’io, sciabigotto!” gli disse “Sono Puccini, Giacomo!” E volle assolutamente prendere un paniere in modo da camminare a braccetto con mio nonno e parlare un po’ in dialetto con lui. Un vero signore, anche un po’ matto. Volle per forza portarlo a cena in un gran ristorante, dove, dice mio nonno, c’era di tutto e si pagava di molto caro, ma di buono non c’era nulla. A volte mi racconta di quando era nelle trincee della Grande Guerra e gli altri soldati gli chiedevano di scrivere due righe per la loro mamma o la loro morosa. Era molto richiesto perché scriveva cose belle, poetiche, che piacevano a quei ragazzi che erano contadini come lui, ma non sapevano scrivere. “Non avevo il cuore,” diceva nonno Paride, “di mandare a dire alle case di quei ragazzi, balugani o cafoni che fossero, che qua si moriva come mosche, che l’unico divertimento era quello di bruciare pulci o pidocchi e che erano più i giorni in
cui non si mangiava la sbobba che quelli in cui ci arrivava. Poi chi scriveva la verità veniva censurato con un bel rigo di inchiostro nero dato col pennello. Le mie lettere arrivavano sempre! Attingevo a piene mani nei suggerimenti che mi venivano dai miei poeti preferiti: Tasso e Ariosto e così descrivevo giovani sereni che vedevano, all’alba o al tramonto, nei profili dei monti lontani, i lineamenti delle persone a loro care. Mi rispondevano in genere i preti, che non gradivano la poesia, ma andavano giù duri con le domande delle donne: Come stai? Mangi? C’è pericolo? Stai bene? Hai freddo?” “A quel tempo almeno le guerre le facevano al fronte, uomini contro uomini, trincea contro trincea!” ho detto io. “Non come ora che ammazzano tutti, donne, vecchi e bambini!” “Hai ragione, Benedetto! Ma queste cose i generali le hanno imparate nel corso dell’altra guerra. Se vuoi scoraggiare gli uomini devi dimostrare che puoi sterminargli case, famiglie, figlioli!” Mia madre dice che non devo far parlare troppo il nonno, perché gli viene la tosse e non si ferma più. Ha una specie di bronchite cronica, dovuta agli strapazzi, dice lei. Prima gli facevano delle coppette, applicate a caldo sulla pelle, ma lei ha detto di smettere, che tanto non gli facevano niente di buono. Ma quello che fa star male il nonno è la preoccupazione per Domenico. Mio zio è molto deperito, dice che non vuole tornare a fare il soldato, lui lo ha già fatto abbastanza. Quando vengono i repubblichini a cercarlo, tutti con le loro belle divise nuove, lui scappa in monte a nascondersi. Ma mio nonno ha sentito dire che se vengono i tedeschi e lo trovano in monte, anche se non ha armi, dicono che è un partigiano e lo mettono contro un muro e lo fucilano. Gli ha preparato un bel nascondiglio dietro casa, vicino al forno e quando cominciano a circolare le voci che c’è un rastrellamento mio zio si nasconde lì. Ma non so se sta peggio mio zio o mio nonno.
Monti, settembre 1944 Mi sono svegliato di notte, nel mezzo del sonno. Avevo sentito un rumore che veniva da un’altra stanza. Sono stato fermo ad ascoltare, temendo che fosse il nonno che tossiva o ansimava, come fa di solito, pronto a correre da lui per dargli le gocce nel bicchiere d’acqua.
Ma non era lui: era un mugolio lungo, un parlottio soffocato, degli scoppi di pianto e di tanto in tanto delle grida. Finalmente ho capito i rumori provenivano dalla stanza di mia madre. C’è qualcuno con lei, forse è arrivato mio padre, ma sta discutendo con lei. Ma lei piange, emette grida disperate. La prima tentazione è quella di correre di là e chiedere cosa succede, ma di questi tempi i grandi sembrano voler evitare di rispondere, sembrano non sapere più cosa dire ai ragazzi. Mia madre poi è rimasta sconvolta dalla morte di Romana. Ha perso tutte le sue forze. Dice che è colpa sua: doveva seguire di più quella povera scombinata. Forse mio padre la sta rimproverando. Metto l’orecchio alla parete e ascolto. Le sfoglie del granturco che riempiono i materassi scricchiolano e frusciano in continuazione, rendendo difficile la perfetta comprensione. Ma capisco che è lei all’attacco. È lei che piangendo lo scongiura di abbandonare quella folle idea di continuare a uccidere, di resistere alla avanzata degli americani. Perché morire? Perché uccidere ancora? Dice che lui e i suoi amici si lasciano dietro processioni di morti. Gente innocente, che non è né con Badoglio, né con Mussolini. Vecchi, donne e bambini che non hanno mai fatto niente di male. Perché prendersela con loro? Finalmente riesco a sentire la voce anche del suo interlocutore: è mio padre, ma ha una voce strana. Mi pare che dica che la guerra è guerra e le donne non possono capire. “E allora perché le uccidete? Però quando vi pare le cercate, le pregate di sacrificarsi, di fare anche il vostro lavoro. Un giorno le esaltate e l’altro dite che non sono capace di ragionare. Cosa credete che le cose non si risappiano? È da quasi un mese che massacrate gente dalla riva dell’Arno, fino a S. Anna di Stazzema. Prima la mitragliate e poi le date fuoco. Lo sapete che questo è il modo di fare dei ghester. Non volete che si risappia, ma la gente parla. Anche io e tuo figlio abbiamo incontrato, mentre venivamo a casa, gente di Fiano che tornava da Lucca, dove avevano portato un po’ di roba, dei ricambi per il loro prete, che era stato messo in galera, e invece gli hanno detto che era stato fucilato a porta Elisa, il 4 agosto, dopo averlo costretto a scavarsi la fossa. E loro dicevano che altri preti, che come lui difendevano i loro parrocchiani, sono stati fucilati nel Pisano e non so dov’altro. Non avete paura di Dio? Anche voi sarete giudicati come tutti gli assassini di tutti i Regni e Imperi della Storia.” Di nuovo sentii la voce di mio padre che cercava di rispondere a quel fiume in piena. Lui diceva che quella era la legge di guerra: dieci italiani per ogni soldato
tedesco ucciso. Che tutti dovrebbero saperlo e quindi non toccare i soldati in divisa, pena la rappresaglia. Invece i banditi comunisti ammazzano un soldato nelle retrovie e poi scappano, senza curarsi se la popolazione ci va di mezzo. Ma mia madre non si chetava; gridava. “E allora voi per far tornare i conti ammazzate anche le donne e i bambini? Anche quelli nati da poco? Allora ci contate come un uomo? Noi donne vogliamo contare sempre. È a noi che dovevate chiedere il parere se cominciare o no la guerra! E ora diciamo basta. Siamo stanche di fame e di morte! E cosa hai detto: sei venuto a prenderci? Per andare dove? In quel pezzetto di guerra dove comandate voi e i tedeschi, dove regna la Morte e la distruzione? E io ti dico No! Vai con i tuoi simili. Io e Benito rimarremo qua! Vattene!” “Pazza!” diceva mio padre. “Pazza! Io ho lottato per un Paese più grande e più glorioso! Io ho lottato perché i nostri figli fossero fieri del nostro nome. Perché ereditassero un nome immacolato e un Destino immortale! Altrimenti a cosa pensi che servirebbero le fucilazioni di tanti ribelli?” Ci fu un momento di silenzio, poi udii la voce di mia madre vibrante: “Vattene! Vattene! Non rammentare i nostri figli, che hai costretto a vivere in questi tempi pazzi e sanguinari! E poi mi vieni a dire che hai pensato anche a noi e hai una camionetta carica di valigie piene di soldi e d’oro? Non vogliamo questo destino che tu hai scelto, lordo di sangue e di paura”. Un colpo di fischietto arrivò da fuori. Di nuovo nella stanza accanto vi fu del trambusto, poi udii dei i pesanti, di stivali chiodati, percorrere il corridoio e infine la porta in basso sbattere. Mio padre se ne era andato, senza dirmi niente. E io cosa gli avrei detto? Ormai mi sentivo grande, ma non avrei potuto trovare parole migliori di quelle di mia madre per ribellarmi a quella pazzia.
12 settembre 1944 La gente si chiede perché gli americani non avanzano. Danno tempo ai tedeschi di fare delle fortificazioni. L’altra notte siamo stati svegliati da un’esplosione che proveniva dal monte che è sopra il paese. La mattina tutti dicevano che lì i
tedeschi avevano portato un compressore per poter perforare la roccia e fare delle fortificazioni. Di giorno vi lavoravano degli uomini sorvegliati da un paio di tedeschi, ma la sera tutti scendevano in paese. I partigiani di notte hanno fatto esplodere il compressore. Sono andato di notte sopra il campanile a vedere i fuochi fatti dalle cannonate degli americani che cadono sui monti dietro il Piaggione. Nella galleria ferroviaria c’è un treno con un grosso cannone che di tanto in tanto esce e spara su Lucca.
VI
Sulle tracce di Benito
L’ultimo quaderno di Benito si interrompeva piuttosto bruscamente. Non si capiva se qualche avvenimento inaspettato avesse impedito al ragazzo di continuare la scrittura oppure se così aveva deciso Benito. D’altra parte l’arrivo degli americani doveva essere vicino. Forse proprio il loro arrivo, con il ritorno alla normalità poteva averlo convinto a riprendere quei atempi più consoni a un ragazzo della sua età, attratto dalla vita all’aperto e dal desiderio di sempre nuove scoperte. Possibile che quel ragazzo tanto curioso non avesse più avuto niente da raccontare? Nessun commento sui “liberatori”? E cosa ne era successo dei suoi parenti, di sua madre, di suo padre? Le loro vite erano state distrutte da qualche tragico avvenimento? Non riuscivo ad allontanare da me questo pensiero: dovevo sapere! Cominciai col chiedere in giro se qualcuno avesse sentito raccontare di qualche paesino della Garfagnana o della Lucchesia in cui potevano essere accaduti alcuni dei fatti raccontati nel Diario di Benito. Erano tracce molto labili, ma alla fine fui fortunato: mi imbattei in uno studioso di storia, membro di una commissione che raccoglie memorie del tempo di guerra, a cui illustrai, per sommi capi, il contenuto dei quaderni. Gli chiesi se si avevano notizie dell’autore e soprattutto se si sapeva che fine avesse fatto. Lo storico mi diede un cauto giudizio, vi riconobbe alcuni personaggi storici e mi disse che storie simili (sabotaggi a fortificazioni tedesche, punti di osservazione da campanili) circolavano in alcuni paesini della vallata di un affluente destro del Serchio, in vicinanza di Pescaglia. Lì avrei potuto trovare dei testimoni.
Dopo alcuni tentativi mi imbattei in un pensionato (Carlo) che doveva essere coetaneo di Benito, in quanto che al aggio del fronte aveva dodici o tredici anni. Era un uomo basso, ben piantato, pingue, ma con due braccia abbronzate e muscolose, indice di una vita molto dura, condotta in campagna, all’aperto. Aveva un viso da antico romano, con un a rispettabile pappagorgia che molto opportunamente bilanciava la corona di capelli candidi intorno alle tempie. Aveva una buona memoria e ricordava abbastanza bene gli episodi che precedettero la ritirata dei tedeschi. Si ricordava del c annone che i tedeschi avevano montato sopra un treno, nascosto nella galleria ferroviaria che si trova tra Ponte a Moriano e il Piaggione. Di lì, di tanto in tanto, il treno usciva e sparava qualche colpo contro gli americani, che ormai avevano occupato la pianura di Lucca. Prima del Piaggione, dove il fiume Serchio si trova stretto in una gola contorta, i tedeschi avevano posto delle mine e ostruito sia la via del Brennero che la Ludovica (le due strade che ano sulle due rive su strette terrazze) con blocchi di cemento e facendo crollare le rocce del monte sovrastante. Inoltre i tedeschi avevano costruito una linea fortificata sui monti all’altezza di Borgo a Mozzano. C’erano stati dei sabotaggi e i tedeschi avevano minacciato di massacrare i civili.
Carlo e la sua famiglia abitavano a Montigliano, un paesetto posto sul versante delle colline che guarda a Sud, a ridosso delle Alpi Apuane , in una delle vallette sulla destra del Serchio, qualche chilometro dopo il Poggione. Sembra che fino ad allora a Montigliano fossero vissuti come fuori dal mondo. Nelle stalle erano ospitati dei polacchi che fungevano da truppe ausiliarie dei tedeschi. Erano in buoni rapporti con i contadini, dicevano di essere cattolici, contrari alla guerra e desiderosi di nascondersi per evitare di seguire i tedeschi nella loro ritirata. Le cose precipitarono quando i partigiani fecero saltare un compressore che i tedeschi avevano portato sul monte, per scavare la roccia viva. Da vari giorni gli abitanti udivano il compressore lavorare tutto il giorno. La notte gli operai e i tedeschi scendevano a valle, lasciando sul posto, impervio e nascosto, il compressore. Una notte i Montiglianesi furono svegliati da una forte esplosione: i partigiani
avevano fatto saltare in aria il compressore. Doveva essere gente esperta, del versante di Seravezza, usa a maneggiare esplosivi nelle cave di marmo. Fatto il colpo se ne erano ritornati dallo loro parte. I tedeschi andarono su tutte le furie e si dettero a cercare i colpevoli rastrellando i villaggi della parte lucchese. Nel frattempo gli americani avevano iniziato il bombardamento delle fortificazioni del Piaggione, dove il Serchio esce da una valle stretta e si distende nella pianura. Al tramonto tre tiri arrivarono sino al paese di Montigliano, sulla traiettoria dell’obiettivo, ma decisamente più lontano di alcuni chilometri, sia pure in linea d’aria. I tre tiri non provocarono danni. “Sono tiri di aggiustamento!” disse il padre di Carlo che era stato artigliere nella guerra 1915-18. Chiaramente nessun colpo arrivò alla galleria, posta troppo in basso e coperta dai monti, ma tutti cadevano sulla cima del monte, facendo rovinare giù pietre e olivi. I giovanottelli del paese salirono sul campanile per godersi lo spettacolo: vedevano nella notte le fiammate accendersi sopra al monte e udivano il boato delle esplosioni. Sembrava di essere a una sagra paesana con i fuochi di artificio. Qualcuno accese una sigaretta. Il bagliore del fiammifero fu visto dai tedeschi che temettero trattarsi di segnali rivolti agli americani.
“C’era fra di voi un ragazzotto sui dodici anni, uno sfollato livornese, rosso di capelli, che aveva dei parenti dalle vostre parti?” chiesi a questo punto, visto che il racconto veniva a coincidere abbastanza con quello che aveva scritto Benito sul Diario. Carlo, abbassò la testa e si portò una mano sugli occhi, cercando di rivedere la scena che aveva rievocato poco prima, poi la rialzò e disse con aria felice: “Sì. Come fa a saperlo? C’era un rossetto, livornese, una mezza teppa, nipote di uno del paese, era con noi e ci riforniva delle sigarette, che fumavamo di nascosto dai
nostri genitori!” “Mi racconti tutto per filo e per segno, ricordandosi soprattutto i particolari che riguardano quel ragazzo!” “Lo chiamavamo Ben, ma probabilmente prima della caduta del fascio si chiamava Benito!”
Il racconto del testimone Prima dell’alba i tedeschi, armati di tutto punto, circondarono il paese e battendo con i calci dei fucili alle porte, buttarono giù dal letto gli abitanti. Fu intimato a tutti di uscire di casa, lasciando tutte le loro cose, e di entrare dentro la chiesa. Dalle stradette cominciò ad accalcarsi una povera folla di uomini, donne, vecchi e bambini, che, spaventatissimi, furono stipati dentro la chiesa, mentre i tedeschi piazzavano una mitragliatrice davanti all’ingresso della chiesa. Il prete si fece avanti chiedendo il motivo di quanto stava succedendo. Gli fu risposto che il sabotaggio al compressore e le segnalazioni dal campanile erano certamente opera di un gruppo partigiano che si nascondeva nel paese. I soldati avrebbero iniziato una attenta perquisizione, volta a trovare armi, esplosivo, partigiani o prigionieri evasi e nascosti. I tedeschi minacciavano di morte la popolazione, certi che anche quel tranquillo paesino fosse, come molti altri della montagna, un covo di banditi, pronti a sparargli alle spalle. Non era possibile parlare con loro: gli ordini erano perentori, le armi spianate. I soldati entravano nelle case buttando all’aria materassi, armadi, cassetti. La paura era grande, tutti si attendevano il peggio. Anche se all’epoca la circolazione delle informazioni era difficile, qualche voce era arrivata su ciò che i tedeschi avevano fatto nei paesi vicini in cui erano stati trovati dei partigiani. I bandi della repubblica di Salò erano chiari: dei manifesti erano stati appesi ai muri. I renitenti alla leva erano ibili di fucilazione, guai a dar ricetto a disertori, prigionieri di guerra o ebrei. I repubblichini non avevano pietà. E ancor meno ne avevano i tedeschi. Facce terribili, ringhiose, glaciali sotto gli elmetti metallici, imbracciavano mitra e fucili, come se quello fosse sempre stato il loro mestiere, insensibili ai pianti di donne e bambini.
Non c’era possibilità di scampo: il prete invitò i parrocchiani a inginocchiarsi e pregare. Gli uomini intanto incitavano uno di loro, che aveva in ato lavorato in Germania, a farsi avanti, a cercare di spiegare, a cercare di capire le ragioni di tanto accanimento: “Digli che non siamo stati noi. Sono venuti dall’altro versante del monte. Noi non abbiamo fatto niente di male!” L’uomo tremando si fece avanti, parlò alla meglio con un graduato, fu portato davanti a un ufficiale: “Dove sono i partigiani? Dove sono gli esplosivi? Chi è stato?” Il tempo ava in lunghi parlamentari, mentre i soldati entravano ed uscivano dalle case, dai pollai, dalle stalle, senza aver trovato niente di pericoloso o compromettente. Però, già che c’erano, portavano fuori le povere provviste che i contadini avevano nascosto: fagioli, farina di granturco, castagne, forme di cacio, qualche prosciutto. “Chi ha fatto i segnali agli americani e ha fatto bombardare le nostre fortificazioni?” “Ma si trattava solo di alcuni ragazzi che erano saliti sul campanile per vedere meglio gli scoppi!” La folla piangente e pregante attendeva impaziente in chiesa qualche segno di salvezza, ma le ore avano lente, con il loro carico di minacce. Il prete e alcune donne avevano iniziato le litanie del Rosario, sa quello in latino che dice: Regina angelorum, Ora pronobis, Regina virginum, Ora pronobis...
“E Ben cosa faceva?” chiesi impaziente? “Cosa vuole che fe?” mi rispose Carlo. “Si era arrampicato anche lui a una delle strette feritoie della chiesa e di lassù guardava , come me, fuori cosa stava succedendo.” Da dove mi trovavo avevo una visuale un po’ ristretta, ma buona: di lì potevo vedere verso l’inizio della salita che portava alla chiesa e un angolo della piazzetta dove erano i camion dei tedeschi. Vicino all’altare le donne, insieme ai bambini e ai vecchi, pregavano, invocando
l’aiuto del Cielo. Verso mezzogiorno l’aiuto arrivò nelle vesti di un tale, che chiamavamo tra di noi, per scherzo, Pallino, anche se in realtà era un Professore di Pisa, un certo Prof. Rovetta. Vidi apparire il suo testone pelato, coperto alla meglio da un fazzoletto con le cocche annodate, in mezzo agli elmetti dei soldati. Era proprio buffo, lui così goffo e trafelato che si agitava tra quei militari impettiti ed armati di tutto punto. Non sembrava proprio un angelo salvatore mandato da Dio. Aveva saputo del rastrellamento, dell’episodio che lo aveva causato e si era arrampicato il più velocemente possibile, con quelle gambette corte e con quel pancione, su per i sentierini per cercare di aiutare i compaesani. Gridai alle donne e al parroco di tacere, perché volevo cercare di capire cosa diceva. Mi ricordai che conosceva bene il tedesco e infatti in quella lingua chiedeva di parlare con il Comandante. I soldati gli ordinarono di alzare le mani e lo frugarono senza molto riguardo, tenendolo sempre sotto mira. Adesso qualcuno in chiesa aveva udito le mie parole e mi chiedeva insistentemente cosa stava succedendo fuori. Io guardavo e riferivo senza distogliere lo sguardo da quell’angolo del paese che riuscivo a vedere. Dopo un po’ comparve il Comandante; cominciò a parlare col professore. Mi volgeva le spalle, però vedevo che a volte con il braccio sinistro indicava in direzione del campanile e subito dopo con il destro indicava verso sud, probabilmente dove erano gli americani. Invece vedevo bene il faccione del professore, rosso e sudato, che guardava con gli occhioni spalancati in alto verso il suo interlocutore e poi seguiva il movimento delle mani. “Preghiamo perché Dio suggerisca al professore le parole giuste per convincere il Comandante!” disse il prevosto. “Speriamo in bene!” ribatté uno degli uomini. “Proprio quel balordo ci doveva mandare in aiuto! Tra l’altro a volte inchecca!” Il professore si era tolto di testa il fazzoletto bianco con le quattro nocche annodate e si stava asciugando la fronte. Ora che le donne avevano smesso di pregare, potevo udire le abbaiate in tedesco del comandante. Non sapevo il tedesco, ma distinguevo chiaramente le parole di quella sua sentenza che tante
volte aveva ripetuto: “Alles kaputt!” Poi l’omettino buffo e panciuto cominciò a parlare. Da dove ero vedevo la sua bocca che si apriva, ma non riuscivo a udire le parole. Per un attimo mi dimenticai del nostro pericolo e delle condizioni in cui ci trovavamo, mi invase la curiosità di sapere cosa mai il professore stesse dicendo al tedesco. Di tanto in tanto mi giungeva agli orecchi qualche parola, ma quello che mi colpiva erano i suoi gesti. Erano gli stessi di quando faceva lezione ai ragazzi del paese. Aveva alzato una mano con il pugno chiuso e il dito pollice rivolto verso l’altro, ma subito dopo aveva alzato l’altra mano e con la punta delle dita colpiva le dita dell’altra mano che progressivamente andava aprendo. Era il gesto che normalmente faceva quando elencava i differenti punti che dovevano essere esaminati in un ragionamento logico! L’ufficiale tedesco aveva perso un po’ della sua rigidezza e aveva leggermente cambiato posizione, adesso non mi voltava più le spalle, lo vedevo di profilo. Il nostro avvocato muoveva le braccia, indicando a sua volta verso il campanile e verso sud e alla fine, riunendo poi la punta delle dita le andava scuotendo ripetutamente dal basso verso l’alto e viceversa, come se volesse sottolineare un interrogativo assurdo. Il Comandante scosse la testa, poi sembrò che masticasse qualcosa e infine con la sinistra si toccò il berretto sulla nuca (o si grattò la testa). Adesso con una mano facevo cenno alla gente del paese di stare zitti, mentre concentravo tutta la mia attenzione sul volto del professor Pallino. Doveva aver intercettato qualche segno nella faccia del suo interlocutore, perché adesso il suo volto si era come illuminato, rasserenato e parlava con più pacatezza, aprendo e muovendo entrambe le braccia, come quando parlava dei filosofi greci o citava i versi di qualche poeta dal nome difficile. Parlò a lungo, ma l’unica cosa che vedevo era il suo indice che ora si rivolgeva insistentemente verso il suo petto, poi verso quello dell’ufficiale e infine ripetutamente indicava verso l’alto, ma non mi sembrava un discorso minaccioso, ma solo accorato. Alla fine il Comandante assentì con la testa, mosse la bocca, come se volesse continuare il discorso iniziato dall’altro e alla fine gli tocco la spalla. Intanto affluivano sulla piazza i soldati che avevano messo sottosopra tutte le case: informavano che le perquisizioni non avevano messo in evidenza alcuna
presenza di materiale o persone sospette. Il Comandante si avvicinò al professore che nel frattempo si era tirato da parte; portò la mano al berretto in un saluto che mi parve più cerimonioso, quindi fece un cenno, come di un invito a seguirlo, e si avviò su per la salitina che conduceva alla chiesa. Scomparvero dalla mia visuale. Mi rivolsi rapidamente alla gente che mi seguiva con ansia e annunciai: “Sembra che Pallino abbia ottenuto qualcosa!” Nello stesso tempo la porta si aprì e sulla soglia comparve il nostro angelo, mentre molti si alzavano e andavano verso di lui. “Buone notizie!” disse il professore, incheccando un po’ come al solito. “Il Comandante, dopo la attenta per…per...quisizione,” qui il poveruomo inciampò un po’ di più, “si è reso conto che la popolazione di questo paese non è ostile e giudica la storia del campanile una bravata di giovani che poteva essere pericolosa anche per loro!” Un urlo di gioia si levò da tutte le gole. Il prevosto, che nel frattempo si era portato in prima fila, chiese: “E ora?” “Penso che possiate uscire dalla chiesa, senza fare troppa confusione!” Io ero davanti a tutti gli altri, anche se dietro di me le donne premevano per uscire. Vidi perciò immediatamente che il Comandante veniva avanti affiancato da due soldati armati di mitra: “Stoppen! Ein moment, bitte!” disse e poi cominciò uno sproloquio tutto in tedesco, che ci raggelò di nuovo il sangue. Io capii soltanto che ripeteva parole come frauen, kinder, alt una dietro l’altra, mentre la parola manner era associata ad arbeit e krieg. Tutti guardavano in faccia l’ufficiale come se comprendessero quello che stava dicendo, poi però alla fine si rivolsero verso il Professore. “Il Comandante dice che le donne, i vecchi e i bambini possono tornare a casa, gli uomini validi e i giovani dovranno aiutare l’esercito germanico nei lavori di allestimento delle opere di guerra. Quindi sono pregati di rimanere dentro la
chiesa e uscire dopo uno dietro l’altro.” Forse non si saprà mai il vero motivo, forse perché anche i tedeschi non vedevano il motivo per fare una nuova strage, come era accaduto, nel palude di Fucecchio, a Molina di Quosa, a S. Anna di Stazzema o a Marzabotto, fatto sta che la mitragliatrice fu rimossa e quella povera gente fatta uscire dalla chiesa e rimandata a casa. Non tutti: gli uomini furono trattenuti e, poiché nel frattempo era giunto l’ordine di ripiegare, venne loro ordinato di caricarsi sulle spalle i sacchi con le provviste razziate e seguire le truppe tedesche nella ritirata. Le scene strazianti, gli abbracci, gli addii si ripeterono: nessuno era sicuro della propria sorte, né chi restava, né chi partiva. Poi la lunga colonna di uomini armati in tuta mimetica e contadini mal vestiti con in spalla i sacchi di granturco, castagne secche, fagioli e noci, si snodò su due file per la stradetta bianca, giù a valle. Giunti in fondo alla vallata, dove la strada di Pescaglia si immette nella via Ludovica, i tedeschi decisero di rimandare indietro i ragazzotti di quindici, sedici anni e i più vecchi, che probabilmente sarebbero stati di poco aiuto.
La scomparsa di Benito A questo punto Carlo interruppe il suo racconto per avvertirmi: “Fino a qui sono tutti avvenimenti che ho visto con i miei occhi. Da qui in poi bisogna fidarsi del racconto che mi hanno fatto mio fratello maggiore e mio padre.” La mesta colonna riprese il suo cammino, accumulando chilometri e stanchezza, fondendosi con altre colonne, che si portavano dietro storie, dolori e paure analoghe. I tedeschi si ritiravano rapidamente, distruggendo tutto quello che ormai era divenuto inutile o la cui presenza avrebbe invece potuto intralciare la marcia degli americani. I tedeschi stavano approntando una linea fortificata con bunker e gallerie sopra Borgo a Mozzano. I poveri ostaggi vennero portati in un campo di concentramento a Scocciglia e poi di qui condotti su per i monti dove c’era bisogno del loro lavoro. Poi arrivarono altri ordini: quella linea difensiva andava abbandonata. Sempre sotto
la minaccia del fucile, dietro un comando secco, un ordine perentorio a far presto, ad accelerare, senza mai poter tirare il fiato, riposarsi un attimo, mangiare decentemente, lavarsi ecc. Ma anche i tedeschi non stavano meglio: erano sotto pressione, gli ufficiali arrivavano in sidecar, gridavano gli ordini e poi partivano, lasciando i loro scherani alle prese con postazioni da sgomberare, ponti da minare e soprattutto ostaggi o prigionieri civili da spingere avanti. Fino dove? Questo si chiedeva il gruppetto di Montiglianesi rimasti in fondo alle pattuglie in ritirata. “Questi ci portano a Barga. Forse a Castelnuovo. Può darsi che si stanchino prima e magari ci lascino prima dell’Imbrancamento!” “No, questi ci portano in Germania!” “Se non moriamo prima di fame e di fatica!” Non era possibile ottenere risposte alle domande timorose e stentate. Solo urli e ringhiate, quando non erano colpi con il calcio del fucile. “Raus, raus! Schnel, schnel!” Prima che la stanchezza li sommergesse quegli uomini ebbero modo di capire che il loro destino stava avviandosi verso una china tragica: o perire lungo la strada di fatiche e di stenti o finire in Germania in un campo di concentramento. Non erano più considerati uomini, erano meno di uomini, schiavi, forse bestie da soma. Perché allora non tentare alla prima occasione la fuga. Morti per morti, almeno rischiare di salvarsi. Qualcuno sarebbe ritornato al paese, dove ormai probabilmente erano arrivati quei benedetti americani. Molti di essi avevano combattuto nella prima guerra mondiale e sapevano che nelle condizioni estreme conviene giocare il tutto per tutto, andando a raccogliere in fondo all’anima quel coraggio che normalmente nella vita civile cede il o alla prudenza. L’occasione capitò una sera, quando erano prossimi a Barga. Erano rimasti un gruppetto molto piccolo, costretto ad aiutare i guastatori nel lavoro frenetico di smantellamento. Un solo botolo ringhioso li sorvegliava giorno e notte con il fucile spianato. Bisognava impedirgli di dare l’allarme, togliergli l’arma e fuggire. Tutto intorno la confusione regnava sovrana. Il loro guardiano ormai da lungo tempo non riceveva il cambio, era stanco, assonnato, ma non mollava, sfogava il suo nervosismo e la sua paura in una maggiore e inutile brutalità.
Quella sera spinse il suo “gregge” entro una stalla per far loro are la notte. Gli uomini si scambiarono l’un l’altro uno sguardo deciso: quello era il momento. Finsero la solita remissività, ma mentre il loro “padrone” controllava che non potessero fuggire dalle finestre, uno di loro afferrò un legno e lo ruppe sulla testa del soldato. Gli altri presero il fucile e finirono il guardiano ormai riverso a terra. Presero quindi il corpo e sgusciarono fuori nelle tenebre. Dopo qualche decina di metri scaricarono il corpo in un boschetto di alberi e quindi, cautamente, si allontanarono tra i boschi e i campi, evitando accuratamente le strade e i paesi. Così, dopo alcuni giorni, di montagna in montagna, laceri, affamati, ma decisi a non farsi più prendere, ricomparvero in paese. Seppero allora che gli americani, aprendosi la strada con le loro potenti ruspe, più grandi dei carri armati, sminando il letto del Serchio, avevano travolto tutti gli ostacoli frapposti dai tedeschi e ormai avevano raggiunto Bagni di Lucca.
“E cosa c’entra Benito, il ragazzotto livornese, con questa storia?” chiesi un po’ meravigliato.
“Tutti abbiamo notato che Benito non rientrò in paese con noi. Sembra che con molta cautela abbia seguito di lontano la colonna dei deportati, fermandosi, quando questa si fermava, ripartendo quando ripartiva. I deportati se ne accorsero quando arrivarono sotto Barga e, per a parola, avvertirono lo zio Menico che, a causa delle botte ricevute, era ridotto piuttosto male.” Non è chiaro come il gruppo dei paesani, che comprendeva lo zio del ragazzo, riuscì ad accordarsi con lui. Qualcuno dice che quando stabilirono di fuggire, trovarono la porta della stalla libera, in quanto il ragazzo livornese aveva accoppato il soldato di guardia, mentre dormiva, dopo essersi tolto l’elmetto. Dopo la liberazione, quando i deportati furono al sicuro in paese, il merito di aver fatto fuori il tedesco se lo presero tutti, ognuno con un suo racconto molto avventuroso. Non fu possibile udire la versione di Benito e di suo zio, il quanto non rientrarono subito in paese.
Lo zio fu ricoverato in un ospedaletto americano, dove poi, una volta guarito, rimase come infermiere o inserviente, seguendolo nei vari spostamenti nel 1945. Il ragazzo scomparve. Gli ultimi che gli hanno parlato, dicevano che era rimasto sconvolto dalle stragi che i nazisti, insieme ai repubblichini, avevano fatto nei diversi paesini i piedi dell’Appennino prima della ritirata. Non sopportava l’idea che le brigate nere avessero aiutato le SS a sterminare donne, vecchi e bambini! Diceva che, dopo tragedie come quelle, c’era poco da festeggiare!
VII
Epilogo
Una strada serpeggiante per la salita, ombreggiata da acacie. Finalmente sulla groppa della collina una chiesetta romanica con le bianche pietre splendenti al sole. Un uomo sulla settantina, robusto, in canottiera grezza di lana vangava un piccolo orto posto a fianco della stradetta. Discesi dall’autovettura e girai attorno uno sguardo per assaporare la pace di quel paesaggio pieno di verde e di sole. Mi fermai un attimo a guardare: “Sa dirmi dov’è don Paolo?” chiesi al vangatore. L’uomo, sospese il lavoro, si raddrizzo e, sollevando il braccio, mi rispose: “Provi nella canonica, dietro la chiesa!” Mi diressi nella direzione che mi era stata indicata, ma prima di entrare mi accorsi che, seduto su di un muretto scalcinato di un pozzo, c’era un vecchio asciutto dai capelli candidi folti, che stava leggendo qualcosa. Mi ricordai di alcune foto che avevo visto nel retro della copertina dei suoi libri, letti una decina di anni prima. Era lui don Paolo! Sembrava che per lui il tempo non fosse mai ato. Interruppe la lettura, mantenendo un dito all’interno del libro, forse con la speranza che l’interruzione fosse breve; si alzò in piedi e nello stesso tempo mi spalancò sul volto due grandi occhi celestini, ridenti e curiosi. Mi presentai, gli raccontai del Diario e dei quaderni e gli chiesi se ricordava l’episodio del suo incontro con Benito a Lucca.
Prima di rispondermi mi chiese altri particolari su come avevo rinvenuto i quaderni, quale arco di tempo coprivano, se li avevo letti tutti, se avevo cercato di rintracciare colui che li aveva scritti. Insomma una lunga serie di domande. Risposi alle sue domande, raccontandogli anche del mio incontro con il testimone di Montigliano e di come questi mi avesse narrato cose, probabilmente, successive all’ultima pagina scritta del Diario. A quel punto il vecchio prete, chiuse il libro, mi fece cenno di sedere e cominciò a raccontare.
Non sono sicuro se ho incontrato proprio questo Benito. A quei tempi, come del resto sempre, la mia casa era aperta a tutti quelli che mi cercavano, sia per motivi spirituali che materiali. Allora abitavo a Lucca in una casa del Seminario, che mi era stata messa a disposizione dal vescovo. Quella casa era una specie di porto di mare. Era il primo approdo per tutti coloro che, perseguitati dai nazisti e dai fascisti, avevano bisogno di sparire dalla circolazione e rifugiarsi quindi in luoghi più sicuri. Però mi ricordo un episodio riguardante un giovane sconosciuto. Quel giorno avevo con me un professore ebreo, nascosto in attesa di documenti accettabili che gli consentissero di raggiungere la famiglia, accolta in un convento (non ricordo quale) dell’Alta Italia. Quando bussarono alla porta, spinsi il professore dentro un vecchio armadio nero, una specie di grande catafalco, pregandolo di stare lì dentro zitto e buono, fino a che non avessi mandato via il visitatore. Sa, bisognava essere prudenti, c’era la fucilazione per chi dava ospitalità agli ebrei! Quando aprii la porta mi trovai di fronte un ragazzetto abbastanza robusto, dai capelli rossi, in tenuta da ciclista, il quale mi disse che aveva trovato delle cose che mi potevano interessare e me le aveva portate. Lo feci entrare, parlando a voce alta, in modo che il mio amico, che stava dentro l’armadio, potesse capire che doveva evitare di fare rumore. Il ragazzo, una volta entrato, sembrava non avere molta fretta: si guardava attorno come per imprimersi nella mente la posizione dei diversi oggetti, mi raccontava di sé, dei suoi problemi di sfollato. Ricordo che disse che andava a scuola dalle suore, conosceva i parroci dei paesi della fascia ai piedi dei Monti Pisani e in particolare don Bertini. Aveva una bicicletta e con questa faceva commissioni per molte persone. C’era qualcosa che non mi convinceva in lui. Per prima cosa gli chiesi come avesse fatto a
trovarmi. Il ragazzo alzò le spalle con un gesto di insofferenza, poi disse che era stato facile, tutti mi conoscevano e poi aveva preso come punto di riferimento le mura. Gli feci allora alcune domande sulla sua famiglia. Mi pare che mi dicesse che la madre era una infermiera, mentre esitò un po’ prima di parlarmi del padre, per confessare alla fine: “Fa il contadino!” Non mi sembrava proprio il figlio di un contadino. Guardava in giro, con aria distratta, toccando ogni cosa, specialmente i numerosi libri che erano ammucchiati qua e là su mensole, sedie e, in alte pile, anche in terra. Probabilmente ne stava leggendo i titoli impressi sulla costola. A un certo punto disse: “Accidenti quanti libri! Li hai letti tutti? Allora sei proprio un sapiente!”. Mi disse che anche lui leggeva molto ed era bravo in storia, geografia e italiano. Gli chiesi se era preparato anche in religione. Non ricordo cosa mi rispose, ma di lì a poco mi fece una domanda che mi suonò come un camlo di allarme, dimostrandomi che quel ragazzino era più sveglio di quanto non supponessi. Mi chiese: “Può un cristiano, mettiamo un prete, proteggere dei giudei, quelli che hanno fatto crocifiggere Gesù?” Rimasi un attimo in silenzio: forse quel ciclista la sapeva più lunga di quanto io non immaginassi. Però era sempre un bambino, perché buttò fuori quello che era il suo vero dubbio: “Gli ebrei sono stati maledetti da Dio? Don Bertini dice che Dio non può maledire i suoi figli e che vuole bene a tutti!” “Che ne possiamo sapere noi dei disegni di Dio? Ogni creatura di Dio ha il suo posto e il suo scopo nel Creato,” gli risposi. “Hai studiato la storia antica? Hai visto quanti popoli c’erano: Egiziani, Persiani, Greci, Romani...Tutti hanno dato grandi contributi alla civiltà. Eppure Dio ha scelto di fare nascere suo figlio in quel popolo piccolissimo e debolissimo di pastori e contadini. Gli unici che credevano in un Dio unico e ne tramandavano per iscritto le Sue Parole. E tutti, per quanto poveri, come i figli di falegnami o pescatori, sapevano leggerle e le conoscevano a memoria. “Già, difatti Gesù sapeva leggere e scrivere, mentre Carlo Magno che era imperatore non sapeva scrivere!” disse soddisfatto il rossetto. Mi sembrava che stesse per andarsene e perciò gli chiesi: “Ma sei venuto per qualche cosa?” “Ah!” fece lui e tirò fuori da sotto la maglia un po’ di fogli, sporchi, macchiati di sudore e d’inchiostro, piegati in due. Li aprì e mi disse: “Ho trovato questi
volantini. Forse ti possono essere utili”. Mentre il cuore accelerava il suo battito, finsi di dare un’occhiata distratta a ciò che il ragazzo aveva posato sul tavolo. Erano proprio manifestini stampati alla macchia dai resistenti lucchesi. Sapevo infatti che il Comitato di Liberazione Nazionale aveva fatto arrivare con grandi rischi e fatiche una “pedalina” e con quella stampava manifestini e proclami clandestini. Come ne era venuto in possesso? Perché era venuto a offrirmeli? “Non mi interessano, né mi servono. Riprenditeli, possono essere utili per ripararti il petto dal vento quando vai in bicicletta!” Vidi che rimase un po’ perplesso. “Le parole importanti per me sono tutte stampate in questo libro!” gli dissi “Non mi occorre altro!” E presi in mano un’edizione economica dei quattro vangeli. “Tieni!” gli dissi “Qui c’è tutta la verità!” Prese il libro, ancora dubbioso, poi come se scosso da una qualche idea, si diresse verso la porta e uscì.
A questo punto il mio colloquio con padre Paolo fu interrotto dall’arrivo di un frate anziano, forse oltre i settanta anni, completamente calvo: “Scusate, volevo avvisare che Camillo ha terminato e vorrebbe salutarla prima di tornare a casa!” I due si guardarono con curiosità. “Padre Sereno, posso presentarti questo giornalista che ha fatto tanta strada per venirci a trovare! Padre Sereno è rientrato recentemente da un lungo periodo di missione in Sud America.” Mi schermii ridendo: “Non sono un giornalista e vengo da qua vicino, da Pisa!” Anche don Paolo rideva: “Beh, diciamo che ha fatto tanta strada per seguire le tracce di un ragazzetto che penso di aver incontrato nel 1944 e di cui adesso non si sa più niente!”
Padre Sereno si carezzò la pelata con una mano, poi guardandomi fisso mi chiese: “Come mai tanto interesse per un ragazzo che forse lei non ha neppure conosciuto?” “È vero, non l’ho conosciuto, ma avendo letto i suoi diari è come se fosse uno di famiglia, forse ancora più intimo!” “Ah, perché lei ha trovato i diari di questo ragazzo?” “Non ti ho detto, Sereno, che questo giornalista ha trovato dei quaderni risalenti agli anni 1943-1944. Pensa, nascosti in un doppio fondo di una scrivania! Come doveva essere grullo quel ragazzino!” E i due frati risero di tutto cuore, come se quella fosse stata una battuta molto umoristica. “E lei ci crede a quello che quel ragazzo ha scritto in quei Diari? A volte i ragazzi si divertono a dire bugie!” Quella osservazione mi indispettì molto. “Ci credo perché mi sembrano fatti, sentimenti ed esperienze reali, che corrispondono abbastanza con le mie, che ho vissuto quegli anni, anche se più giovane, quasi nella stessa zona, qui vicino, a S. Maria del Giudice! Inoltre ho trovato dei riscontri oggettivi!” “Scusa, Sereno, non facciamo più aspettare Camillo! Ringrazialo caramente e digli che può tornare quando vuole!” Frate Sereno uscì velocemente. “Scusi l’interruzione!” disse don Paolo, sorridendomi. “Mi voleva chiedere qualcosa d’altro su quel giovane dei Diari?” “Sapeva che quel ragazzo era stato mandato da parte della SS per farla cadere in una trappola?” “Non lo sapevo! Però ho sempre pensato che quel ragazzo era stato mandato da qualcuno ben più in alto del comando della SS!”
Per un attimo rimasi interdetto, poi sorrisi, vedendo che il mio interlocutore aveva puntato l’indice della mano destra verso l’alto e ridacchiava soddisfatto della mia confusione. “Ah, ho capito!” dissi. Dopo un attimo di silenzio chiesi: “Lo ha più rivisto da allora? Lo sa che circola voce che, dopo essere sfuggito a una strage nella chiesa del paese, abbia seguito di nascosto la fila dei deportati, tra i quali era il fratello di sua madre, e che poi in Garfagnana, di notte, sia riuscito farlo fuggire, accoppando un tedesco?” “Sì, questa voce è giunta anche a me. Che idea si è fatta lei di Benito, leggendo il suo Diario?” “Mi è sembrato un ragazzino sveglio, molto più maturo della sua età, comunque una persona molto sensibile!” “Non credo proprio che abbia ucciso quel tedesco, anche se questi angariava i deportati. Ho sentito dire da altri che sono stati i prigionieri a uccidere il guardiano, mentre Benito lo distraeva. Un episodio di sangue come tanti altri in quel periodo tragico.” “Ma perché dopo la liberazione è scomparso? Lei ne ha saputo più niente?” Il prete sollevò entrambe le mani con le palme rivolte al cielo: “Non posso dirlo con assoluta certezza, ma credo che sia ato a miglior vita! Ma lei perché lo sta cercando?” “Un po’ per conoscere la fine della storia e poi per restituirgli i quaderni! In fondo non mi appartengono!” “Questo è molto bello da parte sua!” fece il prete aggrottando le folte ciglia bianche e guardandomi come se prima di allora non mi avesse visto. “Non ha rintracciato dei parenti o familiari a cui lasciarli?” “Mi è stato detto che sono morti tutti o spariti, a cominciare dal nonno. Di Ricciotto non si è saputo più niente. La gente del paese sa che ha preso parte, nelle file dell’esercito della Repubblica Sociale italiana, a diverse sanguinose azioni di repressione anti-partigiana nel Nord Italia, poi è scomparso, forse giustiziato, forse imprigionato a Coltano. Ma di lui non si è saputo più niente. Qualcuno dice che all’indirizzo della famiglia siano arrivate delle cartoline
dall’Argentina con una firma incomprensibile. Poi per sempre silenzio!” “E che ne è stato della madre, dello zio, degli zii?” insistette il prete. “Nessuno ne sa più niente. Qualcuno dice che si siano trasferiti in Inghilterra, ma comunque, per motivi anagrafici, adesso dovrebbero essere morti o comunque centenari!” Il prete rimase per qualche minuto pensoso, poi, guardandomi negli occhi, mi chiese: “Ma lei cosa intende fare con questi quaderni? Pubblicarli?” “A chi vuole che interessino questi pensierini di un balilla del 1943? I problemi adesso sono ben altri!” Mi ai una mano sulle guance, come per tastarmi la rasatura della barba, ma in realtà per nascondere un leggero rossore. “E allora, visto che non riesce a trovare il legittimo proprietario, perché non lascia queste testimonianze, qui da me. Se si presenterà qualcuno della famiglia di Benito a reclamarli, sarò ben lieto di darli in mani sicure!” disse il prete scuotendo la testa bianca. “Mi sembra una buona idea!” risposi, rallegrandomi per aver obbedito all’impulso di fotocopiare quaderni e Diari, prima della visita a don Paolo. “Allora vado a prenderli: li ho lasciati in auto!” E feci per uscire. “Non si disturbi troppo: li dia pure a frate Sereno! Me li porterà lui!” In effetti il frate pelato stava fuori della porta. Nel consegnargli il pacco dei quaderni, mi accorsi che la mano sinistra era coperta da un guanto di lana scuro. Seguendo una repentina intuizione, gli chiesi, guardandolo fisso negli occhi: “Che fine ha fatto il Prof. Rovetta?” Il frate ebbe come un sobbalzo, poi rispose: “A porta inferi, credo! Se fosse ancora vivo avrebbe più di cento anni!” Pensai che se anche i santi mascherano la verità, potevo benissimo anch’io, povero peccatore, raccontare qualche bugia.
L'Autore
Rolando Guerriero nasce a Pisa il 15 gennaio 1935. Si laurea in Scienze Agrarie nel 1960. Successivamente svolge attività di ricerca e insegnamento (Viticoltura e Frutticoltura) presso la Facoltà di Agraria dell’Università di Pisa. In tale contesto ha l’opportunità di conoscere alcune stupende figure del mondo contadino, ormai in via di scomparsa, e di apprendere da loro impagabili lezioni di saggezza e di vita. Dopo il collocamento a riposo (2005) inizia a mettere su carta i ricordi della sua infanzia e si aggiudica con i suoi racconti molti premi, tra cui nel 2009 la I ed. del Premio di Memorie “Uliano Martini”, pubblicando “Da estate a estate: un anno da sfollato” nel volume Tempi di guerra, Edizioni ETS. Con il romanzo I quaderni nascosti del figlio del repubblichino ha vinto la VII edizione del Premio Letterario Giovane Holden.