I love Kunta
Leonardo Squeo
Autore: Leonardo Squeo Titolo: “ I love Kunta “
© Copyright 2014 Cavinato Editore International ISBN: 978-88-99121-17-4 I edizione Digitale 2014
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[email protected] www.cavinatoeditore.com Progetto grafico, copertina e impaginazione: Alessandro Botta
Indice
Capitolo 1
Paragrafo 1.1
Paragrafo 1.2
Paragrafo 1.3
Paragrafo 1.4
Capitolo 2
Paragrafo 2.1
Paragrafo 2.2
Paragrafo 2.3
Paragrafo 2.4
Paragrafo 2.5
Paragrafo 2.6
Capitolo 3
Paragrafo 3.1
Paragrafo 3.2
Paragrafo 3.3
Paragrafo 3.4
Paragrafo 3.5
Paragrafo 3.6
Paragrafo 3.7
Capitolo 4
Paragrafo 4.1
Paragrafo 4.2
Paragrafo 4.3
Paragrafo 4.4
Paragrafo 4.5
Paragrafo 4.6
Capitolo 5
Paragrafo 5.1
Paragrafo 5.2
Paragrafo 5.3
Paragrafo 5.4
Paragrafo 5.5
Paragrafo 5.6
Capitolo 6
Paragrafo 6.1
Paragrafo 6.2
Paragrafo 6.3
Capitolo 7
Paragrafo 7.1
Paragrafo 7.2
Paragrafo 7.3
Paragrafo 7.4
Note
Capitolo 1
Paragrafo 1.1
Lui ride, imbecille! Da’ ai nervi! Lo guardi e ride insistentemente, con quel sorriso venuto a stamparsi su la sua povera faccia scarna, come dal nulla e senza un perché, cosí. Cosí sembra. Perché poi, non è proprio un ridere, uno di quelli pieni, chiari, che suscitano una allegria contagiosa, tanto da far ridere pure, insieme, da star bene. No, non è una risata liberatoria, di sussulti, rumorosa, a gran voce, che si senta e che dica: son qua! Purtroppo no. Ride e non ti accorgi di nulla, finché non lo guardi e scorgi che le sue labbra sottili e leggermente aperte sono all’in sú.
Se fai per chiedergli: Carullo, perché ridi?, lui alza e subito riabbassa le spalle, rispondendoti: niente, rido. Intanto continua, come nulla fosse, senza darti una spiegazione, senza sentirne il bisogno, a nessuno, nemmeno a lei, Narika, poverina! Lo soffre per tutto il santo giorno, dodici, tredici ore con lui, a quel modo. Niente, lui ride! Narika, dapprima ha accolto indifferente la sua risposta, presa com’è dal lavoro, tra le pentole. Poi, riguardandolo ancora, si è giusto un poco indispettita e ha ripreso la stessa domanda, confidando che si sarebbe deciso a risponderle come Dio comanda. Niente. Beatamente le ha risposto con il suo solito «Niente, rido», e solo forse per non farla adirare (perché non ci sarebbe nulla di che adirarsi!), ha aggiunto pure: tu non c’entri, rido e basta!
Intanto, è da alcuni giorni che va a codesta maniera, e Narika, tra una pietanza e l’altra, sempre piú nervosa e infastidita, ripetendo a sé, cosa mai avrà da ridere?, si è presa pure la sua buona ramanzina, da Sandra, la titolare, per le lamentele dei clienti e per i suoi piatti che sapevano di rabbia. Davvero un imbecille!
È una brava persona, non c’è che dire, Narika lo sa… docile, mansueta, un po’ troppo. Sei un uomo o no!, le verrebbe da gridargli nelle orecchie. Lo
prenderebbe volentieri a schiaffi, per farlo svegliare: tonto d’un Carullo!
Tutti che si burlano di lui… e ora anche questa stupida risata. Per quale motivo poi? Nulla è cangiato (sembra!), tutto come prima, la solita nojosa e squallida vita di sempre eppure… eppure ora ride! Non saprei, proprio non saprei. È comparsa cosí, da un giorno all’altro, come se alzandoti al mattino e guardandoti allo specchio, toh, un brufolo.
Ma quale brufolo?, diceva la titolare Sandra a suo padre, inviperita piú che mai per questa strana teoria che andava sostenendo.
Urlava sottovoce per non farsi sentire dai suoi subalterni in cucina, che non aveva nulla a che vedere con la storia dei brufoli: almeno i brufoli provi a incipriarteli, andava dicendo. Lui no, quasi ci gode a far saltare su tutte le furie quelli che gli girano intorno, con la testa tra le nuvole a pensare chissà cosa, inebriato. E intanto, don Vito, continuava con la sua teoria dei brufoli, seguendo col capo la figlia riversa sui tavoli della sala, ad apparecchiare. Ti dico che è cosí, ripeteva. Quante volte tua mamma, buonanima (portandosi l’anulare sinistro sulla bocca), si raccomandava con te che non desiderassi troppo di crescere in fretta! Lo hai dimenticato?, e dondolava la testa a scatti, avanti e indietro, in segno di inevitabile assenso. Ricordi che diceva?: «Per ogni desiderio che ti viene in sogno, un brufolo in piú». Patapunfete!, al mattino seguente ti sentivamo urlare, chiusa in camera, che chiamavi in soccorso tua madre, buonanima (portandosi ancora l’anulare sinistro sulla bocca). Sandra ribatteva: papà, papà, credi ancora a queste storie, tu?, stufa, con gli occhi ormai fuori dalle orbite. Avevo undici anni e poi quello lí cos’ha da crescere ancora? Nulla, rispondeva don Vito, ma potrebbe essere l’effetto di un desiderio cosí ardito che ha avuto un diverso manifesto. Tu non ci credi a queste cose, io sí… perché ricordo bene che dopo tanto baccano cantavi per giorni, dopo sí, tu l’hai dimenticato, io no!, dopo appunto, quando il tuo bel brufolo spariva e il tuo desiderio si avverava credendoti piú alta.
Sandra scuotendo lenta la testa preferiva tacere ne la assurdità della teoria dei brufoli, un cavallo di battaglia per il vecchio. Lo aveva sentito ripetere la filastrocca tante e tali volte da infastidirsene subito. Ma che brufoli!, e rideva con se stessa… era ogni luna nuova. Gli uomini! E sospirava.
Paragrafo 1.2
Anche quella mattina, di buon’ora come al solito, Carullo si era alzato prima del sole, guardando il suo levare dalla finestra. Lo aspettava. Si sentiva uno straccio appena strizzato, bagnato fradicio per quell’afa notturna che non poteva proprio sopportare. L’odiava quella stagione! Su di lui poi aveva un effetto da essiccatojo, reso piú evidente una volta che si decideva a togliersi di dosso quel suo maglioncino putrido, che sua moglie gli lavava ogni mercoledì sera. La bella stagione era l’occasione per lui per liberarsene e lasciarlo in soffitta, tra la muffa, contento di girare senza quel peso addosso, il solo che avesse il merito di dar volume a un corpo senza carne, solo ossa: uno spaventaeri!
Loro soprattutto, lui e Narika, i veterani della cucina, erano gli unici a restare lí, per tutta la settimana, al lavoro, contando le ore che mancavano a quell’unico giorno di pausa, il giorno delle pulizie, anche per quel maglioncino in finta lana, il suo di sempre, tanto che don Vito, se non fosse che ormai erano ati piú di quarant’anni dalla guerra, gli pareva di rivedere il caro vecchio lanital¹.
Un solo giorno, uno solo per vivere lontano dalle mura di quel maledetto labirinto, compresso e asfissiante: una catapecchia rimessa a nuovo, che per tutto poteva essere usata meno che per aprirci un’attività di quel genere. Era lí che Carullo ci lavorava, come un somaro, da circa sei anni e ricordava ancora molto bene quanto avesse faticato per avere quel posto. Dopo mille tentativi e fallimentari ricerche, era riuscito dopo tutto a trovare il suo.
Veramente lui, Carullo, non l’aveva mai davvero cercato un lavoro, perché a lui non è che importasse poi cosí tanto! Non troppo. Sí sí, l’aveva cercato, non c’è che dire! Ne aveva girati di cantieri, botteghe, chioschi e negozi, arrivando persino a proporsi per spazzare il parcheggio antistante l’ospedale del comune.
Nulla. Dal parcheggio lo avevano cacciato pure in malo modo… due tipacci, con una certa veemenza e scarsa delicatezza, gli si erano avvicinati in difesa del loro territorio. Bah, saranno i proprietari qui!, pensò Carullo. Gli facevano venire in mente certi animali, di quelli che si affannano tutto il giorno a segnare il terreno con i propri escrementi, fino a non averne. E solo per dire: qui, guai a te!
Ci aveva provato, davvero, e se qualcuno gli chiedeva quali tentativi avesse fatto, in sua difesa, infilava la mano in tasca, vi rovistava dentro, e tirava fuori un fogliettino accartocciato con una lunga lista di commercianti e artigiani con cui era riuscito a parlarci.
Era piú sua moglie, Anna, a preoccuparsene, a ripetergli di non poterne piú di questa vita insipida e vuota, fatta di solo lavoro, per lei!, mentre lui uomo di casa se ne stava a zonzo per il paese. Lui però ne aveva cercati, davvero, glielo avrebbe giurato, anzi, giurava e spergiurava, mostrandole il fogliettino accartocciato ogni qualvolta che la lista si allungava con nuovi nomi.
A dire il vero, lo faceva per sua moglie, pur di farla star zitta, con quella voce da cornacchia, che Carullo imitava alla perfezione. In bagno, chiudendola fuori con le sue urla, entrava che già ne mimava i gesti, ripetendo sottovoce e storcendo il muso con quel suo cràh! cràh!² Per lui, nessuna fretta: prima o poi, lui, un lavoro l’avrebbe avuto.
Un bel giorno, ottenuti i nomi da dare a sua moglie, unico risultato del suo solito giro di insuccessi, scontato!, in rientro a casa, incontra proprio lei, prima del solito.
Abituato com’era a rientrare quando ancora non c’era nessuno, fu una novità per Carullo essere investito da uno strano odore, un odore di pulito a cui non era molto abituato, quello delle grandi occasioni. I letti rifatti, il mobilio tirato a
lucido, il pavimento splendente, le finestre illuminate… gli sembrò di essere in una stanza d’albergo, non sua, messa in ghingheri per attendere il suo nuovo ospite. Trovò inaspettatamente sua moglie che preparava una torta alle mele, il suo cavallo di battaglia, indaffarata come non ricordava neanche, da riportarlo indietro nel tempo sino ai primi anni del loro matrimonio, anche se poi ne era ato solo qualcuno.
Quante cose erano cambiate da allora! Molte erano state rimosse dalla sua mente… o solo sepolte sotto una leggera coltre di polvere che bastava poco a sollevare per tirarle fuori; gli sembrava appena jeri. Anna lo accolse con un sorriso, leggero, già tanto per lei, quel poco che era servito a Carullo per capire che qualcosa era successo, anche di grosso: gatta ci cova!, sussurrò tra i denti. Carullo ignorò quel sorriso, finse, salutandola col suo solito modo: un grugnito, trasformato per l’occasione (che doveva essere lieta per forza: non capitava spesso che sua moglie lo accogliesse a quella maniera!) in lamento comionevole. Del resto, la sua ricerca era fallita ancora: meglio farne un cenno di anticipazione! Le diede le spalle, guardandosi dietro con la coda dell’occhio (qualcosa doveva pur accadere!) fino a la poltrona di là in salotto, su cui lasciò che cadesse il suo corpo stanco e afflitto per le ricerche.
Non ebbe il tempo di stirare le sue gambe e chiudere gli occhi che Anna comparve alle spalle della sedia imbottita. Un leggero fruscio raggiunse l’orecchio sinistro di Carullo. Era la sua mano, quella di Anna, che si posava sulla pelle rossa del divano, accarezzandolo. Immediatamente Carullo avvertì un nodo in gola, intuendo che per quel giorno avrebbe dovuto rinunciare al suo momento di relax.
La cornacchia era mutata in cigno. Anna provò a parlargli, segno che era lí per chiedergli qualcosa a cui non poteva sottrarsi. Per la verità, si trattò di un annuncio: Carullo aveva un lavoro, c’era riuscita finalmente, un buon lavoro certamente, e grazie all’ajuto di don Vito, sant’uomo!
Eh sí, non c’è che dire!, don Vito è proprio una brava persona, concluse Anna soddisfatta mentre ritornava alle sue faccende. Ah, aggiunse, a proposito, domani si incomincia!, e lasciò che l’ultimo boccone Carullo lo ingojasse senza neanche vedere la sua faccia, del Carullo, a cui a dire il vero aveva parlato in testa per tutto il tempo, rimasta in piedi dietro.
Sei matta, domani? già domani!? nemmeno il tempo di abituarmi!, le avrebbe voluto ribattere se non fosse che, pensandoci bene, cosí avrebbe smesso con le sue forzate ricerche. Un lavoro adesso almeno l’aveva, e non rispose.
Don Vito, don Vito Fava era noto a tutti con quel «Fava», non che fosse il suo vero nome, ma per una storia che lui stesso tanto amava raccontare quand’ancora giovane aveva iniziato ad accumular ricchezze, vendendo fave. Oltre a quel «don Vito», nessuno sapeva per certo quale fosse il suo vero nome e per tutti era don Vito Fava, proprio lui. Don Vito non la prendeva a male, no anzi, era il suo orgoglio di imprenditore venuto dal nulla; si chiamava a quel modo lí anche per se stesso. Senza battere ciglio rispondeva da signore a chi, sicurissimo di non mancargli di rispetto, lo salutava dicendo: buongiorno don Fava.
Chiunque chiedesse a lui ajuto, era certo di riceverlo. Non si era mai tirato indietro, uomo stimabilissimo e di grande bontà d’animo, pronto a dare del suo a chi ne avesse reale bisogno. E cosa ancora piú nobile, la discrezione.
Tutta questa nobiltà, con le crescenti ricchezze accumulate, lo rendevano un gradino o forse piú al di sopra dei suoi compaesani, tanto da meritarsi il titolo di Cavaliere. Lui, don Vito, gradiva che si evitasse quell’appellativo, fingendo indifferenza: mette a disagio… gli altri, certo!, diceva, e allora lasciava che quantomeno si rifugiassero in un confidenziale «don», don Vito, appunto.
Per non sembrare inopportuni e profittatori, pur trovandosi in difficoltà, cosa che
ultimamente accadeva sempre piú spesso, i Carullo le provavano tutte. E c’erano sempre riusciti, a cavarsela s’intende!, senza l’intervento di nessuno. Ora però non se ne poteva piú: non posso continuare a vedere quest’uomo cosí, senza far nulla, non è possibile!, ripeteva la moglie Anna, insofferente, essendo lei costretta, per mandare avanti la famiglia, a lavorare. Non per cattiva volontà, tutt’altro!, ma le capitava di restare piegata per ore, su stoffe e cotoni di ogni genere, per ore, con le dita rattrappite, ago e ditale in una mano e l’altra ad afferrare ora un guanciale di lino, ora un fazzoletto di seta o un abito di occasione, per ricami di ogni genere; e il compenso? una miseria.
No no, non ne posso piú!, andava dicendo ogni volta che a fine giornata, stanca morta, vedeva lui riverso sulla poltrona. Lei che doveva badare a tutto: alla casa, al marito, al lavoro. No, almeno il lavoro voleva risparmiarselo! Aveva accettato di farlo per i primi anni di matrimonio, per ajutare a mettere sú casa, per dargli un decoro, un arredo che le pie, in modo che si vivesse bene, ma questo no. Lui sulla poltrona! No proprio no.
Decisa com’era sua moglie, Carullo in cuor suo sapeva ormai bene che prima o poi si sarebbero rivolti a don Vito. Anna lo andava dicendo da mesi e forse non si poteva altrimenti. Carullo non ci vedeva davvero nulla di male: perché non farlo?, non gli avevano mai chiesto nulla prima; in fondo, cosa costava? Sí un piccolo sforzo, quello di andar da lui mogi mogi a chiedere di intercedere per un lavoro o lui stesso trovargliene uno! Nulla, rispetto al beneficio che ne avrebbero tratto. Perché allora continuare a torturarsi? Bastava sapersi porre, chiedere con grazia, e con questo già pensava che ad occuparsene non poteva che esser sua moglie, una donna a modo, certamente piú aggraziata di lui: son cose di donna, via! Non aveva nulla in contrario che fosse Anna ad occuparsene, anzi lo preferiva. Era meglio cosí!, farsi da parte e lasciare chi, con maggiore tatto poteva sbrogliare la questione. Lui non ne sarebbe stato capace e poi, del resto, Anna non è che fosse contraria: voleva essa stessa trattare con queste cose. Suo marito non sapeva cavarsela. Una parola fuori posto, un gesto malsano, un cenno incompreso avrebbero potuto mettere a repentaglio l’unica possibilità per loro di uscirsene dignitosamente.
E poi, don Vito era uomo di buon cuore. Ajutava tutti, soprattutto i suoi dipendenti. Diceva che se i suoi figli, come li chiamava, stavano bene, l’intera azienda (per tutti una seconda famiglia!), poteva restare in salute. Era inteso! Non è che si offrisse proprio a tutti, indiscriminatamente e… per niente in cambio! Non era quello il suo mestiere ma il suo buon cuore, davanti a una sua dipendente o un suo dipendente con particolare afflizione, non sapeva dir di no.
Bisognava però far le cose per bene, una specie di rito, una prassi ecco, che tutti si sforzavano di ripetere nei giusti modi e con la dovuta delicatezza appunto per l’occasione. E allora non era una novità vedere che una intera famigliuola, con figli a seguito, fuori dall’orario di lavoro, si recasse nell’ufficio di don Vito dove solitamente si tratteneva fino a tarda sera tra registri e libri contabili, a una manciata di i dalla sua bella casa. Don Vito, sempre disponibile, restava spesso in silenzio che questi terminassero con la esposizione del male persecutore, ognuno a suo modo, fino a zittire ansiosi, in attesa di una risposta. Don Vito si alzava dalla sua sedia, girava intorno nella stanza, attorno pure a loro (sempre in piedi!) e, preoccupato, diceva: vedrò cosa posso fare per voi! Un accordo si troverà, andate andate!, e con la mano chiedeva che lo lasciassero solo. Doveva riflettere, riflettere a lungo.
Questa riflessione durava tanti di quei giorni che se non fosse stato che quella famigliuola fosse stata ricevuta per davvero in udienza da don Vito, c’era da pensare che non stesse affatto riflettendo. Don Vito girava tra i banchi di lavoro dei suoi sarti, come nulla fosse accaduto, nella normalità, col suo solito fare tranquillo e sicuro, mentre la sua dipendente o il suo dipendente che aveva chiesto il di lui soccorso teneva lo sguardo basso, alla sua vista, come per non arrecargli altro fastidio, come se quello già datogli fosse piú che sufficiente: meglio non influire sulla decisione ancora da prendere. Finché, ahhhh, tutto si rasserenava, la decisione sembrava presa. Don Vito era sempre lí tra i banchi come nulla fosse, ma il sorriso rischiaratore che annunciava il lieto evento si stampava sul viso della sua dipendente o del suo dipendente che finalmente vedeva lontana la burrasca. Il lavoro, in realtà mai interrotto, riprendeva sereno, ma come se un brutto rospo fosse stato mandato giú ed era cosa ormai ata, da dimenticare. Superato, via!.
Paragrafo 1.3
Cosí doveva essere per Anna: un brutto rospo, pensava Carullo, per lei che non aveva mai dovuto chiedere soccorso, riuscendo sempre a cavarsela, come aveva sempre fatto in quei primi anni di matrimonio.
Anna era sempre stata una donna in carne, certo, mai grassa, una bella donna davvero, con quei suoi lunghi rossi e morbidi capelli che a Carullo ricordavano molto quelli di sua madre, un’altra splendida donna, come tutti la ricordavano in gioventú.
Somigliavano molto le due donne, la suocera, quando era giovane s’intende!, e la nuora, spaventosamente somiglianti, anche nel carattere, cosí somiglianti da andare facilmente in escandescenza e non poter stare troppo o a lungo vicini: due magneti. Per fortuna per la nuora, la vecchia, cioè la suocera, come la nuora la chiamava, era ata a miglior vita che era trascorso appena un anno.
Per Carullo era sempre la mamma, affettuosa e protettiva, verso l’unico figlio debole e indifeso. Aveva sempre badato lei a tutto, proprio come Anna ora, una seconda mamma. Fortuna che ora c’era lei, Anna, da poco moglie. Con la dipartita della vecchia, l’anno ato, le era toccata una misera eredità e un citrullo, il Carullo. In punto di morte, la vecchia le aveva persino raccomandato suo figlio, facendole giurare che avrebbe dovuto pensarci lei a lui, come fosse SUO. Come?, pensava Anna, non le basta? Dopo che lei, proprio lei, madre onnipresente, le aveva provate tutte per non darglielo in marito. E ora? Ora la vecchia, quasi a punirla, le aveva appioppato un peso sulla coscienza. Le sembrava che dicesse: l’hai voluto? prenditelo! E bada… che sarò sempre nei tuoi pensieri, come un tarlo, ogni volta che mancherai al nostro patto. Quale patto? Il tuo forse, brutta vecchiaccia!, era la sua reazione rabbiosa, quella di
Anna.
E questo tarlo, zach, le si infilava in testa cosí all’improvviso, quando meno se lo aspettava, a volerle rinfrescare la memoria – quasi ce ne fosse bisogno! – come se non bastassero i suoi sforzi… lei, che sentiva di rinunciare pure a se stessa, sempre di piú.
La bruttezza la stava divorando, cosí temeva. Quel po’ di attenzioni che il suo corpo ancor bello e prosperoso pur meritava riusciva a permettersele giusto al mattino, su due piedi, prima di andare al lavoro. E come dimenticarsene!, non poteva tra l’altro. Fra i banchi di sartoria, divisi da uno stretto corridojo, sembrava che sfilasse, lenta, ondeggiando, come su una erella, prima di andare a sedere al proprio posto. Il capannone la guardava, da cima a fondo, aveva occhi che sbucavano dappertutto. Tutti, uomini e donne la guardavano, imbambolati, ad ammirarla, piacevolmente costretta a raggiungere quel banco, l’ultimo, sotto gli sguardi, da dove l’ingresso si vedeva piccolo piccolo.
Le sue scarpe appuntite, rosse e smisuratamente alte, facevano quel corridojo piú lungo che a vedersi, costretta com’era a muoversi con lentezza. Ma lo faceva con tanta abilità e disinvoltura da celare magnificamente ogni fatica; nessuno mai a ben guardarla avrebbe potuto dubitare che quel modo di camminare fosse eleganza fatta a persona, semplice, con perfetta cura dei movimenti; ogni cosa al modo giusto, garbatamente, da fare invidia, a godere de la emozione per quelle occhiate adulatrici, sbadatamente ignorate con finta indifferenza, attenta a non sembrare diversa da se stessa e a non mostrare forzature che potessero stonare la sua andatura sinuosa e sciolta. Per natura.
Insomma bella, non nei dettagli, nell’insieme.
Un che di musicale! Sí, una piccola ruga qua, il capello fuori posto, la camicetta
non sempre tirata a lucido e tutte quelle impercettibili stonature di cui non ci si accorgeva nemmeno, presi dall’armonia del tutto. Non ava inosservata!
E c’era chi giurava di ricordarsela cosí, da sempre. Ma va là, va là!, si sentiva dire nei discorsi tra uomini. Quella lí era una Venere dieci anni fa, ancora piú bella. Credimi, ché l’ho conosciuta da vicino. E seguivano risate corali, sberleffi, pacche di intesa maschile, liberi ciascuno di vantare le proprie peripezie amorose.
Tutti però non riuscivano a darsi una spiegazione per quella che era una vera e propria stranezza, davvero una stranezza, uno scherzo della sorte: quella lí, cosí bella, moglie di un inetto, uno sconosciuto, ma che dico!, uno che a arti sotto gli occhi non ti accorgi persino che è ato: un perfetto signor nessuno.
E lei, lei invece, una bellezza orgogliosa e spavalda che chiunque, marito, avrebbe avuto difficoltà a domare; figurarsi lui, come si chiama? il marito?
Non era capace di badare a sé, meno che a lei che certamente meriterebbe un dio – tutti ne erano convinti. Come poteva riuscirci, quello lí? Guarda, dicevano, donne cosí si prendono coi guanti, son delle signore e bisogna saperci fare… ci scommetterei anche: se qualcuno ci riuscisse, lontano da questo postaccio, altro che fesso d’un marito!, lo farebbe becco. E giú altre risate, assensi e battutacce. Qualcuno azzardava a far dei nomi di chi mai potesse tentar l’impresa. Con lei c’era da essere veri uomini, altro che! Per tutti era Anna, la sola: la sua bellezza parlava per lei… bastava!
E Anna sapeva, sapeva bene di cosa fosse capace la sua bellezza, non tanto sulle altre donne, invidiosissime, quanto sull’altra metà dell’universo, quella forte, debole senza remore davanti a lei e pronta a riempirla di attenzioni, lusinghe e corteggiamenti: una principessa. Lei poi ci metteva del suo, e come!, adornando
ad arte la sua persona, lei stessa.
Anna Bazzan, unica donna rimasta tra i Bazzan, aveva avuto in eredità le arti della stoffa, nella bottega agrigentina di famiglia, un tempo non proprio bottega, florida com’era, con tre operaje a tempo pieno e suo padre Giacomo a dirigere, sulle orme del nonno Vittorio. Aveva da sempre respirato l’aria dei tessuti cogliendone i segreti per quell’unico fine: crearsi piacere. Senza desiderarlo, aveva dato uno scopo a quella sapienza artigiana, a sua insaputa ereditata (perché giocando, si impara pure!), di cui ora ne era maestra, ad uso e consumo della sua persona già tanto invitante e ammaliante di suo.
Dapprima per Anna quel posto era solo il luogo di lavoro di suo papà Giacomo, sempre indaffarato, l’unico dove poteva certamente vederlo, parlarci poco. Il solo fatto di essergli accanto, uomo distinto e raffinato, le bastava, la inorgogliva. Peccato che le fosse stato ordinato di non stargli tra i piedi: non è posto per te questo!, le urlava, divieto che per tutti tuonava (tuonava soltanto) piú di un comandamento. Anna si faceva minuscola al solo guardarlo, suo padre, un omone, zitta zitta ad ascoltare le sue parole, preziose come rubini. Quello che a gli altri sembrava caos, dappertutto sui tavoli, per lui aveva un senso, quasi riuscisse a vedere i suoi abiti già prima del loro nascere.
Guardava il banco e gli bastava per parlare in modo disinvolto di tailleur in velluto grigio o di gilet maglione girocollo in cachemire, quando lí non c’era che un cumulo di straccetti: che difficoltà capirlo! quanto si confondevano quelle povere donne! Le sarte si fissavano tra loro, confuse e stralunate, mentre il signor Giacomo guardava e toccava… toccava e guardava il banco nudo, appena liberato dalle stoffe dell’ultimo abito venduto alla signora Letizia. Ne sentiva l’odore, immaginandolo lí steso, stirato e profumato, il suo abito ancora da imbastire. Anna rimaneva estasiata alla vista degli occhi accesi di suo padre. Non c’era tempo da perdere… era un fremito. Quasi temendo di perdere la sua creatura, ava subito all’opera, prima che svanisse, e cosí vi restava per ore, e pezzo per pezzo nasceva e le stoffe prendevano forma, prima stese sul tavolo, poi indosso a un manichino, pieno zeppo di fili e spilli. Una piega qua, il
merletto da applicare in vita, e suo papà danzava elegante, attorno, correggendo ogni dettaglio e al collo sempre un metro³, sempre, a mo’ di sciarpa!
Intanto la ragazzina era là tra i banchi, attenta a non calpestare stoffe e cotoni, a raccattare i tagli avanzanti tra le gambe della Pia per farne adorni per scarpe, foulard, fazzoletti e ricami di ogni genere, ignorando a piè pari l’ordine di suo padre: non è posto per te questo!, tuonato (tuonato soltanto).
Fisseresti questo nastro con un punto?⁴, diceva Anna in silenzio per comprar gratuitamente la complicità della Pia che l’accontentava con una rapida serie di aggi con ago e filo e ne faceva uno splendido nastro per capelli:
Tieni. Ti piace?, le chiedeva la Pia.
Anna annuiva semplicemente, mentre fissava il disegno che quella aveva sulla testa, una meravigliosa dama di fine ‘800, orgoglio per il signor Giacomo.
Benché il dipinto fosse su quella parete da una mezza dozzina di decenni, conservava vivi colori e dettagli.
Si leggeva, in piccolo, ai piedi della donna: Manifattura Vittorio Bazzan, Girgenti, 1890.
Suo nonno Vittorio non aveva che vent’anni quando confezionò quella veste, su commissione della baronessa Claudine Guérin de Tencin, per il matrimonio di sua figlia.
Un abito da sposa in tre pezzi, stupefacente!: corpetto in raso di seta color avorio operato a motivi floreali, manichette corte a gigot e salvapudore in fasce di organza intessuta con cordoncino di seta. La sua chiusura frontale era fornita di sedici ganci e un finto cinturino in seta color avorio, a fasce sovrapposte.
E il corpetto… il corpetto presentava due elegantissimi orli di organza impalpabile generando, a spiovente, una raffinatissima bordura a doppia balza che evolveva anche sulle spalle a mo’ di Fichu. Terminava con un lungo volant a quattro ordini di organza che dal centro delle spalle scendeva sin giú. I volani nelle maniche erano molto ampi, a pagoda, anch’essi in organza orlate di arricciature di seta mentre le mostre del corpetto erano rivestite da un magico gioco floreale di fili d’argento, paillettes bianche, perline, coralline di opaline e delicati cordoncini di seta. La gonna, anch’essa molto ampia, in raso di seta color avorio, aveva un sontuoso strascico, rivestita a mo’ di velo, da tulle… impalpabile.
L’abito aveva anche una mantellina a corredo, plissettata arricciata e bordata da nastri di seta color avorio, perfilati da orli neri.
Un’icona per Anna, cosí raffinata e un che di ducale, sempre negli occhi.
Ma non era la sola, altro che! Tutte quelle signore che ruotavano in bottega!, sempre tutte eleganti, raffinatissime, ciascuna con una personalissima richiesta, una finezza, tra le piú curiose e stravaganti: abiti in maniche di Georgette, ricami in soutache di seta e paillette su tulle, bottoni fasciati in seta color nero, fodere in saia di lino color beige, e merletti, e pizzi, e tessuti, dai nomi piú bizzarri di persone e città: Valeniennes, Matelassè, Lamè, Jacquard, Taffetà, ognuno da trattare con particolare cura, amorevolmente. Le clienti dovevano uscirne soddisfattissime.
La Pia invece era affascinata dai colori scuri. Fosse stato per lei, tutti gli abiti sarebbero stati neri. Andava ripetendo ogni volta la stessa cosa, in silenzio, per non irritare il signor Giacomo, stanco per queste fissazioni: il nero è l’eleganza fatta a colore, diceva la Pia, sopra Dio non c’è signore, sopra il nero non c’è colore.
Paragrafo 1.4
Veniva su bene Anna Bazzan, adornando da sé la sua bellezza, con artifici e stratagemmi di gran classe, padrona di mille trucchi dell’arte del cucito e del ricamo. Dapprima fu per lei solo l’esercizio d’una maestria in fasce, per misurare la sua crescente bravura e le sue doti di sarta. Dopo, Anna cominciò a pensare che forse ne valesse la pena utilizzare quei nastri, i fazzoletti, le coccarde, i fermacapelli, i piccoli ornamenti che lei stessa aveva inventato, per esaltare la sua bellezza. Di essere bella era bella, con quelle sue labbra rosse e carnose, i denti bianchi e stretti in contrasto, la pelle chiara e mille piccole lentiggini. Ne aveva una piú vistosa qui, sulla parte sinistra del volto, non molto lontano dallo zigomo, quasi fatta apposta, miratamente disegnata, un’altra delle sue per elargire bellezza. Invece no, era sua quella lentiggine, cresciuta con lei… una pennellata.
Ne faceva di vittime d’amore! giovani e meno giovani, belli e meno belli, ricchi e meno ricchi, tutti ad ingegnarsi per lei, ad esporre le proprie virtù, tutte originalissime ed esclusive, uniche… tante artefatte.
E c’era chi, pur contro se stesso e infinite remore, le dedicava una serenata o chi le narrava di sentimenti d’altri provati per lei, assicurando che non fossero propri, o chi faceva sfoggio di ricchezze e terreni e meriti di vario titolo, tutti mostrando, chi poco chi molto, il meglio da offrire. E lei non disdegnava. Concedeva a tutti l’opportunità di stupirla. Lasciava fare, lasciava che ciascuno s’esibisse, non per servirla intendiamoci!, non per sua gloria, per vana ambizione da spettatrice esigente, ma per non lasciare nulla di intentato, che qualcuno riuscisse a colpirla, al giusto modo, né troppo né poco, senza esagerazioni. Facile chiederlo a lei (anche se non troppo)! Se qualcuno provava a elemosinare il suo ajuto: cosa vorresti che io fi per te?, oltre a restarci di stucco e delusa per la palese penuria di alcuna forma di abilità, da dichiarare che per se stessa non vi era alcun interesse, rispondeva pure stizzita di non essere tenuta, lei, ad
apparecchiare con piatti già pronti! Il vero è che non aveva risposte, sinceramente!, non avrebbe saputo nemmeno, perché lei cercava… ma cosa?… qualcosa… senza sapere cosa… esattamente. Non spettava a lei stupire se stessa, non le importava neanche (nemmeno a pensarci). Non che non fosse possibile, stupirla dico!, o che cercasse chissà che magnificenza, un’ambizione. Tutt’altro. Voleva essere conquistata, col cuore in subbuglio, il fiato sospeso.
– Possibile che non sappiano far del loro? Dove sono finiti gli uomini d’una volta? Su via, un po’ di fantasia, un po’ di sentimento! Al loro posto farei parlare il cuore, non la testa!, erano le conclusioni spesso deluse di Anna che finivano ogni volta per sciogliere le sue speranze come neve al sole per prove d’amore inesistenti.
Prove d’amore? quali prove? erano piú tentativi d’una certa fiacchezza, tanto per provare, trattata come una fra tante, lei, senza un minimo di rispetto, neanche per se stessi, nessun incanto: questo è corteggiare? Bifolchi!
Anna era bella davvero, di essere bella era bella, e il suo aspetto, primo a parlare, metteva a tacere. Tanto che una parola, un gesto o un saluto da parte sua apparivano d’obbligo per renderla piú umana e meno inarrivabile. Non lo faceva per loro, quanto per sé. Voleva sentirsi desiderata, preziosa, al centro di ogni attenzione, lei, la sola, unica. Aveva imparato ben presto a godere delle mille creanze a cui la sua bellezza poteva indurre gli uomini, fino a diventarne selettiva, a saper riconoscere a colpo d’occhio se l’ennesimo pretendente di turno potesse offrirle ciò di cui ormai si nutriva. Concedeva e… subito toglieva, incontentabile, persino antipatica: un capriccio per ogni riccio!, anche se i suoi capelli, una tavola. Era proprio cosí, bizzarra, scostante, fiera, impetuosa… bella bella! Indomabile!
Come non ricordare quell’incontro, il primo, casuale. Beh, chiamarlo un incontro no, non c’era mai stato un vero e proprio incontro o almeno, non come Anna avrebbe voluto. Era ancora giovane, con abitino bianco di rose fiorato, in cotone,
nastro rosa a fermarle i capelli e stivale bianco.
Un tale, un uomo alto, snello, dai modi gentili, molto, capelli folti e neri, pettinati come usavano in quegli anni.
Anna lo colpì subito. Non che lei ne avesse l’intenzione anzi, dapprima non si accorse nemmeno della sua presenza, fra tanti, di signori di quell’età. Non che fosse vecchio: un signore di mezz’età, uno fra tanti, uno che di essere notato da una signorina di bell’aspetto e con ambizioni d’amore ha scarse speranze. Non poteva esser visto! Non poteva essere cosí ambizioso da sperare di entrare nelle sue grazie: semplicemente non piú giovanotto. Sarebbe stato suo padre con lei a confronto!
I loro sguardi s’incrociarono casualmente mentre lui, con bambini al seguito, le ò accanto alla sedia dov’era seduta, al bar. Sembrava cercarla e vi riuscì, sfiorandole i capelli intrecciati stretti a coda di cavallo, perso tra i tavoli. Un tocco, rapido, le bastò per alzare lo sguardo, indietreggiare un poco con la spalla e capire cosa stesse succedendo, piacevolmente costretta a distrarsi dalle risa finte che frattempo regalava alla sua compagnia. Un caso (le sembrò), non curante dell’imbarazzo in cui quell’uomo era piombato per averla solo guardata nella folla.
– Mi scusi, le disse prontamente col volto in fiamme.
Anna lo guardò soltanto, con indifferenza, e sorrise per scusarlo. Basta.
Facile che ogni tanto ricevesse qualche scossone!, urtata di qua, colpita di là, borsette rosso lucido che vedeva are all’altezza dei suoi occhi, bambini che
strillavano, e risa, e urla, e battute ad alta voce. Pochi minuti, e quell’episodio le era ato di mente. Con tutto quel frastuono poi!, un dolce frastuono, per Anna. La rendeva viva, libera di sentirsene parte, in allegria, spensierata, orgogliosa, orgogliosa sopra tutto di esibire il suo abbigliamento mai fuori luogo e sempre con una chicca, personalissima. Tra gli amici, tra le amiche, quasi a soffocarla di attenzioni, immersa in commenti rivolti alla sua persona, lei suscitava interesse, sempre. Con lei presente non si parlava che di lei, Anna.
Anna di qua, Anna di là, attenta qui, bella la tua acconciatura… blà, blà, blà.
Eppure, ce n’e era sempre una, ne aveva sempre una… perché le sue abilità sembrava non avessero limiti. Nulla di cosí vistoso o sgarbato, nossignore, ma riusciva sempre a inventarsi l’accessorio dell’occasione, l’ornamento che prima o poi qualcheduno avrebbe notato, in onore del quale non si sarebbe risparmiato di farle un complimento, una cortesia (astuta!), già solo per la fantasia che ci aveva messo. Era l’idolo delle ragazze che quasi stramazzavano per contendersi i suoi regali - perché di tante cianfrusaglie Anna non sapeva che farsene - come lo era tra i ragazzi, per la sua bellezza, la sua disinvoltura, per quanto fosse sfacciata nel non temere commenti, per come esibiva le sue creazioni. Si inclinava e casualmente mostrava il suo ultimo fermacapelli (proprio astuta!). Di colpo, mille occhi addosso.
– Bello!
– Sul serio?, ribatteva Anna con finta meraviglia, come non meritasse tanto stupore… roba da nulla!
– E anche molto.
– Guarda, l’ho preso da una rivista. Ci ho dovuto lavorare del mio, sai?, mi sembrava appariscente.
D’improvviso, la cosa che un attimo prima era non meritevole di tanto interesse, ora, era arricchita di particolari e stratagemmi su cui lei stessa, Anna, si era adoperata. E aspettava commenti adulatori, a pioggia, che esaltassero la sua bravura, il suo ingegno, fino a ricevere immancabile quanto ovvio per lei, la frase d’effetto d’uno spasimante prontamente ricompensato con un ampio sorriso di finto imbarazzo.
Le fu consegnato un bigliettino dal cameriere: per lei, le disse.
Anna lo prese incuriosita, lo aprì e vi trovò dentro un fiore, una grossa margherita, custodita con cura nel fazzoletto, senza schiacciarla. Doveva esser lí da poco, ancora intatta. Il biglietto aveva delle tracce di umido, sotto lo stelo vivo, ripiegato per permettere al fiore di dormire, protetto. Vi lesse: perdoni la mia sbadataggine!
Anna con il fiore tra le mani guardò in direzione del cameriere, a cercar risposte: nulla, le dava le spalle. Allora, provò a cercare con lo sguardo intorno a sé e in mezzo alla folla scorse ancora lui, l’uomo con i bambini al seguito, che le rivolgeva un cenno di saluto e a fianco una donna. Abbandonavano un tavolino pieno zeppo di bicchieri impiastricciati, sporchi di limonate e spremute. Solo in quel momento Anna notò che tutti i tavoli in quel bar avevano al centro un vaso in vetro, a collo lungo, ognuno con un fiore diverso. Il suo, dell’uomo, era vuoto, spariti acqua e fiore. Quei vagabondi della sua combriccola lo avevano rovesciato per terra, solo acqua. Senza fiore!, sussurrò Anna.
ò tutto il giorno a pensare a quel gesto, un gesto di galanteria, dedicato soltanto a lei, che era riuscita a suscitare in un uomo cosí a modo il desiderio di
un dono, per lei solo. Era stata sempre circondata da spasimanti, tanti, ognuno con atti e gesta eclatanti. Sí, si era sentita orgogliosa, unica… e come non esserlo al suo posto! Il sogno di tutte. Mille inviti, quanti rudi, poco aggraziati o impertinenti, e questo invece, cosí… inusuale… delicato… sionato, cosí, per far sentire importante una donna, a tal punto da temere di averla offesa, e solo per averle urtato una spalla, per caso, accidentalmente: un reato!, in segno di rispetto, una sorta di venerazione tanto da parlarle senza parlare: scrivere, offrirle un fiore.
Pensò a lui, quel giorno e per gli altri a venire. E piú ci pensava piú maturava in Anna la convinzione che proprio un caso, le venne di pensare, forse, non doveva essere stato. Un caso forse no, e rivedeva l’uomo, i bambini, il suo volto arrossato, il saluto… e il biglietto. Non ne era certa, dubbiosa sí.
Ricostruì l’accaduto mille e piú volte, fino a ricordare molti dettagli ati di mente: l’urto, ma che urto!, Anna reagiva contro se stessa: avrà solo pensato di toccarmi, non ricordo nemmeno che lo abbia fatto, forse non l’ha fatto neanche!
Si rivedeva: lei seduta, sposta la spalla sfiorata, leggermente indietro, alza gli occhi, nemmeno tanto infastidita (una cosa da nulla) e gli regala un grosso timido sorriso. Le a accanto, seguito da uno stuolo di bambini di varie età, tanti, nemmeno suoi forse, e ritorna al suo tavolo.
Sí, stava ritornando dalla sua donna… forse la madre dei piccoli, forse sua moglie, seguitava Anna. Ricordava poco altro, solo tanto baccano, e quel tavolo circondato da bambini. Era certa di una cosa: pochi minuti piú tardi da quell’insignificante tocco, ecco il biglietto… e il cenno di saluto di uno sconosciuto rimasto per ultimo in piedi a quel tavolo, con le spalle alla donna poco piú in là.
Ma come, come avrà fatto?, si ripeteva. Dopo avergli sorriso, Anna ricordava di averlo visto sedere al suo posto, dove vi era rimasto… cosí ricordava! Come era riuscito in cosí poco tempo a preparare il messaggio, a arlo poi al cameriere?
Anna ci pensava continuamente: eppure, ha avuto poco tempo!, si ripeteva. La entusiasmava scoprire nuovi dettagli che la conducevano tutti alla stessa conclusione: non era stato un caso! E poi… la donna con lui, non si era accorta di nulla. Non poteva pensare che un gesto impreziosito da tanta galanteria fosse stato orchestrato davanti a lei, per caso. No mai: confezionare in presenza della sua donna un dolce pensiero per un’altra! Pensando a questo le sembrava di sentirsi piú vicina a lui, quasi lo conoscesse, un po’ di piú, per una cosa che avevano in comune. Apparteneva a loro due soltanto, il loro piccolo segreto che li rendeva amanti. Amante, una parola che per lei non aveva mai osato, sempre tanto lontana, che le riportavano alla mente baroni e duchesse raffigurati nei dipinti, in bottega da suo padre. Intrecci, ioni, amori, sopra tutto e tutti… roba d’altri tempi. Macché roba d’altri tempi! E questo allora? Questo che le era accaduto?… ne era la riprova. Lui, di un’altra donna, forse di lei sposato, con un gesto aveva messo in subbuglio un cuore inesperto; lui, con almeno il doppio dei suoi anni, che Anna aveva. Che coincidenza! Si era chiesta il perché di quel fiore. Sí, era lí, sul tavolo. Ci fosse stata una rosa, le avrebbe fatto recapitare un petalo: sí sí ne sono certa (forse), diceva, ma se avesse potuto davvero scegliere, avrebbe scelto di sicuro una margherita. Il fato! Riviveva quei momenti e, rivedendoselo, si convinceva che non avrebbe potuto che scegliere una grossa margherita, per lei, timido (è logico!), uno spasimante ormai non tanto reale, ricco di qualità e virtù forse ben lontane dal vero, galante e raffinato, timido e audace, forte e comprensivo. Per Anna quell’uomo ben presto diventò un simbolo per il modo con cui l’aveva conquistata, per la rapidità con cui aveva attraversato la sua vita, apparso e subito svanito… nel nulla. Anna ci ritornò a quel bar, il giorno dopo, ogni giorno, per settimane, poi… sempre meno, fino a rinunciarvi.
Custodì quel fiore, riponendolo nello scrigno, il cofanetto in cui Anna teneva nascosta se stessa con le sue cose, quelle piú intime, i suoi sogni, per sé sola, con tutte le altre di un tesoro unico, un tesoro di quelli che di punto in bianco scompare fino a pensare di averlo smarrito, dimenticando di averlo nascosto cosí
gelosamente un tempo e capace poi di strappare un sorriso di malinconia a rivederlo. Sí, la tenne lí quella margherita e, forse c’è ancora. Anna ci aggiunse delle frasi su quel biglietto, fantasticando che fosse stato lui, quell’uomo, a scriverle, perché sarebbe stato certamente cosí se ne avesse avuto il tempo, se non avesse avuto quell’altra lí tra i piedi ad impedirgli di aprire il suo cuore, a quella ragazzina quasi donna, lí seduta poco distante da lui.
Le donne come sugli alberi⁵ le mele.
Le migliori sulla cima dell’albero.
Gli uomini non ambiscono alle migliori,
perché hanno paura di cadere e ferirsi.
Io non ho paura.
Gli uomini preferiscono le mele cadute per terra ché,
pur non essendo cosí buone,
son facili da raggiungere.
A me non piacciono.
Perciò, le mele che stanno sulla cima dell’albero
pensano che qualcosa non vada in loro,
mentre in realtà sono grandiose.
Devono solo essere pazienti e aspettare
che l’uomo giusto arrivi,
coraggioso da arrampicarsi fino in cima.
Poi, poco piú in basso la replica, in un dialogo a distanza. Anna aveva risposto con la sua grafia arricciata e inchiostro piú marcato, sicuramente qualche tempo dopo:
Noi donne non dobbiamo cadere per essere raggiunte.
Chi ha bisogno di noi e ci ama
fa di tutto per raggiungerci.
La donna uscì dalla costola dell’uomo,
non dai piedi per essere calpestata,
né dalla testa per essere superiore,
ma dal lato per essere uguale,
sotto il braccio per essere protetta,
accanto al cuore per essere amata.
______________________________________________
¹ lanital: lana italiana, prodotta durante il fascismo e derivata dal latte ² cràh! cràh!: citazione della cornacchia in Ciàula scopre la luna – L. Pirandello ³ metro: metro a nastro per sarti ⁴ fisseresti questo nastro con un punto?: Anna chiede di fissare il nastro, cosa possibile con qualche punto di cucitura
⁵ Le donne sono come le mele sugli alberi – William Shakespeare
Capitolo 2
Paragrafo 2.1
Quella mattina Carullo si levò un po’ piú tardi benché sveglio da ore, alleggerito dall’impegno di dover cercar lavoro: ci avrebbe pensato Anna. Non era giorno di lavoro, nemmeno per lei eppure era piú indaffarata del solito. Aveva detto a don Vito che sarebbe andata da lui per parlargli, in ufficio, a mezzogiorno in punto. E c’era da scommetterci!
Come sempre, don Vito era lí, con le sue cose, quasi non riuscisse a staccarsene, ma Anna aveva comunque preferito annunciarglielo, per educazione e per non rischiare di ritornarsene a casa a mani vuote, vedendosela inaspettatamente tra i piedi. Lui accettò, di buon grado, anzi, ne fu quasi contento: cosí almeno ci sarebbe stato qualcuno a farmi compagnia, disse don Vito in una di quelle giornate in cui lo stabile era deserto. Strano!, andava ripetendosi don Vito, Anna qui, insolito.
Molto insolito lo era certamente perché a pensarci bene non era mai capitato che Anna gli chiedesse udienza fuori orario. Questo suscitò in lui una sorta di curiosità, quasi eccitazione. Era in ufficio di buon’ora, come sempre, e l’idea della visita di quella donna rendeva piú lenta la giornata. Non c’erano state molte occasioni in cui era riuscito a parlarci, non nel suo ufficio, loro due soli. In sua difesa chiunque avrebbe potuto sostenere che don Vito non amava parlare con i suoi dipendenti singolarmente, preferiva di no, al piú solo di lavoro e sempre in pubblico. Ciò che non era strettamente legato all’azienda poteva restar fuori, anche solo per non suscitare invidie e dicerie.
In ogni caso, il suo ufficio era sempre aperto, disponibile a tutti. Trovava sempre il tempo per ascoltare i suoi dipendenti, come figli, con i loro problemi, le loro difficoltà e da buon padre spesso se ne era interessato, senza però mai evitare di
trarne vantaggio. Sí, poca cosa. Nulla di che. Ma dovevano pur capire che restare lí con loro, a sobbarcarsi affanni non suoi, a trovare soluzioni arzigogolate, richiedeva ingegno e pazienza e, come lui diceva, l’ingegno senza impegno, sdegna… capite bene!
Non si era mai rifiutato ed era sempre riuscito a trovare una soluzione per tutto. Andavano da lui, chi da solo per affidarsi ad una sorta di intimità personale o amicizia che potesse esser richiesta e chi, con la famiglia tutta, in segno di rispetto o per dar valore all’ambasciata o per suscitare comione. Lui accoglieva tutti, amorevolmente, persino adirandosi con chi, appena accomodato, cercava subito di esporre la propria situazione, ansioso di descrivere il tipo di ajuto che era andato lí per chiedere, con la voglia di chi ha bisogno di strapparsi un peso nello stomaco. Don Vito invece voleva fare tutto con calma… non era necessario imbattersi con tanta premura in questioni che richiedevano impegno. Si parlava di altro, molto altro… don Vito parlava, parlava, chiedeva e parlava, fino a dimenticare il reale motivo di quell’incontro… o almeno cosí credevano tutti, tranne lui, fino a che qualcuno, intimorito e con la coda tra le gambe, osava interrompere. Beh, almeno ci provava, perché la mano di don Vito si sollevava leggermente dalla poltrona su cui era seduto e ondeggiando faceva segno di aspettare.
Poteva proseguire anche per ore, discutendo del lavoro, della casa e, se era là anche l’intera famiglia, non si risparmiava in complimenti ai figliuoli e alla bella moglie (se ne aveva una e bella!), chiedeva delle abilità in cucina della signora e della bontà delle sue pietanze: eh, diceva, voi sí che non avete di che penare… a sera vi ritrovate intorno a un tavolo, a cenare, tutti insieme ad alleviare cosí la giornata. E io qua, aggiungeva, solo, vedovo da una vita, per pensare a tutti voi, i miei figli, per la vostra felicità, a curare le vostre sofferenze. Non finiva la sua lagna che la famigliola tutta intorno si adoperava premurosa a consolare don Vito. Don Vito che dite!, esclamava con delicatezza la signora Anselmi, Voi, circondato da tanta gente, che Vi vuol bene, come ad un padre. Lo avete detto Voi stesso…
Tenete, aggiungeva il marito, mia moglie l’ha preparato per Voi, con le sue mani, e con uno scappellotto dietro la nuca spingeva suo figlio di qualche anno ad avvicinarsi, rimasto immobile per piú di un’ora con un fagotto tra le mani. Oh no, che fai, povera creatura!, diceva subito don Vito, e alzava ancora la sua mano come per proteggere il piccolo da un padre cosí insensibile.
Non c’era bisogno che per causa sua volassero ceffoni… se ne dispiaceva perché, diceva, è come se partissero dalle mie mani. E con lo stesso braccio seguiva il movimento del bambino, indicandogli dove posare la prelibatezza che la sua mamma aveva preparato apposta per lui. E come vi trovate nella vostra nuova casa? L’avete acquistata lo scorso anno, se ricordo bene… riprendeva don Vito che ritornava a preoccuparsi dei suoi ospiti, meritevoli di pari attenzione dopo il gradito pensiero che avevano avuto per lui. Davvero bene, rispondeva entusiasta la signora Anselmi. Finalmente una casa piú grande, Filippo ha avuto una camera tutta per lui e la cucina, don Vito, dovete vedere!, una cucina coi fiocchi, persino il frigorifero all’americana e il forno elettrico, nuovo, di acciajo lucido… una meraviglia. Pensate che Filippo sta sempre lí a giocare. Lo riempie di impronte con le sue manine che tiene fisse attaccate sullo specchio, ma va che è una meraviglia. Cucino di tutto. Anche il dolce che ho cucinato per Voi l’ho preparato grazie a quel forno.
L’entusiasmo della donna cresceva, un po’ meno quella del marito, preoccupato delle cambiali che aveva dovuto firmare.
Mi fa piacere signora Anselmi che avete scelto bene… la casa è importante, bisogna starci bene, deve essere comoda e accogliente. Non importa se è grande o piccola e poi… l’importante è che sia Vostra! E su questo Vostra, don Vito ci calcò un po’ la mano rendendo ancora piú evidente la preoccupazione nel volto del signor Anselmi. Dico bene?, aggiunse don Vito, rivolgendosi all’uomo. Vi vedo un poco preoccupato, non siete cosí contento come vostra moglie. L’uomo impacciato si sentí come se gli stesse toccando una ferita aperta e subito rispose: sí sí don Vito, come no? Sono contento, proprio contento. La casa di essere bella è bella, è grande, è tutto come dice mia moglie. Però… Però?, replicò don Vito
incalzandolo, qualcosa non va?
No no, nulla di grave, e il signor Anselmi cominciò a farsi piccolo piccolo e con lui anche sua moglie, con la faccia preoccupata e gli occhi per terra. È la banca, aggiunse mordendosi le labbra.
Eh, siamo alle solite… le banche, cominciò don Vito con energica protesta. Prima promettono promettono e poi giocano con i sogni della povera gente come voi. E cosa vogliono da voi?, riprese mostrandosi interessato e piegando il busto verso i due.
Loro niente, rispose Anselmi, niente di piú di quello che gli spetta. Sapete don Vito come vanno queste cose… quando ti trovi nel momento del bisogno, quando pensi che finalmente hai una casa tutta tua, firmi, firmi e basta, tanto ci penserà il buon Dio a darti una mano. E no, reagì don Vito, cosí con tanta imprudenza no, non dico per te (ora gli dava del tu) che sei un uomo, giovane e te la puoi cavare… devi pensare alla tua famiglia, alla tua bella moglie, un figlio cosí piccolo. Come farebbero se tu non fossi piú in grado di rispettare il tuo debito? Faresti lavorare tua moglie? Ne farebbero un sol boccone!, alludendo alla sua avvenenza. La donna arrossí per l’audacia di don Vito, animato dalla voglia di strigliare ben bene il marito.
Anselmi provò a difendersi dichiarando di lavorare come un somaro, anzi non poteva che ringraziare don Vito per il lavoro nella sua azienda, grazie al quale poteva permettersi di badare alla sua famiglia. Già da mesi aveva provato a restare sul posto di lavoro ben oltre l’orario di chiusura… sí, un po’ di straordinari fanno sempre comodo, e gli era stato pure concesso, da don Vito, grand’uomo! Ma ora, ora come poteva, nello stato in cui si trovava sua moglie?
Incoscienti!, urlò don Vito. Non per farmi i fatti vostri, ma potevate pure stare
attenti!, e i fatti loro se li fece, eccome, tanto che i due giovani non se la sentirono di ammettere che non si era trattato di un errore; a quel punto lo avrebbero fatto adirare sul serio e rischiare cosí di essere mandati via, malamente. Sembrava non finisse mai la sua ramanzina, come se stesse parlando a ragazzini inesperti e in preda a una ione irrefrenabile. E quelli zitti, muti, a caricarsi del prezzo da pagare in cambio di ajuto, e con loro zitto pure il piccolo, costretto dai genitori.
E ora voi siete qui, da me, a chiedere ajuto?, urlando. Avreste dovuto pensarci prima!
Sempre piú incerto diveniva l’esito della spedizione: don Vito non li avrebbe ajutati. Che idiozia, sembravano dirsi i due guardandosi, cedere cosí alla voglia d’un figlio, un altro, loro che uno lo hanno già, bello come il sole, già grandicello. Cos’altro di piú? Come dare torto a un uomo avveduto come don Vito? Che stupidi davvero!
Sentiamo un po’, da me cosa vorreste allora? In che modo dovrei ajutarvi?, e don Vito lasciò che confessassero.
Un anticipo, riprese il giovane balbettando, un anticipo su qualche cambiale, e subito si affrettò prima che don Vito esplodesse ancora e gli impedisse di dargli la sua parola: parola d’onore che entro qualche giorno Vi restituirò tutto, fino all’ultima lira.
E don Vito sbraitava sbraitava, ma una cosa volle dirla: non sono una banca! Non credere di tenere i miei soldi finché ti pare, e per il signor Anselmi, ritto sulla schiena, parve cosa giusta. E poi, non posso rimetterci del mio, prestandoti il mio capitale. Si capisce, aggiunse Anselmi.
Non sono una banca o un esattore ma… l’ingegno senza impegno, sdegna… capite bene! Mi basterà il dodici , intendiamoci!
Certo certo, continuava a ripetere Anselmi, sordo alla lista di richieste del suo creditore… cosí sarà tua premura restituire il dovuto, sentenziava don Vito.
Del resto, nessuno li costringeva, un patto è sempre un patto, fra uomini: erano liberi di fare per il loro meglio.
Paragrafo 2.2
Quella mattina Anna aveva un affare troppo importante da sbrigare ed era bene che non lasciasse nulla al caso, sfoderando le sue armi migliori. Preparò tutto con minuzia, attenta anche al piú piccolo dettaglio, quasi si trattasse di un piano di battaglia, da vera stratega. Si mise in arte presto, provando, riprovando, abbinando, accostando vestiti con cura: questo va bene!, era deciso, pantalone di velluto leggero marrone, e una camicia bianca a collo largo, molto. Un abbigliamento sobrio, pensava, un leggero velo di rossetto rosso lucido. La sua bellezza la faceva da padrona, con quegli occhioni azzurri e i suoi lunghi capelli rossi che aveva pettinato per ore finché non fossero diventati morbidi ovattati. Sembrava risplendere: una spruzzatina di profumo, fiori di pietraglia e – tocco finale – il fermacapelli, rosso come i capelli, corredato di una fantasia di fiorellini in cotone bianco all’uncinetto, che lei stessa aveva concertato. Pareva che quei fiorellini fossero spuntati sulla testa, delicatamente, magicamente fermi sulla chioma rossa. Non l’aveva mai indossata, in cerca di occasioni: questa. Era quel che le serviva per raccogliere tutte quelle ciocche che altrimenti le sarebbero cascate sulle guance. Ne ottenne uno sguardo disarmante libero di far rapimenti. Era pronta.
Carullo, ancora assonnato, aprì gli occhi che un inusuale odore invadeva la sua camera da letto. Gli sembrò familiare, un odore non troppo intenso né fastidioso, che gli pareva di aver già sentito. Certo non era un odore di cucina, né di alcuna delle piante a fiori che Anna aveva in casa. Però, gli ricordava qualcosa… ci avrebbe giurato! Vide Anna che era lí seduta, davanti allo specchio, di spalle.
Stiracchiandosi, Carullo le chiese: che fai?, e dopo qualche istante di silenzio, necessario per non distogliersi dai suoi capelli, devo andare da don Vito, disse Anna.
Da don Vito?, riprese Carullo non ricordando ciò che Anna gli avesse detto appena la sera prima. Ah già, don Vito! Si corresse subito per evitare che sua moglie gli rinfacciasse la solita cattiva abitudine di non ricordare quello che gli si diceva, quasi lo fe apposta. E restò lí a guardarla, sdraiato sul letto, con il suo sorriso da imbecille. Anna, con il marito dietro la nuca, sentí perdere la sua intimità e un po’ seccata: cos’hai da fissarmi?
Niente, rispose Carullo, rimanendo sempre lí fermo a contemplare le forme di lei. Non è da tutti i giorni vederti cosí.
Forse c’è poco per cui mettersi in bella mostra, rispose Anna, ancora piú seccata e continuando a pettinarsi col capo chino.
Le parole di suo marito le appiccarono un fuoco d’ira, dentro, un’esplosione: non è certo per colpa mia, avrebbe voluto urlare, stupido piú d’uno stupido. A me lo vieni a raccontare? A me che ci ho sguazzato dentro per una vita, come fossi una bambina che non può onorare una pozza se non saltandoci dentro. Ahi voglia a dirle di star lontana! Non l’hai nemmeno terminata, che c’è già finita in mezzo. Ma se è per te, per te, sí, per te se sono finita in codesto stato! E lui? cos’ha da dire? «che fai?» Che fai ?!?! Stupido! Mi faccio bella, ecco che faccio, come non sai, come non vedi!, e intanto storceva le labbra in una smorfia di disprezzo.
Anna era andata in sposa a Carullo solo da qualche anno, e tutto era precipitato cosí velocemente, senza poter far nulla per impedirlo, stanca, quasi non ne avesse la forza, la voglia. Sapeva che le cose sarebbero cambiate per lei, anzi, erano proprio cambiate! Il loro matrimonio doveva servire proprio a questo, a mettere un freno alle dicerie della gente, ne andava del suo nome, quello di tutta la sua famiglia… onesti lavoratori caduti in disgrazia. Doveva sposarsi. Quanta fretta! E perché poi? Neanche fosse vicino il giudizio universale. Ah, se non fosse stato per quel giorno maledetto!, e le ritornavano alla mente quelle fiamme furibonde e alte in piena notte accese a giorno. Il magazzino delle stoffe completamente distrutto, senza un motivo, quasi quelle lingue di fuoco fossero
nate dal nulla. Si portarono dietro quel po’ di sostanze che la sua famiglia si era costruita con tanta fatica, con quell’unica figlia, cosí spavalda, non piú giovanissima e ancora da maritare. Anna non ci pensava nemmeno, la sua famiglia sí. Le avevano preparato l’intero corredo, il meglio, trenta di tutto, di ottima qualità, confezionato direttamente da suo padre.
Prima o poi le a!, diceva la Pia a rincuorare il suo principale, il signor Giacomo. Speriamo, rispondeva il signor Giacomo ondeggiando il capo. È arrivata a trent’anni!
La Pia avrebbe voluto dargli ragione, pensando che proprio lei si era trovata zitella dopo due o tre inviti a nozze rifiutati. Le erano venuti uno dietro l’altro. L’avevano lusingata, illudendosi che ce ne sarebbero stati altri. C’è tempo, diceva allora, quand’ancora giovane e sopra tutto credendo di esserlo per sempre, ne aspettava anche di migliori. E invece… furono gli ultimi.
Su via, non si preoccupi, riprese la Pia. Non è piú come ai nostri tempi: la donna oggi è lei che decide se e quando sposarsi, fa quel che vuole della sua vita. Non sente che sta succedendo? La vede la TV? Come no, rispose il signor Giacomo, ed è per questo che ho paura. Con queste idee per la testa, finisce che nessuno se la piglia. Sí, della sua vita fa quel che vuole, ognuno decide per sé, ma per maritarsi si è in due e devi poi trovare chi ti mariti a quell’età. O Signore, quel fiore di ragazza!, riprese la Pia, energica, protestando. Ma non fece in tempo a finire che volle mordersi la lingua: aveva dato il la⁷ al signor Giacomo per esordire col solito motto: la bella senza dote trova piú amanti che mariti, puntuale pure stavolta.
Il signor Giacomo non è che ci credesse poi troppo a certe cose, non partecipava volentieri a questo tipo di dibattiti, se non trascinandocelo dentro per la giacca. Era ato poco piú di un decennio dal ‘68, a cui aveva prestato l’orecchio soltanto, da lontano, restando alla finestra. Aveva visto cambiare la gente e i loro gusti, amareggiato per il calante interesse delle donne per pizzi e ricami.
Restavano quelle di vecchio stampo, le donne nate amanti del bello, ma ora?, ora non piú. Fino a non molto tempo prima, lo imploravano affinché prendesse nuove apprendiste, in suo affido, per insegnarle il mestiere, senza esser nemmeno pagate, purché le tenesse con lui lí in bottega. Perché ce n’erano di affari e danari, per le sarte, quelle vere!
Oh sí certo, lui aveva provato a convertire la sua sartoria, per restare a galla, il mercato lo richiedeva: come rifiutarsi. Per lui era stata una forzatura, una tristezza: quell’abbigliamento, sciatteria, diceva, ma non poteva fare altrimenti.
Fosse stato per lui, avrebbe volentieri cosparso il pavimento di petali di rose nel vedere che nella sua bottega entravano una o due donne, distinte, eleganti, e al braccio una giovane, di sicuro una giovane sposa. Ormai se ne vedevano sempre meno. Gli sembrava ogni volta di rivivere il ato: che poteva capirne quella ragazzina, fin troppo, per apprezzare! Le due dame, con lei, le sceglievano il meglio, senza sapere il valore del regalo che stavano per farle: musica per le orecchie. Finalmente poteva districarsi tra le sue raffinate lenzuola di lino, tovaglie, coordinati, ricami: palato sopraffino!, esclamava il signor Giacomo ogni volta che le signore aggiungevano un pezzo di sicura qualità al corredo della sposa. La giovane era lí che rispondeva a comando, rifacendo ivamente quello che gli altri facevano. Toccavano i capi, li accarezzavano, li stropicciavano, ad uno ad uno, per saggiarne ora la morbidezza, ora lo spessore… persino il rumore sotto il palmo della mano. E ricostruivano a gran voce tutti quegli ornamenti, immaginandoseli lí pronti, già applicati, mettendoli a confronto tra loro, in competizione… un vero e proprio affare personale: no no, questo qui deve essere un pizzo sangallo!, andava ripetendo la suocera. Ora la suocera era lei e le spettava, come aveva fatto sua suocera. Ricordava che anche la mamma del suo defunto marito, sante anime, aveva tanto insistito che ci fosse nel suo corredo.
Comare Lisetta, scusatemi se vi contraddico, io per me, non sceglierei il sangallo… e questo allora? Vi immaginate un intero letto con un lenzuolo di siffatta fattura, con un sangallo? Signor Giacomo, invocando un intervento
risolutivo, non ci starebbe bene, che dico, benissimo, un rinascimento?
Il signor Giacomo non chiedeva altro che essere tirato in ballo. Sfilava dai suoi scaffali matasse su matasse che sul banco finivano per creare una parete di tessuti di mille colori.
Paragrafo 2.3
A mezzogiorno, quella mattina, al suono del camlo, don Vito sussultò, su le sue carte. Non c’era nessuno nello stabilimento, tranne il custode in portineria. Da poco aveva congedato alcuni fornitori venuti apposta per rendergli conto di alcune fatture ancora inevase: scocciatori.
Era riuscito a mandarli via con qualcuna delle sue promesse, lui che ne sapeva una piú del diavolo e poi… lui era sempre don Vito, un po’ di rispetto! Potevano mai dubitare della sua parola?, bastava solo quella ed era pure troppo. Dovevano farsela bastare. Sennò, sarebbe stato un atto di offesa verso un uomo di tale onore, uno che dal nulla era riuscito a mettere in piedi tre stabilimenti di tessuti, calzature e confezionamento. Dava lavoro a decine di persone, e per questo, tutti lo rispettavano. Sentiva di meritarlo, se non anche il loro affetto, avendo avuto sempre a cuore i suoi dipendenti e le loro famiglie: i suoi figli, come li chiamava.
Non riusciva a togliersi dalla testa l’inusuale appuntamento con quella donna, molto bella, dalla quale però aveva mantenuto sempre un certo distacco, non perché lo avesse voluto, almeno lui, quanto piú per non esserci stato mai modo. Oh sí, don Vito in persona pagava i salari a tutti. Quando era giorno di paga, dopo il lavoro, venivano a mettersi in fila dietro la sua porta, aspettando ciascuno il proprio turno e tra questi anche Anna; ad uno ad uno, in fila, vi entravano, solo dopo che scandiva quel suo «avanti!».
E trovavano, dietro una enorme scrivania in mogano, una testa piccola, quella del don⁸.
Pagava in contanti. Le banconote erano già sul tavolo accatastate, di taglia piccola per dare l’impressione che fossero tante. Don Vito le faceva trovare già pronte per evitare di tenerle tra le mani: brutto gesto, un po’ rozzo.
L’operajo di turno, silenzioso, le prendeva senza neanche contare, salutava e subito usciva fuggiasco, voltando le spalle al suo benefattore e la refurtiva in tasca, come per non causare altro disturbo. La stanza, grande, con l’odore delle carte impolverate, era silenziosa, sempre. Da questa parte del tavolo, una sedia lucida come nuova, la sedia per gli ospiti, difronte al don che nessuno mai osava sedere per non sporcare: tanto è roba di un attimo, tutti dicevano.
Cosí era, veramente: si alternavano ansiosi, imbarazzati e piccoli piccoli davanti a lui, seduto dall’altra parte… per quel denaro, sudato, maledetto e necessario, accompagnato da un sorriso reverenziale. Mentre lui era lí che guardava, con quegli occhi neri e vispi. Non stavano mai fermi. Se provavi a fissarli, dondolavano a scatti… forse un tic nervoso. Seguivano ogni movimento, ogni dettaglio.
Quando la mano si posava sul mucchietto di carta per prelevarlo – la paga – gli occhi nevrotici del benefattore gli si stampavano sopra, trasparivano una sorta di maledizione per questo distacco forzato dal suo denaro, per questa incombenza a cui doveva sottostare, ingiusta e violenta, perché sí, quel denaro era suo, suo e di nessun altro, nemmeno loro che servivano a poco. Loro o altri, per lui non cambiava, faceva lo stesso. Eppure ne aveva bisogno, non di loro, di ciascuno no, ma di tutti, per far camminare la sua azienda e dovevano farlo bene e senza intoppi, di nessun genere. Perché l’anima, la vera essenza di tutto, era lui, don Vito, che aveva creato tutto, da solo, dal nulla. Gli altri c’erano perché dovevano, ciascuno come tanti, ingranaggi tra molti, ognuno minimo, disperso nella complessa macchina produttiva che cosí bene funzionava, un ruolo tutto sommato modesto rispetto alla complessità del tutto, che andava bene di suo, per nulla scalfibile, figurarsi dal piccolo: niente in confronto.
Devono sentirsi orgogliosi già solo per farne parte! Ecco, questo devono!, orgogliosamente fiero, don Vito, esultava con soddisfazione senza eguali. E il bello è che non lo diceva lui solo, questo. Lavorare per don Vito, in uno dei suoi stabilimenti, era un onore, oltre che un privilegio.
– Il salario è garantito e questo non lo si può negare. E poi, come vuoi che non lo sia con quel giro di affari?, e tutti che alludevano al via vai continuo di fornitori.
– Deve pur essere un segnale! Si lavora… e come si lavora!
Di lavorare si lavorava e poi, tutti quei camion, a decine, carichi di calzature e confezioni di corredi e abbigliamento di ogni genere. Ce n’erano di uomini e donne al lavoro: al disegno, al taglio, al ricamo e cucito, alla stireria, al confezionamento, imballaggio, carico e scarico merci, trasporto e mille altre mansioni di ogni genere e tipo. Un pullulare di gente, un vero e proprio formicajo operoso e instancabile, continuamente in ansia, affannoso ad accumular ricchezze, non proprie (come per il formicajo), per altri, di altri, in cambio di briciole, subito, per un inverno sempre troppo lontano, cosí lontano da non smettere mai di esser formica.
Le briciole erano in quel denaro, fortuna e disperazione. Uscivano dall’ufficio di don Vito spalancando la porta. Don Vito li invitava che lo fero al posto suo. Diceva che cosí poteva vedere se in fila fuori ci fossero tutti, che non ne mancasse qualcuno, perché era un peccato dimenticare che quel giorno fosse giorno di paga.
E invece, invece gli serviva per vedere chi fosse il prossimo, e preparare le sue briciole, prima di ripetere quel suo: «avanti!»
Lei, Anna, aveva qualcosa di diverso però, anche per don Vito. Era diversa, fuori luogo: ecco la tua paga, le diceva don Vito, indicandole il mucchietto di banconote sulla scrivania. Era piú imbarazzante piú per lui che per lei… strano, una sorta di soggezione per questa figura cosí femminile. I suoi occhi, i suoi colori, il suo profumo, la sua persona tutta, stonavano con quel tanfo di carte ammuffite, con quelle vite sofferenti e comuni, tra le dicerie. Gli sembrava fosse un’estranea, un’intrusa in quello squallore. E se ne doleva.
Paragrafo 2.4
Era immerso tra le sue carte, provando a non pensare a quella donna, quando uno squillo lo fece sussultare. Il custode in portineria gli annunciava una donna: è lei!, capì don Vito. Provò a rimettere un po’ d’ordine. Calcolò che le sarebbero serviti un pajo di minuti prima di percorrere l’intero stabile e arrivare a lui. Ne approfittò per fare spazio sulla scrivania, spolverare la sedia lucida per gli ospiti (qualcuno l’avrebbe finalmente usata!) e spalancò le finestre. La giornata lo permetteva, in piena primavera. Appena aprì, si sentí in lontananza il rintocco delle campane: è mezzogiorno, disse tra sé, davvero puntuale! Dev’essere una cosa importante, concluse. Sentí bussare, piano, in modo deciso: «avanti!», quasi urlò per rispondere subito a quei colpi sulla porta.
Anna entrò e salutò don Vito, senza troppe reverenze, come suo solito, rispettosa sí ma non troppo. Don Vito rispose cordialmente: buongiorno, facendosi verso di lei. Anna allungò la sua mano, per porgerla, un gesto che solitamente non faceva; don Vito ne fu quasi spiazzato, non se lo aspettava. I dipendenti sono dipendenti, sempre, fuori e dentro lo stabilimento. Lui il padrone, don Vito, e loro i dipendenti. L’uno e gli altri sempre nel proprio ruolo, è cosí, un accordo tacito, sempre valido. Perché don Vito è don Vito, sempre, e tutti gli altri lo riconoscevano come don Vito, sempre lo stesso, fuori e dentro lo stabilimento.
– Sorprendente!, pensò, ma non si scompose.
Le afferrò la punta delle dita, con delicatezza, e si chinò per baciarle la mano, senza baciarla, come si fa con una signora e lí, ce n’era una. Cosí voleva essere trattata e cosí don Vito fece; s’intesero subito. Entrambi sedettero, l’uno difronte all’altra e in mezzo a loro la scrivania.
Anna si mosse lentamente e lentamente parlava a don Vito; voleva darsi il tempo per pensare. Non doveva mostrarsi debole, né umiliarsi a chiedere il suo soccorso… a un omino poi, lei, che un tempo ne avrebbe visti cadere tanti ai suoi piedi, anche migliori! Non era il momento di farla lunga e stare lí a lagnarsi! Del resto, non c’era scelta, con marito a carico. E poi don Vito era la persona giusta, ajutava tutti e lei non sarebbe stata certamente la prima, né l’ultima. Tutti sapevano del suo buon cuore: non c’era da temere invidie né dicerie. Tanti come lei avevano fatto la stessa cosa.
Aspettò, aspettò che fosse lui a fare la prima mossa. Don Vito del resto odiava che si giungesse subito al punto, Anna lo sapeva bene!, svenando quell’incontro, illudendosi che fosse lí (una bella donna!) per cortesia, per lui, non per altro.
È la prima volta Anna che vieni qui, disse don Vito con un mezzo sorriso d’imbarazzo.
Qui?, rispose Anna con una domanda. A quest’ora dico, continuò don Vito, e fuori orario. Non ti si può vedere che in stabilimento, al lavoro, o qui solo a fine mese, con tutti gli altri!
Sembrava quasi un rimprovero e questa volta Anna d’impeto pensò a chiarir le cose: beh, don Vito, provò a dire Anna…
Per sua buona stella, don Vito la interruppe, evitandole di esporsi troppo e liberare risposte sciagurate: no no, via, lascia stare don Vito, signor Vito o roba del genere. Chiamami pure Vito, soltanto.
A sentir pronunciare «Vito», soltanto «Vito», le sembrò piú breve che mai, quasi sfuggente: una meteora. Le parve si addicesse benissimo a una persona minuta, in grado di are inosservata se non prestandovi la dovuta attenzione. Tutti lo chiamavano con quel don, da tempo, e lei lo aveva sentito pronunciare sempre a quella maniera, divenendo parte esso stesso di quel nome. È come se un uomo fatto in un modo, d’improvviso cambiasse aspetto, pur restando sempre lui stesso, e ti chiedesse di parlargli come a quell’altro: come riuscirci se di quell’altro non c’è piú nulla?
Le sembrava una trappola, «Vito», soltanto «Vito», corto eppure cosí difficile, da temere di far confusione. Perché compromettere l’esito della sua visita? Per questo, Anna stette ben attenta a non pronunciare per niente quel nome, impoverito, tanto per non correre rischi.
Vito provò a farsi piú gentile, scorgendo in Anna una sorta di imbarazzo, evidente, per una richiesta scomoda da digerire, una stranezza detta da persona estranea a certe confidenze (chissà che non lo avesse già sperimentato con altre!).
Sarà stato il silenzio di quella stanza ristretta e confinata, la sensazione di vicinanza, inusuale o la situazione, nuova per entrambi, che Anna cominciò rapidamente a sentirsi a suo agio, come con un’altra persona, davvero.
Dall’esterno di quella stanza, per i corridoi, si sentiva un vociare tranquillo, sereno: qualche risata d’intesa, qualche o di lui in giro per l’ufficio, il cigolio di un’anta, il salto di un tappo di bottiglia col rumore di vuoto dietro, d’improvviso… cin cin… silenzio.
Paragrafo 2.5
Anna, inebriata, aveva quasi dimenticato il motivo che l’aveva condotta lí. Aveva bevuto… fin troppo: non era abituata! Ora i due erano da questa parte della scrivania, vicini. Vito sedeva sgangherato su uno sgabello sgangherato, basso, piú della sedia lucida occupata da Anna; sembrava piú piccolo di quel che già non fosse. Mio Dio!, esclamò Anna d’improvviso guardando l’orologio sulla parete di fronte, è tardi!
Era trascorsa piú di un’ora. Le venne subito un nodo alla gola, senza una spiegazione e un forte desiderio di andar via, quasi avesse un importante appuntamento, stordita. Doveva andar via, lontano da quella stanza, col cuore in subbuglio, che le batteva cosí forte da saltarle fuori dal petto. Vito… sí… devo andare… ora… devo proprio, ripeteva Anna per sfuggire da quella morsa di disagio incontrollato. Non salutò nemmeno. Lasciò la sua sedia, aprì la porta e prese per le scale, con Vito piantato nel suo sgabello.
Paragrafo 2.6
Non riusciva a liberarsi. Quel pensiero di loro insieme, uno accanto all’altra, non le si scollava dalla testa. Anna ci pensava… poi, ci pensava e ci pensava ancora. Per tutta la notte fu un continuo pensarci, voltandosi di qua e di là, cercando la risposta ai suoi perché. Era andata lí, per tutt’altro scopo, per porre fine al suo strazio, una vita di lavoro e nulla piú; doveva cambiare e non c’era riuscita. Aveva dimenticato tutto, in un baleno: come ho fatto? Eppure si era sentita bene come non ricordava ancora, da ignorare il resto: sorrise. E quel marito poi, cosí, disteso e rivolto dall’altra parte.
– Dorme. Non sa nemmeno che esisto!, pensava e, a sprazzi, un senso di insofferenza.
Si era sposata uno… un ometto, senza né capo né coda. Lo conosceva che da qualche mese e se l’era dovuto sposare… gliel’hanno dato… ha dovuto prenderselo! Tutto cosí in fretta, per quel maledetto incendio al magazzino. Avesse avuto piú tempo o avesse potuto scegliere prima, certo che avrebbe potuto avere di meglio. Invece no! Destino, quasi a punirla, per essersela sata. Suo padre Giacomo non faceva che ripeterglielo, un disco rotto: finirai per non sposarti piú!, che suonava di minaccia.
Una minaccia?, pensava, altro che: un augurio. Ah se lo avessi capito! Sarebbe stato meglio!, si ripeteva. E invece no! Il terrore era stato piú suo, di Giacomo, di trovarsi tra i piedi una figlia da maritare, come se non ci fosse via d’uscita, nessuna alternativa: are di padre in marito, ecco com’era finita! Questo il risultato: chi è impaziente di avere un figlio, sposa una donna incinta. Lei aveva accettato imibile, quasi fosse l’unico modo per liberarsi dalle sue colpe… pazzie giovanili. Cosí si sentiva… cosí l’avevano fatta sentire, dietro inutili
illusioni d’amore, ma lei in fondo cosa cercava? Un uomo… non questo qui!, uno gentile, premuroso, comprensivo, una bella voce, decisa, tranquillizzante, da regalare sicurezza. Lei, amante della delicatezza, felice all’idea di sentirsi al centro del mondo, amata, desiderata, da uomini mai banali. Cosí bello, lontano da quelle vite banali, fatte di banalità, avvinghiate su se stesse, a consumarsi senza un perché. Non doveva andare cosí per lei! Non per Anna.
L’avevano fatta sentire una stupida, un’illusa e ora, cosa ne era?, proprio quello che aveva tanto odiato, proprio ciò che piú temeva le accadesse, le era accaduto, per davvero. Una vita piatta, uguale a se stessa, vuota, di solo lavoro… non una gioja, una carezza, nemmeno da chi potrebbe… e lo guardava, disteso come un morto: una palla al piede.
Continuare a codesta maniera, mai!, ringhiava tra i denti. E piú ci pensava, piú faticava ad addormentarsi, presa dalla rabbia che quell’inetto le faceva. Lo avvertiva sempre piú piccolo, un estraneo, lui, attaccato alla gonnella nemmeno fosse un bambino. Prima quella di sua madre, ora quella della moglie. Ah poi, quella donna!, la vecchia, come Anna la chiamava. Aveva fatto cosí tante storie perché suo figlio non la sposasse: malignava. E sottovoce, fuori di sé, guardando il soffitto, quasi riuscisse a farsi sentire, dall’aldilà, a stento senza urlare: cosa pretendevi?, diceva, sono io che casco male a tenermi questo qui. Dove avrebbe trovato, continuando e guardando di tanto in tanto Carullo per indicare che parlava di lui, dove avrebbe trovato un’altra come me, santa donna?
Era tutta rabbia e parlava alla vecchia come se la vecchia fosse davvero lí, ad ascoltarla: ma se sono quattro anni e non è stato capace nemmeno di farmi diventare madre! E io, che devo mantenerlo, continuava, sdrajata sul letto, con lo sguardo fisso al soffitto e rivolgendosi alla suocera defunta.
Sentí un vento leggero, dietro l’orecchio e poi un bisbiglio: humm farai fes…!
Presa dall’agitazione per il suo monologo, non capì nemmeno, stordita: silenzio! Qualcosa era accaduto: ch’è stato?, e si voltò di scatto.
Si alzò bruscamente, restando seduta sul letto accanto al marito, lo guardò e tirò il respiro, zitta, per cercare di ricostruire, sperando che si ripetesse. Non sentí null’altro: qualcosa doveva pur essere successa, sicuro e… quel vento. Le finestre erano chiuse, faceva un caldo infernale, non poteva essere… eppure l’aveva avvertito, certamente!, le era sembrato. E poi, quella frase. Oddio, aveva sentito bene quel farai…? Ah sí, farai fesso! Certo era: farai fesso!
No ma, mancava qualcosa, aveva sentito dell’altro: ma cosa? Non riusciva a ricostruire la parte iniziale, come di uno che ti parla addosso per toglierti la parola, miscugliando le voci, rendendole indecifrabili, sentendo a mala pena le ultime della frase… cos’ha detto?, chi è stato?
Anna provò a ripetere ad alta voce quelle parole, aggiungendovi qualche sillaba per ricostruire qualcosa di compiuto finché: ah ecco… maledetto!… mi farai fesso!, questo volevi dire, sei stato tu!, e mollò una violenta gomitata dietro la schiena di Carullo, non appena ricostruì che persino nel sonno continuava a difendere la madre, come al solito. Carullo non reagì neppure, nemmeno nel sonno. E poi, fesso per cosa?, ribatté subito Anna, stizzita col marito. Provò a inveire contro di lui ma s’interruppe subito, fissando il soffitto, ancora, con gli occhi sbarrati: no, non ci credo, tu!?, non è possibile: lo farai fesso! Oddio la vecchia!
Il giorno dopo Anna si alzò di buon’ora. Uscì di casa che suo marito ancora dormiva. In strada, lungo il tragitto per arrivare al lavoro, camminava guardando fisso per terra, assente, ancora confusa per quello che le era successo nelle ultime ore, prima don Vito, poi sua suocera. Si accavallavano, si mescolavano. Prima don Vito, accanto a lei, cosí gentile e premuroso: un istintivo sorriso le si stampava sulla faccia imbambolata, per quella sensazione di benessere che ritornava ad avvertire. Quel dolce imbarazzo… di colpo, indietro nel tempo. Si
sentiva di essere ritornata ragazzina, preda delle sue fantasie amorose, fatte di sguardi, fughe e inseguimenti; avrebbe voluto correre a nascondersi per il solo piacere di essere inseguita, cercata, voluta. I suoi occhi evanescenti, irrefrenabili, a evitare lo sguardo deciso e fisso del suo spasimante. Rasserenante. E lei lí, a costringersi sicura, fingere, per non scoprirsi troppo, per non scoprire il suo stato d’animo, col cuore a saltellare, poche parole confuse chiuse in gola… e la bocca, l’unica parte di un corpo paralizzato dal panico ad avere una reazione, seppur incontrollata: sorride. Almeno questo!
– Oddio la vecchia!, e il tarlo, zach, la tirava giú coi piedi per terra con suo marito che era rimasto a casa ad aspettarla, in ansia.
In ansia?!? Chi, il Carullo?! Che ansia e ansia! Ma se lo aveva lasciato che dormiva ancora! Non si era neanche degnato di chiedere, non una domanda… figuriamoci! Muto, zitto, cosa temeva? di sentirsi dire che era ora di finirla con questa pacchia? che ci avrebbe pensato don Vito?
E poi lei, lei da don Vito ci era andata come tanti prima di lei. Chi non conosceva don Vito? Tutti sapevano, tutti, della sua benevolenza.
– Tutti sanno!, si ripeteva Anna, e perché con me no? Se è fatto cosí, è fatto cosí, lo sanno tutti.
Di questo, non c’è che dire!, tutti sapevano quanto don Vito fosse disponibile sempre, e quanti ne aveva ajutati!, specie tra i suoi dipendenti… i suoi figli, come li chiamava.
– E poi, un uomo cosí… gentile, e chi se lo immaginava! Suvvia, gentile lo è
sempre stato, con tutti… ma… non cosí… non a quella maniera, un signore, tanto galante, cosí fine.
Si era sentita davvero bene Anna, una regina, come poche volte le era capitato, sí, doveva ammetterlo, a se stessa, senza nascondersi inutilmente e fingere. Non poteva negare di essersi sentita attratta da lui.
Se qualcuno le avesse soltanto provato a raccontare, anche solo qualche giorno prima, cosa le sarebbe capitato, non ci avrebbe mai creduto… don Vito, con quelle qualità, un’altra persona, coinvolgente. Ma guarda, pensava Anna tra sé, un’altra persona e metteva a confronto il nuovo don Vito (no, Vito!) che era riuscito a tenerla seduta, ammaliandola, per un’ora e piú, facendole dimenticare tutto e tutti, con il vecchio. Perché, a dirla tutta, di esser vecchio era vecchio… poteva esserle padre e poi… sempre lí, al lavoro, con le sue cose, i suoi impegni, gli affari. Non faceva altro che vivere lavorando: il suo unico piacere, doveva esserlo per forza!, perché non si spiegava altrimenti tutto questo attaccamento a quell’ufficio.
– Oddio la vecchia! Oddio mio marito, il figlio de la vecchia, il lavoro, e il tarlo, zach, ancora… oddio che faccio… che sto dicendo, una donna sposata! Devo rimediare devo rimediare!, e, con le ali ai piedi, Anna andava che era decisa a incontrare ancora don Vito.
______________________________________________
dodici, intendendo il 12% di interesse ⁷ la: da intendere come nota musicale ⁸ don: contrazione di don Vito, come gli operai usavano dire
Capitolo 3
Paragrafo 3.1
Con la morte della moglie, don Vito si era gettato a capofitto nella sua azienda, divenendo per davvero una seconda famiglia. Dava tutto di sé, ora che la sua famiglia, quella vera, non c’era piú. Via sua moglie, restavano le sue figlie: Carolina, partita per la Germania, e Sandra.
Anna non l’aveva mai neanche conosciuta Carolina. Aveva sentito dire dai soliti pettegoli in laboratorio che era partita da poco maggiorenne con un ragazzo e l’ambizione di crearsi un’attività tutta sua, un ristorante, tutta suo padre!… e c’era riuscita, dicevano. L’altra figlia, la maggiore, Sandra, era rimasta col padre.
Quell’uomo era un vulcano di idee: è nel divertimento che bisogna investire, diceva don Vito stanco di tanto lavoro e poco guadagno. La gente vuole divertirsi, vuole evadere, perché ne ha bisogno. E continuava: sarà sempre di piú uno sfogo, il modo per fuggire, far finta di non essere quel che si è. Questa è una società che rende schiavi!
Sapeva di uomo brontolone ma, chi lo conosceva bene, sapeva pure che per parlare a quel modo, di certo, era già al lavoro. E cosí fu. A due i dal mare, gli bastò qualche anno per trasformare un vecchio edificio abbandonato (una vera catapecchia) in una struttura di divertimento a tre piani, compreso di seminterrato: lussuosissimo. Ci aveva visto bene, sentito meglio, specie dai pescatori.
Era tutt’un lamentarsi: non era piú come prima, dicevano.
La pesca era infruttuosa: troppi pescherecci giravano a vuoto in un Adriatico deserto. C’erano piú barche che pesci sotto. A metà settimana, mogi mogi li vedevi rientrare con le schioppettate dei motori che somigliavano piú a un pianto, quanto singhiozzavano! E cosí, tra settimane corte, fermi biologici e mare grosso, la grande flotta molfettese di un tempo era tutta lí. E il sindaco: faremo del nostro portooooo (rullo di tamburi)… un porto commerciale, piú grande, il piú grande dopo quello di Bari. Applausi.
Erano i vari portaborsa in prima fila che a comando col loro fracasso impedivano che le urla dietro giungessero al signor sindaco il quale, sempre sorridente, non ci capiva nulla, solo urla: non vi sento! tutto questo chiasso non serve! Venite da me in Municipio, ciascuno, non tutt’insieme! Grandioso il nostro nuovo porto! (come se lo avessero già).
E il costo del gasolio, dove lo mettiamo? Ci ammazza!, gridavano. Le barche sono fradicie: come facciamo a metterle a posto! Siamo in tanti, il mare è morto! A che ci serve un porto piú grande? Di questo o un parcheggio, questo sarà del nostro porto, un parcheggio piú grande, per tenerci ferme le nostre barche!
E non mancavano armatori che, con la vecchiaja alle porte e nessun erede maschio, buttavano tutto per aria. Al resto ci pensava il contributo unico di stato per le attività marinare e peschiere. Facevano due piú due e lasciavano la ciurma a casa e la barca in disarmo.
Tra depositi abbandonati e officine in disuso non era stato difficile per don Vito sceglierne uno e farne un’attività per sua figlia Sandra. Col suo fiuto, diceva don Vito, sai che affari! Tutta suo padre (pure lei!): un’altra piccola don Vito.
Paragrafo 3.2
Anna ne era certa, una soluzione don Vito l’avrebbe trovata, per lei, figurarsi!
Avrei voluto, si dibatteva, stringendo i pugni per il rammarico di non esserci riuscita, almeno parlargli, raccontargli.
Si era preparata, buon Dio!, sapeva che l’avrebbe tenuta lontana da una conversazione condita di mortificazioni, lo sapeva! E lei c’era cascata: avrei dovuto farlo subito… essere chiara… scoprire le carte e non perdere altro tempo, maledizione!
Lascia perdere, le aveva detto con voce da ipnosi, pensiamo a noi, a questo momento insieme… e quel momento è diventato un’ora e piú! Hanno parlato tanto, parlato e parlato… lui di piú, mentre Anna, stordita dall’alcool non riusciva altro che a sorridere.
So perché sei qui! Anna ricordava benissimo di averglielo sentito dire, e le era sembrato persino strano, una sensazione, quasi lo sapesse davvero. Le era sembrato cosí sicuro, da credergli. Ora meno ma, in quel momento no.
Devo ritornarci, devo ritornarci, ripeteva tra sé Anna. Aveva lasciato un conto in sospeso. Ora piú che mai, devo ritornarci.
Buongiorno, le disse subito don Vito, vedendola entrare, appena varcata la porta. Buongiorno rispose Anna, un po’ disorientata da un saluto distaccato, ben lontano dall’accoglienza della sera prima: gli tenne testa. Non ci volle molto per capire che don Vito si era alquanto innervosito per il comportamento della donna: presentarsi da lui a quella maniera, irruenta e senza contegno, da lui, a quell’ora, con gli operai al lavoro (esclusa lei).
Qui siamo per lavorare, ebbe ad ammonirla, non per curare i nostri affari personali, ma quelli dell’azienda. Che vuoi?
Anna avrebbe voluto dirgliene quattro, trattata cosí, come non mai. Le bollí il sangue nelle vene… no… nemmeno la sua voce gli voleva far sentire, una soddisfazione che non avrebbe voluto dargli. Arrogante e presuntuoso! D’improvviso si ricompose in lei la consueta immagine di lui, uomo paffuto piccolo e arraffone, che per questo meriterebbe un ceffone! In un attimo scomparve quel «Vito», soltanto «Vito», che per la sua galanteria ora era là, nel suo ufficio, ad aprire il suo cuore, con la sua richiesta di ajuto. Non disse nulla. Le si gelò la lingua quando sentí dirgli: ah certo, ancora tuo marito! Anna non rispose, paralizzata, incredula per quel che aveva sentito. Era certa di non essere stata lei a dirglielo, ne era convinta. Istintivamente occhi e capo annuirono, d’impulso, non potendo fare altro, stranamente palese per entrambi che lei fosse lí per il suo Carullo.
Non c’è problema, continuò don Vito, una sistemazione la troviamo. Non qui però, qui no: forse da Sandra, qualcosa da fargli fare a quell’uomo, lí da mia figlia, la troviamo.
Ci vuole accortezza in queste cose, cosa che non mi pare tu oggi ne abbia avuta molta. Il tono di don Vito si fece piú tenue, piú adatto al don Vito del precedente incontro, piú paterno. Anna si sentí mortificata per essersi lasciata un po’ prendere la mano, spavalda, senza badare che il buon don Vito avesse il suo bel da fare e soprattutto una reputazione da difendere… con tutte quelle malelingue
sparse in quel posto: un covo di vipere! Anna poteva esserci pure abituata, non lui. Del resto, don Vito non avrebbe mai rifiutato di ajutare suo marito e allora, perché questi comportamenti? Perché un affronto simile?
Mi piacerebbe, riprese don Vito con tono improvvisamente molto piú amichevole, che ne discutessimo meglio, e fissò i suoi occhi dritti in quelli di Anna, rimasta in piedi come una scolaretta dall’altra parte del tavolo, cercando una sorta di intesa, come se la spingesse a capire cosa stesse intendendo. Non ora però, puntualizzò subito, e non qui. E c’era poco da capire questa volta. Girò da un lato della scrivania e fu subito da Anna.
Sarà il nostro accordo, riprese con tono tranquillizzante accarezzandole col dorso dell’indice il viso, cosí, maliziosamente. Del resto… pensaci bene… ne trarresti molto vantaggio… per una volta sola!, e cosí dicendo la accompagnò, tenendole con delicatezza un braccio, verso l’uscita. Anna, al suo fianco, giunse davanti alla porta, con il capo chino mentre don Vito continuava con le sue lusinghe. Sarà il nostro piccolo segreto, vedrai!, concluse l’uomo dopo aver sostenuto la sua vantaggiosa offerta. Anna lo guardò, fece un cenno di saluto, un sorriso forzato e andò.
Anche questa volta ci aveva capito poco, tranne una cosa: c’era un prezzo da pagare!
Paragrafo 3.3
E intanto ride! Prima o poi se ne farà pure una ragione… lei che è lí e non può perdere il suo tempo a badare a lui. Ne ha viste tante lei, con quel Carullo che ne combina una ogni momento.
Un dì viene e se ne sta nell’angolo della cucina, tra la lavastoviglie e il lavello, a farne della pattumiera il sostituto, accovacciato, con la faccia sul palmo delle mani e i gomiti sulle ginocchia. Narika che ripeteva: che fai lí Carullo? Vuoi alzarti, ché non so dove metterla questa?, e lui non dava cenno a muoversi, chiuso come un guscio, nascosto e intimorito. Restava per tutto il giorno fermo, senza fiatare, con la pattumiera vagabonda per la stretta cucina, portata a so da Narika come il suo cagnolino, per non saper che fare e dove metterla.
Un vero guajo, oggi!, andava ripetendo, infuriata per il preannunciarsi di una giornata difficile con quel morto lí nell’angolo. Una giornata davvero difficile l’attendeva, in una cucina sí piccola, accartocciata all’inverosimile, tutto in poco spazio, in uno stanzino dove con un o raggiungevi i fornelli, con un altro lo stipetto degli aromi accanto alla piattaja, un altro ancora… ed eri sull’uscio del retrobottega. Era tutto calibrato fin nei minimi dettagli che sembrava fatta su misura: ogni cosa al suo posto, anche la pattumiera, sfrattata da Carullo che ora ne occupava il cantuccio.
Una finestrella scolorita sui fornelli rideva di luce alle giornate assolate, e bastava lei a raccontarti il mondo: hai visto che bella giornata? Ci saranno almeno venticinque gradi, diceva Narika al suo ajutante Adel, consapevole che a breve avrebbero cominciato a sudare per i quaranta, a causa dei vapori.
Imbarazzato: non sono Adel! sono Husayn, diceva Husayn a Narika per correggerla. E lei: si scusa, scusami tanto, hai ragione, Adel è stato qui la scorsa settimana, arrossendo per la confusione. È che siete tutti uguali!, riprendeva.
Conoscendo a memoria gli italiani per cui marocchini o tunisini non fa differenza, continuava a sorridere: io sono tunisino, diceva Husayn, e Narika poi decisamente ripeteva: tunisino, tunisino, come per fossilizzare nella sua testa che Husayn fosse tunisino. E sempre con quella delicatezza, in punta di piedi, a non arrecare disturbo o offesa, Husayn spiegava di aver sentito da Sandra che prima di lui, sabato scorso, c’era stato in cucina un ragazzo, un ragazzo italiano, uno studente, e che per quel giorno non poteva: e cosí mi hanno chiamato, concluse Husayn, come se per sostituire il ragazzo italiano avesse bisogno non di una giustificazione, due.
Narika, non capendoci piú nulla, si inalberò pure, non con lui, Husayn, con quel nome difficile persino da pronunciare, quanto con Sandra a volergliene raccontare, per il via vai di gente che ogni settimana si creava in cucina, lei che dovrebbe esserne la responsabile. Di che poi?, andava ripetendo tra sé. Non conto nulla: due di picche. E poi mi aveva garantito che ci sarebbe stato Alfonso, poverino, due figli da sfamare, sua moglie incinta. Ha pure perso il lavoro e lei che fa?
È da settimane che ogni mattina, pover’uomo, viene da me come se dipendesse da me… faccia tosta!, non Alfonso, Sandra, che mi dice che sta a me decidere, che sono la responsabile. Bella responsabile! E tra una battuta e l’altra, Husayn preferiva star zitto… almeno per quel giorno c’era lavoro anche per lui.
Senti un po’ tu, inizia a tagliare le verdure!, riprese Narika rivolgendosi a Husayn che insaponava le prime delle decine di pentole de la giornata. Dai su, muoviti! Le sai pulire le verdure? E dalla faccia estasiata di Husayn con le mani ancora nel sapone, Narika riprendeva sconsolata dicendo: ho capito!, e raddolciva la voce. Lascia stare le pentole per ora, e vieni qua, mentre afferrava
il coltellaccio delle verdure per mostrargli come fare.
Riuscendole impossibile chiamarlo col suo nome, dimenticato già dopo averlo sentito, Narika, tagliando corto, provò a suggerirgli un nome alternativo: non hai un nome un po’ piú semplice con cui farti chiamare? Sai, di solito qui gli immigrati, usano farsi chiamare in modo diverso, proprio per evitare che gli storcano il loro. Husayn si fece scuro in volto, piú nero del suo, voltando le spalle a Narika e annuendo semplicemente.
Narika continuava, elencando nomi, ripetendoli, provandone il suono, come si fa per un bambino che sta per nascere. Finché esultò dicendo: ecco sí, Gigi! Ti chiamerò Gigi… ti piace? È corto, semplice da ricordare… anche un po’ simpatico. Sono sicura che piacerà a tutti (meno che a lui!). Gigi non rispose nemmeno. Annuì solo.
Narika sembrò avvertire quasi un inutile disappunto dal suo Gigi: dài su, riprese, che ti ho fatto un favore! Certi nomi suscitano antipatia già a pronunciarli, da farti antipatica la persona stessa che ne ha uno. E le scansi. Fidati!
Paragrafo 3.4
Dài Carullo, dài! Se cominciamo cosí la giornata, siamo fritti! Hai controllato le verdure in frigo, se ci sono? Diceva Narika a Carullo, spronandolo a muoversi, con fare materno. La giornata era piena, come al solito, e come al solito Carullo andava punzecchiato vedendolo un po’ affaticato. Sí, tutto sistemato, le rispose con un po’ di vanto. L’hai trovata fresca la roba?, riprese Narika, perché con quello lí, riferendosi all’ortolano, c’è poco da fidarsi… lo sappiamo benissimo! Approfittandone del fatto che siamo sempre indaffarati, scarica la merce sul pianerottolo e fugge, ancor prima che qualcuno possa rendersi conto di quel che ha lasciato. Tranquilla!, le rispose Carullo. Stamattina ero qui che stava albeggiando. Sono ato da lui che ancora caricava il carretto e ho visto con i miei occhi cosa combinava. Roba fresca! L’ho ajutato pure, a caricare e scaricare qui davanti al magazzino. Poi se n’è andato di corsa… aveva da fare. Quindi il frigo è carico?, disse Narika interrompendo Carullo con la testa nel fresco della cella per controllare. Non lo vedi?, le fece Carullo con sarcasmo, lí le verdure non ci sono andate mica da sole! Bravo bravo, ribatté Narika, prendendolo in giro, noi abbiamo te che pensi a tutto! E lui, sulla stessa lunghezza d’onda di Narika, aggiunse: bravo il fesso! Il factotum della situazione, e Narika, il fessum¹ della situazione vorrai dire!, ridendo entrambi bellamente.
A proposito, interruppe Narika pensando a Michele, è arrivato Michele? E Carullo, non capendo: Michele chi?
Michele, sí, la mozzz…are…lla, rispose Narika timida da non farsi capire. Carullo redentore comprese, altrimenti avrebbe dovuto suo malgrado ripetersi: se dici Michele… chi ti capisce! Mozzarella, si chiama Mozzarella. E lo chiamavano per davvero Mozzarella, per via del suo colorito biancastro, anche d’estate. Anzi, andava evitando il sole a causa di alcune macchie rossastre che subito gli comparivano, enormi e vistose, sulla pelle, non appena usciva allo scoperto.
Narika si ostinava a chiamarlo Michele, per non offenderlo, anche se lui ci era abituato; si era cosí diffuso quel modo di chiamarlo che piú che un soprannome era diventato il suo nome. Molti non conoscevano altro che Mozzarella, da sempre: Mozzarella per tutti. A sera, durante il servizio ai tavoli, era un girare continuo, come una trottola: Mozzarella di qua, Mozzarella di là e di tanto in tanto si sentivano le solite battute divertenti (per gli altri) a cui Mozzarella era avvezzo. L’hai messa la mozzarella buona sulla pizza? E tutti che ridevano, compreso lui (perché era meglio fingere: sai che ne avrebbero fatto di lui se avessero notato il suo fastidio?, altro che battute!): la mozzarella?, almeno quella è garantita, quella DOC, rispondeva Michele fingendosi al gioco.
Tra i tavoli e le mille richieste di clienti viziati, lo si vedeva girare per la sala sotto il peso dei piatti accatastati. Erano cosí tanti quei piatti che sembrava non avercele le sue braccia, da sorreggersi da soli, gli uni sugli altri, stretti al suo busto e muovendosi all’unisono: incollati.
Sí, è venuto poco fa… lu-u-ui, con tutto suo comodo, riprese Carullo, stizzito, ad evidenziare che loro lí invece, in cucina, al lavoro ci erano già da un pezzo e Carullo prima di tutti. Ma scusa, riprese Carullo, perché non parli con chi la fa da padrona qui! (perché lui lasciava che fossero gli altri, persino a lamentarsi!).
A lei chi?, reagì subito Narika innervosita, la Sandra? Lascia perdere… e poi, lei, potrà essere la tua di padrona, se ti piace, non certo mia… i ciucci c’hanno il padrone! E ruotava davanti a lei il coltellaccio delle verdure a cui si accompagnava ritmico il capo sballottolato da una parte all’altra.
Preso dalla ressa rumorosa proveniente dalla cucina, entrò Michele, con fare furbesco e un esordio da meritarsi che quell’arnese in mano a Narika gli arrivasse tra capo e collo: mi sono perso qualcosa?
Tutti si ricomposero, riprendendo ciascuno il proprio lavoro. Quello lí era uno che non sapeva tener chiusa la bocca. Anzi, era lí apposta. Tutti sapevano, meno che lui, delle sue doti di spione e pettegolo. Se lo sentivi parlare di corna e tradimenti poi, era imbattibile… e la cosa che piú rodeva era che nelle sue parole, colorite ad arte, c’era sempre un briciolo di verità, manco leggesse in una palla di vetro. Tant’è che poi, a guardarci bene, le indovinava tutte e, come se non bastasse, esordiva dicendo che non sapeva se ciò che aveva sentito e si accingeva a raccontare fosse poi vero. No, ma lo raccontava e con tanto di ardore, da crederci… non potevi fare altrimenti e poi, con quella sua fama, non potevi non crederci!
È Michele, Michele Mozzarella. E se Michele Mozzarella raccontava di aver sentito, per caso, senza però esserne certo, che la donna di un amico di un tuo amico, fidanzata di una vita, dopo averla salutata con il piú classico dei baci della buonanotte e aspettato che richiudesse alle sue spalle il portone settecentesco prima di andar via, sicuro che la sua bella ritornasse nella sua stanza di bambole e pelouche, in verità, sgattajolava frettolosa per salire sulla 4x4 del suo migliore amico… beh, c’era da insospettirsi!
Sí, ma che importa… si tratta pure dell’amico del mio amico, chi se ne frega!, non lo conosco neanche… il solito Michele!, ti veniva da pensare. Ma era anche quel… Michele, che vi aggiungeva le sue belle frasette che ti lasciavano un… non so che: hai visto la santarellina?, e un sorriso maldestro ti prendeva il viso, pensando a quell’amico del tuo amico, poverino, fatto fesso a quel modo. Michele però era persino una garanzia, una istituzione… il pettegolezzo era certificato, non poteva essere una fandonia, non era da Michele, non era possibile, minimamente impensabile che si stesse burlando di un uomo già di suo inconsapevolmente tormentato dal peso delle corna. Figuriamoci, prenderlo in giro!
Paragrafo 3.5
Michele non ricevette risposta né saluto al suo plateale ingresso in cucina, già colma di vapori e un lezzo di cipolle da farti piangere al solo pensiero. Cosí accogliete il vostro migliore cameriere?, disse Michele con finta allegria e falsa modestia. Non sei l’unico qui?!, disse con fanciullesca ingenuità Husayn, detto Gigi, mentre riordinava la sua pila di piatti, dopo averli asciugati ad uno ad uno. Narika sbuffò dal naso, fingendo di trattenersi dal ridere per una battuta tanto ingenua quanto vera che, detta da lei, sarebbe servita per stizzirlo. Michele finse di non aver recepito il gesto di Narika e, rivolgendosi verso Gigi, meritevole di una risposta, aggiunse: Sí Husayn, per questo lo dico che sono il migliore!
La sua ilarità sembrò fuori luogo e girò i tacchi, aggiungendo: sono previsti quaranta coperti, e ritornò in sala, un po’ innervosito, inseguito dal blà blà blà di Narika, detto a bassa voce in modo che la sentissero solo Gigi e Carullo.
Quaranta coperti? che vuol dire quaranta coperti?, chiese Gigi al primo che gli potesse rispondere. E Carullo: caro Gigi, vuol dire che avremo un bel da fare, dritti fino all’alba.
Gigi era stato in quella cucina già diverse sere, ultimamente. Si era da subito creato un clima amichevole, imparando in breve tempo che Narika in qualche modo restava ancora la responsabile in quel posto, la sola da convincere della propria buona volontà e quella che, prima fra tutti, teneva che si lavorasse sodo, né piú né meno di come facevano lei e Carullo. Per Gigi, mite e docile, non fu poi cosí difficile, lesto com’era a faticare prima ancora che a lamentarsi.
È lavoro anche lavare i piatti, diceva, e questo modo di parlare di Gigi accresceva la simpatia di Narika nei suoi confronti, lei che non riusciva a ricordare se Gigi fosse tunisino o marocchino. Cosa importava se poi era stato l’unico a chiederle di cosa avrebbe dovuto occuparsi prima ancora di sapere quale fosse il giorno di paga. Davvero un bravo ragazzo, educato e anche un po’ imbranato… che vuoi che sia?, avrebbe imparato!
Qui da noi purtroppo, ribatteva un po’ sconsolata, i giovani pretendono di decidere loro cosa fare, risparmiandosi ovviamente di lavare i piatti o tagliare le verdure. E se hanno seguito qualche corso di cucina o provengono, ancor peggio!, da una scuola, non sono che agli inizi e già pretendono di fare gli chef. Saranno pure dei grandi chef, un giorno… per il momento c’è da lavar posate o arrostire bistecche. E Gigi restava lí in silenzio ad ascoltare lo sfogo di Narika. Non parliamo poi della paga… alcuni fuggono non appena sentono la cifra che Sandra è disposta a dar loro che poi… ti assicuro… non è che sia tanto lontana da quella che danno a me, che son qui da qualche anno… e faccio la responsabile (e questo lo aggiunse dicendolo con scherno). A proposito di cifre, se posso sapere, quali accordi hai preso con Sandra?
Alla domanda di Narika, Gigi rispose con la sua solita candida disinvoltura: che vuol dire accordi?
– Sí dai, in termini di paga… oh, se non vuoi dirmelo…
– Dire che cosa, se non mi ha detto nulla, non abbiamo parlato di soldi.
– Non vorrai scherzare, reagì protestando Narika.
– No.
– Come no!? Vuoi dire che non sarai pagato a fine serata?
– No, questo no, ma non mi ha detto una cifra: 10, 20 euro, non so.
Narika un po’ sorrise, sentendo pronunciare quei numeri in uno strano modo, quasi gli legassero la lingua. Si trattenne, per non apparire scortese e riprese:
– Spiegami un attimo: sarai pagato… ma non sai come?! Ho capito bene?
– Sí, rispose Gigi, mandando Narika su tutte le furie.
Ecco, siamo alle solite, il loro solito modo di fare. Capisco essere cauti, ma… ma… non con te, che sei dei nostri da diverse settimane. Le ho pure parlato bene di te, che sei un tipo a posto: ordinato, pulito… e su questo Gigi un po’ apparve contrariato, benché per Narika fossero tutti pregi che difficilmente aveva trovato nei collaboratori precedenti.
È inutile, non tutti possono fare gli imprenditori… non l’hanno ancora capito? Se tratti bene le persone, queste poi si comportano bene.
Era un fiume in piena, non la si riusciva a fermare, piena com’era di astio e bile, accumulati col tempo. Gigi quasi si sentí in colpa per aver fatto arrabbiare il suo capo e, temendo di averla fatta grossa, provò a giustificarsi, a minimizzare
quello che era successo, che tutto sommato a lui stava bene cosí, che del resto era un po’ quello che gli capitava sovente, con tanti. Anzi, Sandra con lui si era mostrata alquanto gentile, mettendolo subito al lavoro, dopo averle detto di essere stato in Caritas.
Con tanta difficoltà, in un momento di pausa, Gigi riuscì a spiegarle che in fondo gli aveva proposto una cosa giusta. Sarebbe stato pagato domenica sera: vediamo come vanno le due serate e decido cosa darti, era stata la frase che ora Gigi con il suo italiano stracciato cercava di riportare a Narika per sostenere l’assoluta buona fede di Sandra.
Narika, non del tutto convinta, ribatté subito chiedendogli la cifra percepita nelle scorse settimane, e Gigi fiero cominciò ad elencare:
– 20 euro la prima volta che sono venuto qui.
– Piú di un mese fa, ricordava Narika stizzita, pronta ad esplodere.
– 30 euro due settimane fa perché c’era stata una festa di compleanno e ora… non so: devo aspettare domani.
– Cosa!?, e quasi urlò, sbarrando gli occhi e spostando in avanti il busto, tutte… tutte… tutte le settimane una somma diversa in base a… a quanto lavori!? Ma se l’affluenza è sempre la stessa, il locale è stracolmo tutte le settimane, si parte che Michele ci dà una previsione a inizio giornata e ce ne ritroviamo un’altra, almeno di tre o quattro volte superiore. Diglielo tu Carullo, diglielo, e invitava Carullo a confermare i suoi numeri, proprio lui che si occupava di rifornire dispense e frigoriferi. Narika non aspettò nemmeno che Carullo rispondesse; non
poteva che riceverne conferma.
Prima che un’opportunità, un gioco d’astuzia, ecco cos’era!
Non di meno, era Narika che ripetutamente ricordava a Carullo questo o quel ingrediente per la preparazione dei suoi piatti, uno scioglilingua ognivvolta. E tanto si raccomandava da imbambolarlo, piú del suo. Era lei, sí, che preparava la lista della spesa, anche se poi finiva che Carullo si occue di ricomprare tutto, tutte le volte, dal prezzemolo alla panna in scatola, perché tanto, non c’era neanche da guardarci. Finito, tutto!
Certo, Narika non è che fosse uno chef di rango, un fiore di chef, ma di contare sapeva contare e di piatti ne preparava a decine: è inutile, diceva, proprio inutile, adirarsi per nulla, tanto, non ci fai nulla.
E aveva ragione, piú che prenderne atto o pulirsi lo stomaco, che altro?, non si poteva.
Inventiva, non c’è che dire!, ne aveva e come, Sandra.
Gigi si fece piccolo piccolo nel suo cantone, non sapendo come ribattere all’ira di Narika, tutta presa a screditare il gesto di Sandra… ma lui che poteva farci? Gli andava bene cosí: un patto è un patto e a Gigi era sembrata un’occasione unica. Le aveva stretto persino la mano, timido, ma l’aveva stretta non sapendo che fare: deve essere cosí che si fa, si ripeteva.
Anche perché cosí aveva imparato dalla gente conosciuta in Caritas: da noi, in Tunisia, si fa in modo diverso!, pensò Husayn, dovrebbe essere lo stesso che stringersi la mano qui in Italia. Per Gigi era come aver preso un impegno, chiuso un affare, tutto sommato molto vantaggioso… un lavoro, non tanto faticoso poi, al chiuso, brava gente: di trattarti bene, ti trattano bene!, si ripeteva Gigi. Proprio non riusciva a capire perché dovesse prendersela con quella donna, gentile, cosí educata. Non capiva. Non capiva davvero. Sí, faceva caldo in quel posto: nulla, rispetto alle estati tunisine, e che dire di Rosarno per la raccolta del pomodoro?
Subito si masticò la lingua, quasi avesse voluto non pensare a quel nome… quel posto e si rabbujò. Si fermò, immobile: gehenna¹¹ gehenna, ripeteva… sottovoce… tra sé.
Gigi chiudeva gli occhi al solo pensiero di quei giorni, trattato come un animale, a cuocere sotto il sole, lui e tanti altri come lui… per un po’ di cibo, no soldi, nemmeno l’ombra… anche con pochi, per loro ci sarebbe stata una speranza: quella di fuggire.
Liberi, sí, lo erano… di far cosa? Di andar via? E con che cosa. Senza un lavoro, un lavoro vero… né dignità. Senza nessuno, nessun caro, nessun affetto… né identità. Intrappolato in una gabbia senza sbarre, nel posto che è il meglio che il mondo abbia deciso di offrirti. È lí che devi stare, al tuo posto, non c’è altro, senza il quale per te non c’è vita, solo sopravvivenza… forse. E questa è vita? Se la vita non è che un respiro e un cuore che batte, no, se poi… a due i… un uomo, un altro, non diverso (diverso per cosa?, il colore della pelle), comanda, urla, picchia, deride, calpesta… beh no, questa non è vita, nemmeno per le bestie… a un mulo una carezza la doni pure! A un cane randagio la tua pietà la offri anche! Non chiamiamola vita, perché non lo è, se vivere è temere che il domani resti uguale.
– Dico a te… non senti? Ti ho chiesto scusa, continuava Narika rivolta a Gigi, assorto.
– Sí sí, ho sentito, rispose Gigi, sobbalzando dallo spavento, ancora sopra pensiero.
Narika si sentí di aver forzato la mano con lui, un po’ troppo… non era con lui che avrebbe voluto prendersela e gli disse: sei bravo a far sentire in colpa la gente… con i tuoi silenzi.
Girò la testa verso Gigi, lo guardò: davvero, non hai colpa tu!
Neanche tu, rispose Husayn con nelle orecchie ancora il rumore di quei trattori carichi di pomodori: è il nostro tormento. Sorrise; qualcuno che avesse voglia di chiedergli scusa, quantomeno l’aveva trovato.
Paragrafo 3.6
Che c’hai da ridere? la finisci? Un tormento. Non ne poteva piú di vedere Carullo con quel sorriso sulla faccia stampato. Era tutta la mattina che andava cosí. Michele entrava e usciva dalla cucina, nervosamente, non si dava pace, dovevano avercela con lui: cosa credono? di potersi prendere gioco di me in codesta maniera?, si ripeteva Michele. Oggi non è aria!
Narika e Gigi si voltarono che erano intenti a preparare sul tavolone, al centro della cucina. Si guardarono, restando in silenzio senza capire. È cosí divertente?, continuò Michele, restando sulla porta e guardando fisso verso Carullo. Carullo non si voltò neppure, abituato a sentire sempre la stessa domanda, a cui pur volendo, non avrebbe saputo rispondere. Narika e Gigi all’unisono guardarono Carullo che dava loro le spalle e subito fecero cenno di intesa tra loro.
Che fai, lo gnorri?, Carullo non rispose. Sul tuo conto, ce ne sarebbe da ridere, a crepapelle… allora sí che piangeresti!
Michele aspettò, sperando di ricevere soddisfazione, e poi aggiunse: imbecille, altro non sei!
Carullo lo lasciò dire, senza fiatare. Non per non rispondergli. Non ne aveva neanche per sé, che tanto avrebbe voluto capire. È solo che… non ci avrebbero creduto! Che poteva raccontargli? Anzi, piú Michele parlava, piú non riusciva a capacitarsi. Si limitò ad aspettare in silenzio che Michele lasciasse perdere e andasse via.
Fu accontentato e Michele lasciò perdere.
Per queste sue scenate, prepotente qual era, Narika andava fuori di testa: prendersela cosí con lui, borbottava nervosamente, come se qui non avessimo di che pensare. Non era la prima volta vederlo preso di mira, tutti a sentirsi autorizzati a prenderlo in giro o, peggio, forti con un debole. Narika le sentiva sue quelle offese. Non si dava pace… un uomo, si ripeteva… un padre. Era questo l’insegnamento che voleva dare a suo figlio? Povero bambino! A venirle subito in mente era quella creatura, tutte le volte che accadevano di quegli episodi. Per Narika, ogni mancanza di rispetto verso Carullo, per tutti lo sguattero, lo era dritto per la sua famiglia… non tanto per sua moglie, si capisce!, piú per quel bambino a cui era davvero affezionato.
Un giorno Anna lo portò fin dentro in cucina, col pienone in sala. Carullo si sentí chiamare: papà, papà, mi senti? Era Ninì che dalla finestrella sui fornelli chiamava suo padre nel caos delle stoviglie. Carullo lasciò tutto per piombare verso l’uscita, nel retrobottega. D’uno slancio inaudito, Narika gli fu addosso: sei impazzito?, gli protestò contro, mi lasci cosí, col da fare che c’è?
Carullo rimase gelato vedendo Narika davanti a sé ferma come un marmo, come non l’aveva mai vista. Ma, di lí, fuori… Carullo quasi balbettava. Non poteva, gli sembrava di commettere un reato, quel bambino ci teneva, era andato lí apposta per suo padre.
Non piú di due minuti, gli ordinò Narika, non di piú!, e gli puntò il dito contro, sul suo nasone.
Carullo corse fuori saltando come un canguro, mentre di qua in cucina Narika
bolliva come una pentola a pressione. Furono due minuti per davvero e per fortuna nessuno dalla sala si affacciò in cucina, specie quel Michele. Me lo vedo… Mozzarella, commentava Narika alle prese con le verdure, sai come si sarebbe divertito?, e cambiò tono, impotente con Anna che ingombrava i suoi pensieri: è venuta proprio nella gabbia dei leoni… e con quel bambino poi!
Paragrafo 3.7
Negli ultimi giorni sembrava andar meglio, molto meglio, con quel sorriso appena accennato da parere guarito. Soprattutto al mattino, davanti allo specchio, era quasi impercettibile e cosí vi poteva restare, per tutto il giorno o quasi, almeno c’era da sperare. Chissà che non dorma pure lui, si consolava Carullo. Lo faceva diventar matto o forse… lo era davvero. Provava a non pensarci, chissà che ignorandolo continuasse a dormire o addirittura gli fe la cortesia di sparire. Non doveva pensarci!
Gli sembrava ci fosse un estraneo lí con lui, ne lo stesso corpo, del quale però non si accorgeva neanche, per cui era in dubbio che ci fosse davvero. Non riusciva a sentirlo, forse era nascosto o forse non voleva farsi scoprire. Ma come, parlava tra sé Carullo, se poi si intromette a questa maniera? Vorrà dire che c’è, concludeva, convinto che diversamente non potesse essere, c’è e si diverte a farmi prendere in giro! Certo, perché sono io che ci metto la faccia, non lui, perché la faccia è mia, è di me che ridono! Parlava allo specchio e si adirava. Piú parlava e piú si adirava, guardandosi negli occhi per guardarlo dritto negli occhi. Voleva scuoterlo, farlo uscire e dar sfogo finalmente alla sua ira, perché era questo. C’era e… non c’era! Non parlava, non rispondeva e con lui s’infuriava, a male parole, per tirarlo fuori da lí. E invece, non era che un muro di gomma, senza reazione, morto, da cui Carullo non poteva pretendere soddisfazione: se con le mie labbra ride, si diceva, à i miei occhi: allora mi guardi! mi vedrà infuriato! E insisteva, lo cercava… perché c’era, doveva!
Avrebbe voluto dirgliene un sacco pieno, tirarlo via da una casa non sua, nessuno lo aveva invitato perché in due, in quel corpo malconcio e stanco, erano in troppi: devi essere tu ad andar via, gli urlava, fissandosi nello specchio. Qui ci sono io, ci sono sempre stato io, solo, e ci resto!
Afferrava le labbra con la punta delle dita e provava a stringerle, quasi potesse cucirle. Delicatamente lentamente staccava le punte e… sperava… macché, niente ancora, si riaprivano, una rabbia!
Le sentiva non sue, capaci di far da sole, senza che lui lo volesse o lo chiedesse. La bocca gli apparteneva, come no?, sua, di sempre, ma quando si trattava di tenerla chiusa, ooops, questa si apriva. Non la bocca tutta! Solo le labbra: si inarcavano leggermente verso l’alto e dentro i denti. A stento si intravvedeva il loro colore: per fortuna, diceva, temendo di mostrare il suo unico canino. Lui però non poteva farci nulla, andava da sé… beh, proprio nulla no. Un modo c’era, doveva serrare le labbra, l’una contro l’altra: funziona… ma che fatica!
Vi riusciva che per qualche minuto. Poi gli zigomi e la mandibola cominciavano a dolergli tutti. Per non parlare degli occhi che strizzavano pure, sottili sottili, insieme a la bocca.
Lascia stare, diceva, tanto è inutile. E si guardava nello specchio, sconfitto da quell’altro. Perché a ridere non era lui, il Carullo, certamente, non voleva! … era l’altro, sicuro, non poteva che essere cosí.
Ridi?, sempre piú infuriato. Ridi perché non posso farci nulla!, e parlava, parlava, parlava. Tutto inutile, tanto quello lí avrebbe ripreso a ridergli in faccia appena avesse smesso di parlare… a lui, al buon Carullo.
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factotum: Carullo si esprime con sarcasmo, sottolineando la sua contrarietà per questo ruolo di ‘tuttofare’ che Sandra gli ha assegnato
¹ fessum: Narika, con gli stessi toni di Carullo, riprende l’appellativo di fesso che poco prima Carullo si è attribuito, trasformandolo in fessum, come a cercare una improbabile rima con factotum ¹¹ gehenna: nel libro del Corano rappresenta l’inferno di fuoco, in cui non vi è freschezza alcuna, né bevanda, se non acqua bollente e sanie
Capitolo 4
Paragrafo 4.1
Cos’è accaduto, un terremoto?, furono le sole parole che Narika riuscì a pronunciare davanti al disordine che trovò davanti a sé, appena entrata in cucina dal retro. Era già aperta: strano!, si disse, perché di solito quella porticina era chiusa. Fosse stato per Sandra, l’avrebbe da tempo sigillata. Era una contesa. Quando la cucina si riempiva di vapori e odori, tanto da non poterne piú, Narika ordinava di aprire. Lei non ne era neanche capace, per la ruggine che si era formata su le cerniere. Dava incarico a Carullo, l’unico a conoscere perfettamente lo stato delle serrature e l’ordine con cui aprirle. Sempre molto timorato, chiedeva conferma: oh, devo proprio aprire?, chiedeva Carullo, sapendo dell’ordine tassativo di Sandra. E lei: apri apri! Ma a me ha detto di lasciarla chiusa, per sicurezza… non dice altro!, e intanto Carullo con le chiavi in mano non si decideva a muoversi. L’ha detto a te!, seccamente Narika. Non hai notato che qui non si respira per il caldo? Guarda Gigi, voltandosi verso di lui, è in una pozza di sudore… lui!, aggiunse. I muri, persino i muri, bagnati fradici.
Non ne voglio sapere però, eh!, disse Carullo, per togliersi d’impiccio, lo faccio perché me lo hai detto tu di aprire, non voglio saperne nulla, fatti tuoi! Va bene, rispose Narika ammorbidendosi, te l’ho chiesto io, però… però sí… dai… è che qui l’aria è irrespirabile, chiunque lo vedrebbe… è una sauna e poi… se continua cosí, questa frittura¹² finisce in sala. Poi te la senti.
Conoscendo Sandra, sarebbe saltata su tutte le furie se solo qualcuno dei clienti si fosse lamentato per quella puzza calata sugl’abiti come un sipario.
Gigi, va meglio, vero?, chiese Narika, manco quella porticina appena aperta avesse fatto entrare un ventaccio di tal portata da trascinarsi dietro oltre agli
odori, le pentole. Finalmente… ahhhh!, continuò, tirando un sospiro a pieni polmoni.
Caldo era caldo, fuor di dubbio, era caldo per davvero: un posto infernale e poi era piú che un dovere per Narika pensare a loro: vojaltri qui, si lamentava, lavorate e basta, fate il vostro e state in pace. Io, io qui, anche se non sembra, sono responsabile. Se qualcuno qui vuole pretese, sono io che rispondo. Se accade qualcosa, è a me che fanno le scarpe e allora, allora sí che mi farebbe subito la responsabile qui dentro, all’istante… per prenderle al posto suo!
Non era una ripicca, per davvero, ma quanto godeva dentro! Era una di quelle rare volte in cui riusciva a tapparle la bocca, senz’appello, a Sandra, anche perché non poteva dire nulla, no? Meglio quello e dargliela vinta, a Narika, piuttosto che arrossire per il rimprovero dei clienti.
Chissà perché poi, dopo qualche minuto che fosse stata aperta quella porta, subito dopo che Michele, il solito, Mozzarella, uscisse dicendo: ah, com’è fresco qui!, vedevi spuntare la testa, solo la testa, di Sandra, lasciando fuori il corpo piegato ad arco. S’inclinava su una gamba, guardava dritto la porticina sapendo di trovarla aperta e senza fiatare digrignava i denti e subito spariva, cosí, senza null’altro aggiungere.
– Ecco, lo sapevo… poteva farsi gli affari suoi quello lí?, piagnucolava Carullo, parlando della spia.
– Oh, guarda che non ha detto nulla!, lo consolava Narika: non ci vorrà cadaveri in questo buco!
– Vedrai vedrai, stasera me lo fa presente, continuò Carullo, stanne certa. È storia di ogni sera. Voi andate via, ma è con me che si pulisce lo stomaco; tanto, è me che rimprovera!
– E tu dille che te l’ho chiesto io!, con un cenno di stizza.
– Per te è facile per te! Per me no perché io faccio quel che mi dici, che sei responsabile qui, ma poi per me restano solo guai, altro che! Non mi dirai ora che la Sandra non comanda nulla, no? Sarebbe pure la padrona! E se faccio per risponderle che qui è un forno invece che una cucina, come tu dici, mi ripete di tenerla chiusa quella porta: «dille che Sandra vuole che stia chiusa», ecco cosa ripete continuamente!, e uscì borbottando sottovoce: non capisco, non possono parlarsi tra loro? È mai possibile che debba andarci sempre di mezzo io? Che ci ho fatto di male? Io che mi faccio in quattro e sto sempre ad ascoltarle… tutt’e due, maledizione!
Paragrafo 4.2
Quel giorno Narika arrivò che stranamente quella porticina era aperta. Entrò di lí, incuriosita, per risparmiarsi di dover are per la sala: cos’è accaduto, un terremoto?
Entrò che tappò la sua bocca con la mano aperta, incredula: tutto sottosopra. Cos’è accaduto, un terremoto?, fu l’unica cosa che le riuscì di dire. Alcuni i per rendersi conto di trovare la cucina nelle stesse condizioni in cui l’aveva lasciata la sera prima. No, peggio. Ah, adesso mi sente!, e cominciò a cercare Carullo, infuriata, perché questa volta aveva davvero esagerato: lasciare cosí la cucina!, un porcile, come se non lo sapesse! Devo ancora seguirlo come un ragazzino. Ah, alle volte non lo capisco quell’uomo. Ma questa volta mi sente, non la a liscia.
E cosí dicendo, una trottola.
Girava sbattendo di qua e di là, mentre accresceva la sua voglia di strozzarlo, quanto piú non riusciva ad avercelo tra le mani: se ti piglio! se ti piglio! Questa volta non la i liscia!, e finí per trovarlo.
Era seduto su una sedia, al centro della sala, con la scopa tra le gambe e il pavimento pieno d’acqua, esausto come una pila. Narika rimase sotto l’arco della cucina, per paura di finire con le gambe per aria e continuò a sbraitare senza fermarsi, come se Carullo l’avesse ascoltata già prima, dalla cucina: hai sentito cosa stavo dicendo? È mai modo questo di lasciare questo posto, cosí, lurido come un porcile?
Di sentire, Carullo l’aveva sentita… che arrivava, anticipata da un mare di parole disperdersi sotto l’arco. Si voltò e la vide piantarsi con i pugni sui fianchi e lo sguardo inferocito rivolto verso di lui, sotto l’arco. Ce l’aveva con lui! A stento gli venne di sorridere, di sudore bagnato, lui che aveva faticato come un asino, ancora prima di incominciare la giornata. Arrivo!, le rispose già solo vedendola, perché di sentirla… non ne valeva la pena, tanto… sapeva già cosa avesse da dirgli. E poi, non ne aveva la forza.
– Solo un minuto, altrimenti qui siamo punto e a capo!
Narika andò ad aspettarlo in cucina, gonfia d’ira, cominciando lei con santa pazienza a raccattare bottiglie. Ve ne trovò tante: sugli stipiti, sui banchi di lavoro, trai i piatti sporchi della lavastoviglie… una persino nascosta, semipiena, nel forno: ah già, non c’era piú spazio nella pattumiera!, commentò sarcastica Narika.
La pattumiera era stracolma, piena zeppa di bottiglie di ogni colore e forma, marche di tutti i tipi, bevande alcoliche, bibite gasate e lisce: aperitivi, spremute, liquori e creme di liquori, bevande al luppolo, alla cannella, al cedro, ananas, liquirizia, caffé, amari, estratti alle erbe, frappé, alcolici e superalcolici, tutto… mancava l’acqua. Le raccolse tutte in un angolo … erano proprio tantissime, le era difficile persino contarle: i soliti, rifletté Narika ad alta voce, pensando a Sandra e alle scorribande dei suoi amici di bevuta. Ma che bevuta! Si fossero limitati a questo! Perché no, non potevano limitarsi solo al bere: e no, avevano pure bisogno di mangiare, guarda qui!
Ora le toccava rimettere in ordine, a lei, che faceva tutto con estrema cura maniacale… la sua cucina! Sí, proprio sua non era, non lo era davvero, ma per Narika… per Narika… per Narika come lo fosse, era tutto: il suo mondo. Tutto lí, in quel fazzoletto: la conosceva a meraviglia; ogni angolo cassetto e stipetto,
nessun segreto per lei, in perfetto ordine. Poteva tenere gli occhi chiusi, aprirne uno e tirare fuori con precisione chirurgica quello che le serviva, l’arnese del momento, immancabilmente tirato a lucido.
La sua giornata iniziava che la campana di San Corrado strillava per vespro e per prima cosa ava a setaccio la cucina. Doveva trovarla come l’aveva lasciata: uno specchio! E quel giorno, tutto, tranne uno specchio.
Buongiorno, disse Carullo con la scopa in una mano e il secchio nell’altra, hai visto che bell’inizio di giornata?, disse col tentativo di una stizza verso Narika, mentre lei tirava l’anta delle scope, l’armadietto. Narika non si voltò nemmeno, china a raccogliere vetri: fin troppo. E dimmi, da quando sei qui?, chiese Narika, senza nemmeno sforzarsi di fingere di non saperlo. Da questa mattina, le rispose Carullo con tono sconsolato che quasi non si sentiva: che ci posso fare?
Carullo cominciò subito a dir la sua perché ora (lo sapeva!), gli toccava pure di starsela a sopportare, la responsabile. Stamattina presto mi chiama e mi fa: «potresti andarci prima stamattina?, non sei obbligato, s’intende», e ha chiuso. E io son venuto.
– Potevi dirle di no, con una scusa qualunque… oh ma, sarà stato prestissimo, potevi pure dirle che non è modo?
– Parli bene tu… sai quanto ci mette quella a lasciarmi fuori dalla porta?
Narika non ne poté piú.
– Caro collega, mi dici dove trova un altro come te, pronto a correrle in soccorso ad ogni ora e per qualunque cosa? Un cagnolino cosí, quella lí, dove lo trova? Me lo sapresti dire, tu?
– Certo, ribatté Carullo, dietro l’angolo, a ciuffi, ecco quanti ne trova.
E fuggì in sala per evitare di continuare la discussione.
Dietro l’angolo… guarda un po’ questo!, tra sé Narika, disarmata: dietro l’angolo. Ce ne fossero! Non sa neanche quel che dice… vabbè, lasciamo perdere, tanto è inutile con questo. Mi farò ajutare da Gigi e fece una piccola pausa. Guardò l’orologio dietro il frigo: dovrebbe essere qui però, da un pezzo. Poi sorrise: sai che c’è, parlando tra sé, almeno per oggi, per quello che hanno combinato non si vedrà di loro nemmeno l’ombra, di nessuno dei due, lei e di quel Michele. Non ne hanno la faccia!
E cosí fu, per tutta la sera. Sandra non si era vista per nulla. Michele, pur di non entrare in cucina, quasi lanciava direttamente dalla sala le comande degli ospiti: gli si vedeva sbucare solo il braccio! O le faceva consegnare da Carullo, tutte le volte che ava sotto l’arco. Altre, se le raccoglieva Narika direttamente dal pavimento, quelle di cui Mozzarella sbagliava il bersaglio. Non per molto, finché stufa, finí per lasciarle stare lí dov’erano, stufa di piegarsi per lui a raccattarle, tanto, diceva, i clienti se la sarebbero presa con lui e non con loro, se li avessero fatti aspettare.
Per quel che avevano combinato la sera prima, non avrebbero nemmeno fiatato, nessuno… tantomeno lui, Mozzarella.
Paragrafo 4.3
Gigi, cos’è che hai scritto sulla maglietta?, chiese Michele rivolto a Gigi intento a lavare i suoi piatti.
Gigi indossava una lunga maglietta bianca, lunga, che gli arrivava fin sulle ginocchia. Sudicia. Sembrava che indossasse solo quella, da cui sbucavano, sotto, due possenti ed eleganti gambe, impiantate in una coppia di sandali da infermiere, bianchi pure quelli. Sopra, due braccia lunghe e muscolose, esaltate nella loro bellezza dalle maniche della maglietta, arricciate sugli omeri per il caldo. Ne creavano una sorta di strozzatura, a laccio emostatico, rigonfiando delle braccia le vene, un tocco di bellezza d’altri tempi.
Gigi, senza uscire le mani dall’acqua, si guardò la maglietta chinando il capo e sorrise. Non ci aveva fatto caso pur avendo la stessa da due giorni. Guardò ancora e lesse traducendo dalla sua lingua: che Allah la renda sempre prospera, e riprese il suo lavoro.
Michele restò in silenzio, pensando che Gigi aggiungesse altro. Per lui invece, era tutto: cosa significa, riprese Michele, cosa Allah dovrebbe rendere prospera?
– È un… come dite qui?… un augurio, per la tua casa, quando ti sposi.
– Sei sposato?, intervenne incredula, un po’ delusa, Narika. Hai moglie?
– Ce l’avevo.
– No, disse Narika con estremo stupore, separato!? Gigi rimase in silenzio… e Narika sempre piú incredula: non dirmi che sei separato, perché sarebbe la prima volta che sento una cosa del genere!
– Eh… due che si separano, ti meravigli ancora?, intervenne Michele in difesa di Gigi.
– Che dici? Due che si separano certo… se ne sentono tante in giro! Dico… sí… su, tu hai mai sentito che due musulmani si separano?, disse Narika liberandosi dal suo imbarazzo.
– E va bene, vuol dire che anche i musulmani si separano, e allora?
– Allora niente… è solo che… lui è musulmano!
– È vietato? Anche noi siamo cristiani eppure, guarda, ci vai a messa ogni domenica?… io è una vita che non ci vado.
– Come faccio, se vado via da qui che è quasi l’alba e il giorno dopo mi sveglio che faccio colazione col pranzo!
– Scommetto che non ci andresti comunque!, continuò Michele.
– Morta, disse Gigi sorridendo.
– E certo, ci andrei con gli occhi di una morta… replicò Narika.
Gigi con ancora il sorriso sulle labbra restò in silenzio.
Gli altri due si interruppero non senza sentirsi improvvisamente a disagio tant’è che guardandosi avrebbero voluto nascondersi per la vergogna. Michele prese subito per la sala dicendo: Sandra mi chiama… l’aveva sentita solo lui!
– E ridi?, chiese Narika timidamente, ti fa sorridere questo?
– Non devo ridere? È cosí bello il posto in cui si trova!, e guardava nel vuoto, quasi riuscisse a vedere sua moglie felice, in un mondo certo del suo, piú giusto.
Paragrafo 4.4
Il resto della settimana ò sonnacchioso: la solita gente, il solito lavoro. Nemmeno Sandra si fece viva… di tanto in tanto, don Vito. Ormai settantenne si trascinava fin lí per vedere sua figlia, solo vederla, latitante qual era. Era sempre affaccendata, con le sue cose: finirò col prenotarmi per vederti, come si fa dal dottore, le diceva lamentoso.
Al padre bastava poco, solo qualche minuto… giusto il tempo per salutarla e andava via. Quelle sere fece anche prima: Sandra?, chiedeva come al solito. Non si è vista nemmeno oggi, gli rispondevano e subito ripartiva. Inutile aspettare.
Per Sandra era un rito esserci già dal primo pomeriggio, con l’arrivo dei primi clienti, perché ci teneva, voleva esserci.
Per quelle sere, di Sandra, nemmeno l’ombra.
Si era solo preoccupata, per il fine settimana, di informare con tutta calma Carullo: ci sarebbe stato il pienone. Con calma sí, ma aveva esagerato, soprattutto per i gusti di Narika da sentirsi il pepe addosso.
E lo dici ora, appena il giorno prima?, protestò Narika con Carullo, ignorando che Carullo l’avesse avvisata appena saputo per risparmiarsi un’altra delle sue: non cominciamo, non dipende da me, le rispose. È Sandra che me lo ha detto appena ora, qualche minuto fa. Mi ha telefonato in tempo, prima che uscissi di casa… e ora te lo dico!
Ecco, siamo alle solite, provò Narika a lagnarsi. Poi si riprese: riusciresti a are da Gigi e dirgli di farsi vivo domani un’ora prima? Cerchiamo di recuperare del lavoro, iniziando prima… dovrò venire prima anch’io. Non c’è bisogno, riprese Carullo, Gigi domani non ci sarà.
– No? E perché mai?
– Perché domani e domani l’altro ci sarà un nuovo ragazzo, l’ha lasciato detto jeri sera don Vito, prima di andar via… credo un suo amico, il figlio.
– Roba da matti!, sussurrò solamente questa volta Narika. Sí padlone¹³, e già questo nuovo gli stava antipatico.
All’indomani, del nuovo arrivato non volle sentire nemmeno il nome e di Gigi, l’opposto: basso grasso e fannullone. E poi… non la smetteva di parlare, parlava continuamente. Andava a braccetto con Michele, tant’è che quelle due sere Mozzarella trascorse piú tempo in cucina che in sala a fare il suo mestiere. Lui diceva che di là in sala era una bolgia, con tutta quella gente… sarà! Fatto sta che si appollajava alle spalle del nuovo arrivato e finiva per attaccar bottone. Di piatti se ne vedevano davvero pochi in quella vasca… e non perché fossero veloci a lavarli! È solo che Michele non gliene portava, preso dallo stare lí a ciarlare… che è quello che piú amava fare. I piatti c’erano… sí in sala. Aveva preferito lasciarli stare sui tavoli perché non c’era modo di arrivarci, tant’era la folla (diceva!). Finí per Carullo che restò lui, a fine serata, a lavorare anche per quei due: io il mio l’ho fatto!, disse uno. Io non posso fare qui l’alba per quei piatti, disse l’altro e non restò che a Carullo rimettere a posto le cose: bel guadagno abbiamo fatto stasera con quei due!, disse Narika.
– Strano… è davvero un nome strano. Ti chiami proprio cosí, Narika?
– Ecco, pure ficcanaso, non lo conosco nemmeno e vuole indossare calzoni non suoi, fu la prima cosa che le venne di pensare del sostituto di Gigi. Ti interessa sul serio?
– Mi incuriosisce.
– I curiosi ficcano il naso dove non devono.
– Permalosa!
– Affatto!
– E allora? Ti ho chiesto solo il nome, non mi sembra troppo.
Narika restò un attimo in silenzio:
– Marisa, il mio nome di Battesimo è Marisa, il nome di mia zia.
– E perché Narika?
– Perché Marisa ormai era quello il mio nome, era stabilito, non si poteva fare diversamente… anche se a mia madre dopotutto non piaceva! C’aveva ragione, aggiunse.
– Ma ti chiami Marisa o Narika?
– Marisa Marisa, ma per tutti Narika… Narika con la k!
– E Narika ti piace, vero?
– L’ho scelto io, per me, e poi… meglio di Marisa, no?
– Strano!, e fece per andare.
– Strano cosa?, riprese subito Narika, stuzzicata da questa evasione del ragazzo.
– Strano che tu riesca a dire che un nome sia piú bello di un altro: non sei la sola a fare di questi commenti sui nomi, devo dire! Sarà un mio limite, ma per me… son tutti belli uguali. Forse Marisa, dico il nome, meriterebbe di piú. Se non altro è quello di tua zia, racconta la tua storia, parla di te. Che ha Narika, il nome Narika, che lo vede preferire a Marisa? Nulla. E poi, un nome è piú bello di un altro… in base a cosa? Al suono che produce? Una pietanza, lo capirei! Puoi preferirla ad un’altra, solletica le papille, a per la gola. Un nome, cosa solletica, le orecchie? Ha un ritmo? È una melodia? O raggiunge il cuore? Se è per questo allora, è piú musicale Marisa, ascolta: Mmmmaaaaarriiiiiisa e non Narika… e poi… questa “k”, sarebbe il tocco di classe? Ne fa la differenza? O è
solo un fatto di moda?, come John, Mike, Oscar. Ah già… Michele!, e urlò in direzione della sala, con tanto di sorriso: perché non ti fai chiamare Mike? Altro che Mozzarella!, e si diresse verso la sala, lasciando vacante il suo posto ai piatti e Narika senza parole.
Paragrafo 4.5
– Su dài dimmi Michele, dimmi una cosa: chi è quel vecchio in sala? È stato due minuti e ha guardato nel tuo vassojo, tutte le volte, neanche fosse il padrone. Mi vien da ridere… tutte le volte che gli sei ato davanti, ha allungato il collo e ha dato forma alla faccia. Si sarebbe arrampicato pur di vedere.
– È il padrone, altro che!, rispose Michele alquanto stizzito, a prenderne le difese. Tu scherzi! Quello lí alla tua età aveva già la sua prima azienda di calzature e cinquanta dipendenti. E tu che fai? Lavi i piatti, anzi… neanche quelli!
E l’altro, il ragazzo, sorrise, mentre Michele continuava:
– Dimmi tu!, non hai ancora concluso la tua prima serata, e già hai attaccato brighe con mezza cucina. Hai fatto meglio di me… complimenti!
– Beh, con quella lí, non ci vuole molto. Cosa pretende? Che le lavi tutti quei piatti? Per quella miseria! Potessi fare io il cameriere!
– Ah guarda, protestò subito Michele, il posto è mio e a te non resta che lavare i piatti.
– Certo, con le garanzie che hai¹⁴!, ribatté sarcastico e un po’ avvilito l’altro. E…
cosa dicevi del vecchio?
– Don Vito… don Vito è un mito: ne ha di soldi! A questa affermazione rimasero entrambi in silenzio, fissando la strada: bella la serata! Fresca! Questo vento ha spazzato l’umidità dei giorni scorsi.
– Io… non ci entrerei piú lí dentro.
– Sta’ zitto, parla piano! Altrimenti ci richiamano all’ordine… non aspettano altro!, e Michele, un po’ infastidito, mollò un colpetto di gomito sul fianco del giovane.
– Dici davvero del vecchio?, riprese subito il ragazzo, ritornando seduto accanto a Michele.
– Se dico davvero? Verissimo… e non parliamo delle donne. Ne ha avute cosí tante! Don Giovanni dovrebbero chiamarlo, altro che don Vito.
La cosa cominciò a suscitare curiosità nel ragazzo che restò ad ascoltare con gli occhi e le orecchie ben aperti, senza fiatare, mentre Mozzarella parlava: è un furbetto… ci sa fare. Non è lui ad andar da loro, sono loro… che cadono ne la sua rete. Lui è lí, a fare il suo… sí, gli affari suoi, insomma. Almeno cosí sembra, ma sa tutto. Con questo, Michele dondolò leggermente il capo alzando i suoi ciglioni, per aggiungerci un velo di mistero. Ora don Vito avrà perso il suo antico smalto, perde colpi, è vecchio… Perché quanti anni ha?, chiese il ragazzo.
Beh non saprei, forse una settantina… o forse piú, rispose Michele, ma fino a qualche anno fa (sorrise) era imbattibile. Oh, non è che sia mai stato una cima di bellezza… di astuzia sí, però. I maligni dicono che fe l’usurajo, e abbassò la voce per non rischiare di farsi sentire, ma io (pausa) non ci credo!, corresse subito. Una persona cosí perbene… ben voluta. E poi, con le sue capacità, non credo abbia mai avuto bisogno di simili bassezze. Dal nulla s’è fatto: le sue imprese, i suoi affari, sempre… onestamente!, e scandì quel suo «onestamente», quasi potesse scommetterci sopra. E ci avrebbe scommesso!
Ha ajutato tutti. Pensa che i suoi dipendenti, conoscendo la sua bontà d’animo, a lui si sono rivolti quando ne hanno avuto bisogno, non ad altri! E sai perché? Perché potevano fidarsi, perché sapevano che avrebbe fatto di tutto per sostenerli, altro che!, e hanno potuto confidare sulla sua assoluta discrezione. Prova a chiedere? Tutti sapevano e… nessuno sapeva!
Cosa c’entra questo con le donne?, chiese ancora dubbioso l’altro.
Come, cosa c’entra!?, replicò Michele di stucco. È chiaro; questo spiega la sua astuzia: ci sapeva fare, non l’hai capito! È il tipo che riesce a farne quel che vuole… sposate e non. Mio padre mi diceva che spesso le mogli degli operaj, con la scusa di portare il pranzo o una commissione da fare o… il cambio pulito, per i loro mariti, sai che facevano? (pausa di Michele), andavano da don Vito… per un saluto. Capisci? Come se fosse necessario, per non essere scortesi! E quel che è grandioso… è che i mariti erano compiacenti. A loro stava bene, anzi, per quelle mogli un po’ piú diffidenti, era il loro marito a esortarle. Un grande!
Michele si avvicinò al ragazzo, di cui ancora non conosceva nemmeno il nome, e sussurrò: anche qui ce n’è uno la cui moglie, don Vito, la conosce bene. Di scatto il ragazzo si voltò, cosí rapidamente, che la sua domanda non poté essere che la sola, preso dal morbo della curiosità… Michele! Michele!, si sentí dall’interno del locale, ma dove sei finito?, era Narika che lo cercava. In un baleno i due furono ai loro posti, senza che Michele avesse avuto il tempo per rispondere.
Paragrafo 4.6
– Michele! Su, dai, dimmi! Mi hai lasciato a bocca asciutta. Non ho fatto che pensarci tutto il giorno… dai, che non voglio lasciarmela sfuggire: è una notizia troppo appetitosa. Non lasciarmi cosí. Forse, la prossima settimana non ci verrò qui a lavorare.
– No!?, chiese meravigliato Michele.
– Troppi galli nel pollajo!
– Ti riferisci a quella lí?
– Certo. Non la sopporto piú… due giorni bastano a tanto. Anzi, non vedo l’ora di fuggire da questo posto. Puah, senti che fetore sulla maglia, avvicinando il naso sulla spalla. Un miscuglio di odori insopportabili: sembra che ci abbia cucinato sopra! Lo farò presente a don Vito.
– Cosa vorresti fargli presente, che in cucina si cucina?, e rise in faccia al ragazzo. Ti informo che qui si viene per mangiare, e continuava a ridere.
– Gli dirò che mia madre, per me, non intendeva di farmi lavare i piatti, quando si è rivolta a lui. Ecco cosa devo dirgli! Disperata sí, ma non senza dignità. Mia madre (e sbuffò) ha voluto per forza pensarci lei, come se io non fossi capace di
trovarmi un lavoro da solo e lei, cosa mi fa fare?, il lavapiatti… ci sarei riuscito anch’io. No, io avrei fatto meglio, certamente. Anzi, ho fatto meglio perché io, prima, prima, tutto tranne il lavapiatti… ci mancava pure questo… lo sguattero! Non so nemmeno da dove si comincia… tutta quell’acqua… i piatti che arrivano come un fiume in piena! E guaj a rallentare o, peggio, a fermarti. Sei fritto!
– E cosa c’entra don Vito!, rispose Michele sempre con un certo tono di difesa, davanti al nuovo capo d’accusa.
– C’entra c’entra, e come se c’entra. Io avevo detto a mia madre di non andarci, che me ne sarei occupato io, non sono piú un ragazzino. E lei no! Ha insistito e ci è andata. Aveva un conto in sospeso.
– Con don Vito?
– Con don Vito!
– Ah capisco!, annuendo con la testa e gli occhi che si illuminavano, ridendo a se stesso.
– Capisco cosa?, chiese il ragazzo.
La domanda fu con tale veemenza che Michele temette che la sua faccia lo avesse tradito, per quel ridere… dentro di sé, intendiamoci!
No, non è possibile che sia riuscito a capire, Michele andava dicendo a se stesso, fingendo di nulla. No no, non mi sembra un tipo cosí furbo! Se ancora adesso è qui a chiedermi, e non ha ancora capito nulla del Carullo… no no, sono in una botte di ferro, proprio di ferro! Non può essere che abbia capito… ma guarda quel don Vito!… alla sua età, non perde il vizio!, e sorrise ancora.
– Ehi, dico a te… capisco cosa? Dormi?
– Ehm, sí… dico… capisco che ti senta preso in giro. Anch’io al tuo posto mi sarei sentito preso in giro, maledizione!
Michele se l’era scampata d’un soffio, avendo scelto rapidamente di mostrare una sorta di complicità con il ragazzo per l’inganno subìto. Almeno cosí, l’altro, si sarebbe sentito esortato a continuare… chissà che non ci sarebbe scappata qualche risata!
– E lei che ci è andata per due volte!
– Perché due?, rincarando la dose.
– La prima, lei dice di non aver concluso molto.
– In che senso?, ribatté Michele, non c’era?
– C’era! È che don Vito non se l’aspettava! Era occupato, lei dice. Gli è sembrata
una cosa troppo importante per liquidarla cosí, su due piedi: aveva visto mia madre troppo agitata e, per essere cosí agitata, non poteva essere una cosa da nulla. E invece…
– E invece?
– Erano le scale! È arrivata da lui con un tal fiatone, rossa e affaticata che don Vito le ha detto di calmarsi, perché a tutto c’è rimedio… dannate scale!
– Ma se vive in un palazzo a due piani… e di solito lui soggiorna al primo, vecchio com’è!
– Sí, ma mia madre ci è andata a piedi fin là, sotto il sole d’agosto, e poi… ci sei mai stato in quel palazzo? Le scale, ci si deve arrampicare, per quanto sono alte!
– E poi?
– Insomma, dopo averla rispedita a casa, don Vito le ha chiesto di ritornarci il giorno appresso… ha dovuto insistere un po’, lei dice. Sembrava che volesse togliersela dai piedi e lei ci è tornata l’indomani, per farne ciò che voleva e dir la sua.
– E il conto?
– Quale conto?
– Quello che don Vito aveva con lei!
– E che so io: l’avrà pagato!
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¹² frittura: odore di frittura ¹³ padlone: Narika in tono a metà tra ironico e sarcastico, sottoposta ad una sottile pressione psicologica che svilisce il suo lavoro e la sua persona, va paragonandosi ad uno schiavo. ¹⁴ le garanzie che hai!: il ragazzo allude alle simpatie di Sandra di cui beneficia Michele
Capitolo 5
Paragrafo 5.1
Come ti sei fatto grande!, ripeteva Carullo a suo figlio Ninì, ogni volta che riusciva a vederlo. Certo, quando poteva, di occasioni non è che ce ne fossero poi tante!, c’era sempre un motivo per cui Carullo dovesse levarsi prima del sole, anche d’estate… soprattutto d’estate, per il caldo. Pur coricandosi a fine giornata che si sentiva uno straccio, non riusciva a chiudere occhio.
Il suo letto, un forno.
Rosolava ben bene per tutta la notte, finché finiva per sdrajarsi sul pavimento, a torso nudo, per poco… visto che poi era lo stesso. Lo vedevi strisciare alla ricerca di frescura, finché non si decideva ad alzarsi che era quasi fuori la porta.
Insopportabile! superficiale! rozzo! non tanto per me, che pure sono sua moglie, ma dico… almeno per Ninì, per decenza, ci siamo anche noi qui, o no?, ripeteva Anna. La solita storia, tutte le mattine non le restava che sbraitare contro un marito che le pareva fuggito apposta per non sentire.
Anna aspettò per tutto il giorno che suo marito rientrasse, furiosa, con la caviglia slogata: continui a fare come ti pare, urlò Anna al marito di rientro a casa, zitto, senza forze e svuotato anche dell’anima. E guarda cos’ho?, mostrandogli la caviglia.
Lui la guardò, immobile, da imbecille, che tanto avrebbe voluto dirle: sei matta? cosa mai posso saperne io della tua caviglia. E lui, davvero, non ne sapeva
nulla!, cadeva dalle nuvole! Cosa mai poteva saperne lui della caviglia della moglie, lui che era stato fuori tutto il giorno?
Anna non riuscì a dire altro oltre a quel «guarda cos’ho?», da rinunciare già prima che Carullo aprisse bocca, da sbollire di botto cosí, all’istante. Ma che risposta mai avrebbe potuto aspettarsi… da lui! Lei, tutto il giorno scatenata, a cercare un modo per svegliarlo, per scuoterlo, per smetterla con questo fare da impotente, lasciare sempre tutto ad altri, della sua vita, delle sue cose, di tutto, quasi non gli importasse di nulla, senza reazione, non una parola, un’opinione, vuoto, senza idee, possibile? possibile? una foglia morta, ecco cos’è!, una foglia a pelo d’acqua, senza vita, trascinata dalla prima corrente che gli a, possibile?
Nei suoi panni, Anna, nei panni di Carullo… altro che!, un balzo dritto in faccia, felinamente, avrebbe fatto: avrebbe tirato fuori le unghie, e zac… avrebbe urlato, avrebbe urlato di finirla una buona volta, che non era sopportabile una moglie lamentosa come lei, perché sí, non ne sapeva nulla della sua maledettissima stupida caviglia, che non c’entrava un fico secco, lui, che era tutto il giorno al lavoro per non far mancare nulla alla sua famiglia, e… a lei, anche a lei, da non aver nulla di meglio da fare che lamentarsi per una caviglia. E anche se fosse? Anche fosse stato che lui in qualche modo c’entrasse malauguratamente con la sua di caviglia, allora? allora? Zitta! Zitta e basta! Ognuno con le sue sofferenze. Cosa crede… lei solo ha le sue?
Ecco, questo, questo Anna avrebbe voluto, che si difendesse, anzi no, che reagisse, che montasse su tutte le furie, piú della moglie…che fe l’uomo!, ecco cosa voleva, avere soddisfazione di sentirlo urlare, prendere una posizione, decidere, fare da esempio per suo figlio… povero piccolo! D’essere d’esempio lo era, ma che esempio! Di un inetto, un debole, con la testa infilata sotto la sabbia… no, con la sabbia direttamente ne gli occhi: meglio non vedere! Altro che!
No. Niente.
Potevi mai spiegargli che la sua caviglia le si era slogata scivolando sul pavimento, bagnato del suo sudore? Potevi mai spiegargli che quello, il pavimento dico!, non era un letto?
No. Non avrebbe capito. Inutile. Guardava… e basta!
Queste cose Anna pensava tutto il giorno e si raffigurava con mille facce di mille colori diversi. Se qualcuno avesse avuto il dono della trasparenza, l’avrebbe vista muoversi per casa a testa basta e di tanto in tanto sentirle parole a metà, come se si fosse bevuta il cervello!
Ma lei, per tutto questo, non era Carullo a darle pena, no!, o essa stessa. Fosse stato per lei… ormai!, che importa. No, per Ninì! Si sentiva responsabile al doppio, per quello sciagurato, e lei che doveva fare per due, il padre, oltre che la madre.
E poi padre… si fa per dire! Dopo tutti quegli anni, chi se lo aspettava:
– Ehi ehi, padre chi?, santo cielo non è suo!, padre… lui! per cosa? se non ha fatto nulla. Sfido a dire che è suo, non gli assomiglia neanche. Guardalo!, si diceva Anna guardandolo, che bella creatura! Neanche a impegnarsi, ci sarebbe riuscito! Non è capace di una o col bicchiere¹⁵, figuriamoci!
Dopo tutto, pure questo, doveva sentirsi dire che Carullo era il padre… e non è
che poteva farci nulla, misericordia! E il guajo… è che tutti ci credevano, tutti! A nessuno mai, dannazione!, era mai venuto in mente che non gli somigliasse affatto: tutti ciechi? Era lampante, eppure… lui, Carullo era il padre. E quanto ne gioiva lui per quel regalo, nemmeno fosse suo davvero:
– Cosa ne sa lui? Dice che è il figlio e tanto gli basta! Vuoi che gl’importi? Si è mai preoccupato di nulla lui?
Non è che allora ci fosse stato tutto questo tempo. Doveva decidere e già che c’era (meno male che c’era!), un ruolo dovevano pure darglielo, a lui, che aveva dovuto prenderselo come marito.
Dopo la moglie, anche il figlio gli avevano dato… senza sforzo!
– No no… don Vito no. Non scherziamo, sarebbe stato montato uno scandalo, ci mancava pure questo, le veniva da dire.
È che si era lasciata prendere la mano! Quante volte si era ripetuta ogni volta che quella era l’ultima… e poi niente, punto e daccapo. Non sapeva resistere, un tormento. Finiva per cascarci, sempre, come una ragazzina.
– E poi, se l’è cercata, si rincuorava Anna ribellandosi. In fondo, l’ha voluto lui. Perché io sarei andata da don Vito?… Per lui, perché se fosse stato capace del suo, non mi ci avrebbe mandata. E lui? che fa? Vai vai! Ci mancava solo questo. Non l’ha detto… ma l’avrà pensato: vuoi un lavoro per me, cercamelo! Questo avrà detto e io… e io che ci sono cascata in pieno.
E lei c’era andata, per lui, per entrambi. Prima, per chiedere a don Vito un lavoro per il marito, poi per cortesia (a ringraziarlo, si capisce!) e poi…
Veramente, non è che poi ci avesse pensato cosí tanto a evitare quegl’incontri, anzi, a dirla tutta!, avevano assunto una cadenza regolare, da entrare essi stessi nelle abitudini di vita, appuntamenti fissi a cui non ci si poteva sottrarre.
Saltarne uno, il vuoto. Non avrebbe saputo che fare.
E intanto sono ati mesi fino a che la notizia dell’arrivo di Ninì l’ha convinta a smetterla.
– Povero figlio. Lo riempiva di baci e carezze tutte le volte che guardandolo ci pensava, pensava alla sfortuna che gli era toccata e in compenso lo baciava, riempiendolo di coccole: Ninì, il nostro Ninì, e lo baciava dappertutto, soprattutto lí, su quella graziosa macchiolina rossa. Rossa rossa… come una fragolina!, diceva la madre.
Con la punta delle dita Anna palpava il bel culetto morbido del suo bimbo divertito mentre lui aspettava, eccitato di gioja, aspettava che sua madre all’improvviso gli si avventasse sopra, con le sue labbra carnose e rosse, sul fianco, su la sua macchiolina rossa, a baciarlo, prima di esplodere in una fragorosa risata.
Paragrafo 5.2
Quel giorno al lavoro ci sarebbe venuto Gigi… no… Husayn!, si ripeteva Narika: Husayn, quello è il suo nome e io devo ricordarmelo. Se lo ripeteva, continuamente: Husayn, Husayn… Husayn!
Era pure difficile da ricordarselo, per Narika, quello era un nome davvero difficile, come lo era stato da sempre per lei, per tutti quelli con cui non aveva imparato a convivere sin da piccola. Lei era abituata a nomi sempliciotti, sí… non stranieri… strani. Aveva tanti di quei cugini!, almeno una quindicina, ma nessuno con un nome di quelli… altisonanti, cosí belli, di quelli in grado di restituirti un che di brillantezza, magnificenza, al solo pronunciarlo: guarda Marisa, che nome è?, si diceva.
Da bambina, le venivano ancora in mente le grandi occasioni in cui la famiglia si riuniva, tutta, stipata nella sala da pranzo della nonna, da starci stretti: sembrava la festa patronale. Si teneva aperta la porta di ingresso per consentire ai piú piccoli di star fuori a giocare, su e giú per le scale con gli altri bimbi del pianerottolo, almeno finché non fosse ora di sedersi a tavola e stare tutti come sardine.
Le sedie erano attaccate e su due… ci si stava in tre.
Le mamme chiamavano a raccolta ciascuno i propri figli, ma i nomi che si sentivano… erano sempre gli stessi. Con un pajo per i bambini ed un altro per le bambine, vedevi arrivare intorno al tavolo, come api sul miele, almeno una metà di quei marmocchi.
Dei lupi affamati, peggio.
Questa cosa qui faceva rallentare Narika nel suo lavoro, con la testa fra le nuvole, ricordando tutti quei parenti, ad uno ad uno, ora molto lontani, pur restando vicini, e questo un po’ le stringeva il cuore. Ah, la zia Marisa!, pensava: u naom¹ . Quando chiamava Corrado, suo figlio, lui si girava: nessun altro. Se lo chiamava la nonna, si giravano almeno in tre, tutte le volte. Tant’è che dopo la prima, nessuno si voltava, ognuno non piú certo che la nonna stesse parlando proprio a lui.
– Corrado di Marisa!, urlava la nonna indispettita per attirare l’attenzione del figlio giusto, mi senti?, e finiva col borbottare per la maleducazione dei suoi nipoti, ai suoi tempi non ammesso.
E intanto: Marisa Marisa (miagolava sottovoce).
Era Narika che chiamava se stessa, Marisa, per provare l’effetto che faceva. Finí per dirlo ad alta voce, nella cucina deserta, scimmiottando che fosse qualcun altro a pronunciarlo e vedere se in lei ci fosse stato l’istinto di girarsi… o quantomeno prestarci attenzione. Che stupido esperimento!, si disse. Come posso non farci caso se sono io che chiamo me stessa?… Marisa… chi sarei io? Marisa, e rise, facendo venir fuori il bianco dei denti. Che stupida!, e le venne in mente Gigi… no… Husayn!, per averlo chiamato sempre Gigi. Non lo vedi?, si disse in tono di rimprovero: se avesse voluto farsi chiamare Gigi, non avrebbe detto: sono Husayn, avrebbe detto: sono Gigi. Colpa mia: lui è Gigi! Che stupida, gli ho pure chiesto se quel nome gli pie. Certo che no, non è il suo! Se lo chiamo Gigi, cosa può farci? Imbavagliarmi? Poverino. Certo che no, educato com’è! Noooi siamo i maleducati, con certe pretese. Chi sono io? Se voglio cambiare il mio nome, non vuol dire possa farlo anche per gli altri… a mio piacere.
Gigi, si chiama Husayn. Lui è Husayn. Husayn è il suo nome e cosí devo chiamarlo! Non lo ricordo? Imparo! Anzi, forse l’ho già imparato a furia di ripeterlo: Husayn Husayn.
Paragrafo 5.3
Buongiorno Husayn, fu per prima Marisa a salutare con tono molto allegro Husayn, con l’aria di chi sente di incominciar bene la sua giornata, non avendo un perché o avendocelo senza sapere o avendone uno apparente. Il risultato è che comunque Marisa sentí il petto tutto gonfiarsi, tirando un involontario (forse!) sospiro di sollievo rivedendo, dopo settimane, il suo amico Husayn: «Husayn di qua», «Husayn di là», «Husayn per cortesia ami quel cucchiajo», «Forza Husayn, sbrigati! Stiamo affogando tra i piatti!». Fu un continuo, per tutto il giorno, sentire quel Husayn, una carineria che Marisa ripeteva quasi a voler recuperare tutte le volte che lo aveva chiamato Gigi.
Al sentire quel nome, ripetuto fino alla noja, Carullo cominciò pure a dubitare su quale fosse il modo giusto per chiamare quel ragazzo. Per lui, guarda!, non è che fosse cosí importante! È solo che avrebbe voluto evitare che si offendesse: se Narika lo chiamava cosí, un motivo doveva pur esserci!
Per Gigi… no, Husayn!, in fondo, faceva lo stesso. Era chiaro che per tanti il suo nome fosse difficile da pronunciare… ormai ci era abituato! Non lo si faceva per cattiveria, brava gente! È pur vero però che ogni qualvolta che qualcheduno lo chiamava Husayn, scattava come una molla, con un ampio sorriso, a ricambiare lo sforzo fatto per pronunciare correttamente quel nome.
– Ti chiami Gigi o Husayn?, chiese stordito Carullo.
– Che stupido!, commentò sottovoce Marisa, mentre partivano saette dai suoi occhi nella sua direzione. Non capisce mai nulla, devi spiegargli sempre tutto!,
continuò tra i denti.
– Husayn, si chiama Husayn. Non lo sai ancora? Dove vivi!
Carullo si voltò verso Narika, senza capirci piú nulla, con gli occhi ancora di sonno e cominciò a balbettare: ma… ma… Narika…
– Si chiama Husayn. Ecco, facciamo le presentazioni: lui è Husayn, e Husayn rise, mentre io sono Marisa, la tua nuova collega!, prendendolo anche un po’ in giro, e Carullo finí per davvero col non capirci piú nulla.
Paragrafo 5.4
Quelle giornate gli erano apparse piú lunghe del solito. Andava avanti cosí da settimane, come ogni estate. Con l’arrivo della bella stagione, il locale si ingrandiva. Una pedana enorme, in legno, si stendeva sul molo, fino a raggiungere il mare, sul retro della sala. Di giorno quasi si smetteva di lavorare. Don Vito lo diceva sempre: per via del caldo, i clienti preferiscono il mare. Ed aveva ragione. Quel posto avevano voluto spacciarlo come un’oasi di piacere, di relax e riposo. Non era che un vecchio molo abbandonato, usato un tempo da barcajoli, tant’è che avevano dovuto lavorarci non poco per tirar via blocchi di legname accatastato, fradicio e consumato dall’acqua del mare. E che dire di corde, vernici protettive, bulloneria, olii maleodoranti sul pavimento in cemento che ne aveva preso il colore. Furono costretti ad una opera di bonifica mastodontica, come mastodontico fu lo sforzo per mettere in piedi quell’edificio fatiscente.
Don Vito già ci vedeva un posto di divertimento, il suo Gran Bar, lussuoso, moderno, una sorta di costrizione morale a consumare per chi vi entrasse, una pressione opprimente non sentendosi ben accolti e fuori luogo se non disposti a spendere: l’esaltazione del consumo e dello sfarzo, dell’apparire, con lustrini e pajette senza i quali il divertimento, latitante. Don Vito ci aveva visto bene… un posto di divertimento, un’attrazione per i giovani… d’inverno. E in estate, come tenerli in estate?
Ecco l’idea: una bella pedana, ancorata sugli scivoli in cemento, un tempo usati per lo sbarco delle barche appena riparate, fino a raggiungere l’acqua. Sai che novità?, andava dicendo don Vito con gli occhi pieni di luce, fermenti per lo stupore che avrebbe suscitato al arci sopra. Adornata a modo, con piccole isole relax, a suon di poltroncine in vimini, cuscini colorati dappertutto e grandi ombrelloni a veranda, sarebbe stata perfetta. E poi… e poi… rigorosamente a piedi nudi. E già! Gli sembrava di vedere le meravigliose serate di stelle, tra
candele accese, musica di sottofondo e… bollicine, bollicine, bollicine rigogliose (tante quante erano i suoi guadagni!)… a fiumi. Finí per chiamare quel posto Moulin Rouge, con un’insegna curata da lui stesso, con scritta stilizzata su sfondo bianco. Aveva fatto scrivere cosí:
Riscrivere ora quel nome, qui, su questo foglio, cosí come lui lo aveva fatto scrivere su quell’insegna è cosa ardua: Moulin Rouge.
Se non fosse che per mesi il Moulin Rouge fosse stato pubblicizzato in tutte le salse, in giro per il paese, con riproduzioni in miniatura de la stessa insegna, su carta, si faceva fatica a capire cosa ci fosse scritto su quel pannellone, presi da un insolito accostamento, vagamente (forse) allusivo, ad una rossa e carnosa bocca di donna.
Quelle due lettere M e v, disposte l’una sull’altra, davano proprio l’idea di…
– Una bocca? Che dici!, si sentiva tra la gente non ancora troppo abituata all’idea di quel locale.
– Guarda, guarda: allora che ti sembra?, e mostrava il volantino pubblicitario.
E tutti che ormai ci vedevano una gran bella bocca corpulenta… proprio come era nelle intenzioni di don Vito: un bell’invito ad entrare in un posto… inconsueto. Già, solo il suo nome accendeva l’immaginazione su cui, tra il detto e il non detto, si costruivano congetture e allusioni.
I mariti avevano ricevuto l’ordine tassativo delle mogli di non metterci nemmeno il naso in quel posto: senza ritegno… quel don Vito!, si sentiva dire, non si smentisce. C’era di che aspettarselo!, erano i commenti di tante che vedevano in quel posto una trappola, fatta apposta per i loro mansueti mariti.
A pensarci bene, non è che poi ci fosse tanto da meravigliarsi per quell’idea. A chi poteva venire in mente una cosa del genere se non a lui… don Vito? E tutte che non volevano nemmeno sentir pronunciare in casa quel nome… cosí impronunciabile… che si finiva per discutere tra padri e figli, di quelle due lettere, cosí somiglianti ad una bocca di donna. Persino in suggerimenti ci si dibatteva, con la fronte all’insú davanti a la porta a specchi del locale.
– Fosse stato per me, l’avrei fatta piú stretta e carnosa.
– Dai su, l’avrà fatta cosí per difendersi!
– Chi?
– Don Vito… e chi sennò!
– Don Vito, e poi… difendersi da cosa?
– Come? Pensa tu… se qualcheduno andasse da lui, da don Vito, per fargli notare che quell’insegna manca di pudore…
– Sei scemo? E cosa ha che non va?
– Appunto! Questa potrebbe essere la sua risposta: non ha nulla che non va!
– Furbo… don Vito! Hai capito?, e si vedeva in queste battute la solita luce di ammirazione per quell’uomo. Poi, in fondo, dai, cosa c’è di male? Perché tutto questo parlare…
– Ah, per me guarda: nulla. Facciamo i soliti moralisti. Tanto poi, ci abituiamo e ci scordiamo che fino a qualche giorno prima… siamo stati senza.
– Già, un po’ come la televisione… ti sei chiesto come si viveva prima, senza? Secondo me male…
– Per me, bene: non puoi star male per non avere una cosa di cui non conosci nemmeno che esiste! Oggi sarebbe come toglierci l’aria che respiriamo, ma prima… avrebbero mai potuto toglierti qualcosa che non avevi ancora? Guarda cosa già ora sta accadendo per i cellulari: tra un po’, non ne potremo fare a meno.
– È un gran furbacchione… quel don Vito!
– Abbiamo bisogno del nostro tempo. I cambiamenti non si fanno tutti d’un fiato, sarebbe troppo, troppo evidente e cosí piú facilmente attaccabili da chi i cambiamenti non li vuole. E poi, anche loro sanno benissimo che i cambiamenti non si possono fermare…
– Loro chi?
– Chi non li vuole…
– Cosa?
– I cambiamenti, il progresso… seguimi! L’uomo, per sua natura, è irrequieto: non sta fermo un attimo, spinto dal desiderio irrefrenabile di cambiare, cambiare continuamente, alla ricerca di nuove conquiste. Appena ne raggiunge una, prova un senso di soddisfazione, come dire?, intenso sí, ma breve, momentaneo, lasciandosi dietro un vuoto. Per questo riprende la sua ricerca del nuovo.
– E allora? Chi non vorrebbe la novità allora?
– La novità non è per tutti. C’è chi è propenso ad una continua ricerca del nuovo, in un perenne stato di agitazione, dalla voglia di arrivare per primo… di essere primo! C’è però chi ha paura di tutto questo, ed è la massa, siamo noi, che preferiamo che le cose non cambino o che cambino piano, cosí che tutto sembri uguale se stesso. E per chi vive con la gran sete di cambiamento è davvero difficile riuscirci, perché se la sete resta soltanto sua, berrà lui solo.
– E cosí il cambiamento non ci sarà per nessuno!
– Bene, vedo che cominci a capire. Chi ha piú iniziativa, si trova in solitario a compiere i primi i, aspettando, solo aspettando, che tutti gli altri lo seguano… perché prima o poi lo seguiranno, si abitueranno all’idea!
– Chi si impegna in codesta maniera, che ne ricava? Perché dovrebbe mai farlo?
– Ci sono pecore e pastori e le pecore son pecore perché scelgono di far le pecore e i pastori…
– Non vedo però il vantaggio… per il pastore dico. Per la pecora, lo capisco pure: è piú comodo, meno sforzo, piú tranquillità, libero da tutti questi discorsi.
– Già! Eppure lo fa. Non ne vediamo il vantaggio perché siamo pecore (e rise), tu e io, e non so dirtelo, non faccio il pastore!
Ed entrambi ci risero sopra.
Non ò che qualche anno dall’apertura della sua meraviglia che già il solito don Vito pensava a rilevare il Re del Mare, storico ristorante sulla litoranea, a sud di Molfetta. Gli affari non è che andassero a gonfie vele in quel posto e il proprietario, un uomo sulla sessantina, aveva dei conti in sospeso proprio con don Vito, don Vito che lí ci vedeva la sistemazione per la sua secondogenita Carolina, partita per la Germania.
Quel testone del proprietario era davvero un osso duro. Le aveva provate tutte don Vito, persino a chiedergli di diventare suo socio: niente, niente, niente! Fino a convincersi che sarebbe stata solo una questione di tempo.
Erano ormai trent’anni che quel locale lo aveva come unico proprietario, testardo!, e sperava che suo figlio, l’unico, lo ereditasse, anche per evitargli di lavorare sotto estranei, lui che non ci era abituato:
Finirebbe sguattero di cucina, sicuro!, pensava il poveretto, mentre la pelle sulle braccia gli si arricciava tutta al solo pensiero che suo figlio potesse finire con quel don Vito. Sai mai?, si diceva, con questi giovani non si può sapere. Un giorno viene da te e ti dice: «Da domani lavoro al Moulin Rouge». No no, mai!
Quell’uomo però era proprio a don Vito che era stato costretto a rivolgersi per problemi di ristrutturazione. Nessuno voleva fargli piú credito… tranne don Vito!
– Certamente, si diceva divorandosi le unghie dei pollici, non aspetta altro!
Don Vito lo accolse al suo Moulin – per tutti ormai era il Moulin, come se il sol fatto di pronunciare quel nome trasferisse in chi lo pronunciava, spavaldo, un pizzico di quella trasgressione, intrinseco nel nome stesso.
– Che umiliazione! A sessant’anni suonati… dargliela vinta poi. Sbruffone!
Avrebbe voluto urlargli contro, mentre don Vito andava pavoneggiandosi per le sue idee e diceva: guarda qui, e quanto ho dovuto sudare!
– Sí, col sudore della fronte altrui!, gli avrebbe voluto ben dirgli.
Ma era pensando a suo figlio che teneva la bocca cucita, se non per costringersi a qualche sorriso forzato, come se non fosse leggibile sulla sua faccia che tra i denti imprigionava mille bestemmie, per lui, don Vito. Gli sarebbe bastato solo
aprir bocca per sentirle saltar fuori a valanga, riempirlo di meraviglie sul suo modo di fare affari… sulla pelle degli altri!
Cosí fu. Fu che don Vito riuscì a farne un ristorante sul mare, su la sua solita pedana in legno, tra candele e bollicine, per sua figlia Carolina, partita per la Germania.
Paragrafo 5.5
Carullo era un tipo tranquillo, capace di lavorare per ore e senza neanche fermarsi, da fare invidia persino a un somaro. Per chi lo conosceva, quasi sembrava impossibile ci riuscisse, da solo, senza qualcosa o qualcuno in grado di offrirgli tutta quella forza.
Tu ti impasticchi!, lo accusava scherzosamente Marisa, anche se non troppo. Alle volte le era balenato con una voglia di certezza il sospetto che qualche ajutino lo prendesse.
Com’è possibile?, si domandava. È qui da stamane, quasi all’alba, per mettere a posto la merce dal mercato. Ha risistemato la sala, spazzato tra i tavoli, ordinato le stoviglie, rattoppato la pedana, lí, sugli angoli, per difenderli dalle onde della notte, lavato i pavimenti della cucina, rimesso ordine nello stipite delle scope. E lui che fa? Nemmeno il tempo di pranzare a casa con sua moglie e suo figlio, che te lo ritrovi a darsi affanno, nemmeno fosse lui il padrone. Guarda un po’ questo! Tira dritto fino a tardi, senza smuoversi di lí finché non è Sandra a chiederlo.
Era soprattutto questo che innervosiva Marisa, la reverenza e lo stato di sottomissione che lui, un uomo, concedeva di sé a quella donna… nemmeno meritandoselo. Cosa temeva? Di essere buttato fuori se solo avesse provato a contraddirla?
Non era capace di dirle di no: non ci riusciva, per qualunque cosa… fosse stata la piú stupida, la piú banale, la piú incolore delle richieste che potesse ricevere un no. Nulla. “No” non è che non ci riuscisse a dirlo a lei solo… a tutti, persino
al droghiere difronte, con cui non aveva nulla che spartire! È vero. Chiunque poteva testimoniare di non aver mai sentito pronunciare da Carullo quel singolo monosillabo, e questo ne faceva di lui mercé di prese in giro, fino a inventarsene di richieste da fargli, qualunque cosa, purché ci si prendesse il gusto di essere uguale agli altri e dire: anche a me Carullo non dice di no.
Sembrava che dicessero: lo chiedo perché c’è. E se non ci fosse? Non lo chiederei, sollevando le spalle, ne farei a meno. Ma se c’è, c’è. E poi… lui non mi dice mai di no!
In realtà, non diceva di no solo a lui, al droghiere. Non diceva di no a nessuno, nemmeno a Husayn che a dargli gli ordini, ne era poco avvezzo, tanto da arrossire per la vergona. Non è che fossero degli ordini poi, quelle di Husayn, piú delle cortesie. E poi, proprio Husayn forse un “no” non se lo sarebbe nemmeno meritato, da nessuno, figurarsi da Carullo, per quanto fosse buono e mite, sopra tutto in quegli inghippi in cui sembrava che soltanto Husayn potesse incappare, tanto era ingenuo.
Lo vedevi tutta la sera alle prese con i suoi piatti, a lavare e asciugare, continuamente. Di tanto in tanto lo vedevi strizzare quell’unico panno bianco in cotone che Sandra gli faceva trovare appoggiato tra i rubinetti già prima che Husayn arrivasse. Quel panno, esclusa la prima ora di lavoro, per il resto della notte restava immancabilmente bagnato, cosí bagnato che a malapena riusciva a tirar via l’acqua dai piatti. Ancora bagnati non fradici e per niente asciutti, i piatti erano impilati gli uni sugli altri, su una lastra di marmo accanto alle vasche. Erano cosí tanti che anche Marisa gli aveva consigliato di riempirla, finché potesse, prima di portarli alla piattaja, per evitare di andare avanti e dietro per la cucina ed essere di intralcio. Lui però esagerava! Alto com’era rimetteva piatti su piatti fino a farne delle torri di Babele tant’è che, pur essendo veloce, fin quando non arrivava a metterci l’ultimo, i primi, fino a metà, erano belli che secchi.
Quando però le torri si facevano alte e fitte da non avere altro spazio, iniziava la processione in giro per la cucina, senza però prima chiedere a Carullo.
Con quel caldo!, era davvero una tortura per Carullo. Quella era l’occasione per dir di “no”. Macché! Carullo finiva per mettersi alle vasche mentre Husayn cacciava l’acqua e accatastava. Ed era lui, Husayn, l’unico a dover reggere quelle pile di piatti. Pur volendo, non si poteva altrimenti. Non poteva che essere lui a togliere da lí quelle enormi masse di ceramica di seconda scelta, tanto erano pesanti.
Incrociava una manona nell’altra, sotto una di quelle torri, e la scarrozzava fin dall’altra parte della cucina. Poi, davanti a la piattaja, si abbassava un po’, piegandosi sulle ginocchia, e Carullo la tagliava a metà – o almeno cosí Carullo ci teneva a dire – in modo che potesse starci dentro. A onor del vero, Carullo faceva fatica a spostare anche le mezze torri, tanto erano pesanti per lui. E la stessa cosa accadeva con la metà delle mezze torri, ancora troppo pesanti… e quella era un’altra tentazione per lui di dir di “no”.
Nemmeno! Non faceva in tempo a pensarci da rinunciare, subito, appena scorgeva quei due occhioni neri neri man mano che liberava piatti dalle mani di quel ragazzo. Husayn restava lí, immobile, fermo come una roccia, pazientemente, aspettando in silenzio che Carullo la smettesse di sbuffare, pur bravo che fosse!, mentre lui, Husayn, nulla, nessuna lamentela, nessun segno di cedimento… una roccia davvero.
Carullo la faceva lunga, da dimenticare che lí sotto ci fosse un uomo.
Per fortuna per Husayn, era la Sandra che chiamava a rapporto Carullo, per le sue banalità del caso, per i suoi capricci. Senza nemmeno pensare che anche per Carullo potesse esserci del lavoro in cucina, cominciava a guardarsi attorno
infastidita, quasi ne avesse ricevuto un dispetto. E allora lo chiamava, urlava. Lo cercava fino a ordinare che Michele (Mozzarella) lo fe per lei, quando c’era! Perché altrimenti si trovava costretta ad aprire la porta e infilarci lei il naso in quel covo maleodorante per vedere se ci fosse.
Di piú, impossibile.
Non poteva rischiare di sentirsi addosso la puzza di cipolla o ungersi i capelli di frittura.
– Perché quella lí, là dentro, non sa che cucinare cipolle e friggere pesce!, diceva a Michele, quando c’era, per risparmiarsi di aprire quella porta.
E allora Carullo, da buon chirottero, sentendola squarciare la gola, si affrettava a sistemare la piattaja per correre da lei, da Sandra. Lo vedevi che liberava dai piatti le mani di Husayn come una furia e fuggiva via mentre gli altri tutti restavano a guardarsi, stupiti, per questa nevrotica partenza, finché qualcuno (Marisa) scontatamente, sconsolatamente e certa che non potesse essere diversamente:
– Sandra… lo chiama!
– Sandra? Cosa c’entra Sandra?, scattava la domanda ancora inesperta di Husayn.
– Sissignore, Sandra. E chi altrimenti. Noi non l’abbiamo sentita… lui sí: la
sentirebbe da chilometri.
E Husayn ritornava ai suoi piatti pensando che Marisa lo stesse prendendo in giro, che in realtà avesse voluto dirgli qualcosa a lui oscura, come sempre, e che forse non era nemmeno il caso di chiedere: con tutto quel che c’è da fare!, pensava.
Paragrafo 5.6
Non sapeva dir di no a nessuno Carullo… figuriamoci a quel suo Ninì di papà, come lo chiamava.
– Ninì, Ninì di papà, vuoi che ti porti a vedere le macchine sulla pista?
La risposta era inutile: Carullo amava le auto, da sempre, l’unica vera ione della sua vita ed era un’ovvietà che suo figlio l’avesse pure. Non è che lui fosse un esperto meccanico o avesse mai avuto modo di guidarne una: non aveva neanche la patente!
Aveva paura, paura persino di entrarci, però le amava. A salirci sopra, tutt’intorno gli girava, fino a girargli la testa pure e vomitarci dentro. Ci aveva provato a star buono, persino a chiudere gli occhi: almeno un po’!, si ripeteva a denti stretti, chissà che questo non l’avesse spinto ad abituarcisi, chissà che magari non avesse potuto guardare con un occhio solo, prima, e poi (fosse vero!) … con entrambi. Nulla. Ogni tentativo era fallito, miseramente. Le vibrazioni che il motore diffondeva al resto dell’abitacolo erano quanto gli occorreva, da sole, a farlo star male. Ed era stato cosí, da sempre. Gli unici viaggi di cui riusciva a goderne erano quelli fantasiosi a bordo della FIAT 500 bianca di sua moglie, che del resto gl’impediva di toccare, quasi servisse la patente anche solo per quello.
Quando poteva, scendeva in garage e ci saltava dentro, seduto al volante, fingendo di avere tra le mani una coupé rosso fiammante. Ne aveva terrore, ma le amava… e tanto pure. Ne era cosí apionato da esserne diventato un
intenditore, un intenditore di motori, di valvole e pistoni, da far impallidire anche il piú esperto dei meccanici. Le amava, purtroppo non come avrebbe voluto. Guardare sí, toccare no: ecco cosa gli sembrava, una beffa, bella e buona. Ciò che piú avrebbe voluto? Portarne una, qualunque, anche solo per un minuto, sentirne il vigore, la forza. Il giro di una chiave, un semplice gesto, per animare un ammasso di ferraglia. Gli sembrava ci fosse del magico, sí, l’ingegno in poco spazio, tutto cosí… perfetto! Chiudeva gli occhi e cosí vi restavano, chiusi, con il vento tra i capelli. L’aria cupa e umida svaniva, portandosi dietro tutto, tutto spariva, anche il garage, il suo colore grigio e i suoi olii maleodoranti, per fare largo al sole dell’estate, caldo e biondo. Finalmente… ritornava a fargli visita.
E dovette alzarsi all’alba, approfittando del giorno di chiusura del Moulin, l’unico nelle ultime tre settimane dopo che lo stesso don Vito aveva fatto notare a sua figlia che il tirar troppo avrebbe potuto romper la corda: il vicinato va tenuto buono, le disse prendendola in disparte.
La gente nei dintorni cominciava a non poterne piú: ogni sera la stessa storia: baccano, urla e schiamazzi fino ai primi raggi del giorno… e oltre!
– Dipende anche da i tuoi vicini se vuoi far bene con la tua attività. Cominciano a essere stanchi, a non tollerare, a guardar cose che di solito non è affar loro guardare… e questo non è il momento per infischiarsene! È per l’azienda!
E mentre tutti ormai non ci pensavano perché saltare il giorno di chiusura era una prassi ormai, il solito Michele, il Mozzarella, li informò con un «domani restate a casa». E lo fece giusto in tempo, quando Marisa e Husayn erano sul punto di augurarsi il buongiorno e andare a dormire.
– Finalmente!, fu per tutti il primo pensiero, seguito improvvisamente dalla necessità di capire che farne dell’inattesa libertà.
Il giorno appresso sarebbero restati lí, al lavoro, come sempre. E ora? Ora no, non piú, spaesati.
– Ecco, è capace persino di rovinarci il nostro unico giorno!, borbottò Marisa che, fosse stato per lei, ci avrebbe volentieri rinunciato… per non dargliela vinta! Poteva avvisarci prima, no?, continuò. Sta già albeggiando. Resterò a letto fino a ora di pranzo, se non oltre, stordita per tutto il pomeriggio: che mi resta?
– Resta con la tua famiglia, le suggerì Husayn con la naturalezza di un bambino.
– La mia famiglia? Bella questa! I miei genitori hanno il privilegio di essere pensionati… e da tempo pure. Tutti i giorni al mare. Quando loro rientrano a casa, con un aspetto che somiglia sempre piú al tuo, neri da fare schifo!, io sono lí che mi sveglio per il pranzo, che per fortuna mia madre prepara per tutti. Questa è la mia estate! Beati loro, aggiunse con tenera invidia, almeno c’è qualcuno che la vita può godersela, anche per me. Che credi? Noi, nemmeno l’avremo una pensione! Ah già… che parlo a fare con te di queste cose. Tu non sai nemmeno cosa sia la pensione. A te, poverino, il giorno di riposo fa danno: (la Sandra) non ti paga neanche. Resti a casa, a non far nulla! Cosa vuoi ancora? (ironizzando)
– Cosa è pensione?, chiese Husayn.
– Ecco appunto, era quello che cercavo di dirti, riprese Marisa, quasi sottovoce. Per alcuni è un regalo che noi, della mia e della tua età, non meritiamo piú di avere anche se a loro, noi, la stiamo pagando.
– Si paga?!, riprese Husayn, con le idee confuse.
– Eh certo, cosa credi? Anche noi si diceva l’avremmo avuta, ecco perché la paghiamo e poi, pufft, scomparsa!, e roteò la mano davanti a sé mentre il palmo si apriva: la magia era compiuta e il trucco nascosto. Il nostro regalo è andato, lo paghiamo ancora, ma è andato comunque. Forse per te Husayn, è già tanto se lavori e, tra non molto, andrà a finire cosí anche per noi.
E Husayn sorrise, sentendo stranamente e piacevolmente pronunciare il suo nome, Husayn, da Marisa, con tanta disinvoltura e senza imperfezioni.
L’unico a godere del giorno di libertà sembrava esserne Carullo: non era piú nella pelle, non aspettava altro, una giornata con il suo Ninì sulla pista dei Kart.
Dovette svegliare Ninì di buon’ora e issarlo con il suo sedile per bambini, sul manubrio della bicicletta. Fu una gran bella fatica spingere quel culetto paffutello lí in dentro, nel cesto, per un bimbo che mostrava piú dei suoi anni: in questo, tenendo le mani sul didietro del bimbo, somigli a tua madre, disse Carullo con voce fioca per lo sforzo, mentre Ninì rideva piú per le facciacce del padre che per le sue battute. Per lo sforzo, le sue labbra erano piú inarcate del solito, divenendo un vero e proprio sorriso, non piú accennato, tanto che Ninì, voltandosi divertito per la gita in bicicletta verso il padre in affanno sui pedali, rideva pure lui al solo guardarlo.
Carullo pedalò per una buona ora, prima tra le strade del paese ancora addormentate, poi per gli anfratti della campagna. Col fiatone, di tanto in tanto, Carullo cercava di dar voce al figlio Ninì, cosí, per accertarsi che stesse bene e che almeno lui gioisse del viaggio.
Ninì, ora cominciamo a ballare!, annunciò il padre, mentre Ninì, divertito, guardava avvicinarsi il pagliericcio secco sui bordi della stradina. Nei punti dove si faceva un po’ piú erta la salita, Ninì si vedeva sballottolato da destra a sinistra, con movimenti repentini. Lui rideva fragorosamente, pensando che suo padre lo fe per divertirlo. Carullo invece cercava solo di restare in sella al mostro, un mostro di fatica: se solo avesse poggiato un piede per terra, non sarebbe stato piú capace di risalirci. Ripartire con quel peso sulla ruota anteriore e la strada dissestata e leggermente in salita sarebbe stato per lui impossibile. Gli dolevano gli avambracci, gli dolevano i polsi, gli dolevano le mani chiuse come presse attorno ai manici consumati del manubrio. Se solo avesse mollato, chissà!, non ci sarebbe piú risalito su quel mostro. E si rimproverava, si rimproverava, continuamente, fino a che non raggiunsero la pista dei Kart:
– Ah, se avessi avuto la patente!
– E allora, perché non l’hai fatto? Perché non l’hai presa? Fifone d’un fifone!
– No, perché mi sento male!
– Che male e male! Sei soltanto un fifone!
E parlava a se stesso, con quell’altro dentro, quell’altro che alle volte sembrava impadronirsi oltre che delle labbra anche della bocca e delle corde vocali, per prendere parola e scuotere quel fifone d’un Carullo, fifone da far ribollire il sangue.
Arrivarono che Carullo non riusciva neanche a mantenersi sulle gambe tanto gli tremavano. Finí per terra dopo l’ultimo inumano sforzo per estrarre Ninì, preso
dalle ascelle, e tirarlo fuori come un sacco di patate.
Solo allora Carullo, seduto sulla polvere con le gambe distese e Ninì sulle ginocchia, si accorse per davvero di essere lontano dalla città. Si guardò intorno, un attimo, per riprendere fiato e ritrovarsi. Che pace!, si disse. Il sole aveva da poco superato la linea dell’orizzonte, mostrando intere le sue rotondità. Lo si riusciva a guardare in faccia, anche lui, da poco sveglio, tra gli ulivi… ancora per poco. Le cicale non friggevano ancora, il caldo afoso delle notti insonni lontano, lasciato lí tra le mura della città… silenzio!
Silenzio tutt’intorno, solo il molleggiare dei rami d’ulivo, sfiorati dal vento, un vento fresco… e delizioso. I ricci di Ninì danzavano, in mille sfumature di giallo, dal quasi bianco fino all’oro degli angeli: il mio angelo, disse. Carullo sentí un ronzio lontano, sulla sua testa, alzò lo sguardo: guarda Ninì, un aereo!, e il bambino sollevò la sua fronte bianca e liscia, puntando il suo ditino in direzione di un’altra stupenda creatura dalla lunga coda bianca, dietro. Rimasero fermi per un po’, a guardarla, entrambi bambini, ad ascoltare il suono di quella trombetta rimpicciolirsi nel mare di blu sulle loro teste, fino a scomparire, al di là degli ulivi. Carullo chiuse gli occhi con l’odore intenso di fichi nelle narici. Avrebbe voluto sdraiarsi sotto uno di quegli alberi secolari e restare cosí per ore: si sarebbe addormentato!
Non riuscì a resistere. Si alzò, seguito da Ninì: vieni Ninì di papà, facciamo un bel gioco. Scavalcò il muretto a secco che gli ava davanti, con Ninì per mano. Un saltello e, aggirato l’albero di fichi, si trovarono, entrambi, con i piedi immersi nella terra pietrosa… calda e soffice. Calda!, esclamò Ninì con aria incuriosita. Sí Ninì… guarda, se spingi la mano piú in giú, è piú fresco. E le due mani, unite, la piú piccola protetta dal guscio paterno, sparirono, nascoste sotto la terra come radici di due strani e mollicci tronchi bianchi.
Fu il frastuono di un Kart che risvegliò in Carullo il vero motivo per cui erano lí. Sussultò, impazzito di gioja, da strappar via le due mani dal terreno con un
mucchietto di terra scura ancora tra le dita di Ninì, nel vano tentativo di restarci aggrappato. Ninì cominciò a lamentarsi per questo inspiegabile quanto repentino allontanamento dal suo nuovo gioco, tanto che i suoi occhi cominciarono a cadere in una pozza di lacrime.
Carullo non è che fosse molto capace in queste cose, anzi, un po’ imbranato lo era, ma fu proprio il rombo che lo aveva poco fa svegliato ad andargli in soccorso:
– Ascolta!, gli disse dolcemente Carullo, con le sue labbra ritornate per un attimo serie serie, come se quell’altro dentro volesse solo guardare, senza disturbo e lasciarlo che se la cavasse.
Carullo si avvicinò a Ninì, raggomitolandosi, e facendosi piccolo piccolo, piú di Ninì per sentire con lui, dalla sua bassezza, il rumore del Kart:
– Ascolta da quella parte!, e alzò l’indice destro, con il suo capo inclinarsi dallo stesso lato.
Funzionava: lo stato di suspense che Carullo aveva creato portò il silenzio, ancora, rendendo chiaro il rumore di zanzara dei Kart. Ninì spalancò gli occhi di gioja, con le guance irrorate, dimenticando la rinuncia forzatamente subìta.
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¹⁵ Non è capace di una o col bicchiere: detto popolare che letteralmente significa
l’incapacità di disegnare un cerchio pur seguendo con la punta di matita il fondo esterno di un bicchiere, poggiato sul foglio (ad ottenere la vocale ‘o’) ¹ u naom: espressione dialettale molfettese letteralmente traducibile in “il nome”. Nella tradizione popolare ‘u naom’ si usava per indicare, con orgoglio, la persona che ereditava il proprio nome (nonni, zii, parenti), come segno di discendenza, sigillo per un legame destinato a durare nel tempo.
Capitolo 6
Paragrafo 6.1
Signora, stia tranquilla!, le aveva detto paternamente il dottor de Chirico, per chiudere una volta e per sempre la faccenda, in presenza d’un Carullo spaesato.
Signora, suo marito non ha nulla: è sano come un pesce! Anzi, fa invidia ai pesci tanto è in salute. È inutile che insiste. Guardi, per farla contenta e per togliermi ogni dubbio (qualora ce ne fosse stato), mi sono consultato con alcuni colleghi di grande esperienza e grandi conoscitori della materia: suo marito sta bene. E allora dottore, questo riso qui, lo vede? Da dove viene? Se prima non c’era e ora c’è, vorrà pur dire qualcosa? Vorrà significare che non sta bene, o no?, reagì d’impeto Anna, la signora Carullo, davanti a un giudizio tanto inappellabile.
Come debbo dirglielo signora: non c’è nulla-di cui-preoccuparsi! Ecco tutto.
Anna restò alquanto sconcertata avendo assunto per certo che prima o poi sarebbe saltato fuori qualcosa… non riusciva a darsi pace. Eppure il dottor de Chirico era stato cosí convincente, sicuro di quel che diceva, da irritarsi difronte al timore (di Anna) che qualcosa fosse rimasto intentato. Tutto però era stato analizzato: le carte parlavano chiaro (ai medici!).
Ci aveva provato a leggerle quelle strane carte Anna, sperando di trovarci scritto a chiare lettere qualcosa del genere:
Dopo serie di accertamenti, eseguiti presso la struttura di Buona Novella in Acquaviva delle Fonti, condotti con estrema minuzia di particolari e
professionalità dal dottor ill.mo Ludovico prof. de Chirico e da tutto il suo staff medico, nonché avvallati da ricercatori e scienziati di indiscussa fama internazionale, visti i risultati, confrontati gli esiti, valutate le analisi, scartate le tesi piú assurde… si dichiara, con assoluta certezza e facendo appello a tutta la conoscenza e il sapere in campo de la medicina, quale risultato di duri anni di studio e approfondite ricerche, che il paziente signor Carullo è:
malato, malato di pazzia
Invece no, niente di tutto questo c’era! Almeno cosí si sarebbe sentita piú sollevata, avrebbe terminato la sua ricerca, avrebbe potuto finalmente dire che suo marito era affetto da chissà quale malattia, dal nome impronunciabile (meglio non pronunciarlo, allora!), e quindi, semplicemente pazzo, che gli portava ad aver stampato quel sorriso da imbecille sulla faccia. Cosa avrebbe potuto ora dire per giustificarlo, giustificare quel riso da imbecille, senza una malattia accertata? Fino a quel momento, al momento in cui il dottor de Chirico l’aveva rimproverata per l’inutilità de la sua insistenza, si era limitata a sostenere di non poter dare risposte; i medici stessi non ne davano, tanto fosse difficile persino per loro, persino per il dott. de Chirico, suggeritole da parenti amici conoscenti tutti per la sua dote di scovar le malattie piú ingegnose.
Era da ritenersi un caso nuovo, eccezionale, mai visto prima… come aveva detto?, ah sí, pitogico¹⁷…
– A meno che…, diceva pensieroso il dott. de Chirico, gelando i presenti.
– A meno che?!?!, ripeteva Anna ogni volta per tirargli fuori le parole.
– A meno che…
Tutte le volte la stessa storia. Tutte le volte che il dottore si mostrava pensieroso o con qualche dubbio, Anna, eccitata e nello stesso tempo rinvigorita da la vicina soluzione del dilemma, Anna si faceva in avanti, ondeggiava rapidamente il capo e staccava il suo grosso sederone dalla sedia di morbido velluto che fino ad allora non aveva smesso un attimo di accarezzare per la finissima qualità del tessuto. Carullo, pure lui, sgranava gli occhi in attesa che sua moglie ripetesse le parole del medico a conferma della riscoperta malattia e restavano lí, col fiato sospeso, lui e lei, in attesa che il de Chirico sentenziasse.
Poi Carullo, facile preda delle distrazioni, non poteva esimersi dal guardare la strana posizione che sua moglie aveva assunto e che con maestria circense conservava con disinvoltura, quasi fosse in suo agio. A quel punto sorrideva, non sapendo se fosse lui a ridere o quell’altro che c’aveva dentro. Avrebbe potuto tirarle via la sedia e lei, con quella postura, non si sarebbe accorta di nulla, quando d’improvviso:
– No, non può essere!, chiudeva afflitto il dottore, rinnegando le ultime conclusioni che si erano appena affollate nella sua testa semipelata.
La stessa afflizione spingeva Anna a ricadere esausta (forse per la postura!) sulla sedia di velluto, ripresa prontamente ad accarezzare ancora piú nervosamente, una afflizione ancor piú triste che rifletteva negli occhi sconsolati di Carullo. Per lui, piú di ogni altra cosa, vinceva il desiderio di andar via dallo studiolo del dottore, nell’inutilità di quelle visite, a cui prendeva parte perché trascinato da la moglie, alla ricerca di risposte che solo a lei interessavano.
Carullo aveva già le sue: non erano lí, erano in quell’altro che rideva, rideva, al posto suo rideva ed era ormai cosí tanto lí con lui che quasi ci si era abituato.
Faceva parte di sé: erano una persona sola e tutto sommato non è che procurasse tutto questo impiccio. Sí, a guardarlo, era uno solo, ma dentro… dentro erano in due. Ognuno aveva bisogno del suo spazio, anche quell’altro, solo questo. Bastava concederglielo, per evitare che se lo prendesse, una sorta di accordo per facilitare la convivenza. Carullo tante volte si era pure accorto che quell’altro il suo, di spazio, sembrava non avercene nemmeno bisogno, sí, sembrava fosse cosí rispettoso da farsi da parte e cedere il suo, per poco, s’intende!
La gita ai Kart con Ninì, ad esempio. Carullo ci era andato con suo figlio, che nessuno lo conosceva eppure nessuno, in nessuno aveva riconosciuto i soliti modi di guardarlo a cui pure si era abituato.
Ormai tutti lo guardavano, a causa di quel sorriso, e aveva dovuto a sue spese imparare le mille reazioni de la gente: c’era chi proseguiva con un’ostentata indifferenza, una falsa noncuranza, fingendo di non accorgersi di nulla per non creare imbarazzi o apparire invadenti. Oppure, i piú allegrotti, ricambiavano quel sorriso, come saluto, quasi ne fossero contagiati. E c’era chi, guardandolo in volto, dopo alcuni i, si voltava indispettito sentendosi preso in giro: ride, che avrà mai da ridere?, scrutandosi immediatamente addosso semmai avesse qualcosa fuori posto.
Quel giorno no… con Ninì, non era accaduto nulla di tutto ciò. È vero, non ci aveva nemmeno fatto caso e forse… per questo!, perché non c’era lui, non c’era stato:
– Aveva lasciato che io stessi un po’ solo con il mio Ninì, diceva tra sé Carullo, sorridendo affettuosamente per il gesto di cortesia che quell’altro gli aveva fatto. Che caro!, gli venne di dire, sentendolo un quasi fratello. Forse, cosí malvagio non è: proprio bravo, un fratello!
Certo, se questo fratello avesse saputo rintanarsi nei momenti giusti senza farsi per forza scorgere sarebbe stato meglio. Gli avrebbe risparmiato tante magre figure. Pur tuttavia, cosa poteva farci? Cosa avrebbe dovuto fare? Farsi vedere nei momenti di solitudine quando non ci fossero stati che loro due, soli, a contendersi la bocca e poi chissà quale altra parte del corpo, senza nessun altro intorno? Cosa poteva sperare Carullo, che ognivvolta questo suo fratello gli chiedesse l’autorizzazione a ridere? Certo che no, anzi, rideva… per fortuna rideva, e non soltanto quando restavano soli. Per Carullo, sarebbe stato peggio altrimenti, sennò lo avrebbe saputo lui, soltanto lui e nessun’altro, dell’esistenza di quell’altro e allora sí che gli avrebbero dato del pazzo, pazzo da legare. Ora invece, vedendolo che rideva sul naso a tutti, tutti sapevano, tutti si erano accorti quanto necessario fosse capire.
Bastava che tutti accettassero l’esistenza di quell’altro!
Perché cosí era, si era intrufolato, quell’altro, senza alcun motivo, da un giorno all’altro, come un ladro, in silenzio e neanche una spiegazione.
Ed era tra le carte del dottor de Chirico che Anna voleva la sua risposta, a tutti i costi e andava rigirandosele tra le mani per questo, continuamente, sperando di aver letto male qualche dettaglio o saltato qualche parola utile per sbrogliare la matassa.
– Oddio, non ci capisco nulla!, e sbuffava, tutte le volte, persa tra numeri e paroloni medici indecifrabili.
E che dire di Anna? Di cose indecifrabili ne faceva, pure lei. Anche Carullo non aveva potuto fare a meno di notare quanto mai repentino fosse stato questo interessamento di sua moglie. Non se ne era preoccupata minimamente per mesi e ora… ora aveva bisogno di scoprire, mostrava una sfrenata necessità di capire
(capire cosa?), cosí, di punto in bianco, trascinando suo marito per gli ospedali di mezza Puglia, tutte le sante mattine.
Paragrafo 6.2
Aveva sentito ridere, una notte, svegliandosi di soprassalto. Anna accese il lume sul comodino, mentre il cuore le sbatteva animosamente per lo spavento. Guardò suo marito, Carullo, accanto a lei, col suo solito sorriso. E quella notte…
– No… no… non è possibile!
Non le sembrava possibile: roba da non crederci! Suo marito aveva tutta l’aria di uno che si stesse davvero divertendo. Non era riuscita a smascherarlo, ma ci avrebbe giurato. Non era riuscita a sorprenderlo, ma ne era certa; aveva gli occhi chiusi e tutti i segni di una fragorosa risata. C’erano, tutti.
Aveva le palpebre de gli occhi serrati, per niente rilassati, altro che sonno profondo!, la bocca semiaperta e lui immobile, con il respiro forzatamente regolare e rigide le dita dei piedi:
– Che fai, dormi?, chiese Anna fingendo calma. Niente.
C’era mancato poco che l’avrebbe scoperto, e poi… e poi… il segno piú evidente: le lacrime. Due lunghi rigagnoli, privi d’acqua solo da poco, erano affiorati dagli angoli degli occhi, scesi giú lungo le tempie fino a staccarsi dietro le orecchie.
Anna pose la mano: il cuscino era bagnato!
– Ancora tu!, quasi urlò, digrignando rabbiosamente i denti e stringendo ne i pugni le lenzuola stropicciate.
Era ancora lei, la vecchia:
– Sono ati dieci anni…, in un lamento di disperazione.
Le sembrò che la vecchia fosse stata lí, a ridere di lei, della moglie di suo figlio, con il figlio. Era venuta a prendersi gioco di lei. Era cosí per forza, alle sue spalle, madre e figlio.
Se la savano con lei accanto che dormiva: bravi!
– Una cosa assurda! No no, non può essere!
E subito Anna aveva incominciato a cercare una risposta perché doveva, doveva esserci a tutto questo, a quel maledetto sorriso, doveva, doveva! Doveva esser malato e basta, meglio lui, Carullo, perché sennò ne sarebbe uscita pazza lei: credere che Carullo ridesse di sua moglie, con la mamma defunta?
– No mai!, si ripeteva incredula. Te lo immagini se lo avesse raccontato in giro? Sai che ridere? E piú loro avrebbero riso, madre e figlio, piú la pazzia l’avrebbe vinta. No no, doveva, doveva esserci una spiegazione! Si trattava di trovarla
soltanto, per essere libera, guarda guarda, da quell’assurda ossessione: la suocera… fantasma… che veniva a trovare suo figlio… a ridere della nuora.
E l’odiava, odiava quello stupido sorrisetto del marito quasi continuasse a divertirsi alle spalle della moglie, con sua madre.
– Cos’hai fatto stanotte?, chiese Anna, imitandosi disinvolta, il giorno seguente.
– Stanotte? Dormivo. Cos’altro avrei dovuto fare!
– Ma, dormivi dormivi? oppure…?
– Oppure che? Dormivo. Mi sarò svegliato sí e no due volte… per il caldo!
– E cos’hai fatto?
– Tu cosa avresti fatto?
– Sarei rimasta lí buona ad aspettare di riaddormentarmi un’altra volta…
– Ecco appunto. Ah, no…
– Vedi!
– Vedi cosa? Mi sono alzato, una volta sola, per rinfrescarmi gli occhi pesanti del sonno e poi… come un sasso.
– Un sasso, dice lui, borbottò Anna.
Era piú conveniente per lei starsene zitta, invece che intentare spiegazioni. Non doveva accorgersi nessuno dei suoi sospetti: non sapeva nemmeno se considerarli tali. Eppure gli indizi c’erano… c’erano e pure tanti. Cosa poteva dirgli:
– Sai, ho scoperto perché ridi… perché te la si!
Avrebbe riso di lei, a crepacuore, e con ragione questa volta.
S’immaginava già le reazioni del Carullo: uno spettro?, e giú col ridere de la pazzia de la moglie credulona (crede ancora ai fantasmi!).
Oppure: mia madre, beh, ti sembra una stranezza?, e giú col ridere de la moglie miscredente (non crede che i cari estinti possano scendere a farti visita!).
In un modo o nell’altro non c’era che prendersi burla di lei: maledizione a quelle carte!
Paragrafo 6.3
Non riusciva a darsi pace. Prima, per lui, era diverso: un peso. A lungo ne aveva ignorato persino il nome: Ninì, che caro! Ora, con l’avanzare dei suoi anni, sempre piú spesso capitava a don Vito di restare nella solitudine della sua vecchiaja e ripensare a lui, a quel bambino. Non poteva farne a meno, a evitarsi la sofferenza: si ripresentava puntuale, nella sua testa. Ninì, che caro!, cominciava a ripetere, seduto allo scrittojo di legno pesante, echeggiando in un salone vuoto… e deserto, per cercare di raddolcire, con quel suono, un boccone tanto amaro. Era il frutto di una relazione che avrebbe dovuto risparmiarsi, e adesso, gli si stringeva il cuore, provando vergogna, per averlo solo pensato clandestino: Ninì, che caro! Eppure, lo era stato: un fagotto, un fagotto di cui disfarsi, una macchia sul suo buon nome, da eliminare, subito, prima che fosse troppo tardi. Come si sarebbe giustificato davanti alle sue figlie?:
– Ho un figlio… che potrebbe essere il vostro. Che vergogna!, si ripeteva don Vito, sentendo tutt’altro che estraneo quel sentimento fuggiasco, l’unico dopo tutti quell’anni.
Prima che il padre, il nonno. Ecco cosa poteva essere.
Li sentiva i commenti, e poi… da lei… chi se lo immaginava! Don Vito che si fa ammaliare:
– Chi? Don Vito?
– Sí, lui!
– Quel don Vito?
– L’unico.
– Lo strozzino… ben gli sta… con la Anna, vero?
– La moglie di… di… dell’imbecille!
– E si sapeva che andava a finire cosí! La vedevi a zonzo come se lavorasse ancora da lui, di piú: prima almeno ci andava per la paga! Cosa credeva, che la gente fosse sciocca?
– Ehhh, e don Vito è don Vito, lo sappiamo bene… e poi, se tu sei una bella donna come quella lí, tanto bella…
– … e generooooosa… (sghignazzando entrambi)
– Cosa ti aspetti?, che chieda l’invito?
– Eh sí… che poi, quella lí, sa il fatto suo! A quel furbetto, bello scherzetto… ben gli sta!
E don Vito, un figlio, non lo voleva neanche! Un vero e proprio fulmine a ciel sereno!
Non era riuscito a evitarlo, a comportarsi come sempre con le altre, perché lei, lei… una tentatrice, una forza della natura, piú forte di lui, tutte le volte, ecco cos’era: una tentatrice! Ogni incontro, sempre causale (forse!), che doveva essere l’ultimo:
– Solo per questa volta, l’ultima, si diceva don Vito e cedeva.
FATALE, prima di lasciarsi andare, dopo mille falsi ‘se’ anteposti ad un finale già noto, l’ultima, prima di liberarsi da illusorie e inesistenti resistenze… un muro di sabbia a fingere di contenere un mare in subbuglio, perché già la sua presenza, l’arrivo di lei, annunciavano da soli l’approssimarsi della tempesta, per ritornare avvinghiati, l’uno all’altra, in una sola carne, a riempirsi di lei, del suo profumo irresistibile di donna. Non sapeva perché (non se lo chiedeva neanche, al solo vederla!), come, ma lei… lei era sempre lí… intorno… a tentarlo…
Aveva provato a tenerla lontana (qualche volta, solo dopo aver condiviso lo stesso pajo di lenzuola!), a rimandarla da suo marito (Dio solo sa quanto ci aveva provato, poco direi!), e lasciarlo cosí, in pace, da solo con i suoi affari. Non voleva distrazioni, inutili rischi, perché avrebbero finito col farsi del male: lo sapeva.
Quello che voleva, lei, l’aveva avuto: un lavoro per suo marito, la casa di proprietà, una certa agiatezza degna de la sua bellezza, insomma, tutto quello che aveva sempre desiderato. E no!, non le bastava, ci ha girato attorno, fino a fargli un figlio, fino a spingerlo nell’errore, con il rischio di minare il lavoro di
una vita, il suo, con tanto affanno e rinunce, per le figlie, le sue e non per quell’altro che nemmeno pensava di avere, alla sua età poi! Il suo castello (di carta), minato… e nemmeno per colpa sua: una macchia, ecco, una macchia bella e buona, ecco cos’era!, sulla camicia bianca: una macchia oleosa e trasparente, mascherata da un panciotto doppiopetto sopra, di unto inzozzato sotto.
La macchia, lí in agguato, a costringerlo a prestarci attenzione, con le labbra contratte e il braccio piegato rigido e immobile a tenerla ferma, sotto la giacca nascosta. Perché zac, è su la prima stonatura che l’occhio insolente e scrutatore cade, prima di guardarti in volto e smascherare orgogliosamente la tua mal celata verità.
Era ancora vergogna ciò che don Vito adesso provava, ancora, diversa!, ne la sua bella villa, enorme e solitaria, per averlo ritenuto un errore: ma quale errore! Ninì, che caro!, e don Vito se ne doleva, per il grande neo de la sua vita. Trattare cosí quel bambino… cosí dolce, dolce Ninì, che caro!
E ciò che piú faceva soffrire don Vito era l’averlo lasciato in mano a quel… quel prototipo di padre disossato, senza un briciolo di dignità né per sé né per la sua famiglia: aveva lasciato fare tutto a lei, a sua moglie, santa donna, pure dargli un figlio… che se fosse stato per lui, nemmeno quello…
Fortuna che quel bambino non è figlio suo!, pensava consolandosi don Vito, l’unica sua commiserazione che di quel figlio non poteva fare il padre. E pensava e si rammaricava: zoppo, in fondo, quel bambino non lo è (zoppo, non l’aveva fatto di certo!), ma a star con gli zoppi… a furia di stare con uno cosí, c’era da rischiare di diventar larva, altro che zoppo, pur essendo nato farfalla.
Ma ormai, piú nulla:
– Ninì è nato Carullo, basta! Lo dice l’anagrafe, lo dice la madre… lo dicono tutti.
Poco importava se, tranne l’anagrafe e il prototipo disossato, tutti sapevano del contrario.
Ormai il rospo era piú che digerito; la notizia non era piú notizia e non faceva notizia, anzi, dimenticata! Non se ne parlava piú, affatto, una di quelle di cui, dopo il botto, rimane l’eco, via via sempre piú debole, fino a divenire cosí lontano da farti perdere la certezza di averlo udito. E se preferisci non esser preso per bugiardo, è piú facile per te convincerti che di una burla si tratta… né piú né meno.
Ma una burla non era, ecco tutto! Ben lo sa chi di mestiere non fa che attizzare il fuoco e soffiare sotto la cenere, proprio come quel Michele, Michele Mozzarella, rimasto l’unico ad avercela come certezza.
Poi, questo si chiedeva don Vito!, a pensarci: da cosa nasce per questi qui la verità, che stanno cosí le cose? Io almeno, sono il padre! Vuoi che non lo sappia, io? E loro? Chi sono, loro, per credere a codesta maniera che sia io il padre?, e ritornava a sorridere fantasticando semmai su le loro risposte:
– Chi?
– Carullo.
– Padre di Ninì?
(E giú con una fragorosa risata)
– All’anagrafe forse. Lí, ce n’è bisogno!
(un’altra risata)
– I fatti dicono il vero…
(ancora risate)
Per fortuna!, si diceva ora don Vito, per fortuna la sua incoscienza di giovanotto irrequieto di un tempo gli aveva risparmiato l’unica traccia del suo legame con quella creatura.
Se non figlio, almeno figlioccio, gli avevano detto.
E don Vito, a questo, a questo non era riuscito a sottrarsi, aveva proprio dovuto accettare: impossibile dire di no anche a questo. Accettò.
– Per fortuna (ora!)… Ninì, il mio figlioccio, che caro!
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¹⁷ pitogico: patologico. Anna non riesce a ripetere con esattezza il termine medico usato dal dott. de Chirico
Capitolo 7
Paragrafo 7.1
– Rapito rapito, me l’hanno rapito!
– Signora, si calmi. Non tragga conclusioni affrettate.
– Rapito! Me l’hanno rapito! Le dico che me l’hanno rapito ispettore, mi ajuti!
– Signora si calmi e mi racconti tutto, con calma. Piuttosto mi dica, suo marito si è mai allontanato cosí a lungo prima, senza dare sue notizie?
– No mai ispettore. Il solito: a casa, solo a pranzo… qualche volta. Se avevo bisogno di lui, lo cercavo dalla Sandra, al Moulin. Lo trovavo per certo. Ma a dormire, sapeva qual era il suo posto, a casa.
La sera innanzi Carullo non era rincasato. Come al solito Anna, dapprima non ci aveva badato, coricandosi prima che suo marito rientrasse. Poi, svegliandosi per averne del sonno già abbastanza, aveva trovato vuoto il letto, accanto a lei, mentre i raggi del primo sole erano già trapelati da tempo ne le fessure della finestra, come di un colapasta, l’acqua.
Era rimasta ferma lí dov’era, in un nervosismo crescente a tal punto da saltar giú dal letto e girare per le stanze, come un bambino tenuto in casa per giorni e capace di correre e saltare senza freno, fino a non averne piú. E cosí Anna,
sfinita nel corpo, pensò bene di cercarlo dalla Sandra che era quasi ora del pranzo. L’unico a rispondere a quell’ora non poteva che essere lui, suo marito.
Quel giorno nulla: non c’era.
Non può essere, non può essere, si ripeteva. Non era possibile che Carullo fosse capace di tanto.
La vita ripetitiva di Carullo, la sua dedizione al lavoro, sentendosi legato alla buona salute di quell’attività, piú che fosse sua, facevano pensare tutto fuorché potesse mettersi da solo nei guai (qualora ne fosse forsanche capace!). La Sandra gli aveva persino affidato le chiavi del Moulin: lui era il primo ad aprire e l’ultimo a chiudere e mai a nessuno quella vipera aveva fatto tale concessione… eccetto che a lui, a Carullo.
Non potevi sospettare la minima stravaganza da parte sua: era la sua vita, ecco tutto!
E poi, Carullo, mettersi nei guai? lui? Ma se non sa neanche cosa siano, i guai!, pensava Anna sempre piú irritata, di corsa dall’ispettore: i guai lui, sa solo farli, a gli altri, ecco di cosa è capace, e andava ormai col fiatone, avendo persino dimenticato che piuttosto che con le sue gambe avrebbe potuto andarci in auto dal suo ispettore, tanto era la preoccupazione.
Non erano ate che poche ore e già davanti all’ispettore Chironte erano stati convocati Marisa e Husayn come i maggiori indiziati.
– Allora, ancora una volta, voi siete stati gli ultimi ad aver visto il signor Carullo?
– Sí, siamo stati noi (in coro, Marisa e Husayn, intimoriti e col volto sbiadito).
Le domande si facevano incalzanti e le risposte pure, specie quelle di Marisa, per risparmiare a Husayn di esibire il suo italiano distorto dalla balbuzie, per la paura.
Andava spedito l’interrogatorio, liscio come l’olio, fino a che l’olio sembrava asciugarsi e qualcosa s’inceppava:
– Allora, ricapitoliamo. Siete usciti insieme, voi due col Carullo, a fine serata. Si è congedato dalla signora Sandra, lui dopo voi due, mentre la signora è rimasta sul posto per le ultime faccende…
I due indiziati annuivano all’unisono ad ogni parola dell’ispettore.
– Bene… intanto… mi piacerebbe capire perché mai il Carullo vi avrebbe seguito, cosa che, a quanto pare, di solito non fa…
– Quella sera aveva tanto insistito, riprese Marisa. Voleva farsi accompagnare da me, in auto, dall’altra parte della città, diceva di voler raccogliere i fichi, per portarli a suo figlio…
– A quell’ora!
– Ispettore, non so che dirle. Qui tutti sanno degli strani orari di Carullo, che è in grado di farsi le nottate e restare a lavorare anche il giorno dopo… non so come faccia! ma è cosí… anzi, le dirò di piú signor ispettore. Non di rado, usciva dal Moulin e, data l’ora, ormai quasi giorno, si recava al mercato insieme all’ortolano da cui si riforniva, per scegliere lui stesso la merce, in persona. Se proprio vuole sapere, sí, un tantino strano ci è sembrato che volesse andar per fichi proprio a quell’ora: non ci sono altri momenti?, gli ho chiesto… ma sa?, senza convinzione, io stessa l’ho chiesto tanto per chiedere. Già! Ci siamo abituati alle cose che fa, è fatto cosí, tanto da non pensarci troppo. Quello che per noi in quel momento poteva essere una stranezza – andare per fichi a quell’ora? – non lo era per lui; per lui, non è da escludere che fosse seriamente il momento per andarci, in giro per le campagne, a raccogliere fichi e portarli a suo figlio.
– E allora voi? Che avete fatto?
– Quello che avrebbero fatto tutti, lo abbiamo accompagnato…
E Marisa guardava Husayn, confermando insieme la sua versione in un moto continuo di teste sincronizzate, nel gesto di assenso.
– … cos’altro potevamo farci!, abbiamo approfittato del fresco che c’è al mattino e Husayn è venuto via con noi, con me e Carullo.
– E poi?
– E poi… niente… le strade erano deserte… ci abbiamo messo qualche minuto per raggiungere il tunnel, sotto la ferrovia, in contrada Grancitello. Appena superato il ponte, ha insistito che fosse lasciato lí. Io lo avrei aspettato pure: rifarsi a piedi tutta quella strada, ci avrebbe messo una vita. Ho anche insistito, un pochettino, per vedere la sua reazione e lui no, cocciuto, ha voluto che andassimo via: non preoccupatevi per me, diceva, andate, andate, sono solo due i. Cosí abbiamo fatto, ispettore, cosa potevamo fare? Siamo andati via, lasciandolo solo ai suoi fichi.
– Voi però… voi… avete notato nulla di strano?
Qualcosa di insolito era accaduto. Non è che Carullo fosse un allegrone, ma quella sera era rimasto particolarmente silenzioso. Sí, il suo lo aveva fatto, si era dato il suo bel da fare, suo solito!, ma andava girando con un certo entusiasmo, tenuto dentro. Non è che saltasse di gioja ma… quel suo strano sorriso sembrava svanito. No, non è che avesse smesso, è che… non era lo stesso, accentuato. Non c’era piú quel suo modo di ridere, da imbecille, quel mezzo sorriso stampato da sembrar finto con la faccia tutta, morta. Ora non piú, era lui che rideva, con gli occhi luminosi e allungati, le orecchie verso l’alto e le gote contratte per fare spazio a un sorriso vero… rideva!, finalmente rideva, sul serio, non un ghigno o una smorfia o una boccaccia, ma un sorriso aperto a fior di labbra, quello che è per tutti, senza controllo, no macchie né timori. E se facevi per chiedergli: perché ridi?, lui rispondeva: rido, rido, non sono pazzo!, ma pazzo lo sembrava davvero: al fastidio provocato da quel sorriso da minchione che prima aveva, ora c’era da rimanere allibiti. Se prima la mancanza di una spiegazione a quel falso ridere da imbecille suscitava disappunto, e alle volte, perché no?, ira, ora c’era da restar di stucco. Rideva, rideva e con questo ripeteva a tutti di non essere piú pazzo: non sono pazzo!, diceva, altro che!, tanto che il sol fatto di ripetere continuamente quella parola fu il modo per ottenere l’effetto contrario, quasi suggeriva che a pensar pazzo di lui, non ci si sbagliava, sul serio. Il suo però continuava a farlo come sempre, anzi, era cosí tanta l’ansia di finire col suo lavoro da parere fresco come dopo una buona dormita e una doccia fredda rigenerante. Insomma, un pazzo, sembrava pazzo e, pensando di non esserlo,
tentava di non darlo a vedere per non essere ritenuto pazzo.
Nei giorni precedenti la scomparsa di Carullo, un po’ tutti avevano cominciato a non fare piú caso a lui e alle sue stranezze, come a tentare di dar sfogo a qualcosa in lui che non poteva uscir via altrimenti, una liberazione. Anna aveva infatti parlato con il dottor de Chirico discutendo di una sua teoria, teoria che lei aveva prontamente confidato a don Vito (ancora!).
Con la leggera disinvoltura con cui si raccoglie una confidenza in cambio de la promessa di tenerla celata, ando di bocca in bocca, era divenuta una questione di cui non parlare, ma che tutti conoscevano benissimo: il segreto di Pulcinella. Per tutti Carullo era malato e per questo tutti avevano cominciato a trattarlo con i guanti, anche se poi non si era ben capito di quale malattia si parlasse.
La teoria del dottor de Chirico, in seguito a mille aggi che ne avevano determinato deformazioni, aggiunte o omissioni, era divenuta qualcosa di non ben definita. E allora, era meglio lasciarlo fare senza badare troppo. L’unica a tormentarsi era la Sandra, non per lui, non per Carullo, quanto per lei e l’onere di dover tornare a occuparsi di tante faccenduole da cui Carullo l’aveva tenuta sempre lontana.
– Signora, le disse il dottor de Chirico, guardi, è inutile, davvero inutile tentare di scoprire in suo marito malattie che non troveremo mai, mi creda! Abbiamo fatto il possibile. Suo marito sta bene.
– Dottore…, interruppe Anna, nel disperato tentativo di interrompere un discorso fritto rifritto, spinosissimo. Pianse.
– Signora, il male di suo marito, piú del corpo, la mente.
Anna, presa da una gioja improvvisa, smise di piangere. La premessa del dottore le parve di suonare vicina a ciò che da tempo andava cercando, qualcosa che finalmente avrebbe chiarito con un unico termine possibile quelle rimpatriate notturne tra marito e suocera: pazzia. Il mistero era scoperto e con questo il suo segreto svelato.
Dovette ricredersi istantaneamente.
– Signora Carullo, tutto sta in ognuno di noi, per quanto accettiamo la realtà, incontrollabile, per quello che è, di cui noi siamo che un granello di sabbia. Pur forzandoci, solo in parte è nelle nostre condizioni di guidarla a nostro piacere, un’illusione bella e buona. Ci sentiamo padroni di noi stessi ma, pensateci signora!, quanti eventi, piccoli e grandi, si presentano su la nostra strada. E quanti di questi eventi siamo noi davvero a volerli? Ed è parte naturale delle cose. Sembrano messi lí apposta, per indicare in che verso la nostra vita deve procedere. Alcuni riusciamo a schivarli, altri no; adattiamo di volta in volta le nostre scelte e alteriamo il nostro stesso modo di pensare, continuamente, con tutte le nostre convinzioni, in maniera dinamica e apparentemente disinvolta, per caso, come per un fiume, davanti a un masso, che decide sul momento: lo scansa, ci a sopra… o lo accerchia. Chi lo sa. Dipende da quanto grande è questo masso… e dov’è caduto. Ci pensi! Anche perché ci capita tanto spesso, siamo cosí abituati a queste scintille di fatalismo da non dare nulla per scontato e da non escludere che non ce ne possano essere in futuro. Se qualcuno dovesse chiederle cosa farà dopo, fuori di qua, lei potrebbe dirmi quello che vuole ma poi… è sicura che andrà come lei dice? potrebbe giurarci? no, eppure lo ha detto lasciandosi la speranza di aver ragione, almeno. Quante volte le sarà capitato di lasciar fare, abbandonandosi, quasi potessero fare per lei, confidando che, per lei, qualcuno fe a suo vantaggio. Rifletta!
Al discorso del dottore Anna non ci stava capendo granché pur restando a
sentirlo per cavarne qualcosa a cui aggrapparsi.
– Sí dottore, ma non capisco cosa questo c’entri con mio marito.
– Capirà! Prenda tempo. Può sembrarle nebuloso, detto da me, lo so, per la figura che ricopro e lei, capisco bene, che da me vorrebbe sapere piú che della malattia, la cura. Io stesso faccio fatica a crederlo. Guardi, è come camminare nel vuoto, io la vedo cosí!, senza forma né colore, e anche qui, tra urti e scossoni, ci si crea nella propria testa una realtà propria, tutta nostra, non perfetta, semisconosciuta, con qualche riferimento qua e là, gli unici a cui aggrapparsi con tutte le forze. Ma la cosa piú irrazionale di tutto questo, che la fa sentire davvero piccolo piccolo in confronto, è che se volessimo indicare a qualcuno che lí, davanti a noi, proprio lí, forse, c’è un tavolo (qualcosa c’è, dovrebbe essere un tavolo!), non saremmo capaci di dirlo; di dirlo sí, ma di farci intendere no. Lo capisce! Perché nel frattempo ognuno di noi vorrebbe farsi capire, sentirsi meno solo, sapere che quel che è per sé è anche per gli altri e per questo poter dire c’è, proprio come il tavolo!
Anna, sconvolta.
– Guardi, allora – sempre il dottore – converrà con me che da che mondo e mondo, a tutti noi sarà pure capitato qualche volta il verificarsi di un avvenimento, un qualcosa di incontrollato che ha avuto modo di influire sulla nostra vita, pur non volendolo. Quindi è innegabile, per tutti, che esista una componente, diciamo stravagante, che fa un po’ come le pare. Bene. Ci sono alcuni di noi che piú di altri la pungolano, senza volerlo, s’intenda!, piú per indole, quasi sfidandola, presi dalla curiosità morbosa di veder quel che succede. Per loro, è pure piú facile adattarsi, accettare qualcosa che hanno contribuito almeno a scatenare (credono!). Suo marito no, ama che le cose vadano da sole, con grande serenità, perché inconsciamente consapevole che non possa essere diverso. Suo marito ha il suo mondo, che a lui va bene, o almeno crede. Certo, ognuno ha il suo: lei signora ha il suo ed io il mio, ma almeno noi abbiamo la
parvenza di aver contribuito a costruire, trovando il nostro senso di soddisfazione e con questo una sorta di equilibrio. Lui no! Si chieda: a chi può piacere il tormento di una vita fatta di solo lavoro, casa e bottega (come suol dirsi)?
Fosse pure, non in codesto modo!
Allora le domando: che mestiere fa suo marito?, e dopo qualche attimo di silenzio, vede? Senza alcuna identità, non lo sa neppure, perché di un carro a ruota, lui, non vi è nemmeno l’ultima: lui è mille piccole parti di tutto, niente! Pensateci signora… e converrete.
Sí dottore, riprese Anna balbettando, intontita, può anche essere, voglio dire… non per mettere in discussione quello che dice, non mi permetterei mai, ma con tutta buona fede, non mi ha mai detto nulla, non si è mai lamentato. Va via al mattino che il piú delle volte non riesce neanche a vedere il colore degli occhi di suo figlio, rincasa che il bambino è di nuovo a letto e, per di piú, a cena, non fa in tempo a sbucciarsi una mela che si addormenta davanti alla TV. Quel figlio, Ninì, quasi non sa chi è suo padre!
Ecco signora, qui prende forma la mia teoria, sentenziò il dottore vicino a trarre le sue conclusioni. In questo gioco di forze, ognuno di noi ricerca la propria valvola di sfogo, quella attraverso la quale sentirsi, anche se per poco, felici, cosí da rendere il resto tutto piú sopportabile, un rifugio direi. E quand’anche qualcuno si rifiutasse di farlo, perché schiacciato da questa realtà che non gliene offre occasione o perché è dell’idea di non averne bisogno o semplicemente perché non ci pensa e gli sta bene cosí, e questo mi sembra sia il caso di suo marito!, questa valvola di sfogo è lei che prende l’iniziativa di venire in soccorso, a ristabilire l’equilibrio. Questo equilibrio non è uguale per tutti, e può essere piú in qua o piú in là a seconda che siamo piú o meno capaci di resistere al peso di questo macigno.
Il sorriso che suo marito porta sul volto non è che la sua valvola di sfogo, una specie di tic nervoso, una reazione incontrollata ad una situazione difficile, il modo con cui esprimere il suo disagio: anche questa è una malattia. Ecco, vuole una malattia per il suo Carullo?, l’abbiamo trovata.
Poteva scegliersi una valvola migliore!, le veniva di protestare con suo marito. Bel modo di lamentarsi! No, quello lí, con quel sorrisetto da furbetto… da imbecille, altro che!, e piú infuriata che mai se ne ritornava a casa con le sue ossa rotte. Una reazione incontrollata? ma che reazione!, diceva. Un tic nervoso?, non credo. Un tic l’avremmo pure sopportato. No, lui no, non gli bastava: una spina nel fianco!
Paragrafo 7.2
– Va bene, va bene signori! Dopo, dopo, cosa avete fatto? Dopo che il signor Carullo è sceso dalla macchina, voi, voi, cosa avete fatto? Dove siete andati?
L’ispettore di polizia, dal volto divenuto violaceo come una cipolla, era particolarmente innervosito e a stento riusciva a mantenersi dall’esplodere; quei due, davanti a lui (ne era certo come dell’inverno dopo l’estate), gli nascondevano qualcosa: il suo istinto da investigatore ne era testimone. Ma tutte le volte si partiva daccapo, si proseguiva spediti e ci si inceppava sempre sullo stesso punto: non si riusciva a proseguire, qualcosa faceva da ostacolo, al pari di un motore a scoppio con il minimo troppo basso, al cui giro di chiave segue il rombo tumultuoso, il singhiozzo e l’arresto.
Ogni volta i due si guardavano in volto e subito, Marisa, abbassava sulla scrivania difronte a lei uno sguardo pudico e afflitto, da cucire la bocca anche a Husayn, taciturno, piú per rispetto della scelta di lei che per l’importanza in sé del segreto celato.
Restavano zitti.
Il fatto è che lei, la sera innanzi, si era raccomandata molto con lui, aveva provato in tutti i modi a convincerlo che sarebbe stato meglio cosí, far finta di nulla, perché nulla era accaduto, riuscendo a strappargli la promessa del suo silenzio. Marisa aveva tanto insistito da fargliene un ordine; era pur sempre la sua responsabile di cucina, o no? E per questo Husayn doveva ascoltarla, tant’è che Husayn cominciava a temere di aver commesso un reato, tanto piú ora che si
trovavano interrogati: no no, meglio cosí, era quello che Marisa gli aveva urlato, è cosí doveva essere… basta!
Nessuno doveva sapere, nessuno poteva sapere, era il loro segreto e sarebbe stato meglio se la cosa fosse rimasta chiusa lí: non aveva piú da ripetersi! Ciò che era accaduto tra loro, in macchina, quella sera, doveva restare lí… ah, se non fosse stato per quel… Carullo!
Eppure Marisa quella sera, dopo aver lasciato Carullo ai suoi fichi, mai poteva immaginare che le cose sarebbero andate in quella maniera… dopo una giornata faticosa! Era rimasto soltanto lui, il suo Gigi, con lei in macchina, e tutto sembrava cosí… complice. Da lí il cielo maculato di stelle era magnifico, illuminato da quella faccia tonda chiara, enorme, disegnata sul parabrezza: sorrideva. Li guardava. Si erano divertiti a riconoscere il suo sorriso, le gote scure, gli occhi… quegli occhi… quelli di lui, due grandi occhioni scuri, profondi, piú neri del bujo ravvivato da la luna radiosa, da finirci dentro… e cosí è stato, ci è finita dentro, di impeto. Poi… poi il resto è venuto da sé.
Sarà stata l’aria di campagna, lontano dalla città col suo frastuono, dai suoi sguardi indiscreti, dalle mille voci. Si era sentita bene, in un’oasi di serenità, protetta, al sicuro tra le sue lunghe braccia, avvolgenti e aveva ceduto… a lui, l’unica volta, la sola, aveva… aveva ceduto… in libertà, lasciandosi andare, libera da paure e inibizioni, semplicemente. Si era lasciata andare… cedendo, concedendosi.
Aveva ceduto… aveva ceduto… oddio aveva ceduto, aveva ceduto, perché?, non doveva, cascarci come una ragazzina!
Una stupida! Una stupida! Sono stata una stupida… in macchina… con lui!, e intanto l’aria le mancava, il cuore le batteva, forte forte. Sudava:
– Oddio! Perché mi guardi cosí? Non guardarmi cosí, con quegli occhi!
Gli occhi di Husayn, gli stessi occhi in cui Marisa un momento prima si era perduta, ora, li temeva, sentendoli addosso, indagatori, accusatori. Li avvertiva pesanti come quelli che le si sarebbero appiccicati, degli amici… in cucina… tutta quella gente… Sandra… sentiva già i bisbigli, le risatine, le battutacce: «ah, la santarellina aspettava il giovanotto!», «le piace il Moretto¹⁸», «dimmi un po’, c’è tanto da aspettare la mia ordinazione prima che si sbrighino di là in cucina?», e via col divertimento. Le sentiva già, le risate!
Ecco, ecco cosa dovevano fare, non c’era modo altrimenti: nessuno doveva saperlo, anzi, avrebbero fatto meglio a non parlarne neanche, starsene zitti, concluse Marisa, gelida, il piombo. Non è mai accaduto!
E cosí infatti era: tranne quell’unica volta, mai accaduto, quell’unica volta, ora, miseramente scoperta.
– E questo, questo, questo sarebbe il vostro alibi? E la tirate per le lunghe? Ma cosa sarà mai! Vi rendete conto che cosí facendo avete rallentato le indagini? E per cosa poi? Abbiamo solo perso del tempo, inutilmente! A meno che… a meno che non sia una vostra invenzione, cosí, nata qui sul momento, perché non avete che dire, come difendervi, ecco sí, io dico che è tutta una invenzione.
Fu la reazione dell’ispettore infuriato.
– Ma dottore, protestò Marisa in difesa della sua verità tirata fuori con tanta
fatica, posso garantirvelo sul mio onore!
– Signori, lo dico subito, non regge!
Il segreto che Marisa tanto aveva cercato di tenere nascosto non solo era svelato, non riusciva nemmeno a scagionarla perché lui, l’ispettore, poteva anche crederci ma, senza una vera prova della loro intimità, avrebbe potuto farci ben poco, lasciandoli al punto di partenza: indiziati.
Quello di cui Marisa aveva avuto tanta premura a proteggere, dopo mille tentennamenti, paure e ansie, ora rischiava di non servire a nulla, per non essere creduta: vi dico che è cosí! vi dico che è cosí! siamo stati insieme, in macchina, dillo pure tu, Gigi! Dai Gigi, parla, parla…
Marisa era fuori di sé, vedendo spazzato via il suo segreto, che segreto piú non era. Tutti ci avrebbero creduto, e come!, non lui, l’ispettore: mi creda dottore, mi creda, è la verità!, seguitava Marisa, indiavolata.
Il Chironte, con la testa tra le mani, avrebbe tanto voluto crederle ma la legge, in nome della legge, non poteva bastargli.
– Ah non le basta, non le basta signor ispettore!, reagì Marisa scatenata. Ma se tutti qui fuori, fuori questa porta, già potrebbero testimoniarlo che è andata come le dico, perché è cosí, e questo è ciò che è stato, e per loro basterebbe un decimo, che dico!, meno che un centesimo di quello che le ho raccontato per crederci, per crederci e ciascuno farla sua la verità. Sí, non sapranno dirle tutto, non come le ho raccontato io perché, santo cielo!, non c’erano… ma il succo, il succo è questo, il succo è che io con Husayn ci sono stata. E poi, perché non crederci?
Perché mai è piú ovvio non crederci dal crederci? Ci provi! Provi pure ad uscire da quella porta e a raccontare, ora, che non è piú vero, a garantire sul suo onore che la verità è quella sua e non la mia. A chi crederanno, a lei signor Chironte, o a me?, piangendo tra i singhiozzi. A chi crederanno?… a lei… o a me?… a me!… a me!… …
Una partita di nervi, ecco cosa era diventato l’interrogatorio di quei due. Ore e ore di domande furibonde e poi silenzi, tombali, lasciando che il rimorso in loro prendesse il sopravvento, nella sala larga e spoglia, quando uno squillo di telefono echeggiò nella stanza. L’ispettore afferrò la cornetta lanciandovisi sopra in un gesto disperato, perché proprio da lí erano ate le soluzioni ai suoi casi. Rispose, calmo: pronto, sono io, mi dica!
Sempre con grande calma, spense la sigaretta e uscì, lasciando soli gli unici sospettati.
Potete andare, siete liberi!, concluse frettolosamente l’ispettore, rientrato poco dopo. Il vostro amico è stato ritrovato, all’autodromo.
Marisa e Husayn si abbracciarono (dovevano averci creduto, alla loro versione!). Poi, se ne allontanarono subito, l’uno dall’altra, man mano che la dolce euforia della notizia, scomparendo, lasciava il posto ad una glaciale amarezza.
Andiamo, ordinò l’ispettore al suo vice, c’è da riconoscerlo!
L’ispettore aveva omesso di raccontare che Carullo, all’autodromo, l’avevano trovato cadavere.
Paragrafo 7.3
L’ispettore volle parlare di persona col proprietario del posto: com’è andata?, gli chiese, e l’altro riferì la sua versione dei fatti.
Carullo era rimasto lí, che l’autodromo aprisse, immobile, per ore, con gli occhi fissi davanti a lui, sul cancello arrugginito.
– Dottore!, cercò di spiegarsi il titolare del posto. Sono arrivato qui all’autodromo come faccio sempre, sempre alla stessa ora, non troppo presto… anche perché qui, prima di una certa ora, non c’è nessuno e lui l’ho trovato lí, seduto sul quel masso. Mi è sembrato subito strano… molto strano… la strada è sempre deserta e non l’avevo mai visto prima, o almeno cosí mi era parso all’inizio. Poi, qualche ora dopo, quando si è deciso a entrare e mi ha parlato, l’ho riconosciuto: era stato qui qualche settimana prima, con un bambino. Penso si trattasse di suo figlio, anzi, ne sono certo, perché avevo sentito che il bimbo lo chiamasse papà quindi, era suo figlio, no?
– Che lei ricordi, era venuto qui altre volte?
L’uomo ci pensò un attimo:
– No, non credo. Oltre a quella volta con suo figlio, intende? No.
– E come fa, signor Giacinto, a ricordare tutti questi particolari di lui con il bambino?
– Perché aveva tanto insistito che gli consentissi di girare per l’autodromo, col bambino, nei box e nelle officine. Diceva di aver paura dei Kart e preferiva non salirci. Si era limitato a girarci attorno ad uno di quelli, lí, vede? Lí in fondo, quello è il parcheggio dei Kart danneggiati. I Kart che danno problemi sulla pista li mettiamo lí; li teniamo fermi in attesa di riparazione! Sa, siamo a corto di personale di officina in questo periodo. E lui poi, ci è rimasto per ore. Dopo non ci ho fatto piú caso. Mi sono trovato da quelle parti dopo pranzo e i miei, nei box, mi hanno detto che era andato via, da un pezzo.
– E oggi? Cosa mi dice di oggi.
Dopo aver esitato, Carullo si era presentato con una luce strana negli occhi. Secondo la ricostruzione del proprietario dell’autodromo, Carullo sembrava particolarmente entusiasta, come suo figlio lo era stato giorni prima: un bambino. A differenza della volta precedente, era solo. Stranamente, diversamente dalla sua prima escursione con Ninì, la mattina dell’incidente si era mostrato tutt’altro che intimorito da quelle macchine, quasi ne fosse padrone, e diceva, diceva di non essere pazzo, non era pazzo, altro che! Lo andava ripetendo continuamente. E’ questo che diceva ripetutamente, una fissazione, a tutti, una siffatta certezza da ripeterlo, anche tra sé, sottovoce: non sono pazzo! non sono pazzo! lo dicevo io che non ero pazzo!
Anzi, il vecchio terrore di salire sulle auto non c’era piú: scomparso.
E’ corso a prendere il suo Kart, vi è salito e lentamente ha cominciato a muoversi. Poi, si è allontanato sulla pista.
E’ finito per schiantarsi lontano da tutti, contro un albero, una quercia secolare minimamente scalfita: un pilastro. Era rimasto cosí per ore, al caldo dell’estate, tra l’erba alta senza che nessuno lo reclamasse.
Aveva tralasciato di legare il casco, ora lontano da la testa fracassata.
Ma come, come avrebbe potuto ricordarsene di legare il casco? Il suo unico pensiero ora era quello… correre… riprendersi la sua vita… interrotta, congelata, ferma a chissà quanti anni prima, mai piú da allora realmente vissuta. Sí, la sua vita c’era stata e c’era ancora, non quella vera, da vivere, la sola, piena, di cui non ne aveva che uno sbiadito ricordo. Aveva potuto contare in un mondo tutto suo, fatto di certezze, che proprio suo non era. Era suo perché vi apparteneva ma suo, di suo c’era ben poco. Era quello che gli altri gli avevano costruito intorno, accettato e riconosciuto come suo… per abitudine, perché non ne aveva un altro. E lui, lo aveva permesso! Sí dai, perché mai avrebbe dovuto pensarci? Perché dubitare che in fondo fosse il meglio per lui? Ma ora… ora… ora era chiaro, lo vedeva: altro che pazzo! Pazzo lo era stato prima e per tanto, troppo tempo, per non aver sputato fuori l’aria chiusa dei polmoni, tirata d’un respiro, in apnea. E ora ne sentiva il fetore, per quell’aria ferma; doveva respirare, respirare… aria fresca, nuova e fresca, cosí, presa in faccia su quel Kart come fossero sberle.
– Libero!
Solo questo.
E ora era là, sotto quella quercia, ancora sorridente. La vita di cui solo da poco aveva ripreso possesso gli era subito sfuggita.
Una cosa, una cosa in particolare non potevano tutti fare a meno di notare nel vederlo sotto quell’albero disteso: la macchia.
La sua maglia di cotone, tirata sú proprio da quel lato, scopriva sul fianco destro, piú in dentro, girata verso la schiena, una macchia color fragola: è sicuramente una voglia, dev’essere una voglia di fragola, si sentì dire tra la piccola folla di curiosi che si era creata.
– Nessuna voglia!, fu la sola cosa che nei giorni successivi Marisa riuscì a dire dinanzi a quel mare di congetture sull’accaduto. Nessuna voglia di fragola! Sembra… ma non lo è! Anch’io ho creduto lo fosse, la prima volta che l’ho vista! E’ ereditaria, anche suo padre, il padre di Carullo, l’aveva.
Si era infastidita e non poco al sentir pronunciare tante frottole, frottole su tutto, anche su quella macchia.
– Guarda!, dicevano. Pare lo abbia fatto apposta.
– Apposta? Scherzi?
– Sí, cioè… no, non scherzo.
– Ma no!!! Che vai pensando.
– E guarda! E’ scoperto solo quel punto, guarda! Gambe, piedi, busto, nascosti sotto i vestiti e ora, ora anche la testa, mentre lí no, tranne quella macchia, come se avesse voluto dire: «guardate guardate, ho una voglia color fragola, ce l’ho!».
– Per me è solo fantasia!
– Fantasia dici? E intanto noi, noi tutti che guardiamo. Tutti discutono della stessa cosa… e poi (sottovoce), non sono l’unico a pensarla a questa maniera!
Da pensarci che lo avesse fatto apposta, era troppo. Certo è che con quella maglia che avevano provveduto a posare sul capo frantumato, a riparo da un sole cocente e da le mosche che cominciavano ad attanagliarlo, il resto del corpo era integro. Sembrava che dormisse, proprio cosí: dormiva, di lato, sull’erba, all’ombra di una quercia secolare, protetto dalle mosche sulla testa con quella maglia retinata bianca e la scritta I love Kunta.
Riposava.
Aveva la gamba destra leggermente piegata a formare con l’altra un quattro e mostrava a tutti la sua destra, nuda solo per quel pezzo. Non si poteva fare altrimenti. Per tutti non restava che guardare a quella macchia rossa, circondata da tanto bianco, la pelle, i vestiti.
Non c’era molto da guardare: uno spettacolo scarno, un fagotto senza colore, se non fosse stata per quella rocchia rossa in bella vista, quasi l’avesse fatto apposta, sapendo della curiosità della gente: chissà, cadendo per terra!
– Pura fantasia, castelli per aria! Cosa credi? Che abbia avuto il tempo di girarsi, scoprire quella voglia di fragola e con tutta calma addormentarsi?
– No lui no, ma…
– Lui no… e chi allora? Qualcuno che prima di tutti qua è arrivato e ci ha pensato per noi? Ho sentito bene?
– Sai com’è?, una di quelle cose inutili, senza nome, che sono dove sono, apparentemente senza neanche uno scopo. Ci sono e basta. De la cui presenza non ci si accorge nemmeno, nessun vero motivo, non una storia… eppure ci sono. Il piú delle volte senza gloria, ma ci sono! Ecco, succede qualcosa… come questa… e scopri che c’era da sempre! Avrà un senso no? C’era prima… ma non c’era… sí c’era ma è come se non ci fosse mai stata. Adesso solo ci si accorge di lei: ha aspettato forse il suo momento.
Eppure quella macchia era lí, sul cadavere, tant’è che alla moglie dell’ormai defunto bastò guardarla per riconoscere la sua vedovanza e fuggire via piangente. Anche perché, dopo la ricostruzione dell’incidente, l’ispettore, da buon ispettore di esperienza qual era, conosceva benissimo i riti del suo lavoro e ò a descriverle sionatamente e con disinvoltura tutti i dettagli della rovinosa caduta e lo stato in cui era la faccia di Carullo, ancora appiccicata al masso, ai piedi della quercia. Sicché era meglio non guardare: la signora avrebbe potuto dare di stomaco. Era stato Husayn, per pudore, a coprire il volto del malcapitato, con la sua maglia retinata bianca, non prima di accorgersi che Carullo rideva ancora.
Paragrafo 7.4
C’era da ringraziarlo… o fulminarlo?
Ondeggiava, sú e giú, a mezza altezza sospeso, Carullo, mentre lo guardava disteso beatamente sul letto:
– Husayn… Husayn…, echeggiando, senza che quell’altro lo sentisse. Non poteva.
Quell’anima bianca restava a fissarlo, fissava Husayn, continuando a danzare nel suo biancore, cosí come l’avevano trovato, sotto la quercia: Carullo.
Era lí per lui, per Husayn. Forse per lui non era piú lí, con loro, tra i vivi, come sempre… mai piú ora: per Husayn aveva smesso di esserci. Aveva lasciato tutto, anche il suo Ninì, Ninì di papà:
– Neanche un saluto al mio Ninì!
Non era riuscito nemmeno a salutarlo, quel figlio.
Tutto era partito dal solito ficcanaso di Michele, Michele Mozzarella:
– Gigi, cos’è che hai scritto sulla maglietta?, chiese Michele rivolto a Husayn intento a lavare i suoi piatti.
Husayn, senza uscire le mani dall’acqua, si guardò la maglietta chinando il capo e sorrise: I love Kunta.
Difronte a quella risposta, la sera prima della sua morte, Carullo provò un impeto, da non trattenersi:
– Cosa significa?, chiese prima degl’altri.
– Significa che non ho paura a dirlo, rispose Husayn.
– A dire cosa?, questa volta Marisa.
– Che lo amo, rispose Husayn, amo il suo spirito, il sogno di libertà, la tenacia del sogno. Io, riprese il ragazzo con gli occhi lucidi, ci credo ancora.
Basta. Non se ne parlò. Finita la discussione. Pochi minuti per sembrare tutto dimenticato.
Invece no, qualcuno ci covava: il Carullo.
Il suo spirito biancastro ora rimaneva sospeso nella camera da letto del suo amico Husayn, tranquillo.
C’era da ringraziarlo… o fulminarlo?
Carullo si guardò sul petto bianco e confusamente la vedeva ancora quella scritta, appannata, sulla sua maglia retinata bianca che l’amico Husayn gli aveva prestato: I love Kunta.
Sorrise e se n’andò.
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¹⁸ le piace il Moretto: ‘Moretto’ è da intendersi col suo doppio senso. Il riferimento è al dolce moretto (dolcetto di cioccolata a forma di cupola con una cialda di wafer come base, ripieno di una spuma bianca) con allusione al colore del ragazzo
Note