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Gratitudine e Militanza: Saggi su Pasolini, Pavese, Luzi e Luciana Stegnagno Picchio. Interventi su poesia e politica, poesia e religione.
First Published as eBook February 2014 Author: Giovanni Avogadri Edited by M&J at Smashwords Text design: M&J Cover Image: San Paolo agli Operai. Gentile concessione dell'autore Paolo Melai Published by M&J Publishing House ed 29 November 2013 No.2013-9 Address: 193-9, Mado-ro 248. Beongil, Majang-Myeon. Icheon-si, Korea Tel. (+82) 31-638-3052 Web-page: https://idoc-pub.descargarjuegos.org/cdn-cgi/l/email-protection" class="__cf_email__" data-cfemail="b4d9de9ac4c1d6d8ddc7dcdddad3dcdbc1c7d1f4d3d9d5ddd89ad7dbd9">[email protected] © M&J 2014 ISBN: 979-11-951749-9-7 95880 A CIP catalogue record of the National Library of Korea for this book is available at the homepage of CIP (http://seoji.nl.go.kr) and Korean Library Information System Network(http://www.nl.go.kr/kolisnet).
Prefazione
Non è facile, e forse nemmeno produttivo, trovare un elemento unificatore nella serie di interventi critici proposti da Avogadri all’interno del presente volume: uno degli aspetti più interessanti di tali saggi consiste proprio nel loro essere variegati, diversificati quanto ad autori e aspetti delle opere indagati, a strategie interpretative attuate e a stile d’analisi utilizzato.
Detto ciò, è giusto notare come il primo intervento, quello sulla troppo poco frequentata (dai critici) raccolta pasoliniana, rivela una profonda ipotesi di lettura ravvisabile nella percezione della sistematica volontà di “scandalizzare” che attraversa tutti i componimenti della raccolta; ed elemento precipuo di “scandalo”, quindi di spinta alla rimessa in discussione e al confronto con la propria coscienza, viene indicato nell’emblematica immagine della crocifissione, come l’analisi testuale dimostra in modo convincente, puntando sull’estremizzata valenza basilare dell’antitesi e della contraddizione e sul richiamo al concetto del Puer Aeternus.
Il secondo e il terzo saggio invece, entrambi incentrati su Pavese e sul tema, fondamentale, del mito prima, del ruolo di traduttore assunto dal letterato in séguito, sono caratterizzati dai fasci di luce gettati sulla funzione di organizzatore e diffusore della cultura e sulle capacità ricettive che Pavese ha mostrato rispetto alla cultura europea (e non solo) a lui coeva, creando così un terreno fertile per l’applicazione del mito alle tematiche della natura e dell’infanzia.
Se la rievocazione dell’opera e della figura di Luzi in occasione della sua scomparsa lascia spazio a considerazioni riguardanti lo scontro e l’incontro con le vicende storiche e culturali nelle quali l’artista si ritrova a vivere, le riflessioni relative alla recente morte della Stegani Picchio ci conducono verso l’identità di
etica di vita e di scrittura che ne hanno caratterizzato l’operato (e questo aspetto caratterizzante è senz’altro uno di quelli che più affascina e coinvolge il critico), mentre una tematica particolare è quella tratteggiata dalle “interrogazioni” che Avogadri si e ci pone sulle impressioni derivanti dalla contemplazione del crocifisso di Pietro Tacca nuovamente esposto nella chiesa di Settignano dopo il restauro: un modo “occasionale”, nel senso montaliano del termine, per discettare su uno dei simboli centrali dell’uomo occidentale, in definitiva.
Una notazione a parte merita l’ultima serie di considerazioni, quelle contenute in Poesia e politica “In direzione ostinata e contraria”, a ribadire quanto peso anche “letterario” abbia avuto negli ultimi decenni il cantautore De André e quanto sia importante l’impegno politico, la “partecipazione” degli artisti, la denuncia delle ingiustizie sociali, la richiesta incessante del Bene, senza paura di sporcarsi le mani a confronto con le fragilità umane, da Sant’Agostino a Brecht, dal dato letterario, artistico e filosofico alla quotidianità, senza mai trascurare la “politicità della parola poetica”.
Dunque un ampio ventaglio esegetico è quello che ci viene offerto, invitandoci ad un percorso interpretativo teso a mettere in luce risvolti poco considerati delle opere, del pensiero e della biografia degli autori indagati, e tale percorso sa proporre spesso un taglio d’indagine che costringe a non accontentarsi del già detto e suggerisce di illuminare da angolazioni diverse un consistente bagaglio letterario e artistico-culturale che, come si può facilmente capire, vuole indurre a riflettere anche sui rivolti sociali e, diciamo così, “morali” ed “educativi” che tali riflessioni comportano, anche nel loro indurci a rimetterci in discussione e in confronto continuo.
Massimo Seriacopi
Nota bio-bibliografica
Giovanni Avogadri è nato a Livorno il 21 aprile del 1963.
Vive a Pontassieve assieme a Valentina e Giorgia Veronica.
Lavora a Firenze, dove insegna letteratura italiana e storia nella scuola superiore.
Insegna da quando aveva 19 anni, ma è da adolescente che inizia ad interessarsi di poesia, sia come evento performativo che sul piano della scrittura e su quello critico.
Ha collaborato con la rivista Città Nuova, per la quale ha curato la pagina di scrittura creativa. Ha tenuto lezioni e letture performative in tutt’Italia e all’estero su poeti italiani e stranieri. Ha pubblicato saggi critici e poesie su varie riviste italiane e straniere: Semicerchio, Prospettiva Persona, Testimonianze, Nuova Umanità, Ciudad Nueva, Cidade Nova.
Ha costituito a Firenze - presso il centro Internazionale studenti Giorgio La Pira l'Associazione Oliveira, che raccoglie e valorizza il lavoro e il "magistero errante" del poeta brasiliano Heleno Oliveira, del quale ha curato assieme ad Andrea Sirotti varie pubblicazioni, godendo del dono dell' amicizia e del dialogo poetico con Sophia de Mello Breyner Andresen, Luciana Stegagno Picchio, Armindo Trevisan.
È condirettore della collana Con l’Altro, della Casa Editrice La Meridiana di Firenze.
Ha lavorato nel campo dell’educazione, realizzando progetti di cooperazione educativa in Uruguay, Argentina, Messico, Paraguay, Brasile. Ha inoltre pubblicato articoli e saggi in ambito portoghese, pedagogico croato tradotti in spagnolo, con particolare attenzione alla pedagogia interculturale, alla filosofia dell’educazione, alla filosofia e teologia della liberazione.
Tiene abitualmente attività didattiche e performative sulla poesia, con uno sguardo particolare per la poesia latinoamericana, portoghese e brasiliana.
Nel novembre 2012 ha vinto il premio “L’autore” con la raccolta di poesie “La rivoluzione del respiro”.
Nel 2013 ha pubblicato la raccolta Livorno uno stradario immaginale per i tipi delle Edizioni Erasmo di Livorno.
"L'usignolo della Chiesa Cattolica" di P.P.Pasolini e il fascino del "Puer Aeternus"
L' Usignolo della Chiesa Cattolica e' sicuramente la meno frequentata delle raccolte poetiche di P.P. Pasolini.
Un critico molto attento e poco sensibile alle mode eggere, qual è P. V. Mengaldo, presentando alcune composizioni, tratte dalla sovracitata raccolta in una recente Antologia poetica del Novecento Italiano, la giudica da una parte come tematicamente complementare alla Meglio Gioventù - seppur ad essa decisamente inferiore - dall'altra la ritiene incapace di fungere da cerniera con la "poesia civile" de Le ceneri di Gramsci.
Di certo non piace al Mengaldo il tono di "cattolicesimo cerimoniale e mortuario, sensuale ed ossessionante"; la "vernice anticheggiante per lo più falso antico di stampo fine ottocento" in cui "l'intreccio di autenticità e manierismo è quasi insolubile [...] La voluttà di confessare, la messa a nudo del proprio senso di colpa si mediano costantemente nel gusto formale del pastiche, anche dinanzi agli esiti migliori il lettore ha un senso di disagio, come di fronte ad una doppia esibizione ".[1]
Se è vero che non possiamo non essere d'accordo con questi giudizi di Mengaldo, tutti ampiamente riscontrabili nel testo, è però altrettanto vero che dobbiamo prendere più sul serio la precisa volontà di "scandalizzare" che attraversa tutti i componimenti: non solo questione di "gusto", quindi, ma una precisa volontà espressiva che trova nel finale di "CROCEFISSIONE" la sua immagine più emblematica:
Noi staremo offerti sulla croce
[...]
per testimoniare lo scandalo.
Questo non può non evocare quanto tutta l'opera di Pasolini si fondi sulla antitesi, sulla contraddizione, al punto che Franco Fortini osserva come la sua "più frequente forma di linguaggio sia quella sottospecie dell'oximoron che l'antica retorica chiamava "sineciosi ".[2]
Ebbene, di sineciosi l'Usignolo sovrabbonda, e ne vedremo in seguito alcuni esempi tratti dalla sezione "Il pianto della rosa", nella quale si fa più consapevole il senso della colpa, e come esso venga impugnato dal poeta quasi come arma di purezza e autenticità, in modo "cinico e innocente" [L'illecito].
Da parte loro, Asor Rosa e Giorgio Barberi Squarotti hanno dedicato all'Usignolo analisi attente e apionate e vi hanno riscontrato, seppur in modo aurorale, quello che ritengono il nucleo pulsante di tutta la poetica pasoliniana: il grido, il tentativo di esprimere in piena icasticità il - "dilaceramento della coscienza, la lotta di peccato e di rimorso, di autorità e ione, di sentimento e ragione che sono temi fondamentali di tutta l'esperienza pasoliniana.[3]
Non quindi un'opera "da dimenticare" - come l'assenza di ristampe farebbe presagire -, ma una sorta di "ouverture" dove ascoltare un Pasolini già pronto ad eseguire i suoi temi cruciali.
"Nelle grandi svolte della storia della cultura, e sopratutto negli istanti in cui la crisi del sentimento religioso si fa sintomo e annuncio del finire d'un ciclo, affiora dalle profondità della psiche l'immagine del fanciullo primordiale, dell'orfano. Ad essa sembra che l'animo umano affidi ciecamente le sue speranze, ed essa è sempre arbitra di metamorfosi."
(F.Jesi,"Letteratura e mito, Einaudi 1968, p.13)
Attraversando le pagine dell' "Usignolo della Chiesa Cattolica", può capitare di entrare in contatto con diversi nuclei tematici, che si rincorrono in un via vai continuo, emergendo dalla materia poetica asistematicamente ma incessantemente; a noi è parso che quasi tutti possono essere ricondotti alla costellazione archetipica del "Puer Aeternus", così come James Hillmann l'ha narrata nei suoi scritti sull'argomento.(4)
Particolarmente significativi ci sono parsi i seguenti temi:
a) Soggetti e oggetti della parola poetica sono quasi esclusivamente immagini di Puer, adolescenti e ragazzi. b) La figura ricorrente di Cristo Dio-Puer, come dice Hillmann in "Senex et Puer", c) Il rapporto necessario tra il Puer e la morte; d) Il "sanguinare" del Puer; e) Il rapporto tra il Puer e la Madre; f) Il rapporto tra Senex e Puer e la ricerca del Padre.
Proviamo ora a tracciare la fenomenologia di questi importanti nodi seguendo lo svolgersi delle sezioni della raccolta poetica.
LE ALBE, inizio della prima sezione, si direbbe disegnato a mo’ di sfondo di questa eretica "Memoria di Cristo" [Jesus dulcis memoria], la quale si staglierebbe in tal modo su uno sfondo mitico, caratterizzato dalla continuità immobile dei padri nei figli:
[Corpo di tuo padre, labbra di tuo padre, che morte risuona nel tuo canto, che vita nel tuo quieto non esistere?]
Segue la sezione IONE, dove la figura di Cristo ricorre in un supplizio estenuato, che non si conclude mai - evangelicamente - col "in manus tuas Domine"....
Qui lo spasimo appare dilatato all'infinito e il Cristo è pura e terrifica icona della contrapposizione tra cielo e terra, un Cristo che non ritrova la pace nella comunione col Padre, un Cristo di cui il dato espressivamente più forte è la sovrabbondanza delle rappresentazioni della sola corporeità, in modo tale che suoni, odori e colori tratteggiano il livido della morte.
Ma sentiamo a questo punto Hillmann a proposito del tema del "sanguinare" :
"Il sanguinare di Gesù è la trasfigurazione su un piano teologico di un fondamentale motivo puer (...) Come l'eroe (cioè il puer) non può mettere fine alla sua mania di massacro (Achille infierì per dodici giorni sul cadavere di
Ettore), così l'eroe al rovescio non può arrestare il proprio sangue. Non ha lacci emostatici, anche perché il suo sanguinare è così bello. Perché arrestare un tale sangue? Un sangue che contiene fiori latenti? I miti ci narrano più volte che dai puer uccisi sbocciano splendidi fiori. Tramite le sue ferite il puer è trasfigurato in gloria." [4]
Perciò, in Pasolini/ Cristo eretico/ Puer, possiamo trovare una trasfigurazione poetica del soggetto che si espone come "sanguinante" per affermare la propria posizione nel mondo e così fare della croce/contraddizione un pulpito o una cattedra.
Senza dimenticare quello straordinario
[Cristo corpo di giovinetta]
che così improvvisamente all'inizio evoca senza mezzi termini il tema mitico (ed eretico) del Cristo/Puer/Androgino.
Con IN MEMORIAM, dopo tali tinte forti e fortissime, l'autore decide per una forma più " familiare" dell'immagine puer, quella del fratello partigiano morto, cifra d’idealità tradita e vulnerabilità: un'immagine fermata dalla morte nel tempo del ricordo.
L'USIGNOLO è composto pure di prose poetiche e dialoghetti, che di nuovo insistono sul legame necessario tra il puer e la morte [II, VII].
Fanno però qui la loro comparsa anche due figure femminili: anzitutto la Sera, che nel dolce dialogo col Giovane assume ora le sembianze del richiamo delle feste e delle osterie, ora della dolcezza sensuale della Notte, ora dei canti di chiesa, in una descrizione dei luoghi che ritroveremo ricorrenti, tipizzati ne Il sogno di una cosa a dipingere un vero e proprio "epos friulano", così decisivo nel mondo dell'autore.
Ma la Notte, la Natura, Il Friuli, sono qui segni e richiami che possiamo dire materni.
Nel dialogo VIII pare ribaltarsi, infatti, l'immagine d'una poesia precedente, dedicata alla madre nella casa di Bologna, il 10 marzo del 1939:
[E tu sei nata,
mamma per essere una lodoletta]
Con un tono da idillio infantile, ora è " l'usignolo" Pier Paolo, ferito, a posare il capo sul seno della Fanciulla. Inutile forse aggiungere qualcosa a ciò che è stato sempre detto a proposito del rapporto tra Pasolini e la madre, se non che già qui fa il suo ingresso -seppur in modo aurorale- l'immagine delle madre non solo come "tema", ma in quanto naturale scaturigine dell'atteggiamento poetico e religioso di Pasolini nei confronti della vita e della poesia: non dobbiamo dimenticare che è stata proprio Susanna Colussi-Pasolini a mostrare al piccolo Pier Paolo di 7 anni come si compone materialmente una poesia:
"Qualche giorno dopo scrissi i miei primi versi, dove si parlava di rosignolo e di verzura". [5]
Ma ancora avanti, in "ANNUNCIAZIONE", i figli chiedono che
[Sia fanciulla sempre la vita
nella severa tua vita fanciulla]
e una madre-fanciulla non può che costellare una situazione mitica in cui
[pei figli vergini
io sarò vergine]
con toni pacificati e rasserenati che non troveremo più in tutta la raccolta.
Già subito dopo, nelle LITANIE, troviamo espresso lo stesso rapporto, stavolta consapevole della sua peccaminosità "santa". Divagando e improvvisando sulla forma liturgica, un po’ come le "saetas" che i fedeli di Siviglia lanciano verso le immagini sacre durante le processioni della Settimana Santa, fa il suo ingresso l'ossimoro, la sineciosi a cui facevamo riferimento all'inizio:
[pace paurosa]
[gesto santo del mio peccato]
[corpo caldo e innocente]
[crudo amore]
[casto cuore ...cuore che vuole peccare]
Il senso di colpa, affermato e sentito come estraneo, si manifesta alfine apertamente con un temuto e trepido svelamento:
[Madre! Quel lume è tanto puro
che la tua coscia
pare di neve]
[Seni d'avorio
nidi di gigli
non vi ha violato mano di padre]
Ma è successivamente, in MEMORIE, che troviamo la più limpida dichiarazione d'amore per la madre:
[Torno alle giornate
più remote del nostro
amore, una marea
di muta gratitudine
e disperati baci. Tutta la mia infanzia
è sulle tue ginocchia
spaventata di perderti
e perdutamente
felice di averti]
La purezza del sentimento sta tutta nella primaria connessione tra amore per la madre e amore per la vita "allo stato puro", archetipica connessione troppo insistita per are inosservata:
[quanto amavo una
vita troppo bella per me...]
[tu sola davi la solitudine
a chi, nella tua ombra,
provava per il mondo
un troppo grande amore]
[e un troppo grande amore
nel cuore, per il mondo].
L'insistita "ingenuità" espressiva ci ripete che l'amore per il mondo è "troppo", un eccesso che costella e pone immediatamente il suo opposto, l'incapacità di entrare davvero nella vita.
Ma perché questo? Quale struttura di coscienza giustifica tale esperienza esistenziale?
Sentiamo ancora Hillmann :
-"Il Puer Aeternus è quella struttura di coscienza e modello di comportamento che rifiuta e combatte il Senex, il tempo, il lavoro, l'ordine, i limiti, l'apprendere, la storia, la continuità , il sopravvivere ed il resistere."- [6]
Se ascoltiamo bene Il Fanciullo Eterno, lo Splendido Adolescente, e anche l'Angelo Necessario, e quant'altre epifanie di questo spirito disincarnato ci vogliono dire, molto spesso, quasi sempre, essi ci diranno la loro incapacità di vivere.
Il rapporto tra affermazione del proprio peccato e senso di colpa con il conseguente "non credo", sono ormai alle porte; IL PIANTO DELLA ROSA ne segna la definitiva presa di coscienza e l'espressione poetica col SERMONE DEL DIAVOLO:
[Fanciullo, sei un mostro
quale coscienza,
quale arte nell'inganno]
L'ILLECITO:
[ormai tu m'hai capito,
e, non coerente,
mio cinico innocente
gusti il frutto proibito]
e, ancora, in SOLITUDINE:
[Arrosisci? Mi scacci?
pensati tredicenne
in treno, con le mani
strette sul grembo tenero.
Pensati sotto il fiotto
della doccia, a Bologna
col costume disciolto
ebbro di vergogna]
oppure SUPPLICA:
[ben dolcemente sfiori
le note della carne
e quel fioco concerto
mi devasta il cuore].
Adesso l'autocoscienza de L'ANGELO IMPURO,
[Eccomi dunque
in piena eccelsa confidenza
con la mia presenza,
angelo impuro ch'amo]
assieme alla ione di BESTEMMIA
[Sì, sono animato
dalla felicità
di sentire l'ardore
che fa di me un Nato]
possono produrre in PAOLO E BARUCH, nel NON CREDO, in LINGUA e TRAGIQUES, quelli che mi sono parsi gli esiti poetici più alti : e cioè la consapevolezza poetico esistenziale di LINGUA; la solida, icastica dichiarazione
costituita da CROCEFISSIONE; i gorghi di ione, angoscia e consapevolezza che ci sgomentano ne LE PRIMULE, l'EX VITA, LA BALLATA DEL DELIRIO; l'effusione turbata ed estatica, al limite del dicibile, di CARNE E CIELO.
Ma forse qui conviene fermasi analiticamente.
In LINGUA Pasolini confessa la sua
[fanciullesca speranza
senza ironia]
nella "Forma preesistente",che assume ora i tratti della poesia "codificata"
[O endecasillabo d'avorio]
ora quelli della tradizione come "orribile statua":
[feci ingresso nel museo vigilato
degli adulti]
per cui adesso immagina che solo senza questa forma odiata-amata, forma che appartiene al mondo del Senex ["minaccia d'alabastro"] si possano rivivere
[gli slanci per mia madre
le soggezioni per il mio grembo]
Perché così, poi
[Ritroverò stupori senza ombra
per l'orologio, il topo, la fionda
i compagni la chiesa la piazzetta].
Non c'è forse altro luogo più di questo, dove la voce del Puer dichiari la propria estraneità al mondo del Senex, al "museo degli adulti" opposto alla piazzetta, la fionda, i compagni, in una immagine invero un po’ abusata. Ma Pasolini sa egregiamente trascendersi e rendere poeticamente l'ipostasi di complessi che sente vivere nella sua vita in una chiusa magistrale:
[No, non ho madre, non ho sesso,
ho ucciso il padre col silenzio,
amo la mia pazzia di acqua e assenzio,
amo il mio giallo viso di ragazzo,
le innocenze che fingo e l'isterismo
che celo nell'eresia o lo scisma
del mio gergo, amo la mia colpa
che quando entrai nel museo degli adulti
era la piega dei calzoni, gli urti
del cuore timido: e tu rifiuti
ciò per cui ti amo, non mi muti].
E' a partire da questa consapevolezza poetico-esistenziale che mi pare possibile cogliere, nella sezione L'ITALIA, il tentativo di vedere la realtà a partire da una prospettiva diversa da quella dei Padri: sono infatti tutti giovani, ragazzi, bambini quelli che possiamo trovare nelle strade e nelle città attraversandone i diversi capitoli, un mondo di Figli adolescenti scorto in carrellate cinematografiche, con quegli squarci che ritroveremo in "Ragazzi di vita", "Accattone", "Il sogno di una cosa", "Mamma Roma" e sta forse proprio qui l'inizio di quel "populismo descrittivo", solo falsamente realistico perché animato dal tentativo di scappare dal "Mondo dei Padri".
In CROCIFISSIONE, come una sorta di definitiva epifania, ritorna il tema della ione, del Cristo sanguinante immagine del poeta-puer; una specie di TEOREMA ante litteram, una dichiarazione di posizione esistenziale. Qui c'è già tutto il Pasolini "luterano-paolino", eretico portatore delle evangelica "necessità dello scandalo": il Cristo muore infatti "Sotto gli occhi di tutti", e le connotazioni insistono sulla visione: "Esibire", "guarda", "gli fanno luce". Occorre insomma "essere esposti" giacché
[la chiarezza del cuore è degna
di ogni schermo di ogni peccato
di ogni più nuda ione];
ma è la chiusa che stupisce per la capacità di sintetizzare le sembianze del Cristo-poeta-puer: lo stare esposti alla gogna, l'offerta del proprio corpo come "oggetto sacrificale", il sanguinare:
[scoprendo all'ironia le stille
del sangue dal petto ai ginocchi].
E' evidente come qui l'intreccio di "intelletto e ione" e la "testimonianza dello scandalo" contribuiscano ad evocare non solo la poetica di tutto Pasolini, ma finanche una sorta di profezia esistenziale sulla vita e sulla morte del poeta (Baruch è profeta!).
Non ci rimane che osservare quanto l'archetipo del puer si sia impossessato del Nostro, qui sopratutto nella sua auto distruttività, ben oltre l'innocente e sfacciato bisogno di esporsi.
Come dice Hillmann, il sanguinare è connesso a una:
"Immagine di vulnerabilità in generale: la pelle è troppo sottile per la vita reale, la sensibilità a ogni strumento appuntito d'attacco, l'assenza di difese della verità giovanilmente ingenua ed aperta" [7]
E di nuovo l'incapacità a entrare nel tempo, la consapevolezza che l'archetipo della giovanile purezza è estraneo alla temporalità del senex, è ben espressa nella chiusa de LE PRIMULE: quel "non invecchio" dice che
[dentro il mio cuore c'è un resto eterno
di fanciullezza(...)
Cibo delle primule e del mio cuore,
fa ogni cielo diverso, ogni alito
d'aria il primo, ogni battito d'ali
annuncio di creazione]
Trova qui esemplarmente eco la situazione epocale dell'uomo moderno, descritta così da F. Jesi:
"L'uomo moderno al quale è rivolto - ma si potrebbe anche dire: dal quale è nato- l'insegnamento della psicoanalisi, denuncia, riconoscendo così nel proprio volto più segreto i tratti del fanciullo, un'intima percezione della fine di un ciclo, e si ritrova nella condizione dell'orfano primordiale, abbandonato dinanzi all'alba del mondo." [8]
A questo punto è necessario sviluppare almeno un po’ l'ultimo aspetto, preannunciato, dell'archetipo del puer, che quasi in forma di "non-detto" possiamo intravedere da alcuni scorci dei versi dell'Usignolo: e cioè il fatto che la "Costellazione Puer" si definisce sopratutto nel rapporto col Padre.
In questo senso ci può essere d'aiuto Enzo Siciliano, che nel suo "Vita di
Pasolini" ha brillantemente messo in evidenza una fulminea epifania del rapporto di Pasolini con l'immagine del padre. Anche qui si arriva mediante un episodio che ha tutto il sapore di una rivelazione improvvisa, densissima di rimandi simbolici ed esistenziali: l'episodio del cinema con Rita Hayworth che canta "Amado mio" sullo schermo, dall'omonimo romanzo incompiuto... Era quello "Il più bel film visto da Desiderio":
-"Davanti a Gilda qualcosa di stupendamente comune invase tutti gli spettatori. La musica di Amado mio devastava. Così che le grida oscene che si incrociavano per la platea, gli "attento che ti si spaccano i bottoni", i "Quante te ne fai stasera?", parevano fondersi in un ritmo dove il tempo pareva finalmente placarsi, consentire una proroga senza fine felice. Anche quando Iasìs, abbracciato da Desiderio, gli posò il capo su una spalla, e in quell'atmosfera da orgia consumata al di là del tempo, prima della morte, il petto di Desiderio parve finalmente sciogliersi, fu una commozione a un livello dove le lacrime si gelavano. Rita Hayworth con il suo immenso corpo, il suo sorriso e il suo seno di sorella e di prostituta -equivoca e angelica- stupida e misteriosa con quel suo sguardo di miope, freddo e tenero fino al languore- cantava dal profondo della sua America Latina da dopoguerra, da romanzo-fiume, con una inespressività divinamente carezzevole...
C'è R.Hayworth sullo schermo, col suo "grande corpo", epifania della inconoscibile Natura, punto terminale di una tensione fisica riconoscibilissima ("Attento che ti si spaccano i bottoni"), la donna "contadina" col suo languore suggerisce, riscatta, india. Sembra essere lei, nell'attimo in cui si sfila il guanto "con delicata libidine e furiosa pazienza" a spingere Iasìs al suo "Stasera": -e quell'attimo fu un "urlo di gioia, un dolce cataclisma".
Clinicamente si può parlare credo di un arresto della libido alla fase adolescente. Ma la proiezione paterna, in essa, vibra insidiosa. Desiderio stringe col braccio gli omeri del suo ragazzo: questi gli posa il capo sulla spalla -il rapporto è inequivoco. Lo scrittore è qui certamente scisso: è l'uno e l'altro; è il padre e il fanciullo -uniti da un'urgenza apionata che si compie davanti
all'epifania irresistibile della femminilità (...) A questo punto un'ipotesi. L'incompiutezza del racconto sta altrove che in esso: sta in ciò che la vita vi ha racchiuso come simbolo: l’incompiuto rapporto con l'immagine del padre che Pasolini ospitava dentro di sé (...) In quell'incompiutezza narrativa –un’ incompiutezza più supposta che reale, ripeto- Pasolini nascose, per uno di quegli imprevedibili rinvii, cocenti e immediati, della vita nell'arte, il senso della propria ossessione: farsi padre al proprio ragazzo, perché questi rispecchiasse in lui, rendendogli l'abbraccio, tutte le sue nostalgie inappagate di figlio.-" [9]
Lacerti di questo che può forse dirsi lo "sfondo oscuro"su cui Pasolini dipinse la sua vicenda umana e poetica, sono già presenti nell'Usignolo: impliciti nella IONE nella figura di Cristo "Dio-Puer", arrivano ad esprimersi nella CROCEFISSIONE, dove chiedendosi il poeta qual sia l'insegnamento del Cristo inchiodato, egli pare volerci suggestionare con uno
[sporgersi ingenui sull'abisso];
non potrebbe tutto ciò richiamare dalle profondità simboliche evocate dal Cristo in croce proprio l'icona del rapporto col Padre? La costellazione archetipica del puer è stata invece troppo spesso -secondo Hillmann- associata a quella della Grande Madre:
"Tanto il Figlio che soccombe quanto l'eroe che prevale traggono la loro definizione attraverso la relazione con la Magna Mater; il Puer invece la trae dalla polarità Senex-Puer (...) La dominante giovanile della coscienza nel suo sorgere e che governa lo stile della personalità dell' io può essere determinata dal Puer (e dal Senex) oppure dal figlio e dall'eroe." [10]
Se dunque il rapporto tra Pasolini e la madre è "scandalosamente" esposto in tutto l'Usignolo, forse il rapporto con lo "spirituale", il "paterno", è il Grande
Rimosso della vita e della poesia del Nostro. Per rintracciarlo ci si può affidare a frammenti, come la strordinaria fine di MEMORIE, nel quale adesso l'intuizione di Siciliano ci illumina quel
[Mi innamoro dei corpi
che hanno la mia carne di figlio]
Fin dove Pasolini amava nei giovani la sua carne di figlio in quanto figlio della madre, e fin dove in quanto figlio del padre? Si può rispondere a ciò seguendo l'apparire dei due aspetti del puer nel cammino poetico ed esistenziale del poeta: e se l'esordio dell'Usignolo richiama esplicitamente il rapporto Puer-Magna Mater ed ombreggia quello Senex-Puer, è nelle ultime opere teatrali che riappare l'ombra del Padre, come in Pilade:
[In nessun modo si ama meglio che nel sogno:
ameremo così i nostri indimenticabili padri
sognandoli. E ci racconteremo i sogni...] [11]
Ancora, per bocca d'Oreste
[Andrò a pregare sulla tomba del mio povero padre.
Non l'ho dimenticato, egli è ora nei miei sogni, e nei miei sogni mi parla con parole di grazia...]
Che cosa avrebbe mai detto il padre con tali "parole di grazia?", quale rapporto avrebbe voluto avere Pasolini col padre?
Come avviene anche in AFFABULAZIONE, secondo Siciliano -" Ciò che Pasolini chiedeva a suo padre è di essere quel GRANDE ALBERO SENZA OMBRA: un padre senza carisma, ricco di un carisma più grande, quello che è attribuito solitamente alla Divinità. Un padre il cui sesso non appartiene, un padre che non feconda materialmente, ma feconda nello spirito."-(14)
Presa di coscienza, sia pur letteraria della Grande Rimozione del suo destino di Figlio?
L'Usignolo si conclude con una sezione che sembra messa lì per segnare, più che mai contradditoriamente, l'incipit finto-decadente dell'immagine fine ottocento del titolo, stavolta con il finto razionalismo de LA SCOPERTA DI MARX, anticipato e chiosato da una citazione di Gor'kij così esplicitamente autoironica da spingerci a riportarla:
-"Io so che gli intellettuali nella gioventù sentono realmente l'inclinazione fisica verso il popolo e credono che questo sia amore. Ma questo non è amore: è meccanica inclinazione verso la massa"-
[con esso mi imprigiono
nello stupendo dono
ch'è ormai solo ragione
(…)
Ma c'è nell'esistenza
qualcos'altro che amore
per il proprio destino.
E' un calcolo senza
Miracolo che accora
O sospetto che incrina.
La nostra storia! Morsa
Di puro amore, forza
Razionale e divina]
Ebbene, anche la conclusione è segnata nell'intimo dall'ossimoro, dalla sineciosi, che possiamo infine davvero considerare cifra di tutta una vita, scelta di coerenza estrema, eccessiva, della vita e della poesia al proprio "mito"; una coerenza che se non sempre offre esiti poetici pienamente appaganti, tuttavia non smette di esercitare il suo fascino, quello appunto del Puer Aeternus.
“Là, sul confine tra cielo e tronco poteva sbucare il dio”. Cultura e mito nella vicenda di Cesare Pavese
Il centenario della nascita di Cesare Pavese ci offre l’occasione per proporre due spunti di riflessione sulla figura dello scrittore piemontese, che si staglia anzitutto come organizzatore e diffusore di cultura, che ha saputo cogliere nel contesto della cultura europea a lui contemporanea temi e questioni nuove per il nostro paese, affrontando poi in prima persona il tema decisivo del “mito vissuto”.
Pur lavorando per molte case editrici, dopo il carcere e il confino, Pavese diviene di fatto il direttore editoriale della casa editrice che, attorno al suo creatore, Giulio Einaudi, si configurava come una delle poche voci culturali relativamente indipendenti dal regime. Un lavoro collettivo, dunque, di cui Pavese era indubbiamente l’infaticabile motore creativo.
Dopo la Liberazione, dell’ Einaudi Pavese è il factotum, vive tra Torino e Roma una intensissima attività editoriale, segno e fioritura di una ripresa della vita democratica che fu stagione di speranze e di vitalità culturali. Avvia la collana dei Classici Italiani in collaborazione con Santorre Debenedetti, assieme a Franco Venturi quella delle scienze storiche e con Ernesto De Martino – pioniere in Italia dell’antropologia culturale - la “Collana di studi religiosi, etnologici e psicologici”. E’ proprio a partire da questo aspetto del lavoro di intellettuale di Pavese che vorremmo aprire uno squarcio su quello che è il cuore pulsante della vita e della poesia del nostro autore. Gli anni tra le due guerre avevano visto in Europa la nascita di un nuovo sguardo sulla dimensione del mito, della religione, della storia delle religioni e della psicologia del profondo. L’uso che i totalitarismi avevano fatto del mito (progressivo o conservatore), il tentativo di una tragica “creazione e rimitizzazione” della società in chiave antiumana, spinsero i migliori geni dell’epoca ad uno sforzo di analisi scientifica in chiave umanistica del mito e della religione: Thomas Mann, Karol Kereny, C.G. Jung,
Mircea Elide, W.F. Otto furono i pionieri della fondazione di una nuova dimensione della cultura europea. La cultura egemone italiana, chiusa tra estetica crociana e attualismo in filosofia, non aveva neanche le categorie per recepire il clima culturale che si sviluppava nel resto d’Europa, dove si tentava per la prima volta un approccio molteplice e non riduttivo alla complessità dell’esperienza umana, rivalutando la dimensione poetica, immaginale, mitica e religiosa come fonte di verità e non solo come “irrazionalità”, fondando con ciò uno studio razionale e scientifico della religione e del mito, approccio che Kereny e Jung inaugurarono con il loro fondamentale “Prolegomeni per uno studio scientifico della mitologia”. Si sa che Thomas Mann, Kerenj e Jung fossero per Pavese “vangelo” [12], e quindi per il nostro autore la collana che andava costruendo era uno strumento fondamentale per sprovincializzare il mondo culturale italiano ed aprirlo ad un orizzonte europeo.
“Sempre, ma più che mai questa volta, ritrovarmi davanti e in mezzo alla mie colline mi sommuove dal profondo. Deve pensare che immagini primordiali come a dire l’albero, la casa, la vite, il sentiero, la sera il pane, la frutta ecc. mi si sono dischiuse in questi luoghi […] e rivedere perciò questi alberi, viti, sentieri, ecc. mi dà un senso di straordinaria potenza fantastica, come se mi nascesse ora, dentro l’immagine assoluta di queste cose , come fossi un bambino , ma un bambino che porta in questa sua scoperta una ricchezza di echi, di stati, di parole di ritorni, di fantasia insomma, che è davvero smisurata! [...] [13]
Fin qui niente di totalmente nuovo, anzi, Pavese si pone sulla linea di alcuni dei grandi autori del novecento europeo, Rilke, Trakl, Pascoli, per i quali il fanciullo è il fondamento dell’attività poetica. Un’immagine, questa del puer, che va recuperata da una presentazione retorica e datata del fanciullino con la quale – tradendo la serietà e la consistenza dell’argomentazione pascoliana - ci è stata forse presentata, ci è di aiuto in questo Furio Jesi che ricollega l’intuizione pascoliana al vero cambio epocale inaugurato dalla psicanalisi:
“L’uomo moderno al quale è rivolto – ma si potrebbe dire: dal quale è nato – l’insegnamento della psicanalisi, denuncia, riconoscendo nel proprio volto più
segreto i tratti del fanciullo, un’intima percezione della fine di un ciclo e si ritrova nella condizione dell’orfano primordiale, abbandonato dinanzi all’alba di un mondo. [..] Egli è disposto a intendere l’invocazione di Cristo in agonia, “Eli Eli lemà sabactani”, come testimonianza della sorte di un orfano divino, al quale il soccorso paterno giungerà solo dopo la morte.”[14]
Era iniziato forse con Holderlin e con il nostro Leopardi questo senso della fine di un ciclo, il tramonto della percezione della “gloria del reale” e l’invocazione ad un “dio a venire”. In questo i migliori simbolisti e decadenti – Rilke e Pascoli, ad esempio - sono poeti religiosi nell’epoca della fine della metafisica.
In Pavese, come in altri suoi contemporanei, il mito funge da sostituto della religione e la sua originalità sta nella consapevolezza di questa presenza del mito e nel tentativo complessivo di illuminarlo trasformandolo in poesia:
“ Insomma ci vuole un mito. Ci vogliono miti, universali fantastici , per esprimere a fondo e indimenticabilmente quest’esperienza che è il mio posto nel mondo.” [15]
La natura e l’infanzia sono i luoghi nel quale il mito si manifesta,
“Là, sul confine tra cielo e tronco poteva sbucare il dio […] Ma il parallelo dell’infanzia chiarisce subito come il luogo mitico non sia tanto singolo , il santuario , quanto quello di nome comune, universale, il prato la selva , la spiaggia che nella sua indeterminatezza evoca tutti i prati, le selve e tutti li anima del suo brivido simbolico.” Il concepire unico dell’infanzia è insomma un sollevare alla sfera di eventi unici e assoluti le successive rivelazioni delle cose, per cui queste vivranno nella coscienza come schemi normativi dell’immaginazione affettiva.” [16]
Così Pavese nella densissima – quasi saggistica – prosa Del mito, del simbolo e d’altro, contenuta in Feria d’agosto.
Il poeta è consapevole che l’ispirazione consiste nell’ usare di quel “brivido simbolico” per creare poesia e come questo atto sia il più pericoloso e difficile per il creatore, per il quale è proprio la forza di quella ispirazione mitica e primigenia che spesso deteriora e spreca la poesia stessa. Solo i grandi, i più forti, i più “diabolicamente devoti e consapevoli sfondano il mito e insieme lo preservano ridotto a chiarezza. E’ questo il loro modo di collaborare all’unicità del miracolo”. [17]
Parole illuminanti di quello che credo sia stato il tentativo creativo più amato, più temuto e, a mio parere più originale e riuscito di Pavese stesso, vale a dire i “Dialoghi con Leucò”.
Un’opera straordinaria, che usa la forma del dialogo – riecheggiando l’altro capolavoro assoluto della prosa italiana, le operette morali di Leopardi – cercando di costruire con un lessico totalmente nuovo, moderno, un dialogo con la dimensione del mito; Cratos e Bia, Achille e Patroclo, Demetra e Dioniso, Odisseo e Calipso, il mito greco è messo in un continuo rapporto di lettura, di evocazione e interpretazione mai didascalica ma sempre poetica e creativa, con la dimensione personale e con i fondamenti antropologici e religiosi della condizione umana, la morte e il destino, il sangue, l’infanzia dell’uomo, il sesso, il rapporto tra l’umano e il divino.
“E credi ai mostri, ai corpi imbestiati, ai sassi vivi, ai sorrisi divini, alle parole che annientavano?” “Credo in ciò che ogni uomo ha sperato e patito. Se un tempo salirono su queste alture di sassi o cercarono paludi mortali sotto il cielo fu perché ci trovarono qualcosa che noi non sappiamo. Non era il pane né il piacere né la cara salute. Queste cose si sa dove stanno. Non qui. E noi che
viviamo lontano lungo il mare o nei campi, l’altra cosa l’abbiamo perduta.”
“dilla dunque la cosa.”
“Già lo sai. Quei loro incontri” (Gli dèi)
Qui la forza evocativa si incontra perfettamente con quella capacità di illuminare il mito che Pavese attribuiva ai “grandi, ai forti”, ai veri creatori, raggiungendo quindi a nostro parere l’obiettivo che lo scrittore piemontese si era posto come punto d’arrivo.
Tuttavia la totale dedizione nei confronti del mito stesso come portatore di verità, ha finito per creare le condizioni di una percezione tragica e sacrificale, precisamente mitica quindi, del proprio stesso destino. Al di là delle circostanze sentimentali, sappiamo che il pensiero del suicidio era una costante ineliminabile del vissuto di Pavese, quel “vizio assurdo” che citato nell’ultima raccolta di poesie pubblicate postume che purtroppo costituiva una sorta di tragico cantus firmus della sua esistenza di uomo.
Come altri incursori nel territorio della mito e della religione, Pavese non ebbe modo di riconoscere la presenza di un Mediatore tra trascendenza e immanenza, quella figura che negli stessi anni Simone Weil riconosceva nella croce di Cristo, “chiave d’interpretazione della sapienza greca”. La filosofa se, infatti, imputava alla cultura occidentale l’inutile tentativo di “recuperare la Grecia contro Cristo” (Dioniso contro Cristo di Nietsche!), mentre invece il cammino sarebbe potuto essere quello di leggere la mitologia e la sapienza greca come “semi del Verbo”, del Cristo sofferente, compimento e liberazione dalla religione mitica e dal suo aspetto sacrificale. Affascinato dal sacro del mito, Pavese ha tentato il proprio cammino verso di esso, restando vittima della sua logica sacrificale e confermando con il suicidio che senza Cristo la strada verso il “mito
vissuto” è chiusa.
I Veri "Mari del Sud": Pavese Traduttore
La figura di Pavese viene in rilievo oggi per l’inattualità, e la distanza dal contesto culturale – quello del secondo dopoguerra - di cui è stato un artefice, possono aiutarci a comprendere alcuni tratti cruciali del momento che attraversiamo. La “società dello spettacolo” tende oggi a presentare la dimensione artistica e culturale nella forma dello “show”, in un materiale utile per la diversione più o meno massificata e disponibile a prezzo ragionevole, non solo in senso monetario ma anche di impiego di fatica intellettuale. Tutti riconoscono la necessità della cultura, dell’arte, della dimensione estetica e i mass media si gettano sull’affare, ma poi chi si affatica ad approfondire, a comprendere più a fondo quanto visto – sentito – letto? Per questo ci sembra interessante riproporre la figura di Pavese in quanto elaboratore di cultura e incursore in territori e linguaggi nuovi per il suo tempo.
Il periodo tra le due guerre lo vide promettente allievo del Liceo D’Azeglio di Torino, attorno ad Augusto Monti, il professore d‘ italiano e latino che formò attorno a sé una vera e propria “Confraternita” di giovani talenti. Apionato di lettere classiche e di letteratura inglese, Pavese frequenta in seguito la facoltà di Lettere e Filosofia e la confraternita Monti si arricchisce di nuovi compagni: Norberto Bobbio, Leone Ginzburg, Massimo Mila, Franco Antonicelli, Giulio Carlo Argan, Vittorio Foa, Ludovico Geymonat, Giulio Einaudi, ovvero l’intellighenzia della Torino liberale e antifascista. Saggi sulla rivista del regime Cultura, poesie e traduzioni, le prime supplenze nel “suo”D’Azeglio ottenute grazie all’iscrizione al Partito fascista, ma il giovane laureato (tesi su Walt Whitman) non riesce a trovare una collocazione accademica nel contesto della cultura ufficiale del regime, fatta di retorica della classicità e di gretto provincialismo mascherato di “autarchia”.
L’America, oppure “i mari del sud” di una sua poesia, sono per l’italiano medio il sogno proibito e impossibile di una vita diversa dal sabato fascista e dalla “battaglia del grano”. Infatti, più che dell’Impero, l’immaginario si nutriva dei
film di Hollywood e anche il regime permetteva e incoraggiava a Cinecittà una casalinga “industria dei sogni”.
Senza togliere niente al cinema, occorre dire che la memoria, il luogo dove trova posto la dimensione immaginale dell’umanità, sono anzitutto debitori a chi si confronta con la lingua quotidianamente e seriamente. Pavese lo sa e investe la propria ione e serietà di impegno nel prezioso lavoro di traduttore, un lavoro che ci consegnerà affreschi vivi e veri dell’America sconosciuta ai più, l’America nera di Sherwood Anderson, quella bianca e povera di Steinbeck, quella meticcia dei latinos di Dos os. La prova prima era stata il “classico meno classico” che si possa pensare in termini accademici, ovvero il grandissimo Melville. Un epos biblico ambientato tra i pescatori della costa Est, di fronte all’oceano: questa è la vera “macchina dei sogni”! L’intellettuale lo capisce, lo sente e se ne fa interprete, mediatore per tutti. Dal lavoro di Pavese sono uscite le preziose traduzioni del monumentale epos di Moby Dick e poi il capolavoro in miniatura conosciuto come Benito Cereno.
Non poteva mancare l‘ apertura alla cultura europea di lingua inglese a lui contemporanea e praticamente sconosciuta e ostacolata in Italia: sua è la prima traduzione del Dedalus di Joyce e di Gertrude Stein, senza dimenticare il confronto con un classico-classico per eccellenza, ovvero il Copperfield di Dickens… Non per gusto di citazione: il fatto è che queste opere e autori li possiamo gustare nella magnifica traduzione di Pavese ancora oggi grazie alle recenti edizioni dell’economica Adelphi.
Perché Pavese, allora? Perché ci dice che un intellettuale è un artigiano della lingua e della cultura – dell’umanità quindi – che si dedica a scoprire nuovi territori della lingua, di altre lingue e di altre culture e ci aiuta concretamente ad accrescere il nostro patrimonio di umanità. Oggi più che mai, epoca di mondializzazione spesso solo “virtuale”, dovremmo prendere in adeguata considerazione il lavoro del traduttore, che non è mai un lavoro “meccanico” di corrispondenza linguistica, ma è necessariamente incontro con una cultura diversa dalla propria, è fatica e tentativo sempre ripetuto di pronunciare
reciprocamente contenuti e mondi culturali l’uno nella lingua dell’altro. Un’impresa che oltre ad essere intrinsecamente dialogica, è frutto e stimolo per un lavoro collettivo, fatto di rapporti di amicizia, di fiducia e di dialettica… Nonché di un committente che creda nel lavoro culturale, ovvero una casa editrice disposta a sperimentare, a “rischiare”, altrimenti addio lavoro culturale, in particolare a quello che ci può donare davvero immagini e motivi nuovi di crescita culturale e umana.
Buona lettura allora, di traduzioni d’autore che sono già di per sé opere d’arte e viaggi immaginali in nuovi mondi!
“Mario Luzi vela alta e magra una parola di osso e pietà!”
Heleno Oliveira, poesie scelte tradotte da Andrea Sirotti
Mario Luzi ci ha lasciati il 28 febbraio, nella mattina più fredda e più luminosa di questo tardo inverno. Scendendo verso sud, dalla sua casa sul Lungarno, stamani, si vedevano le cime dei monti innevate, limpide come mai.
Poi, nel pomeriggio, tornando a casa, una breve sosta nel Salone dei Cinquecento, a condividere il saluto dei suoi concittadini, questi fiorentini così scontrosi e criticoni eppur sempre pronti a riempire Palazzo Vecchio quando si tratta di testimoniare l’attaccamento a chi ha saputo amare e capire questa indicibile città, particolare e universale, laica e religiosa, raffinata e popolana. Così è stato per La Pira, per Balducci, per Antonino Caponnetto e, adesso, per il suo più insigne poeta.
La morte di un poeta è un evento che può rivelare l’essenza della poesia: tentativo di dire l’indicibile che è incarnato in una parola umana, udibile, decifrabile eppure mortale, fragile, ibile di non essere compresa:
Mario Luzi vela alta e magra
una parola di osso e pietà!
Così Heleno Oliveira, poeta brasiliano trapiantato in Italia, in un breve ma straordinario ritratto poetico, al quale il poeta risponderà con una bellissima, accorata lettera.
Un poeta è una parola incarnata, è manifestazione del paradosso, della tragicità e della grandezza della condizione umana, condizione limite capace dell’illimitato.
Ma ogni poeta vive anche un’altra incarnazione, quella che scopre e mano a mano vive nel tempo che gli è dato di vivere, nello scontro e nell’ incontro con le vicende storiche e culturali, ma soprattutto con lo statuto che la parola assume nel suo particolare contesto.
Ė qui dove vivendo si produce ombra, mistero
Per noi, per altri che ha da coglierne e a sua volta
Ne getta il seme alle spalle, è
Qui e non altrove che deve farsi luce.
(…)
(Versi d’ottobre)
Dico, prego: sia grazia essere qui,
grazia anche l’implorare a mani giunte,
stare a labbra serrate, ad occhi bassi
come chi aspetta la sentenza.
Sia grazia essere qui, nel giusto della vita,
nell’opera del mondo. Sia così
(Augurio)
Luzi è stato in permanente contrasto col suo tempo, un contrasto non plateale né occasionale ma profondo, meditato, assunto esistenzialmente, storicamente, esteticamente. Tuttavia, come emerge dai limpidi versi citati, in tale posizione nel mondo non si sente traccia di quel risentimento dell’ego che spesso caratterizza la voce dei moderni. Uomo pienamente moderno, e quindi uomo della crisi e del dubbio, in Luzi emerge una fedeltà all’interrogazione che è più profonda e più antica del moderno. Nel poeta fiorentino si risente la ricerca del senso, di una parola che sia varco all’essere, verso l’essere. Per questo, forse, la sua fede cristiana non viene mai sbandierata né usata, ma costituisce il fondo più certo della sua poetica, in quanto è da essa distinto e unito nella fedeltà alla parola. Fedeltà al mondo, fedeltà alla parola e fedeltà a quella Parola che, venuta al mondo, non è stata da esso riconosciuta.
Assieme agli amici Parronchi, Bo, Bigongiari, dalle colonne di Campo di Marte e con le pubblicazioni degli anni ’30 e ’40, assume polemicamente e consapevolmente quella definizione di “ermetismo” che il Flora aveva attribuito in tono dispregiativo ai più conosciuti Ungaretti, Montale e Quasimodo, termine poi ato in modo improprio e banalizzante nella dizione popolare. Infatti non si può immaginare niente di più lontano dei giovani dell’ermetismo fiorentino, rispetto ai nomi sopraccitati, ben più conosciuti e divulgati. La temperie culturale della poesia e della critica nata nella Firenze degli anni ’40, assumerà in seguito la definizione di “ermetismo storico”. Si tratta di poeti, critici e storici della letteratura quasi tutti anche docenti universitari, che diverranno maestri di pensiero e di poesia per la generazione successiva. Dal novecento poetico, soprattutto se, ereditano la riflessione e la consapevolezza dello stato di crisi della parola e della identità stessa dell’intellettuale e del poeta. Luzi incarna perfettamente la posizione etica ed estetica nella quale ben presto i compagni di viaggio si riconoscono: una poesia centrata nel tentativo di ritrovare un senso pieno alle parole, che nasce dalla scoperta della frattura tra esse e il reale, e che per questo tenta con tutte le sue possibilità di ricreare un linguaggio vergine, una ri-significazione delle cose senza per questo traare nel realismo, nel misticismo, o, ancora nell’irrazionale: fedeltà quindi alla parola proprio nel tempo della crisi della parola stessa.
La poesia di Luzi è anche per questo poesia colta, difficile e, diciamolo francamente, molto nominata ma poco letta. Le sue prime opere – secondo Gianfranco Contini - costituiscono un canzoniere denso di elementi preziosi o per letterarietà o per la natura stessa degli elementi di cui sono popolate le liriche ( Atri, cedri, basalti, erme); il gioco sapientissimo delle rime e degli endecasillabi disegna una lingua raffinata ed elitaria:
Dove non eri quanta pace: il cielo
Fra gli alberi estuosi raccoglieva
La bianca offerta delle strade, un volto
Riluceva nel buio delle fonti,
la midolla di miele
temperava l’angoscia dei anti
e la beltà brillava …
Da qui, forse, le critiche dei politicamente corretti del tempo, e il tempo era quello del realismo a tutti i costi e della poesia che poteva diventare perfino declamatoria, pensiamo a certi esiti del Quasimodo più “politico”. Negli anni del dopoguerra Luzi fu accusato di non essersi schierato, di non essere “sufficientemente esposto”.
Ma la ricerca del Maestro – così come lo si sentiva spesso chiamare - si trasformava profondamente, e proprio negli anni ’60 e ’70 si ridefiniva a partire dalla necessità di una nuova modalità comunicativa: non più la lingua elitaria e preziosa ma l’onnipresenza del dialogo, dell’interrogazione. Si dirada l’endecasillabo e compare l’uso massiccio del discorso diretto, il domandare ed il rispondere, che giunge a dare ragione della propria posizione nel mondo, in una presenza al contesto prima inimmaginabile:
La nebbia ghiacciata affumica la gora della concia
E il viottolo che segue la proda. Ne escono quattro
non so se visti o non visti prima,
Pigri nell’andatura, pigri anche nel fermarsi fronte a fronte.
Uno, il più lavorato da smanie e il più indolente,
mi si fa incontro, mi dice: “Tu? Non sei dei nostri.
Non ti sei bruciato come noi al fuoco della lotta
Quando divampava e ardevano nel rogo bene e male”
(…)
E io: “E’ difficile spiegarti. Ma sappi che il cammino
per me era più lungo che per voi e ava
da altre parti”.
…
C’è silenzio a lungo,
mentre tutto è fermo,
mentre l’acqua della gora fruscia.
Poi mi lasciano lì e io seguo a distanza.
…
Rispondo: “lavoro anche per voi, per amor vostro”
Lui tace per un po’ quasi a ricever questa pietra in cambio
Del sacco doloroso vuotato ai miei piedi e spanto.
E come io non dico altro, lui di nuovo:”O Mario,
com’è triste essere ostili, dirti che rifiutiamo la salvezza,
né mangiamo del cibo che ci porgi, dirti che ci offende”.
…
Rimango a misurare il poco detto,
il molto udito, mentre l’acqua della gora fruscia,
mentre ronzano fili lati nella nebbia sopra pali e antenne.
“Non potrai giudicare di questi anni vissuti a cuore duro,
mi dico, potranno altri in un tempo diverso.
Prega che la loro anima sia spoglia
E la loro pietà più perfetta”.
Difficile descrivere un rovesciamento di toni più radicale rispetto alla poesia degli inizi, che nonostante, le apparenze, ripropone una fedeltà alla tradizione che fa di questo incontro presso il Bisenzio un calco dantesco, nelle immagini e perfino nelle “rime chiocce” dell’inizio … Un inferno – o meglio un limbo? popolato dalle controversie politiche ed ideologiche degli anni ’60 e ’70, che Luzi ha attraversato, non occorre dirlo, in un atteggiamento di ascolto, (il poco detto, il molto udito) che, solo, gli bastava per assumere una posizione controcorrente, di isolamento nei confronti di tutti gli “schieramenti”. La stessa posizione, rovesciata, eppure simile per fedeltà alla poesia e per coerenza di pensiero, di un poeta totalmente diverso, che invece aveva deciso di “gettare il proprio corpo nella lotta”, ovvero Pier Paolo Pasolini.
Ma le mode culturali ano e così, finita la stagione “dell’impegno a tutti i costi”, l’ostinata fedeltà di Luzi alla poesia, al diuturno lavoro per la parola, lo rende, ancora una volta, inattuale: per il “grande vecchio” della poesia, è l’ultima, straordinaria stagione, una sorta di raccolto della maturità, che unisce la sintesi estetica, religiosa ed esistenziale del Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, alle prove del teatro di parola come Opus Florentinum, poi sono venuti i testi per le Vie Crucis del Papa e recentissimo, Il fiore del dolore, oratorio sul martirio di Don Puglisi, pubblicato dalla Edizioni della Meridiana di Firenze. Unico tra gli intellettuali italiani degli ultimi anni, Luzi viene nominato senatore a vita: Il poeta “ermetico”e “neoplatonico”riceve – invece del Nobel – un riconoscimento civile e sociale.
Ė dello scorso novembre l’evento che – adesso possiamo dirlo – spesso segna il destino dei personaggi emblematici, una sorta di ricapitolazione della propria vicenda che prelude all’addio.
Un addio che le sua parole stesse, nell’ultima poesia, ci consegnano con la limpidezza ed il nitore del cielo di quel mattino.
(Città Nuova, marzo 2005)
Luciana Stegagno Picchio: I doni di una lunga ricerca
Luciana Stegagno Picchio, la più grande studiosa italiana di letteratura portoghese e brasiliana, è scomparsa nell’agosto scorso. La morte di un grande intellettuale è sempre un evento pieno di dolore e di nostalgia, nel segno della perdita di un valore enorme – perché la cultura è sempre una ricchezza incarnata, umanissima e quindi anche fragile, fallibile, mortale. Eppure ciò risveglia anche la fedeltà all’insegnamento e al metodo di lavoro – che in questo caso è stato talmente serio da diventare una vera e propria etica di vita oltreché di scrittura di colei che è stata maestra di almeno due generazioni di letterati e critici.
Nata ad Alessandria nel 1920, studiosa di filologia e letterature romanze, si dedica ben presto alla lingua ed alla cultura portoghese. Per Luciana Stegagno studiare una lingua significò entrare nella storia e nell’universo di un paese e di un popolo, quello portoghese, così poco conosciuto da noi eppure importantissimo per la sua vocazione di “porta aperta” dell’Europa sul Nuovo Mondo. Fu lei stessa a raccontarmi con nostalgia della “giovane (e bellissima, dico io) dottoranda” che su una vespa fiammante come la sua chioma, aiutava i colleghi e amici socialisti a portare in Università volantini fuorilegge. Tra gli amici di allora quel Mario Soares che sarà il primo presidente socialista dopo la dittatura. Il percorso dell’affascinante studiosa segue da vicino la vocazione più coraggiosa del paese lusitano, allungato sull’Oceano e rivolto all’Oltre, al Brasile.
Colà Luciana approda ben presto con una seconda laurea honoris causa dell’università di Lisbona seguendo il fascino di un mito: quello di una letteratura che nasce nuovissima in un Nuovo Mondo, reinventando gli stilemi europei in un contesto tropicale. Discepola di Jacobson sul versante linguistico e di Claude Levi Strass in quello antropologico, è straordinario in Luciana Stegagno l’aver coniugato una sterminata erudizione, che le varrà la nomina di Membro dell’Accademia delle Lettere brasiliana, dopo quella portoghese, con la capacità di entrare nel cuore della cultura e del popolo. Nel primo dei nostri
incontri nella sua casa romana catturò subito la mia curiosità raccontandomi di quando fu rapita e tenuta in ostaggio da un gruppo rivoluzionario brasiliano negli anni ’60… Non si trattava di esotismo o di allure “radical chic” ma di una ricerca colta e apionata attorno al “senso dell’altro”.
Qui la sua voce riflette poeticamente su tale ricerca durata una vita
“Sono tornata su questa spiaggia in riva al Pacifico inseguendo ricordi che non mi appartengono. Tutto è come allora. La scogliera bianca a picco sul mare, ocrata negli strati obliqui, calcinata di bianco sotto la macchia avara dei ligustri. Di fronte, appena accennate nel grigiazzurro dell’Oceano, le isole del Canale: San Miguel, Santa Rosa, Santa Cruz, Anacapa, tartarughe gigantesca, cordigliera affiorante di un continente sommerso. La California di Santa Barbara, la California di Jorge de Sena. Un paradiso terrestre con la serena immunità del primo locus amoenus, dove l’uomo era nudo e innocente: ma di una innocenza chiusa, levigata, indecifrabile. Stride nel terso un volo di gabbiani mentre ragazzi in tuta di gomma nera assecondano in silenzio, intenti, il ritmo ricorrente dell’onda nel gioco nuovo del surf (e surf vuol dire spuma e risacca, e frangere i marosi, e scivolare sull’onda). Ricordi che non mi appartengono ma che cerco risvegliare nel mio presente. Retroterra nelle spiagge, osservo l’ampia valle verde dove accanto alla ginestra e alla lavanda del deserto fioriscono l’agave bianca e l’acacia dolce, il ginepro e il sicomoro. Ma qui a Santa Barbara, dove i grandi jaracandà spalancano improvvisi ombrelli violetti nel cielo senza nuvole, giunge solo il salmastro della Riviera. Sempre l’America ad imitare l’Europa. Chi è l’Altro? Come si assimila o si differenzia dall’uno che io sono? Tanto diversa quest’angustia cognitiva, questa fame dell’Altro, dal nazionale “ponte di tedio” che unisce l’io al suo altro:
Io non sono né io né l’Altro
Sono qualcosa d’intermedio
Pilastro del ponte di tedio
Che va da me all’altro
Poi il ritorno in Italia, come docente di letteratura portoghese a Roma, l’amicizia con Murilo Mendes, ultimo grande epigono del modernismo ospite- esule nella città eterna.
Luciana raccontava benissimo e con evidente piacere delle serate e cene amichevoli nelle quali gli invitati erano Ungaretti, Chico Buarque e Vinicius de Moraes, Murilo Mendes, Italo Calvino…. Uscivo da quei ricordi con l’impressione di aver visitato non una sola persona ma una città intera, di aver aperto quel “baule pieno di gente”, a cui Fernando Pessoa paragonava la propria arte. A Firenze ebbi l’onore di conoscere attraverso Luciana il premio Nobel Josè Saramago, del quale è stata tramite e traduttrice in Italia. Ma il rapporto con Luciana è diventato ben presto un rapporto di amicizia e di reciprocità perché è toccato anche a me di poterle fare un inaspettato dono: farle incontrare un poeta ahimè scomparso e totalmente sconosciuto, del quale capirà ben presto il valore, fino ad accoglierlo nell’ Antologia della Poesia Portoghese e Brasiliana edita da Repubblica nel 2004. Si tratta di Heleno Oliveira, poeta e focolarino:
“Un poeta che finora non era entrato nel canone di nessuna letteratura (…) il grido di Heleno ‘Ah se potessi rinascere ancora più negro della negra negrissima Africa’ suggella questo nostro itinerario accidentato ma affascinante in una poesia diversa come quella del Brasile, irta di urti fra sensi e suoni che nella musica e nella danza trovano ancora il loro più segreto sottofondo” (dall’introduzione all’Antologia della poesia portoghese e brasiliana, La biblioteca di Repubblica, 2004).
Poi l’amicizia si è approfondita, piano piano l’ammirazione ha lasciato in me il posto alla tenerezza ed alla consapevolezza di essere parte di un legame e di una esperienza che adesso in Luciana evocava una misteriosa eppur chiarissima riscoperta della dimensione religiosa. Oltre ciò un amoroso e reciproco pudore di parola, a proteggere una Presenza ben più importante.
La verità non c’è
Perché c’è solo l’interpretazione
Non c’è il bello ma il gusto
E la poesia più bella
È quella
Che ci ha dato
Il quoziente maggiore d’informazione
Siamo soli nel caos
Senza leggi e modelli
Nostalgia di un dio
Oltre la nostra idea di dio
Nostalgia di un amore
Oltre la nostra esperienza dell’amore
Nostalgia di cantare in coro
La canzone
Da trasmettere ai figli
Luciana Stegagno Picchio
Ti porto a braccetto
Nel corridoio della tua casa romana
- Verrete sì, a primavera in Liguria?
Tra quadri del seicento –li voleva lui, gli piacevano tanto! –
Nei aggi liberi dai libri.
- Incontrarla è come entrare in una città -
Dicevano i miei amici
E per le strade nelle stanze
Apparivano Calvino Jacobson Levi Strass,
Si erano fermati Ungaretti Murilo Vinicius…
Che cosa volevi, Luciana
Girovagando da una stanza all’altra,
comunque sorridendo e afferrandoti al mio braccio.
Poi ho capito:
da me da noi
vuoi solo essere accompagnata fuori
Da quel labirinto di parole
Che a me piaceva tanto
Giovanni Avogadri
La kenosi del Verbo e la luce bianca di Creta
Interrogazioni e risposte poetiche sulla croce e la resurrezione di fronte al crocifisso di Pietro Tacca – restaurato ed ora restituito alla chiesa di Settignano
Ho accolto con gioia l’invito dei nostri amici a rivolgere a voi, a me stesso, alcuni spunti di riflessione, alcune risonanze poetiche e non in quello che, me ne rendo conto ora, prende la fisionomia di un compito paradossale: parlare della Croce a partire da un crocifisso che è una opera d’arte, è parlare di uno dei simboli centrali dell’uomo occidentale, per cui all’inizio c’è sempre l’entusiasmo di chi sente queste testimonianze d’arte e di cultura come parte della propria storia, della propria vita.
Perciò, assieme a Pasolini mi verrebbe da dire:
Io sono una forza del ato
Solo nella tradizione è il mio amore,
vengo dai ruderi, dalle chiese
dalle pale d’altare dai borghi
dimenticati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli…
Se siamo qui stasera credo che ognuno di noi può dire un po’ la stessa cosa, eppure, seguendo la riflessione di Pasolini e la realtà di questi ultimi decenni, possiamo anche dire che il mondo che era la tradizione, il mondo della pietas cristiana è come svanito, dissolto in quel modo impercettibile ma non meno definitivo che Pasolini definiva il disastro antropologico, la sostituzione della pietas cristiana con l’edonè consumista.
Come fare, allora, a legare quel ato straordinario all’oggi, senza “barare”, senza fare dell’estetismo sterile?
Ricordate il film la Ricotta? Orson Welles interpretava un regista innamorato della cultura, dei classici, un alter ego di Pasolini che tenta inutilmente di ripetere sul set la crocefissione, disponendo gli attori in una improbabile sacra rappresentazione, cercando di ripetere esattamente ora la deposizione del Pontormo (quella di S. Felicita), ora quella del Rosso Fiorentino.
Ma nelle pause le comparse vestite da angeli ballavano il twist.
Infatti La Ricotta venne condannata per oltraggio alla religione, ma già allora uomini di fede e di pensiero capirono che in quel film (del ’63!) c’era espressa senza mezzi termini la domanda che oggi tutta la chiesa – il Papa stesso – ripetono alla cristianità ed al mondo:
Come dire il Crocifisso/Risorto all’uomo di oggi?
E ancora:
Come si può dire la croce dopo Auschwitz? Gli occhi che hanno visto Auschwitz non possono più contemplare Dio, dice Elie Wiesel; L’uomo moderno sembra non riuscire più a vedere nel Crocifisso la risposta ai dolori dell’umanità, la fede ci dice che “Dio è morto per i nostri peccati”, ma per il maggiore dei Karamazov è proprio la sofferenza degli innocenti che lo spinge a voler restituire il biglietto per la resurrezione.
Per altri, come Elie Wiesel che ad Auschwitz c’è stato, di fronte a quel bambino impiccato troppo magro per morire subito, alla domanda di un vecchio ebreo, “dov’è Dio?”, fa rispondere al suo protagonista nel romanzo La notte: -“E’ lì, che agonizza su quella forca”.
Proprio negli anni tra il ’30 ed il ’40 da più voci si fa strada una nuova teologia della croce, che vede nell’abbassamento del Cristo non solo e non tanto la punizione, il giudizio per i peccati del mondo ma la vicinanza amorosa, salvifica di Dio per ogni uomo: Simone Weil, Dietrich Bohnhoffer, Chiara Lubich, H.U. Von Balthasar, Romano Guardini. Proprio dal culmine dell’abbassamento nell’abisso del male, della violenza, del demonismo dei totalitarismi della seconda guerra mondiale emerge una nuova comprensione del mistero del Crocefisso, dell’Abbandonato: solo il Verbo poteva andare così lontano da Dio per raggiungere l’uomo là dove si era cacciato, solo Dio può attraversare la distanza infinita che lo separa dall’uomo.
Dio che grida L’abbandono di Dio: ”Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato”, Il salmo 22 sulla bocca del Verbo che ha creato tutte le cose, che sconcertante paradosso!
Ma sentiamolo tale paradosso con le parole – straordinarie, poetiche e filosofiche oltreché teologiche - di H.U.Von Balthasar, figura centrale di teologo del nostro tempo:
“Quel Logos in cui tutto nel cielo e sulla terra è raccolto e possiede la sua verità, cade Egli stesso nel buio…Nell’assenza di ogni rapporto col Padre, che solo sostiene ogni verità e perciò in un nascondimento che è proprio l’opposto dello svelamento della verità dell’Essere…La brocca della Parola è vuota, perché è sigillata la fonte in cielo, bocca che parla, il Padre. Il Padre si è sottratto. E le parole dell’abbandono, gridate nel buio, sono come acqua ferma..
L’interrogativo è rimasto l’unico modo di parlare.
…Il forte grido. E’ la parola che non è più parola, che perciò non potrà neppure essere intesa né spiegata come parola. E’ la realtà “indicibile”…che è infinitamente al di là di ciò che può essere espresso con parole articolate nel mondo creato.
E’ “sotto-parola”…ciò che vien scelto dalla potenza del cielo per diventare portatore della sopra-parola eterna…
L’inarticolato grido della croce di Gesù non è il rinnegamento dell’articolata proclamazione ai discepoli ed al popolo, ma piuttosto il fine di tutte quelle articolazioni…che parla con la massima forza là dove non è più possibile dire alcunché di articolato”.
La lontananza da Dio allora, che sembra costituire il clima nel quale vive il nostro tempo, può essere vista come il luogo dell’incontro con Dio, con un Dio spogliato dalle immagini di potenza che l’uomo gli poteva attribuire: siamo forse all’alba di una comprensione di Dio tutta nuova?
Non siamo qui a fare teologia o filosofia, ma è questa una dimensione esistenziale, concreta che credo vicina a ciascuno di noi. A testimonianza di questo, volevo leggervi un frammento di diario di un amico, un cristiano, un poeta brasiliano che è stato mio amico, amico di alcuni che vedo presenti stasera, Heleno Oliveira.
Lo sfondo di questa confidenza che Heleno ci farà attraverso la mia voce è Venezia, uno dei luoghi al mondo dove più risplende la “gloria del visibile”, la bellezza terrestre.
Questa città, “lirica e romantica” per eccellenza è stata paradossalmente e precisamente luogo di una esperienza di abbandono, di abbassamento che, illuminata dalla luce dell’Abbandono di Cristo vissuto coraggiosamente diviene esperienza di una luce di Dio misteriosa, penetrante proprio perché debole, fondata sul limite scelto e amato, sul vissuto di un uomo qualunque che vive e soffre l’atmosfera asfissiante del consumismo di fine secolo – una atmosfera che la bellezza di Venezia proprio non riesce a redimere.
9.4.’94
Siccome la notte attraversa Venezia
e sono la memoria del crimine e desidero fughe e oasi
e sono lontano da Te come l’acqua della laguna, crocefissa,
il volto rotto, il vento fa brillare i suoi occhi di pianto;
siccome le Tue parole sembrano opache come certi libri di oggi
e la Tua sposa triste, triste come il Bel Paese smemorato,
faccio fatica a dire, il dire é nulla di vecchio sapore,
il suono quasi non é suono, sonno e sogno,
e sono solo un depresso appeso ai fili di questo olocausto
che i tre canali mi hanno inflitto,
fitto come il nulla senza sacro, pathos, aletheia,
senza;
siccome la notte non é vera, é soltanto notte buia
e non vedo la resurrezione che attende la poesia di Luzi
e l’urlo - un’eco del Tuo - di Pier Paolo
non mi resta che mangiare il così detto panino,
fuggire al pane che Santa Maria dei Frari serba.
Ah, che fatica dimenticare e semplicemente fare,
fare come adesso che scrivo senza angeli e zefiro,
fare come faceva Marina dall’alba fino alla morte,
fare come hai fatto Tu - ma Tu eri Dio - “Padre,
non la mia ma la Tua sia fatta”...
Fatta da chi? Da me in questa infinita quotidianità
dove non si alza il grido perché il grido suppone grandezza
e sono grande di meschinità?
Dal mio fondo lago, “mangue” putrefatto,
senza il profumo del mare ne l’abbraccio dei fiumi di Recife,
il dire é dare solo me,
me e tanti uguali a me
che Ti aspettano in una calle nuda.
Tu mi dirai come in certi libri di santi:
“Sono caduto ancora più in basso”...
Ed io, senza sentimento, Ti seguirò.
Da testi come questi che abbiamo letto, credo che emergano tanti interrogativi, e sarebbe bello poterne dialogare. Personalmente devo dire che l’interrogativo che emerge con maggiore forza suona a questo punto così: la croce, il senso dell’abbandono, dell’orfanezza, della “gettatezza” della nostra esistenza lo conosciamo tutti, chiediamoci piuttosto: come parlare della Resurrezione?
Ancora, assieme ad C.G. Jung mi chiedo:
Perché dopo 2000 anni di cristianesimo nessuno si sente “redento”?
Jung continuava dicendo che la croce è rimasto l’ultimo simbolo cristiano in grado di parlare all’uomo di oggi, e va bene, l’abbiamo capito… Ma la Resurrezione?
Possibile che la luce della fede sia rivolta solo verso la morte e non verso la vita, verso la nostra dimensione terrestre? Dobbiamo con ciò allora dare ragione a Nietzsche, che chiamava la croce “l’albero più funesto”, proprio perché aveva abituato gli uomini a dimenticare il terrestre? Per quanto tempo poi la croce è stata usata come giustificazione, esplicita o implicita della condizione di povertà degli oppressi, degli umiliati e offesi, dei dannati della terra, pura e semplice sopportazione in vista di un regno dei cieli? C’è insomma nella croce un messaggio di liberazione reale che trasformi la religione da “oppio dei popoli” in fattore di trasformazione positivo ed effettivo della vita?
Qualche anno fa – attraverso il mio amico poeta, Heleno - ho conosciuto colei che forse è la più grande poetessa portoghese, Sophia de Mello Breyner Andresen. Lei mi aveva invitato nella sua casa di Lisbona, vicino al Castello di San Jorge, dove ascoltando in lontananza una voce di fado – abbiamo trascorso una notte interminabile, durante la quale abbiamo conversato di poesia, di luce, di Grecia e di cristianesimo e del nostro comune amico Heleno, da poco
improvvisamente scomparso. Era il 1996.
Ad un certo punto Le ho chiesto:
“Sophia, ma dove vivi tu, qual è il luogo in cui nasce la tua poesia”?
Sophia si è fermata un attimo, aspirando con grazia e con forza un’ennesima boccata di fumo e mi ha risposto che per lei il mondo ha un centro, e questo centro è Creta, in Grecia, il luogo dove gli dèi vivono nello splendore del reale.
Poi ha taciuto ancora una volta ed ha aggiunto che il nostro comune amico, Heleno, le aveva fatto capire qualcosa della sua propria poesia che lei stessa non aveva mai capito: nel cuore di quel centro del mondo che è la luce di Creta è stata innalzata e confitta la croce, è quello il aggio che permette all’uomo di riappropriarsi di tutta la gloria del reale, di guardare al mondo di fronte, facendo così della terra, di nuovo, il “regno dell’uomo”.
Ma ascoltiamo le parole di Sophia in questo poema straordinario:
Risorgeremo
Risorgeremo ancora sotto le mura di Cnosso
E a Delfi centro del mondo
Risorgeremo ancora nella dura luce di Creta.
Risorgeremo là dove le parole
sono il nome delle cose
e dove i contorni sono chiari e vivi
nell’acuta luce di Creta.
Risorgeremo là dove pietra stella e tempo
Sono il regno dell’uomo
Risorgeremo per guardare alla terra di fronte
Nella luce tersa di Creta.
Conviene dunque rendere chiaro il cuore dell’uomo
Ed ergere la nera esattezza della croce
Nella luce bianca di Creta
Heleno poeta della kenosi, Sophia tutta greca e cristiana, poetessa della luce bianca di Creta. E’ quella la luce che permette di vedere i colori della resurrezione, i colori paradossali di Piero della sca, di Pontormo e anche dei poeti e i pittori che hanno attraversato la nostra epoca, quella della morte della bellezza.
Una testimonianza del mio amico Michel Pochet, pittore contemporaneo, con le parole del quale vorrei concludere:
A volte nell’arte contemporanea la bellezza è ridotta ad un grido inarticolato, ma così si esprime nel modo più totale. Dà a noi il suo Spirito. Sembra morta, seppellita sotto la pietra del brutto. Ma il terzo giorno la tomba è vuota. Qualcuno ci dice che è risorta e che ci aspetta.
Cammina con noi. Ci parla. Il cuore ci arde in petto. Si fa tardi. La fermiamo a cena, ma gli occhi si aprono nel momento che sparisce. La bellezza risorta non appare mai: sparisce, si nasconde nell'anonimato dell'uomo qualunque, nel banale, nel quotidiano. Il sole tramonta, lasciando posto alla luna, Maria, riflesso della bellezza risorta, sempre presente lì dove la bellezza è sparita, per guidarci a lei.
La bellezza è sulla riva del lago, irriconoscibile. Un occhio puro l'intuisce e ci apre gli occhi. Ci buttiamo nell'acqua, e la bellezza nutre la nostra mente e i nostri sensi, col pane cotto sulla pietra calda. La bellezza salita con noi sulla
montagna è elevato in alto sotto i nostri occhi e una nube la sottrae al nostro sguardo.
E poiché noi stiamo fissando il cielo mentre ella se ne va, ecco due: «Perché state a guardare il cielo? Questa Bellezza, che è stata di tra voi assunta fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l'avete vista andare in cielo». E noi, sulle vie del mondo, ci ricordiamo le sue parole di congedo: Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine dell'età presente.
Settignano 1998
Poesia e politica: “In direzione ostinata e contraria”
Perché chiedere proprio ai poeti di dirci qualcosa della politica, della partecipazione?
Occhio, che è pochissimo raccomandabile frequentare i poeti e chiedere loro di rispondere a delle domande, come minino vanno fuori tema, di solito mescolano tra loro cose che non stanno insieme, o almeno sembra…
Però in tal modo finiscono per dire delle cose importantissime, che sono tali perché nessun altro è in grado di dirle, e non solo per il modo, ma proprio per quello che dicono essi sono imprescindibili.
Lo diciamo subito: armatevi di pazienza e di ascolto, un ascolto attivo, come l’ascolto che prestiamo, chesso’, ad un bambino piccolo quando sta giocando e quando parla con noi di qualcosa.. Non è capitato almeno una volta anche a voi di mettervi a seguire il gioco o i discorsi di un bambino quando è in vena creativa? “Ma dove vuole andare a parare”?
E così allora lo segui, entri nel suo mondo vedi le cose con i suoi occhi, e quando il gioco è finito le cose non sembrano più le stesse.
Permettetemi una citazione – solo una – tanto per cominciare
“Dopo una buona poesia il mondo non è più lo stesso”
Ecco quindi un primo motivo per ascoltare i poeti sulla politica: - stavolta questa è una affermazione apodittica e definitoria-: anche quando parla di cammelli e di comete, di parmigiano e di zingari, la vera poesia è sempre politica, anzi è sempre rivoluzionaria, perché cambia una cosa che tutti usiamo quotidianamente, una cosa scontata e che invece non lo è, vale a dire il linguaggio.
Ma oltre alla sua essenza di attività centrata sul linguaggio, la poesia e poeti parlano di cose, di persone, di come le cose e le persone si incontrano e si scontrano, parlano quindi di politica.
Una prima questione, sia politica che poetica: la maggioranza e la minoranza, essere parte dei più, essere parte dei meno, sentirsi (che è diverso da essere) dalla parte della ragione, sentirsi (ed essere) dalla parte del torto.
Sento che si avvicina un’altra citazione imperdibile, di Brecht, un poeta politico sempre e comunque:
”Ci siamo messi dalla parte del torto perché tutti gli altri posti erano finiti”
Quindi se un poeta decide di parlare della maggioranza finisce che si mette dalla parte di quello immense minoranze che popolano il mondo.
Già, com’è il mondo visto dalla parte di chi è minoranza? Non è essenziale essere negri o ebrei o comunisti (tanto per citare alcune minoranze stereotipate) ma anche ognuno di noi nella vita si è trovato ad essere minoranza, si è trovato
ad assaporare il gusto di essere “pecora nera”, la sensazione di non potersi spiegare ma solo vedere le cose dalla parte sbagliata della strada e sapere che nessuno potrà sostituire questo gusto drammatico e aspro di vedere le cose in modo diverso, dal punto di vista di chi si trova “in direzione ostinata e contraria”
LA MAGGIORANZA STA
Alta sui naufragi dai belvedere delle torri
china e distante sugli elementi del disastro
tra le cose che accadono
al di sopra delle parole
celebrative del nulla lungo un facile vento di sazietà,
di impunità.
Sullo scandalo metallico di armi in uso e disuso
a guidare la colonna di dolore e di fumo
che lascia le infinite battaglie al calar della sera
LA MAGGIORANZA STA
recitando un rosario di ambizioni meschine
di millenarie paure di inesauribili astuzie;
coltivando tranquilla l'orribile varietà delle proprie superbie
LA MAGGIORANZA STA
come una malattia,
come una sfortuna,
come una anestesia,
come una abitudine.
Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria
col suo marchio speciale di speciale disperazione
tra il vomito dei respinti muove gli ultimi i
per consegnare alla morte una goccia di splendore
di umanità,
di verità.
Ricorda, Signore
questi servi disobbedienti
alle leggi del branco
non dimenticare il loro volto
che dopo tanto sbandare
è appena giusto che la fortuna li aiuti,
come una anomalia,
come una distrazione,
come un dolore.
Quindi essere “in direzione ostinata e contraria”.
De André era anarchico perché era in direzione ostinata e contraria oppure era in direzione ostinata e contraria perché era anarchico? Gli anarchici, questi personaggi misteriosi che vengono nominati – e messi in galera – appena le cose si mettono male, quando non si sa a chi dare la colpa di un attentato, di uno scatto di violenza, di un problema di ordine pubblico, ecco la soluzione “Sono stati gli anarchici insurrezionalisti”. Genova 2001 è stata solo una delle ultime, eclatanti occasioni nelle quali questo fantasma ha fatto comodo, ma prima c’è stato Pietro Valpreda, incarcerato ingiustamente per anni, Pinelli che vola dalla finestra della Questura di Milano, Sacco e Vanzetti anarchici e per di più immigrati italiani negli Stati Uniti– quindi razza inferiore, non c’era dubbio: il problema erano loro e tutti coloro che ho nominato erano innocenti.
Sì, insomma, come gli ebrei, i marrani del medioevo l’anarchico diventa facilissimamente capro espiatorio.
Perchè? Non sono mai stato anarchico e mi sono avvicinato al loro pensiero in età matura, spinto dalla curiosità di capire come mai destra e sinistra possono dividersi su tante cose ma su una sono sempre d’accordo: l’anarchico è pericoloso. Perché? Perché l’anarchico entra in pieno in uno dei temi fondamentali della politica moderna, ovvero il legame – che per la modernità è necessario – tra potere e violenza. La posizione anarchica ci dice una cosa estremamente scomoda ma fondamentale: ogni potere è basato sulla violenza. E l’anarchico agisce di conseguenza: se è autentico e conseguente decide di restituire al potere – e alle maggioranze che lo subiscono e lo accettano – una parte della violenza che il potere – lo stato - quotidianamente ci impone. Non ho alcuna intenzione di santificare chi ha ucciso Re e primi ministri (come hanno fatto gli anarchici di Carrara erigendo una statua all’uccisore di Umberto primo) ma è la questione del rapporto tra potere e violenza che mi interessa e ci mette nel cuore del dilemma che ancora oggi è al centro oscuro della nostra convivenza: quanta dose di violenza legittima da parte dello stato e delle maggioranze siamo disposti a sopportare per vivere in società? Quanta violenza siamo disposti ad accettare per “esportare la democrazia in un altro paese”?
Nel quarto secolo dopo Cristo, in un’opera lontanissima da noi, S. Agostino affronta la stessa questione in questo modo:
“- Senza giustizia, che cosa sarebbero in realtà i regni, se non bande di ladroni? E che cosa le bande di ladroni, se non piccoli regni? Anche una banda di ladroni è, infatti, un'associazione di uomini, nella quale c'è un capo che comanda, nella quale è riconosciuto un patto sociale e la divisione del bottino è regolata secondo convenzioni primieramente accordate. Se questa associazione di malfattori cresce fino al punto da occupare un paese e stabilisce in esso la sua propria sede, essa sottomette popoli e città e si arroga apertamente il titolo di regno, titolo che le è assegnato non dalla rinuncia alla cupidigia, ma dalla conquista dell'impunità.
Intelligente e verace fu, perciò, la risposta data ad Alessandro il Grande da un pirata che era caduto in suo potere. Avendogli chiesto il re per quale
motivo infestasse il mare, con audace libertà, il pirata rispose: «Per lo stesso motivo per cui tu infesti la terra; ma poiché io lo faccio con un piccolo naviglio sono chiamato pirata, perché tu lo fai con una grande flotta, sei chiamato imperatore»".
Chiaro, no? Viene dalla fine dell’epoca antica ma non vi sembra terribilmente attuale?
Perché anche oggi siamo a chiederci: se non è la giustizia “a parole”, che cosa fonda il patto sociale?
Non mi piace usare paroloni, come Giustizia, Bene Comune, parole sacrosante che, essendo spesso state usate per coprire pratiche meno sacrosante, producono nel poeta (che come abbiamo detto lavora con le parole come se fossero vive) una radicale avversione, per cui il poeta evita gli universali e vede le stesse cose a partire dai particolari.
Queste che vengono ora sono le domande di un lettore operaio. Brecht conosceva gli operai che frequentavano il partito socialdemocratico tedesco dopo la prima guerra mondiale e si è immaginato i pensieri di uno di loro leggendo le pagine della storia, le pagine scritte dai potenti con le Maiuscole.
Domande di un lettore operaio
Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì?
Ci sono i nomi dei re, dentro i libri.
Son stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?
Babilonia, distrutta tante volte, chi altrettante la riedificò?
In quali case di Lima lucente d'oro abitavano i costruttori?
Dove andarono, la sera che fu terminata la Grande Muraglia, i muratori?
Roma la grande è piena d'archi di trionfo. Su chi trionfarono i Cesari?
La celebrata Bisanzio aveva solo palazzi per i suoi abitanti?
Anche nella favolosa Atlantide la notte che il mare li inghiotti,
affogavano urlando aiuto ai loro schiavi.
Il giovane Alessandro conquistò l'India. Da solo?
Cesare sconfisse i Galli. Non aveva con sé nemmeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse, quando la flotta gli fu affondata. Nessun altro pianse?
Federico II vinse la guerra dei Sette Anni. Chi, oltre a lui, l'ha vinta?
Una vittoria ogni pagina.
Chi cucinò la cena della vittoria? Ogni dieci anni un grand'uomo. Chi ne pagò le spese?
Quante vicende, tante domande.
Mettere le minuscole dove prima ci stavano le Maiuscole e – al contrario mettere in evidenza quello che gli altri, quasi tutti, non vedono…” potrebbe essere anche questo il compito dei poeti?
Questa m’è venuta così, quasi bene, direi, e la dimostro con un’altra poesia di Brecht, che usa una delle armi più belle, più forti, più divertenti che il linguaggio e la creatività umane mettono nelle mani esperte del poeta: l’IRONIA quella che i poeti borghesi della fine dell’800 fuggivano per cercare il Sublime, ecco che Brecht, in piena ubriacatura nazista, di fronte alla guerra imminente, ad una delle dittature più efferate che la storia ricordi, in principio non si straccia le vesti, non grida non urla ma PRENDE IN GIRO, fa pensare, non parla di rivoluzione ma usa il linguaggio in modo rivoluzionario: ovvero fa vedere a tutti quello che pochi sono in grado di vedere:
Mio fratello aviatore
Avevo un fratello aviatore.
Un giorno, la cartolina.
Fece i bagagli, e via lungo la rotta del sud.
Mio fratello è un conquistatore.
Il popolo nostro ha bisogno di spazio.
E prendersi terre su terre, da noi,
è un vecchio sogno.
E lo spazio che s'è conquistato
sta sulla Sierra di Guadarrama.
È di lunghezza un metro e ottanta,
uno e cinquanta di profondità.
Canto tedesco
Riparlano di grandi tempi: (Anna non piangere)
il droghiere ci farà credito.
Riparlano di onore: (Anna non piangere)
nell'armadio non c'è nulla da rubare.
Riparlano di vincere: (Anna non piangere)
ma, loro, non mi avranno.
E sfilano gli eserciti: (Anna non piangere)
quando ritornerò sarà sotto altre bandiere
L'amore per il Führer
L'amore del popolo per il Fuhrer è molto grande.
Ovunque egli vada
è circondato da gente in uniformi nere
che lo ama al punto da non distogliere l'occhio da lui.
Quando egli siede in un caffè
immediatamente gli si siedono intorno cinque giganti
perché possa godersi un po' di svago.
Le SS specialmente lo amano con tanta ione
che quasi lo invidiano al resto del popolo e
gli stanno addosso, tanto
sono gelose.
E quando una volta con alcuni generali
fece una gita di fine settimana su un incrociatore
e ò un'intera notte solo con loro
scoppiò una rivolta fra le SA e egli dovette
farne fucilare centinaia.
I cannoni sono più necessari del burro
Il detto celebre del generale Göring
«I cannoni sono più importanti del burro»
è giusto nella misura in cui il governo
ha tanto più bisogno di cannoni
quanto meno è il burro di cui dispone
perché ha tanto meno burro
quanto più nemici ha.
2.
Ma per il resto si dovrebbe dire che cannoni sullo stomaco vuoto
non sono cosa da qualsiasi popolo.
Inghiottire solo gas
non deve calmare la sete
e senza mutande di lana
forse il soldato è coraggioso soltanto d'estate.
3·
Quando alle artiglierie finiscono le munizioni agli ufficiali in prima linea è facile
che capitino fori nella nuca.
L’ironia di Brecht è semplicemente straordinaria; durante l’ascesa dell’imbianchino - il geniale soprannome con i quale chiamava il Fürer - non solo con la poesia ma la sua compagnia di attori improvvisava spettacoli brevissimi nei tram, dieci minuti nei quali si parlava del malessere, delle bugie del potere, dieci minuti di libertà per evitare la censura, scendendo subito e perdendosi tra la folla.
La minoranza usa i mezzi che ha a disposizione per dire cose che adesso sono scontate ma che la maggioranza di allora sopportava e dimenticava per sopravvivere.
Ma non c’è solamente ironia, il tono drammatico è anch’esso importante: quando arrivano i momenti importanti i poeti salgono sulla trincea.
Tempi grami per la lirica
Lo so bene: solo chi è felice è amato. La sua voce
la si ascolta volentieri. Il suo volto è bello.
L'albero tutto storto nel cortile addita il suolo cattivo, ma
i anti gli danno dello storpio e hanno ragione.
I battelli verdi e le allegre vele del Sund non vedo. Di tutto
vedo soltanto la rete sdrucita dei pescatori. Perché parlo solo di questo:
della bracciante che a quarant'anni cammina tutta curva? I seni delle ragazze
sono caldi come una volta.
Nel mio canto una rima mi parrebbe quasi un atto protervo.
Dentro di me si affrontano l'entusiasmo per il melo in fiore
e l'orrore per i discorsi dell'imbianchino. Ma solo il secondo impulso
mi spinge alla scrivania.
Arrivò, ovviamente, il tempo dell’esilio, e Brecht si sapeva in buona compagnia, di Dante, Ovidio, di Villon, di tutti coloro che per la poesia furono invisi al potere, e qui alla fine della finzione ironica, fa capolino la tragedia
Visita ai poeti in esilio
Quando in sogno egli entrò nella capanna dei poeti in esilio,
che è prossima a quella
dove i maestri in esilio dimorano -litigi e risate ne udiva venire –
a lui sulla soglia si fece Ovidio e, a mezza voce, gli disse:
«Meglio che tu non ti sieda, ancora. Non sei ancora morto.
Chi sa
se non ritorni in patria, forse?
E senza che altro si muti fuor che tu stesso».
Ma, con uno sguardo di conforto,
si avvicinò Po Chu-I e sorridendo gli disse: «Meritamente fu colpito, chi
nominò l'ingiustizia anche solo una volta».
E il suo amico Tu Fu disse, tranquillo:
«Capisci, l'esilio non è il luogo adatto a dimenticar la superbia».
Ma più terrestre,
e tutto stracci, Villon entrò in mezzo chiedendo:
«La casa dove stai, quante porte ha?»
E Dante lo prese
da parte, per la manica, e gli mormorò: «Quei tuoi versi, amico, son brulicanti di
errori: considera dunque
che tutto è contro di te!» E Voltaire, piu lontano, chiamando: «Bada al soldo, o ti affamano!»
«E mettici qualche burletta! », gridò Heine.
«Ma è inutile! », brontolò Shakespeare: «Quando Re Giacomo venne
anch'io non potei scriver più».
«E se arrivi al processo,
per avvocato prenditi un cialtrone! », raccomandava Euripide,
«perché conosce i buchi nella rete della Legge».
Le risa duravano ancora quando, dall'angolo piu tenebroso,
venne una voce: «O tu, li sanno
a mente quei tuoi versi? E quelli che li sanno
si salveranno dai persecutori?» «Quelli
sono i dimenticati», disse, a bassa voce, Dante:
«Non solo i corpi a loro, anche l'opere furono distrutte».
Cessarono le risa.
Nessuno osava guardare laggiù.
Il nuovo
venuto
era impallidito
Mi pare ora una buona proposta quella di seguire il nostro poeta nell’esilio, precisamente nel “paese della libertà, nel sogno americano (del nord). Che cosa mai dirà un poeta del paese che lo ospita, ne diventerà apionato difensore, se ne innamorerà?
I poeti come Brecht sono brutte creature, pur nella gratitudine dell’accoglienza in California, a Los Angeles, accanto ad altri illustri esiliati, come Thomas Mann, come il suo stesso compagno e amico compositore Kurt Weil, il poeta è ormai abituato a vedere le cose da un altro punto di vista e, quel “paradiso” californiano di benessere diventa per lui occasione di una “meditazione sull’inferno”.
Meditando, mi dicono, sull'inferno
Il fratel mio Shelley
trovò ch'era un luogo pressappoco simile alla città di Londra.
Io che non vivo a Londra,
ma a Los Angeles, trovo, meditando sull'inferno,
che deve ancor più assomigliare a Los Angeles.
Anche all'inferno
ci sono, non ne dubito,
questi giardini lussureggianti con fiori grandi come alberi,
che però apiscono senza indugio
se non si innaffiano con acqua carissima.
E mercati con carrettate di frutta, che però
non ha odore né sapore.
E interminabili file di auto più leggere della loro ombra, più veloci
di stolti pensieri, veicoli luccicanti in cui
gente rosea, che non viene da nessuna parte,
non va da nessuna parte.
E case, costruite per uomini felici,
quindi vuote anche se abitate.
Anche all'inferno le case non sono tutte brutte.
Ma la paura di essere gettati per strada
divora gli abitanti delle ville non meno
di quelli delle baracche.
Ancora più interessante e commovente lo sguardo sugli oggetti umili che ricordano le persone umili, coloro che, nel clima trionfante del dopoguerra nessuno considerava: e per cose come questa che i poeti sono imprescindibili per la convivenza civile e per la politica
L'arnese da pesca
Nella mia stanza, alla parete intonacata
pende una corta canna di bambù, avvolta da un cordone con un gancio di ferro, destinata
a tirare dall'acqua le reti. La canna
è stata comprata da un rigattiere nella «downtown».
Mio figlio me l'ha regalata per il mio compleanno.
È tutta consunta. Nell'acqua salata la ruggine del gancio ha macerato il legaccio
di canapa.
Queste tracce di uso e di lavoro le danno grande dignità. lo
amo pensare che questo arnese da pesca
l'ho avuto in consegna da quei pescatori giapponesi che ora,
dalla costa ovest, vengono cacciati nei lager come stranieri sospetti,
riposto in casa mia
per ricordarmi molti problemi
irrisolti ma non insolubili
dell'umanità.
Forse alcuni di voi penseranno, ma certo , Brecht era comunista, era prevenuto e quindi non poteva che scrivere così. Certo che fosse comunista non c’è bisogno di dirlo, la questione non è essere “ideologici” (è possibile non esserlo?) ma essere onesti intellettualmente e il valore della libertà e della democrazia Brecht non lo va a cercare in teoria, ideologicamente appunto, nella nazione che lo ospitava e che tanto si è presentata (ideologicamente) come “patria della democrazia” ma il poeta lo va a cercare nel singolo, ad esempio nella virtù civile del giudice democratico
A Los Angeles davanti al giudice che esamina coloro che vogliono diventare cittadini degli Stati Uniti
venne anche un oste italiano.
Si era preparato seriamente ma a disagio per la sua ignoranza della nuova lingua
durante l'esame alla domanda: che cosa dice l'ottavo emendamento?
rispose esitando: 1492
Poiché la legge prescrive al richiedente la conoscenza della lingua nazionale,
fu respinto. Ritornato
dopo tre mesi trascorsi in ulteriori studi
ma ancora a disagio per l'ignoranza della nuova lingua, gli posero la domanda: chi fu
il generale che vinse nella guerra civile? La sua risposta fu: 1492. (Con voce alta e cordiale).
Mandato via
di nuovo e ritornato una terza volta,
alla terza domanda: quanti anni dura in carica il presidente? rispose di nuovo: 1492. Orbene
il giudice, che aveva simpatia per l'uomo, capì che non poteva imparare la nuova lingua,
si informò sul modo
come viveva e venne a sapere: con un duro lavoro.
E allora alla quarta seduta il giudice gli pose la domanda:
quando fu scoperta l'America? e in base alla risposta esatta, 1492,
l'uomo ottenne la cittadinanza.
Non vorrei però che restasse in voi l’impressione di un amore eccessivo per questo autore e per sostenere ancora la mia ipotesi, quella cioè della originaria politicità della parola poetica, proviamo ad entrare nel mondo poetico di un’altra autrice, che non ha niente in comune con lo stile di Brecht, una nobildonna di origini svedesi, una poetessa della quale ho avuto l’onore di essere amico, ospite e ospitante, Sophia del Mello Breyner Andresen , senza dubbio la più grande poetessa di lingua portoghese del secolo appena trascorso.
Suo marito ha ato quasi dieci anni in carcere per l’opposizione contro il dittatore Salazar, il quale realmente temeva la poetessa per l’autorevolezza che questa si era conquistata nel mondo, per cui ella visse in quegli anni come prigioniera in patria
Questo è il tempo
della selva più oscura
Perfino l’aria azzurra è diventata sbarre
E la luce del sole è diventata impura
Questa è la notte
Densa degli sciacalli
Greve d’amarezza
Questo è il tempo in cui gli uomini
rinunciano
Quando la patria che abbiamo non l’abbiamo,
perduta per silenzio e per rinuncia
perfino la voce del mare si fa esilio
e la luce intorno a noi è come sbarre
Una sola poesia contro il dittatore ma con parole pesanti come macigni:
il vecchio avvoltoio è saggio
e si liscia le penne gli piace la putredine
e i suoi discorsi
hanno il dono
di rendere le anime più piccole
La riflessione di Sophia sulla poesia e sulla lingua poetica è straordinariamente limpida, chiara evidente come una dimostrazione matematica, forte come il verso di una tragedia,
Con rabbia e furia accuso il demagogo
E il suo capitalismo di parole
Perché bisogna sapere che la parola è sacra,
che da lontano da molto lontano un popolo l’ha portata
e in essa ha posto la sua anima fiduciosa
Da lontano da molto lontano fin dall’inizio
L’uomo ha saputo di sé per mezzo della parola
E ha nominato la pietra il fiore l’acqua
E tutto è emerso perché lui l’ha detto
Con rabbia e furia accuso il demagogo
Promotore di sé all’ombra della parola
E che della parola fa potere e gioco
E trasforma le parole in moneta
Come s’è fatto col grano e con la terra
Poi, il 25 aprile del 1975 - quasi senza vittime – la rivoluzione detta dei garofani: è proprio Sophia de Mello, una poetessa, a dare alla nazione la notizia attraverso la televisione, non un militare né un politico. E con questa terminiamo
RIVOLUZIONE
Come casa pulita
Come suolo spazzato
Come porta aperta
Come puro inizio
Come tempo nuovo
Senza macchia né vizio
Come la voce del mare
Interiore d’un popolo
Come pagina in bianco
Da cui emerge la poesia
Come architettura
Dell’uomo che innalza
La propria abitazione
Giovanni Avogadri, Officina Giovani, 9 novembre 2009
Gratitudine e Militanza
Giovanni Avogadri Gratitudine e Militanza ci offre un ampio ventaglio esegetico, invitandoci ad un percorso interpretativo teso a mettere in luce risvolti poco considerati delle opere, del pensiero e della biografia degli autori indagati, e tale percorso sa proporre spesso un taglio d’indagine che costringe a non accontentarsi del già detto e suggerisce di illuminare da angolazioni diverse un consistente bagaglio letterario e artistico-culturale che, come si può facilmente capire, vuole indurre a riflettere anche sui rivolti sociali e, diciamo così, “morali” ed “educativi” che tali riflessioni comportano, anche nel loro indurci a rimetterci in discussione e in confronto continuo. (Dalla Prefazione)
Note
Nota 1. P.V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Mondadori 1978, p.782
Nota 2. F. Fortini, Saggi italiani, Bari, Di Donato 1974, p.122
Nota 3. G. Barberi Squarotti, Poesia e narrativa del secondo Novecento, Milano Mursia 1971, pp.140, 148
Nota 4. James Hillmann, Senex e Puer, Marsilio Padova, 1978
Nota 5. Al lettore nuovo, prefazione di P.P. Pasolini a Poesie, Milano Garzanti 1970, p.6
Nota 6. J. Hillmann, Saggi su Puer, R.Cortina Milano 1988, p.13
Nota 7. J. Hillmann, ibidem
Nota 8. F. Jesi, Letteratura e Mito, Einaudi, Torino, 1968, p.12
Nota 9. E. Siciliano, Vita di Pasolini, Milano, BUR 1981, pp.151, 152, 153.
Nota 10. J.Hillmann, ibidem, p.113.
Nota 11. P.P.Pasolini, Affabulazione e Pilade, Milano, Garzanti,1977, p.124 .
Nota 12. Cfr, D. Lajolo. “il vizio assurdo”, Milano 1960, p. 241; lettere americane.
Nota 13. C. Pavese, Lettere 1924 – 1944, Einaudi Torino 1966.
Nota 14. F. Jesi, Letteratura e mito, Einaudi
Nota 15. Ibidem
Nota 16. C. Pavese, Feria d’agosto, Torino, 1946, 2002, Giulio Einaudi Editore
Nota 17. Ibidem