ELETTRA IAGO
Gli scacchi
Ovvero: trattato di come la vita non va mai nel verso pianificato
Abel Books
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A Rosanna
Il mio avversario è freddo. Io tremo. Forse non si vede. Trema il mio stomaco, ancora disgustato dal sangue. Trema il polmone sotto il costato ma la cassa toracica ammortizza e sopprime. Il silenzio nella mia testa corrisponde a malapena al silenzio della sala piena, contrariamente al mio cervello in cui ho fatto il vuoto pneumatico. La mia mano è abituata a non tremare. Il cervello riesce ancora a ordinare queste azioni elementari. I miei occhi non tremano, rimbalzando da un quadrato all’altro della scacchiera. A volte la confusione porta a un sovrapporsi di forme tanto da indurre il mio cervello a leggere dai miei occhi immagini assurde come il cavallo che sodomizza la regina. Impossibile: il cavallo ha solo la testa. I pedoni intralciano il traffico del centro medievale pieno di torri. Sto giocando quattro partite: eppure mi ricordo di essere giunto in finale. Chi ho di fronte? Ah, si, il ragazzino di Tokyo, quello freddo. A lui lo stomaco non si rivolta. Lui non ha appena ucciso la sua ex moglie.
Primo capitolo: la gioventù, la gloria e le patate
Ettore studiava nella sua stanza. Aveva appena chiesto a sua madre di fargli un caffè che gli garantisse di superare la crisi delle 15, quella in cui ti addormenti sul libro e su quelle assurde parole: Lithoceras, Quinqueloculina lamarckiana, Mammuthus primigenius. L’esame di Paleontologia era a giorni: doveva memorizzare nomi, luoghi, piani e periodi, ricostruzioni ambientali in rigorosa sequenza temporale. Poteva riuscirci. Sempre che sua madre si sbrigasse con quel caffè. Il telefono emise un suono. “Non ti distrarre” La frase provenne dalla cucina, accompagnata da un dilagante odore di caffeina. Ettore non badò alla raccomandazione materna e lesse il messaggio. Lo attendeva una serata da oblio. L’ennesima portatrice sana di patata aveva ceduto. “Esci anche stasera?” Sua madre insisteva nell’impartire lezioni di vita reggendo un tazzina piena di nero liquido corroborante. Ettore si collegò via PC alla partita che aveva in sospeso con il suo rivale australiano. Aveva ancora qualche ora prima di fare la sua mossa. La notte precedente si era improvvisamente svegliato in preda a un ruminare intenso di pensieri: aprendo gli occhi, non aveva visto il buio semistracciato dalla luce stradale che si infilava a forza tra i pertugi delle persiane ma solo un quadrato suddiviso in 64 caselle bianche e nere. Troppo pigro per alzarsi dalle calde e confortevoli coperte, aveva deciso di immaginare la partita. Erano in una situazione di stallo, lui e l’australiano: la difesa boreale contro
l’attacco australe. Ma Ettore era abituato a trovare sempre una soluzione. Non sopportava di essere inchiodato e impedito nei movimenti e decise di sacrificare qualche pedone – è sempre il proletariato ad avere la peggio – per sfondare la barriera nemica. Aveva trovato la soluzione: dopo aver ucciso un po’ di gente, avrebbe piazzato il cavallo in B2, la torre in C4, scacco al re aborigeno. O perlomeno così lo immaginava. Un re nero, completamente tatuato, che ballava la danza dei Maori, fa niente che fossero neozelandesi gli All Blacks: ogni tanto, lasciava la sua mente vagare e abbuffarsi dell’immaginario collettivo per addobbare i suoi pensieri con le immagini che più lo soddisfacevano. Una voluta distorsione della realtà di cui conosceva la via per tornare indietro. Si immerse di nuovo negli ambienti preistorici sfruttando la sua capacità di funzionare a compartimenti stagni, dimenticando completamente ciò che aveva appena fatto o pensato per dedicarsi a un’altra azione, a un altro pensiero. Riusciva a separare la sua vita di diligente studente di Scienze Geologiche dalla vita di maschio cacciatore privo di scrupoli e poco avvezzo al romanticismo. Da un'altra parte della città viveva Andromaca. Viso schietto, gambe lunghe, sguardo impossibile da frenare. Era una bella giornata di sole; la mattina chiusa ad ascoltare il prof di filosofia della comunicazione meritava un premio. eggiata in centro, anche da sola. Qual è il problema? La sera, il solito pub aspettava lei e le sue amiche. Sull'autobus avrebbe riletto gli appunti, dopo, non ora. eggiata. Non domani. Ora. Si concesse un gelato; gli sguardi maschili che si inchiodavano sulle sue gambe solitarie. Tanto il suo, di sguardo, non si posava.
Questo era importante, non altro. Soddisfatta, dopo qualche vasca sul corso, si diresse senza indugio verso casa. Infilò la chiave nella toppa pensando che tra qualche anno il mondo sarebbe andato incontro a un salto nel buio. Il 2M si avvicinava a grandi i e già informatici esperti, religiosi, spiritualisti e via dicendo si preoccupavano di avvisare i comuni mortali, di redimersi, di vivere intensamente, insomma tutto ciò che si dice quando la fine è incombente. Mavalà! Andromaca, dal basso dei suoi 23 anni non badava a questi insulsi allarmi. Il mondo, lei, i suoi amici avrebbero vissuto e forse anche prosperato. Era ottimista e la accolse un allegro saluto materno. Ricambiò con un bacio lanciato dal corridoio senza fermate intermedie fino al bagno. Superato il problema contingentemente fisiologico, si dedicò alla mamma su cui vide una ruga in più. “Ancora?” chiese un po' preoccupata. “Solo una telefonata rude” disse triste. “Dio, quando finirà? Non gli è bastato riavere la sua casa, cacciarci, toglierci il pane di bocca?” Andromaca gesticolò con fare disperato. “Lo sai come è fatto. Quando il lavoro lo sommerge, deve sfogarsi su qualcuno. E chi meglio di me?” “Non giustificarlo! Ti ha picchiata, non te ne sei andata con un altro. È colpa sua se lo hai lasciato” “Mi ama ed è disperato perché non lo amo più e non voglio perdonarlo” “Dovremmo sporgere denuncia, impedirgli di avvicinarsi a noi” “La sua rabbia crescerebbe a dismisura. Sarebbe capace di rovinare la sua, la mia ma soprattutto la tua vita. Fammi sopportare ancora qualche tempo, finché non finisci gli studi. Sarò il tuo angelo custode”
“E tu? Quando potrai goderti la vita?” l'euforia era svanita. “Piccola, ho quasi cinquant'anni, non posso divertirmi per sempre. Ci sono momenti nella vita in cui ci si deve rimboccare le maniche e affrontare le difficoltà, cercando in tutti i modi di risolverle o di limitare i disastri” “Non è giusto, mamma” l'abbracciò forte, stringendole la sottile vita. Le tanto ammirate gambe di Andromaca erano opera materna. Restarono così per qualche decina di secondi. A cena parlarono del pensiero del prof di filosofia della comunicazione. “Ha ragione” sentenziò Andromaca addentando un boccone di filetto al pepe verde. Sua madre risparmiava sulla quantità, riservando preziose risorse alla qualità “la comunicazione procede secondo meccanismi simili in qualsiasi tipo di relazione. Deve essere biunivoca per esistere. L'emittente e il ricevente devono scambiare i loro ruoli, altrimenti i presupposti per il dialogo vengono meno e diventa un monologo” si fermò un istante, pensierosa. “Più o meno come è successo a te e a papà” La mamma la guardò spostando solo gli occhi, non la testa, tentando di salvarsi dalla candida persecuzione verso cui si avviava la conversazione. “Non è un po' tardi? Non hai appuntamento alle nove con Caterina?” l'orologio formato famiglia piazzato con giganteschi stop sopra la porta della cucina le stava lanciando un'ancora di salvataggio. “E’ vero, ma non pensare di salvarti da questa discussione! La riprenderemo. Non scappi, mammina!” “Devi mangiare la frutta. Hai bisogno di vitamine, sei bianca come un cencio bianco” Andromaca che già aveva sparecchiato, prese il cesto ricolmo di arance e obbedì all'ordine sbucciandone due. “Per te, mamma. Questa è sicuramente la più buona” sbatté gli occhioni come quando, dolce fanciulla, cercava il perdono dopo una birichinata.
La mamma rise. Che piacere vederla così! La lasciò rapidamente le stoviglie nell'apposita macchina per lavarle e andò a prepararsi. Solo mascara e un po' di rossetto, minimo indispensabile per una serata di chiacchiere e un po' di gente. Il citofono emise un gracchio doloroso come se fosse stato punto da uno scorpione. Andromaca baciò sulla guancia sua madre e scese trotterellando le scale progettando di cambiare il suono di quel citofono urlante di terrore. Un grido di pari dolore sconquassò improvvisamente le mura di un appartamento. “Ettore, cosa è successo?” “L'australiano mi ha battuto! Ha eluso il mio attacco e mi ha circondato la regina!” “Accidenti a te e ai tuoi scacchi, Ettore! Ci hai spaventato!” gracchiò la mamma. Ettore, provocante, fece capolino dalla sua stanza a torso nudo, sapendo già quale scena avrebbe avuto di fronte. “Non mi sembra che papà si sia scosso più di tanto” In effetti, papà era sommerso da una serie di fogli di colore rosa – la Gazzetta dello Sport - e da immagini di uomini in mutande che rincorrevano una palla all'interno di una scatola di circa quaranta pollici. Il genitore scostò per un attimo lo sguardo da tutta quella gente e quelle parole nero su rosa e lanciò al proprio figlio una muta frase. “Lo so, papà, tua moglie coinvolge tutti nei suoi sentimenti. Meno male che c'è lei ad averne, qui dentro!” la graffiata finale risultò inattesa al padre di Ettore; comunque non mosse ciglio, evitando in dribbling l'entrata a gamba tesa. Ettore, deluso, cercò complicità di sponda. La mamma rispose con occhio
bovino, rassegnata. Si chiese che cosa si fossero detti in tutti questi anni di silenzi geneticamente connessi a rassegnazione reciproca e se mai avessero avuto un po' di dignità. Gli sembrava una situazione paradossale: perchè erano ancora sposati? Per avere qualcosa di cui lamentarsi con gli amici? Per rallegrare con aneddotistica convincente gli incontri? Per confessare qualche peccato alla fine dei propri giorni? Si guardò allo specchio, autoammiccandosi. “Ci vuole ben altro per potersi pentire dei propri peccati” si disse alzando un sopracciglio beffardo. Salutò cortesemente i suoi diretti avi – almeno la cortesia e l'educazione non mancavano in quella landa desolata in cui crescevano solo piantagioni di gramigna di ipocrisia - e uscì come per andare a caccia grossa, montando sul suo fedele destriero di 200 cc. Raggiunse in un lampo gli amici che avevano arbitrariamente deliberato per un pub di loro conoscenza. “Perchè qui?” chiese Ettore a Giovanni il Donnaiuolo appena sceso dallo scooter. “Ehi, ciao. Buonasera, come stai? I pupi a casa? Crescono?” Giovanni non era ato oltre la mancanza di saluto. “Stai facendo lo spiritoso?” “E tu? Stai prendendo lezione di bon ton dar Piotta? Saluta prima di lamentarti o di inquisire” I due occhieggiarono vicendevolmente. Ettore afferrò che doveva farsi perdonare. Gli strinse il collo con il suo nerboruto braccio destro e lo spinse all'interno. “Ti offro da bere, entriamo, stiamo solo perdendo tempo!”
“Così mi piaci!” Giovanni il Donnaiuolo aveva dismesso le vesti dell'amico offeso per riprendere le proprie: lo schiacciapatate. Davanti al bancone, in attesa dei due boccali di birra scura da mezzo litro, scrutarono coscienziosamente e professionalmente le offerte della serata: 70% universitarie, 20% segretarie, 10% sciampiste. “Il vostro cinismo ha raggiunto livelli stratosferici” Arrigo l'Allenatore era giunto alle loro spalle quatto quatto e li aveva sorpresi nell'esercizio della professione: l'acquisto al dettaglio. “Avete deciso di quagliare stasera?” chiese Arrigo. “Vediamo le evoluzioni” Giovanni era possibilista. “Sei in versione iva?” ribattè Arrigo l'Allenatore, promotore del gioco totale alla olandese. “Questa sera vorrei essere scelto. Mi piazzo qui, con la mia birra e attendo di farmi sciupare da una coraggiosa” Risero contenti e rilassati. Ettore scrutò l'orizzonte, facendo rimbalzare le pupille da un angolo all'altro del locale. “Oggi Federica mi ha scritto un sms. Forse mi raggiunge qui” disse quasi sottovoce. “Dunque, sei prenotato” arguì Giovanni il Donnaiuolo. “Resterò solo a caccia, come al solito. Mi aggirerò per il pub come un lupo affamato e porterò da mangiare ai miei due cuccioli in attesa, questa sera” estrapolò Arrigo l'Allenatore. “A meno che...” Giovanni puntò una direzione. Tutti la seguirono. “A meno che quelle due gambe lassù non si dimostrino ben collegate a un faccino d'angelo” continuò Ettore. “È un quarto d'ora che le guardo e sono arrivato appena al ginocchio, ma quanto
sono lunghe?” “Andiamo!” Giovanni aveva scatenato l'arrembaggio come un corsaro. Avevano scostato di poco i loro torniti sederi dagli sgabelli che udirono un richiamo. Federica, con vocina mansueta e armata di agguerrite amiche – tre in totale, o numero perfetto! -, aveva richiamato Ettore all'ordine e, conseguentemente, gli altri due – tre in totale, o numero perfetto! Il soggetto del richiamo emanò un sospirone sufficientemente artistico – sorriso a 84 denti - e assunse l'espressione 'sei tutta la mia vita, ho occhi solo per te, voglio sposarti e fare dei figli'; la abbracciò e girandola come in un romantico casquet diede un ultimo sguardo a quei due lunghissimi oggetti di ione, ricercandone il volto per imprimerlo nella memoria. In quel momento, Andromaca si voltò e dall’alto vide due occhi che la spiavano da dietro un cespuglio ben pasciuto di capelli femminili. Restò in attesa del distacco onde poter controllare le fattezze del guardante. “Carino” e si voltò di nuovo verso il chiacchiericcio cercando la sua birra piccola chiara, dimenticando l’episodio. Era accompagnato, ergo intoccabile. Quella sera, Andromaca riluceva di un sapore antico e primordiale, odorava di latte materno, emetteva suoni dolci e rassicuranti. Non era stata notata solo da Ettore il Guerriero, Giovanni il Donnaiuolo e Arrigo l'Allenatore. Un mucchietto cresciuto di ormoni seguì la scia plurisensoriale e si fermò al tavolo delle ragazze. “Che hai stasera? Sembrano orsi attirati dal miele” chiese la Cate. Andromaca, incredula, sorrise interrogativamente e lei spazzò l'aria con una mano accompagnata da un “lascia stare” rassegnato.
Non le badò: il ragazzo più magro aveva invaso la sua bolla di privacy e non mollava. Lei gli concesse la sua attenzione dopo attenta valutazione occhiometrica sguardo-bocca-mani-spalle e intellettiva mododiparlarevocabolario-contenuti. La trattativa proseguì per molte settimane. Il desiderio ondeggiava, la convinzione altalenava tra imbarazzi e entusiasmo alle stelle, quello che ti porta a trattenerti con la tua sulla bocca dell'altra, indugiando per ore, incapace di staccarti. La mamma di Andromaca si destreggiava tra consigli, ascolti e tentativi di allontanamento dall'ex marito. Perciò la prima attività non le riusciva al 100%. Dall'altra parte della città, Federica aveva messo una momentanea quanto flebile bandierina sul territorio di Ettore il quale, da bravo guerriero, dopo il 30 e lode in Paleontologia, si era rifatto dell'australiano e si era concesso una serata di caccia grossa con Giovanni il Donnaiuolo e Arrigo l'Allenatore. Più altre donzelle di corte. Incurante delle faccine disperate di Fede in occasione delle uscite a timbro maschilmaschilista. “Se fa solo faccine, rompe poco” cinico e previdente, Arrigo l'Allenatore sentenziò “Le donne si dividono in due categorie: quelle a basso mantenimento e quelle ad alto costo. A quale delle due appartiene Federica?” “Sei generico, Arrigo” Giovanni il Donnaiuolo decise che era l’ora di Filosofia Economica “per inquadrare l’altra metà della mela…” “Se si parla di frutta, ritengo di appartenere a pieno diritto alla categoria delle banane!” I tre scoppiarono a ridere alla manifestazione di triviale cinismo di Ettore il Guerriero. “Per inquadrare l’altra metà della mela, occorre contestualizzare i parametri di riferimento, selezionarli a dovere ed effettuare un’analisi costi-benefici” “Esempio?” fu la giustificata richiesta dell’Allenatore. “Le cerbiattine come Fede sono apparentemente ad alto costo. Cene, cinema,
teatro, ossia tutte le attività comuni sono a carico di chi opera l’analisi, nella fattispecie, il nostro Guerriero. In realtà, ella, oggetto di analisi, gli permette frequenti uscite con gli amici, pone come contropartita solo, e dico solo, l’estrinsecazione della sua lacrimosa femminilità e qualche coccola, anche telefonica, per altro sporadica. Nessun controllo” “Quindi?” chiesero all’unisono i due terzi del gruppo. “L’analisi costi-benefici deve essere fondata su parametri economici ma anche di soddisfazione di bisogni sociali e individuali: in poche parole, se ti lascia libero, pur di restare accanto a te, e tu devi aprire il portafogli di tanto in tanto per ammansirla, cene, rose, e via dicendo, ben venga! Schiacciamento di patata assicurato e potenziale futuro!” “Mi fai quasi schifo, lo sai? Neanche io arrivo a tanto” Arrigo l’Allenatore fece una smorfia di risposta; Ettore, invece, si era zittito. L’Allenatore e il Donnaiuolo attesero l’arrivo del flusso di parole dal cervello alla bocca senza esortarne la fuoriuscita. I pensieri di Ettore guadagnarono l’exit. “Donzelle indipendenti, che non ti fanno pagare la cena, che escono anche per conto loro…” “Sono esseri pericolosi ad alto costo poiché richiedono un impegno mentale elevato e ti inchiodano a un controllo non controllabile, poiché più sottile” concordarono Giovanni il Donnaiuolo e Arrigo l’Allenatore. Ettore rifletteva silente. “Fede sarebbe perciò un buon partito, se vogliamo usare terminologie antiquate?” I due terzi restanti approvarono senza reciproca consultazione. Ettore avviò la sua vita al plurale pur non amando affatto Federica ma, amando tutto ciò che possedeva, il sacrificio richiesto era più che conveniente. Non si degnava neanche di fingere. Fede si rivelò esattamente come Giovanni il Donnaiuolo aveva previsto: era talmente cotta da accontentare qualsiasi sua richiesta o bisogno o desiderio.
Era comunque una brava ragazza di famiglia borghese e di sani principi; Ettore non poteva chiederle alcuna trasgressione, del tipo sesso orgiastico o altre pratiche violente che ne avrebbero molestato la sensibilità. Prima o poi, si diceva senza fretta, sarebbe capitato con una portatrice insana di patata a perdere. Arrigo l’Allenatore era stato chiaro, a questo proposito: le portatrici sane di patata sono donne che non hanno fame e che fanno sesso perché gli va, non perché devono. Le portatrici insane sono le altre: affamate per tanto digiuno o affamate per dovere. “Chi sono le affamate per dovere?” Ettore si ricordò di non aver compreso a perfezione la casistica. “Femmine single che praticano sesso occasionale con chiunque per sentirsi alla pari delle donne accoppiate che lo praticano regolarmente. Alcune estremiste scopano solo per raccontare alle amiche più sfigate le loro mitiche avventure e sfoggiare il loro successo. Se sei più o meno figa, ‘devi’ far sesso frequentemente. Te lo chiede la società, se no non sei più credibile” Che tristezza, pensò Ettore ripensando a questo terribile quadretto. Poi, vide suo padre nella mente. Lo aveva sempre ritenuto “sfigato”: eppure, da giovane, era bello e intelligente. Un buon partito. E aveva sposato sua madre perché era bellissima e ricchissima. No, esclamò tra sé e sé, gli uomini non erano migliori. Lui stesso non lo era. La vita, però, è questa: un bilancio continuo tra pro e contro. Una questione di pura convenienza. La vita è una. Più o meno nello stesso istante, a qualche chilometro e molto traffico di distanza, Andromaca si distraeva dal suo libro di Comunicazione Telematica addentrandosi nella medesima riflessione. Il cielo era troppo azzurro per non meritarsi il premio di goderne lo splendore: sarebbe uscita in bici, con il libro nello zaino, avrebbe raggiunto il parco e
avrebbe steso le sue studiose membra su di uno stuolo di fili d’erba dall’effetto materasso. Forse avrebbe buttato un’ora di studio per attuare quell’impresa ma ne valeva la pena. La vita è una. Il cielo azzurro tardo primaverile, caldo a sufficienza da ritemprare l’anima e non infastidire o interrompere lo studio, e la sua poesia non andavano sprecati. Studiava sull’erba ormai da qualche ora e, contrariamente a ciò che si aspettava, la sua concentrazione non era stata alterata dal paesaggio, del quale godevano solo le sue membra, rilassate, distaccate dal cervello, teso e impegnato. Non voleva far tardi però: la strada del ritorno era lunga e piena di rombanti automobili che, sì come rondine al tetto, tornavano ognuna al proprio focolare dopo una giornata di lavoro. Chiuse il libro dopo aver concluso la lettura del capitolo e si stiracchiò, allungando ancor di più le già lunghe leve. Qualche decina di metri più giù si avvicinava un giovane in calzoncini: faceva footing. “Belle gambe” Pensò tra sé Andromaca. Poi ò al viso che gli parve non sconosciuto. Anche il giovane l’aveva notata e riconosciuta. Infatti, le si avvicinò. “Tu eri al pub con alcune amiche, qualche sera fa” La caratteristica guerrigliera di Ettore si fece sentire. Andromaca, però, si sentiva pacificista e respinse con grazia la veemenza. “Certo che si. Ero io ed ero in un pub con le mie amiche. Ci conosciamo?” “Non ufficialmente. Ho solo memorizzato le tue gambe.” “Originale.” “Scusami, immagino che io non sia il primo a farti questo tipo di complimento.”
Ettore cambiò tattica. “In effetti.” “Rotto il ghiaccio?” si insinuò Ettore. “Ora ti riconosco! Facevi un casquet a una ragazza…mentre guardavi me” “Nulla di serio” aveva di fronte una donna da rassicurare immediatamente per poter accedervi. “Non ti ho chiesto il tuo stato civile” Ribattè Andromaca. È come se lo avessi fatto. “Non mi piace sembrare di primo acchito un cinico schiacciapatate” Risero della buffa espressione e parlarono finchè l’azzurro del cielo si trasformò in qualcosa di più sanguigno. Si congedò da Ettore, senza chiedere né concedere contatti, affidandosi al destino che, ogni tanto, riserva sorprese. Ettore la guardò andar via ammirando il disegno che le sue spettacolari gambe tracciavano nell’aria ruotando i pedali attorno a un asse orizzontale. Andromaca pensò al giovane magro che la aspettava a casa. Avrebbe fatto la doccia da lui. I rapporti, sotto una doccia calda, consolidano oltre ogni dire. Compattano anime fangose informi unendole e ridandogli fattezze umane esteriori, affinché siano in grado di compiere anche separatamente azioni solitarie. L’intimità cresce e subentra la fase delle parole sussurrate e delle promesse assolute che chissà mai se saranno rispettate. La densità del fango è altissima fin quando l’umidità resta elevata, fin quando il sole non lo essiccherà facendo evaporare l’acqua interna se non adeguatamente rimpiazzata. Se si lascia trasformare l’acqua liquida in gas, gli si apre la porta della fuga, la
tessitura del fango non è più in grado di trattenerla, come se piangesse. Poi, il cuore si spacca: migliaia di fessure rompono quel che una volta era uno e la viscosità si estingue e tutto diviene fragile e tutto può distruggersi in pezzi ancor più piccoli, fino a non riconoscerne la faccia iniziale. Gli entusiasmi dei primi giorni impediscono di prevedere la formazione di mud cracks. Non si pensa a evoluzioni negative e a frapporre barriere tra il Bello attuale e tangibile e il Brutto remotamente possibile. Andromaca proseguì in crescendo il suo piccolo amore con il ragazzo magro, infilandoci il massimo delle emozioni che riusciva a trarne e a produrne; Ettore, novello Peter Pan, a qualche chilometro di distanza si divincolava dagli abbracci sempre più avvolgenti di Fede per ritagliarsi lo spazio della vita da cui non voleva sottrarsi. Gli esami universitari scandivano il tempo e accorciavano la vita, accelerando lo scorrere degli anni. Ettore ondeggiava tra la rassegnazione a uno status di consolidamento il cui percorso era ormai stato tracciato da Fede, sprazzi di goliardia adolescenziale con Giovanni il Donnaiuolo e Arrigo l’Allenatore, quando anch’essi riuscivano a scappare dalle grinfie delle donzelle che li avevano accalappiati, gli impegni universitari, la tesi, le prime pubblicazioni scientifiche, le prime lezioni agli studentelli del secondo anno – non era ata inosservata la sua media del 29,8 – e gli scacchi, unico suo vero impegno mentale. Il resto era puro automatismo meccanico. Andromaca aveva intrapreso la strada dell’indipendenza: voleva mantenere la libertà di acquistare libri e studiare, andare a teatro o godersi un fine settimana con il ragazzo magro, senza gravare su sua madre, già oberata da una separazione costosa in termini di risorse mentali e economiche. La situazione, anziché migliorare con l’aiuto di Messer Tempo che tutto colora di pastello e tutto equalizza, era sempre più grave, complice la sinergia tra astio mal digerito e vecchiaia delle cellule paterne. Dopo un’intera giornata di studio, Andromaca decise una sera di preparare una bella cenetta alla mamma: l’inverno richiedeva il calore di un bel brodo e il sapore di manzo bollito con composta di frutta fresca, rimembranza e anticipo dell’estate, speranza di fine letargo.
Ma a tarda sera, la mamma non era ancora tornata. Decise per l’intervento telefonico diretto. Nessuno rispose in ufficio nè al cellulare. Il sospetto di un imprevisto divenne preoccupazione e questa prese la forma di certezza dopo il colloquio con suo padre. La risposta dura, vaga e provocante alimentò il dolore dell’attesa. Poi squillò il telefono. Un cortese infermiere invitò Andromaca a recarsi in ospedale più rapidamente possibile senza spiegazioni. Un dolore acuto tagliò in due parti il cuore della ragazza che si lanciò all’assalto del Pronto Soccorso. La mamma, la sua mamma, aveva la metà destra della faccia tumefatta, di un viola che neanche il più triste dei tramonti riesce a replicare e gonfia come una zampogna di Natale; non si vedeva neanche l’occhio. Suo padre era mancino. Andromaca strinse i pugni nelle tasche, deglutì, cancellò temporaneamente la voglia di vendetta e cercò di sorriderle. Il suo cuore si infranse sul muro di una perdita definitiva. Non fece a tempo a dire una sola parola che due infermiere e una dottoressa la circondarono per cercare la verità. “La convinca lei” Era la dottoressa a parlare; le infermiere annuirono con complice sdegno verso questo stupro facciale. “Questa non è una caduta ma botte. La convinca a denunciare l’aggressore” Andromaca ascoltava le parole delle donne senza digerirle. Era piombata nell’inferno dei grandi suo malgrado. Lo sguardo sgranato vagava tra le grate delle finestre e la barella dove sua madre giaceva con la coscienza stupita.
“Noi dovremo sporgere denuncia. È nostro dovere. Ma se sua madre continua ad affermare che è caduta, l’aggressore rimarrà impunito” La mano di un’infermiera dall’aspetto mansueto e determinato non aveva mai lasciato quella della mamma. Andromaca era ancora incapace di parlare. In uno sprazzo di vitalità materna, la donna dal volto maciullato chiese di restare sola con la sua prole. L’infermiera le lasciò la mano delicatamente, rendendo lieve il distacco. “Se lo denunciassi, si arriverebbe al sangue” Con tono fievole, la mamma la pregava di are la sua decisione. Andromaca si decise a guardare la realtà nella sua parte distrutta di faccia. “Mamma, è ora di farla finita. Devi denunciarlo. Costringerlo a non vederci più, a non avvicinarsi a noi, se necessario” Andromaca si sentì per la prima volta nella sua giovane vita un’adulta determinata. “Capisco” L’unico occhio aperto trasse una lacrima che scese sulla guancia intonsa. Andromaca la raccolse con un indice delicato e il gesto si trasformò in carezza prima che il liquido salato rigasse il viola quaresimale del gonfiore. Debolmente, la mano della mamma salì e si appoggiò sulla mano della figlia. La decisione era presa. Sarebbero stati giorni bui, tristi, duri: forse, insieme, ce l’avrebbero fatta a superarli. In fondo, andò meglio. Per la laurea di Andromaca, dopo 5 mesi da quel terribile accesso di rabbia, il padre ottenne un permesso speciale per avvicinarsi a moglie e figlia e assistere all’evento scortato da un agente. Avevano dovuto cambiare numeri di telefono, affidarsi alle cure di psicologi e medici, perdere una parte della vista, curare le cicatrici interne, combattere per far entrare nella testa cocciuta del padre che qualcosa si era irreparabilmente rotto e che doveva farsene una ragione, sopportare una scorta e un’assistente
sociale che un giudice irreprensibile aveva messo alle loro costole durante gli incontri che erano stati imposti. La determinazione delle due donne insieme aveva creato un sodalizio difficile da scalfire: solo questo convinse il padre a cedere e a recedere dai suoi istinti violenti e che loro non erano sue e che potevano e dovevano vivere di vita propria. Regalò a entrambe un sorriso e una richiesta di perdono, muta, silenziosa e invisibile e scomparve dalle loro vite, trasferito a Bucarest, nella nuova filiale dell’azienda in espansione. Quelli che seguirono furono anni meravigliosi; la mamma rinacque e fiorì di una nuova gioventù. Andromaca iniziò a lavorare, prima con borse di studio universitarie precarie ma altamente prestigiose, poi in un piccolo giornale di provincia. Lo stipendio dei primi tempi non consentiva programmi a lunga scadenza ma concedeva sogni. Il ragazzo magro non aveva problemi: la sua laurea in Legge non era che un atto di successione dell’eredità di suo padre, potente avvocato. La pace raggiunta era un primo traguardo per Andromaca. La pace regnava da sempre incontrastata nella famiglia di Ettore; il giovane sapeva bene che lo stato privo di conflitti in cui vivevano era il risultato di una politica perbenista saldamente ancorata all’ipocrisia e all’apparenza, da cui originava un collante di convenienza. Il prezioso materasso su cui giaceva beato Ettore non poteva essere da nulla scalfito, men che meno da scossoni interni. Così, il ragazzo si trastullava, dopo la laurea a pienissimi voti, tra un viaggio e l’altro in giro per il mondo per congressi e percorsi montani, con l’onnipresente Federica, futura moglie del professore, e con i sempreverdi Giovanni il Donnaiuolo e Arrigo l’Allenatore, restii più di Ettore a raggiungere la fatidica laurea al fine di evitare il fatidico si all’altare. Il destino sembrava ormai scritto per tutti. Ma c’erano gli scacchi.
Un buon giocatore riesce a immaginare e prevedere fino a 3 o 4 mosse dell’avversario. Un ottimo giocatore porta l’avversario a muoversi secondo i piani predisposti, una volta compresa la psicologia. Ettore era un ottimo giocatore il cui destino stava per essere rivoluzionato. “Ho un ritardo” Nel lussuoso ristorante in cui festeggiavano l’ennesimo anniversario di fidanzamento che mai Ettore avrebbe potuto ricordare, le parole uscirono con una potenza di qualche decibel al di sotto dell’udibile. Ettore si produsse in un’espressione interrogativa. “Forse sono incinta” lei parafrasò le sue stesse parole. Lo scacchista dispose mentalmente i pezzi sulla scacchiera immaginaria per prevedere mosse e contromosse. L’unico pezzo da muovere nel modello previsionale risultante, era il Re del sorriso a costo di farsi fare scacco. “Sei contento?” Federica era stupita dalla piega facile che stava prendendo la vicenda. “Sono felice” Rispose sornione Ettore, sperando in cuor suo che fosse un falso allarme. Lei lo premiò con una serata e una notte magica. Il giorno dopo, però, un’immonda perdita falciò la bellezza di quei momenti. Ettore celò il sospiro di sollievo che aveva in corpo. Federica si rattristò e cambiò radicalmente, un orologio incastonato nella mente. “Federica è cambiata” Disse Ettore ai sempreverdi. Qualcuno imputò la colpa al nuovo millennio; il cambio di quel numero, là davanti ad altri 3, doveva far paura a molti. “Le donne hanno un orologio biologico che, suonati i 25, inizia a trillare come una sveglia.”
“Anche io ho una sveglia biologica. Mi sta dicendo di farmele tutte!” la porcata di Ettore scatenò risa generali. Quell'estate decisero di andarsene in viaggio teologico a Rio de Janeiro: volevano vedere il sole sorgere dal Cristo Redentore dopo aver trascorso notti folli tra le braccia di brasiliane accoglienti e dalle terga toste e grandi. L'estate, per Andromaca, fu intensa: riuscì a portare in India sua madre, dopo tanto soffrire. La mamma insistette per viaggiare con un gruppo; due donne da sole non si sa mai che può succedere e Andromaca, che già si vedeva zaino in spalla a camminare per la spiaggia di Goa e tra le mucche sacre a Nuova Delhi, storcendo il naso, accettò. Fu una fortuna; la mamma strinse subito amicizia con un gruppuscolo di cinquantenni toscani allegri tra cui spiccava un sale e pepe niente male dallo sguardo sagace. Al ritorno, avevano già programmato una settimana in Garfagnana. Andromaca potè godersi l'estate più rilassata della sua vita e insieme al ragazzo magro vagarono per spiagge italiote in lungo e in largo, accampandosi qua e là. Ebbe anche il tempo di trascorrere qualche giorno con le amiche di sempre; Cate, eternamente single e disperata non più di tanto, e Genny, lungagnona sempreverde dal sorriso adunco, fuggita dai parenti del fidanzato, l'avevano strappata al ragazzo magro e trascinata in Corsica in un b&b. In autunno, Ettore vinse il concorso da ricercatore in Paleontologia; Andromaca salì di grado nel giornale di provincia, diventando capo redattore della sezione “Cultura e spettacoli”. Ettore era ormai ufficialmente nel ranking mondiale dei migliori scacchisti dell'Universo. Andromaca scriveva articoli sulla comunicazione e progettava spettacoli, mostre e format televisivi. Erano ormai trentenni e il 2M era iniziato. Tutto sembrava andare liscio e programmaticamente in discesa.
Studio, lavoro, matrimonio, figli, stabilità, talvolta destabilizzata, talaltra destabilizzante. Ma non c'è niente di più sbagliato di seguire pedissequamente e rigidamente i programmi. La degradazione, la frana, l'onda d'urto, la deflagrazione e la conseguente distruzione, stavano per arrivare, lente ma inesorabili, come uno sciame sismico che distrugge le sicurezze e le fondamenta dei nostri edifici fisici e mentali usurando o o. La distruzione era nelle loro menti.
Secondo capitolo: il lento schianto
“Capo, seguo questa compagnia da un po'. Mettono in scena performance fantastiche: con musica, danza, arti visive, denunciano corruzione, povertà dilagante, vuoto di valori…” L'entusiasmo di Andromaca era alle stelle: questi artisti erano geniali. Il capo frenò la sua veemenza. “Ne ho sentito parlare” disse abbassando i toni “Non in modo lusinghiero, però. Mi hanno riferito che usano immagini molto violente per...” “Intendono con forza far comprendere la realtà dei fatti!” Andromaca aveva interrotto il suo capo con un eccesso di velocità della sua voglia di emergere e di innovare. Il capo la scrutò severo fino a zittirla. “La compagnia non è ben vista, troppo tagliente, troppo di rottura, troppo all'avanguardia” “Chi è il tuo redattore di punta per la sezione cultura e spettacoli?” Andromaca non si era fatta zittire del tutto. “Sei tu” “Dunque ritieni che colei a cui hai affidato il compito di valutare gli spettacoli e gli eventi a cui dare risalto sia io.” non aveva infilato alcun dubbio sulla frase. “Certo” “Ritieni che sia io la persona più competente in materia.” “Dove vuoi arrivare?” l'uomo appoggiò rassegnato le spalle alla poltrona. “Semplicemente al posto che tu stesso mi hai affidato, affermando che hai assoluta fiducia in me, nella mia cultura e nella mia capacità di critica. Ho accettato l’incarico sulla base della linea che hai impostato e che ho fatto mia.
Suppongo che la mia competenza superi quella delle persone che hanno vedute diverse. Altrimenti ci sarebbero loro al posto mio.” Il capo sorrise paternalisticamente all'ingenuità della ragazza. “Queste persone non si sognano neanche lontanamente di essere al tuo posto, poiché ne occupano uno di...maggiore importanza” La pausa teatrale era pregna di significato. Andromaca non voleva capire e portò sul suo viso un punto interrogativo. “Il Presidente della Provincia mi ha chiamato” Altra pausa inutile poiché priva di reazione. “Cristo, sei dura di comprendonio, oggi?” il capo sbottò alla perseverante ingenuità. Andromaca iniziò a comprendere “E ti ha detto di non pubblicizzare in alcun modo lo spettacolo.” “Ci sei arrivata! Non è il momento, soprattutto dopo Genova. Sembreremmo troppo di parte e i fondi non arriverebbero più. Ora è chiara la situazione?” “Ma è solo teatro” “Anche il Bagaglino è 'solo' teatro. Di dubbia qualità, ma lo è. E dalla parte giusta. Questa compagnia, no, non lo è. Conosci meglio di me il potere dirompente delle parole, visto che ho messo io le tue tenere terga sedute su quella dannata scrivania. Il teatro non è 'solo' teatro. Un libro non è 'solo' un libro. Le forze che possono scatenare, le coscienze che possono rianimare e le persone che possono svegliare sono innumerevoli e sicuramente non quantificabile è l'effetto finale” Lo sfogo era finito. L'uomo guardò fuori dalla finestra il cielo azzurro caldo di fine settembre, evitando di indugiare sulla delusione della sua pupilla. Andromaca si sentiva frustrata e impotente, oltre che divisa tra i suoi principi e le esigenze del giornale.
“Non sperare che la politica cambi. Troppi interessi particolari reciproci tengono su i nostri governanti.” Si guardarono negli occhi, solidali nel digerire la sconfitta. Il capo invitò Andromaca ad andarsene, non dalla stanza, ma dall'Italia. Tornò a casa a piedi; la suddetta digestione era lenta e difficoltosa e due i l’avrebbero sicuramente aiutata. Più camminava, più il boccone amaro tornava su, più le sue intenzioni si facevano chiare. Era un'occasione unica: in quale altro modo poteva esprimere il suo dissenso nei confronti della classe politica appena insediata? Non era un'artista ma sapeva scrivere ed aveva cultura per combattere, anche con l'infimo contributo che poteva dare il suo articolo, per cambiare lo status quo infognato in retorica, chiusura, razzismo, menefreghismo, vacuità di valori di cui sembrava nessuno volesse accorgersi. Si sfogò con il ragazzo magro: di fronte a lui, intimo a lei per pluriennale comunione di anime, pianse. La sua delusione fu grande quando scoprì che una parte della coscienza del ragazzo magro era foderata di sano cinismo e convenzionale opportunismo da avvocato. “Lo capisco” esordì così il ragazzo magro “è in una posizione difficile. Un giornale vive dei finanziamenti del suo editore, sovente collegato con la politica” “Dove mettiamo l'indipendenza dell'informazione?” Andromaca non credeva alle sue orecchie e non trovò di meglio da fare che asciugarsi, leggermente imbarazzata, gli occhi intrisi di lacrime. “Non essere ingenua” il ragazzo magro le inchiodò un'espressione da adulto. “Non vedo perché non dovremmo neanche tentare di tornare ad una società realmente democratica in cui i cittadini possono esprimere liberamente le proprie idee e ricevere informazioni quantomeno veritiere” Andromaca cercò di infilare più dignità possibile in questa frase senza riuscirci.
“Rispetto a cosa? Quando sei stata veramente libera di esprimerti? O ti riferisci al ato? Magari al '68! La rivoluzione giovanile! Cosa ci ha portato? Ti ricordo che gli anni che seguirono furono chiamati 'anni di piombo'. Che al governo c'era la Democrazia Cristiana e Andreotti era il Presidente del Consiglio. Cossiga veniva scritto con il 'k' e non perché fosse un supereroe!” Andromaca non sapeva controbattere: aveva ragione. Tentò una debole difesa delle sue idee, tirando fuori l'Età Classica. Il ragazzo magro le prese le mani nelle sue. “I Romani dell'Impero hanno inventato panem et circenses, do ut des, divide et impera. Hanno inventato i clientes. Pensi che non sapessero gestire menti ribelli?” Il tono giurisprudenziale del ragazzo magro era aspro e Andromaca aveva l’anima tranciata come un tonno in scatola. Era profondamente delusa da colui con il quale aveva condiviso speranze e aspettative ma determinata a portare avanti le sue idee. Una sensazione di pari intensità la soffocava; il timore di perderlo, deludendolo con il suo ingenuo idealismo o, peggio, distruggere ciò che stavano lentamente costruendo. Non le ò nel cervello l'idea che era lui, per primo, che l'aveva delusa. Come se non contasse nel bilancio del loro rapporto, aveva archiviato la sensazione come “impossibile”. “Sposiamoci” Andromaca, distratta nei suoi pensieri sociali, credé di non aver udito bene le parole del ragazzo magro. “E’ da un po' che ci penso. Ti amo, voglio dividere la mia vita con te” Sorrise cercando di abbindolarla benevolmente e di trasformare i mugugni in lacrime di gioia. “Forse, affrontando la vita vera, ti renderai conto che l'idealismo non porta da mangiare. Che i problemi sono altri. Così come le gioie. Vuoi sposarmi?”
Andromaca aveva realizzato per un attimo che queste parole formavano una proposta di matrimonio. Non riuscì ad esserne felice. Sposarsi significava dunque togliersi quelli che in tempi ati venivano definiti “grilli per la testa”? Significava abbandonare le Idee per cui si combatte da giovani per dedicarsi a bollette da pagare, gestire una famiglia, curare l'educazione dei figli, svolgere un lavoro in cui si crede poco ma che serve a sfamare bimbi e garantirgli la palestra, la scuola, l'Università? Per far cosa poi? Perchè loro stessi possano portare avanti delle Idee che abbandoneranno a loro volta appena “entreranno nella vita vera”? Non poteva rispondere tutto ciò a una proposta di matrimonio. Decise di fingere e di mentire al ragazzo magro. Stampò uno dei suoi più bei sorrisi sul viso, strinse da copione le mani del ragazzo magro e con voce flautata e provocante, lanciando ad arte uno sguardo più lussurioso che romantico, onde deviare l'attenzione dalla veridicità di ciò che stava per dire, sussurrò “Ci penserò, ti ringrazio della proposta” Il ragazzo magro, imbambolato, pensò che Andromaca volesse tenerlo sulla corda per un po' e, affascinato dalla femminilità di colei che avrebbe impalmato, la baciò. “Sciogli questa corda, mi stai facendo male, cazzo!” Dall'altra parte della città, in uno scantinato buio e odoroso di fumo e di muffa, Ettore, nudo, era intento a ricoprire le sue papille gustative degli umori di una donna. Le convenienze sociali impongono di soccorrere una persona in difficoltà o dolorante; Ettore, su invito della sua buona educazione, aveva interrotto di malavoglia il suo lavorio e si accingeva a sciogliere i nodi che impedivano alla ragazza, sempre più rabbiosa, di muoversi. Da una limonata in auto dopo una notte brava in giro per locali, di cui entrambi avevano dimenticato l'epilogo, erano ati a sesso selvaggio.
Lo scantinato era il retrobottega del negozio di abbigliamento che l'annodata conduceva con lauti guadagni. Nella pausa postprandiale e fino alla riapertura pomeridiana, se le davano di santa ragione e armeggiavano con i reciproci piaceri conditi da urla e strepiti, tanta era la vivacità dell'amplesso. Lei aveva accettato di farsi legare ma ora era stufa del dolore ai polsi e alle caviglie e voleva liberarsi del legaccio che le impediva di muoversi. Ettore aveva iniziato a districare i non perfettamente navali nodi che aveva inventato in un momento in cui la ragione si spegne a favore dei sensi ma una vocina gli disse no. Si fermò e guardò negli occhi la ragazza. “Ora ti scopo così. Se non ti piace ti prendo a sberle fino a gonfiarti la faccia.” La cattiveria era esplosa in lui. Un lampo di perfidia trafisse la ragazza ma non la spaventò, anzi. Salirono l'eccitazione e la morbosità dell'uno e dell'altra. Gli consentì di possederla così. Fu la prima di tante altre volte. Conclusa la pratica, Ettore si immerse di nuovo nei panni del prof. Salì sulla sua moto e si diresse velocemente verso la Città Universitaria. Avrebbe mostrato un po' di “bestie morte” ai ragazzini del II anno, affascinati dalla Storia del Mondo e da lui. Era molto bravo a spiegare: il suo mentore lo stava allevando come una chioccia con i pulcini e lo aveva già designato suo successore. Ma quello che più interessava Ettore è che a lezione ci sarebbe stata anche quella cerbiattina dai mangianti occhi verdi. Prima o poi me la trombo. Riuscì a sfiorarla sensualmente e ad allungarle il numero di telefono. Previa richiesta, ovviamente. Le studentesse erano intoccabili a meno che non lo chiedessero loro.
La sera, soddisfatto della giornata, rientrò in casa, trovando la sicurezza del solito ipocrita e ben educato quadretto familiare. “Ha telefonato Fede, tesoro” La mamma sfiorò la sua guancia sinistra con un bacio leggero.“Come stai, amore mio?” “Bene” sorrise alla dolcezza di sua madre e dell'appartamento che non voleva abbandonare, sapientemente composto da un amico architetto che aveva provveduto a riempirlo di materiali pregiati e stoffe amabili e che tanto contrastava con la cantina ammuffita del pomeriggio. “Papà?” “E' uscito. Siamo soli, stasera” nessuna emozione traspariva dalla voce materna. “Uscito? Papà? Dove è mai andato il vecchio?” “Porta rispetto a tuo padre, per favore. Una cena di lavoro” “Lo hanno promosso amministratore delegato? Da quando in qua papà fa cene di lavoro?” “Vuoi insinuarmi dubbi?” chiese la mamma sorniona. “Non ho alcun dubbio sulle intenzioni del babbo. Anzi, sono certo che non ti tradirebbe mai. Ma chi se lo prende? A parte te...” “Ribadisco: porta rispetto a tuo padre. Il dirigente ha voluto festeggiare con tutti il compleanno.” “Si candida alle prossime elezioni?” “Come fai a saperlo?” la mamma era incredula. “Ho tirato a indovinare, in realtà. Era facilmente intuibile, comunque. Dai, mamma, fai due più due. Non si è mai filato i suoi funzionari, nonostante lavorino per lui e per il suo solo prestigio. Improvvisamente si sente generoso e affabile. Le elezioni comunali saranno il prossimo anno e lui è dalla parte giusta. Buona fede non credibile“
“Arguto il mio ragazzo.” cambiò discorso “Va bene pollo al forno con le patate?” Ettore sorrise tra sé pensando di averne vista un bel po' oggi di patata. Rispose con un vago ok. “Cosa voleva Fede?” “Parlarti, suppongo. Vederti, incontrarti. Mi ha detto che avevi il cellulare spento” “Stavo scrivendo un articolo nello studio del prof e non volevo rotture” “Fede sarebbe una rottura?” la mamma provocò ad arte il proprio figlio, estrapolando conclusioni. “Sai com'è Fede, ti si accolla al telefono.” “Che linguaggio da strada poco consono al futuro prof” “Perchè non sai come parlano i paleontologi. Ti si drizzerebbero i capelli in testa. Se proprio dovevi farmi un rimbrotto, avresti dovuto contestare l'appropriatezza della parola alla mia età e al mio lignaggio. 'Accollare' è un'espressione in uso tra gli adolescenti” “Reo confesso?” “Reo confesso” “Come conosci quella parola?” “Sono pedofilo” “Non scherzare su queste cose” “Non scherzo. Lo sono” “Ti diseredo” “Non sono più pedofilo” La cena proseguì tra chiacchiere e risate: la presenza del padre, chiuso in
un’impenetrabile torre d'avorio, non favoriva la coltivazione della complicità tra madre e figlio. Complicità che non si era mai realizzata tra uomini, nonostante i tentativi di coinvolgimento reciproco. Neanche le partite di calcetto e la conseguente intimità pedatoria e da doccia avevano limato le asperità del rapporto padre-figlio. Aculei atavici la cui dubbia origine era in superficialità di pregiudizi. Ettore pensava che suo padre fosse un fallito; il padre pensava che Ettore fosse un cretino, nonostante la brillantezza e i successi. Ognuno proiettava nel rapporto le proprie difficoltà e le proprie ambizioni fallite. Ettore rimproverava al padre di non aver saputo rendere felice un fiore di donna; il padre rimproverava a Ettore il suo essere altamente superficiale dalla tendenza alla smodatezza piuttosto che all'introspezione. Non si piacevano. Dopo cena Fede fu liquidata in pochi minuti con la scusa della stanchezza. L'avrebbe portata a cena fuori l'indomani. “Sarà ora che le chiedi di sposarti?” la mamma non si faceva mai gli affari propri ma Ettore trovava la sua curiosità adorabile nel modo in cui la estrinsecava. “Vuoi dei nipotini?” “Vuoi farmi sentire più vecchia di quel che riesce a fare tuo padre?” “Giochiamo a scacchi?” “Sorvola, sorvola, No, sei troppo forte per me” “E' con i grandi e perdendo che si impara a giocare. Ricordi? Me lo hai detto tu.” La mamma era fiera di quel suo ragazzone intelligente, figlio di un amore impossibile, anche se finito in un matrimonio. Ogni tanto le dava l'impressione che una parte di lui fosse oscura, nascosta e morbosa. Gli scacchi, le donne, gli amici, la paleontologia, Federica. Niente era collegato. Ettore manteneva distaccati i suoi mondi, attraversandoli con la disinvoltura di una strada senza traffico. Eppure, il suo andamento era poco lineare. Non altalenante ma ondeggiante si.
Lo guardò con interesse mentre posava la scacchiera sul tavolo basso che separava due morbidi divani su cui, comodi, avrebbero giocato la loro partita. Ecco il quid: Ettore era sempre stato comodo. La sua intelligenza lo aveva portato facilmente lontano; non lo aveva mai visto sudare o affannarsi. La vita gli aveva concesso il successo senza fatica e si era adagiato, tenendosi ben lontano dalle sfide, ritenendole inutili. Forse il bug che solo una madre poteva notare era dovuto a una sorda e muta insoddisfazione. Nessuno aveva mai chiesto a suo figlio una prova di carattere. Per inerzia, lui si era lasciato travolgere dai suoi stessi talenti e condurre, senza muovere un dito, in un paradiso tutto suo. Era giusto così? Come avrebbe affrontato le prime difficoltà? Immersa in questi pensieri, non si accorse che, con 3 mosse, le aveva fatto scacco matto. Il padre di Ettore aveva trascorso una serata infernale. Il capo aveva assordato la tavolata – il compartimento al completo – autoelogiandosi e elargendo consigli per una società migliore. L’uomo, abituato da sempre a tacere ma non con il cervello, riusciva a stento a scansare la domanda che gli risaliva in gola in un ciclo infinito: “migliore rispetto a cosa?” Non si azzardò: alla sua età poteva tranquillamente togliersi tanti sassolini dalle scarpe ma non riusciva a intravederne alcuna convenienza. Tra qualche anno sarebbe andato in pensione, il proprio figlio avrebbe finalmente sgombrato il campo, sposato o all'estero non contava, l'importante era che uscisse da quella casa. A stento riusciva a comprendere la moglie nel suo smodato amore per colui che aveva procreato; era un vero deficiente e di questo doveva solo attribuirsene la colpa. Gli aveva dato tutto, gli aveva aperto porte, portoni, cancelli, gli aveva fornito tutti gli strumenti a sua disposizione. E lui? Si era piantato in un'Università
italiana, a due i da casa, invece di andare a fare sfracelli al MIT. Quel suo amico attendeva Ettore da anni ma non aveva voluto saperne. Troppo attaccato alle comodità della vita che lui stesso gli aveva costruito attorno; troppo accomodato su un trono che sua moglie aveva abbellito con intelligenti dolcezze, senza accorgersi di fargli del male. Forse era un errore comune; i genitori di figli grandi del 2000, i bamboccioni trentenni, erano iperprotettivi, come se da un momento all'altro potesse scoppiare un conflitto nucleare e la bambagia in cui erano vissuti negli ultimi 20 anni potesse cessare senza più bellezza e comodità per nessuno. Infilò silenziosamente la chiave nella toppa; non era tardi, comunque per rispetto dell'eventuale sonno altrui, si mosse con circospezione. “Ciao papi!” Ettore lo apostrofò in modo allegro. Il padre alzò di nascosto un sopracciglio di disappunto che seppellì immediatamente rispondendo “Ciao, che fate ancora svegli?” “Cerco di vincerne almeno una.” la mamma indicò la scacchiera. L'uomo finalmente sorrise; sua moglie era una vera schiappa a scacchi. Ma lui no. Suo figlio, il grande campione che era ormai considerato tra i primi cinquanta al mondo, non lo aveva mai battuto. “Ti piace vincere facilmente. Vuoi provare con me?” il babbo aveva un tono stranamente poco sottomesso che a Ettore piacque e accettò la sfida. La cattiveria del pomeriggio tracimava da un compartimento all'altro; Ettore pensò di aver lasciato aperto qualche rubinetto. “Suppongo vogliate un caffè? Come è andata la cena?” “Si per il caffè. Per ciò che riguarda la cena, gioco a scacchi per dimenticare” “Ehi, sembri furibondo! Hai voglia di rifarti con qualcuno?” Ettore cercava di essere affabile. “Può darsi. Una bella lezioncina ti servirebbe. Ora non riesco a vederti sotto
forma di capro espiatorio, quindi non prenderti meriti o colpe che non ti spettano.” Il padre guardò il proprio figlio, in attesa della reazione alla provocazione. Ettore ricambiò lo sguardo complice, finalmente dopo anni. “Allora, arriva questo caffè, donna? Qui si fanno le ore piccole!” “Porta rispetto a tua madre, microbo” e rivolgendosi alla consorte “Amore, ci porteresti un caffè? Ovviamente, uno a testa” Il padre si sentì improvvisamente bene, al calduccio di una famiglia che, nonostante un figlio superficiale e deficiente, gli dava qualche soddisfazione. “Se vinco io, te ne vai di casa” “Accidenti, vuoi che resti per tanti altri anni, eh?” L’uomo alzò palesemente il sopracciglio, si tolse la giacca, allentò la cravatta e rimboccò le maniche della camicia. Sua moglie si disse che lo amava ancora e capì che l'indomani mattina avrebbe dovuto consolare suo figlio. La mattina dopo, un trillo insistente del telefono svegliò Andromaca. “Tesoro, dormivi?” “Ciao mamma” Andromaca guardò l'orologio; ancora un quarto d'ora e avrebbe suonato la sveglia ufficiale. Ergo, poteva iniziare la giornata “E' successo qualcosa?” “Volevo solo avvertirti che mi fermo fino al weekend in Toscana. Tornerò domenica sera e...mi dispiace, avevamo in programma la cena al thailandese. Prossima settimana?” Andromaca si addolcì al vago imbarazzo di sua madre la quale, in sostanza, le stava chiedendo il permesso di trascorrere fuori casa i prossimi giorni. “Mamma, certo che si, possiamo andare quando vuoi, non è urgente.
L'importante è che tu stia bene. Avevi così fretta di toglierti questo dubbio che mi hai chiamato all'alba?” e cambiando tono “Goditi la vita, ne hai bisogno!” Ancora qualche battuta poi si salutarono. Andromaca ebbe improvvisamente voglia di rivedere suo padre. Lasciò trascorrere qualche ora piena di lavoro, faccende e commissioni da sbrigare. Non avendo più scuse pratiche, si decise a comporre quel numero. “Papà.” con voce fioca, Andromaca si annunciò al telefono. “Piccola mia.” l'uomo non riuscì a dire altro, la voce rotta dal pianto contagiò la figlia. Andromaca iniziò a raccontare per riempire il vuoto del tempo. Il padre, di rimando, non si fece pregare. Aprì le serrande e scatenò la parlantina, disseminando sensi di colpa in ogni frase, scusandosi anche di esistere, cercando di chiudere i cancelli a buoi usciti. Andromaca apprezzò l'umiltà paterna e fece l'errore di smussarne le colpe, lasciando spazio all’attacco paterno contro la rigidità mostrata. Tentò la difesa di una posizione sacrosanta in modo debole, contorto e confuso dall'amore troppo a lungo forzatamente seppellito verso la figura del padre, più ideale che reale. L'uomo si convinse di avere convinto la propria figlia della sua essenza di vittima, più che di carnefice. Andromaca capì e, tagliando corto, interruppe il colloquio. Si fermò a guardare il display del cellulare che gli rimandava la testimonianza di quel che aveva appena fatto. La ragione le apparve improvvisamente ignota. Un uomo di cinquant'anni che maltratta e picchia la propria moglie, la madre di sua figlia, che lascia quest'ultima, abbandonandola a una serie di domande sul perché il mondo è spaventoso e la vita è dura se proprio colui da cui vorresti trarre amore e affetto, ti colpisce con un macigno. Cosa aveva a che fare, ormai, con suo padre? Cosa avevano condiviso con lui se non ferite e sofferenze? Chi era suo padre, aldilà di essere suo padre? Cosa lo legava a lui se non i geni?
Assolse la sua confusione con l'attenuante della stanchezza e dell'eccessivo procrastinarsi di una situazione spiacevole che ti rende avvezzo ad essa fino a trasformarla in una bieca abitudine di sottofondo. Cercò di cambiare abitudine all'istante e il suo primo istinto fu di chiamare il ragazzo magro. Il ricordo di una proposta di matrimonio la fece recedere dai suoi buoni propositi. Prima di vederlo doveva dissipare la nebbia dei sui dubbi idealistici. Prese le chiavi dell'auto, guardò il calendario appeso in cucina, rassicurandosi che fosse effettivamente venerdì sera e annunciò per telefono la sua fuga dalla realtà e dall’immediato futuro in modo semplice, come lei sapeva ben fare. L’allarme del ragazzo magro suonava. Non gli era bastata la frase smielata “Ho deciso di andare a trovare la mia mammina.” che Andromaca gli aveva confezionato come un pacco regalo ben infiocchettato. Era insoddisfatto per l'improvvisa discesa al secondo posto nell'ordine di priorità di Andromaca. Nonostante la proposta di matrimonio, nonostante il suo desiderio, mostrato, palesato, scritto ed espresso secondo i dettami comunicazionali del destinatario, nonostante il suo amore, un filo di delusione percorse la sua schiena come un brivido. Andromaca non si sarebbe mai sognata di lasciarlo solo per un intero weekend. Qualcosa non andava. Il lavoro forse. Quell’antipatica questione con il capo redattore per lo spettacolo da non pubblicizzare. “Le erà” pensò. E chiamò un amico per andare a farsi una birra. Andromaca, sotto gli occhi esprimenti un vago disappunto del toscano che si era visto invadere i suoi giorni di pace dalla ragazza, parlò e discusse a lungo con la sua mamma della proposta di matrimonio e di come si era infilata inopportunamente in un discorso sui massimi sistemi. “Mamma, non banalizzare la questione” “Amore mio, la vita è fatta di compromessi. Se al momento ti sembra meraviglioso qualcosa che qualcun altro ritiene inopportuno, hai di fronte due strade: mollare o non mollare. Non mollare, però, non significa necessariamente
fare la guerra. Devi condurre il gioco in modo da cambiare non solo le carte in tavola ma anche il gioco. Devi far sì che il mondo cambi con un sottile e persistente lavorio quotidiano di persuasione – e non solo nei confronti del tuo capo ma del mondo intero – che si abbia bisogno di ciò che affermi. I risultati non saranno immediati; dovrai armarti di pazienza e se non l'hai, dovrai costruirla. Riuscirai a farlo solo e soltanto se crederai fortemente in ciò che stai facendo. Sapendo di andare incontro, per forza, a compromessi continui” Si fermò guardando lontano. “La mancanza di capacità di andare incontro alle persone gioca brutti scherzi, si rischia che anche gli altri si irrigidiscano sulle proprie posizioni. Non si cresce, non si va da nessuna parte, non si avvia una strada comune” La mamma sospirò e attese che il fidanzato toscano si allontanasse quel tanto che bastava a garantirle l'intimità. “La vita è un compromesso continuo. Si sceglie in modo non assoluto ma relativo ai benefici che si ottengono, mai al 100%, e alle conseguenze negative che possono scaturire da queste scelte. Anche io scendo e sono scesa a compromessi“ la donna ammiccò in direzione del fidanzato toscano. “e probabilmente verrò a patti con altre persone, altre situazioni. Senza necessariamente sopportarle. Negoziando, sarebbe auspicabile. Se dall'altra parte l'interlocutore è della medesima opinione riguardo i compromessi. Come sai, un'eccessiva rigidità non porta a niente” “In sostanza, concordi con lui che mi ha chiesto di sposarlo dopo aver affermato che sono un'imbecille idealista” Andromaca era un po' piccata. “Non sei un'imbecille idealista.” “Transeat. Non verbalizzare. Stai dando ragione a lui?” “Beh, in parte si. Secondo me non voleva dirti che quando avrai vagonate di pannolini puzzolenti di fronte dimenticherai le tue idee. Intendeva dire che vedrai il mondo da un'altra prospettiva, con le reali priorità e le reali ambizioni: la vita che nasce e cresce. Gli affetti. L'amore. La famiglia. Certe ambizioni giovanili e alcuni ideali non fioriscono in principi, si abbandonano a volte.” Nel pronunciare queste parole, il volto della donna fu velato da una tristezza che, da profondità viscerali, risalì come un rigurgito.
Non fu un attimo: il coperchio era stato solo spostato dal pentolone dove si era raffreddata la melma in cui giaceva il precedente matrimonio. La melma era rimasta. La tristezza di fondo anche. “Ho capito, mamma” disse Andromaca alzandosi dalla poltroncina in vimini che ben si attagliava all'arredamento da giardino, curato nei minimi particolari dal fidanzato toscano in persona. Il quale, uscito dalla cucina la cui porta-finestra dava direttamente sull'esterno per agevolare pranzi e cene estive sul prato, si era armato di dissetante quanto corroborante bibita. “Per rinfrescare il palato, semmai decideste di fare una sosta” strizzò l'occhio alla fidanzata, facendo attenzione che la figlia fosse in grado di vedere il gesto. “Secondo me, devi sposarti. È ora di buttarsi. Che aspetti?” il toscano posò lì la frase come il vassoio con la bibita. “Hai ascoltato?” la mamma dovette mostrare un disappunto verso un'ingerenza non richiesta. “No, ho immaginato. Non so quali dubbi assalgano Andromaca ma se si tratta del ragazzo che ho incontrato, credo che non debba averne. Credetemi, gli uomini sono delle brutte bestie e a volte una donna deve scegliere il male minore” Madre e figlia si guardarono sorprese. Il toscano non si era evidentemente reso conto delle destinatarie delle sue massime sulla vita. Due donne che avevano percorso un vissuto piuttosto difficoltoso con i rappresentanti del sesso forte. Andromaca rimase favorevolmente colpita da quel consiglio sionato e ignaro dei retroscena. Era più sollevata. Qualcuno le aveva detto che la vita era quella. Non si scappava. Lei aveva il meglio che, aldilà dei suoi desideri, poteva aspettarsi. La via sicura, la strada maestra, ben illuminata dal sole e chiara, semplice, evidente, senza lati oscuri. Si, lo avrebbe sposato, avrebbe accudito i loro bambini e pagato le bollette, acquistato un TV di ultima generazione ma anche libri, giornali e tutto ciò che fosse necessario per insegnare ai loro figli cultura, legalità e capacità di riflettere e scegliere. Suonarono i 33 anni per Andromaca. Un bel numero per congiungersi in matrimonio.
Era ottobre: sulla città il sole splendeva luminoso e il cielo era così trasparente da rendere il proprio azzurro commovente. Il tubino bianco di Andromaca, che si stagliava accecante sugli altri colori, non riusciva a coprirle completamente le lunghissime gambe. La caviglia e una parte del polpaccio, appena abbronzati da rimasugli melaninici dell'estate, rendevano sognanti gli uomini e, in prima fila, il ragazzo magro. Erano felici. Nonostante lo sguardo triste di rimpianto del padre di Andromaca, ben protetto da agenti di guardia in borghese - il divieto di avvicinarsi ancora vigeva - che aveva inquietato la ragazza, offuscandone per un momento l'umore. Quello sguardo, imbarazzantemente diretto alla mamma e al fidanzato toscano, Andromaca ebbe l'impressione che si trasformasse da tristezza in rabbia e odio. Poi fu rassicurata dallo sguardo dolce che le inviò, accompagnato da un bacio volante lanciato con le mani. E non ci pensò più, sicura della sicura via intrapresa. Avevano acquistato un appartamento in una zona periferica della città con l'aiuto logistico del toscano; l'aspetto economico era stato risolto con una t venture tra genitori di ambo le parti e una banca il cui direttore, amico di famiglia, aveva concesso un mutuo a tasso agevolatissimo ai due novelli sposi per il quantum eccedente i patrimoni familiari. L'arredamento era stato curato dalla signora Ikea, dal signor Mario, gestore del mercatino dell'usato del quartiere e sapientemente disposto dall'eleganza mentale di Andromaca. Il ragazzo magro aveva scelto elettrodomestici e installato impianti elettrici, nonché provveduto alla tecnologia in termini di reti e connessioni, home-video e quant'altro possa servire per trascorrere lunghi inverni. Il menage familiare era andato subito liscio e ognuno si era scelto i compiti che prediligeva e scaricato l'altro di mansioni poco sopportabili. Il tutto era avvenuto spontaneamente. Andromaca si rallegrava di questa sintonia priva di scabrezza, mentre il ragazzo magro non ne era sorpreso e la riteneva cosa scontata. Lei era sottilmente colpita
e dispiaciuta da questa mancanza di lancio entusiastico. Sembrava tutto troppo banalmente normale per lui, il quale non nascondeva la sua felicità di essere su binari consolidati e imperituramente immobili. Andromaca cercava di parlarne, di stimolarlo, di provocare una reazione. Nulla da fare; non si smuoveva dalla sua immobile contentezza. Anche lei si adagiò sull'abitudine e sull'ovvio, sulla ripetitività delle azioni e degli orari, su una dolce monotonia di sottofondo che le lasciava la libertà di movimento, purché in uno spazio ben delimitato. Avevano creato una loro privatissima bolla di sapone, una campana di vetro immutabile e trasparente al di là della quale potevano guardare senza essere contaminati e dove svolgevano tutte le loro attività. L'abitudine penetrava smussando angoli che al di fuori della loro cappa protettiva riuscivano acuminati e taglienti. Questo però valeva soprattutto per Andromaca che, seppur adagiata su una morbida e abitudinaria superficialità, fuori da essa riusciva a malapena a nascondere o, nel peggiore dei casi, sopprimere i propri ruggiti. Pian piano la novella sposa si trasformò in Giano bifronte, dicotomica e assolutamente inconsapevole di esserlo. Priva di conoscenza e di consapevolezza, si rannicchiava alle soglie della schizofrenia senza entrarvi, mescolando, per salvare la sua sanità mentale, un mondo con un altro, dosandone i sapori e i dolori. Senza ragione, si arrabbiava con violenza. Il fulgido esempio di sorridente pazienza, la spalla consolante e rassicurante, l'appiglio si oscurò nel mare profondo della superficialità; l'ombra dell'inquietudine dovuta a quiete forzata apparve con forza costante sui suoi occhi. Andromaca sentiva solo un grande peso sulla bocca dello stomaco e ne diede la colpa alle prelibatezze culinarie che quotidianamente i due sposini preparavano per festeggiare un'inventata ricorrenza. L'unica soluzione che seppe trovare al suo malessere fu quella fisica; non aveva
minimamente sentore del suo progressivo spegnimento e della rabbia che da esso scaturiva. Gli affari in redazione erano di esito altalenante e ambiguo. Qualche successo spezzava suscitando eccessivo entusiasmo la nenia della tragedia di abissali picchi in cui erano scesi i ricavati. Cosicché, per qualche tempo, da pochi giorni a qualche mese in funzione dell'entità dell'evento positivo, i redattori potevano giustificare le loro speranze di farcela. La neosposa non aveva mollato la questione dello spettacolo proibito; aveva ancora in serbo qualche barlume di pazienza per seguire i consigli della mamma. Seguiva le tourneè, le critiche, i battage pubblicitari, le recensioni, le nuove proposte, l'evoluzione del loro linguaggio. Infine, tornarono nella città dove viveva Andromaca. Una delle prime acquirenti, riuscì a ottenere un posto centrale in platea. Fu il primo giorno dell'inizio di una nuova vita. Anche per Ettore, in un attico centralissimo degno del professore universitario in cui da poco si era trasformata la giovane promessa, stava iniziando una nuova vita. Quella sera, uno strano silenzio in casa. Ettore ne approfittò per concentrarsi sull'amore della sua vita: la Regina, il Re e gli altri pezzi del magico quadrato. Ma appena mise mano al suo collegamento esterno con il pianeta degli Scacchi, una voce sortì leggera, schiacciando come una zanzara il brontolio dell'assenza di rumore. “Amore, che fai?” Il tono insinuante di Federica. Che odio. Ettore sapeva quel che voleva sua moglie.
Un figlio. Ha 35 anni. E non è più riuscita ad essere nemmeno lontanamente ingravidata da quella volta – ancora non erano sposati – che temeva di esserlo. Vuole scopare per avere un figlio, non per divertirsi. Che odio. Ettore cercò di tappare le falle dei suoi compartimenti stagni, come da programma. Selezionò l’opzione “Risposta gentile”. “Amore, sto giocando a scacchi con lo scozzese, puoi attendere un attimo?” Pronunciando questa frase, le diede uno sguardo e notò la mise succinta. Federica ricambiò con uno sguardo impazientemente felino. In fondo, era bella ed Ettore non riuscì a trattenere un sorriso. “Sicuro che vuoi farmi aspettare?” disse assumendo una posa da pin up e, alzando un braccio, scoprì l’ascella. Ettore sentì muoversi qualcosa nei pantaloni: la sua potente volontà mise a tacere l’involontarietà. Doveva finire la partita. Altrimenti avrebbe fatto cilecca. Ma Federica, ovviamente, lo ignorava. “E me ne guardo bene dal comunicarglielo” si disse Ettore. La donna, infine, girò le spalle e se ne andò nell’altra stanza. Ettore cercò di terminare la partita, anticipando l’avversario e giocando d’attacco. La sentiva muoversi, accendere la radio, poi far partire un CD, poi cambiarlo,
aprire il frigo, scolarsi il fondo di un prosecco, residuo di una cena. Continuò a giocare, concentrandosi. Stava per fare scacco matto. Ne era convinto. Ma fu distratto dal silenzio e i compartimenti si mescolarono. Mentre faceva la mossa, si chiese cosa stesse succedendo e la sbagliò. Dovette scusarsi con l’avversario e lasciare in sospeso la partita. Ormai, era ato a un altro scenario e non voleva farsi sconfiggere da un diciottenne genialoide con il gonnellino a quadri. Ma era incazzato nero. Affondò le nocche delle mani nel piano della sua scrivania, ove giaceva, ormai spento, il suo PC. Un’immagine gli ò nella testa: frustare Federica. Cercò di cancellarla. Era sua moglie, non una sgualdrina qualsiasi con cui sfogava le sue morbosità e la sua cattiveria. L’agitazione non ò. Decise di raggiungerla per capire cosa cavolo stesse facendo. Troppo silenzio. Nessun movimento. Si avvicinò alla camera da letto in penombra. Trovò Federica in una posizione alquanto provocante per i suoi standard: lo stava aspettando e aveva tutte le intenzioni di essere sensuale. “Finalmente” disse con un tono da liquefare sensi e indurire membri. “Bambina, che novità” benché eccitato dalla visione, non riusciva a perdonarle la quasi sconfitta che gli aveva provocato. Le si avvicinò e la avvinghiò.
Lo spegnimento della ragione favorì la fuoriuscita della cattiveria che aveva dimenticato di chiudere a chiave, sorpreso dalla novità. La morse, la fermò con tutto il suo peso, la girò a piacimento, la penetrò laddove non aveva mai osato, nonostante le preghiere di non farlo – non ti sento, non voglio sentirti, troia, finta santarellina, ti piace la violenza, piace anche a te, non me ne frega assolutamente niente, se non ti ribelli seriamente, con la forza che hai altrimenti che cazzo ci vai a fare in palestra? A fare la stronza con l’istruttore, facendoglielo indurire senza neanche fargliela vedere? Stronza, puttana. Mi stai fregando? Vuoi un figlio che sai che non mi frega un cazzo? Allora devi volere anche questo! - la picchiò e più lei urlava – lo so che stai godendo, non urlare troppo forte, altrimenti la gente penserà che ti sto facendo del male, e invece ti faccio sentire bene. ti tratto dalla puttana che sei, santarellina di merda - e più si eccitava. Le venne in bocca, tentando di soffocarla. Non si fermò. Continuò a picchiarla selvaggiamente. Ogni remora matrimoniale era decaduta, ogni difesa abbattuta. La tracimazione era completa. I compartimenti, una volta stagni, erano stati disgregati. La cattiveria ebbe il sopravvento, la sordità alle urla solo una patologia lieve a cui non badare, concentrato com'era a seguire la propria voce interna che lo induceva a continuare, convinto che fosse l'unico consiglio da seguire. La donna iniziava ad essere tumefatta. Non urlava più. Lo spavento aveva provocato una sorta di paralisi mentale e le aveva chiuso gli occhi. Federica non credeva a ciò che stava vivendo. Non era lui, Ettore, suo marito, l'uomo che amava. Era un maniaco ed era una brutta, bruttissima, orrenda avventura dalla quale, prima o poi, col tempo, tanto tempo, sarebbe uscita. Non era l'inizio di un incubo interminabile. Non era la fine della sua vita normale, convenzionalmente sicura, socialmente dabbene, uniformata a uno standard con alti e bassi nella media gaussiana. Non era. Svenne. Cadde nell'oblio.
Rifiutò la realtà. Ettore la guardò per un attimo dopo l'ultimo schiaffo. Si rese conto. Bestemmiò e si maledisse. Non doveva lasciar tracimare. Non avrebbe dovuto farlo mai più. Approfittò della perdita di sensi della donna per prestarle le prime cure e limitare i danni, sperando in un'impossibile perdita di memoria. Progettò la difesa. Imparò, ripetendosele come una litania interna, le parole di perdono. Pianificò le azioni immediate per la riconciliazione. Sulla base delle mosse che Federica avrebbe potuto compiere. Come negli scacchi, conosceva la psicologia dell'avversario. E lui era tra i più forti scacchisti al mondo. Poteva riuscire a indurre Federica a muoversi in un certo modo. Doveva riuscirci. La minaccia che da ora in poi avrebbe costituito Federica come l'unico essere al mondo in possesso della conoscenza di almeno due dei suoi numerosi compartimenti stagni, doveva assolutamente essere sventata. Ma non tutto va come da programma. Non tutto può essere previsto. Federica, pian piano, si rianimò, risvegliandosi al contatto del ghiaccio su una guancia.
Ettore non se ne accorse immediatamente cosicchè lei ebbe il tempo di scrutarne i movimenti, i gesti, l'espressione del volto. Quello che vide la impressionò più che se Ettore avesse continuato a picchiarla e violentarla. La curava dolcemente; la accarezzava nei punti tumefatti, le spalmava una crema curativa, controllava altre ferite. Come se l'autore di quello sfacelo fosse stato un altro. Ho paura. Ho sposato un folle. Ha due personalità nettamente distinte. Mi picchierà ancora e dimenticherà di averlo fatto. Si farà perdonare e ricomincerà di nuovo. Ma se fuggo immediatamente, la sua violenza esploderà. O forse se ne fregherà, non so. Non so più niente. Benvenuta nel mondo malato. Non pensavi che ti sarebbe toccato in sorte, vero? Dio, ho male dappertutto, la faccia gonfia, forse anche qualche dente spezzato. È pazzo. Cosa ho fatto, Dio? Chi è quest'uomo con cui volevo dividere la gioia di essere incinta? No, non glielo dico. Non so neanche se dopo queste botte, lo sono ancora. E non potrò neanche andare a farmi visitare domani, dovrei dare troppe spiegazioni. Un pazzo. Questo figlio, se nascerà, è il prodotto di un pazzo. No, non lo saprà mai. Devo sparire con cautela prima che si accorga...sempre che queste quattro cellule in croce non abbiano già capito la situazione e siano opportunamente sparite. Devo assecondarlo. Non troppo, però, si insospettirebbe. Devo dirgli che mi è piaciuto ma non troppo, in modo che sia più delicato la prossima volta. Non so neanche a chi rivolgermi. Come faccio a parlarne a mamma? Lo farebbe a pezzi. E forse se lo meriterebbe. No, no. Niente violenza. Altra violenza. Basta. Devo fuggire a tutti i costi. Federica sfoderò l’unico sorriso che la sua faccia aveva la forze di produrre e con il tono più sensualmente morboso che dalla sua voce poteva provenire, facendo attenzione a che non si interrompesse il flusso di parole per incipiente pianto, disse che, nonostante le avesse fatto male, le era piaciuto molto sentire a quel modo il suo uomo. Il suo maschio. Con le poche forze rimaste lo attirò a sé, pretendendo un abbraccio da cui il suo animo non trasse alcun beneficio ma solo una tregua a quella che nel prossimo futuro sarebbe stata una vera guerra. Ettore non aveva previsto questa mossa. Per fortuna di Federica l'uomo aveva già riposto la cattiveria nell'apposito
cassetto e blindato i compartimenti. Non si arrabbiò; solo, si sentì sfidato. La sua reazione fu positiva per Federica; si promise che, visto che le piaceva, non l'avrebbe più toccata in quel modo, visto che lo aveva preso in contropiede, dribblando le sue previsioni, meritava niente di più che sesso biblicamente corretto. Fu il primo giorno dell'inizio di una nuova vita. Il giorno dopo Federica inventò un grottesca influenza condita con svenimenti e impatti involontari e privi di difesa su spigoli e sul pavimento per non andare al lavoro. Purtroppo, nei giorni successivi, la visita fiscale fu fatale; il medico, inviato dall'azienda come obbligo, non credé a una sola parola. Quei lividi viola, quei segni assurdi sul corpo, quelle ampie zone tumefatte scrivevano l'assurdità della tragedia di una notte di sofferenza. Cercò di farla parlare. Federica, sorridente a denti serrati per celare l'enormità evidente e nascondersi dietro un sottile e trasparente dito da pianista, continuò ad affermare la sua versione. Il medico non poteva continuare; non era lì per denunciare un abuso. Solo per controllare che la lavoratrice fosse effettivamente impedita a recarsi sul luogo di lavoro e svolgere le sue funzioni. E senza dubbio lo era. Lasciò temporaneamente credere alla maltrattata donna di aver assimilato le giustificazioni addotte. Federica si tranquillizzò. Uscito di lì, si recò al primo Commissariato e denunciò l'accaduto, chiedendo di essere avvisato se fosse successo di nuovo. Non trovò molta comprensione da parte delle forze dell'ordine ma sentì di aver fatto la cosa giusta. E lui, il dottor Achille, specializzato in Medicina Legale e in Ortopedia, poco digeriva le ingiustizie. Si chiese se fosse la sua giovane età a renderlo così idealista. Si chiese anche se fra quindici anni si sarebbe comportato nello stesso modo. Si disse anche che quella donna era velata di una tristezza recente, di chi per la prima volta guarda la Morte negli occhi.
Alzò gli occhi verso un cielo eccitato. L'elettricità si spargeva nell'aria e tra le persone che, preoccupate di un futuro imminente di difficoltà, volgevano attorno lo sguardo in cerca di scappare nella direzione opposta da quella da cui sarebbero scaturiti fulmini e saette. Era rimasto colpito dagli occhi tristi contrastanti con il tratto sicuro del sorriso forzato di Federica. Accanto alla disperazione, aveva intravisto la determinazione di chi sa ma non molla. Di chi è pronto a combattere. Riprese a camminare verso i suoi doveri. Fece altre due visite ma non riuscì a togliersi dalla testa quegli occhi in cui il verde lucente delle pupille giaceva, per ora esanime e rassegnato, accanto al sangue che aveva contaminato il bianco della sclera. La donna stava attendendo di riprendere le forze e di sentire il suo corpo ancora vivo, nonostante le cicatrici. Poi sarebbe esplosa, intensa come il temporale in avvicinamento e impetuosa come una burrasca. Il dottor Achille decise di tenerla sotto controllo. Andromaca, in periferia, controllava a stento le sue sfuriate che lasciavano a bocca aperta anche sé stessa. Decise di mettersi a dieta e di andare in palestra a imparare i rudimenti della boxe. Trovò un po' di pace e mise su qualche fibra muscolare in più, nonostante le sue lunghe leve la costringessero a una lentezza che mal si addice a un boxeur. Il suo istruttore, un vero pugile di livello nazionale, intuì che Andromaca avesse bisogno di un allenamento ulteriore che fe fiorire la velocità accanto all'agilità e a una discreta, nonché insospettabile, potenza del suo fisico. La boxe iniziò ad assorbire gran parte delle ore di tempo libero della donna. La cultura non ebbe contraccolpi: Andromaca seguiva spettacoli, leggeva recensioni, confrontava performance, ricercava, scriveva e teorizzava con la medesima ione. Ma erano tutte scuse.
Si stava allontanando dalla sua gabbia dorata e non ne era conscia. Giustificava i periodi di lontananza dal ragazzo magro suo sposo con il benessere della boxe per combattere l’ansia da crisi nera in redazione. Il giornale costituiva il peccato originale a cui si agganciava qualsiasi discorso dovesse affrontare Andromaca. Il ragazzo magro era un uomo all'antica e non riteneva fruttuoso, per il mantenimento della loro relazione di coppia, queste fughe dall'abitudine casalinga; sempre più frequentemente, si lagnava e pretendeva un po' di attenzione e la restaurazione del menage casalingo. Contemporaneamente, indulgeva sulle stesse fughe senza ritenerle motivo di dissidio fatale su cui interrogarsi dopo averle prese di petto. La sua staticità matrimoniale fermava qualsiasi spunto di vita, in negativo e in positivo. Non riusciva a comprendere che le impalcature costruite dalla sua giovane sposa erano coperture di una profonda insoddisfazione legata al suo immobilismo. In fondo non lo sapeva neanche lei. Andromaca iniziò ad allenarsi durante le lunghe domeniche invernali in cui il ragazzo magro suo sposo giaceva inerme e tutt'uno con il comodo divano di fronte ad una calcistica tivù, con o senza parenti e/o amici. Deviazioni dalla consuetudine erano dovute al Moto GP o a mattiniere partenze di Formula 1. Svolti i doveri coniugali di preparativi e consunzioni di pranzi domenicali, con o senza parenti e/o amici, Andromaca fuggiva dalla tomba matrimoniale. Ancora non si accorgeva di tirare un sospiro di sollievo ogni volta che chiudeva dietro di sé la lapide blindata che li separava dall'esterno. Il peso sullo stomaco aveva lasciato finalmente le sensazioni di Andromaca per fare spazio a addominali di acciaio. Andromaca non si era mai sentita così e non avrebbe mai sospettato in ato di possedere il vigore che adesso plasmava la sua personalità. Non capiva che, oltre il muscolo sviluppato, oltre il polmone ampliato, oltre il cuore più capiente, oltre il tendine più elastico, nella sua testa si era sviluppato il tumore della rabbia. Le sembianze di Andromaca, trentenne lunga ed elastica, liscia e affusolata, variavano a vista d'occhio; le camicie stringevano alle spalle e al giro manica, il seno scoppiava nelle t-shirts, le vene negli avambracci pulsavano ad ogni
sollevamento di penna. La modificazione più evidente era il volto: i lineamenti levigati neoclassici avevano lasciato il posto alla perenne contrazione muscolare da sforzo; una sottile coppia di rughe adornava lo spazio tra le sopracciglia; una ferrea stretta mandibolare conferiva al suo profilo spigoli mai esternati. L'inconsapevole incazzatura di Andromaca esplodeva nei tratti fisici esteriori, dopo aver conquistato, invaso e tranciato la sanità dello stomaco, abbandonandolo a sé stesso. Andromaca affrontava la vita di punta; mantenendo ancora la sua dolcezza genetica, senza lasciar sopravanzare la volgarità e la violenza che naturalmente scaturiscono se si mollano le briglie della rabbia, puntava il dito, non consentiva alcun sopruso – il livello di guardia si era notevolmente abbassato -, alcuna trasgressione da correttezza, professionalità e giustizia, ferma sulle proprie convinzioni, convinta che fossero le migliori. Si avviava verso la strada di una composta rigidità, condita di durezza e irriconoscibile rabbia. Si stava trasformando in un essere puntiglioso in un mondo di approssimazione, di sotterfugi, di piccole ruberie e di meschinità. Era lì lì per diventare ciò che il mondo ritiene una gran rompiscatole. Il primo a farne le spese fu il capo. Andromaca si dirigeva verso l'ufficio del suo superiore, percorrendo il corridoio ammantato di anacronistica moquette a tratti consunta ma ancora insonorizzante i i ticchettanti di donne dal tacco alto, immersa nella lettura di un discutendo documento. Bussò alla porta di legno con gli occhi ancora bassi sulle ultime righe nere su un foglio bianco. Attese il permesso di entrare prima di impugnare la maniglia e assumere un atteggiamento ostile. Del quale, il gran capo scorse immediatamente gli acuminati spigoli e a cui decise di arrendersi in un tutt'uno con un'assunzione di totale disponibilità, onde limitare i danni. “Che succede, Andromaca?” l'uomo aveva usato il tono più suadente che
possedeva. La donna rispose sfrontatamente con una domanda. “Cos'è questo documento?” disse tendendo il braccio verso il volto dell'uomo in modo che il foglio svolazzasse di fronte ai suoi occhi. L'uomo non reagì alla provocazione e cercò di smorzare la tensione. “La dirigenza ci impone un discreto taglio delle spese. Niente trasferte, niente ‘prime’, solo anteprime per la stampa a costo zero, niente partecipazione a eventi mondani, soprattutto quelli sovvenzionati da noi, niente spettacoli” Le mani del capo redattore si aprirono mostrando i palmi in segno di resa; contemporaneamente, le spalle si alzarono a esprimere l'adeguamento totale a voleri superiori. Aggiunse che, altrimenti, erano a rischio chiusura. Il braccio di Andromaca si abbassò, stregato da quell'arrendevole muro di gomma. Tutt'altro che vinta, infierì in modo saccente. “Non ho visto, tra i tanti e ingiusti tagli, l'eliminazione delle consulenze esterne.” e con fare provocatorio di sfida “Mi sono per caso distratta?” “No, non ti sei distratta” laconicamente, il capo redattore rispose al colpo. “Riassumiamo: il consulente esterno Pinco Pallino, che svolge un lavoro assolutamente sovrapponibile al mio, stipendiata in pianta stabile, manterrà il suo bel contratto per il controllo qualità editoriale, ma io, stipendiata in pianta stabile – lo ribadisco – non potrò lavorare in modo professionalmente degno di questo nome perchè non potrò andare a vedere gli spettacoli! Che modo è di tagliare le spese? Stiamo scherzando? Quali sono i criteri con cui sono stati decisi questi risparmi che non si avvicinano neanche lontanamente dall'esserlo? Chi li ha decisi? Chi è quel genio che spudoratamente offende il lavoro di tanti professionisti validi e che li dequalifica al rango di reporter del gossip? Lo sai che diventeremmo solo questo! Commenteremo film, teatro, mostre ‘per sentito dire’. La nostra politica e la cultura che rappresentiamo andrà a farsi benedire! Mi rifiuto di sottostare a queste regole! E tu...” riprese fiato e guardò il suo capo. “Tu non hai alzato un dito in nostra difesa, anzi in difesa dei nostri principi! Hai pensato solo di proteggere il tuo bel sedere in modo da farlo permanere su quella
sedia di pelle il più a lungo possibile...” La voce si ruppe e Andromaca fu costretta a interrompersi. “Ne sono certa: non hai mosso un dito per noi” Il capo attese un'improbabile decelerazione dei battiti cardiaci e del flusso di pensieri della donna la quale, intanto, abbassava la testa disperatamente. “Me ne vado.” Lentamente, Andromaca rialzò lo sguardo, incredula. “Cosa?” “I tagli riguardano anche il personale anziano. Sono stato buttato fuori. Il nuovo capo sarà il consulente Pinco Pallino, pagato a forfait e del tutto complice con la dirigenza. In caso contrario, ovviamente, fuori dalle scatole e avanti un altro” Andromaca si sedette; era incapace di guardarlo negli occhi. “Ora capisci perché non ho potuto difendere né idee né persone?” disse l'uomo sporgendo in avanti il proprio busto per favorire l'intimità. “È finito tutto” “Niente è finito. Tutto dipende da te. Se saprai adeguarti, stringendo i denti e tappandoti spesso il naso, riuscirai a are la tempesta e a riemergere secondo i tuoi valori. Sempre che, ovviamente, saprai mantenerli. Il mondo è questo, cara la mia idealista. Il nome che porti contiene la tua essenza: apionata e virtuosa. Purtroppo, ogni tanto anche i puri devono sporcarsi per raggiungere il proprio scopo. Per mantenerti a galla ora devi immergerti nel fango e continuare a respirare abbandonandoti alle correnti. Se resti rigida sulle tue posizioni, otterrai solo di farti buttare fuori più velocemente degli altri. Non aspettano altro” Andromaca lo guardò interrogativamente. “Sei cambiata, cara la mia ragazza prima della classe. La dirigenza sa che cosa sei ora. E i gran rompiscatole sono tenuti sotto controllo ventiquattro ore su
ventiquattro. Al primo errore, sei fuori. Al “prossimo” errore, sarai fuori” Andromaca riprese l'antica mansuetudine. “Sarei perciò una rompiscatole?” “Polemica è la parola giusta” Il capo sospirò. “Cosa ti succede, piccolo genio? Tu eri il sorriso di questa redazione. Eri la spalla, l'appoggio, il porto sicuro per ritrovare il buon umore. Esprimevi i tuoi pensieri con cortesia, anche se con fermezza. La tua non era durezza, era convinzione. Non eri rigida, eri consapevole. Accidenti, è difficile” “Cosa è difficile?” Andromaca aveva irrigidito il suo essere ma cercava di coprire i pugni stretti sotto la scrivania. Il capo si voltò verso la luce piena che filtrava dalle orribili tende da ufficio. Era quasi mezzogiorno e gli ci voleva il terzo caffè. Pensò di proporlo alla sua redattrice, pensò di divagare con questo inutile stratagemma da bar, pensò di poterla distrarre e alleggerire traslando la conversazione in un altro contesto. Sapeva che non sarebbe servito a granché. Aveva paura di farla innervosire ancora di più. Andromaca gli metteva paura. Non che pensasse che avrebbe potuto fargli del male: non voleva ascoltarla. “Sei cambiata” “Lo hai già detto” “Non mi costringere a dire cose spiacevoli” “Non ti sto costringendo: hai iniziato tu.” Andromaca fece una pausa “Ora concludi. Cosa è difficile?” “Parlarti. È difficile parlarti. Da quando ti sei sposata, sei diventata intrattabile. A mano a mano ti sei chiusa in te stessa, nel tuo mondo che si è trasformato in un orticello microscopico, tutto attorno a te. Interagisci ma non metti l'anima. Anzi, sembra che la ione che ti si scatena ogni volta che hai qualcosa su cui dibattere, non venga dal cuore. Sembra che tu vada avanti per inerzia. Come se avessi stabilito che 'si fa così' e a testa bassa vai per la tua strada con il pilota automatico. Il problema è che a testa bassa non ti guardi attorno, non ti
confronti, non sai che succede. Non cresci. Sei diventata rigida, non ascolti più.” “Accidenti...” Andromaca scivolò con la schiena verso il basso sulla morbida poltrona. “Lo pensate tutti? Cioè, ne avete parlato? Di me, intendo” “Si” ancora una risposta laconica da parte del capo. “Bene, sono famosa dunque” “Non essere sarcastica. Tenta di essere costruttiva” il capo si sforzava di continuare a occuparsi di lei nonostante le sue beghe e questo gli costava un'enorme fatica. “Costruttiva?” Andromaca elevò di un tono la sua voce “Costruttiva?” un altro tono sopra. “E voi? Anni che lavoriamo insieme e nessuno che abbia avuto il coraggio di affrontarmi come se fossi il lupo cattivo?” ora la voce era di tre toni più elevata. Il capo vide dal vetro della porta che alcuni impiegati avevano alzato la testa per capire cosa stava succedendo. Qualcuno la scuoteva anche, come se sapesse. “Calmati. O mi darai ragione” un'esortazione un po' provocatoria ma sperò nella comprensione della donna. “Calmarmi? Come posso calmarmi se mi sento pugnalata alle spalle, isolata e delusa?” Le lacrime ancora non scendono, si disse Andromaca. In compenso una mano le strizzava lo stomaco e glielo spingeva addosso ai polmoni, tanto da rendere difficoltosa la respirazione. Il costato si alzava e si abbassava visibilmente. Le vene le si erano gonfiate. Andromaca percepì per la prima volta il suo stato. Si fermò. Riprese la sua posizione assisa; l'aggressività dei minuti precedenti l'aveva spinta ad alzarsi.
“Scusami” si coprì il volto con le mani. Ma le lacrime ancora non scendevano e se ne meravigliò. “Non devi scusarti con me. Per me sei come una figlia, ti ho cresciuto amorevolmente. È con loro che ti dovrai scusare se vorrai ancora vivere qui dentro” Il capo indicò la platea dei colleghi che scrutava l'interno dell'ufficio; alcuni mostravano indifferenza, altri dispiacere sincero, altri ancora stupore. La maggior parte era scoraggiata e rassegnata dalle continue polemiche di Andromaca. “Cosa non va nella tua vita?” “Niente, è tutto ok, non devi occuparti di me. Hai già tanti problemi tuoi” Le lacrime che una volta, a una testimonianza così evidente di affetto, sarebbero sgorgate copiose, non uscivano. Andromaca sentiva un desiderio forte di chiusura; la tensione muscolare le concedeva di capire ma non di aprirsi, cercando una soluzione al problema che la mantenesse ostilmente separata dal mondo esterno da cui era stata delusa. “Stai parlando sul serio?” chiese il suo capo. “Non devi caricarti di eventuali miei problemi giacché devi risolvere i tuoi. E poi...” “E poi un cavolo. Ti ho chiesto 'cosa non va nella tua vita?' e tu non mi rispondi! Di fronte a te c'è la persona che hai chiamato il tuo secondo padre! La persona che ti ha accolto, ti ha fatto crescere, che...” “Che ha sapientemente sfruttato le mie capacità.” “Fuori.” “Pensi che abbia esagerato?” chiese sarcastica Andromaca. “Fuori.”
Qualcosa, forse il suo stomaco strizzato e un orgoglio ferito, le impedirono di chiedere scusa. Il loro rapporto terminò lì, tristemente imbrattato dalla sporcizia che viene fuori ogni qualvolta si intoppi la tubatura della vita. La fiducia, la stima e l'affetto di anni erano stati spazzati via in pochi minuti. Il colpo fu forte per entrambi ma la consapevolezza del dispiacere fu prerogativa solo del capo. Dall'alto della saggezza dei suoi venti anni in più, aveva visto solo una giovane donna confusa e disallineata con il mondo esterno a lei. Non ne conosceva le ragioni ma sicuramente avrebbe potuto descriverne le sensazioni con precisione. Avrebbe potuto dirle che la voleva con sé in una nuova avventura; avrebbe voluto dirle che non avrebbe rinunciato a lei, che l'avrebbe portata via a costruire qualcosa di diverso. Ma non l'avrebbe ascoltato, lo sapeva. Chiese a un collega vicino a entrambi di controllarla e di aggiornarlo sulle vicende della sua pupilla. Lei non partecipò neanche alla cena di addio. “Addio! Questo è troppo” la giovane si accinse a rivestirsi in fretta, sotto gli occhi del suo prof il quale, nudo e disteso supino, guardava indifferentemente il soffitto bianco, come se da lì provenissero figure mitologiche o branchi di Ammoniti svolte del Cretacico ad attirare la sua attenzione. Aveva ancora in mano la frusta acquistata da un allevatore di cavalli. Lei gli aveva strappato di mano le chiavi delle manette e lui aveva schioccato la seconda frustata. Ettore si girò a guardare la schiena nuda e liscia della sua studentessa; il segno rosso che la percorreva in diagonale era piuttosto evidente e in trasformazione verso il blu. Nulla di grave comunque: la ragazza ha la pelle tosta, altrimenti non avrebbe usato il malefico e schioccante aggeggio da mandria di bufali. Così immerso in pensieri diagnostici, la lasciò sfogare. Protestava per il sesso estremo cui l'aveva sottoposta; non solo legacci, manette, pioggia dorata, soffocamenti, triple penetrazioni, ora anche la frusta. Ettore
sorrise tra sé: la giovane studentessa percepì la sua smorfia e sporse il suo volto levigato di fronte all'espressione sadicamente provocatoria di lui. “Sono così comica?” Ettore pensò che il suo atteggiamento fosse troppo sfrontato; decise perciò di rimettere a posto le posizioni. Senza cambiare nulla della propria postura muscolare, le mollò un ceffone con tutta la violenza di cui era capace. Solo in quel momento, la ragazza poté assaporarne la cattiveria. Fu un attimo che pur fuggente bastò a convincerla a imitare l'attimo; fuggire. Non era più divertente. Rischiava di farsi male sul serio. Ma lui era pur sempre il prof e rischiava grosso. Cercò di rabbonirlo, nonostante la guancia bruciasse come appena marchiata a fuoco e qualcosa dentro di lei comunicasse ribellione. “Perchè questo schiaffo? Abbiamo goduto insieme, ci siamo divertiti e mi sono allontanata solo quando mi hai fatto veramente del male.” piagnucolò “Perchè? Vuoi ancora farmi soffrire?” “Non stai soffrendo, cara la mia ragazza, sei solo incazzata nera” nel dire ciò, Ettore si alzò. La ragazza ne fu spaventata; il corpo maturo e robusto dell'uomo le si stagliava davanti, come un rilievo che fa ombra alla piccola e stretta valle sottostante. “Non indietreggiare; non avere paura” La ragazza, indecisa sul da farsi, si mostrò docilmente timorosa. Ettore le accarezzò la guancia segnata, come se l'autore dell'oltraggio fosse scappato via e lui rivestisse solo un ruolo consolatore. “Non devi ribellarti. Affidati a me” La abbracciò e lei lo lasciò fare. Con l'indice percorse il microsolco della pelle creato dalla scudisciata. Iniziò a giocherellarci, ando da una sponda all'altra.
La ragazza sussultò per il dolore; lui continuò. La ragazza cercò di divincolarsi; lui strinse ancora di più, graffiando con le sue unghie ben curate. Poi, la morse sulla guancia tumefatta; lei urlò. Scattò la ribellione interna; un calcione ben assestato e una fuga istantanea, pensando di are a un'altra facoltà per dimenticare quell'episodio che le avrebbe segnato la vita. Riuscì a guadagnare la porta approfittando del momentaneo ko di Ettore. L'ultima cosa che udì fu una risata profonda, cavernosa e malsana. “Sei pazzo” disse la ragazza chiudendo la porta. Ettore continuò a ridere, chiuso nel suo compartimento stagno. Un'occhiata all'orologio lo risvegliò dal suo torpore per condurlo, per la legge dei vasi comunicanti, ad un altro compartimento. Quella sera era prevista una cena a casa dei suoi. Con Federica. Il pensiero di sua moglie gli piazzò una smorfia sulla bocca a estrinsecare il conato di vomito dello stomaco. Non aveva più rapporti intimi con la donna dalla sera del pestaggio. Lei glieli aveva chiesti; si era posta di fronte a lui in pose arditamente sexy, quasi troppo per lei. Lui si era negato perché morisse di desiderio, si masturbasse fino alla totale consunzione, si arrovellasse sul perché del suo rifiuto. Non sapeva che tutto era stato pianificato dalla donna che conosceva ormai ogni più remoto anfratto della testa di suo marito, benché fossero solo supposizioni indotte dall'osservazione dei compartimenti che le erano di competenza o che poteva immaginare. Federica aveva in mano il gioco e Ettore non lo sapeva. Sapeva che mostrandosi così disponibile, per la legge che vige nel cervello di suo marito dell'opposizione apposita, l'avrebbe rifiutata ed era quello che voleva.
Lungi da lei avere ancora rapporti intimi con quel pazzo. Doveva mostrarsi vogliosa per ottenere esattamente il contrario di ciò che sembrava volere. La totale astrazione da lui. Ettore la sottovalutava e lei aveva fatto di tutto per confermargli questo pensiero affinché non risalisse a cosa stava escogitando. Il medico di guardia Achille non l'aveva mollata finchè la verità cruda non era infine uscita in tutta la sua violenza. Le confessioni sono ferite aperte dell'anima e lasciano intravederne l'interno. Achille aveva scoperto una donna fedele, onesta e caparbia; insieme, uniti nella loro onestà intellettuale e forti di questo, avevano ordito un piano per fuggire e non essere più ritrovati. Avevano l'appoggio delle forze dell'ordine; una qualunque mossa, un qualunque o falso o tentativo di avvicinamento alla donna, avrebbe determinato l'arresto immediato di Ettore e fatto scattare la denuncia. Senza farlo vedere; senza insospettire; se non avesse alzato un dito, non sarebbe accaduto nulla; nessuna conseguenza. Ma quella sera, non c'erano “se”, solo certezze. Un trasloco pianificato nei minimi particolari, silenzioso e riservato. Neanche i vicini se ne sarebbero accorti. Federica avrebbe preso la sua auto con la scusa di un tardo impegno lavorativo e sarebbe andata a cena da quelle brave persone che considerava ormai ex suoceri. Poi, non avrebbe fatto ritorno a casa, contando sulla certezza della maggiore velocità di Ettore in moto e sperando che Achille e amici fedeli, ignoti a Ettore, avessero terminato il trasloco di ciò che lei gli aveva minuziosamente indicato. Federica, per tutto il pomeriggio, si era dedicata a restaurare la calma dentro di sé. Aveva esercitato i muscoli facciali al sorriso; aveva eliminato l'irrigidimento della sua fronte, aveva sgombrato dall'insieme dei suoi pensieri l'unico che avrebbe potuto provocare qualche involontaria contrazione e tensione evidenti: il suo imminente futuro.
Arrivò con un grande vassoio di paste siciliane, le preferite della mamma di Ettore. Il padre la accolse, al solito, con felicità e stupore, come se ancora si chiedesse quale fosse la fonte delle fortune di quell'imbecille pallone gonfiato di suo figlio. La cena trascorse leggera tra racconti e sobria aneddotistica, tesa a rallegrare più che a far sganasciare; lo stile della mamma era inconfondibile, apionato ma mai fuori dalle righe, accorato ma con eleganza. Sobrietà prima di tutto. La voce non si alza e i panni sporchi, semmai ce ne fossero, si lavano in famiglia e prima ancora si detergono internamente. Ettore era rapito da lei; stava raccontando un episodio accaduto all'ufficio della posta, dove doveva ritirare un pacco. L'impiegato, sollecitato a sbrigare i propri compiti con cura e solerzia – si, aveva usato proprio queste parole – dalla mamma, le aveva risposto con un “lei non sa chi sono io”. A quel punto, la mamma aveva snocciolato il suo pedigree nobiliare, nonché le notevoli conoscenze postali molto in alto; l'impiegato non aveva trovato di meglio da fare che tacere. La piacevolezza della serata amena e rilassata non aveva impedito a Ettore di notare le mani tremolanti di Federica. Dolcemente, le prese una mano nelle sue per accarezzarla. Federica non si aspettava il contatto fisico e sobbalzò impercettibilmente. Ettore non si era ancora chiesto perché mai la sua mano tremasse: dopo il sobbalzo, la guardò dritto negli occhi. Federica non resse e portò in giro i suoi occhi in cerca di qualcosa che potesse catturare la sua attenzione. Fortunatamente, la mamma le stava rivolgendo la parola ma ormai la frittata era fatta: Ettore aveva compreso che qualcosa non andava e Federica era conscia che alla prima deviazione dalla regolarità, i sospetti sarebbero diventati certezze nella testa malata del marito. Doveva fare qualcosa. Le venne in aiuto il suo stato; la sua magrezza le aveva fino a quel momento permesso di nascondere il suo terzo mese di gravidanza. Il grumo di cellule aveva resistito alle percosse e, sovente, le provocava anche un po' di nausee. Che Federica celava professionalmente a tutti.
Un conato le salì nella pancia e impallidì. Gli occhi si fecero lucidi e un fetore le salì al naso dall'interno. “Scusatemi, non mi sento molto bene.” di corsa si diresse in bagno per rigettare l'ottima cena. Si scrutò allo specchio, felice di questo aiuto inatteso. Si sistemò, sciacquandosi il viso e rinfrescandosi il collo. Stette ancora un po' con le mani e i polsi sotto l'acqua fresca. Ettore bussò alla porta. “Amore, tutto bene?” Mentre mimava con boccacce quel falso appellativo, probabilmente maternamente indotto, Federica cercò di ricomporre i pezzi della sua calma. Appiattì la leggera pancetta acquistata negli ultimi 15 giorni, appiattì i capelli smossi dal movimento esternante, appiattì la tensione del volto e, alzando il tono soave della sua mansueta voce, proclamò la sua recuperata salute. “Deve essere stato qualcosa che ho mangiato. Non dirlo a tua madre, se ne potrebbe dispiacere. Forse sono stati i dolci” Federica sapeva come ammansire il proprio marito e come deviare la sua attenzione. Era riuscita a distrarlo. La discussione si spostò sui cibi salutisti. Le nubi parvero dissiparsi per Federica. Nonostante avesse fatto attenzione a non guardare telefono o orologio, a non battere freneticamente i piedi e a tutti gli altri movimenti involontari che possono tradire lo stato d'ansia di un individuo, le sue mani continuavano a tremare. A volte, le guardava poi rivolgeva a Ettore un'espressione incredula e rassegnata. Ettore le sorrideva di rimando ma aveva percepito la falsità. Doveva focalizzare e capire da dove provenisse l'impressione; per questo non le staccava gli occhi di dosso.
Il problema – si disse Ettore – era che anche se avesse capito la provenienza dell'involontario movimento, non ne vedeva la ragione. Cosa stava nascondendo Federica? Stava architettando qualcosa? Architettando qualcosa? Federica? Donna senza nerbo incapace di intendere e di volere senza di lui. Improvvisamente, Ettore si illuminò. Aveva capito. Decise di prenderla in contropiede. Prese una posata e prese a picchiarla leggermente sul bordo del bicchiere di cristallo. Uno squittante scamlio vibrò nelle orecchie dei suoi congiunti che tacquero, incuriositi da quell'insolito modo di attirare l'attenzione. “Signori genitori, devo farvi un annuncio” Ettore indossò un'espressione trionfante ma emotivamente incomprensibile. Federica pensò che fosse finita, che non si sa come l'avesse scoperta, lei, i suoi architettamenti, il suo medico, ma i suoi nervi non mollarono, in attesa degli eventi e per agire, laddove ce ne fosse stato bisogno, in difesa e di rimessa. Il cuore aveva accelerato, nonostante i comandi opposti. Finalmente, dopo una pausa drammaticamente teatrale, spinto dallo sguardo ironico del proprio padre a tagliare corto, Ettore sfoderò un sorriso di gioia. “Mamma” e si voltò verso la donna “papà” e si voltò verso suo padre che aveva trasfigurato la sua ironia in curiosità “state per diventare nonni!” e si voltò verso Federica. Lo stupore si accese ad infiammare le guance della futura puerpera. Messa alle strette, scelse velocemente il male minore e, balbettando ad arte, biascicò frasi senza senso, felice di averla scampata, sebbene volesse mantenere il segreto anche su questo. La priorità era però un'altra. “Non lo sapeva...non so come abbia fatto a capirlo, non ho neanche la pancia! Volevo dirvelo a fine serata, solo da pochi giorni ne sono sicura...perdonatemi se non vi ho avvertito, sapete, la paura di perderlo. L'abbiamo desiderato così a lungo. Si, sono al terzo mese. Ora è sicuro, si. Le nausee, beh, ne avete avuto
una prova prima. Si, meno male che non hai cucinato i tuoi splendidi gamberi, non avrei potuto mangiarli e si sarebbe guastata la sorpresa! Grazie, grazie. Siete gentili. Per ora non mi serve nulla, sono a posto. Per questo non sono venuta in moto, certo. Avevo un po' da fare in ufficio, però. È un periodo duro, no, non sanno nulla e finchè non si vedrà una sporgenza più netta, non voglio che si sappia! Con i tempi che corrono, ci vuole poco a perdere il posto durante la gravidanza” Federica strinse i denti, intellettualmente e non fisicamente, e mantenne l'espressione di gioia. Dentro, era un altro parlare. Bastardo, porco, maiale, malato di mente, come cavolo hai fatto a capire? Mi freghi sempre, figlio di buona donna, salvando questa santa che ha avuto la disgrazia di metterti al mondo, di mettere al mondo un maniaco, un pazzo da ricovero. Devo anche far finta di gioire di avere un figlio da te. Tu lo saprai ma lui no! Non voglio che ti conosca, non voglio neanche che sappia che esisti. Suo padre sarà un altro. Tu sarai niente per lui, bastardo pazzo maniaco porco. Mentre Federica si trastullava, dividendosi in chiacchiere soavi sulle gioie della maternità e in pensieri grevi di ribellione e lividi di vendetta, Ettore si godeva la scena; si sentiva vittorioso anche stavolta, aveva annientato il potere della donna di conoscere e poter svelare a chi volesse il suo segreto. Già si pregustava il giorno dopo quando sarebbe entrato nel suo ufficio con un enorme cesto di rose rosse. Già si immaginava la faccia dolorosamente sorpresa di Federica, già immaginava il rumore di uova rotte nel paniere e già pregustava il dolce sapore della sua vittoria definitiva quando l'avrebbe indotta a licenziarsi per seguire la prole. O quando avrebbe lasciato che altri la inducessero a licenziarsi. In ogni caso, si sentiva vittorioso. Le donne hanno il potere di dare la vita. Gli uomini di toglierla. O quantomeno di rovinarla.
Sulla fronte di Ettore giaceva il simbolo del trionfo. Il padre, dapprima felice, si inerpicò su un immaginario albero per osservare meglio il quadro familiare. Anche lui era uno scacchista; anche lui aveva percepito un'interferenza nella veridicità di parole e azioni; una stortura nella linearità della gioia; una deviazione dall'umore normale all’annuncio di begli eventi. Da quella posizione, invisibile e privilegiata, vide Federica sconquassata, tremante, troppo per una donna equilibrata come lei. Dall'altra, Ettore; felice e trionfante, come se il figlio che tra qualche mese sarebbe nato, crescesse nella sua pancia. Anche lui, troppo felice e trionfante. Troppo per chi, come Ettore, sbandierava la totale indifferenza per la propria moglie e per l'accrescimento numerico della famiglia. Troppo, per chi se ne andava ancora in giro per locali a sbronzarsi, con il benestare pacifico dell’apparentemente sottomessa moglie. Il padre ebbe la netta sensazione che un temporale fosse in arrivo. Rabbrividì per l'ignota sventura. Si diede del cretino. La persona assennata prese il sopravvento e scese dall'osservatorio. Si convinse temporaneamente che tutto sarebbe andato per il meglio. Non troppo però. Infatti, al momento dei saluti, Federica lo guardò come se fosse l'ultima volta. Non potè farne a meno. Gli voleva bene a quel suo suocero burbero e riservato. Lui ricambiò lo sguardo e amorevolmente la baciò sulla guancia. Stringendole le mani nelle sue, le disse semplicemente “Auguri” Lei sorrise mestamente, troppo per chi è al terzo mese di una gravidanza che va per il meglio, e si allontanò. Il momento era arrivato. Federica pensò di aver distratto Ettore abbastanza ma era pronta a tutto, aveva memorizzato tutti i possibili nascondigli del tragitto. Aveva la mappa completa di garage al coperto, parcheggi di supermercati, palestre, uffici e banche. Aveva studiato metro per metro le possibili scappatoie, le strade in cui avrebbe potuto trovare più traffico e i semafori dei quali avrebbe rispettosamente e prudentemente atteso il giallo. Aveva studiato una strada veloce per dirigersi verso l'abitazione di Achille da qualunque incrocio avesse deciso di svoltare, sia da destra che da sinistra. Non poteva sbagliare.
Lo salutò e lui rispose acremente, con un tono molto diverso da quello in uso presso sua madre “Ci vediamo a casa” e accelerando brutalmente, si allontanò sulle due ruote. Federica percorse per un paio di chilometri la strada di casa. Al primo incrocio abbastanza trafficato, deviò. Imboccò una strada dove un garage amico e al coperto la stava attendendo: un locale molto in del centro offriva anche questa opportunità agli avventori. Federica parcheggiò l'auto e andò al bar. Ordinò, sotto gli occhi increduli del barista, una tisana. Sorrise anche lei della situazione circondata com'era da cocktail dal tasso alcolico elevato. Compì la sua prima azione da donna libera: prese il suo cellulare, lo aprì, tolse la scheda e la tagliò con le sue forbicine da manicure. Il barista la guardava sempre più sfacciatamente incuriosito. Riassemblò il cellulare, peraltro costoso, e lo porse al ragazzo. “Un regalo perché non sono mai stata qui” Un occhiolino da ambo le parti suggellò l'intesa tra due persone che non si sarebbero mai più riviste, anzi che non avrebbero ricordato di essersi mai incontrate. Camminando, accese un nuovo cellulare fiammante, registrato al gentile nome di una complice amica a cui non aveva dovuto dare spiegazioni. “Sto arrivando” esclamò felice e finalmente libera dalle falsità e dalle ipocrisie in cui si era costretta a sopravvivere per continuare a vivere. L'indomani, lei e Achille, avrebbero fatto una eggiata sui colli, approfittando dell'unico giorno di libertà tra un impiego e l'altro. Federica aveva dato le dimissioni subito dopo aver trovato un nuovo lavoro. “Perché non arriva?” Ettore iniziava ad infuriarsi. Aveva previsto una dose di frustate morali per la sua cara mogliettina onde inserire nel suo spocchioso e meschino cervello porzioni cavalline di sensi di colpa per non aver condiviso con lui - tenero e amorevole maritino - il suo segreto. Doveva alzarsi presto l'indomani. Se avesse tardato ancora, non avrebbe potuto
portare a termine la tortura. Il sonno, la stanchezza e il pieno di vanità intellettuale gli avevano impedito di notare armadi vuoti e sparizioni di chincaglierie. Gli amici di Achille e Federica erano stati bravi. “Accidenti, quell'imbranata! Sicuramente le è successo qualcosa” Il citofono gracchiò. “Finalmente! Hai di nuovo dimenticato le chiavi?” Una voce maschile lo prese in contropiede. “Sono tuo padre. Ora capisco perché se ne è andata. Fammi salire, imbecille” Ettore non proferì parola e premette il pulsante di apertura, annichilito. Il padre entrò in casa soffermandosi sulla porta socchiusa, le mani in tasca ai pantaloni di un completo che era la sua divisa, ovunque fosse e qualunque azione stesse svolgendo. “Cosa hai intenzione di fare ora?” “Cosa sei venuto a fare?” “A impedirti di comportarti ancora come l'imbecille che sei” “Papà, non rompere. Fatti gli affari tuoi” “Ahimè, purtroppo sono affari miei. Se tu finisci sui giornali per aver malmenato una donna incinta, nonché tua moglie, potrei rimetterci” “Noto che godo del tuo grande affetto” “Non hai voluto altro” “Sei tu che non mi hai dato niente” “Risposta un po' scontata per uno come te. Per uno che è un professorone universitario, un grande scacchista, un dongiovanni. Un grande uomo.” la pomposità delle parole paterne colpirono Ettore in pieno volto come uno schiaffo.
“Sei venuto per umiliarmi?” “Ti ho già comunicato la ragione per cui mi sono sforzato di uscire di casa. No, non ho riferito a tua madre dei miei fondatissimi sospetti” “Peccato che io non sospettassi nulla” “Perché sei un imbecille” “Basta, papà” “Sei talmente imbecille da non soffrire perché lei se ne è andata, ma solo per il tuo orgoglio doppiamente ferito stasera” “Doppiamente?” “Allora sei veramente un imbecille! Lei se ne va e se tu non avessi fortuitamente capito che era incinta, se ne sarebbe andata con tuo figlio in grembo e non lo avresti mai nemmeno saputo” “Sempre che il figlio sia mio” “E allora sei tre volte imbecille, oltre che cinico. Ti ci devi essere proprio messo d'impegno per allontanare Federica in modo che se ne andasse tra le braccia di un altro. Cristo, che idiota sei!” “Papà, basta.” Ettore sentiva la furia tracimare dai suoi compartimenti stagni. Era a un o dal fuori scala. “No, non basta. Starò qui finché non ti calmerai e ti convincerai a non alzare un dito. Anzi,” aggiunse preoccupato “prova a chiamarla. Chissà, forse potrei essere il degno padre di un imbecille e a Federica è successo veramente qualcosa” Il telefono non dava segni di vita. Poi arrivò uno strano messaggio, proveniente da un PC tramite un sistema di messaggeria internet. Ettore lo scorse velocemente poi porse al padre l'apparecchio. “Leggi”
Il sms laconicamente confermava la fuga verso l'ignoto di Federica e terminava con uno “stai lontano da me”. “Cosa le hai fatto?” Ettore aveva spento la luce dei suoi occhi su un lampione della via, oltre la finestra. “Cosa le hai fatto?” l'uomo divenne autoritario come non ricordava più di saper fare. Ettore, però, proseguiva la sua vita in silenzio. Il padre lo prese per il bavero della giacca che il figlio ancora indossava. “Cosa le hai fatto, Cristo! Non è possibile che una donna così equilibrata perda la testa improvvisamente!” “Papà, basta” Ettore prese le mani del proprio padre e dai suoi occhi spuntarono lampi di collera. Il padre non si spaventò ma si ricordò del suo aplomb. Mollò la presa ma non gli occhi. “Cosa le hai fatto?” la voce era tornata calma e fredda. “Ho detto basta, papà” Ettore, infuriato, voleva negarsi a tutti i costi la gioia di malmenare il proprio genitore solo per quieto vivere e buona educazione. “Sei una bestia” “Già. Lo sono e spero che tu non te ne renda mai conto dal vivo” Il padre si rese conto che non era una frase buttata lì, tutt'altro che una minaccia campata in aria. Scrutò ogni angolo del viso di quel figlio che non aveva mai riconosciuto col cuore, mentalmente lontano, avulso, difforme da lui. La riservata fermezza del padre si era trasformata, nel figlio, in una depravata e dissoluta cattiveria. “Non fare niente. Ormai è andata e non la troverai più”
“Vedremo” “Ho paura per lei. Per tutto ciò che di brutale potresti compiere dopo la prima sconfitta della tua vita” “Non hai paura per me?” chiese ironico Ettore. “Ho paura di te. Quando ti sarai calmato, mi racconterai cosa è successo” “Scordatelo” “Quindi, qualcosa è successo” Ettore non rispose. Capì che suo padre, sotto la belante scorza di piccolo dirigente d'azienda, era ancora uno scacchista con i fiocchi. “Vattene, per favore” “Non voglio portarti arance e sigarette in carcere” “Non fumo” “Non è vero, fumi eccome. E di nascosto da Federica” “Bene, ora non dovrò più nascondermi” “Non hai il coraggio delle tue azioni. Non lo hai mai avuto” Ettore fece per rispondere ma il padre aveva già richiuso dietro di sé la porta di casa. Si ricordò del suo impegno piuttosto mattiniero. Chiuse il compartimento e dormì della grossa, immemore. “Andy, hai pagato il mutuo?” il ragazzo magro dallo studiolo metteva in ordine fatture, ricevute, ritenute fiscali, attestati di pagamento, bollette, il tutto per mantenere sotto controllo entrate e uscite.
Il periodo di vacche magre stentava a are, falcidiando qua e là situazioni economiche precarie o in via di diventarlo. Il primo pensiero che ò nella mente di Andromaca, intenta in un combattimento contro il calcare incrostato attorno alle rubinetterie del bagno – unico suo sfogo fisico in una casa che le sembrava sempre più piccola -, fu 'non chiamarmi Andy. Il mio bellissimo nome è Andromaca!'. Il secondo pensiero fu un punto esclamativo che descriveva appieno la sua dimenticanza. Aveva cancellato l'obbligo impostole dal marito, più che per un’equa suddivisione delle responsabilità, per un coinvolgimento formale all'economia della famiglia. Andromaca aveva perso il lavoro; o meglio, lei aveva fatto di tutto per farsi cacciare, ostentando boria e mancanza di dovuta sottomissione, polemica gratuita e ritardi nella consegna di lavori. Il tutto premeditatamente pianificato a tavolino come a voler osservare la resistenza di una corda sempre più tesa. Alla fine, la rottura l'aveva colta in un momento in cui si era rassegnata a non essere cacciata. Ma era arrivata. Licenziamento in tronco, senza cassa integrazione, senza riserve né tutele. Solo un misero sussidio di disoccupazione. Nonostante le ricchezze paterne del ragazzo magro, le risorse familiari ne avevano risentito. Un certo orgoglio aveva impedito anche la sola discussione di un’eventuale richiesta monetaria al grande avvocato. L'esigenza di economia aveva permeato tutte le azioni, dall'acquisto di scarpe e di alimenti – la cui qualità era sensibilmente scaduta – al consumo di energia, luce, gas o benzina che fosse. Le uscite serali a bivaccare e vivacchiare attorno a un bicchiere di birra erano sensibilmente diminuite; l'autobus era ormai il mezzo di trasporto prediletto. La palestra e il pugilato erano diventati sogni nel cassetto e Andromaca, tornata alle sue dimensioni normali, si allenava in casa. I pochi soldini di sussidio che aveva depositato nel suo portafogli la facevano sentire più forte. Così, aveva opportunamente dimenticato di consumarli per
alimentare la ghigliottina che mensilmente tagliava la gola alla famigliola. Sentì l'obbligo di parlare de visu, senza interposizioni murarie. Sporse la sua faccia oltre lo stipite, spinta dalle sue lunghe leve. “Allora?” fece il ragazzo magro, già rassegnato a una risposta negativa. Questo atteggiamento indispose non poco la donna che decise per una tattica di difesa a oltranza, pur ammettendo l'errore. “Ci vado lunedì” “Andy...” “Non chiamarmi Andy. Lo sai che mi dà fastidio” rabbiosa, la voce era uscita prepotente. “Ok. Per favore però vai” il ragazzo magro teneva duro e pazientemente esorcizzava gli acuti di sua moglie. “Non puoi andare tu?” Andromaca, ancora una volta, tentò di provocare e di mettere alla prova. “Devo lavorare” “E io devo trovarmi un lavoro” “Sempre che tu non ti faccia cacciare di nuovo” la frase era uscita senza inibizioni e filtri. “Scusami” il ragazzo magro abbassò la testa. Andromaca incalzò. “Dunque è questo che pensi. Da un momento all'altro, mi dirai che sono un peso per te” “Diciamo che sei temporaneamente intrattabile.” il ragazzo magro tentò la via della leggerezza
“Sono un peso per te?” Andromaca non mollava. “No, non sei un peso per me, ma...” “Ma?” Il ragazzo magro prese tutte le sue energie e sospirò. “Accidenti, non fai che perdere tempo in stupidaggini! Ti sei intestardita con il tuo vecchio lavoro, ben sapendo che non ne troverai un altro simile, ora! Hai trentacinque anni, dovresti essere all'apice della tua carriera, non puoi più spacciarti per una praticante e non sei un critico affermato! Tra un po', forse, sarai un critico affamato! Ti guardi attorno? Dai un'occhiata al bilancio familiare? Capisci che con il mutuo sul groppone saremo sempre in perdita? Il conto in banca, tutto ciò che abbiamo accumulato in questi anni, con un solo stipendio, si sta assottigliando senza tregua!” “Sarebbe colpa mia?” “Diciamo che ci hai messo del tuo” “Bastardo” “Come hai detto?” “Hai capito benissimo” “Infatti. o e chiudo” Andromaca avrebbe potuto dire una parola per rabbonirlo; così come era successo con il suo vecchio capo, l'orgoglio gli impedì di spostarsi dal lato pacifico della vita. Girò i tacchi e ricominciò a combattere la sua privatissima battaglia contro il calcare. Da quel momento, il silenzio regnò in quella casa. La contingenza sociale ed economica aveva spinto le aziende a chiudere i rubinetti; si rifiutavano perfino di incontrare le persone che offrivano lavoro.
Andromaca trascorse lunghe ore chiusa in casa, senza sapere dove andare, chi incontrare, come sbarcare il lunario. Si attaccò a internet per mantenere la sua fame di conoscenza. Consultava siti, blog, gruppi di discussione, cercava critiche, scaricava film e spettacoli. Aveva aperto un blog tutto suo di critica di spettacoli; la mancanza di pecunia non le consentiva però l'aggiornamento in tempo reale cosicché il suo ritardo era abissale. Quando il ragazzo magro tornava a casa, da un po' aveva iniziato a indossare una maschera lugubre. Le uniche parole che proferiva erano “ciao” e “é pronta la cena”. Per gli affari organizzativi, si affidava a bigliettini; lasciava sul tavolo della cucina gli oneri da sbrigare, dalla lista della spesa alle bollette da pagare, con tanto di quantum ipercontato, devotamente appuntato. Non le chiedeva il poco resto. Andromaca arguì che gli spiccioli rimasti potevano essere utilizzati da lei per diversivi e per svago. Poco c'era da scialare; dopo tre mesi, non aveva raccattato la somma per un paio di sandali simpaticamente scontati che le facevano gola. Tristemente, si rivolse a scarpette di minor pregio prodotte in serie su copie malformate, maltagliate e malfabbricate di modelli originali. Plasticaccia messa ai piedi, per fortuna aperte a ogni eventuale sudorazione delle estremità. Si accontentò. Ormai si accontentava di tutto. Manteneva blandamente in forma il suo corpo accontentandosi di scolpire solo gli addominali. Si accontentava della pizza del sabato con gli amici all'osteria universitaria, frequentata solo da giovinetti di quindici anni più giovani. Si accontentava di qualche parola dolce che, mensilmente, il ragazzo magro le elargiva come fosse pioggia nel Sahara. Si accontentava di uscire di casa per una eggiata in centro, sola e solitaria, per rinverdire l'ardire che le fu consueto di vagare per la città alla scoperta di piccoli gioielli.
Il suo sguardo però si era fatto pallido, senza luce, invischiato in un movimento verso il basso che sembrava senza fine. Lo stomaco era l'unico organo che sembrava sopravvivere. Di tanto in tanto, perciò, come per lo scatto di un interruttore, la pressione saliva, l'acido cominciava a ribollire e la belva sopita si svegliava splendente in tutta la sua rabbia. Andromaca cercava di addormentare questa tremenda sensazione, difficilmente controllabile dalla sua molle vulnerabilità. Lo scatto era istantaneo e senza freni, immodificabile nell'irricordabilità delle conseguenze. Come se, a episodio rabbioso concluso, una spugna asse nella depressa testa di Andromaca e cancellasse l'accaduto. Si chiuse per tutti. La mamma, confidente per lunghi anni, dal lontano buen retiro toscano, non percepiva e le visite che la figliola concedeva erano ricolme di finzioni e di prove d'attrice. Andromaca si stampava un sorriso gagliardo sul volto e mostrava di avanzare serena nella vita nonostante le traversie finanziarie, ostentando un ottimismo privo di fondamenta. Le visite erano sempre solitarie, per non dare adito a sospetti potenzialmente insorgenti dalla contrastante versione del ragazzo magro. La mamma, buona osservatrice, si sarebbe insospettita e avrebbe iniziato domande che avrebbero lacerato il muro di ipocrisia che con lei Andromaca faticosamente costruiva. Queste fughe erano esortate cinicamente dal ragazzo magro che, anche solo per qualche giorno, si sentiva più rilassato in assenza della sua confusa compagna. Sperava che anche lei potesse rilassarsi. In realtà, Andromaca tornava a casa esausta dalla finzione, stupidamente messa in atto per non disturbare la quiete finalmente raggiunta dalla mamma. Poi, l’episodio dell’orologio. Andromaca aveva un orologio, cimelio paterno casualmente dimenticato, rimasuglio di una ata vita. Era un orologio di metallo, di infimo valore, forse qualche centinaio di euro. Ma era di suo padre, senza averne l’anima. Ne
possedeva il sudore, l’odore, forse qualche traccia di cellula epiteliale staccata dallo strofinio del metallo sulla pelle. Antiche foto testimoniavano che sul braccio paterno che reggeva Andromaca, alta poco più di 80 centimetri, spiccava il contaore. Quel giorno Andromaca rientrò in casa dalla spesa, unica sua attività che prevedesse un contatto con il mondo esterno, accaldata e distratta da una voglia di doccia fresca. Posò le vettovaglie, le introdusse ordinatamente ognuna nell’apposito contenitore/scaffale, e si dedicò svogliatamente a togliersi gli abiti che insistevano ad appiccicarglisi addosso. Andromaca era una mente precisa: da quando, alle elementari, aveva imparato la famigerata prova del 9, aveva capito che per giungere all’obiettivo di portare correttamente a termine un’azione, doveva effettuare controlli a debita frequenza temporale. Cosicché, ogni tot sufficientemente grande per la capacità di immagazzinare dati visivi, effettuava un backup per verificare la presenza di tutto ciò che le occorreva. Quel giorno afosissimo, però, Andromaca era sopraffatta dal calore che, ascendendo, proveniva dall’asfalto cotto delle strade e che, discendendo, irraggiava la Terra dalla nostra stella attraverso lo spazio intragalattico. Si stese sul divano e si addormentò, calzoncini e magliettina da casa. Evidentemente, era ata più di un’ora. Si svegliò per il rumore di una chiave che girava nella toppa. “Ehilà.” Disse il ragazzo magro cercando di scatenare almeno la bonarietà di un sorriso di rimando. “Ciao, mi sono addormentata, accidenti” “Accidenti per cosa?” “Hai ragione, in fondo un sonnellino ogni tanto non fa male a nessuno” La sorridente frase aveva rilassato il ragazzo magro il quale, fiducioso e
guardingamente entusiasta, si lanciò in un piccolo abbraccio. “Ti ho mai detto che sei molto bella quando ti svegli?” “Forse no, è bene che tu lo faccia” Scherzarono così come ai vecchi tempi, rilassati e giocherelloni. Decisero di andare a vedere un film in un’arena all’aperto per coronare la lieta atmosfera. Avrebbero mangiucchiato pizza a taglio in giro e bevuto una birra mentre si incamminavano. Era ora di mollare le tensioni, di scaricarle a terra, di staccare i circuiti esterni. Una doccia, prima di uscire, era opportuna quanto necessaria. Organizzarono le precedenze; ad Andromaca serviva tempo per scegliere e indossare qualcosa di carino - non si agghindava da mesi - e decise di andare per prima. Dopo la corroborante detersione, si pose di fronte all’armadio le cui ante spalancò come si apre un forziere colmo di tesori da scoprire e a cui ridare luce. Optò per un vestitino ampio e scollato senza essere impudentemente generoso nello scoprire parti di pelle, acquistato al mercatino dell’usato. Il pregio dell’abitino era la sua tonalità azzurra che si accostava sapientemente a una collana che sua madre le aveva donato n Natali fa e all’orologio paterno. Indossò il tutto ma si rese conto che l’orologio non era al suo solito posto. Ciò la innervosì poiché si stupì. Doveva essere accaduto qualcosa che l’aveva distratta nel momento topico dell’inserimento degli oggetti nelle loro caselle. Ricominciò da capo, riesaminando mentalmente il percorso svolto da quando era rientrata a casa con la spesa fino al momento in cui esausta si era lasciata abbracciare da Morfeo. Ripercorse fisicamente i aggi. Ma dell’orologio non v’era traccia. Il ragazzo magro uscì dal bagno fregandosi i capelli bagnati con un asciugamano.
“Cosa cerchi?” chiese allegro, seguendola con lo sguardo nel movimento che ormai aveva qualcosa di frenetico. “Per favore, aiutami a trovare l’orologio di mio padre, quello azzurro. Devo averlo posato da qualche parte diversa dal solito” Prima richiesta di aiuto. “Ok. Darò un’occhiata sul comò” “Non c’è. È il primo posto dove ho guardato” Cercarono indugiando in tutti i pertugi in cui poteva essersi infilato lungo il percorso ricordato da Andromaca. Poi allargarono il raggio d’azione. Nulla, l’orologio azzurro sembrava essersi volatilizzato. Andromaca iniziò a sentire un groppo in gola come non le succedeva da tempo. Una sottile vena di acido le salì, solitaria, in gola. Già cominciava a toccare con mano la sua nefanda sfortuna. Già, pensiero alternato al primo, osava dirsi che la giustificazione della sfortuna non bastava per la sua idiozia e la sua scarsa cura per tutto ciò che aveva di importante nella vita, dunque destinato a perdersi e a dissolversi nello spaziotempo. Infine, ultimo sommante pensiero, il suo inadattamento alla vita era ormai globale, la sua incapacità di mantenere il poco che ormai aveva era palabile, la sua inabilità sociale ed economica era ormai a vette talmente inenarrabili da essere citata come esempio didattico sui libri di scuola. Trovò perciò goffa qualsiasi frase o atto di consolazione e di aiuto del ragazzo magro. Probabilmente, si, lo aveva perso, si era sfilato, aperto, era caduto al mercato. O glielo avevano rubato. O uno strattone aveva provocato lo sganciamento non ravvisato. Spossati dall’inutilità della ricerca, si guardarono sopraffatti dalla rassegnazione.
“Posso rimanere sola ora?” Andromaca cercò di mostrare la propria tristezza ma la sua voce risuonò come il ringhio di un pitbull. Ma era pur sempre una seconda richiesta di aiuto. Sempre più rassegnato, il ragazzo magro ritornò in bagno per finire di prepararsi. Due minuti fitti di lacrime solitarie colpirono Andromaca alla bocca del suo stupefatto stomaco. Si lasciò andare a una disperazione inaspettata che la lasciava più che dolorante. Asciugò le lacrime. Iniziò di nuovo il percorso. E lo scorse. L’orologio era al solito posto; una malefica ombra lo aveva reso invisibile all’occhio abituato, sì come automa, a scansire il numero, la forma e il colore degli oggetti nella loro posizione abituale. Pianse di nuovo, sempre più stupita della sua vulnerabilità. Poi riprese la felicità. Voleva condividerla. “Amore! L’ho trovato!” Il ragazzo magro uscì immediatamente dal bagno con un sorrisone. Andromaca scelse di raccontare a ritroso e secondo un ragionamento contorto. “Avevi per caso guardato il comò prima?” “Ehm, no, me lo hai impedito, non mi dire che era al solito posto. Andy, amore, non mi hai permesso di guardare. Cerca di fare le cose con calma” “Io faccio le cose con calma” Andromaca si sentì crollare un pezzo di mondo addosso. “Ti sei subito innervosita” “Ognuno ha un suo modo di ragionare ed esternare” Un altro pezzo di mondo l’aveva colpita e sfiorato l’affondamento. “Non mi sembrava che tu stessi ragionando. Piuttosto, mi sembrava che stessi
frignando” Altro mattone, tegola, masso di cielo che, franando brutalmente verso la terra, urtava a tutta energia la testa di Andromaca. “Ti ho chiesto di aiutarmi e tu questo lo chiami ‘frignare’. Certo. Essere dispiaciuti per qualcosa che si è perso è ‘frignare’” Pausa. “Mi fai schifo” Un dolorante schizzo irrefrenabile di quella bile che aveva cominciato a uscire per motivi infondati ma che era rimasta lì, nella bocca, aveva colpito entrambi, l’emittente e il ricevente. “Siamo arrivati a questo?” chiese il ragazzo magro neanche tanto triste, quanto piuttosto infastidito. “Tu lo vuoi” Livello di voce un tono più alto. “Usi ciò che ti do di me per colpirmi” Livello di voce due toni sopra “Non vedi l’ora di umiliarmi, di far notare i miei sbagli, invece di essere contento che abbia ritrovato l’orologio!” Livello di voce tre toni più elevato. “Cosa ti avrò mai detto?!” “Non ti rendi neanche conto che dai per scontato ormai che io sbagli, che sia la causa della rovina, del disastro che è la tua vita, vero?” il ragazzo magro abbassò istintivamente gli occhi. Poi si ricordò di essere un avvocato. Ma non intendeva arringare un bel niente, voleva solo che la smettesse, voleva andare al cinema, voleva cancellare quel fottuto orologio dalla fottuta faccia della fottuta terra, voleva distruggere quel malore che aveva catturato l’angelo che aveva sposato, farlo uscire da quel corpo, voleva che ritornasse Andromaca, non quest’essere che gli dava solo fastidio, sempre incazzata, furibonda, rompipalle. Voleva la separazione. Questo si. “Me ne vado” Disse improvvisamente Andromaca. Ok, lo ha deciso lei. Bene. “Vedo che non te ne frega granchè”
A domanda rispondere con una domanda. Scaricare colpe. “Pensi che riuscirei a convincerti del contrario?” Speriamo che ci cada. “No” Ci è caduta. Prima o poi se ne andrà. Devo solo aspettare. La fine lentamente entrò nella casa. Si impadronì del loro umore, rendendolo opaco a ogni sollecitazione; si impadronì delle usanze, degli oggetti, degli odori. Un sommovimento di durata geologica da tregua armata, dunque impercettibile, spostava ogni minuto e ad ogni azione dell'uno o dell'altro le cose, come se la separazione iniziasse da oggetti inanimati per terminare col distacco del cordone ombelicale che li teneva uniti da un decennio. Ad ogni impiego, lo spazzolino da denti così come la marca di biscotti prediletta erano inconsciamente sistemati in un punto diverso per creare separazione, spazio, libertà, distanza. Andromaca attendeva un momento e un'occasione economicamente convenienti per il distacco totale. Il ragazzo magro non le metteva fretta. A parole e su un discorso specifico, la rassicurava con la massima disponibilità ad accoglierla fin quando ne avesse avuto bisogno. In realtà, la circondava, giorno dopo giorno, con un legaccio sempre più stretto, sempre più pressante, ricordandole giorno dopo giorno, la perdita economica che gli causava. In tutti i modi possibili le ricordava che, di fatto, la stava mantenendo, rinfacciandole, seppur con garbo formale, anche il consumo dell'aria che respirava. Lei incassava senza replicare, stupita della sua mancanza di reazioni. Priva di energie, non appena poteva, lontana da sguardi e orecchie che avrebbero potuto
nonché voluto approfittare di un qualsivoglia attimo di vulnerabilità, scoppiava in pianti di rabbia. La rabbia divora dove può; Andromaca l'aveva lasciata nascere e crescere dentro di sé, facendosi fagocitare l'anima da un turbolento fiume in piena, erosivo e corrosivo, tanti erano i solidi in confusa sospensione e tanta era la nocività delle sostanze che vi erano attaccate. Era un involucro docile contenente il nulla. I due aspettavano apparentemente quieti e pazienti la rottura di quel filo reso sottile dalla consunzione e dall'usura dell'infelicità, dalle vicende storte della vita che capitano a tutti ma il filo si consuma solo per coloro che non sanno raddrizzarle. Il ragazzo magro si rianimava solo quando, con un sospiro di sollievo, chiudeva dietro di sé la porta di casa. Andromaca si sentiva oltremodo delusa, oltraggiata e violentata nella sua pur scarsa dignità. La mancata condivisione di una gioia, per di più con annessa richiesta di aiuto, aveva inflitto il colpo finale al suo amore per il ragazzo magro e, odiandosi, non lo riteneva più meritevole di partecipare della sua vita. Pochi tentativi miseramente falliti, spinti più da una razionalità un po' anacronisticamente contadina che da uno sprone emotivo di paura di perdere la persona amata, avevano indotto il ragazzo magro all'ineluttabilità della rinuncia. Dopo ogni prova, rimproverandosi del tentativo, il ragazzo magro esultava per l'ennesimo no. Un no che era solo un no, mai accompagnato da spiegazioni o riflessioni ad alta voce. Un po' infantile, un po' tappo, il semplice no serviva ad Andromaca a evitare la tracimazione dell'immondizia bruta che aveva dentro. Non emetteva più alcun suono, chiusa in una fortezza tanto inespugnabile quanto idiota. Le scarse interazioni terminavano sempre con un reciproco riversamento di colpe di cui il ragazzo magro se ne sbatteva nel più disinvolto dei modi, sapendo di avere il coltello dalla parte del manico. Ma lei, ad ogni colpo, rispondeva con vibrazioni interne e scossoni di elevatissima magnitudo e la sua mente scricchiolava da qualunque angolo.
Andromaca aveva negato a chiunque di entrare, per poi poter confermare nella propria testa, il suo stato di irreparabile disgrazia. La forza della mente è tale da colorare di rosa shocking o di fosco e compatto grigio tutta la vita, seppur per una singola vicenda. Quando si è innamorati, i tramonti sono più vividi, la pioggia è rinfrancante e una bufera di neve è un buon pretesto per crogiolarsi al caldo abbraccio di una persona o delle proprie coperte. Quando si è tristi, non si contano le notti stellate ma solo quelle tenebrose dalle nubi basse e spesse, a conferma di una voglia di piangere universale. Quando si è incazzati, il sole che splende è solo un'onta alla propria tetraggine che va lavata con il sangue, di chiunque esso sia. Restava in Andromaca, in quel suo animo turbato, livido bluastro come un occhio pesto, un disperato bisogno di essere compresa, amata nonostante tutto, portata via su un cavallo bianco da un improbabile principe illuminato, poichè sensibile e lungimirante, dalla sua, ormai invisibile ai più, ignoranti e superficiali, bellezza. La tensione familiare, alimentata da silenzi, forzate condivisioni fatte pesare come ostacoli insormontabili, sensi di colpa, puntigli da arringhe degne del giorno del Giudizio su questioni di banalissima quotidianità, si accumulava in lei che non aveva un punto di scarico. Se non sé stessa. La sua educazione al buon senso le impediva di farsi del male fisico. E la macerazione era interna. Inesorabile avanzava lasciando il nulla alle spalle, degradando convinzioni e amor proprio. Andromaca si era imposta il silenzio; si impediva ogni sorta di comunicazione delle proprie opinioni. D'altra parte, ritenendole inascoltate e, nella migliore delle ipotesi, futili, perché doveva affaticarsi a comunicarne l'enunciato se poi non riusciva a sostenere l'eventuale contraddittorio con il mondo esterno? La infastidiva essere interrotta o essere tacciata di ripetere sempre le stesse cose e aveva rinunciato. La sua però era solo una costruzione mentale di difesa che partiva da un sillogismo aristotelico: se il ragazzo magro non mi fa più parlare, ma il ragazzo magro è la persona che diceva di amarmi, anche le altre persone che sicuramente mi amano meno, non mi faranno parlare.
Andromaca aveva troncato, spinta da questa paura del contraddittorio, tutte le sue amicizie. Anche la Cate e la Genny erano un ricordo lontano. Ciò si era trasformato, nella sua testa riempita di ruvida depressione, in una ennesima conferma di quanto superficiali erano le persone che si dichiaravano amici. Un circolo vizioso da cui non si esce senza principe sul cavallo. Senza qualcosa che cambi la prospettiva, che apra gli occhi. Oppure se ne esce quando l'adrenalina cala e ti stufi di essere incazzato con il mondo, rassegnato e più morbido. Per Andromaca però non era ancora il momento. Era invece terreno fertile per tutti coloro che avrebbero potuto spacciarsi per principi azzurri. Molti, uomini e donne, fingono di essere ciò che noi vogliamo vedere; salvatori della patria, principi azzurri, le persone giuste al posto giusto. Ma sono solo dei falsi d'autore; persone che godono a immergersi nel fetore di carne sanguinolenta e sofferente e solo per compiacere l'amore per sé stessi, per la propria convenienza, calpestando le già sofferenti anime senza avvedersi degli effetti del peso. Ecco, Andromaca era pronta per essere fatta a pezzi e aveva creato tutto da sé. In attesa delle nuove e mirabolanti imprese di distruzione, si dilettava ad ascoltare il suo rumoroso silenzio interno. Per farlo però, necessitava di un assoluto silenzio esterno. Non facile da trovare in città, praticamente irreperibile in estate dove tutto sembra muoversi al ritmo incessantemente sensuale di un'insulsa musica da ballo di ormoni in cerca di soddisfazione, come se, privi, non fossero in grado di riprodurre vita. Ormai non c’è più un angolo di silenzio su tutta la terra. Non esiste un luogo di cui si possa godere del silenzio. Tutti hanno voglia di stordirsi, di chiudere il cervello col favore del rumore. Chissà se un giorno cambierà.
Nel frattempo non parlerò più. Non discuterò più. Agirò. Basta. Punto. Niente annunci, niente minacce. Tanto li lascio a metà. Silenzio. Dall’altra parte del mondo sotterraneo e tutto arrotolato su sé stesso di Andromaca, viveva e, nonostante la batosta di Federica, prosperava il pianeta estroflesso di Ettore. Aveva avuto, si, qualche piccola defaillance con le sue creature geologiche, ma niente di grave. Tra sé ammetteva che le aveva fatte miagolare ugualmente. Il successo accademico era irrefrenabile; alcuni sostenevano che lo avrebbe condotto verso la Presidenza della facoltà. Tra l’altro, il più giovane mai eletto. A Ettore piaceva bruciare le tappe, arrivare primo, anzi, essere inarrivabile. Ogni tanto però si lasciava cogliere alla sprovvista dalla pigrizia; preferiva leggere piuttosto che telefonare all’ultima studentessa modello che, dopo il 30 e lode, voleva essere premiata in altro modo che non il mero bacio accademico e che le aveva fatto suadentemente scivolare il numero di telefono tra le dita. Un modo, forse, per farsi desiderare. Ma anche una certa stanchezza alle articolazioni, molto mentale e appena un po’ fisica, che lo incatenava tra quattro mura. La rilassatezza lasciava il campo agli ultimi bagliori di un crepuscolo, ancora di là da venire, quando chiamavano, per la consueta rimpatriata mensile, gli antichi soci di baldoria. Non sapeva dire di no; tirar tardi fino alla notte ubriachi fradici, a molestare l’intera schiera di giovinotte scollate, sgambate e, sì come divisa, dotate di un tacco 12 da mozzare il fiato, era uno sport che andava praticato sovente.
Il problema era il ritorno; il mal di testa del giorno dopo era divenuto un mal di testa di dopodomani; il senso di vuoto, amplificato da una leggera eco che di notte sopraffaceva la ragione per scatenare paure infantili e creare ansia instabile e soffusa inquietudine, come un mal di mare, erano creature difficili da cancellare con una doccia rinfrancante. Ogni tanto pensava che forse da qualche parte esisteva un figlio suo, che non avrebbe mai visto né conosciuto. Ogni tanto rimpiangeva la dolcezza di Federica ma l’immagine gli si spezzava negli occhi come un vetro in frantumi al pensiero del raggiro. L’orgoglio sporca anche il più limpido dei cristalli e la lente attraverso cui Ettore scrutava il mondo non era che vetraccio infrangibile, incorruttibile ma tanto opaco. Era una docile mattinata di maggio e ne aveva ancora 7 da esaminare; futuri disoccupati che non avevano la benché minima idea di dove li portasse l’esame di Paleontologia, né capivano a cosa potesse servire. Il sole che si affacciava caldo dietro i vetri della grande finestra dell’aula universitaria lo tirava dalla parte opposta dal cinismo che utilizzava nelle interrogazioni. Ne scaturiva un prof piuttosto distratto, annoiato, ondulante nella cattiveria e negli stessi giudizi, poco incline a suggerire ragionamenti geostorici. Ne giovavano gli studenti a preparazione enciclopedica, quelli che si ricordavano solo i fossili-guida, il periodo e addirittura il piano in cui erano vissuti. Ma niente ricostruzioni paleoambientali. Il primo pomeriggio discusse con un brullo tesista dalle larghe aspettative e prospettive del Calcare a Briozoi e Litotamni, di sezioni sottili e di visioni microscopiche. Fece per uscire dal suo ufficio, quando venne letteralmente inchiodato alla sua poltrona da prof dall’ennesima fanciulla caduta dal cielo sì come dea e piombata nel suo letto torbido e costellato di sporcizia mentale come la polvere cosmica nel vuoto siderale. Di nuovo però non era aria. Ettore aveva provato a darle due ceffoni per eccitarsi. Non aveva funzionato. Così aveva pensato di compiacerla a senso unico in modo intensivo e purtuttavia sbrigativo per rimandarla al mittente il più in fretta possibile, incolpandola
mentalmente del suo fallimento, ripromettendosi di torturarla alla prossima occasione. “Andrò a rilassarmi. Footing nel parco.” Ettore proclamò ad alta voce le sue intenzioni all’improbabile ascoltatrice che si stava rivestendo. La svampita aveva appeso ignara i suoi slip a un corno di un Mammuthus Primigenius del Musteriano pleistocenico; Ettore, sospirando, non aveva neanche atteso una risposta. Le diede un finto dolce bacio e un appuntamento vago e richiuse la porta alle sue spalle, intenzionato a dimenticare la confusa giornata. Tuta, scarpe, IPod, Metallica o quanto di più brutale l’essere umano era riuscito a comporre ponendo una dietro l’altra le note. Fece quattro volte il giro della villa per un totale di 10 km in meno di un’ora. Poi, esausto e meno inquieto, si stese sull’erba leggermente umida, riscaldata dal sole. Per qualche minuto, guardò solo l’azzurro del cielo, cercando di non vederlo a caselle bianche e nere. Lo rilassava pensare agli scacchi ma anche lui capiva che certe visioni non erano propriamente sane. Si tirò sui gomiti e iniziò a scrutare l’orizzonte in cerca di distrazioni. E le notò. Lunghe gambe e antico sapore. Di buono, di pane appena uscito dal forno, di giovinezza. Di terra bagnata e di rinascita. Di brace e di paese. La riconobbe, nonostante qualche ruga in più, un’espressione più dura e tanti anni ati sotto i ponti insieme alle acque del fiume della vita. Si rimproverò per l’immagine retorica e ricominciò a guardare le lunghe gambe in un abbraccio visivo unico. Si avvilì per la sua momentanea scarsità di parole atte ad attaccare bottone. Forse le ultime vicende e la giornata confusa avevano inciso sul suo morale; forse risentiva di un po’ di stress. Fingeva con sé stesso che nulla fosse accaduto; solo una sorta di selezione
naturale aveva spinto la parte più debole della coppia a cedere e a ritirarsi da una lotta in cui si sapeva perdente. Nonostante tutto, solo lui, Ettore, era il vincitore, sempre e comunque. Un ronzio nella testa lo avvisò di non essere del tutto d'accordo. Cercò di farlo tacere, quel boia di grillo parlante, quell'inutile coscienza le cui radici giacevano immote e senza vita nel terreno di buonismo cattolico preparato per lui dai suoi avi. Si lasciò pesantemente cadere di nuovo sull’erba a faccia in su, a scrutare il cielo azzurro che insisteva nel trasformarsi in una scacchiera bicolore. La fortuna lo trasse di impaccio, uccidendo temporaneamente il grillo parlante. “Ti sei fatto male?” Bella voce, diretta a me. Si tirò su. “No” disse sorridendo “mi sono lasciato andare con tutto il mio peso ma ho buoni ammortizzatori” intendendo la folta capigliatura ancora vigorosa, nonostante il superamento dei 35 anni e la calvizie paterna. “Sono folti in effetti” un banale pour parlez sganciato per soddisfare canoni di educazione e di convenzione sociale; ma Andromaca si trovò stranamente a suo agio nell'esternare una sua opinione. Il compiacimento fu completo quando si accorse che l'interlocutore era interessato a ciò che stava dicendo. Decise di continuare, rafforzata nel coraggio da un sorrisone di approvazione di Ettore. “Sono anche belli” questa volta ne approfittò per concedersi uno sguardo sul totale dell'individuo disteso a terra. A Ettore fuoriuscivano con difficoltà le parole e ne era profondamente stupito. Sapeva di non trovarsi di fronte la solita ragazzina in balia del professore, ammaliata dalla sua posizione, e non era più abituato. Non sapeva cosa dire. Poi, il ricordo gli venne in aiuto. “Noi ci siamo già conosciuti”
Andromaca fu per un attimo spiazzata da questa affermazione che non ammetteva errori per la fermezza. Non era il solito maschio in cerca di prede; era stata lei ad attaccare bottone. La sorpresa però le rimase stampata sulla fronte, accentuata da un inarcamento delle sopracciglia. Ettore raccontò le due sole volte in cui si erano visti e scambiato qualche parola. Proprio lì, nel parco, nella medesima posizione, stesi sull'erba a godersi un relax intraextraurbano. Andromaca dispiegò le ali della rimembranza; uno sguardo dal basso mentre cingeva una ragazza; due chiacchiere dopo lo studio; tre secoli prima; un velo di illusioni svanite e della giovinezza mentale persa per sempre sui suoi occhi. Ettore, nonostante non brillasse per profondità e sensibilità, se ne avvide e le chiese se qualcosa l'avesse turbata. Il sorriso grato di Andromaca si aprì amaramente. “Mi hai ricordato solo ciò che sono stata” “Sei molto cambiata da allora?” Ettore, stranamente, era spontaneamente e sinceramente interessato. “Il mio negativo” “Dovrei avere un rimpianto?” quest'ultima era una domanda posta più a sé stesso che ad Andromaca e stavolta l'ombra ò sui suoi occhi a oscurarne lo sguardo. “Sembra che anche tu non sia stato felice in questi anni” disse Andromaca dopo aver sorriso della battuta. Ettore sospirò senza arte e ne fu ancora stupito. “Felice non è la parola giusta. Ho semplicemente vissuto. Non ho sofferto poiché chi soffre di una realtà significa che è una realtà fallita. Ho vissuto. Intensamente, apionatamente, senza soffrire perché non sono un perdente. Se vivi non perdi, comunque hai vinto. Non ci sto a far parte della schiera di chi soffre, di chi si fa condizionare da vicissitudini della vita che, in quanto tali, vanno vissute”
Andromaca lo ascoltava a bocca aperta; l'aveva sbigottita, affascinata, trascinata via in un turbinio di sensazioni. L'aveva fatta sentire viva, dopo anni di accondiscendente stasi. Riuscì finalmente a replicare. “Non senti responsabilità, sensi di colpa, rimorsi o rimpianti?” A Ettore non sfuggì l'odore che emanò quella frase: carne fresca, sanguinolenta, cicatrici aperte mai ricucite, solo sepolte da strati di polvere. Si sentì elettrizzato ma mantenne la calma, ricordandosi di non poter assaltare una donna di cui non conosceva le esperienze a differenza delle giovini universitarie che gli gironzolavano attorno come api sul miele di cui tutto gli era noto. La buttò ancora più sul profondo e qui si, che si riconobbe. “Stai confondendo i piani, cara la mia...che sbadato, non ci siamo ancora presentati! Sono Ettore, tu?” il fare cortese accentuò il fascino. Il fato gli diede una mano. “Andromaca. Ettore e Andromaca. È incredibile!” “Il destino ci ha fatto incontrare, chissà” Ettore sganciò uno sguardo guardingamente esplosivo che colpì Andromaca in pieno cuore. Non infierì e riprese. “Colpe, responsabilità, rimpianti o altro non sono la medesima faccenda. Siamo su livelli di comprensione della vita completamente distinti. Un uomo vincitore, che non soffre ma vive, non avrà mai rimpianti o rimorsi, né tantomeno si sentirà pesare le spalle da sensi di colpa. Semmai potrà assumersi le sue responsabilità. Gli animali carnivori non si sentono in colpa se uccidono gli erbivori più deboli. Devono sopravvivere. Anzi, devono nutrirsi per vivere e ne hanno un diritto naturale” “Darwin non era uno sciocco. Ma l'uomo è in grado di fare del male consapevolmente. Come la mettiamo?” “Fare del male? Rispetto a chi? Quale legge definisce cosa è male e lo distingue dal bene? Tutte le azioni dell'uomo, anche quelle guidate da un sano e giusto proposito, possono avere effetti positivi a breve termine, in modo che la società, confrontandole con gli standard del momento, possa avvedersene e definirle buone e avere effetti catastrofici a lungo termine. Vuoi un esempio? L'industrializzazione, il progresso. Un secolo fa ha dato lavoro e benessere di massa. Oggi respiriamo schifezze nocive.” scrutò l'interesse immutato di
Andromaca. “Allo stesso modo, se uccido una persona, questo sarà un gesto riprovevole, poiché antinatura, se ritieniamo che la natura sia solo vita e non l’intero ciclo che comprende necessariamente anche la morte che poi ricrea la vita. Non solo, una tale azione è anche cattolicamente e legislativamente condannata. Ma io dico – e provoco nel farlo - come possiamo sapere che la persona di cui ho stroncato la vita non sarebbe stato un futuro dittatore? O un pazzo sanguinario? O la madre di Hitler?” “Il tuo relativismo è agghiacciante” ammise la donna pur consapevole di non essere del tutto in disaccordo ma spaventata dal fatto che avrebbe sempre voluto essere dalla parte degli erbivori. “Non è relativismo ma realtà. Una legge della natura. La catena alimentare. Il più forte vince. Il più debole soccombe. E questa legge vale anche per la società umana. Rispettata dalle dinamiche relazionali. Non mi dire che sul lavoro non lo hai provato” Andromaca, in un soffio, emise un perdente “Già” “Ho toccato un tasto dolente” Ettore ritirò gli artigli. Poi il suo intuito guizzò. “Giochi a scacchi?” “No” disse Andromaca un po' sollevata dalla cessazione di una discussione che la gettava sempre più verso i bassifondi della società, destinata a perdere. “Ma avrei sempre voluto imparare” “Hai di fronte un grande giocatore e maestro” disse Ettore con un'aria autoironicamente sorniona. “Stai parlando sul serio?” Ettore diventò serio. “Beh, si, sono ventesimo nel ranking mondiale. Gioco prevalentemente on line ma non disdegno tornei internazionali dal vivo. Purtroppo, a causa del mio lavoro, non sempre riesco a seguirli e negli ultimi anni, ho perso qualche posizione” “Accidenti” esclamò Andromaca sinceramente ammirata “saresti veramente così gentile da insegnarmi l'arte degli scacchi? Però...”
Ettore non la lasciò finire; era entusiasta del fatto che avesse usato il termine “arte”. “Gratis. Per gli amici è gratis” “Siamo già amici?” stavolta fu lei a snocciolare una fascinosa provocazione. Scattò il momento dello scambio di contatti. La partita a scacchi stava iniziando; i convenevoli erano stati scambiati.
Terzo capitolo: la partita a scacchi
La prima partita: la difesa Andromaca aveva orari da rispettare; nonostante la separazione nata, cresciuta e battezzata sotto lo stesso tetto, i due ex sposini mantenevano regolare la loro quotidianità. A meno di serate in compagnia, cena alle 20,30; la lavatrice, ultimo rimasuglio di una comunione di anime, di beni e di panni sporchi, 2 o 3 volte a settimana nei giorni prestabiliti; la spesa il venerdì pomeriggio. La sagra delle pulizie era invece mutata; Andromaca, ripiena come un cannolo alla ricotta di sensi di colpa, si sdebitava della coabitazione coatta con un servizio di mantenimento di igiene e decoro casalingo nonché con una faticosa operazione di stiratura delle n camicie settimanali che magicamente tracimavano dalla lavatrice. Era venerdì. E lei aveva completamente dimenticato il pagamento del fio. Pedalava velocemente verso casa come a fuggire dai pensieri che quell'Ettore le aveva infilato nella sua testa. Più ne voleva fuggire, più era vigorosa la sua pedalata, più rifiutava quel menage che improvvisamente trovava noiosissimo e che, anni prima, trovava rilassante e accogliente. Si fermò, ritenendo assurda la sua corsa. Cosa doveva al ragazzo magro? Il mantenimento? “Nella buona e nella cattiva sorte” aveva proclamato il celebrante alla messa nuziale. Andromaca vide la situazione sotto una luce diversa, combaciante con i discorsi del parco. Non ho nulla da rimproverarmi. Le cose sono andate così. Male per me e per noi. Forse un giorno, bene per qualcun altro. Non devo soffrire per la
contingenza attuale. Ce la faremo a superarla. Ce la farò. Da sola, con lui o senza di lui. Basta soffrire. Basta essere perdenti. È lui il più forte in questo momento, ma solo in questo, non necessariamente in futuro. Ora deve accudirmi “nella buona e nella cattiva sorte” e prendersi cura di me. Lo pretendo. Si, devo pretenderlo. Avvolta da questi pensieri di guerra, riprese la sua marcia più lentamente. Si gustò il panorama. Diede sguardi furtivi e antichi alle vetrine del centro, addirittura nostalgica del tedioso shopping con le amiche, che le sapeva di via crucis, ogni negozio, una stazione. Allungò la brodaglia del suo ritorno. Arrivò alla meta, scese dal velocipede e pigiò il pulsante dell'ascensore. Fischiettava vaga nei confronti della vita, autofomentandosi. La tragedia della vita ha origine da casi. La fortuna o il suo specchio riflesso sono, talvolta, le regine della mancanza di tempismo. Con la differenza che la fortuna sorprende positivamente ed è sempre ben accetta. La sfortuna, se giunge come a piovere sul bagnato, crea drammi epici. Andromaca uscì dall'ascensore, poggiando delicatamente i piedi sul pianerottolo. Sentì un rumore strano e un contatto anomalo. Guardò in terra. Un fiume di acqua scorreva lento dalla porta del suo appartamento verso il basso, come gravità vuole, nel pozzo della tromba delle scale, laddove giaceva la scatola dell'ascensore in perenne moto verticale. Slalomeggiando tra un torrente, un laghetto montano e un pantano palustre, entrò. La porta cigolò emettendo un fischio presago di lugubre prossimo futuro. Si introdusse in un ambiente surreale. Uno scroscio di acqua, lento ma inesorabile, proveniva dallo stanzino adibito a lavanderia. Un parlottio fitto, alternato a imprecazioni, aveva la medesima origine.
Con attenzione praticò un mai praticato sci d'acqua e finì alle spalle dei due uomini che armeggiavano con frenesia attorno all'elettrodomestico emanante liquido. “Cosa è successo?” Andromaca infilò un tono preoccupato nella domanda, benché l’animo fosse cinicamente divertito. Il ragazzo magro sembrò avesse la risposta pronta e che la stesse aspettando al varco. “Non lo vedi? Si è rotto il tubo della lavatrice. Letteralmente scoppiato durante lo scarico. Sono due ore che io e l'idraulico combattiamo per fermare l'acqua che esce.” Un perentorio ordine di asciugare i pavimenti e salvare il salvabile prosciugò il desiderio di riscatto di Andromaca, così caldamente covato durante il lungo ritorno. La rabbia e i sensi di colpa acidi le salirono alle fauci, friggendole il palato. Con paziente forza, fisica e d'animo, raccattò stracci di ogni genere, taglia, colore, materiale e foggia. Circoscrisse e incanalò le acque. Tamponò mobili. Asciugò prese elettriche. Arrivò dove neanche la più attenta delle donne di servizio osa arrivare. ò al pianerottolo, rendendolo anidro. Strizzò con le sue braccia forti tutti gli stracci per rimetterli in uso. Continuò a raccogliere l'incessante flusso ormai canalizzato. Intanto, dentro di sé, combatteva tra il desiderio di mandare tutto all'aria per l'onta pubblica – l'idraulico – subita con quell'ordine e il senso di colpa che le ordinava la quiescenza. La sorgente fu infine intubata e l'acqua si ritirò nei pertugi che le si addicevano. L'idraulico concluse il suo intervento. Dopo l'elargizione di qualche centone come contributo di emergenza, salutò la donna con un imbarazzato “Buonasera” che in realtà significava “ora te la vedi tu.”
“Dove caspita eri?” la domanda non permetteva elusioni. La faccia del ragazzo magro la inchiodava a colpe da non assolvenza dei doveri. “Possibile che riesci solo a fare casino?” il ragazzo magro rincarò la dose. “Dovevi proprio uscire durante il lavaggio? Non potevi aspettare per stendere anche i panni? Cosa avevi di così urgente da fare?” ogni domanda era evidenziata da una salita di tono. Andromaca aveva optato per il consueto colpevole silenzio. Aveva perso la voglia di combattere per dimostrare – a sé stessa – di non essere una perdente, temporaneamente instillatale da quell'Ettore. Lo guardava dimenarsi mentre esplodeva colpi su colpi, esaurito da una tensione tirata troppo a lungo. Aveva disinserito il volume; sapeva cosa stava dicendo. La colpa è mia, solo mia. Per una volta che ho disobbedito a un ordine prestabilito, guarda che casino. Non solo il conto dell'idraulico, anche i mobili rovinati. Devo andare via di qua, altrimenti impazzisco. Mi fa sentire una merda secca. Che tutte le colpe del mondo ricadano su di me! Cosa ho fatto oggi poi? Cosa avrei potuto fare se fossi rimasta in casa? Telefonargli e chiedergli aiuto? Si sarebbe sentito il salvatore dell'universo e io la piccola bestiolina che non sa fare niente. Che colpa ne ho se il tubo si è rotto? Sta dicendo che l'ho manomesso? No, non può arrivare a tanto. “Vuoi la mia rovina? Devi vendicarti di cosa? Che il matrimonio è finito? Ma se sei tu che sei impazzita, che sei diventata intrattabile! Ora manometti anche le cose! Domani lascerai il gas aperto? Accomodati, ma non uscire. Resta dentro così esploderai anche tu, quando accenderò la luce! Cosa mi fai dire? Sto impazzendo anche io! Mi stai facendo uscire dai gangheri! Tutto ciò che fai è un danno!” Il ragazzo magro era un fiume in piena, per analogia con la lavatrice. Andromaca non credeva a ciò che sentiva. Lo sbigottimento le tappava le orecchie ma le aprì falle e cicatrici, cospargendole di sale. Il cuore le esplose e l'onda d'urto colpì il ragazzo magro in pieno volto. Si era ricordata di essere una boxeur e per la prima e unica volta nella sua vita usò l'arte del combattimento. Un osso scricchiolò, un molare saltò, accompagnato da un fiotto di sangue.
Gli occhi del ragazzo magro si spalancarono in un feroce stupore. Lei disse appena “Lo hai voluto tu. Era l'unico modo per tappare quella fogna prima che dicessi altre stupidaggini” Poi crollò a terra; su una guancia si scolpirono le orme di cinque dita. Quando si risvegliò, il ragazzo magro, quel poco rimasto del dolce suo sposo che una volta aveva amato pacatamente, si reggeva il volto con le mani e tra una mano e una guancia del ghiaccio. Non si curò di lei. Non si pentì. Alzò gli occhi solo per lanciarle di rimbalzo la gravità della loro convivenza forzata. Nei giorni seguenti, continuò rimbrotti e accuse e insulti. La parola che usò più spesso fu “pazza”. Andromaca non reagì più. Si chiuse in un silenzio che poco parlava delle sue turbolenze interne ma che rinverdiva e rinforzava l'insulto affibbiatole, tanto era malata quell'insistente mancanza di parole. Sapeva di non essere pazza; sapeva di non avere alcuna responsabilità dell'alluvione, se non per qualche ora di svago che si era concessa e che orridamente erano considerate fuori luogo dal ragazzo magro, viste le disastrose conseguenze. Dentro di lei, involucro vuoto, il nulla era pian piano sostituito da qualcosa di ben più grave: la colpa. Strisciante e viscida, fluiva senza rumore nei suoi pensieri fino a giustificare, ogni volta che si guardava allo specchio, le cinque livide orme delle dita sulla sua guancia. Gradatamente iniziò a svolgere i suoi compiti senza trasgressione e con sempre maggiore veemenza. Doveva farsi perdonare; lo sforzo avrebbe contribuito a
saldare il suo debito con il mondo. Una sera il cellulare trillò. Un evento. Ed era Ettore. Fortunatamente, il ragazzo magro non era ancora rincasato. “Ciao!” il tono entusiasta dei vincitori fluidificò il sangue di Andromaca e al tempo stesso la costrinse in una gabbia sempre più profonda, poggiata in equilibrio instabile su un dirupo di altezza incommensurabile. La voce di lei non squittì di gioia come si attendeva Ettore. “Ehilà!” lo sforzo di trasfigurare una tragedia in una commedia leggera fu ripagato dall'accettazione della finzione. Andromaca non riposava mai, neanche durante la banalità di un saluto. Parlarono del più e del meno, per sbrinare i vetri dei loro reciproci imbarazzi. Fu lui a gettarsi nella mischia e a fare la prima mossa. “Ti va di imparare stasera?” si corresse: troppo avventato. “O una di queste. Quando sei libera, insomma” l'invito a iniziare a danzare su una scacchiera era partito. Un invito antico: da quanto tempo Andromaca non riceveva una proposta da un uomo? Sorrise. La piccola gioia che ricordava riti tribali giovanili durò poco e la realtà si riaffacciò alla sua coscienza attraverso il rumore di una centrifuga. La lavatrice doveva essere guardata a vista. Non sapeva cosa dire, quali scuse accampare per un diniego che non voleva ma doveva. “Ehi.” Ettore fu pervaso da un formicolio alla base della testa “Qualche problema? Ti ho messo in imbarazzo? Cavolo che idiota! Non ti ho neanche chiesto se stai con qualcuno, scusami” “No, non è come pensi. È molto più complicato. Scusami tu, ti chiamerò io appena si saranno calmate le acque. Mi dispiace e non sai quanto” non attese la replica e riagganciò. Quando la cornetta fu riposata nel suo letto rigido, i
singhiozzi avevano invaso quella casa, la sua gabbia. Ettore rimase perplesso. Un caso complicato di difesa a oltranza. “La sradicherò” Si disse compiacendosi della sua totale mancanza di sensibilità per le negazioni. La reazione dell'avversario alla sua prima mossa era stata incamerata e registrata. L'odore di carne viva restava ben appeso alle narici. Fece spallucce; il suo arco aveva ancora molte frecce e per quella serata i programmi alternativi non mancavano di certo. Tuttavia, un prurito scuoteva fastidiosamente il suo orgoglio; avrebbe potuto essere la spalla su cui piangere delle numerose cicatrici per lei. Allora come mai si era rifiutata? Qual era il suo problema? Ok, cederà. Basta insistere, farti vivo, mostrare che ci sei. È questo ciò di cui hanno bisogno le donne. Accese il PC per cacciare gli insicuri pensieri e giocò finché non ebbe ragione del suo nemico attuale, un genietto insopportabile di 15 anni, arrogante e supponente, che lo trattava da matusa e lo insultava ogni volta che lo sconfiggeva, tacciandolo di avere più fortuna che anima. Questa volta no: un colpo da maestro, una difesa e un contrattacco fulminei, un che di calcistico all’olandese, un’onirica corazzata Potemkin, avevano circondato il Re e inflitto un improvviso scacco matto. Il ragazzino spocchioso non aveva potuto fare altro che complimentarsi, chiudere rapidamente il collegamento e ritirarsi in buon ordine. Dopo quattro ore di gioco, Ettore si sentiva soddisfatto e, sembrava, definitivamente rimesso dal suo prurito. Non appena però chiuse il PC, si rifece viva l’impazienza che gli impediva di stare seduto e che lo stancava nello stare in piedi, a maggior ragione nel camminare. Accese il televisore; neanche un film d’azione. Andò sui canali proibiti; nulla lo eccitava. Spense il televisore.
Accese lo stereo, infilando nella sottile fessura un micidiale connubio di chitarre elettriche e batteria e voci roche e stridule. Cercò il frastuono più atroce. Anche questo lo annoiò. Chiamò l’ultima conquista universitaria. Nonostante fosse già tardi – la ragazza aveva lezione alle otto l’indomani mattina – gli promise di fare un salto. Per fortuna di Ettore, si presentò praticamente nuda, avvolta, per la pubblica decenza, solo da un impalpabile impermeabile che copriva un sottile vestito. Non la fece neanche entrare; la belva si avventò su di lei, schiacciandola sulla porta di ingresso, lasciandole, in un attimo, solo le scarpe. La oltraggiò ovunque e lei condivise la violenza, schiaffeggiandolo e graffiandogli il corpo. Dopo questa lotta, la giovane finse arrendevolezza e si lasciò legare per farsi prendere fino alla fine. Ma Ettore non era di questo avviso. Voleva prolungarle l’attesa, voleva farla soffrire per poi farla godere. La muoveva come si gioca con una bambola di pezza, divertendosi con la disarticolazione. L’avrebbe voluta completamente inerme, mossa solo dal movimento del suo mentore e padrone. Senza vita. Questo pensiero lo sfiorò. Non lo fermò una pudicizia di rispetto della vita; lo fermò il pensiero che l’ultima telefonata ricevuta dalla ragazza sarebbe stata la sua. Come spiegarlo alla Polizia? No, sarebbe stato più prudente, la prossima volta, se avesse voluto correre il rischio di finire la vita di una di queste idiote, inutili ragazze con l’unica ambizione di scoparsi il bel professore. Lei lo risvegliò dal torpore dei suoi pensieri, urlando di piacere; l’aveva penetrata e il gesto era stato così automatico da non aver minimamente intaccato
il fluire intellettuale. Sicuramente piacevole, però; anche il suo corpo ormai si muoveva a compartimenti stagni e, completamente staccato dal cervello, aveva agito secondo l’istinto sessuale. La sua performance era andata a buon fine e l’ansia da prestazione, che fingeva di non vedere per non fomentare, era svanita. Alla fine, la porta si richiuse alle spalle della studentessa sorridente e un po’ ammaccata. Altra ansia montò in sella di un cavallo che non si muoveva solo a L ma che si permetteva di saltare anarchicamente da un comparto all'altro della sua mente. Come se tutto fosse collegato, connesso, relativo a un sistema più grande che Ettore non riusciva a vedere, chiuso nel singolo compartimento stagno. Glissò su questioni esistenziali che non gli avevano mai intaccato la convinzione della propria consapevolezza. Quindi decise di andare a dormire e di chiudere l'esercizio del pensiero. Nello stesso momento, in un letto troppo stretto per due, Andromaca non riusciva neanche ad avere il coraggio di girarsi, pressata dal dovere di non disturbare il ragazzo magro che il giorno dopo sarebbe andato a lavorare anche per mantenere lei e dalla rabbia che le montava, rubandole i giorni. Come per le notti precedenti, si ripromise di iniziare seriamente a cercare un lavoro. Il buio favorisce l’alba degli intenti rimandandoli al mattino dopo. Doveva muoversi. Il letto sembrava una brace, tanto la faceva friggere. Il tremolio che improvvisamente la colse le impedì di continuare a giacere in attesa di Morfeo. Girò e rigirò gli angoli della cucina, poi ò al refrigerio dell’aria aperta in balcone. Non si affacciava da mesi per non incontrare o scatenare lo sguardo o le domande o peggio il chiacchiericcio dei vicini. L’aria fresca della notte la rinfrancò e dissolse il vapore caldo in cui le sue idee deboli e confuse si aggiravano, tentando una via d’uscita per concretizzarsi. Andromaca si diresse silenziosamente in bagno: un grande specchio la poneva forzatamente di fronte a sé stessa. Riuscì a guardarsi e si trovò ancora molto bella. Tolse la camicia da notte e analizzò puntigliosamente il suo corpo. Non trovò neanche un difetto.
Un’idea folle le apparve. Abbassando gli occhi, la ricacciò da dove era venuta. Scrutandosi di nuovo, l’idea fece capolino ponendosi come una trasgressione. Si scosse i folti capelli e il seno si alzò, fiero, verso l’alto. Si sentì bellissima e pronta ad agire. Il mattino dopo, un dirigente di Milano che cercava un’accompagnatrice bella, elegante e colta, disponibile anche ad altro, trovò il nominativo di Andy Omero e la chiamò. Andromaca aveva lasciato un vecchio numero che non usava più e orari stringenti per i contatti; stratagemmi dovuti per evitare qualsiasi contaminazione delle sue vite, nel caso remoto fosse andata in porto la nuova. La preoccupazione di Andromaca, oltre al possibilissimo rivoltamento di stomaco, era non tanto quella di incontrare il matto che picchia, quanto il normale da posizione biblica. Nel caso del trasgressivo, la neonata Andy Omero avrebbe saputo difendersi e soprattutto non doveva inscenare né tantomeno condurre un film porno. Doveva solo resistere. Nel caso dell’uomo tranquillo, invece, avrebbe dovuto assumere i panni, e poi toglierseli, della tigre del materasso, della pantera sensuale, di colei che conosce tutti i segreti del piacere e vuole assolutamente condividerli per portarti in paradiso. Non che non si sentisse idonea ma fino a quel momento aveva fatto l’amore con l’adeguata atmosfera e l’adeguato compagno di viaggio erotico; senza, non pensava che potesse venirle spontaneo. Non si chiese perché avesse scelto di intraprendere una strada non così semplice; fare la sguattera in qualche ristorante o la cassiera al supermercato le avrebbe garantito soldini e tranquillità, oltre alla libertà di cui aveva un disperato bisogno.
Ciò però avrebbe significato dare la mazzata finale alla sua dignità. Non se la sentiva di scendere così in basso intellettualmente. Preferiva scendere in basso in un modo che le avrebbe comunque garantito un livello di vanità abbastanza elevato. Non le fregava nulla, in quel momento, delle battaglie femministe e della parità: avrebbe venduto il suo corpo e messo a disposizione il suo cervello a chi avrebbe saputo pagare, e bene, e garantirle conoscenze, agganci, contatti. La visione distorta della realtà non le consentiva di vedere lo stupro che stava attuando alla mente brillante che era, alla sua sensibilità, all’amorevole cura che, per un sorriso, a tutti concedeva. Il vuoto e i sensi di colpa appannavano la sua capacità di distinguere ciò che era bene da ciò che era dannoso. Si stava lentamente uccidendo. “Non ce la faccio più, fermati!” Giovanni il Donnaiuolo , affannato e sudato, col torace che troppo rapidamente si muoveva dall’alto verso il basso e ritorno per le troppe sigarette, non teneva il o dell’amico nel footing. Ettore lo schernì fermando la corsa. “Ti stai allenando per la maratona di New York?” Rise ancor prima di dire la porcata “Lo sai che è bene mantenersi in forma…alla tua età! Altrimenti non reggi e rischi di schioppare tra le gambe di una bella gnocca mentre ti cavalca!” “Pensa a te, fottuto imbecille gradasso. Ancora mi regge la pompa. Fammi riprendere fiato!” “Un piccolo sforzo e poi ci fermiamo. Siamo quasi arrivati” “Arrivati dove?” chiese il Donnaiuolo con le ultime forze che gi rimanevano. Ettore non rispose. Si stava dirigendo verso la distesa di prato dove aveva incontrato per ben due volte, a distanza di tempo, l’unica donna che avesse mai stuzzicato la sua curiosità in molti anni. Quest’ultima parte, però, non era ancora
disposto ad ammetterla, testimonianza di un rifiuto. Raccontò comunque la strana storia. “E' evidente: è sposata” Giovanni esplose il colpo delle sue conclusioni. “Mi ha detto che è più complicato.” riflettè un momento poi si illuminò “E' sposata ma sta divorziando!” “Separati in casa?” illazionò il Donnaiuolo e complici si guardarono, esclamando un simbiotico “Bingo!” “Ecco spiegata la complicazione: è onesta, magari è pure in difficoltà perché non ha un lavoro stabile e si fa ancora mantenere da suo marito, anzi ex... Presto! Qualcuno ha una spalla su cui piangere? Oh, c'è la mia! Eccomi, sono tutto tuo, bellissima Andromaca!” “Andromaca? Non ci posso credere! Ettore e Andromaca! Mi stai prendendo in giro?” “Sono rimasto di sasso anche io. Una coppia epicamente perfetta. Un grande amore che non cesserà mai di esistere, desiderato dai romantici di ogni età da più di 2000 anni. Siamo o no fatti l'uno per l'altra?” Ettore sentiva di esagerare, buffoneggiando in questa maniera ma voleva minimizzare. “Lo sai come va a finire, vero?” Giovanni cercò di vestire gli scomodi panni dell'avvocato del diavolo. “Certo, lui crepa per mano di Achille, non uno qualunque comunque, e lei, per salvare la pellaccia, fugge con il loro figliolo – o più di uno? Non ricordo. E tutto per colpa della gnocca. Di quella Elena che a tutti i costi quel coglione di Paride ha portato via al vecchione ateniese” Risero per un po', continuando ad esercitare gli addominali. Presto il Donnaiuolo tornò serio. “Questa storia puzza. Non so per quale motivo. Sarò anche scaramantico ma
quei due non hanno avuto molta fortuna e poi è già successo. Una donna è fuggita da te con tuo figlio” “La storia non necessariamente si ripete, anche se un accenno di ricorso storico sembra che la vita me lo abbia offerto. Ma io non sono morto e Federica era tutto fuorché Andromaca. Casomai, per la sua codarda fedeltà, quel suo essere coniglio e mai coniglietta, potrebbe essere Briseide. E poi non conosco nessun Achille per ora. Figurati se ne incontro uno che vuole farmi fuori. E poi…quale figlio?” In quello stesso momento ma in un altro luogo, sicuro e rinfrancante, Federica cullava un neonato. Aveva le spalle grandi del padre ma la fisionomia, i tratti del volto, il naso, la bocca morbida e carnosa erano i suoi. Federica ne era fiera e avrebbe imbastito una favola credibile per il mondo e il pargolo. Quantomeno fino all'età della ragione e se Achille fosse stato d'accordo. Il medico lo sentiva figlio suo. Lo aveva salvato da un'isteria mentale che il padre gli avrebbe affibbiato in eredità per donargli serenità e benessere. Era perdutamente innamorato di entrambi. Amava la fedeltà di Federica. La fiducia che gli mostrava in ogni suo gesto e ogni volta che gli si consegnava, abbandonandosi spiritualmente a lui come a sé stessa. Non avrebbe mai tradito questa immensa dichiarazione di amore; la bellezza dei sentimenti ha un prezzo elevato che Achille pagava volentieri. La sua Briseide, benché rapita meno violentemente, si era rifugiata dal suo rapitore e per questo caldo rifugio non lo avrebbe mai ringraziato abbastanza. Coccolata dal tepore dell'abbraccio del piccolo, la sua mente si era allontanata dalla contingenza spazio-tempo e si era dedicata a un automassaggio via piacevoli ricordi e sogni in fieri. Federica si godeva uno spicchio di sole serale penetrato tra un ostacolo ombroso e l'altro e aveva chiuso gli occhi per allargare gi altri sensi: sentiva la pelle del bimbo e i suoi piccoli movimenti e rumori, si beava del profumo di talco e latte, ne assaggiava il sapore con piccoli baci sul capo dalla peluria nascente. La riscosse il rumore in strada; una moto rombante saettò nella strada deserta. Federica ebbe un brivido: riconobbe il rumore. L'associazione, nella sua mente risvegliata di soprassalto, fu rapida e dolorosa. Ettore. Il cuore le palpitò come se si fosse appena riavuta da un incubo. Ettore. Il pensiero le andò alle povere
donne che avrebbe massacrato, fisicamente e intellettualmente. Si diede della codarda per non averlo denunciato. Poi guardò il bimbo: non poteva fargli questo, doveva garantirgli una vita serena. Per raggiungere quest'unico obiettivo, il prezzo da pagare era alto. Il rimorso di aver protetto una vita mettendo a repentaglio chissà quante altre non veniva placato dalla speranza di un cambiamento. Lo riteneva impossibile. Ettore era un tutt'uno con l'oggetto dei suoi studi: un fossile, morto e seppellito dal suo stesso fango, ergo, incapace di cambiare. “Gentile studentessa” Ettore interruppe accademico l'esame dell’esaminanda “perchè lei possa, e credo voglia anche” aspettò un cenno di assenso che, come un cane obbediente, la ragazza emanò “diventare un bravo geologo, non può prescindere dal significato di evoluzione. Ciò significa che, al di là del conoscere a menadito tutti i fossili-guida esistenti sulla faccia della terra dal Precambriano all'Olocene e di saperli posizionare anche cronologicamente, lei dovrebbe – uso il condizionale per intenerire il discorso – saper ricostruire il contesto paleoambientale. Solo in tal modo” e sospirò, fermandosi astutamente, da attore consumato, per dare maggiore enfasi gerarchica alle sue parole “potrà distinguere un calcare a Briozoi e Litotamni da un travertino.” si fermò di nuovo, fomentato dalle risatine degli studenti che ridacchiavano alle spalle della povera vittima sacrificale in esame. “Dunque, carissima, se io le chiedo la temperatura dell'acqua del mare della Tetide, laddove i coralli... a proposito, quali coralli?” “Tetracoralli” rispose timida e impaurita la giovane. “Qual è la risposta alternativa?” “Esa. Ma non è del tutto giusta.” “Perchè?” e nel domandarle la motivazione si eresse maestoso spalancando le spalle e incrociando le dita di fronte al suo viso per far spiccare meglio lo sguardo indagatore. “Perchè gli Esacoralli sono rinvenbili dal Mesozoico. Era alla quale, ho supposto, lei si riferisca, dandomi come indizio il mare della Tetide”
“Continui” Ettore voleva farla bollire ancora un po'. La povera ragazza era fresca di studi paleontologici ma non ancora avvezza ad argomentazioni geotettoniche, da studiare dall'anno seguente. Provò un arrampicamento di specchi con le povere corde di conoscenza che possedeva fino ad allora. “Ho supposto che l'orogenesi alpina abbia portato cambiamenti nel mare della Tetide. E che il aggio dal Permiano al Triassico sia stato piuttosto impattante al punto da estinguere alcune specie tra cui i Tetracoralli” La risposta era corretta. Tuttavia, Ettore non aveva nessuna voglia di farla are, nonostante quella santarellina gli fosse anche simpatica. Aveva voglia di prolungarle il dolore per poi farla godere con un bel voto. Il pensiero gli svolazzò: se la sarebbe portata a letto. “Impattante? Non ha un altro aggettivo?” chiese il prof con fare polemico. Brusio degli spettatori: il prof stava esagerando. Prima che potesse dire ok, non fa niente, la santarellina aveva già sciorinato una serie di sinonimi da far rabbrividire Umberto Eco. E sempre con faccia umile. Ciò lo irritò e gli aumentò la voglia di bocciarla o scoparsela. Ma la prima cosa non poteva accadere; si sarebbe giocato la credibilità del pubblico, nonché suoi veneranti studenti. La seconda...be', c'era da lavorarci. “Ottimo, abbiamo bisogno di gente che conosca anche l'italiano, oltre ad avere sangue freddo. Mi complimento. Non le do 30 perchè alla prima domanda ha un po' incespicato. Spero che 28 sia comunque un bel voto per lei” Sentì un bisbiglio lontano: la ragazza si voltò e lesse sulle labbra dei suoi colleghi un unanime “Accetta.” Ettore se ne accorse e seguì la scena. Quando la ragazza si girò, era già pronto alla domanda. “Qual è la sua media?” “29,5”
“Lei sta per non accettare il voto?” “No... o meglio, volevo chiederle di farmi un'altra domanda per migliorare” brusio di contestazione dalle retrovie “ma non vorrei sembrarle presuntuosa” Ettore era furioso: come si permetteva quella ragazzina impudente a sfidarlo davanti a tutti? Come osava condurre il gioco? E con quell'aria poi! Mai vista faccia più umile e dignitosa insieme, mai vista tranquillità e consapevolezza così ostinate e così poco superbe! “Non giudico, cara ragazza. Pertanto, le propongo un affare. Se lei risponde bene alla prossima domanda le metto 30 e lode. Se risponde male, torna tra qualche mese. Accetta?” Ettore non vide terrore negli occhi della ragazza ma una grande tristezza. L'aveva indotto a mettersi con le spalle al muro di propria volontà. Lo stava rendendo ridicolo – il solito barone universitario, potente e approfittatore della propria posizione di potere - e l'evidenza era in quei grandi occhi tristemente sgranati. Lui era l'oggetto della sua tristezza. Non la vide vinta neanche quando accettò il 28. Come non era vinta Federica l'ultima sera in cui l'aveva vista. Triste per lui; dignitosamente, si era allontanata, volgendogli le spalle in silenzio, senza commentare. Lo sguardo degli altri ragazzi era di profonda delusione. Aveva fatto una figura miserrima. Si sentì stanco soprattutto quando, tra i bisbigli degli studenti che si avviavano all'uscita, udì “Sta diventando proprio un fossile!” Il primo appuntamento di lavoro di Andromaca fu con un fossile. Un gagliardo imprenditore di 77 anni che doveva partecipare a un pranzo di lavoro con qualche assessore a tasche larghe, in attesa di mazzette, voleva a tutti i costi un'accompagnatrice. La paga era buona: un extra per le prestazioni oltre. Il vegliardo in via di estinzione si mostrò gentile e affabile. Non pretese molto: dopo aver tentato di baciarla, si rese conto che non sarebbe successo niente e si limitò ad un cortese e empatico dialogo.
Andromaca si salvò perciò per un pelo dal suo primo atto da mercenaria del sesso e in più con un notevole gruzzolo in borsa. Sperò che andasse sempre così. Pensò anche di limitarsi al mero accompagnamento, poiché, grazie alla sua cultura, il vegliardo aveva fatto una gran bella figura. Dopo qualche giorno di tentativi sulla strada della rettitudine, capì che non era aria; agli uomini bisogna quantomeno far pensare che vedranno qualcosa, altrimenti non si muovono. “Pensiero brutale” si disse “Ma quanto mai vero” estrapolò e si chiese cosa sarebbe successo se avesse fatto sesso con il ragazzo magro. Era pur sempre suo marito ed erano trascorsi parecchi mesi dall'ultima volta. Decise di provarci, più che altro per allenamento. Avrebbe recitato alla grande, se lo sentiva. Aveva presto imparato ad abbellire, anche se con i rimedi della nonna, gli unici che potesse permettersi per ora, la pelle e i capelli, ad eliminare o a coprire i piccoli difetti del viso, ad ammorbidire le mani. Gli uomini guardano il pacco regalo per intero ma lo stesso non deve avere imperfezioni che suonano come una nota stonata, che risaltano come una grinza in una camicia di seta o una cicca perduta da un disattento fumatore su una spiaggia bianca dei Caraibi. Non poteva nascondere le incipienti rughine di espressione; anzi, cercava di darvi uno spessore culturale dovuto all'esperienza, non all'ineluttabile trascorrere del tempo. Udì la chiave che si infilava nella toppa e istintivamente, con un gesto, volumizzò i capelli. Aveva evitato acconciature barocche da meretrice o aspirante tale e belletti pesanti ati con l'aerografo; era bella al naturale, profumata e liscia. Il ragazzo magro se ne accorse appena entrò. Sentì l'olezzo nell'aria, piacevolmente sconcertante. Dimentico per un momento di ingiurie, disastri, colpe, si avvicinò a lei come un orso al miele. Lei gli sorrise e, fingendo timidezza e imbarazzo, gli porse un bicchiere di vino fresco.
“Pace?” chiese virtuosa. “Momentanea” rispose il ragazzo magro presagendo piacevolezze ma col timore del solito tragico epilogo. Aiutata dalla dettagliata e quasi maniacale regia della serata, gli spillò confessioni che avrebbero potuto esserle utili in futuro; tra queste, alcune la turbarono, risprofondandola in una depressione che non aveva superato ma solo ricoperto con il vigore della vanità. Finse un dispiacere enfatico per coprire la sua reale delusione e superare il momento intimamente tragico, spostando la relazione su un piano in cui non erano alla pari ma lei solo una debole femmina in cerca di conforto e lui il maschio caldo e accogliente. Era brava a fingere; il ragazzo magro si ammorbidì e divenne ciò che la regia prevedeva in un batter d'occhio. Era riuscita a rendere l'atmosfera accomodante, pur a costo di colpi su colpi alla propria dignità. Il suo cervello, insonorizzato dalle priorità, continuava a macinare pensieri. Ciò che fluiva le rimandava un'unica immagine: lo schifo. L'aria pacificata aveva infatti sciolto la lingua e il cuore al ragazzo magro; non esattamente il finale che lei aveva prospettato e preparato. Non aveva previsto le reazioni del suo ex marito tarate su un'Andromaca del tutto differente. Il ragazzo magro conosceva, e se ne era innamorato, una ragazza e poi una donna di sani principi, che con dolcezza affermava le sue idee sì come novello Parsifal dal cuore immacolato e puro, pronta a correre incontro ai bisognosi, scattante con garbo contro ingiurie e ingiustizie. Cos’era rimasto di quest'essere dall'unicità incredibile se non un ramo secco e esageratamente inacidito dalla vita come se avesse dovuto affrontarla in solitaria quando invece c'erano schiere di angeli custodi pronti a spalleggiarla, sollevarla, sorreggerla, come lei si era prodigata nel ato con loro? Perché aveva distrutto e contaminato la rete di affetti all'epoca inossidabili che lei stessa aveva creato? Andromaca, dopo l'apertura delle chiuse della diga, si era rassegnata all'inondazione. Era vero: aveva lasciato entrare dentro di sé una contaminazione infida che l’aveva degradata e corrotta. In un barlume di luce pregressa, si confessò, “Non ci ho creduto più dal
momento in cui mi hai chiesto di sposarmi.” Il ragazzo magro cercò di capire ma non ci arrivava né la memoria, né il ragionamento. “Ricordi che quel giorno il mio capo mi aveva chiesto di non scocciare più per la storia di quel gruppo che faceva performance un po' troppo provocanti e politiche per il consiglio di amministrazione della rivista?” “Vagamente, quindi?” “Ricordi cosa mi dicesti per convincermi che quelle questioni erano comprensibili, pur se non giustificabili?” “No. Andy, stai giocando agli indovinelli?” “Non chiamarmi Andy” “Scusa” “Ok. Non sto giocando. È importante per me che tu lo capisca. La mia vita è cambiata quel giorno” “Ok. No, non mi ricordo cosa ti ho detto per convincerti” “Mi hai chiesto di sposarti” “Non capisco” “Lo so” “Spiegami, allora” “La logica del discorso era: queste questioni economiche sono ingiuste ma noi non abbiamo una soluzione, quindi non dobbiamo farci il sangue amaro ma solo pensare alla vita che scorre. Quindi sposiamoci e facciamo dei figli e vedrai che quando saremo sepolti da pannolini e bollette da pagare non ce ne fregherà più niente” “Tu pensi che io ti abbia detto questo?”
“Tu hai detto questo. È diverso. Non fare illazioni, avvocato. Non accetto e non accetterò mai più di essere trattata come la matta del villaggio” “Ammetti almeno di essere un po' acida?” “Questo non è inerente al nostro discorso” e dopo una pausa, riprese il filo “Ora hai capito?” “Credo di si. Come se ti avessi chiesto di rinunciare ai tuoi ideali che tanto non serviranno se ci sarà da spalare fango” “E' così” Breve silenzio del ragazzo magro. Poi un boato. “Cristo, Andromaca, sono ati anni! Ti sei mangiata quel meraviglioso patrimonio che eri! Ti sei lasciata abbindolare dalla tua stessa rettitudine, la stessa che ti ha spinto a sposarmi nonostante ti avessi portato a vedere una realtà che non ti piaceva!” “Non avrei mai potuto dirti di no” “Dovevi. Dovevi importi e dirmi di no. Perlomeno farmi comprendere il tuo punto di vista” Si guardarono con rimpianto. Andromaca cristallizzò le lacrime per impedirgli di tracimare, lanciando il guanto di sfida, che il ragazzo magro raccolse. “Facciamo l'amore?” “Facciamo l'amore” “No. Non faccio l’amore con te.” disse Ettore all’ennesima bambina che gli si era posta di fronte, possente nella sua ostentata giovane nudità. Ettore godè dell’attimo di delusione e di rammarico che scorse sul volto della studentessa del II anno, vent’anni. Una bambina. La scrutò attentamente, prolungando l’attesa per il responso. Si era presentata al suo universitario
cospetto con una cinta – non era una gonna, era solo una cinta – e una camicia molto sbottonata che copriva nulla se non pelle. Il tutto pudicamente coperto da un goffo e serioso trench per camuffare le reali intenzioni d’assalto. Le sue cosce sembravano marmoree tanto la pelle era attaccata al muscolo e con esso danzava seguendo le movenze della fanciulla. Il suo seno stava lì, in piedi, senza necessità di sostegno esterno. Le due mani, lunghe e morbidamente paffute, profumavano ancora di latte. Il colore della sua pelle era pastoso, uniformemente dorato, compatto. Si guardò con occhio sfuggente le proprie: qualche macchia iniziava a comparire e il raggrinzimento, sintomo di un progressivamente fatale distacco della cute dal muscolo, mostrava sgradevolmente i segni del tempo. La vanità di Ettore, però, non aveva età: sentì dentro di sé l’impulso di non mollare dinanzi all’evidenza e di non seguire ciò che gli consigliava il suo cuore, ossia di lasciar stare. Il rumore del gap generazionale era ormai assordante. “Bambina” Ettore si avvicinò a lei abbassando parallelamente la voce, come se volesse esorcizzare quel rombo giovanile con tenui vibrazioni delle corde vocali “non faccio l’amore con te. Non ti amo, per ora. Posso fare sesso, questo si.” E attese ancora, sapiente e rodato “Se tu saprai farti amare, io ti amerò” La giovane lo ascoltò, attenta come durante una lezione di Paleontologia. “Lei è un grande professore, un adulto affermato” “Modestamente” Disse Ettore non senza un pizzico di ironia. Pensava di essere ancora più attraente, abbassandosi al livello dei “normali” esseri umani. La giovane emanò un sorrisetto sardonicamente storto che non piacque affatto al professorone. “Lei mi ha a disposizione” La giovane non sembrava così inesperta nel proferire queste parole ma non gli diede il tempo di replicare. “Esattamente come lei sarà a mia disposizione” La studentessa aveva cambiato registro. Niente più imbarazzi e fiorellini e romanticismi. Determinazione e sicurezza.
Dalla tasca destra del trench tirò fuori un aggeggio pericolosamente tecnologico e glielo mostrò. “Inutile che tenti di distruggerlo. Un solo suo gesto e alcuni miei amici sono già pronti a premere il tasto di invio per mandare la scenetta su You Tube. Ah, dimenticavo: questo non è un bottone” la ragazza rincarò la dose indicando l’oggetto “bensì una telecamera, gentilmente realizzata da amici ingegneri elettronici. Dunque, alla voce è associata anche una faccia” “Cosa vuoi da me?” Ettore era al colmo dell’ira ma non poteva lasciarsi andare per non peggiorare il suo stato di equilibrio altamente instabile. “E’ ora che lei la smetta di correre dietro a tutte le fanciulle vogliose di farsi il professore. È ora che lei la smetta con atteggiamenti che portino a pensare queste ragazze che lei sia disponibile a relazioni extrauniversitarie” Ettore rise. “E come farai a controllarmi?” “Semplice: vada su un qualsiasi motore di ricerca e si cerchi. Un blog tutto suo, aperto da noi, ha da tempo avviato una campagna di sensibilizzazione per evitarla e evitare le sue manovre. Tutti gli studenti di geologia sono stati fatti iscrivere e ricevono in tempo reale le nostre comunicazioni. Un po’ come fanno le banche per segnalare i prelievi. Stesso sistema ma difficilmente rilevabile. Non cerchi di entrare nel blog sotto falso nome: abbiamo schedato tutti i nominativi e impedito ai professori di entrare e modificare qualcosa. Siete tecnologicamente un po’ in ritardo, voi anziani” La giovane gli lanciò uno sguardo denso di sfida. “Non vogliamo rappresaglie. Se lei oserà farci bocciare da uno qualunque dei professori dei prossimi corsi, il video sarà messo su You Tube e inviato al rettore, oltre che alla Polizia, ovvio. Per ciò che riguarda il giudizio di merito della bocciatura, abbiamo organizzato che ai nostri prossimi esami sarà sempre presente una commissione interna che stabilirà la validità della corrispondenza tra il giudizio e la performance” “Complimenti. Siete organizzati”
“Modestamente” La giovane scimmiottò il prof. “Peccato tu sia una grande stronza. Ti avrei scopato a sangue fino a domattina. Lo dico perché tanto questo non peggiorerà le cose” “Modestamente” Ettore si irritò ancora di più, non tanto per lo sberleffo, quanto per l’impossibilità di mettere in pratica i suoi desideri. “Vattene prima che te le dia di santa ragione. E non sto parlando di schiaffi” La ragazza girò i tacchi e si avviò all’uscita poi si girò e con uno scatto si scoprì il seno e se lo palpò. Poi richiuse tutto e se ne andò ridendo, sancendo ineluttabilmente il primo giorno della fine di Ettore. Andromaca dall’altra parte subiva per la prima volta il sesso a pagamento. L’uomo era stato gentile, inizialmente. Lei aveva risposto come se fosse una trasgressione alla sua vita quotidiana. Una qualunque scappatella dovuta a un guizzo ormonale senza meta, senza obiettivo se non quello di cedere mentalmente a un istinto adrenalinico. Ben presto, però, la situazione era cambiata: entrati nel luogo prescelto all’atto, lontano da sguardi e da giudizi, l’uomo pagante era stato sopraffatto da un senso di potere nei confronti di chi stava pagando. Non era uno scambio ma un ordine continuo imposto dalla forza. Pronunciò parole la cui volgarità la ferirono ben più dei rischiati soffocamenti. Più l’uomo si lanciava in espressioni e atti violenti, sempre più gonfia era la sua voglia di sovrastare. Stritolò qualsiasi parte del suo corpo, ignorando completamente dignità e volontà di quella che lui considerava il suo giocattolo, seppur momentaneo. Come su una giostra, urlava, sbavando, la sua eccitazione e grugniva appellandola con termini che lei mai avrebbe sospettato di farsi arrivare addosso. Per un attimo, Andromaca pensò di ribellarsi a tanta violenza. Le sarebbe bastato un colpo ben assestato per cessare quell’agonia.
Ma si fermò di fronte a un’unica priorità: soldi. Vomitò acido interno al pensiero e, avvinta con stupore dall’esigenza materiale, cambiò strategia e iniziò a miagolare. Si lasciò andare alla turpitudine finanche a goderne. Come ultimo atto, l’uomo pagante le lanciò i soldi pattuiti sul letto, conformista e ulteriore oltraggio alla dignità. Andromaca non pianse nemmeno; si riabbottonò la camicia in un silenzio mentale raggelante. Cercò di riguadagnare un assetto convenzionale per affrontare un giudizio che il mondo esterno non poteva emanare in quanto ignaro ma, si sa, la coda di paglia e la coscienza lurida mandano avanti fantasie come treni. Infilò la giacca e fece per andare verso l’uscio. A quel punto, non poté più trattenere un conato di vomito. La tracimazione materiale servì solo come sfogo esteriore; lo schifo che aveva dentro rimase. Vagò per la città a piedi, angosciata dal silenzio mentale. Decise di tornare a casa solo dopo aver inserito le cinque banconote da cento nella cassetta delle elemosine di una chiesa di periferia. Lunghi giorni lugubri trascorsero in balia della disperazione. Guardava dalla finestra, protetta dal vetro, e non osava ributtarsi nella calca vociante a cui sentiva di non poter appartenere per merito. Aveva toccato il fondo, forse questa era la sua unica speranza. Prima di risalire però c’era da sguazzare nella melma fangosa di un abisso oceanico di paura e tristezza. Cercava un appiglio, uno scoglio da cui lanciarsi verso l’alto per la riemersione. Ma, intanto, si ricopriva di quella mota, pattumiera di chi è più su e lancia, senza
pensare, i propri rifiuti, residui e inutilità nel mare della dimenticanza. Schifosa, immonda e dimenticata. Il ragazzo magro vedeva ormai solo un’ombra di lei are alterando l’ambiente di tanto in tanto per questioni meramente fisiologiche, mangiare, poco, dormire, anche meno, evacuare, di conseguenza. La lasciava di fronte alla finestra e la ritrovava nella medesima posizione, impossibilitato all’intervento e lasciato nell’ignoranza dell’accaduto. Aveva provato a chiederle. Lei aveva risposto con un sorriso piccolo e triste, lontano dall’allegra sfrontatezza del loro ultimo incontro piacevole. Il ragazzo magro aveva desistito, esausto. Il cervello di Andromaca era spento. Non produceva pensieri: mandava solo un’immagine in loop per confronto con il mondo “normale”. Il risultato era “schifo”così non osava chiedere nulla né meritare qualcosa. Per due mesi Andromaca si rifiutò anche di parlare con la propria madre. Che, un giorno, stanca di non sapere, d’accordo con il ragazzo magro, piombò in casa. Andromaca la vide come lo scoglio che cercava sul fondo melmoso da cui non riusciva a rialzarsi. Ma non parlò. La vergogna l’assaliva e la sporcizia che si sentiva addosso la costringeva all’angolo del silenzio. Non avrebbe accettato il giudizio di sua madre né tantomeno il rimprovero, la delusione e il dolore che avrebbe scorto negli occhi materni. Aggrappata a lei, accettò le sue decisioni. Si trasferì nella casa in cui era nata e cresciuta, intrisa di ricordi di felicità infantile, di tragedia adolescenziale e di tranquillità a due. Fasi della vita candide, seppur drammatiche, incontaminate anche se tristi. In poche settimane, con il silente o della sua onnipresente madre, la casa
rifiorì e con essa, pian piano, strascicando fino alla postura eretta senza stampelle, Andromaca ricominciò a vivere e a sentirsi minimamente degna di farlo. Trovò lavoro, accontentandosi di un part time in un call center. Il resto sarebbe venuto. Ogni tanto si ritrovava a guardare fuori dalla finestra, inebetita e sudicia. Ore e ore a scrutare vite che non sarebbero mai state sue. Le scorrevano davanti persone attive attaccate a un cellulare, madri vocianti che tentavano di recuperare i propri figli, scolari di corsa per ritardi nella sveglia, giovani che si attardavano in chiacchiere prima della buonanotte. Sentì di invidiare queste vite, normali, tranquille, ineluttabili nel loro percorso. Le invidiava per aver perso l’opportunità di viverle, di averne vissuto una parte, di non averle comprese nel prodigio del loro accadimento, di non aver più l’occasione di vivere. La rabbia di tanto in tanto faceva capolino ma la vergogna ne riacciuffava la cresta per seppellirla negli angoli bui del suo cuore. Non si sentiva degna neanche di arrabbiarsi e si consolava ripetendo a sé stessa, come una litania priva di convinzione, che, forse, un giorno, ce l’avrebbe fatta. Il lavoro al call center era un diversivo dalla stanchezza di vivere. Riusciva anche a parlare di ciò che le avevano ordinato di dire, a sorridere con la voce e ad apparire leggiadra, accomodante e comprensiva come l’Andromaca che fu. Si esercitava alla vita e ad una resurrezione che le appariva ancora lontana, tanto da ritenere che non sarebbe mai accaduta. Muoveva piccoli i senza sostegno, da sola, tuffandosi nella marea umana per qualche attimo e fuggendone come dall'acqua gelata. A mano a mano prolungava i tempi di permanenza, per abituarsi. Si sentiva ancora un pesce fuor d'acqua nell'acqua, privo di polmoni e impossibilitato a uscirne. Un briciolo di forza di volontà le era rimasta e questo l'avrebbe aiutata a tirarsi su. La lontananza dal ragazzo magro aveva tranciato definitivamente la dipendenza da lui e la libertà mentale, il non dover dire grazie a nessuno, stavano
rappresentando un altro scoglio da cui spiccare il volo verso l'alto, verso l'emersione dalla mota. Ettore, di tanto in tanto, tornava a correre sul sentiero del parco che conduceva al luogo in cui aveva incontrato Andromaca. Lo smacco subito dalla studentella tutto pepe e vendetta era ancora sul groppone dello stomaco e difficilmente sarebbe andato via, digerito e smaltito. Era lì, ma il megaprof, il perfetto Ettore, non poteva esibirlo né con amici, né con i genitori, né con eventuali donne, pronte a genuflettersi ma poco disposte ad ascoltare se non per compiacere. I compartimenti stagni non consentivano alcuna tracimazione. L'isolamento tra ambienti mentali era a prova di bomba: impossibili i collegamenti. Aveva voluto così, si diceva Ettore correndo all'aria aperta, preceduto dalla nuvola di solidificazione del suo respiro ansimante, che appariva più rapida di quel che si ricordasse. “Gli anta sono una realtà” pensò e, come avesse premuto l'interruttore della consapevolezza, rallentò e si diede tempo, indulgentemente. Voleva anche prolungare il tempo per arrivare nel luogo in cui sperava di trovare Andromaca. Si scoprì, per la prima volta nella sua vita, a sognare, immaginare ad occhi aperti, costruire sceneggiature e a gustarsele come un bimbetto con un laccetto di liquirizia. Lui però era di altra pasta: riaccelerò, buttando al macero i cocci dei sogni autoinfranti, preso da una smania pragmatica e dall'ansia di non beccare il momento giusto dell'incontro. Così arrivò stanchissimo e ansioso senza trovare persone dal viso piacevolmente noto. Si fermò a respirare, piegandosi sui fianchi. Poi si guardò attorno, scorgendo solo fronde eolicamente scosse, arbusti rossastri e prato verde. Nessuna anima umana. Fece finta di allenare gli addominali, sdraiato sul prato verde in ammirazione dal
basso della natura. Si illudeva di dare del tempo affinché lei potesse arrivare. Dopo un quarto d'ora, sia gli addominali sia il suo cuore si erano induriti. Optò per uno stretching ammorbidente in cui cercò di togliere dal cervello quell'ennesima delusione che non intendeva ammettere, ancora speranzoso. Sentì il suo nome pronunciato da una voce femminile. “Sto sognando” si disse e si diede dell'idiota. Poi lo riudì. A quel punto, l'essere sperimentale che era in lui si voltò in direzione della sorgente del suono, sperando che lo sguardo si imbattesse prima in quelle lunghissime gambe. Ma gli apparvero delle gambe, si, belle anche, ma appartenenti ad un altro viso. La sera terminò nel letto della proprietaria delle gambe, sua ex studentessa ed ex amante, ora geologo del Comune e appena separata, desiderosa di reiterare le rocambolesche gesta del suo prof sul suo corpo. Andromaca si guardava nuda allo specchio e si accarezzava, cercando di suscitare una sensazione piacevole. Toccava le parti di cui conosceva la sensibilità erotica senza esito. Ancora il suo disprezzo si riversava anche sul suo corpo. Ancora pensava di non poter meritare niente, tantomeno il piacere sessuale. Si rassegnò allo stato del momento e si rivestì. Anche quello di guardarsi allo specchio era un esercizio di ritorno alla vita. Le avevano detto di riappropriarsi del suo mondo e di reintegrarlo con quello esterno. Ecco, cercava di farlo, anche se non sapeva perché, lei che ne conosceva i motivi, figuriamoci le altre persone che non sapevano cosa in realtà fosse successo. Aveva rifiutato psicologi e analisti, nonostante le preghiere della mamma. Non voleva parlare, solo cancellare. Ma alla mamma non poteva dire neanche questo, altrimenti le avrebbe chiesto cosa ci fosse da cancellare. Aveva voglia di toccare un uomo e di farsi toccare. Aveva però una paura folle di ripetere i maltrattamenti e l'umiliazione dell'unico uomo da cui era stata pagata per fare sesso. Andromaca rifletteva sulle sue paure muovendosi lentamente nelle stanze della
sua casa. Si fermò a riflettere. Cos'è la paura? Sentì una stretta alla bocca dello stomaco e un improvviso irrigidimento della muscolatura. Conosceva troppo bene il suo corpo per non dargli ascolto e si fermò, interrompendo il flusso di pensieri e lasciando scalmanare i fremiti materiali, reazione all'emozione che la pervadeva. Paura. Di cosa aveva paura? Era il timore di provare di nuovo lo schifo, il dolore e l'umiliazione o era terrorizzata da ciò che poteva succedere dopo? Aveva paura del sesso o temeva i giudizi? Era terrorizzata dai maltrattamenti e dagli abusi che poteva ancora subire o era bloccata da ipotetiche malvagità che avrebbero potuto ferire il suo già deturpato essere, nell'orgoglio e nella dignità? Aveva paura del materiale possibile o di un orrore sociale che aveva fondamenta solo nella sua testa? Tentò di ragionare: nessuno sapeva e nessuno avrebbe saputo. Come avrebbe potuto la voce dilagare e sconquassarle la vita se non poteva sorgere da alcuna parte del globo se non dai due protagonisti che vivevano in città diverse? Non aveva foto sul web, solo un nome fittizio. Certo, collegato al suo PC che comunque conservava una cronologia...ma a quale hacker interessava Andromaca, chi aveva interesse a inseguire le sue mosse fino a introdursi nella sua vita informatica per carpirne verità nascoste nell'etere? Nessuno. Era paranoia. Ma aveva ugualmente il terrore di questo fantasma sociale che avrebbe potuto ergersi a giudice e condannarla per i suoi misfatti.
Nell'immaginario collettivo, il pettegolezzo suscita molto più terrore e suspense di quanto non facciano cose abnormi o comunque fuori dalla realtà. Meglio Dracula di Novella2000. Si sentì meglio, però. Aveva capito cosa non andava emotivamente in lei e lo aveva sconfitto ragionando, mettendo sul piatto della bilancia pro e contro, fisime e realtà, paure tangibili e timori paranoici. Sbrigò in fretta le sue faccende e mise la tuta: la vita, anche se con un po' di tremarella, ricominciava e andò a correre, per godere della sua giornata di libertà, lontana dalla sua postazione al call center. Quel pomeriggio, Ettore tornò a casa stanchissimo. Per fortuna, era riuscito a bocciare in fretta 3 studenti i cui cervelli insieme non ne facevano uno buono. Sprofondò sul soffice divano e gettò la sua borsa da professore in preziosa pelle lavorata. Si soffermò a guardare i particolari del soffitto nella luce orizzontale di un pomeridiano semitramonto. Doveva reagire: la serata prometteva esclusivamente lunghe partite a scacchi, la cena era pronta – qualcuno, almeno così ricordava, avrebbe dovuto prepararla, se sua madre o la donna di servizio, non sapeva - ed erano solo le 5 di pomeriggio. Controllò il frigo per verificare che ci fosse l'utile e qualche dilettevole, si diresse verso il guardaroba e indossò la tuta: una vocina gli aveva suggerito di andare a faticare nel parco. Ormai, a furia di inseguire il sognato incontro, aveva sviluppato addominali e fiato invidiabili. Aveva cancellato dalla sua mente a compartimenti stagni quell'illusione e ora pensava solo a correre, ad ampliare i suoi polmoni e ad allungare le sue leve e la sua schiena. Così non fece caso, alla prima occhiata, alle gambe – lunghe, lunghissime – che sforbiciavano l'aria alla ricerca della tonicità.
La seconda partita: il lento attacco. La deformazione plastica Solo al trentesimo sollevamento si rese conto che lei era lì, riconoscendo il ricordo. Sollevò lo sguardo appena in tempo; Andromaca stava per ricominciare a correre nella direzione opposta a lui. “Ehi!” la voce gli era uscita così allegra, spensierata e felice che non la riconobbe. La donna si girò e, dopo un attimo di elaborazione dati, sventagliò in aria una mano per saluto, accompagnata da un sorriso largo e accomodante. Sembravano due vecchi amici che si incontravano di nuovo dopo lungo tempo. Il sudore gli si raffreddò addosso e sembrarono non accorgersene, tanta era la voglia di raccontarsi, parlare, ridere e scoprirsi. Si ritrovarono lì, stessa radura, stessa ora, tra i medesimi alberi per i giorni seguenti, lasciando alle stelle il compito di segnatempo nella mutazione della loro posizione. Ettore sembrava una persona diversa; non fingeva interesse con scopereccia finalizzazione, come era consueto fare con qualsiasi donzella gli capitasse a tiro di braccio negli ultimi 25 anni, ossia da quando aveva iniziato la sua carriera sentimentale, era realmente preso dalla testa di quella donna, dai suoi racconti, dai suoi ragionamenti sulle cose che accadono nel mondo, dai suoi strani riassunti di spettacoli, commedie o tragedie che fossero. Mentre correvano fianco a fianco sul sentiero del parco, Andromaca recitava le gesta di Violetta, di Tosca, di Antonio e Cleopatra, dei personaggi di Plauto; condiva con indotte lacrime e tono accorato le tormentate storie d'amore di Giulietta e Romeo, Tristano e Isotta, Lancillotto e Ginevra, Otello e Desdemona. Bisbigliava i retroscena e i particolari lussuriosi della relazione tra Giuditta e Oloferne, tra Enea e Didone. Ettore beveva le parole di Andromaca e i suoi incipit erano fluido soffice e rilassante nelle sue vene invecchiate dall’usura del cinismo. Ricambiava con immagini di montagne e sudore, di meraviglie fossili nascoste in una matrice rocciosa dal peso dell’età, di visioni spaziali che raccontano vicende lontane milioni di anni, di catastrofi le cui cicatrici si manifestano in
ferite nelle rocce, a volte ancora aperte, altre rinsaldate da pietosi fluidi che, quatti quatti, per vie trasversali, le riempiono, cristallizzando lentamente per nuclei di accrescimento sempre più grandi, come fossero prima piccoli paesotti, poi grandi metropoli. Andromaca, per la quale questa visione del mondo era completamente sconosciuta, lasciava partire l’immaginazione, inseguendo le parole di Ettore e girando con lui il pianeta. Da queste narrazioni, ognuno conosceva dell’altro un pezzo in più, giorno dopo giorno. Presto si accorsero che i pomeriggi al parco non bastavano più per i racconti e si misero di impegno nel continuarli in sale da the odorose e silenziose, in trattorie di paesi fuori dalla cinta urbana e, ogni volta, una rocca affiorante, un borgo medievale, una colonna incastonata in un muro o un fuggevole incontro, scatenavano storie del ato, inizio di accorati dialoghi sul presente. “Ti sei rincoglionito del tutto?” Giovanni il Donnaiuolo appuntò questo commento sulla fronte di Ettore dopo aver ascoltato il resoconto dell’ultimo poetico mese di Ettore. “Lo sapevo che non avrei dovuto dirti niente! Devi sempre sporcare tutto?” il prof, vagamente risentito, attaccò l’amico. “Sei tu che ti sei fatto il mondo femminile per intero senza scrupoli, raccontando dettagli irraccontabili… ora vuoi fare il verginello con me che sono compagno di mille bevute e incursioni banditesche nei cuori e oltre di mille donne? Ehi, stai parlando con me, non con il tuo confessore in chiesa a cui ometti verità che nemmeno Dio vorrebbe sentire pur vedendole!” “Ha ragione. Ci devi stare. La critica è inoppugnabile”senza pietà, Arrigo l’Allenatore concordò con Giovanni contro Ettore. Ettore li scrutò e in un istante gli ò davanti tutta la loro vita in comune. Ne sorrise soprattutto quando ricordò le immagini dei loro matrimoni, entrambi avevano capitolato poco prima dello scoccare della fatidica età, il quarantennio, e dei loro pargoli, di età contabile con le dita di una sola mano. Le loro uscite e le conseguenti scorribande erano ormai con il contagocce; le rispettive mogli non tolleravano più, o molto poco, l’eccessiva libertà, poiché ne rivendicavano
una parte anche per loro stesse e dato l’esiguo tempo a disposizione per sopraggiunta prole, ne pretendevano una fetta. Stranamente, però, queste immagini non furono per Ettore un motivo di ilarità ma le guardò con dolcezza e desiderio, come se fossero un premio del’incipiente mezza età, da gustare lentamente e pazientemente. Vedeva nei loro volti la perdita della freschezza, le notti insonni, le preoccupazioni e le responsabilità per un essere umano che non aveva chiesto di venire al mondo. Però, tra le rughe e le brune occhiaie, intravedeva uno stato di benessere melanconico, la rilassatezza della noia dei pranzi domenicali dai nonni, dove una risata diviene un evento eccezionale e si ricorda per decenni. Ettore stava riscoprendo la semplicità e la bellezza di una sintassi di vita senza arzigogoli, senza impalcature né forzature, poco barocca e molto povera. Gli amici di sempre erano increduli e scettici, ma quasi convinti. Poi si guardarono e scoppiarono a ridere, esclamando che non poteva durare, né che cambiamento sì radicale potesse essere frutto di una elaborazione esistenziale e non di una cotta temporanea. Ettore li mandò a quel paese, scansando con veemenza, fin quasi a farlo cadere, il boccale di birra che aveva davanti. Si perse nel vociare del pub e agitò lo sguardo attorno, incantandosi a osservare le fattezze di una donzella e il sorriso di un’altra. “Almeno le hai schiacciato la patata?” Arrigo l’Allenatore lo schiantò con il suo pragmatismo. “No” La risposta di Ettore fu laconica e senza commento. “Pensi sia una portatrice sana?” Giovanni si impegnò a sradicare le attuali certezze di Ettore. “Si” “E come lo sai?” Giovanni e Arrigo, provocanti, posero insieme la domanda senza concedere la possibilità di evasione. “Lo so” Ettore vide le facce plasticamente scettiche degli amici che chiedevano plausibili
spiegazioni. “Non è mai arrivata vestita da sciantosa. Sempre leggeri tacchi inoffensivi, mai una scollatura, mai una iperminigonna. Un vestiario sobrio ed elegante. Si vuole mostrare per quello che è, non farsi scopare per ciò che non è e vivere sperando di diventarlo dopo essersi fatta scopare. Non ha paura di mostrare i suoi difetti. È già stata sposata. È una bellissima donna. L’ho vista sudata, senza trucco e in tuta. Non ha bisogno del sesso per sentire di essere in vita. Lo farà, in caso, solo se gli piacerà e se gli andrà” “E tu? Quando lo vorrai tu?” Giovanni intinse l’indice nella piaga aperta che pensava esistesse ma restò sorpreso. “Non ho ancora pensato a fare l’amore con lei. Non ho neanche creato l’occasione. Non mi pongo il problema. Se capiterà e ci andrà, lo faremo. Questa volta non ho intenzione né di forzare la situazione per aggiungere una tacca laddove ce ne sono già parecchie, né di abusare di lei nei termini che conoscete. Non mi pongo il problema, anzi non è neanche un problema.” Giovanni e Arrigo arono all’argomento calcio. “Le partite della sua squadra sono in promozione” disse sorridendo Andromaca al suo interlocutore telefonico. Da quando frequentava Ettore, aveva inanellato, uno dietro l’altro, successi e contratti a ripetizione. Impossibile dire no a quella voce felice e suadente. Il capufficio era soddisfatto; finalmente quella donna si era sbloccata e stava producendo per le potenzialità che fino a poco tempo prima erano sulla carta. Ancora qualche mese così e la dirigenza le avrebbe affidato un gruppo di giovinetti alla prima esperienza lavorativa, togliendola dall’umile lavoro di centralinista. La vide alzarsi dalla postazione dopo aver concluso l’ennesimo affare e dirigersi a prendere un caffè all’unico posto di ristoro che quel luogo claustrofobico concedesse: la macchinetta, quella scatola dispensatrice di liquidi contraffatti che millantavano sapori veri. La raggiunse con il prefissato obiettivo di parlarle.
“Andromaca, come va?” Lei, a quell’invasione di campo, si irrigidì; era pur sempre un essere maschile che le si avvicinava troppo e non era ancora pronta ad affrontare senza difesa situazioni dirette. Tranne che con Ettore con la quale si concedeva anche di camminare a braccetto. Si diede della stupida: era insensato non fidarsi del suo capo e avere un contatto fisico con un altro uomo. “Bene, Ulisse. Scusami, dopo 4 telefonate di fila avevo bisogno di qualcosa che mi tirasse su. Un po’ di brodaglia nera e calda” Ulisse la rassicurò affermando che si meritasse tutta la brodaglia nera e calda che voleva. “Anzi, vorrei farti una proposta” Ulisse era un abile venditore e le stava intortando una storia per raggiungere i suoi obiettivi legati al target impostogli dall’azienda. “Tra un mese mi chiederanno di cambiare qualcosa nella mia squadra. Vorrei che tu guidassi quei giovanotti appena assunti. Però in questo periodo non puoi assolutamente fallire. Devi continuare su questa media. Magari superarla. Stringi i denti, fai un fatturato da paura e ti toglierai per sempre la cuffia dalle orecchie. Che ne pensi?” Andromaca spalancò un ingenuo sorriso “Sarebbe veramente grande. Grazie, Ulisse per aver pensato a me” “Una donna della tua cultura non poteva rimanere a lungo dietro le quinte” Ulisse la blandì ancora per condurla là dove volavano le aquile dei suoi obiettivi. “Basta, altrimenti mi monto la testa!” Andromaca si schernì sinceramente; da molto non possedeva più stima di sé tanto da renderle incredibili le parole del suo capo. Ulisse aveva già capito da tempo la sua situazione e aspettava solo l’occasione giusta, puntualmente arrivata. Non falliva mai un colpo, da talent scout. Nessuno tra coloro su cui aveva scommesso in ato aveva tradito le sue aspettative.
Individuava i soggetti papabili, ne carpiva le debolezze e i punti di forza, smussando i primi e acuendo i secondi e, al momento giusto, li lanciava. Guadagnando sempre un botto di quattrini per sé. Questa donna, poi, lo affascinava oltremodo. Cosa l’aveva spinta ad abbassarsi e accontentarsi di questo lavoro? Quali tragedie – perché era certo che ce ne fossero state – nascondeva? Perché aveva divorziato? Perché una persona così in gamba aveva meno rispetto e convinzione di sé di una ragazzina ignorante appena uscita da un istituto tecnico che mangiava la gomma a bocca aperta? Sapere tutto ciò sarebbe stato inutile, nonché abbastanza dispendioso e non aveva perciò nessuna intenzione di scoprirlo; avrebbe volentieri scoperto lei, però, bella com’era. Purtroppo non era il momento di saltarle addosso. Delle due l’una: o soldi o sesso. Per ora scelse i soldi. Per ora scelse di spremere quella donna come un limone per farci soldi. Per il sesso avrebbe atteso l’occasione giusta e ce ne sarebbe stata una, prima o poi, per destino o per induzione. Quella sera, Andromaca si fece coraggio e invitò Ettore a cena a casa; aveva tanta paura ma anche tanta voglia di normalità, di cucinare per qualcuno, di parlare senza timore di non essere ascoltati, senza freni nelle espressioni e nei gesti. Non che fosse una persona dalle movenze esplosive; Andromaca era pacata nella sua esteriorità e sobria nella sua bellezza, manteneva un tono di voce udibile non troppo e solo a volte le risate squillavano come una marcetta suonata al pianoforte. Entrando nell’appartamento, Ettore notò che, nonostante l’infrequenza di lusso recente e la presenza di bellezze ate, forse un po’ da restaurare, quel posto profumava di Andromaca. Quella che era stata la casa di famiglia e che manteneva il sapore di lei bambina con immagini sparse qua e là e oggetti a ricordare un’infanzia lontana, stava subendo ora una trasformazione irreversibile sotto il lavorio quotidiano e il vissuto di Andromaca adulta. Chissà cosa faceva nella sua solitudine serale. Ettore capì che avrebbe potuto tranquillamente
chiederglielo e lei avrebbe risposto tranquillamente, senza sospetto. Sorrise tra sé e sé e la baciò sulla guancia. Lei gli prese la mano e lo portò in cucina per mostrargli l’opera a cui si stava dedicando dal pomeriggio. Lasagne alle melanzane, spigola al cartoccio, strudel di mele e fragole fatto con le proprie mani. “Queste manine sante hanno cucinato tutto questo ben di Dio?” con atteggiamento ironico, Ettore prese le mani della donna e le baciò entrambe in modo cortese. Andromaca rise e nella felicità le sfuggì uno sguardo di desiderio di cui non si rese conto, tanto aveva seppellito tutto ciò che aveva a che fare con il sesso, provocazioni comprese, ma Ettore se ne avvide e ne fu turbato. Non volle ascoltare ciò che il suo corpo gli diceva, così ò alle chiacchiere. “Cosa dobbiamo festeggiare?” chiese l’uomo. “La mia futura promozione!” Ettore la guardò interrogativamente e fu colto dalla tentazione di chiederle cinicamente se le avessero dato un telefono nuovo per lavorare ma si zittì dicendo che Andromaca non si meritava questa cattiveria e che era in una posizione di debolezza. Doveva andarci con i piedi di piombo. Si meravigliò di sé stesso; la delicatezza da usare infatti non era finalizzata al consumo finale di patata, bensì a un interesse vero per la sua persona. Tornò a lei e la esortò. “Il capo mi ha detto che ho migliorato il fatturato e che se continuerò così, dirigerò un gruppo di persone che svolgeranno il lavoro che ora svolgo io ma io… non lo farò più!” Si abbracciarono e cominciarono a saltellare. Ogni piccolo motivo era buono per stare allegri. Ettore si fermò e, scettico, chiese se non fosse un po’ poco per festeggiare.
“Oh, no” disse Andromaca per nulla infastidita dalla contrapposizione di Ettore che ritenne giustissima “è una promozione che mi fa bene all’anima. Anche se non la otterrò, il solo fatto di aver partecipato alla gara, di sentirmi alla pari con gli altri colleghi, considerata non più come l’ultima ruota del carro, di sentirmi di nuovo io, sorridente e disponibile, utile e non dannosa, mi fa salire al settimo cielo!” Andromaca aveva messo enfasi nelle sue parole, forse eccessiva. Si accorse di aver detto troppo e di aver superato un limite oltre il quale si richiede una perfetta sintonia di anime e l’accettazione della responsabilità della felicità dell’altro. Finora aveva parlato di sé stessa attraverso racconti e opinioni e ciò le era bastato. “Scusami, non avrei dovuto lasciarmi andare così. Mettiamo un po’ di musica, vuoi? Vorrei farti sentire Vivaldi, perfetto per la cena” sospirò queste parole in un soffio come a dirle solo a sé stessa e fece per allontanarsi da Ettore per dirigersi verso l’impianto stereo. Ma Ettore la afferrò per un braccio e la strinse senza forza ma con amorevole determinazione. “Perché scusarsi?” disse serio l’uomo e la abbracciò. Stettero abbracciati fondendo le loro anime a lungo. Ettore si sentiva un uomo nuovo. Andromaca sentiva di essere tornata. Nulla di sensuale sorse ed entrambi si sorpresero, senza ammetterlo uno con l’altro, senza chiedersi perchè. Ognuno era diventato per l’altro un rifugio, un porto sicuro in cui attraccare in giorni di tempesta. Ettore volle chiederle ciò che si domandava da tempo. “Cosa nascondi, Andromaca? Cosa ti è successo? Quale dolore o vergogna ti costringono? Tu sei bella, chiara, trasparente, ma fino a un certo punto. Poi il buio, si spengono i riflettori e non consenti di fare luce” Lei sorrise amara. Abbassò lo sguardo poi lo lanciò negli occhi di lui che capì
quanto la domanda fosse ancora acerba, prematura, inopportuna. “Oggi si festeggia e basta, ho capito” disse Ettore sciogliendola dall’abbraccio dolcemente poi, scherzando felinamente la scosse e la puntò. “Vai a cucinare, donna!” Andromaca salutò militarmente dicendo “Obbedisco, professore!” Appena le volse le spalle, Ettore non potè trattenersi dall’assumere un’espressione di trionfo: quella donna era nelle sue mani, le sue ferite aperte si affidavano incondizionatamente alle sue dita e lui le avrebbe intinte nel suo sangue come fosse marmellata a proprio piacimento, quando avrebbe voluto. Ma quella sera no, non voleva. Ancora non aveva intenzione di compenetrare due compartimenti stagni, ben tenuti, fino a quel momento, separati: il suo sadismo e l’amore che provava per quella donna. Dormirono abbracciati, quella notte. Fuori, il freddo frizzantino fu una scusa montata ad arte da Ettore per non affrontare la cavalcata in moto fino a casa. Prima, parlarono sotto le coperte leggere di un avanzante autunno fino a tarda notte, scherzando e ridendo a crepapelle di qualunque banalità. Il sonno li avvolse contemporaneamente. Fu bello e semplice. La mattina, Ettore preparò il caffè e la svegliò massaggiandole i folti capelli sparsi sul cuscino. Si stava godendo quel momento confidenziale senza pretese e ne sentì il sapore in bocca per l’intera giornata. Un sms lo risvegliò da quel torpore estatico di cui si erano accorti anche gli studenti. “Niente neanche stavolta?” Giovanni il Donnaiuolo insinuava ma Ettore non abboccò alla provocazione, procrastinando la risposta. Seguì un altro sms, questa volta ben più insinuante. La studentessa di turno, lasciata in stand-by per qualche settimana, pretendeva attenzioni. Ettore non se lo lasciò dire due volte; chiuse a doppia mandata il compartimento lucente di Andromaca, non prima di averle inviato un sms rassicurante per tenerla a bada, e si inoltrò nel buio delle sue perversioni, dando spazio alla sua
voracità e cattiveria e perforando tutto ciò che era perforabile di quella ragazza, anima compresa. L’anima di Andromaca, fragile e vulnerabile, si ruppe quando, sull’onda dell’entusiasmo per questo acerbo riavvio della vita, provò a contattare i vecchi amici. Voleva restaurare vecchie complicità, soprattutto con la Cate e Genny, avrebbe chiesto perdono della sua lontananza, imbastendo qualche scusa da approfondire conclusa la ristrutturazione del rapporto. Era determinata a riaffacciarsi alla vita e poteva farlo solo recuperando pezzi del ato; sapeva che sarebbe stato faticoso ma sperava nella comprensione, retaggio di un affetto che fu. Si scontrò contro un muro di abitudini consolidate che nessuno aveva volontà di abbattere. Una litania le percosse lo stomaco e la dignità, strizzandola come uno straccio. “ah, finalmente ti sei ricordata!” “E ora che vuoi da noi?” o, nel caso di massima benevolenza “mah, se vuoi, facciamo una cena, vieni anche tu. Però, mi raccomando, niente scenate.” Andromaca era conscia che questo era il prezzo da pagare; avrebbe cosparso il suo capo di cenere e chiesto scusa, perdono, pietà, auspicando che i ricordi non si fermassero solo ai tempi funesti ma si prolungassero all’indietro, in quei luoghi polverosi della memoria che conservano meraviglie, gesti di affetto, o, sorrisi, disponibilità all’ascolto a tutte le ore del giorno e della notte. Ben presto, però, si rese conto che non era così. Lei provava a coinvolgere, invitare, proporre ma mai nessuna delle sue iniziative attecchiva, come se i suoi desideri fossero ormai obsoleti per la maggior parte degli amici che furono. Lei era chiamata per spettacoli, mostre, eventi culturali, rigorosamente già scelti, quando il giorno e l’ora dell’appuntamento erano già fissati. A volte, anche solo un’ora prima. E lei, pronta e disponibile, cercando di dimostrare che era tornata quella di un tempo, tentando di affermare la sua esistenza.
Vana fatica poiché ormai era diventata un optional e quantunque grande fosse il suo sforzo, mai le veniva riconosciuta la sua dignità di esprimere un’opinione. Nessuno la trattava male; solo, non le davano ascolto. Dopo i primi tentativi, Andromaca si rassegnò a questo ruolo laterale da comparsa, attendendo il momento giusto per brillare di nuovo nei cuori delle persone a lei un tempo care e lei a loro. Ogni tanto ne piangeva, triste, attaccata al vetro della finestra da cui faticava a staccarsi, posizione privilegiata che le consentiva di vivere nel mondo senza esserne dentro. Adottò questa sua esistenzialità anche con gli amici; lei non era dentro, li osservava da fuori interagendo di tanto in tanto. Aspettava che la Cate e la Genny la chiamassero e che elargissero un minimo di disponibilità. Solo con Ettore sentiva di essere al caldo; si rifugiava da lui e, felice, si addormentava tra le sue braccia, paga di quell’avvolgente rapporto che bastava a sé stesso, che non chiedeva oltre, senza aspettative, senza futuro né ato. Quello scambio funzionava perché aveva trovato la sua semplicità nel presente, sfrondando la propria vita dai rami secchi del ato, di cui l’altro non ha colpe, e rispettando l’inverno che protegge i boccioli, senza dargli la responsabilità dell’eventuale morte precoce al freddo, di cui non ha colpa, semplicemente perché è. L’inverno trascorse, il freddo concluse la sua azione protettiva. La primavera portò la promozione di Andromaca e nuove corse al parco. “Glielo dirai?” “Certo che si, perché non dovrei?” rispose Ettore a Giovanni e ad Arrigo in una delle loro poco frequenti incursioni serali. “Le chiederai di venire con te?” ad Arrigo piaceva provocare l’amico su terreni che riteneva sconosciuti. “Bella domanda. Non so. Ammetto che sarebbe divertente” “Solo divertente?” Arrigo affondò il colpo strizzando l’occhiolino a Giovanni. “Coinvolgente sarebbe meglio, per voi? Vi darei più soddisfazione? Ok, vada per
coinvolgente” “Non ti inacidire. Appena sfioriamo l’argomento Andromaca parti in quarta sulla difensiva. Stiamo solo cercando di capire. Ammetterai di non essere mai stato nelle condizioni attuali” “Cosa è cambiato?” Ettore digrignò i denti con rabbia enfatizzata. “Non te la sei mai scopata, ecco cosa!” Giovanni alzò la voce, spazientito. Poi si girò attorno per assicurarsi che nessuno l’avesse sentito. “Pensate di non essere cambiati voi due? Una volta te ne saresti fregato di cosa avrebbe pensato la gente se ti avesse sentito esprimerti in questo modo. Ora lo consideri triviale o non consono a un uomo adulto nella tua posizione?” “Toucheé” ammise il Donnaiuolo . “Tornando all’Islanda, si, credo che gliene parlerò stasera. Se dirà di non potermi seguire, non potrò biasimarla. I suoi impegni di lavoro sono cambiati” “Impegni di lavoro? Ma lavora in un call center!” puntualizzò beffardamente Arrigo. “Sei un cane” “È la verità” “Già, proprio per questo che non può abbandonare il lavoro per due mesi. La licenzierebbero” “Il tuo mega stipendio da iperprof basterebbe anche per le nostre famiglie. Figuriamoci per una che mangia come un uccellino” “Mangia molto, invece. E vi ricordo che non stiamo insieme e non credo che accetterebbe di farsi mantenere da me. Ho dedotto, dal poco che mi ha raccontato, che lo ha dovuto fare in ato, obtorto collo, e puoi stare certo che non ricreerà più le condizioni di una situazione che non solo le sta stretta ma che l’ha anche fatta soffrire molto” “That’s amore” concluse Giovanni.
“Amen” gli fece eco Arrigo. “Stronzi” criticò Ettore. “Ehi, non avrai mica mangiato all’aperitivo con i tuoi amici, vero? Ho preparato un dolcino buonissimo” “Ciao piccola. No, abbiamo solo bevuto una birra e poi li ho mandati a quel paese” Ettore salutò Andromaca con uno schiocco sulla guancia. “Prima del dolce, però, mangiamo un po’ di pizza che ho preso al forno vicino al pub. La stava sfornando in quel momento, non ho resistito” “Ma avevo preparato la parmigiana!” “Scongelata, vorrai dire” “Ok, scongelata. Ma chi l’aveva preparata prima di essere congelata? Io!” Risero insieme nel loro rifugio. La serata tiepida inondava i loro sensi con refoli di vento che si intrufolavano tra le imposte socchiuse. Dopo mangiato, Ettore decise di parlare. Le raccontò del progetto di ricerca e delle meraviglie vulcaniche e tettoniche dell’Islanda; le confessò quanto questo studio stuzzicava la sua brama di sapere e di scoprire, da un po’ di tempo sopita per far posto al ruolo di professore; le sospirò in un orecchio la felicità e l’entusiasmo che aveva messo nell’impegno, ringraziandola di esserne l’artefice. Andromaca si era persa tra una dorsale e l’altra, immaginando Ettore saltellare su geyser bollenti a piedi nudi. Sorrideva entusiasta per lui. Ettore si era prefigurato una reazione diversa; pensava a un borbottio, estrinsecato in richieste di durata della lontananza ma si disse che Andromaca non era la sua donna e lui non era il suo compagno. Non avrebbe accampato diritti o aspettative. Ne rimase un po’ deluso e decise perciò di poterne accampare lui, di diritti. “Non mi chiedi quanto starò via?”
“Credo che tu stia per dirmelo.” disse sorridendo Andromaca. Ettore tacque. Lei si sentì in dovere di mostrargli il suo affetto. “La vita mi ha insegnato che non è mai la stessa, le persone, le situazioni, i modi di vedere cambiano. Mi ha insegnato che l'evoluzione dipende dai rapporti reciproci tra specie e ambiente. Una qualunque piccola cosa può cambiare il corso della vita di un essere vivente. Questo tuo viaggio cambierà sicuramente il rapporto tra noi. Mi sembra perciò inutile sindacare sul tempo” “Potresti venire con me” Andromaca lo guardò con intensità e Ettore mise sul suo volto una buffa espressione infantile. Lei proiettò nella sua mente immagini provenienti dalle sensazioni che aveva dentro. Non solo immagini felici le apparvero, anche lunghi giorni solitari per lei, ad attendere il professore di ritorno dai suoi studi. Non poteva permetterselo, il suo equilibrio non avrebbe retto. Sarebbe affondata come una nave troppo carica. No. Ma neanche poteva offendere il suo Ettore con un rifiuto netto. Optò però per la sincerità, omissiva ma pur sempre vera. Lo accarezzò sulla guancia. “Non posso” “Immaginavo una risposta del genere” Ettore abbassò gli occhi. “Molti motivi mi trattengono e il primo fra tutti è che non posso permettermi di perdere il lavoro, dopo la fatica immane che ho fatto per recuperare il tempo perduto. So da dove sono risalita e non voglio tornarci.” “Che altro?” Andromaca mantenne il suo volto sereno, nonostante fosse percorso da mille pensieri amari.
“Devi lavorare, studiare, analizzare, organizzare e controllare il lavoro degli altri. Molte ore della tua giornata saranno dedicate a questa ricerca che ti entusiasma così tanto. Non voglio essere un neo, un dovere, qualcuno a cui necessariamente rendere conto, una preoccupazione” “Potresti renderti utile. Potrei farti lavorare e...” “Niente inciuci, prof! Sono una persona integerrima, io!” lo rimproverò tra il serio e il faceto. Ettore ne sorrise, alzando le mani e dichiarandosi sconfitto. Ma continuò. “Qual è il vero motivo, Andromaca?” La donna notò con piacere che l'aveva sempre chiamata con il suo nome per esteso; questo pensiero la allontanò momentaneamente dalla risposta che doveva preparare. Sapeva che una frase buttata lì, come una sorta di contentino, non l'avrebbe soddisfatto. Ma sapeva anche di non poter ancora permettersi di parlare della sua sofferenza e della sua vergogna. L'emotività prese il sopravvento sulla ragione e Andromaca non riuscì a confezionare con ordine una risposta scevra da istintività. “Mi sentirei una cacchina all'ombra del grande professore” Lo disse sottovoce perchè non voleva farsi udire. Era assurdo pensare di confessare un malanno a chi ne è la causa, seppur inconsapevole. Ettore la abbracciò. “Tu non sei una cacchina. Sei Andromaca, ricordatelo sempre. Se la vita è stata spigolosa con te e non sei stata capace di affrontarla nel giusto modo, evitando di farti troppo male, se non sei riuscita a farti apprezzare, non vuol dire che non vali niente. Vuol dire solo che devi aggiustare il tiro con le convenzioni sociali, che devi essere più indulgente con te stessa; poi potrai affrontare le difficoltà che la vita ti pone di fronte con maggiore tranquillità” La guardò intensamente negli occhi. “Smettila di fare l'ariete di sfondamento. Non è più necessario. Purtroppo, possiamo fare la nostra piccola parte ma, come insegnano i geologi” e sorrise autoironicamente “Madre Terra vive anche senza di noi e continuerà a farlo per altri 5 miliardi di anni, giorno più giorno meno”
Mentre la riavvolgeva di nuovo in un abbraccio amorevole, Ettore si chiese da dove avesse preso queste idee paterne, la saggezza e il senso di protezione che aveva appena estrinsecato. Non era un retaggio familiare; né sua madre né tantomeno suo padre gli avevano mai parlato così. Senilità incipiente? Forse. Amore? Cercò di capirlo. Voleva bene ad Andromaca e con lei provava una rilassatezza languida che con nessun altro aveva mai sentito. Amore? Ne era quasi certo. Fu però un'altra la netta impressione, già provata, che gli penetrò nel corpo come una saetta a far luce nei corridoi bui della sua anima. L'aveva in mano; poteva stritolarla a suo piacimento, quando e come gli avrebbe fatto comodo, era un uccellino con le ali bagnate che lo guardava cinguettante tra paura e bisogno di cure e che, comunque, per la sua scomoda posizione, non poteva far altro che affidarsi a lui. La sua mente risucchiò il compartimento stagno dedicato ad Andromaca nel compartimento stagno del sesso e da quello all'altro compartimento, quello più nascosto, quello in cui si permetteva di osare. Il sadico, lupo affamato, che era in lui aveva sentito l'odore del sangue proveniente dalle ferite aperte di Andromaca. Lei non aveva fatto nulla per nasconderle, benché non ne avesse rivelato l'origine e la bestia che le aveva provocate. Chissà, forse lei stessa si era inferta colpi per punirsi. Chissà, forse era un'autolesionista. La strinse a sé con potenza. Lei non si ribellò, ignara di ciò che succedeva nella mente di Ettore. Stavano fondendo i loro corpi così come i compartimenti stagni del cervello dell'uomo. Ettore non poté fare a meno di baciarla e in quel bacio erano immersi mille altri, che percorrevano la loro storia e che si incamminavano su una via di cui solo Ettore era conscio. La tracimazione era in atto. Ettore partì dopo tanti baci apionati e amorevoli; non fecero mai l'amore,
non volle forzare una situazione di reticenza e Andromaca non si era certo battuta per accelerare un processo che sapeva lento e faticoso. Da parte sua, lui voleva godersi l'attesa; nel frattempo, il compartimento era occupato da un'altra giovane donna disponibile a torture e ai conseguenti lividi e, soprattutto, membro della squadra di ricerca in Islanda, in qualità di naturalista. Due giorni dopo, all'aeroporto, Ettore aveva già chiuso il compartimento dedicato ad Andromaca per buttarsi nella nuova avventura, come se nulla fosse accaduto negli ultimi mesi, come se la fusione e l'intimità tra lui e la sua compagna di vita affettiva non fossero mai esistiti. Completamente dimentico, cieco al ato e al futuro e con gli occhi spalancati sul presente, si godette i giorni di studio e le notti brave con la ricercatrice, quando il sonno e la stanchezza concedevano una tregua. Di tanto in tanto, nei pochi momenti di pausa della ricerca e di riposo, scoccava l'ora degli scacchi; le partite divennero sempre più frequenti dal momento in cui la naturalista dovette tornare in Italia, causa scadenza contratto, con chiusura di specifico compartimento. In un mese, battendo quasi tutti gli avversari diretti, risalì nel ranking mondiale di molte posizioni, affermando ancora la sua enorme abilità. Di tanto in tanto, scoccava anche l'ora di Andromaca; mezzi di comunicazione non ne mancavano e potevano parlare per ore davanti a una webcam. Non era la stessa cosa ma riuscivano a restaurare la complicità degli incontri de visu. Andromaca si scopriva ancora di più, almeno questa era la sensazione di Ettore. In realtà, la donna cercava di sviare l'attenzione sui nuovi disastri che la vita le stava ponendo di fronte ad ulteriore esame. “Andy, sei laureata in comunicazione?” “Si, certo, Ulisse. Non lo sapevi?” Impegnata a esaminare alcune liste di controllo, Andromaca aveva risposto distrattamente all’apparentemente innocua domanda e non si accorgeva, ormai, neanche più del diminutivo discorsivo del suo bel nome. “Vorrei la tua attenzione, sono ancora il tuo capufficio, mi sembra”
Andromaca alzò gli occhi dai fogli, preoccupata dal tono inusuale di Ulisse. “Scusami. Dimmi” rispose, umile. “Vorrei farti ascoltare una registrazione” Ulisse accese un dispositivo elettronico che lei non aveva mai utilizzato, tra i tanti impiegati in quell’ufficio. Non era molto interessata agli sviluppi della tecnologia e non ne aveva mai chiesto spiegazione. La sua voce era riconoscibilissima; l’interlocutore era un cliente o potenziale tale. Il dialogo era sereno e, scherzosamente, il cliente si era buttato su complimenti per una persona che non aveva mai visto. Andromaca aveva imparato ad assecondare i clienti, cosiddetti pappagalli telefonici ai quali bastava una voce di donna per ringalluzzirsi. La tattica era efficace e molti contratti erano stati chiusi, anche importanti, con questo sistema. Una sorta di pesca all’amo dell’allocco, instupidito dalla giovinetta di turno o, presunta tale, dato che mai si sarebbero visti. A un certo punto, il potenziale cliente espresse la sua verve da conquistatore con un’avance diretta chiedendo ad Andromaca se avesse accettato di andare a cena con lui nel caso avesse firmato il contratto. In sintonia con il clima e certa che la cosa non avrebbe mai potuto concretizzarsi, sia perché il call center era una fortezza di dati, sia perché i venditori non davano neanche il nome ma solo l’identificativo numerico, Andromaca aveva risposto che sarebbe stata felicissima di incontrarlo, attaccando di rimando “Allora, concludiamo questo affare?” Qui, Ulisse interruppe la registrazione e, con fare inquisitorio, le chiese di continuare il racconto della conversazione. Andromaca era sbigottita dall’accusa neanche troppo nascosta e, sgranando gli occhi dalla sorpresa, non seppe far altro che balbettare che non si ricordava, che ne aveva fatte milioni di queste telefonate, che era sicura di non avergli lasciato neanche il nome, figuriamoci il numero di telefono privato.
Ulisse aveva iniziato la messa in scena; circondarla di sospetti e farla cedere al ricatto. Voleva quella donna, non pensava ad altri che a lei, la desiderava e la sognava come un’ossessione. La sua cinica razionalità gli impediva tuttavia di seguire un percorso lineare: corteggiamento, incontri sempre più frequenti e ravvicinati, sesso. E poi anche basta, fine della storia, in modo più o meno brutale. No, Ulisse voleva averla in esclusiva per un periodo che bastasse a soddisfare le sue voglie e mantenere il potere di farla fuori senza rivederla mai più. Non avrebbe mai fatto sesso con una che poi sarebbe rimasta tra le balle, presenza ingombrante e ricattatoria, nel luogo di lavoro, nello stesso ufficio e pure sua sottoposta. Non se ne parlava; aveva deciso di farsela e di buttarla via come un cencio usato. Non aveva mai messo in dubbio di farcela; era sicuro di arrivare al suo obiettivo e nelle modalità atroci che aveva progettato. La telefonata era vera, che fortuna averla ascoltata per puro caso! Controllava già da tempo le chiamate dei suoi collaboratori e, più attentamente, quelle di Andromaca ma, potendo solo fare un controllo a campione, era pessimista sulle probabilità di intercettare qualcosa di interessante che la riguardasse. Invece l’aveva trovato. Avrebbe imbastito qualcosa di credibile e soprattutto avrebbe distrutto il resto della conversazione che discolpava in modo netto e inequivocabile la raggirata Andromaca dall’accusa del sospetto di fronte alla dirigenza. Anzi, avrebbe cancellato il file della registrazione. Nulla c’era di illegale ma, si sa, una voce si infiltra come aria nelle toppe delle porte e in pertugi non visibili da occhi disattenti e crea spifferi che si insinuano negli ambienti, prima come sottili e deboli refoli, poi, incontrandosi, crescono come correnti d’aria che a loro volta si incontrano e si uniscono se i singoli refoli sono diventati tanti e, unendosi, diventano tifoni, uragani, catastrofi tanto distruttivi quanto prevedibili per coloro che potevano sigillare le finestre e invece non lo hanno fatto per incuria o sufficienza o misero opportunismo. “Se lo ritieni opportuno, cara la mia Andromaca, ne parliamo a cena” Fu questa la sentenza di Ulisse e la condanna per Andromaca fu lo
sprofondamento, ancora e ancora, nel viscidume, unto e laido, maleodorante e nero come la pece, del sesso quando diventa ricatto. La fortuna e la sfortuna sono due facce della medesima moneta ma a volte un lato viene caricato più di un altro per far cadere la moneta dalla parte giusta. Ulisse aveva girato le spalle, beffardo, senza offrirle possibilità di replica. Andromaca già non pensava più al ricatto bensì a un rimpianto. Il quel momento, il suo cuore di donna strizzata dalla vita e da sé stessa pensava al dolore che si era inflitta, alle rinunce cui volontariamente era andata incontro a braccia aperte. E la più grande era per il “suo” Ettore, quell’uomo gentile che le aveva asciugato le ali di ero bagnato e le aveva permesso, senza pretendere, di rimettersi a volare. Avrebbe dovuto concedersi completamente, senza pensare, spalancando sé stessa al suo benefattore, senza paura, né del ato, né del futuro. Il “suo” Ettore. Al suo ritorno, tutto sarebbe cambiato e il rimpianto di non aver ringraziato, aprendosi e dando vita a una nuova vita, il suo benefattore, la percorreva come una scossa elettrica. Non avrebbe neanche potuto parlargliene al ritorno; Andromaca era convinta che niente sarebbe stato uguale a prima, niente più complicità, niente più tenerezze, niente più intimità. Anche se si fossero rivisti, anche se non fosse tornato accompagnato, cambiato e distratto, Ettore sarebbe stato preso da mille racconti e da mille segreti; sarebbe stato legato a lei per sempre, lei lo sapeva, ma non gli avrebbe permesso di sporcarsi con la sua vita priva di senso, di costrutto e di contenuto. No, doveva proteggere Ettore dalla brutalità in cui aveva vissuto – e che per qualche momento aveva dimenticato solo grazie alla sua dolcezza – e in cui avrebbe vissuto nel futuro per mano di Ulisse e del suo sporco ricatto. Si, doveva proteggere Ettore da sè stessa.
Terza partita: il contrattacco di Ettore Si, adesso ti trombo, ci sei cascata con tutte le scarpe, bella mia. Dietro alla tua facciata di donna piena di sé, intellettuale e matura, con quel tuo modo pulitino di parlare, c’è solo un esserino debole e indifeso. Non mi frega un cazzo del perché. Ora ti trombo e lo farò fin quando mi pare, fin quando non sarò stanco di te. In fondo anche tu sei solo una troia.
Ulisse sorrise amabilmente ad Andromaca: era il loro primo incontro, anche se un po’ forzato. La fece entrare nell’antro del lupo. Sono in trappola. Non posso più fuggire. Mi fa schifo questo stronzo, inetto presuntuoso. Parlo come lui, ora. Volgare, laido, viscido, spero tu muoia spiaccicato addosso a un camion. Andromaca sorrise di rimando facendo scuotere le viscere a Ulisse. “Visto che mi hai in pugno” disse lei con il tono più sensuale del mondo accompagnato da moine di sapore settecentesco e ciò fece di Ulisse uno straccetto tra le sue mani levigate “dovrò adattarmi: cosa hai preparato di buono per cena?” Ho dovuto anche prepararti da mangiare, puttanella. Se non me la dai stasera, ti schiaccerò come una zanzara e vedrò colare il tuo sangue sulla parete bianca dell’ufficio. Nonostante questi pensieri, Ulisse era in sua balìa: le aveva tolto la giacca, mostrandosi cavaliere con macchia ma senza paura, e Andromaca era apparsa splendente in un soffice e svolazzante abitino che lasciava percepire forme con i fiocchi e pelle morbida, leggermente colorita di un rosa bronzato, compatto e morbido. Ulisse le cinse la vita per condurla in sala, provocando in lei un brivido come se fosse venuta in contatto con melma fredda e appiccicosa. È eccitata. Le piace essere sottomessa a ‘sta troia, soggiogata e sotto scacco. No problem, piccola, ci sono qui io per accontentarti. “Sei bellissima stasera” una mano sulla schiena e l’altra sul viso, a premere sulle guance. “E gli altri giorni?” languidamente e frivolamente, Andromaca prendeva tempo – chissà perché poi, tanto sapeva che prima o poi avrebbe dovuto farlo quindi tanto valeva si sbrigasse; forse prima aveva bisogno di bere qualcosa o forse voleva solo umiliarlo come lui avrebbe fatto con lei – civettando e mettendo in pratica le poche lezioni di sesso a pagamento che la vita le aveva elargito. Non si
butta niente, tutto fa brodo. Ulisse non poté fare a meno di arrossire e, per non sapere né leggere né scrivere e coprire l’avvampamento le mise la lingua in bocca, dirompente e volgare, e la mano su una tetta, stritolante come una biscia. Ah, ok, vai per le spicce. Bene, allora neanche cenerò con te, neanche mi degnerò di fare due chiacchiere. Mi fai schifo, lascio che mi trombi, subito, ora e poi me ne vado. Non posso lasciarti venti euro sul letto perché sto già pagando il tuo silenzio. Vediamo cosa c’è qui dentro e speriamo di ricordarmi come si fa. Lui fermò la sua foga. Eh no, troietta, lo so che vuoi farla finita presto. I tuoi sguardi languidi sono solo una finta. Ora ti ho capito, stai accelerando i tempi. Speravi di farti la ciulatina e stop, vero? Hai sbagliato, cara la mia Andy, i tempi li detto io. “Ehi, vacci piano.” disse Ulisse con un tono suadente alla Bela Lugosi in versione Dracula e, staccandosi, le porse da bere. Stronzo. Andromaca sorrise senza parlare: non avrebbe saputo giustificarsi, quindi meglio tacere. Vacca, ti scopo solo quando lo voglio io. E ora ho fame. Quella sera, Ulisse non la toccò. Fu galante per sorprenderla e distaccato per aumentarle il desiderio. Voleva di più: non voleva solo farsela, voleva metterla in ginocchio e farla innamorare. Per ora l’avrebbe solo esibita. Gli sarebbe costato un po’ ma il gioco del soggiogamento valeva la candela, soprattutto se c’era la prospettiva che a interpretare la candela fosse proprio lei. Ulisse immaginava posizioni mentre dialogavano e, sorridendo beffardamente dei suoi pensieri, promulgò la validità dell’alternativa della pecora in luogo della candela e, come appetizer, la comodità della poltrona con un essere femminile ginocchioni, ispiratamente aspirante e suggente. Mi stai fregando, bastardo? Cosa vuoi? Non ti basta questa serata? Ti vuoi forse
“fidanzare”? Idiota, trucido presuntuoso. Come mi sento volgare insieme a lui. Devo solo mettermi in stand by, sottomettermi senza cedere, resistere, resistere, resistere e prima o poi si stuferà del gioco. Intanto, devo consolidare la mia posizione in ufficio, devo fargli le scarpe, soffiargli la posizione, fregarlo con le sue stesse mani. Queste mani che vorrebbe mettere ovunque. Vorrei solo che Ettore fosse qui e fare l’amore con lui. Le settimane arono; Ulisse esibì come da programma la sua nuova fiamma e lei, accondiscendente, accettava anche i diktat sul modo di vestire, sempre meno ricco di stoffa, sempre più sexy, sempre più volgare. Andromaca cambiava con la nuova vita; locali alla moda, fino a tarda notte, cocktail – aveva anche imparato a farsi piacere il Long Island, il preferito di Ulisse – che trangugiava con avidità – tanto pagava lui e gli sarebbe costata carissima almeno in alcolici – per lasciarsi andare a strusciamenti di ogni genere in pista. La svolta accadde una sera di un sabato di primavera inoltrata; Andromaca aveva la luna storta già dal mattino e la decisione di andare in palestra a caricare pesi e a scaricare rabbia non era stata una grande idea, visto che continuava a digrignare denti, mani e occhiatacce. Voleva farla finita con questa storia ma il legaccio sempre più stretto impostole da quella merda d’uomo le attorcigliava le budella e le impediva i movimenti, rendendola impotente e rabbiosa. Sarebbero andati a una festa in discoteca per il compleanno dell’ennesimo amico – amico? – idiota e godereccio, tutto locali, cocktail e griffe. Un mucchio di gente che non ha un cazzo da fare nella vita se non farsi guardare nella propria ridicola e povera acconciatura, esibita come fosse un vestito di lusso. Gente che di un abitino da 15 euro comprato al negozio dei cinesi ne fa un monumento da esposizione solo perché fa intravedere cosce e tette. Uomini con camicie di cotone grezzo mostrate per dar lustro a muscoli coltivati nella serra di una palestra. Gente che riesce a parlare e mettere quattro parole in croce solo se il contenuto è il gossip o il calcio. Gente che non legge mai un libro o che non sa chi è, non dico Gorbacev, almeno Barack Obama. Cerebrolesi che pensano di essere i migliori della città solo perchè un DJ, altrettanto fatuo e asinaptico, lo proclama enfaticamente a un microfono. Gente che dice “io sono imprenditore come lui” indicando il padrone di Mondadori, avendo solo un'edicola. Gente di cui i veri ricchi ridono a crepapelle nel loro
essere scimmiottanti di un mondo che non avranno mai perché non comprendono, perché gli è lontano mille miglia, perché nemmeno ce li vorranno mai, questi idioti, poveri stronzi che non hanno mai fatto niente per migliorare se non andare a svuotarsi le tasche per jeans stracciati e scoloriti. Il rodimento inquieto dell’anima di Andromaca perdurò fino a sera. Non si placò neanche quando si vide allo specchio con il microabitino, ultimo acquisto e dono di Ulisse per lui; si compiacque di sé stessa riflessa, poi si mandò elegantemente a quel paese per non cadere in basso come Ulisse e amici. Sorrise in malo modo al suo cavaliere che, rapito dall'esibizione corporale di Andromaca, non protestò. Te la sbatto in faccia, pezzo di cretino, ma neanche oggi te la do. Se non fosse stata così annebbiata dalla propria rabbia, Andromaca avrebbe potuto trasformare Ulisse da aguzzino a zerbino. Purtroppo, per lei, l'inquietudine si trasformò in una vera e propria fame sessuale quando conobbe il festeggiato: bellezza ingrata trattata male dalla palestra, elegante per quanto può esserlo un idiota, idiota a sentirlo aprir bocca alla prima sillaba. Lei non gli ò inosservata. Sotto gli occhi increduli di Ulisse e sotto effetto alcolico, iniziarono a ballare sempre più vicini, a strusciarsi, palparsi, avviluppandosi nella folla che, complice ignara, li nascondeva agli sguardi esterni. Cazzo sta facendo quella troia? Non può mica sputtanarmi davanti a tutti. Dove sta? Adesso le faccio vedere io chi cazzo è Ulisse. Vacca, che ti strusci ovunque. Non puoi farmi questo, cagna, tutta carina e perbene, sei la più troia. Ulisse si faceva strada a forza tra i danzanti, con il prurito alle mani che a stento teneva a freno per non sprecarlo e dedicarlo solo alla “sua” Andromaca. Il volto, però, rimaneva imibile, come se, molto semplicemente, stesse cercando di arrivare al bancone del bar. Finalmente li scorse; lui le parlava all’orecchio e entrambi ridevano. Stanno ridendo di me, mi sta già facendo cornuto.
I due però non ebbero alcun sussulto o sorpresa. Buon segno, non mi sta infinocchiando, sta stronza. Ulisse, rincuorato, lanciò comunque un’occhiataccia all’amico figo come a dirgli okay te la sei un po’ spupazzata e palpata, lei te l’ha fatta vedere ma non intingerai il biscottino. Ad Andromaca ò la fame sessuale. Stasera mi tocca, non potrò sfuggirgli. Cercò di ammansire Ulisse con una carezza che addolcì l’espressione dura e condusse sangue nei tubi. “Andiamo?” chiese Andromaca ando sensualmente le mani sul collo, come a porgergli il seno, e lasciandole poi scivolare sullo stesso quel tanto che bastava a indurire i capezzoli e far trapelare questo irrigidimento dal fievole abitino. A Ulisse non sfuggì l’amo; vi si attaccò come una fugurina dei calciatori aderisce alla sua allocazione numericamente individuata. Fu un vero peccato addormentarsi sul seno di Andromaca in preda agli effetti del quarto Long Island. Forse sono stanco, aveva detto biascicando, mentre già Andromaca si sfilava di sotto il suo peso – ossa, quattro ossa incrociate e una prominenza alcoolica all'altezza dell'addome che conferiva all'aspetto di Ulisse un che di bancario cinquantenne assuefatto dalla vita, dalle incombenze, dalla moglie arpia e dal capo cerbero - sospirando con forza di sollievo. Nonostante la mise piuttosto provocante, Andromaca scelse di tornare a piedi nella notte, consapevole che, con la rabbia accumulata e il suo ardore sessuale imbottigliato nel traffico della sua anima inquieta e buttato chissà dove, l'eventuale malfattore in avvicinamento – per furto o per stupro o per celia - ne avrebbe sicuramente fatto le spese. Camminava piano nella notte, godendosi l'aria che svolazzava tra le pieghe del minuto vestiario; il battito dei suoi tacchi sull'asfalto era il ritmo della musica della sua libertà temporanea, il riff del rilassamento tanto desiderato in quella nefasta giornata.
Si guardava attorno e godeva della ben fatta architettura di quei palazzi a cui era abituata nel nuovo sguardo che riusciva a dargli. La fretta a volte ci rende ciechi del benessere quotidiano, di ciò che abbiamo a portata di mano e di cui non sappiamo beneficiare. Camminava piano. Chissenefrega se c'è qualche scemo che mi vorrà far del male, tanto più di così... ho 10 euro nel portafogli e l'unica cosa che si può prendere, l'ho già svenduta. Si disse che era un'incosciente ma in quel momento non gli importava di nulla, voleva solo godersi il silenzio della città, guardare stralunata da un'altra prospettiva, non pensare a ciò che avrebbe potuto succedere. “Ehi, bellezza.” una voce spezzò il silenzio. Uffa, ora mi tocca combattere. Eppure, quella voce... Ancora non si era voltata. La voce la puntò di nuovo ma con maggior dettaglio. “Andromaca, sono io!” Si fermò con il cuore a mille. “Ettore!” Una corsa uno verso l'altra, un abbraccio infinito, tanti baci da amici. Non riuscivano a staccarsi, stringendosi forte per comunicare senza dire. L'abbraccio si tramutò in altro. Ettore fu il primo a staccarsi per mettere a tacere il desiderio. Perchè mi allontano? Non vedevo l'ora di rivederla e fare l’amore con lei e ora mi stacco? Con lei non sono normale. La guardò, la scrutò, fece una diagnosi. E' vestita come un troione qualunque, eppure è lei, la mia Andromaca. Che le è successo? “Come sei bella anzi, mozzafiato! A chi hai dedicato tutto questo?”
“Sapevo che ti avrei incontrato! L'ho fatto per te.” la sensualità di Andromaca era riaffiorata dalla sepoltura ed era esplosa in tutta la sua prorompenza al cospetto di Ettore il quale, ovviamente, non ne restò affatto indifferente. Si autoplacò: la “sua” dolce Andromaca, quella meravigliosa donna che voleva proteggere da sé stesso, non avrebbe accettato il compartimento torbido della sua vita. Ma lei non si placava. Nel raccontargli una balla clamorosa sulla serata appena trascorsa – sono andata in un locale, stasera, alcuni amici mi avevano detto dai, vestiti bene per una volta, è un locale elegante, facci vedere che sei una bella donna, non ti vestire da suora, bah, forse ho esagerato, insomma, ero in auto con un amico che poi ha bevuto troppo e ho dovuto riaccompagnarlo, guidando io, e ora me ne stavo ritornando a casa a piedi, sai, non avevo sonno e volevo farmi un giro. Mi sono detta che stando un po' attenta avrei potuto godermi una bella eggiata notturna, un po' di aria, non ho fatto altro che lavorare come una reclusa, devo stringere i denti, accelerare, insomma consolidare la mia posizione, non si sa mai. Fiume in piena, si muoveva senza freni agitando elegantemente le proprie forme di fronte alla crescente eccitazione di lui. Nonostante i due parlassero quasi sottovoce per non disturbare i dormienti e la quiete della piazzetta testimone del loro fortuito incontro, si sentivano rapiti in un vortice rumoroso, buttati in una corsa che superava le loro volontà e, mentre la donna era incapace di intendere, completamente e inconsciamente presa dai propri sensi, Ettore tentava di bloccare le sue voglie e di spiegarle il motivo per cui era lì – reciproca clamorosa balla – sono arrivato stamattina, mi sono riposato e poi, nel mettere a posto le valigie, mi sono accorto che avevo portato con me delle attrezzature di un collega, gliele ho riportate e ci siamo fatti qualche birra, fino a tardi, effettivamente non ti ho avvertita perché volevo farti una sorpresa. Questo mentre pensava il contrario. Come posso dirle che sono piombato a casa della naturalista per trombarmela come abbiamo fatto per due mesi ma lei non c'era e l'ho aspettata finora?
Andromaca non si fermava. Ah, ok ok, che dici, andiamo a prenderci cappuccino e cornetto? O forse sei stanco? Oh, scusascusascusa sei sicuramente stanco e vuoi andare a dormire. Ettore non riuscì a resistere oltre: l'amica, la sua dolce amica si stava trasformando in una magnifica preda. La fece tacere con un bacio. Finalmente, voglio averti, amore mio, voglio darti tutta me stessa.Non smettere, non smettere, non smettere. Ancora, baciami ancora, non fermarti, prendimi tutto, prendimi l'anima. Un pensiero netto spuntò dal marasma di sensazioni che aveva invaso Andromaca. O quel che ne è rimasto. Cosa ho da offrire a quest'uomo? Una vita di merda, un ricatto continuo, brutale, cattivo. Un tradimento sicuro, certo come l'alba che tra un po' verrà fuori a illuminare la brutta persona che sono. Stanotte o mai più. Con maggior foga Andromaca si spinse verso di lui. Allora ne hai voglia, non giocare con il fuoco, bambina, fermati, non sai a cosa vai incontro. Mi stai facendo morire. Ora ti prendo qui, sul cofano di un'auto. La spinse per stenderla e le si fece sopra. Non ti ribelli, ci stai, ti piace... no, qui non posso. Ettore si fermò e lesse negli occhi della donna un interrogativo. “Non qui, bambina” iniziò prendendole la mano per rimetterla in piedi. “Insieme siamo una bellezza unica, non possiamo farci vedere.” Le cinse la vita e Andromaca cadde in uno stato estatico di ipnosi, completamente nelle sue mani. Ti darò cose che non hai mai provato, ti farò sentire tutto ciò di cui sono capace,
farò brandelli di te, ti scoperò a sangue, dappertutto, con tutto ciò che mi verrà in mente, ti compenetrerò, distruggerò le tue cellule per integrarle con le mie. “Ho una fantasia piuttosto florida.” le disse provocante e per metterla in guardia – ultimo tentativo di chiusura del compartimento. “Fai di me tutto ciò che vuoi.” Gli si spalancò, anziché serrarla, la porta del suo essere pervertito. Il compartimento, dapprima impenetrabile per Andromaca, si aprì come un fiore a primavera, e il contenuto tracimò come un'onda di tsunami, invadendo tutto ciò che era attorno e dentro di loro. Capì che amava una donna che ai suoi occhi non era più, trasformatasi in cerbiatta da sfruttare a proprio piacimento. Non è lei ma è lei. Fa niente, la amo lo stesso. E si meravigliò della parola usata dalla sua stessa mente. Non doveva più proteggerla da sé stesso poiché lei, volontariamente, aveva proclamato di voler essere dilaniata dagli artigli della belva nascosta e violata in ogni pertugio, inconsapevole dell'effetto devastante che procurava all'interno di jeans maschili. Si era offerta come una vittima sacrificale in un sabba demoniaco, ingenuamente fiduciosa. Forse era questa la ragione per cui Ettore aveva ancora ritrosia, nonostante l'impeto con cui, giunti in casa, l'assaltava e la palpava per conoscerla. Ancora non le faceva del male, ancora solo il desiderio e non il morbo lo prendeva: lei rimaneva diversa, non lo avrebbe sfruttato, si concedeva gratuitamente. Le altre, quelle ruvide donne di fango dall'anima imputridita che lo accontentavano facendosi massacrare, lo sfruttavano per arrivare, sporche arrampicatrici sociali, bestie come colui che apriva loro la via della perversione, dell'oltraggio, della cattiveria. E lui, non sapendo di sapere in un angolo della sua coscienza che non voleva vedere né ascoltare, aveva coltivato e perpetrato le sue nefandezze per pura vendetta, per rivalsa contro quelle donne che giudicavano, male, e sfruttavano
senza interessarsi minimamente a ciò che era dentro di lui. Come suo padre. Lui era un essere inesistente e non poteva neanche stuprarlo. Poteva solo ignorarlo, seppellendo l'odio dietro una cortina di perbenismo ipocrita e cortese che, al contrario, fuoriusciva prepotentemente allorquando donne, bestie arriviste, gli si proponevano affinché le oltraggiasse. Lei no, lei non è così. Non posso picchiarla, non posso farle del male, non posso segnarle per sempre questo corpo meraviglioso e la sua anima. Non... “Legami” La proposta di Andromaca arrivò come un fulmine in una serata stellata. Come se la violenza nel sesso fosse una banale e usuale pratica da sbrigare nel modo più divertente e degradante possibile. Come se l’unione tra due corpi non fosse l’esaltazione del singolo affinché la somma di due si elevi centuplicata. Come se la degradazione e il dolore fossero aggi obbligati per giungere al parossismo. “Legami, voglio appartenerti per sempre. Sono la tua schiava” “Sei ubriaca” “Legami” Andromaca lo ripeté accarezzando la sua pelle con la propria mentre scendeva lungo il suo torace. Ettore si sentì avvolgere da piacere localizzato che, come una droga iniettata endovena, si estese attraverso le innervazioni e gli colpì il cervello spegnendolo. Il gesto fu meccanico: il braccio destro trovò immediatamente il cassetto segreto e invisibile e lo aprì, cercò con le dita e finalmente il suo tatto rimandò l'immagine delle manette. La lasciò concludere il suo lavoro, spingendole la testa per la completa suzione, tirandole i capelli per fermarla al momento giusto e spostandola, girandola a suo piacimento e nelle posizioni che più le aggradavano. Lei lo lasciava fare, adeguandosi ad ogni suo volere, con sempre maggior desiderio. Ora l'aveva lì di fronte, in preghiera, vogliosa e tremante. Le prese un braccio e lo inchiodò al ferro della spalliera del letto. Si fece ancora amare, padrone della situazione, poi la allontanò e la guardò negli occhi.
“Ancora” gli disse. “Ancora ed è solo l'inizio” Le legò anche l'altro polso a pancia in giù. Le sollevò il bacino e l'attacco cominciò. Dopo qualche ora, Andromaca si ritrovò sola: come da prassi e per mantenere le distanze nonché le proprie abitudini, Ettore aveva tolto le tende. Lei non credeva a ciò che aveva appena fatto. Forse sarebbe stato meglio dire ciò che aveva subito. Si guardò i polsi, per fortuna solo leggermente arrossati e contusi dalle manette. Nuda di fronte alla finestra e assolutamente incurante di chi avrebbe potuto vederla in una domenica pomeriggio familiare – contava sulla sua invisibilità ai più – stimava i danni. Quattro grossi lividi sulle cosce – sono caduta dal motorino -, un segno sul collo – ho urtato di striscio lo spigolo di uno sportello della cucina -, una sola impronta dentale sul gluteo sinistro – la più difficile da spiegare, eventualmente, nel caso di, a Ulisse. Non le importava, avrebbe dato una spiegazione. Avrebbe inventato qualcosa e Ulisse le avrebbe creduto. Povero idiota, si sta innamorando di me. Crederà a tutto pur di scoparmi. Voleva soggiogarmi ma sarò io a tenerlo per il guinzaglio. Il problema sarà quando mi stuferò. Dovrò evitare la sua vendetta. Non posso confessarlo a Ettore, lo ucciderebbe. È un violento, ora lo so, avrebbe voluto entrarmi dentro con tutto il corpo e altro. Sono sua per tutto. Andromaca si risvegliò dai sogni. Non posso rivederlo. Devo sistemare le cose con l'idiota, la melma umanoide. Spero che tu muoia presto, piccola feccia. Per ora, devo farmi forza finché non avrò sistemato Ulisse. Ma i sogni si riaffacciarono e Andromaca riò la tumultuosa nottata.
Ho sentito un uomo per la prima volta nella mia vita: chi se lo sarebbe mai aspettato? La sua forza contro il mio corpo. Il sesso delicato e tenero di mio marito, niente a che vedere. Bello, per carità ma Ettore, dio, Ettore, mi hai trascinato laddove non avrò mai il coraggio di ammettere di essere arrivata: in basso che più in basso non si può e questo mi eleva da tutto il resto,. Ora so cosa sono, ora so di meritarmi la merda in cui vivo perché io sono una merda e devo ritenermi fortunata di averlo capito con Ettore che, mentre mi si sbatteva come l'ultima delle puttane, mi ha elevato al suo rango, mi ha reso degna di sapere e di essere depositaria dei suoi segreti. Ora so che è un sadico, malato e perverso ma lo voglio così perché solo così mi sento bene, mi sento viva. Conoscendo me e lui. Ho ancora voglia di lui. Squillò il telefono. “Non resisto: torno da te e ricominciamo” I giorni successivi erano ancora lì a farsi del male. Andromaca, timidamente, aveva iniziato ad avventurarsi nel sadismo e al quarto giorno, Ettore si lasciò sodomizzare. Ovviamente non prima di averlo fatto lui a lei. E, ancor più ovviamente, non senza una successiva quanto immediata rivalsa: la appese per i polsi e la lasciò così per una buona mezz'ora mentre lui gli si masturbava di fronte, a sfregio. Ettore manteneva un timore reverenziale per quel corpo che mai e poi mai avrebbe distrutto con le sue mani. Ulisse telefonò ripetutamente per chiederle che fine avesse fatto: lei rispose senza smettere di fare sesso con Ettore, godendo dell'essere ignaro della melma umana, gli disse che era malata, influenza e un forte affanno, per giustificare la sua voce non propriamente sobria. Attaccato il telefono si avventò forsennatamente su Ettore ma lui la fermò girandola di schiena. Lei gli sfuggì, ancora con il telefono in mano, e si mise seduta sul tavolo. Ulisse chiamò ancora. Ancora Andromaca non si interruppe a sfregio della dignità di quell’omuncolo quaquaraquà. Ma la trottola, prima o poi, smette di girare. L’attrito agisce e smorza il movimento, più o meno velocemente in funzione di una miriade di variabili, e destabilizza la verticalità dell’asse di rotazione finché il tutto si somma per mandare all’aria l’antico gioco.
Andromaca ritornò in ufficio e Ettore all’Università, atteso dalla sua naturalista. Ne ammise l’esistenza, viste le numerose chiamate durante il tour de force con Andromaca. Incredibilmente per lui, lei non fece una piega, non tentò di chiedergli di lasciarla, anzi, gli disse di andare da lei, di esserle vicino e di amarla e rispettarla. Andromaca aveva superato l’esame con sé stessa, era riuscita finalmente di nuovo a toccare un uomo, unico reale amore che aveva mai provato, e a farsi toccare. L’aveva catturata con la sua dolcezza, la sua empatia fedele, il suo essere unico solo per lei. Sapeva di non averlo ripagato con la stessa moneta. Non gli aveva raccontato tutto, era stata insincera perché si vergognava di sé stessa. Lei si sentiva ancora un essere infimo al cospetto di Ettore. Lui era forte, un uomo realizzato, solido; lei era una fallita che a quarant’anni cercava di far carriera in un call center, per di più facendosi ricattare da un imbecille qualsiasi per paura di dover tornare a prostituirsi. Questa era la sua vita e non poteva permettersi di condizionare, peggiorandola, quella di Ettore. Era certa che l’avrebbe aiutata a uscirne, quantomeno con un sostegno esterno; sapeva che le avrebbe concesso tutto ciò gli avesse chiesto, soprattutto ora che ne conosceva gli anfratti mentali corrotti e perversi. Poteva avere tanto da Ettore, la sua Andromaca. Ma lei lo lasciò solo, sciolse le briglie, disserrò le file, aprì le porte e chiuse le serrature della sua mente. Solo un annuncio inespressivo: vai, tranquillo, raggiungila, con lei starai bene. Lui, di rimando, affranto dal suo inspiegabile allontanamento improvviso, cercò di capire se anche lei avesse iniziato una storia con un uomo durante il viaggio in Islanda ma non ci fu verso di ottenere una qualche confidenza, un indizio per capire e trovare la giusta strada su cui muoversi. La sua dolce Andromaca giocava a nascondino, si faceva mangiare i pedoni ma teneva chiusa la Regina con un muro impenetrabile, insondabile, incomprensibile.
Ettore tentò, sì come ariete di sfondamento, il contrattacco frontale ma rimbalzò tristemente su quello sfrontato muro di gomma liscio come la pelle della sua costruttrice. Nessuna tenerezza vide Ettore negli occhi di Andromaca quando annunciò l’addio definitivo; neanche un barlume di vita scorse nella sua espressione quando proclamò, nonostante l’addio, che sarebbe stata sua per sempre, comunque e dovunque. La porta si chiuse davanti a lei per sancire una netta separazione, forse infinita, forse temporanea, pur sempre una ferita nel cuore e nell’orgoglio di Ettore che, egoista egocentrico egoriferito, non le chiese mai perché. Germogliò allora un nido infetto di risentimento. Laggiù, dove l’aria non a e il ricambio di opinioni scarseggia e vengono seppellite convinzioni dure da scalfire e scardinare se non a scapito della propria stabilità e secondo un processo di disequilibrio tragico e urticante se non si è disposti a mettersi in gioco, nacque in Ettore il baccello dell’odio da rifiuto. Il terreno era fertile, per la verità: il risentimento per tutto ciò che fosse femminile, per qualche tempo placato dall’ingenuo approccio che Andromaca aveva avuto con Ettore, era risorto e tracimava come un’infezione virale invadendo la mente del prof. Eppure, amava e stimava sua madre; era la parte femminile di suo padre, il suo essere arrendevole, disponibile, gentile che lo indisponeva oltremodo. Odiava suo padre e tutto ciò che non era. Ettore guardò la porta chiusa e il primo impeto fu di distruggerla per rientrare prepotentemente nella vita di Andromaca, scuoterla e farla propria, di nuovo e per sempre. Il suo errore fu, per una volta, di ragionare e non dar retta al suo istinto primordiale di uomo delle caverne. Uccidendo la sua vita salvò il suo orgoglio che però divenne il fertilizzante del terreno per la nascita, crescita, espansione e invasione finale dell’umana cattiveria, contrapposta alle qualità paterne. Da quel momento, in un lento processo di trasformazione genetica, Ettore esasperò le sue perversioni e lasciò che invadessero campi fino a quel momento protetti dal morbo. Spense il sorriso e divenne giudice implacabile per chiunque
gli si avvicinasse. Il professore stimato dagli studenti sbarbatelli per la sua affabilità che permetteva il perdono di malizie malcelate verso la parte femminile di loro divenne la belva sanguinaria. are con successo a un suo esame venne paragonato a un aggio per l’inferno; chi ne faceva ritorno senza eccessive ferite era uomo fortunato, non in gamba. Il baccello della cattiveria aveva messo radici forti e talmente infestanti da fratturare i potenti muri dei compartimenti stagni dell’anima di Ettore. La tracimazione era compiuta. Avrebbe seppellito l’anima femminile e docile di suo padre per dare spazio all’animo maschile impositivo di sua madre. Da dove avesse ereditato l’ottusità della suddivisione netta del mondo era scontato: i suoi genitori avevano generato e coltivato un mostro con le abitudini di un principe. La superficialità, il perbenismo e la TV avevano fatto il resto. Anche le battute di un comico o conformismi ridanciani girovaganti senza tregua su internet, oltre che la sempre colpevole pubblicità che ruolizza per vendere, possono influenzare essere viventi pensanti acriticamente. Ci ridi, incameri senza volerlo, ti comporti di conseguenza anche se chi ti è vicino è lontano anni luce da ciò che la massa crede. Così, spuntano donne in perenne ritardo che pensano solo a truccarsi e a fare shopping e uomini che se ne strasbattono di tutto, pensano solo a sesso e calcio. E il gioco è fatto. A chi tocca, non si ingrugnisca.
quarta partita: l'inutile offensiva di Andromaca Basta, voglio farla finita. Non lo sopporto più. Le sue smancerie mi fanno venire il voltastomaco. Non gli basta più di fare sesso con me. Brrr, che orrore. Un imbecille senza midollo che pensa solo ad abiti, partite e locali. Che schifo.
Tutta apparenza. Fa il figo pagando da bere a tutti, si sente il capetto di quel mucchio di cerebrolesi disturbati e poi si scioglie come un pulcino bagnato se gli faccio una carezza. Non prende mai una decisione, sul lavoro gli do le dritte per fargli fare bella figura e come sono ripagata? A sberle se non mi va di uscire! Non lo reggo più, ma come faccio ad uscirne? Vorrei tornare me stessa, parlare di arte, di libri, di musica. Invece devo reprimere ciò che penso per rabbonire quest’idiota e mantenere il posto di lavoro. Sono costretta a vivere in questo modo stupido e superficiale, a sentire parlare di calcio, locali alla moda, vestiti e griffe di occhiali e a me non me ne frega niente. Non hanno altro per la testa? Non si guardano attorno? Non vedono che siamo tutti nella merda più totale? Vivono questa vita adeguandosi rassegnati, in balìa delle onde e l’unico loro scopo è dimenticare, sballarsi dal venerdì sera alla domenica, distaccarsi dalla brutta vita vuota che vivono. La loro unica ambizione è fare soldi che non faranno mai e, essendone ben consci, darsi una giustificazione per non fare niente con la scusa che niente cambierà, con tutti i loro sforzi, perciò a che serve? Meglio sballarsi e dimenticare. E io? Cosa faccio? Me ne rendo conto ma non so neanche con chi parlare. Questi tirano fuori la loro disperazione solo tuffandosi in un gin tonic, non c’è neanche la possibilità di conoscersi, ci si vede solo a mezzanotte per andare a ballare e sballarsi. Cosa sono diventata? Me lo merito, merda che non sono altro. Sono fatta della stessa merda insignificante che non puzza e non sporca, solo residuo, inutile e schifoso. Mi rendo conto senza poter far niente, impotente come mi ha ridotto l’ameba. Ulisse…mai nome fu più immeritato, è solo una grandissimo coglione. Attraversata da questi pensieri, Andromaca sorseggiava il suo cocktail sprofondata su un divano del piano bar più trendy del momento. Li e si guardava con pena, inerme e altrettanto rassegnata a una vita senza senso, incapace di uscirne. Avrebbe avuto bisogno di sua madre e del suo sostegno ma non poteva preoccuparla in questo periodo; il suo compagno aveva problemi di salute e lei era tutta concentrata a fare l’infermiera. È di nuovo una schiava, si disse cinicamente Andromaca e un pensiero andò a suo padre. Chissà che fine aveva fatto. Non lo vedeva più dalla sera in cui gli aveva annunciato il suo divorzio. Aveva voluto dirglielo per stimolare un eventuale aiuto paterno. L’uomo, ormai cittadino extraeuropeo e in città per pochi giorni, l’aveva lasciata raccontare ma non aveva risposto come avrebbe desiderato sua figlia. “Ognuno compie le scelte che si merita. Rifletti, figliola, su quel che non andava e su quali colpe ti puoi imputare.” Un’ulteriore stilettata al cuore già depresso di Andromaca che avrebbe avuto bisogno di ben altro, se
non economico, almeno un sostegno affettivo o una parola complice. “Hai le spalle forti, solide, sei responsabile, ce la farai a superare la separazione. Tuo marito ti ha voluto bene e potrai comunque contare su di lui, se servirà. Ma sono sicuro che non servirà” Così il padre, per l’ennesima volta da quando l’aveva concepita e messa al mondo, la lasciava sola, convinto dell’invulnerabilità di sua figlia, complice la presenza di un ex marito amichevole. Non hai mai capito niente, papà. Tristemente, Andromaca si scolò l’ultimo sorso, raccattando brandelli di ghiaccio con la lingua, come faceva da bambina con la limonata estiva del pomeriggio che la mamma le serviva per aumentare la dose di vitamine di un corpo in via di sviluppo. Un tipo le si avvicinò, tentando l’approccio in modo talmente banale che Andromaca dimenticò le parole subito dopo averle udite. Lo squadrò da capo a piedi: palestrato, lampadato, jeans e camicia, rigorosamente griffati, attillati allo spasimo per evidenziare i diversi pacchi maschili – gioielli di famiglia e bicipiti in primis - sopracciglia disegnate innaturalmente, braccia e petto depilati, unghie curate, catenina d’oro accollata con lo scudetto della squadra del cuore. Da non perdere, assolutamente. Gli sorrise in modo sarcastico e guardò oltre. “Se continui a tirartela, le rughe ti si stendono” il palestrato l’aveva attaccata risentito del modo in cui era stato snobbato. “Non ti hanno insegnato l’educazione e il rispetto delle persone anziane?” Andromaca voleva farne brandelli e diede seguito alla provocazione, attirandolo con uno sguardo sensualmente assassino che faceva a botte con la frase appena pronunciata ma che il palestrato non poté ignorare. “Lavoro in un centro anziani, io, bella, con chi ti pensi di parlare?” lui si rinvigorì e prese coraggio per avvicinarsi. Stava per sedersi accanto ma lei lo gelò, invertendo la tagliente frase.
“So con chi sto parlando: un idiota tutto muscoli. Fuori dalle balle, omuncolo” L’espressione vaccina che assunse – non sai fare di più quando vieni maltrattato da una donna, decerebrato? - scatenò una stridula e amara risata. La difesa fu l’enunciazione di tutti i sinonimi presenti sul vocabolario della lingua italiana e di tutte le versioni dialettali, regione per regione, dell’espressione “donna di malaffare”, classico atteggiamento di maschio bistrattato da una donna e impedito nelle reazioni fisiche, a cui Andromaca rispose impostando la faccia da poker, inespressiva e insondabile, solcata da un’amara vena di ironia. Attirato dalla confusione, Ulisse intervenne per calmare le acque e prendere le difese di Andromaca. Ma successe l’incredibile. Ulisse ascoltò la versione sintatticamente scorretta del palestrato e visto il perdurare dell’espressione infame sul volto di lei che aveva indicato come “la mia donna”, sentì di non poter assumerne in modo totale le parti e, per cameratismo maschile o per fifa, chiese ad Andromaca di porgere le sue scuse all’uomo. Non credo alle mie orecchie, non credo ai miei occhi. L’imbecille interviene per difendere la “sua proprietà” ma, visto che questo cretino è più grosso e lo farebbe a pezzi, è ato dalla sua parte. “Non posso scusarmi” Andromaca non mollava la faccia sprezzante verso l’universomondo. In coro chiesero perché. “Perché non capirebbe. Semplice” L’ira del palestrato gli gonfiò il torace e fu trattenuto a stento da Ulisse che, entrando in contatto con lui, fu spintonato e cadde goffamente a terra Ora le facce rosse incazzate con Andromaca erano due. Ulisse si rialzò, con calma, sistemò la giacca mentre allungava l’occhio verso la scena in cui il protagonista palestrato urlava contro la donna a due millimetri dal suo alito, e
optò per la soluzione più conveniente per sé stesso, onde salvare la sua rispettabilità e rimettere a posto le gerarchie. La schiaffeggiò, lì di fronte a tutti. Andromaca non fece una piega. Avrebbe potuto stenderlo con uno solo dei suoi potenti pugni che ancora e in gran segreto coltivava e curava giorno per giorno. Ma non lo fece. Avrebbe potuto iniziare a piangere come una femminuccia e andare a rifugiarsi dalle amiche o, meglio, la parte femminile del gruppo. Figurati se ste minigonnate mi danno una mano o se si mettono contro un uomo per me. E non lo fece. In silenzio – facevano già tanto rumore quei due, a sforzarsi di cercare altri sinonimi della parola puttana – si alzò, rassettò i capelli, infilò la sua giacca e si defilò verso l’uscita, ancora brutalmente indicizzata da quegli esempi di come non dovrebbe comportarsi un uomo, degni dell’iniziale minuscola. Prima di sparire dalla vista guardò Ulisse e mimò il gesto del taglio del collo come a dire che non l’avrebbe più rivista. Il ricattatore lo recepì come un pugno nello stomaco e, nonostante il dolore, la sua determinazione alla distruzione professionale divenne sempre più impellente. Capì che doveva farla finita lì. Ma non prima di averla fatta licenziare. Il lunedì successivo, Andromaca, di buon’ora, cercando di anticipare le mosse di Ulisse, si presentò dal capo, chiedendo ossequiosamente udienza e adducendo motivi urgenti. Gli raccontò della registrazione, mostrò la sua innocenza, visto che, mesi dopo, nessuno era riuscito a sottoscrivere un contratto con la ditta dell’interlocutore telefonico, del ricatto perpetrato nel tempo da Ulisse, di come avesse dovuto sottostare ai suoi sporchi giochi di potere e, imbarazzata, di come avesse dovuto fingere di essere la sua fidanzata.
“In ogni senso?” chiese sbalordito il capo. “In ogni senso” E raccontò l’ultima sera. Stava per avviare un discorso proAndromaca e per intervenire immediatamente con provvedimenti disciplinari seri, quando entrò il soggetto della loro discussione. Ulisse capì al volo la situazione e, azionando quel cervello che di tanto in tanto dimenticava di avere e che utilizzava solo per nefandezze e inutilità varie, rapidamente pianificò l’azione correttiva, con l’obiettivo di arrivare a a certi punti sensibili e piuttosto vulnerabili del proprio direttore. Brava persona, onesto lavoratore e corretto professionalmente: di recente, si era separato dalla moglie che, fingendo un esaurimento nervoso, lo aveva maltrattato e continuava a farlo, concedendogli visite ai propri figli con il contagocce per spillargli più soldi di mantenimento. Ulisse era un’autorità nel campo delle scoperte della vita altrui; solo di Andromaca era riuscito a sapere ben poco ma, in fondo, non lo interessava poiché aveva trovato abbondantemente la chiave di volta della sua debolezza. Entrò inscenando il dramma d’amore. “Amore, sei qui? Ti cerco dappertutto da due giorni!” il tono sinceramente accorato di Ulisse lasciò il segno nelle convinzioni da poco costruite del direttore del quale una qualità universalmente riconosciuta era quella di ascoltare le versioni di tutte le parti se sorgeva qualche conflitto tra i suoi dipendenti. “Mi scusi dell’incursione, direttore, ma Andromaca ce l’ha con me perché…” e si lasciò andare, disfatto ad arte, da attore consumato, sulla poltrona, coprendosi gli occhi “sabato sera le ho dato uno schiaffo” Andromaca replicò che non era il primo, sentendosi stringere una ragnatela contro. “Cosa dici, amore? Non è vero! Le giuro, direttore” il suo sguardo disperato si volse verso il capo cercando la sua benevolenza “non l’ho mai picchiata! Lei sa quanto la amo!”
“E il ricatto della registrazione?” il direttore voleva vederci chiaro. Ulisse cadde rumorosamente dalle nuvole. “Quale ricatto?” Andromaca era al massimo della sua indignazione e vomitò di nuovo i fatti, irrefrenabile nella sua corsa alla verità che voleva rendere nota a chiunque. “Amore, cosa stai dicendo? Capisco che sei arrabbiata con me ma inventare questa storia…” Ulisse aveva colpito nel segno; aveva instillato il dubbio nel direttore come vide ben chiaramente nei suoi occhi e nell’espressione corrucciata di chi non sta comprendendo gli avvenimenti fino in fondo. La frase non aveva sortito solo questo effetto: Andromaca era diventata, in un lampo, con una sola frase, una “donna uguale alle altre”, pronta a farti le scarpe con l’inganno e a raggiungere il proprio scopo con ogni strumento. Ulisse ne aveva scalfito la reputazione, conferendo alla sua immagine un’ombra distinguibile agli occhi del capo. Andromaca, che sentiva la tela del ragno avvolgerla come un arrosto pronto da cuocere, ristabilì la calma e decise di intervenire pacatamente. “La metti giù dura. Sentiamo le registrazioni allora” Il direttore concordò – i dati oggettivi e numerici fanno sempre effetto – e mandò la sua segretaria a cercare nel database centrale. Lunghi minuti di imbarazzato silenzio percorsero quell’ufficio mentre Ulisse già pregustava il suo trionfo. Alla fine, la segretaria tornò a mani vuote. “La ditta che mi ha richiesto non è presente in archivio. La registrazione non esiste. Era stato programmato il contatto telefonico ma evidentemente nessuno ha provveduto” Ulisse ha cancellato anche il numero di pratica. Bastardo. Non voleva lasciare tracce. “La ringrazio, signora” Il direttore congedò la sua assistente. “Ora a voi due” Li guardò con rimprovero. “Tenete a distanza le vostre beghe sentimentali dal
lavoro. Non so cosa sia successo, non ho gli strumenti per giudicare. Certo, il racconto di Andromaca era piuttosto circostanziato e veritiero ma, purtroppo per mia esperienza personale, so che potrebbe essere stato montato ad arte. Per ciò che ti riguarda e ti incolpa la tua fidanzata – fidanzata? -, Ulisse, se un giorno scoprirò da solo cosa le hai fatto, non solo ti licenzierò in tronco ma ti denuncerò io stesso e sai che i miei avvocati non sono teneri. Altrettanto per te, Andromaca. Se scoprirò che è tutta una montatura, sarai fuori nel giro di qualche secondo. E ora, ho perso già troppo tempo con voi, fuori di qui” I due lasciarono la stanza a testa bassa e con la coda tra le gambe, seguiti da uno stuolo di sguardi di colleghi. “Come vedi, mia cara, sei ancora nelle mie mani” “Nei sei sicuro? “Cosa intendi dire?” chiese preoccupato dall’aria sicura di Andromaca. “La registrazione è sparita. La pratica non è protocollata. Nessuno ha parlato con quella ditta. Ciò che hai in mano è solo la mia voce da un telefono qualsiasi a una qualsiasi ditta che non viene neanche mai nominata. L’ho imparata a memoria, me la sono risentita più e più volte” “Pensi che non riuscirei a incastrarti ugualmente?” “Certo, ma così incastreresti anche te stesso, ammettendo il ricatto” Ulisse scalpitò dalla rabbia. “È finita, mio caro. Non hai più niente in mano. Niente di niente. Ci avrò rimesso la mia reputazione, era questo il tuo intento, vero? Ma ora sono libera. Da te, dal tuo infame ricatto, dal dover toccare per dovere, solo per dovere, questo tuo corpo sfatto, debole, inutile, dal vederti, dall’annusarti, ti hanno mai detto che puzzi? Non hai più niente in mano, mio caro. Anche se il direttore non mi ha creduto fino in fondo. Con lui hai dimostrato ancora una volta di più quanto riesci ad essere falso, viscido, doppia faccia. Ma hai perso” Ulisse bolliva. “Ho ottenuto, e grazie a te! la libertà. Non voglio più vederti, né toccarti, né
vivere la tua infima vita, con quella gente assurdamente decerebrata che frequenti. Ti piace essere il capetto, vero? Con loro ti riesce facile“ E giù altre invettive, taglienti, umilianti, distruttive. Ulisse, durante la fustigazione, aveva un unico pensiero: vendicarsi. La stessa sera, Andromaca, assaltata di sorpresa all’uscita dalla palestra, fu malmenata e stuprata da tre uomini. Ulisse andò a trovarla tutti i giorni in ospedale accompagnato da enormi mazzi di fiori. Doveva allontanare i sospetti su di lui.
quinta partita: la difesa di Ettore. Uccidiamo le donne Qualunque cosa faccia, è sbagliata. Merito solo botte e maltrattamenti. Devo tacere, subire, ingoiare la rabbia. Devo sparire, non potrò rivederlo. Mi ha quasi ammazzata per mettermi a tacere, per stupido orgoglio. Se Andromaca sentiva il peso della sua impotenza e guardava il mondo dalla finestra, inventando scappatoie per prolungare la già lunga malattia e non rientrare in ufficio, dall’altra parte della città, Ettore assumeva sempre più i connotati della belva. Sfogava la sua rabbia con chiunque; anche sua madre aveva subito basita la violenza che lo pervadeva, per fortuna solo a parole. Suo padre, di fronte al maltrattamento, giustamente inalberato, lo aveva rimproverato aspramente e, come risposta, Ettore gli aveva spedito uno sguardo guizzante di odio e un briciolo di stima per l’inaspettata reazione. L’uomo provò un terrore sordo, presago di funesti avvenimenti e aveva invitato suo figlio a uscire da quella casa senza più rimettervi piede. Ettore non si scusò, solo guardò sua madre come a pregarla. Lei rifiutò il perdono; avrebbe significato avallare il suo comportamento e accettare l’eventuale reiterazione. Era troppo anche per lei.
“Torna solo quando ti sarai calmato. Non accetto queste volgarità da un uomo responsabile e affermato. Non ti si addicono né a me che sono tua madre” L’ennesimo rifiuto ingrandì le radici del male dentro di lui, sconfinando verso il settore del perbenismo, ormai a lui insopportabile. Patologicamente furioso, entrava nel dipartimento come un ciclone, rispondendo ai saluti di colleghi professori e studenti con un ringhio. Gli esami erano ormai diventati leggendari: riuscire a rimanere vivo era già un successo, arlo con un diciotto era un miracolo. Se a uno studente accadeva fortunosamente di prendere un voto maggiore di venti assurgeva al rango di divinità. La naturalista era sottoposta a continue torture, nonostante le preghiere di evitare segni, lividi, ferite, ustioni, finché a un certo punto sparì. Aveva vinto un concorso in un’altra università senza dirgli nulla; aveva raccattato le sue carabattole e telato in sordina. Ettore non si appropriò dell’insegnamento reiterato della forza centrifuga che imponeva alle persone che gli giravano attorno a diverso titolo. Rivolgeva la sua rabbia sugli scacchi; ormai era tra i primi 5 del gioco online, praticamente imbattibile. Gli avversari in grado di sconfiggerlo erano, al mondo, in numero esiguo, più o meno ormai come le donne di cui poteva abusare in città. Il parco si era ridotto. Le novelle, timorose per le sorti della loro carriera accademica, facendo tesoro di racconti leggendari delle gesta del prof, pur subendone ancora il fascino, ne stavano lontane per paura di indispettirlo; le ricercatrici ben lo conoscevano. Rimaneva dunque il mercato estero; ma per entrarvi aveva bisogno degli amici di sempre, il Donnaiuolo e l’Allenatore i quali, chi più chi meno, risentivano dell’età e della noia che i menage familiari ai loro occhi superficiali necessariamente comportano. I legami ancora resistevano e, nonostante le pressioni di Ettore, l’unico libero sì come uccel di bosco, le uscite erano contate. Ettore metteva tutte le sue energie in quelle sporadiche serate; adocchiava e abbordava donne per sé e per gli altri, offriva da bere, se ne spupazzava almeno due a turno, mai sazio e instancabile.
L’adrenalina che portava indosso come una seconda aderentissima pelle lo spingeva e gli dava carburante. Peccato che, dopo la prima volta, nessuna si rife viva; troppo complesso, troppo pesante, troppo violento. La rabbia cresceva, infinita. Gli amici lo accettavano così com’era e, seppur accortisi del cambiamento deteriore di Ettore, ormai lontano dall’uomo tutto cuore di qualche mese prima quando frequentava la donna dalle gambe lunghe, lungi da loro dal farglielo notare o di tranquillizzarlo o di alleviargli qualche peso. Erano già tanto oberati loro di problemi! Non potevano certo farsi carico degli onanismi mentali di chi aveva più soldi di loro e che faceva la bella vita! Tra una partita a scacchi e l’altra, Ettore continuava a correre nel parco; meglio rimanere lontano da palestre piene di palloni gonfiati e forme esibite con troppa disinvoltura. L’irritazione avrebbe raggiunto vette inopportune e scatenato la violenza. La sua corsa, nonostante i quaranta superati, era sempre disinvolta e, se in preda alla rabbia, furiosa e dispendiosa. Rientrava in casa con le gambe tremanti dallo sforzo, per i chilometri percorsi e il terreno accidentato su cui le conduceva. Almeno, dopo, le vene smettevano di battergli tumultuose. Ma per mantenere la calma doveva trovare qualcosa da fare, altrimenti, in casa, si agitava come un leone in gabbia. Così, giù a sfidare il mondo sulla scacchiera, giù difese e attacchi e vittorie, praticamente nulle le sconfitte. La sua rabbia si incanalava su ognuno dei 64 riquadri e nel complesso, come uno zoom che da una panoramica a al microdettaglio. Ettore si diceva che per vincere bisogna avere la visione tridimensionale. Ormai gli incontri, per così dire galanti, erano sporadici: ripensava sovente ad Andromaca, dapprima con affetto, dolcezza, con la gioia che il suo ricordo le portava, poi con rabbia per l’insensatezza del rifiuto. Allora arrivava a maledire quella notte di tanti anni fa al pub, quando quell’angelo gli era caduto nella mente e di lì non ne era più fuggito.
Perché mi hai lasciato andar via? Perché non mi hai chiesto di rimanere con te? Perché il tuo stupido orgoglio? Cosa nasconde dietro quella faccia d’angelo? Eppure mi ha detto tutto, del matrimonio fallito, che non ha figli, del padre … cos’altro? O forse voleva solo scopare e, appena fatto, mi ha mollato. La solita stronza che voleva usarmi e basta? No, non ci credo. Cosa ci ha guadagnato? Che motivo poteva avere? Era sola, ecco il motivo. Opportunista e stronza anche lei. Hai perso il tuo fiuto, Ettore, non sei più tu. La rabbia appannava i ricordi e irrigidiva i connotati, il volto trasfigurava; la bocca si piegava in giù, gli occhi si assottigliavano in due fessure, i muscoli permanevano a lungo in una contrazione innaturale per chi, come lui, non aveva mai avuto un pensiero che non fosse più profondo della sua epidermide. Dopo mesi senza notizie di Andromaca disse basta al confluire su di lei di ogni pensiero. Decise di mettere, qua e là, dove fosse possibile e riparabile, qualche toppa nelle sue falle onde richiudere i compartimenti, una volta stagni. Chiese perdono a sua madre, un semplice “scusami” a suo padre; non maltrattava più le donne con cui aveva rapporti occasionali, cosicché queste richiamavano e il sesso era assicurato almeno per 3-4 volte. Non aveva cambiato la sua vita; Ettore si sentiva solo e capì che avrebbe dovuto attaccarsi come una cozza al suo scoglio a chiunque gli avesse offerto un’occasione, seppur temporanea e fugace, di alleviare la sua disperazione, mai chiamata con il suo nome. La sua convenienza era prioritaria; l’opportunismo era lo strumento attraverso cui raggiungere l’obiettivo di cancellare i tragici momenti in cui fosse rimasto solo a riflettere, inaccettabile per chi non si mette mai in discussione. Ma la vita non è equilibrio; quantunque ci si sforzi, comunque si evitino gli ostacoli e si ponga la difesa dei reali della scacchiera, le mosse del destino sono infinite e l’attacco può provenire da tutte le direzioni a trecentosessanta gradi.
Sesta partita: l’attacco frontale. La distruzione
Vediamo un po’, oggi compro… funghi, mi serve aglio, parmigiano, rucola, ecco qua. Il latte? Lo devo prendere, il caffè no, ah, burro, fette biscottate. Dov’è l’ammorbidente? Eccolo. Dentifricio, deodorante, crema per le mani, no, ho tutto. Accidenti quanto costano! Meglio il discount, per carità. Cavolo, devo prendere il torrone per mamma! E il panettone? Boh, cosa mi ha detto? Sulla lista non c’è ma lo prendo ugualmente. Andromaca, ancora leggermente zoppicante dopo mesi dall’agguato, si dirigeva soprapensiero verso il corridoio dei dolciumi natalizi, rigorosamente in offerta. Spingeva il carrello un po’ a fatica perché ancora non riusciva a fare forza sul polso la cui frattura si era ricomposta da poco. La fisioterapia andava bene, per fortuna pagata dall’azienda perché il direttore aveva mangiato la foglia. Troppo ravvicinati nel tempo i due episodi, impossibile una coincidenza. Ulisse poteva essere un bravo ragazzo o anche no; il direttore aveva sentito con le sue orecchie che avrebbe venduto sua madre per far soldi. Frasi fatte? Forse. Modi di dire? Probabile. Il fatto è che si sentiva in colpa, lui aveva avallato il comportamento di Ulisse, anziché schierarsi con Andromaca, notoriamente e coerentemente cristallina. Si sentiva colpevole di aver condito le sue opinioni con le proprie vicende, contaminandole al punto da offuscargli la capacità di giudizio. Aveva cercato di rimediare. Tardi, ma lo aveva fatto. Ulisse era un ricordo lontano per Andromaca, benché le tracce della sua incursione nella sua vita si sarebbero viste per sempre. I segni sul viso stavano sparendo ma alcune macchie erano ancora ben visibili, i denti saltati erano stati rimessi a posto e i punti interni erano ormai un tutt’uno con i suoi tessuti. Contusioni temporanee erano ate ma la rottura del femore per un calcione maschile ben assestato e appositamente dato e la frattura del polso - un pugno gliel’ho dato ma poi mi hanno piegato all’indietro la mano fino a rompermi l’osso - avevano richiesto un tempo maggiore per la completa guarigione. Per non parlare degli strascichi spirituali. Non aveva più visto un uomo da allora - così conciata, dove vado? – e il suo massimo impegno era stato riversato sulla salute. Non si guardava allo specchio da quella sera in palestra. Ogni tanto scrutava il suo viso in ascensore dove la luce diffusa spianava le rughe e le cicatrici, confondendo al contempo anche i residui di macchie. Quel pomeriggio, sarà stato il freddo natalizio e festoso, sarà stato il medico che
le aveva comunicato che l’estate successiva avrebbe potuto riprendere il sole al mare, Andromaca si sentiva allegra. Era andata anche a comprare una maglia nuova dai cinesi, unico shopping permesso dallo stipendio assottigliato dai lunghi mesi di malattia, alcune cure e una parte della riabilitazione. La mamma cercava di sostentarla come poteva ma anche lei aveva il suo bel da fare con il compagno: alternava forma smagliante agli ingressi trionfali in un lazzaretto. Tranquilla, mamma, non venire domani, mi scarico qualche film o qualche spettacolo teatrale e leggo quei due-tremila libri che mi aspettano fedeli. Certo che vengo per Natale! Se domani è bel tempo, vado a farmi un giro al parco. No, mamma, non corro, ma sarebbe ora no? Vorrei ricominciare a far sentire l’aria aperta alle mie gambe. Non mi porto il bastone, scordatelo! Mamma, non essere apprensiva! Ti stai invecchiando, eh? La risata telefonica squillò per il corridoio delle marmellate. Mamma, attacco che mi sto stancando, ho il telefono tra faccia e collo e sto tentando di spingere il carrello. Aspetta, devo comprare il panettone? Ok. Ciao a domani, salutami il malato! Andromaca sfilò il cellulare da quella scomoda posizione e guardò un messaggio che aveva sentito sobbalzare nel suo orecchio: il direttore le chiedeva notizie. Intenta a scrivere non si accorse di un ombra che le ò accanto, guardandola intensamente. L’ombra si fermò dietro le sue spalle, indecisa sul da farsi. Vedeva il suo respiro affannoso disegnato sul pavimento e il torace andare avanti e indietro. Cercò di calmarsi e di guardare con dolcezza l’unico essere al mondo che lo avesse mai ferito. Sentiva amore verso quella figura ma al contempo un sentimento riprovevole di odio emanante puzzo di orgoglio ferito e di cicatrice ancora aperta, putrida e brulicante di vermi del cervello. Preso da un’insolita quanto inaspettata ondata di buonismo, memore della sfrontatezza del tempo che fu, Ettore si fece avanti e le inseguì il carrello della spesa. “Ciao.” la voce non era sorridente e uscì timorosa.
Andromaca attese un attimo prima di voltare il suo volto distrutto verso la provenienza del saluto, poi gonfiò il petto e, già preparata alla prevedibile domanda, si girò, fingendo una piacevole sorpresa. “Ciao Ettore” Ma il sorriso gli si spense e non riuscì ad evitarsi la spontaneità. “Ma che faccia hai?” “La tua non sta meglio. Sei scivolata sotto un autotreno in corsa?” Ognuno guardò verso e dentro la disperazione dell’altro; non trovarono altro da fare che riderne. Lui raccontò balle su problemi di lavoro, imbastendo un presunto gioco di potere per farlo fuori dal consiglio dei prof. Lei ammise di essere rovinosamente caduta dal motorino e che, si, per poco, non finiva per intero sotto le ruote di un camion, invece solo il polso. “Perché zoppichi?” “Sono caduta male e si è rotto il femore, come i vecchietti. Per fortuna era un infortunio, come si dice, in itinere; la cura è stata pagata dall’azienda. Lavoro sempre lì, cioè, non lavoro ancora ma ricomincerò, spero, teniamo le dita incrociate, da gennaio. Insomma, mi lasciano guarire ancora un po’ ma dopo le feste la pacchia finirà” Altre chiacchiere seguirono, fatue come braci che fuggono dal falò, dileguandosi nel buio. Fin quando, un flusso di energia giunge da chissà dove e spinge verso l’alto un lapillo che, cadendo, è in grado di bruciare tutto o no. Dipende se c’è qualcosa di combustibile. “Mi sei mancata. Tanto” Ettore, serissimo, si lasciò sfuggire una frase che mai avrebbe pensato di pronunciare sinceramente a una donna. Andromaca chinò il capo in cerca delle parole giuste da dire che non vennero fuori neanche dalla sua fantasia fervida. “Evidentemente a te no, non sono mancato.”
“Non so cosa dirti, Ettore” “Mi basta il tuo silenzio. Sono stato solo un gioco, bello finché non avevi niente da fare. Poi via” “Non è vero. Mi sei mancato anche tu” “Potevi almeno chiamarmi per farmi sapere dell’incidente” Certo, come facevo? Avresti visto i segni delle botte, dello stupro. Cosa avresti potuto dirmi? Cosa avresti potuto fare? Avrei dovuto raccontarti tutto. No, no. Per carità. “Non mentivo quando ho detto che sarei stata tua per sempre” “I fatti dicono il contrario” Ettore si guardò attorno; i ragazzi del supermercato cominciavano a guardarli male perché l’orario di chiusura si avvicinava e aumentava la voglia di non tardare neanche un minuto a tornare a casa. “Perché non mi hai chiesto di rimanere con te? Perché mi hai lasciato andare via?” “Perché non sei rimasto di tua volontà?” “Non mi hai dato scelta” “Non sei rimasto perché avresti dovuto combattere per me e non sapevi, in cuor tuo, se ne valesse la pena o no. Hai preferito la strada più sicura” Touchè. Non posso ammettere che ha ragione. “Non mi hai dato modo di comprendere i tuoi sentimenti” “Te li ho detti” “Solo parole” “Parole? Erano parole le torture che mi hai inflitto e che ho sopportato per te?” “Ti piaceva. E comunque ancora non hai visto niente”
“Mi piaceva perché avevo capito che solo così avrei potuto averti completamente. Che vuol dire che ancora non ho visto niente?” “Signori, si chiude” “Addio, Ettore” “Sai dove trovarmi” “Anche tu” Le lacrime, nei rispettivi rifugi, non scoppiarono. Cuori induriti ostacolavano il colloquio tra le profondità dello spirito, abissi più profondi e bui della fossa delle Marianne; la superficialità a volte invade la Ragione e la rende altamente irragionevole sul futuro e monodirezionale, incapace di lungimiranza. Gli aculei puntuti di cui era ricoperto il loro corpo, a causa di verità non dette e incomprensioni mai risolte, il che avrebbe potuto largamente placare gli animi fino a ricondurre la vita di ciascuno, sì come singole ali, a volare di nuovo rimanendo abbracciati, si accrebbero a non finire, si allungarono verso l’esterno e perforarono le carni producendo ulteriori lancinanti dolori. Ah, quando non si comprende il momento di tornare indietro, di resettare, di distruggere le stupidità compiute per commetterne altre, tentando di non farlo! Ah, drammatiche vicende attendono coloro che si incanalano nelle ristrette forre della solitudine, dell’orgoglio, della rassegnazione e della sfiducia! Si può essere così ottusi da non capire, nell’attimo in cui stai vivendo concretamente, il valore di ciò che puoi perdere se ti rifiuti di viverlo e le nefaste conseguenze che ciò potrà avere sul tuo essere nella sua interezza, fin tanto da essere smembrato, dilaniato e micronizzato dai mostri che tu stesso hai creato dal rifiuto che neanche ricorderai? Si, si può esserlo. È la dimostrazione che l’Homo Sapiens è destinato alla prossima estinzione; non più votato all’autoconservazione e alla procreazione bensì alla distruzione, lascerà il posto ad altre e ben più fertili, di corpo e di mente, creature, generi,
specie, famiglie, classi, phyla, e così via nella scala dell’evoluzione. Non c’è tempo, nella vita in fretta e furia che si conduce, come se ce ne fosse un’altra da raggiungere e trascorrere, di affrontare i discorsi sui massimi sistemi; non ci si può soffermare e scavare un po’ perché, nella vita in fretta e furia che si conduce, come se ce ne fosse un’altra da raggiungere e trascorrere, dovessimo trovare un covo di vermi, di larve di mosche, perderemmo tempo nella disinfestazione, lunga, dolorosa, nonché costosa, siamai! Trascorse altro tempo invano senza che i due, nati per essere uno, trovassero nella loro ragione motivi ragionevoli, che avrebbero dovuto cercare altrove, ergo convenzionalmente irragionevoli, per contattare l’altro. Il mondo, nel frattempo, cambiava. La tranquillità non era più prerogativa di nessuno; l’instabilità governava le vite di cittadini, lavoratori, famiglie, amanti. Su ogni fronte, da qualsiasi prospettiva, in qualunque luogo, la precarietà dilagava rendendo difficile il semplice cammino, o dopo o, un piede cauto davanti l’altro. Il terreno, spesso, franava sotto i piedi; qualcuno si appoggiava a un masso fortunosamente poggiato lì dal destino, qualcun altro veniva tirato su dal proprio angelo custode, terrestre o celeste che fosse, altri, forse la maggior parte erano trascinati dalla corrente di fango a seguire linee di forza gravitative, destinati allo sfracellamento. Uomini e donne si guardavano in cagnesco, come fossero nemici da sempre, alternativi anziché complementari. Razze esprimevano la propria diversità odiando. Direttori e dipendenti, delegavano dialoghi a figure intermedie di dubbio valore sociale, interposte da regole, norme e cavilli. Cittadini eleggevano senza convinzione politici cui non riponevano stima né tantomeno fiducia. Politici toglievano quattrini ai poveri per donare ai ricchi. Gente unita voleva separarsi da chi, fin a quel momento, aveva composto con loro un tutt’uno.
Cani sciolti si organizzavano per far fuori cerchie compatte di persone. La paura vigeva, fulgida e splendente; infarciva comportamenti, condiva rapporti, si infiltrava nelle sensazioni rendendo tutto opaco, grigio, compatto, uniforme, insipido, ovattato. Ettore e Andromaca non sfuggirono a questo stato melmoso, nebbioso e scivoloso. L’inverno non li aiutava e sfogavano i pus spirituali ognuno nel proprio rifugio, lasciando scorrere tempo inutile, che a fermarlo sarebbe stato salvifico, a goderlo sarebbe stato piacevole, a spremerlo sarebbe stato saggio. Poi il cielo si aprì. Andromaca aveva ricominciato a lavorare, smesso di zoppicare e si riappropriava del proprio corpo mentre vedeva tanti caduti sul percorso di guerra del lavoro da cui lei, miracolosamente, si stava salvando a causa della sua sciagura. Se ne rammaricava tra sé e sé, guardandosi bene dal commentare scelte non meritocratiche che però le consentivano ancora di mangiare e condurre una vita mediamente dignitosa. Ogni licenziamento, ormai settimanale, come una periodica esecuzione pubblica, era una stilettata per tutti, ognuno in attesa del proprio turno. Questo diede la forza all’indice di Andromaca per comporre il numero di Ettore; forza legata alla sensazione palpabile di qualcosa che si va perdendo, fosse l’età che avanza o la voglia di tornare a vivere. Anni trascorsi nella gattabuia delle proprie nefandezze mascherate da altrui ingiustizie la facevano ansimare di vita e di voglia di smetterla di suonare in sordina. Il dito aveva dovuto combattere con la paura dell’ennesima sconfitta e fu molto deluso dalla mancanza di risposta. Ettore guardava il nome apparso sul display, stupito e incattivito, indeciso sul da farsi. Lasciava scorrere altro tempo, crescere altri dubbi, contorcersi lo stomaco dalla
paura, scorrere cattiveria nelle proprie vene, nebbia nel proprio cervello, sangue nei propri occhi. L’arrovellamento invernale non gli aveva giovato: era al secondo posto al mondo come scacchista, in declino come professore, benché ancora giovane, abbandonato come amico anche da Giovanni il Donnaiuolo e da Arrigo l’Allenatore, ormai prede di figli, pannolini, scuole, colori da disegno, piscine e chipiùnehapiùnemetta e assolutamente intenzionati a trascorrere serenamente la propria vita, evitando dannose contaminazioni acide da parte del loro amico. Il tutto, potenzialmente risolvibile con una banale accettazione dei propri mali, ad avere il coraggio di guardarsi in faccia e dissipare un po’ di errori troppo ripetuti. Troppo semplice? Potrebbe, ma la natura viaggia a energia minima; perché mai l'uomo, essere naturale nonostante sovrastrutture dovute a collegamenti sinaptici mal sfruttati, non dovrebbe obbedire a questa legge in fondo piuttosto comoda all'apparenza? Forse perché questa legge troppo comoda non è e tantomeno adempiervi. Meglio nascondersi dietro ologrammi di impalcature che illudono l’occhio esterno che la foresta di pensieri sia folta ma che, essendo prive di fondamenta, non reggono il peso, a volte molto gravoso, della verità. Quindi potrebbe essere troppo complicato? Neanche, poiché l'uomo, essere naturale dotato di collegamenti neuronici che più si campa e in maggior numero diventano – fino a un certo limite poi si degrada un po' tutto – è in grado, o dovrebbe esserlo, di scegliere, selezionare, discernere, effettuare un'analisi costi-benefici sulla base, almeno qualitativa, di una miriade di variabili. In conclusione, non dovrebbe essere né semplice né complicato, solo essere. Invece, se il piano di valutazione cambia, se il principio fondamentale non è più la vita ma la paura, tutto, anche respirare, diviene estremamente difficoltoso e dispendioso.
Impervia è la strada solitaria della paura, amplificata e distorta l'eco di parole lontane, ingrandite le ombre, enorme l'incapacità di giudizio. Ettore, guardando il display del cellulare senza rispondere, era attanagliato, come mai lo fu nella sua vita, dal terrore dell'ignoto ove questo era il flusso dei pensieri e l’anima di Andromaca. Come è normale che sia quando ancora non ci è dato di conoscere punto per punto l'altro esterno da noi. Basterebbe chiedere, a volte; ma il timore di una risposta negativa, frutto di altra paura dell'ignoto ove questo è l'ago che può bucare la nostra bolla di privacy, ingombra e ostacola la nostra solitaria strada, amplifica e distorce l'eco di parole lontane, ingrandisce le ombre, rende enorme l'incapacità di giudizio. Ettore non rispose; incattivito dai rifiuti, lui che aveva avuto sempre tutto e subito, voleva decidere come, dove, quando. Miseramente, lei cadde nella rete dell'errore peculiare delle donne; si mise in attesa di un suo cenno, concedendogli spiritualmente il coltello dalla parte del manico e una posizione di forza. Non poteva fare altrimenti, convinta com'era della sua consistenza melmosa di infimo genere. Il cenno arrivò qualche settimana dopo; tempo giusto per essere confusi tra una giustificazione di impegni e una mancanza di interesse. L'ambiguità porta alla paura e Andromaca, che sicuramente non era esente, si lasciò attraversare da essa senza opposizione e si rese disponibile a lui. Quarto capitolo: lo scontro finale L’incontro per il primo posto era fissato. Tra 60 giorni, il primo e il secondo, ossia un ventenne nipponico corredato di puzza sotto il naso palpabile anche per via informatica, e Ettore, paladino dell’area mediterranea, quantomeno degli abitanti non a conoscenza delle sue morbosità, avrebbero dato vita a un epico scontro su campo. Si prospettava una guerra culturale: la disciplina giapponese e il ferreo rispetto delle leggi contro l’inventiva sud- europea, genio e sregolatezza. Il gioco era stato impostato: lo scontro finale sarebbe avvenuto solo a seguito di
una dimostrazione di forza. I due concorrenti avrebbero potuto gareggiare uno contro l’altro solo se avessero battuto gli otto avversari che li seguivano in graduatoria. I giudici avevano imposto questa pesantissima postilla considerando che le partite online sono di gran lunga meno temibili ed emozionanti del ring. Tanti piccoli e grandi fattori incidono e possono influenzare la mente con pensieri che nulla hanno a che fare con le capacità. Il timore di essere giudicati, l’ansia da prestazione, la sudditanza psicologica, l’aggressività delle espressioni facciali, della postura, dei movimenti. Perfino il modo di abbigliarsi. “Coglioni, se pensano di farmi fuori in questo modo per favorire il nippo metallaro vestito di pelle, si sbagliano di grosso.” Ettore ringhiò queste parole a sé stesso, non accorgendosi di averle proclamate ad alta voce. “Amore, cosa stai dicendo?” Andromaca, stesa sotto di lui, legata mani e piedi, confusa dai tonfi che i movimenti di Ettore, dentro di lei, rimbombando, le provocavano. Momentaneamente assente dal mondo reale, non aveva afferrato le parole. Neanche gliene fregava granché. Voleva solo dimostrare al suo uomo di essere attenta sempre. Fargli capire che era lì, pronta ad ogni suo desiderio, ordine o bisogno. Ansimando e ricomponendo i compartimenti, Ettore le disse che non era niente di importante. Continuava, però, a pensarci e più ci pensava, più sentiva le forze venir meno e più si sentiva debole e più si sforzava. Finché non dovette cedere al suo stesso corpo. Andromaca si fece sciogliere dai legacci e lo abbracciò apionatamente per consolarlo. “E’ stato bello, ugualmente, amore mio” Ettore non era in vena di smancerie, anzi.
“E’ colpa tua, sei un’inetta, te ne stai lì, ferma a godere, mentre io ti cambio i connotati” Partì un ceffone ben assestato che Ettore sentì sul suo stesso cuore così violentemente che la piccola parte sana del suo cervello si ribellò chiedendogli “che cavolo fai? La ami e la tratti così, sapendo che è colpa tua?” Andromaca iniziò a piangere da dentro, ingoiando più lacrime possibile. L’espressione umilmente afflitta la tradì e cercò di porvi riparo. “Dimmi cosa vuoi che faccia” “Pensi di raggirarmi così per farmi stare buono?” Andromaca sperò che la questione si risolvesse solo con male parole ma si sbagliava: un pugno in pieno costato la colpì togliendole il respiro per qualche secondo. Tossendo, si mise su un fianco raggomitolata: Ettore approfittò di quella posizione che lasciava scoperti e inermi pertugi di quel corpo per riempirne almeno uno con un fallo in resina. Ovviamente senza porre delicatezza all’azione. Andromaca gemette più volte e non sapeva dove riparare e consolare i dolori ubiquitari. Ettore si rinvigorì e sostituì il fantoccio con qualcosa di più veritiero, finché non raggiunse la sua soddisfazione. La lasciò dolorante sul letto sfatto dai ripetuti movimenti e violenze e andò a fare la doccia. Ne uscì un uomo nuovo, dolce, tenero e soprattutto candido, dimentico delle sue malefatte e sorridente. “Come stai, amore mio?” Ettore pose un sottile bacio sulla guancia che prometteva viola. Andromaca sorrise debolmente e tristemente.
“Non devi essere triste perché ti esprimo tutto il mio amore. Tu sai e ti amo per questo. Posso fare di te ciò che voglio, amandoti e condividendo con te le mie ioni.” “Non potrò andare a lavorare domani per come mi hai conciata. Dovrei andare in ospedale, sanguino.” Un lampo belluino ò negli occhi insani dell’uomo ma si placò per concedere la prima chance; alla prossima, non l’avrebbe neanche fatta fiatare. “Ti curo io. Poi però me ne vado a casa a dormire perché sono stanco.” “Non puoi restare con me, stanotte? Non mi sento bene.” Il lampo belluino si fece rivedere. “Ho detto che ora ti curo” Guardò l’ora. Prese qualche medicinale e disinfettanti – era un esperto di pronto soccorso – e con grazia si dedicò a lei. “Lo sai che non puoi andare in ospedale, vero?” “Si” “Altre persone conoscerebbero i nostri segreti e ficcherebbero il naso ovunque” “Si” “Non capirebbero l’amore che ci unisce” “Certo” Andromaca rispondeva lontana dal suo letto di ferite, ripetendosi di essere una merda, senza reagire. “Ti chiuderò a chiave per non farti uscire stanotte” Andromaca lo guardò spaventata. “Domattina, prima di andare all’Università, erò da te per vedere come stai e
per aprire la porta” Prese la giacca e fece per andarsene. Tornò indietro, la baciò dolcemente sulla guancia e con la voce più amorevole del mondo le disse di non esitare a chiamarlo se ne avesse avuto veramente bisogno. Calcando l’intonazione della parola “veramente” con una vaga minaccia. Andromaca attese che la porta si chiudesse, con annesso catenaccio medievale. Non pianse, andò a lavarsi accuratamente e si medicò di nuovo. La faccia era meglio di quel che pensasse ma la storia dello spigolo non reggeva più. Optò per una cura aggressiva: la bistecca per frenare il diffondersi del violaceo quaresimale. Il trucco, all’indomani, avrebbe fatto il resto. Avrebbe preso un antidolorifico per restare qualche ora seduta alla scrivania e svolgere lucidamente il proprio lavoro; meglio insabbiare vicende che possono compromettere la posizione. “Impasticcata ma non senza lavoro. Sarei completamente nelle sue mani” Guardò la strada trafficata del pomeriggio sul far del concludersi dalla sua consueta postazione di osservatrice. “Me lo merito. Sono io l’artefice dei miei mali, incapace di reagire” Il ricordo, ormai lontano, della sé stessa, guerrigliera pacifica, determinata nel sorridere anche al più acerrimo nemico ma ferma sui propri principi, immobile ad ogni tentativo di compromesso, pur ascoltando le esigenze altrui, le vagò nella testa confusa, ubriaca di Ettore. Sono tutte stupidaggini, quelle che ti propinano quando sei ragazzo. Valori, principi, rispetto. Parole vuote, senza senso. Ognuno pensa per sé, nessuno pensa agli altri e a quel che può essere il bene comune. Quel che è mio è mio e me lo tengo finché posso. Quel che è tuo, tento di prendermelo. Ci sono caduta con tutte le scarpe, non esiste la parità tra uomo e donna. L’uomo è uomo ed è
più forte e esplode, anche distruggendo; la donna deve conservare e tenere a sé il nucleo familiare, con qualunque mezzo. Imbecille a non averlo capito prima, ad essere caduta nella rete dei buoni principi sessantottini di mia madre. Che, alla fine, è di nuovo la schiava di un uomo. Non si fa mai sentire, presa com’è da lui, neanche a lei frega niente di come sto. Meno male che non la picchia, comincia ad essere anziana. Io invece devo essere forte. Devo abituarmi a ciò che è scoperto essere il mio destino: le donne devono sottomettersi perché l’uomo deve sottomettere. È semplice. Dovrò prendermi la responsabilità di mandare avanti la nostra relazione, in silenzio, altrimenti me ne dà il doppio. Non potrei mai denunciarlo: lo amo troppo, come farei senza di lui? La loro cecità reciproca li stava conducendo su una strada senza ritorno, senz’aria, senza luce. Andromaca non vedeva altro che il suo Ettore, sentendo di esistere perché lui era con lei: Ettore, resosi cieco alla verità che sgorgava generosa dall’infima parte sana di lui, vedeva solo gli scacchi. Null’altro importava. Non aveva occhi che per la scacchiera. La mattina si ricordò a malapena di liberare Andromaca. Ancora sofferente, minimizzò per non preoccuparlo. Decise però di farsi visitare di nascosto al vicino pronto soccorso. Con la faccia tosta, era pronta a mentire per salvare capra e cavoli e proteggere il suo amore. Per fortuna, un uomo; gli esseri maschili sono più approssimativi, guardano la situazione per intero, non il dettaglio, e non chiedono troppo. Neanche tanto, però, questo medico. Faceva troppe domande, sembrava sospettasse una violenza. Andromaca decise di attaccare con una mezza verità. “Ero assolutamente consenziente, partecipe e contenta” Il medico la guardò con estrema pietà. “Suppongo non voglia sporgere alcuna denuncia”
“Perché mai? Non era la prima volta e non sarà neanche l’ultima” “Lo spero vivamente per lei” Andromaca glissò sulla battuta macabra del medico. “In ogni caso, se le dovesse ricapitare e lei non fosse così felice, mi chiami” Le porse un biglietto da visita. “Non si dimentichi di sé stessa. Avrei molto da raccontarle” Andromaca lo guardò stupita: quel medico infondeva un calore antico, familiare e profondo. “La ringrazio, dottor...” Guardò il piccolo pezzo di carta ben scritto “dottor Achille. Siamo entrambi eroi greci” “Così si direbbe” E si trattenne dall’emettere un subdolo pensiero “Spero che tu non abbia incontrato quell’Ettore” Camminando a stento ma decorosamente, ritardataria, arrivò in ufficio con un’altra menzogna da confezionare: la banca e il suo conto perdutamente in rosso. La sera sopraggiungeva: Andromaca preparava una cena che non sapeva chi l’avrebbe consumata – Ettore si faceva desiderare e le piombava in casa a suo piacimento, arrabbiandosi se lei non c’era. In realtà, lo scacchista si allenava freneticamente al PC della sua stanza all’Università, quando i ragazzi erano tutti tornati a casa e i professori a sbrigare i propri affari. Lì, indisturbato, perdeva qualsiasi nozione del tempo, risvegliandosi dopo ore che gli erano parse minuti. Riemergeva, stanco e soddisfatto, al mondo esterno, pronto per altro. “Ciao, amore!” Una voce allegra accolse gioiosamente l’uomo, seguita da un gridolino di infante che ancora non sa regolare i propri volumi.
“Ciao piccolo! Portami dalla mamma!” cercò di sfilarsi la giacca con in braccio il piccolo che lo aiutò nell’operazione, ridendo insieme. “Ho preparato la pizza!” Fede emetteva bagliori ogni volta che vedeva Achille, l’uomo che l’aveva salvata da morte certa, almeno cerebrale, con cui aveva costruito una famiglia deliziosa e con cui condivideva qualunque attimo possibile, soddisfatta e serena anche nelle loro liti. Il piccolo Pat aveva ormai sette anni e tanta voglia di protagonismo; teneva banco con i racconti della sua seconda elementare e dei misteri dell’Universo, appresi e archiviati per essere divulgati ai propri genitori. Finalmente il sonno lo colse e i due poterono scambiare due parole. “Stamattina ho aiutato un collega al pronto soccorso. E’ venuta a farsi medicare una donna, molto bella, con gambe lunghissime” “Sapevo che prima o poi ti saresti innamorato di un’altra!” Fede scherzava ignara. “La faccenda è seria. Te l’ho descritta perché è il tipo di donna che potrebbe piacere a Ettore” Fede tornò seria. “Come era conciata?” “Male. Ha segni di violenza dappertutto. Cicatrici anche antiche. Ha rischiato di dover mettere i punti, ovunque” “Pensi che sia lui?” “Come faccio a saperlo? Neanche l’ho mai visto. Non ha voluto denunciare nessuno, anzi, si è mostrata fiera di essere consenziente. Partecipe, ha aggiunto” “Stupida” “Forse sa cosa rischia e lo accetta perché ne è innamorata” “Allora è pazza. Dava segni di squilibrio?”
“No, ma sembrava in trance. Chiusa al dialogo ma molto sorridente e gentile. Ha detto che siamo eroi greci” “Perché? Come si chiama?” “Non dovrei dirtelo ma se servirà..Andromaca” “Oh, mio dio! Non ci posso credere! Ettore e Andromaca, tu Achille, io Fede, cioè Briseide la fedele, e…” “Patrizio. Pat, non Patroclo” Fede si prese disperatamente il viso tra le mani. Era una donna razionale ma la coincidenza era incredibile. “Portiamolo dai nonni” “Non pensi che dovremmo prima scoprire se effettivamente è lui?” “Non c’è bisogno. Non mi chiedere perché ma me lo sento. Se non è lui, ti permetterò di prendermi in giro a vita su questa storia” “Sei ancora terrorizzata?” “Sono terrorizzata da lui, dalla situazione che potrebbe crearsi, da me stessa che non l’ho denunciato a suo tempo. È l’unico grande neo della mia vita e non avrò la completa pace finché non risolverò questa situazione che mi corrode l’anima dai sensi di colpa. Purtroppo, per risolverlo dovrei incontrarlo e affrontarlo e non so se ne sarei capace.” “Sei forte più di quanto pensi. Ricordati come sei riuscita a scappargli dalle grinfie.” La abbracciò, fiero di lei. “Ho sempre amato questa tua determinazione che mi è apparsa da subito come un colore che ti caratterizzasse. Ricordi? Ero venuto da te per la visita medica fiscale” “E poi mi hai seguito per sapere come sarebbe andata a finire” I due si guardarono sapendo di avere avuto la stessa idea.
“E’ contro la legge, Fede” “Non devi farlo tu” “Chi ti avrebbe comunicato l’indirizzo?” “Sarà un incontro assolutamente casuale” “Cosa le dirai?” “Non lo so. Qualcosa mi verrà in mente” “Ok. Mi fido” “Io mi fidavo di te! Come hai potuto?” Ettore urlava a due millimetri dal volto di Andromaca che, stupidamente, dopo settimane, gli aveva confessato di essere andata da un medico. Non tentava neanche di scusarsi, cercava solo di coprire più botte possibile. Stranamente, quel pomeriggio non erano arrivate. Ettore pensava infatti di fare il cazziatone in fretta, onde mantenere lo stato di terrore – se avesse cominciato a picchiarla poi se la sarebbe anche dovuta scopare – e le forze per una ragazzetta di venticinque anni neolaureata, tutta prorompenza fisica e occhioni dolci, in cerca di emozioni forti con il vecchio giovane professore. Protrasse la recita per cinque minuti e se ne andò, sbattendo ad arte la porta. Uscì dal portone, infilò gli occhiali, mise il casco, accese la moto e, rombando, si allontanò. Il negozio di lingerie di fronte all’edificio in cui abitava Andromaca era perfetto per nascondersi con i suoi vetri fumè all’esterno e chiari dall’interno. Fede era lì di fronte da almeno un’ora. A o lento gironzolava per i negozi della piazzetta, senza distogliere lo sguardo, decisa a fare qualcosa ma incerta sul da farsi.
A un certo punto, aveva sentito un rombo avvicinarsi e l’emozione l’aveva colta in pieno: era lì a due i da lui. Si era girata di spalle verso il negozio e, come uno 007 professionista, spiava le mosse di Ettore, trafficante con antifurti e sistemazione di caschi, dal riflesso della vetrina, fingendo di essere interessatissima ai capi esposti. Il suo cuore sembrava un tamburo; sapeva che se l’avesse vista, non avrebbe impiegato più di un secondo per fare un due più due e avrebbe massacrato Andromaca per una delazione che lei non aveva compiuto. Avrebbe fatto ricerche e scoperto Achille e lei e Pat… dio, non mi deve vedere. Ettore non la vide, infilò il portone e salì, evidentemente da Andromaca. Non può essere un caso. Sta andando da lei. Perse un po’ di tempo al negozio; la commessa non smetteva più di parlare e di cercare di venderle qualcosa, sommergendola di mutandine di pizzo e calze impalpabili e incorruttibili. Mentre cercava di spiegare che voleva solo un pigiama estivo, carino si ma senza essere necessariamente osé, aveva rivisto Ettore poco dopo che usciva dall’edificio per andar via. Acquistò il capo e uscì, di nuovo indecisa. Poteva citofonarle. E se non fosse stata sola? Si sentiva un po’ stupida: come poteva giudicare una situazione a lei completamente ignota, frutto di ragionamenti e estrapolazioni basate su indizi? Mentre i dubbi la assalivano, dal portone, uscì Andromaca. La riconobbe dalle gambe lunghe. Senza guardare, come se viaggiasse su una nuvola al di sopra delle povere contingenze umane e assolutamente inattaccabile, attraversò la strada dirigendosi proprio verso Fede, a cui dedicò uno sguardo cieco. Tentava un numero sul cellulare.
“Ettore, ti prego, dimmi dove sei.” Andromaca aveva parlato di fronte a Fede, paralizzata e senza respiro come davanti a un Tirannosaurus Rex. Stette così ancora per qualche minuto, scorgendo a malapena la direzione in cui era andata Andromaca. Uno squillante camlino nella sua mente la fece risvegliare. Era lui. Nessun dubbio. Solo Ettore si fa pregare in quel modo dalle donne. Quante volte lo aveva fatto anche lei? Ettore che sparisce, che si fa desiderare, che ti infila nella faccia un’espressione di assurda e dolorante attesa, che ti porta in vetta per scagliarti nel profondo buio, che viene a salvarti per poi incolparti della caduta che lui stesso ha provocato, rimproverando la tua inettitudine a la tua incapacità di reggerti in piedi da sola, senza di lui. Si mosse improvvisamente, accelerando il o, sempre più. La vedeva, era a una decina di metri. Rallentò per mantenere la distanza. Cosa le dico Andromaca proseguiva la sua camminata che sembrava avere una meta senza urgenza. Di lì a poco entrò in un bar, salutò cordialmente come se fosse una cliente fissa e si sedette al tavolino più lontano dall’entrata e meno illuminato, con una tazza di thè bollente tra le mani. Aprì un libro e iniziò a leggere, tranquillamente. Istintivamente, Fede entrò e ordinò un caffè e, meccanicamente, spinta da una forza ignota o da istinto di conservazione, le si avvicinò e attaccò bottone sulla lettura. Andromaca alzò gli occhi appannati e spenti verso la sua interlocutrice che ne fu scossa. Andromaca se ne accorse e cercò di sorridere per mettere a suo agio la persona che le aveva rivolto la parola in modo gentile. Due chiacchiere potevano solo giovarle: erano giorni che non incontrava nessuno al di fuori del lavoro.
Discettarono del racconto – che fortuna aver regalato proprio quel libro ad Achille! – e di letteratura contemporanea. “Sei piuttosto ferrata in materia. È il tuo lavoro?” “Una volta ero redattrice della sezione cultura di un giornale, piccolo ma agguerrito, chiuso dalla crisi e dalla politica. Ora lavoro in un’azienda di comunicazione pubblicitaria e sono ata anche per il call center. Una carriera al contrario ma di questi tempi è bene pensare al solo stipendio a fine mese” Disse mestamente Andromaca. “Deve essere stata dura per te” “Abbastanza. Ho trovato consolazione nella mia imperitura ione per tutto ciò che è cultura. Leggo molto e, non avendo molte risorse per il teatro, scarico da internet tutto lo scaricabile. Una ione che non si esaurirà mai” “Complimenti. Non è facile mantenere i propri sogni, soprattutto se si hanno difficoltà contingenti” “Più di quante tu ne possa immaginare” Andromaca si era lasciata sfuggire la frase in modo istintivo. Fede stette in silenzio di attesa: con una domanda più spinta forse avrebbe calcato troppo la mano e dato la sensazione di un’eccessiva pressione. Andromaca capì l’esatto opposto. “Scusami, non vorrei tediarti con i miei problemi” Fede sentì che era giunta l’occasione propizia: doveva incoraggiarla e farle capire che era per puro spirito altruistico. “Ci sono dei momenti nella vita in cui devi parlare, far uscire quel che hai dentro. Alcune volte, anche uno sconosciuto può diventare un amico.” Attese un cenno di assenso alla sua proposta di solidarietà. Pochi secondi sembrarono un’eternità a Federica in un turbine di dubbi, paura e
speranza ma con ferma determinazione. L’inganno era a fin di bene per tutti. Ettore doveva smetterla. Il volto di quella donna parlava chiaro: si sentiva soggiogata dalla vita, incapace di reagire, spinta dalla corrente che altri le avevano imposto, forse Ettore o forse qualcun altro e Ettore non era stato che la ciliegina sulla torta, approfittatore delle altrui ferite, lupo famelico in cerca di carne aperta e sanguinolenta. Federica sapeva di aver subito solo una piccolissima parte delle angherie fisiche che, sicuramente, aveva invece subito, o ancora subiva, Andromaca. Conosceva quella sorta di sudditanza psicologica che Ettore esercitava con chiunque. Aveva impiegato molto tempo per scrollarsi di dosso la sensazione di inutilità che le aveva inflitto. La nascita del piccolo Pat e la presenza forte e sicura dell’amore di Achille l’avevano definitivamente guarita. Solo il suo ex suocero era esente e impermeabile alla sua aura di potenza. Era l’unico che riusciva a vedere oltre la massiccia e carismatica figura di Ettore che nascondeva le nefandezze di cui era capace. Andromaca, finalmente, dopo aver lasciato inconsapevolmente bollire Federica in un brodo di timorosi pensieri, aprì le porte delle sue profondità. “I sogni si sono infranti violentemente. Nonostante quel che possa sembrare, non ne ho neanche più uno. Mi sembra un tempo lontanissimo quello in cui ero un’idealista. È tutto consumato e liso” Una pausa per trovare coraggio. “Non sono altro che il riflesso di questa distruzione” Federica era stupita dalla violenza di cui erano intrise le espressioni di Andromaca, contrastanti con la mesta rassegnazione della sua postura. Provò solidarietà e pena per la donna che le stava inviando un SOS muto, cieco, sordo, involontario, come se la volontà di Andromaca fosse stata spazzata via tempo addietro e seppellita in luogo segreto. Qualcuno la teneva sotto scacco, su questo non vi erano dubbi. Era il momento di tentare l’affondo.
“Suppongo che la tua infelicità sia legata a ben altro che non alla carriera” “Non ho saputo gestire la mia vita nel modo giusto” Abituata a farlo, aveva alzato una cortina di difesa. Le più forti strutture, però, sono fango sciolto se poggiano su un terreno inconsistente. Così, le potenti mura erette per difendere i propri torbidi segreti, a nessuno rivelati, neanche all’uomo che amava così profondamente da averlo trasformato, egli stesso e ciò che rappresentava, in un segreto, si sbriciolarono sopra le sabbie mobili dell’ascolto determinato di Federica. Più il dialogo andava avanti, più l’empatia cresceva, maggiore era la stima che provava per Andromaca, nonostante le brutture, i maltrattamenti autoinflitti e subiti. L’analisi fredda, dettagliata e rassegnatamente accorata di fatti, persone, situazioni posero di fronte a Federica una mente splendente che si autofustigava incolpandosi anche del consumo di aria per respirare. Venne a conoscenza del suo tentativo di sfondare e fare soldi come prostituta di pregio, delle violenze, dei ricatti e, infine, di Ettore. “Perché lasci che ti maltratti in questo modo?” Fede indicò la guancia leggermente tumefatta. “Credo di non meritare altro. Ho capito che la sottomissione della donna all’uomo è un atto d’amore come il comando dell’uomo sulla donna. Solo in questo modo, ognuno fa il bene dell’altro. Non ho ottenuto granché cercando di far valere le mie opinioni. Lui è solo un po’ più violento di tanti altri ma, almeno, so di essere la sua donna. So che se qualcuno intendesse farmi del male, lui correrebbe in mia difesa. Mi ama e condivide con me tutto. Anzi, ho fatto male a raccontarti tutto questo. È come se lo avessi tradito. Non dovevo. Lui mi ha aperto la sua anima e io ne sto parlando male con una persona estranea che non può capire” Fece per fuggire ma la mano di Fede si fermò sulla sua bloccandola con fermezza. “Posso capire, eccome. Ne riparleremo. Nel frattempo, ti prego di contattare al più presto il medico che ti ha curato al pronto soccorso. Non posso dirti di più
ora e non mi chiedere nulla ma fallo. Ti scongiuro” Andromaca fu presa da scoramento: era stata di nuovo raggirata? Chi era questa donna? Come faceva a sapere? “Mi hai seguito? Non è un caso che stiamo parlando?” “Telefona. Ora devo andare via. Fatti viva. Anzi restaci” Chissà perché, Federica sentiva bollire la sedia sotto di sé e un istinto di fuga improvviso. Troppo tardi, però. La fortuna, dopo averla seguita per tutto il pomeriggio, si era voltata da un’altra parte. L’incontro all’ingresso del bar fu inevitabile. Federica sbiancò e diede uno sguardo ad Andromaca per controllarne le reazioni: si era rimessa a leggere il suo libro, incurante di ciò che le succedeva intorno, di nuovo chiusa nel suo mondo. “Fede! Sei proprio tu? Come stai? Fatti guardare: sei in splendida forma!” Giovanni il Donnaiuolo attirò a sé l’imbarazzatissima Federica e la abbracciò affettuosamente. Fede cercò di mantenersi fredda. “Anche tu sei in forma, tutto a posto?” parlava cercando di far uscire dal bar l’uomo, nella speranza che non vedesse Andromaca o che non la conoscesse. “Non vuoi un caffè? Dai, raccontami qualcosa!” “No, grazie, l’ho appena preso. Mi accompagni all’auto?” Fede cercava di guadagnare il marciapiede facendo sì che Giovanni desse le spalle al bar, inutilmente perché rimaneva lì, sulla soglia, intenzionato a entrarvi. Federica si sentì perduta; per sé stessa ma soprattutto per Andromaca. Non poteva neanche avvertirla. Già si immaginava la reazione di Ettore appena messo a conoscenza dei fatti da
quel pettegolo di Giovanni. Avrebbe scatenato l’inferno. La prima a farne le spese sarebbe stata sicuramente lei. L’avrebbe picchiata a sangue, violentata, messa in condizioni di non nuocere più. Poi sarebbe arrivata a lei, attraverso il biglietto da visita di Achille nelle mani di Andromaca. Doveva fuggire. Doveva portare via suo figlio e Andromaca. Giovanni la salutò, notando la strana premura nell’allontanamento. Sulle prime si disse che forse non era particolarmente contenta di vederlo. Poi, guardandosi attorno, notò Andromaca nell’angolino più buio del bar, sempre intenta nella lettura. Giovanni la conosceva per averla vista in foto ma lei non conosceva lui. Ettore aveva blindato e limitato i contatti comuni. Fece un due più due abbastanza banale e capì che si conoscevano. E che avevano parlato. “Indovina chi ho appena incontrato?” Il Donnaiuolo aveva ancora in bocca l’aroma del caffè quando chiamò Ettore. “Non giocare agli indovinelli, Giovanni. Sto per fare cosacce a una giovinetta vogliosa, non farmi perdere tempo” “Credo che la fanciulla debba attendere.” Pausa teatrale. “Quindi?” Ettore mostrava segni di impazienza. “Federica” “Ah. Sola?” “Non proprio. Usciva da un bar“ Altra pausa teatrale. “Indovina chi c’era dentro al bar?” “Dio, Giovanni!”
“Ok, non ti incazzare. Andromaca” Silenzio. Un prolungato silenzio. “Ettore? Ci sei ancora?” “Si” ringhiò. “Non fare cazzate” “No” “Non agire di istinto” “No” “Prometti” “Vaffanculo” “Cazz…” Ettore non lasciò finire il suo amico e chiuse la chiamata. Si girò verso la ragazza che, nel frattempo, si era premurata di togliersi gli ingombranti abiti e si era stesa sul letto. Pronta. Ettore si avvicinò, imbufalito. La schiaffeggiò e la riempì di insulti, imponendole di rivestirsi. La cattiveria aveva preso il sopravvento. Vedeva il nero attorno a sé. L’unico colore che apparve nella sua mente fu il rosso del sangue di Andromaca e poi quello di Federica. La giovane, intanto, incapace di comprendere, si era rivestita e stava dirigendosi verso la porta quando Ettore le impose di fermarsi. “Dove credi di andare?”
“Mi sembrava di aver capito che non volessi. Ho pensato ti fossi arrabbiato per quella telefonata” “Il pensiero non è attività femminile” La giovane lo guardò stralunata e intimorita. Timori fondatissimi. Dopo un’ora d massacro, era in ospedale circondata da agenti e medici. Lei non aveva esitato a sporgere denuncia. I titoli sui giornali locali parlavano chiaro: il prof aveva violentato e malmenato una giovane studentessa. Lui si difendeva dichiarando la partecipazione attiva della ragazza. L’avvocato di Ettore, Priamo, non riusciva a conoscere la provenienza delle segnalazioni di violenza sul suo assistito; lontane nel tempo, bene in vista da sempre ma di origine nascosta. Era riuscito a fargli avere gli arresti domiciliari e ogni volta che andava da lui, notava sul suo volto sempre più i segni della belva in gabbia che aveva in corpo. Si aggirava per il salone, lasciando solchi sul pavimento, attorno ai divani, poi un mezzo giro attorno al tavolo, quindi rasente il muro e poi la sosta davanti al televisore. Quindi, ricominciava. L’avvocato era intimorito e non sapeva se comportarsi in modo solidale e comprensivo, o cameratesco oppure ignorare il tutto. Optò per il cieco cinismo alle estrinsecazioni rabbiose del suo cliente. “E’ stata lei a segnalare la presunta violenza. Ma ci stava, eccome. E le piaceva a quella troia di mia moglie. Ben nascosta, mi ha fregato” Era un fiume in piena. “Non è importante, ora, Ettore. È invece fondamentale che lei si calmi e che, finito il periodo – manca poco, se lo ricorda? – lei si comporti come un uomo ravveduto”
“Ravveduto? Che vuol dire? Sono una persona seria, un professore universitario e contro di me c’è solo una piccola, ignobile, studentella in cerca di fama. Chi ha detto che sono il colpevole?” “Le analisi mediche. Il suo DNA. Che purtroppo è nella banca dati. Si ricorda? Lo ha fatto per una ricerca universitaria” “E allora? Me la sono scopata. Quindi? Non è mica detto che l’abbia anche picchiata” “Purtroppo sono i tempi che non combaciano. Le analisi dicono che la persona che ha avuto rapporti sessuali con la ragazza è anche la persona che l’ha picchiata. Non avrebbe fatto a tempo a farsi picchiare da un altro. E non poteva neanche essere successo prima altrimenti lei avrebbe fatto sesso con una donna che aveva già i segni della violenza” Pausa. “Mi dica che lei non lo avrebbe fatto, la prego” “Certo che si e gliene avrei anche date altre” I compartimenti erano saltati. L’avvocato Priamo era disperato perché non sapeva a cosa appigliarsi per procedere con una difesa o quantomeno per una riacquisizione rapida della libertà, sebbene limitata. Per fortuna di Ettore, però, la mamma, nonostante avesse proclamato ai quattro venti il suo dissenso nei confronti dei comportamenti ignobili di suo figlio – sicuramente dovuti a una crisi momentanea, aveva aggiunto -, sotto banco e all’insaputa del suo stesso marito, certamente non a favore di questa iniziativa, aveva ingaggiato uno dei migliori avvocati della città. Il caso non era di facile risoluzione, viste le richieste del proprio cliente e la severità con cui il giudice lo aveva segregato in casa, nonché la stupidità poco opportunistica che pervadeva Ettore ai suoi occhi, almeno in quel momento. L’avvocato sapeva che ce l’avrebbe fatta. Doveva farcela. Ettore doveva tornare libero entro poche settimane.
Aveva scommesso una grossa somma su di lui come vincitore al torneo mondiale di scacchi. Ettore sarebbe andato comunque, a anche a costo di rientrare in galera subito dopo. Si allenava costantemente; non aveva altro da fare. Messe in stand by tutte le altre attività, gli scacchi si erano trasformati da chiodo fisso a lavoro routinario. Il posto dell’ossessione rimaneva vacante solo per poco tempo. Non appena distaccava gli occhi e la mente da una scacchiera, fosse questa a video o di legno, Ettore pensava alle due donne insieme. L’arrovellamento puntava dritto al cuore dell’incontro: lui era il contenuto del possibile dialogo. I patti con entrambe erano stati chiari: non esce fuori nulla da queste quattro mura, dai nostri ricordi e dai nostri cuori. Una sola parola verso l’esterno significa contaminazione; insieme e soli siamo puri; separati e con il resto del mondo siamo immondizia, commisti, indistinguibili, maleodoranti, infetti. Il pensiero di Andromaca, la sua dolce e sottomessa Andromaca, in fase confessionale con Federica, serpe allevata in seno, pronta a tradire in modo subdolo, insozzatrice di anime pure, lo faceva letteralmente impazzire. Non poteva credere che tutto ciò fosse realmente accaduto. La gabbia si stringeva ancora di più se Ettore si focalizzava sulla sua impotenza. Tutto era fuori controllo: non poteva contattare Andromaca, libera come un uccel di bosco di parlare con chiunque e di allontanarsi da lui; Fede era da anni irreperibile e irraggiungibile; l’avvocato non riusciva a scoprire da dove provenissero le segnalazioni. Ma lui sapeva, certo che sapeva! Hai covato la tua vendetta per anni, piccolo e meschino microbo, immonda
schifezza primordiale. Pensi che io ti abbia fatto del male? Troppo poco, invece, andavi raddrizzata da molto prima. Ti ho anche rispettata, quando facevamo i fidanzatini! Per accontentarti, mi sono costretto a comportarmi come tu volevi, verme strisciante e molle. Ti ho anche sposato perché “così si costruisce una famiglia”, dicevi. Non hai fatto nulla per dimostrarmi il tuo amore. Appena ti ho svelato i miei segreti, sei fuggita a gambe levate, come un coniglio. Strisciante essere codardo, eternamente vissuta nella bambagia, felice e contenta di rendere felici e contenti i tuoi genitori che volevano solo renderti felice e contenta. Mi si sono cariati i denti da tutta questa dolcezza. Puah! Hai avuto paura di guardare in faccia la realtà, in tutta la sua schifezza, hai avuto il terrore di essere nelle mie mani, di darmi il controllo della tua vita, di rendermi padrone dei tuoi respiri e del diritto di vita o di morte su di te. A chi ti stai appoggiando ora, mostro dalla faccia di cerbiatta? A chi succhi il nettare vitale, sanguisuga incapace di reggersi sulle proprie gambe? Chi ti è padrone? Per quale infetto e fetido motivo devi rompermi i coglioni, segnalarmi alla Polizia, parlare con Andromaca, impicciarti della mia vita, infiltrarti come puzzo di sudore in ogni pertugio, insozzare il mio mondo, la mia casa, la mia donna? Ti ho lasciato vivere, ho seppellito al mondo e a me stesso l’unica sconfitta che tu e solo tu, pustola ignobile mi hai inflitto. Non mi sono vendicato e ti ho lasciato campare, come lasci campare la zanzara che, succhiandoti il sangue, non ti ha fatto dormire per una notte ma non la schiacci con la ciabatta perché sai che, aprendo le finestre il mattino dopo, volerà via e camperà molto molto poco, infinitamente meno di te, quindi perché impegnarsi ad abbatterla? Ma tu, no! Insisti, vuoi ancora il mio sangue! Allora, eccotelo il mio sangue! Ma che sia mischiato al tuo! Queste convinzioni, fondate su uno spesso strato di cinismo, mistificazione, confusione mentale, lacune affettive e disturbi psicologici, benché irreali e scollate dal buon senso, non cedevano di fronte alla logica. Ettore non trovava evidente di essere lui il violento. L’evidenza era la sua potenza da osannare e consacrare, con doni e sacrifici; evidente era che chi non lo fe era suo nemico, non qualcuno che vedesse la situazione da un diverso punto di vista. La confusione del distacco lo conduceva sulla strada del delirio, coerente solo con la logica di insani ragionamenti. La sua solitudine coatta amplificava nel recluso gli effetti depressivi e più questi si ingrandivano, più la logica di Ettore se ne distaccava per paura delle proprie debolezze e maggiore diventava l’enfasi
vendicativa. La percezione ormai alterata l’avevo reso dimentico anche dell’amore per Andromaca. La donna, la sua dolce donna, era ormai un’arma nelle mani del nemico da neutralizzare al più presto. La sua reclusione però gli impediva ingiustamente, ai suoi occhi, l’azione, il controllo, l’esercizio del potere. La spirale del delirio si infittiva, ogni giro sempre più ravvicinato all’altro, ogni spira più stretta: stava diventando una molla pronta ad esplodere. Andromaca aveva appena fatto esplodere un palloncino. La bella giornata di sole l’aveva presa per mano e portata in centro, macchina fotografica in spalla e spiccetti per il gelato, come i bimbi. Senza Ettore si sentiva rinata. Le mancava, certo, ma quello di prima, il suo dolce cavaliere sorridente e tenero. Aveva capito cosa intendesse Federica e, approfittando della sua forzata assenza – ancora non aveva avuto modo di capire cosa fosse successo, nessuno si era degnato di spiegarglielo, anche perché non aveva contatti con il mondo di colui che definiva “il suo uomo” – aveva ricominciato a gustarsi le piccole bellissime cose della vita. Dunque, era arrivato quel bimbo, fuggito alle grinfie materne, a chiederle il gelato appena acquistato, ancora intonso. Lei, prima che sopraggiungesse la mamma accorrente nel disperato tentativo di non fare brutte figure – cosa penserà ora? Non sono una mamma che nega un gelato al proprio figlio! – glielo aveva donato ma solo in cambio del palloncino tenuto saldamente dalle dita candide e morbide del bambino dalla faccia di latte. La mamma era riuscita a raggiungerlo solo a operazione effettuata; non restava che mettersi a ridere e acquistare un altro gelato. Lontano da occhi indiscreti, però. Con il palloncino in mano, ciondolante con tanta voglia di volare verso l’alto,
Andromaca si era seduta al tavolino di un bar al sole per ordinare una coppa molto grande di gelato, di quelle con la panna sopra e sotto e tanti pezzi di frutta fresca affogati nelle creme. Cercava gli ultimi spiccioli nelle tasche quando, oltre alle banconote, rintracciò un altro tipo di carta. Lo tirò fuori e lesse il nome del dott. Achille. Si sentì a disagio, la sedia improvvisamente piena di aculei pungolanti e urticanti. Quel biglietto la riportava alla realtà che stava omettendo a sé stessa per frivola voglia di evasione e di respiro leggero dopo tante angherie. Ma la situazione non era cambiata. Le sue braccia si fecero di marmo. La pressione sul palloncino superò la resistenza a rottura del materiale e l’aria fuoriuscì fragorosamente in una frazione di secondo, facendo sobbalzare gli altri clienti, beatamente assisi a gustare gelati, caffè e altre leccornie. Andromaca emise un fievole “scusate” e ripose gli occhi sul biglietto, un po’ per riconcentrarsi dopo la rumorosa pausa, un po’ per vergogna. La rilassatezza era svanita. Doveva prendere una decisione, adesso o mai più. Prese il cellulare e chiamò. “Salve, sono Andromaca, cerco il dott. Achille.” “E’ lei!” Achille bisbigliò a Fede l’improvvisa e domenicale telefonata. “Incontriamola” “Sei pazza?” “Si, ora. Ettore è agli arresti domiciliari. adesso o mai più” “E Pat?”
“Viene anche lui. È pur sempre il figlio di Ettore” “Fede, Pat è figlio mio” Si guardarono amorevolmente: non era un rimprovero quello di Achille. Era uno sguardo su un futuro più limpido del ato a cui toccava porre uno stop all’invasione del presente. Si incontrarono tutti e quattro al parco, distraendo Pat con giochi, giostre, animaletti da inseguire e cacciare, altri bimbi. Le raccontarono tutto. Si scusarono di averla seguita e ingannata ma era l’unico modo, una volta constatato che fosse effettivamente la compagna di Ettore, di farsi ascoltare. “Se ti avessi detto brutalmente la verità, non mi avresti creduto. Mi avresti preso per pazza” Quel pomeriggio mostrava ad Andromaca l’esistenza di persone altruiste e buone. La sua corruzione, però, non le dava tregua. Stanno aiutando me o vogliono sbarazzarsi di Ettore? Forse vogliono utilizzarmi per farlo fuori. Fede vuole cancellare il suo ricordo per sempre e Achille non se lo lascia chiedere certo due volte. Fa comodo a tutti che Ettore sgombri il campo. Già, ma a che pro? Loro già erano riusciti nel loro intento, lui era già fuori dalle loro vite, quindi? Andromaca trovò la risposta nella risata di Pat indirizzata ad Achille; lui era il futuro. Gli adulti dovrebbero lasciare il mondo ai propri figli meglio di come lo avessero ereditato. Pat era il futuro e si doveva pensare solo a lui e al suo bene. Non può esserci bene per il futuro se un essere umano, per presunto diritto di genere, razza, colore, religione, fede calcistica o vattelappesca, sottomette un
altro essere umano. Non può esserci bene se esistono persone malate e superficiali come Ettore e…me. Infinite colpe mi prendo. Ma non mi rassegno. La pagherò cara ma Ettore deve finirla. “Non sei pazza. Lo sono io” Andromaca guardò intensamente Fede e lei vide, finalmente, uno sprazzo di lucida vita. “Ho voluto chiudere gli occhi alla vita per paura di farmi male di nuovo” La voce le tremò. “Non sono più abituata al calore, all’amicizia disinteressata. Ettore, nonostante tutto, è stata l’ultima persona che mi ha dato amore senza chiedermi nulla in cambio. Poi, ho fatto l’errore di chiudermi e di affrontare questioni troppo più grandi di me senza aiuto. Lui ne è rimasto deluso, quasi tradito dal mio abbandono. Quando ci siamo rivisti, era irrimediabilmente consunto, vecchio, ripiegato su sé stesso. Incattivito” “Ettore ha dei forti problemi con il padre. Ha avuto tutto facilmente e, convinto di poter continuare a ottenere qualsiasi cosa chiedesse, ha sperperato tutto ciò che aveva ‘naturalmente’. La sua intelligenza negli scacchi, invece di andarsene a sfondare all’estero, la curiosità per le donne invece che per la scienza per eccellere. Il papà non glielo ha mai perdonato ma, invece di prenderlo a calci nel sedere, lo ha completamente ignorato. Per lui, Ettore è inesistente, un essere irrilevante. Questa è la causa dei suoi mali.” “A Ettore è mancato l’amore per tutta la vita. Triste per noi che non siamo riuscite a darglielo. D’altra parte, colmare lacune affettive causate dai genitori non è facile.” “Cosa intendi fare ora?” Fede sorvolò sulle sue vicende, al momento meno importanti. “Nulla, assolutamente nulla. Attenderò che sia liberato poi, forse, chissà, gli parlerò.” Andromaca seppe il perché Ettore fosse finito in manette su internet. Il peggiore dei modi per scoprire che la sera in cui l’aveva aspramente rimproverata di averlo tradito perché aveva osato farsi medicare al pronto soccorso, lui aveva fatto sesso con una donna qualsiasi, sconosciuta, estranea, giovane. Con le medesime modalità.
Con la stessa violenza che era il “loro” segreto. In un attimo, capì quanto fosse inutile il suo martirio. Non era speciale per lui, era solo una delle tante. Forse, una su cui poteva adagiarsi di più e su cui esercitare la posizione di forza. Ma rimaneva una delle tante. Le crollò il mondo addosso. Questo era il tradimento. Tradire non è solo il mero e animalesco atto sessuale; è venir meno ai patti. Dov’era quella condivisione di anime che lo portava a usarle violenza, a picchiarla e lei a subire se tutto finiva nel cesso di una botta e via con una puttanella qualsiasi? Cosa girava nella testa di quella persona di cui Andromaca aveva visto l’animo gentile e disinteressato, la generosità, la differenza con la brutalità del mondo esterno? Guarda in faccia la realtà: è pazzo, uno schizofrenico. Non devo farmi abbindolare dall’immagine dell’uomo che fu. Non c’è più e se anche esistesse ancora, non è più per me. È finita. Devo allontanarlo dalla mia vita. Domani cambio la serratura alla porta. Chiederò i soldi alla mamma. Anzi, ora le telefono e le racconto tutto. È ora di reagire. “Figlio di puttana, come osi reagire così?” Ettore parlava al PC come fosse un avversario: mancavano solo due settimane al torneo e il suo nervosismo aveva raggiunto vette elevatissime. Litigava con chiunque, anche con i pacifici giocatori birmani che si scusavano quando facevano scacco matto. La partita fu interrotta dall’arrivo dell’avvocato Priamo. “Allora, me l’ha trovata?” “Dovremmo parlare di altro, non trova?” “Si, ma ha trovato l’indirizzo di quel cazzo di medico?”
L’avvocato Priamo sospirò rassegnato pensando ai suoi gloriosi venti anni di carriera; neanche i mafiosi erano così intrattabili. “Il dottor Achille abita con la sua ex moglie nella via che le ho scritto su questo foglio. I dati che sono riuscito a scovare sono lì. La sua intuizione era giusta. Quando Andromaca è andata a farsi visitare al pronto soccorso, evidentemente ha beccato proprio il compagno di Federica. L’hanno contattata in qualche modo, forse proprio il giorno in cui il suo amico Giovanni le ha viste nello stesso bar. Hanno un bimbo di sette anni” “Quanti?” Ettore calcolava mentalmente le possibilità. “Sette. Come le ho appena detto” “Vacca di quella troia, serpe schifosa, allora era incinta sul serio” L’avvocato era costernato. “Come?” Ettore guardò l’uomo come se fosse appena entrato. Si scusò ma non riuscì a stabilire un ordine normale nei suoi occhi rabbiosi. L’avvocato tentò di sorvolare. “L’atto è stato emanato. Lei potrà tornare libero da domattina. Non potrà espatriare per qualche mese, poi aggiusterò tutto. Dovrà firmare tutte le sere al Commissariato per quattro settimane e sarà controllato per sei mesi. Non mi hanno detto come. Se tutto andrà bene, se lei non commetterà stupidaggini, se non prenderà neanche una multa per divieto di sosta e non si farà trovare ubriaco” “Mai stato alcolizzato. Un cocktail ogni tanto non si nega a nessuno” Disse furioso. “Se lei non si farà beccare ubriaco neanche una volta in un luogo diverso da casa sua, potrà tornare completamente libero. Ah, dimenticavo: una volta a settimana lei vedrà lo psicologo che la seguirà come un segugio” “Bene, sedute psicanalitiche gratis” Ettore tirò fuori tutto il suo cattivo cinismo.
“Ho detto psicologo, non psicoanalista” Lo corresse l’avvocato. “E io ho fatto una battuta, avvocato. Non mi prenderà mica per uno che non conosce la differenza, vero?” Il tono era palesemente minaccioso. L’avvocato incassò e ò oltre. “Non faccia stupidaggini. Lei non si può avvicinare a Federica per le segnalazioni del ato che aspettano solo un suo gesto inconsulto per diventare denuncia. Sarebbe la seconda, dopo di che, non le basterebbe un esercito di avvocati per evitare il carcere” “Ok, avvocato” All’uomo di legge non era sfuggita la vena ironica. Se ne andò salutando cortesemente. Si ripromise di avvisare Federica. Ma si sa, gli impegni incombono, il tempo scarseggia e vola, la legge ubi maior minor cessat imperversa alquanto nonostante i buon propositi. Federica e i suoi problemi arono in secondo piano; l’avvocato Priamo non aveva tempo per beghe immaginabili ma solo probabili, lui andava al sodo di questioni tangibili e il tempo tangibile è danaro, dunque, niente da fare, la memoria cancella bazzecole e trattiene le priorità. “E’ importante che io ti parli, cazzo!” Ettore urlava a quell’oggetto di comunicazione emanante silenzio. In realtà, pregava Andromaca, insultandola, di ascoltarlo. “So quel che hai fatto. Non voglio neanche parlarne.” Andromaca era ferma e senza esitazioni. Attaccò il cellulare e cambiò il numero di telefono. La serratura era già stata modificata: Ettore, comunque, poteva infastidirla solo di giorno, la notte aveva il coprifuoco imposto dal giudice.
Pensò che fosse tutto a posto ma non lo era affatto. A cinque giorni dalla grande sfida, Ettore subiva gli scossoni del suo umore altalenante tra picchi vertiginosi e minimi abissali di depressione. Il suo corpo doveva muoversi, comandato dalla mente accelerata dalle escursioni altimetriche umorali. Non cedeva alla disperazione di aver perso Andromaca; lui non si sentiva un perdente, lui non aveva subito una sconfitta, aveva vissuto. Ma i nervi hanno anch’essi una tolleranza elastica e, sì come corda, se si continua a tirare, prima o poi si spezza. Il limite venne superato all’ennesimo tentativo di Ettore di rientrare nella vita di Andromaca. Mancavano due notti al grande torneo. Gli aveva gettato addosso quella frase “so quel che hai fatto” senza spiegare. Questo lo mandava ai matti. Nessuno poteva permettersi di parlargli così. Nessuno poteva giudicarlo, figuriamoci senza un confronto diretto e uno scontro aperto. L’assedio ebbe inizio a sera inoltrata e, nel suo altruismo, Andromaca non ebbe il fegato né di chiamare la Polizia – per non peggiorare la situazione – né di lasciarlo marcire, urlante, inondandolo di indifferenza. Lo incontrò per strada, sul marciapiede, dove volavano parole stridenti e ruvide, cartacce sporche e foglie morte. Andromaca era stordita dal turbinio di suoni e, confusa, non riusciva a donare la propria concentrazione né su una cosa né sull’altra. Le parole di Ettore le arrivavano da lontano; lo guardava stordita e le parole la avvolgevano, la circondavano ma non riuscivano a penetrare nel suo cervello, neanche attraverso le sue orecchie. “Basta, Ettore”
Tutto si fermò. Il vento calò improvvisamente e le foglie e le cartacce caddero dall’altezza a cui il moto dell’aria le aveva trasportate, cosicché sembrò che qualcosa si rompesse e si infrangesse a terra senza rumore. La rabbia di Ettore si spense lasciando il posto alla stupida speranza di una dichiarazione d’amore incondizionato. Ridivenuto giovane per quella frazione di secondo, si aprì a nuova vita come un raggio di sole tra le nubi compatte di un temporale. “Ti amo e ti amerò sempre” Un filo di voce debole e timida tagliò a fette quel surreale silenzio. Il cuore di Ettore si fermò, in attesa della sentenza. “Non posso continuare però, ho bisogno di recuperare la mia dignità che con te sarebbe continuamente calpestata.” Il cuore di Ettore si infranse sull’asfalto. “So quel che hai fatto, oggi e in ato” Il cuore di Ettore si richiuse e la paura, regina incontrastata delle sue coronarie, riprese il proprio posto, spodestando il lato positivo della medaglia della vita. La paura vige e domina a 360 gradi in tutte le direzioni; difficile che si abbia il coraggio di prendersi qualche colpa. “E’ stata Federica, vero? Quella piccola serpe ha ancora l’intenzione di rovinarmi la vita. Ti ha messo contro di me, ti ha plagiato, confuso…” si avvicinò insinuante ad Andromaca, giocando le ultime, rassegnate e scolorite carte “non puoi dimenticare ciò che è stato tra noi, piccola”
“Certo che non potrò mai dimenticarlo” la donna di scostò a malincuore ma la volontà era ferma e zittì i sensi e il cuore “Hai lasciato molti segni indelebili sul mio corpo” Questa volta, a infrangersi, fu l’orgoglio di Ettore. Andromaca continuò, incurante del dolore ben celato dal dolorante. “Sei stato un uomo meraviglioso per me, poi è cambiato qualcosa, anche a causa mia. Quando eri in Islanda sono accadute molte cose brutte. Non ho potuto raccontartele per vergogna, pudore, non so, Non potevo condividerle con te. Ero sotto ricatto, maltrattata. Mi sono sentita sporca, una puttana. Non potevo calarti nel mio mondo di brutture e sporcizia. Volevo che il rapporto tra noi rimanesse bellissimo, incontaminato, puro. Il mio amore mi ha reso cieca e ho ceduto. Non volevo perderti. Avrei fatto qualunque cosa per te. Mi hai ripagato con la moneta usata dagli altri. Mi hai abbassato più di quanto non fossi già decaduta. Ho una dignità, ora lo so, non puoi fare di me ciò che vuoi. Non sono la tua schiava, nessuno può essere schiavo di qualcun altro. Se invece pensi sia possibile, non possiamo stare insieme. È vero, Federica mi ha completato il quadro. Mi ha aperto gli occhi e ricordato i miei diritti che stavi schiacciando e calpestando” “Piccola serpe bastarda” “Come?” Andromaca pensava di aver udito male le parole uscite da quella bocca che amava tanto. “Ti odio, meschino essere immondo, ti odio con qualunque parte del mio corpo” Non credeva alle proprie orecchie, stavolta era sicura che il suono arrivato al cervello non fosse stato mal interpretato. Ettore non le badava; non vide le lacrime sgorgare dall’anima della sua Andromaca, la sua dolce Andromaca, oltre che tradita, malmenata, calpestata, ora anche trafitta. “Hai voluto togliermi anche questo” “Cosa stai dicendo?”
Ettore le rivolse uno sguardo morto. Non puoi capire, piccola. Sei l’unica persona che abbia mai amato ma quella serpe ci ha sporcato, è entrata dove non doveva, ci ha infettato con i germi del suo buonismo. Addio. Andromaca vedeva solo il volto senza vita del suo Ettore. Per un attimo, infinitesimo quanto cruciale, pensò di poter cambiare qualcosa, di girare una chiave che sentiva tra le sue mani, di intervenire seguendo l’istinto. Non lo fece: la ragione prevalse e la fermezza delle sue decisioni a tavolino non vacillò. Senza dire oltre, Ettore si girò: da bravo geologo, sapeva che il gas rabbioso che aveva dentro, soffocato e pressato dagli eventi che si erano succeduti e dalle scosse tettoniche provocate dalla sua ex moglie, benché da lontano, avrebbe raggiunto nella notte la voglia di fuoriuscire sufficiente a far esplodere magma, lapilli, rocce e scorie, fino a far crollare l’intero apparato vulcanico e, quel che ne fosse restato, a farlo implodere su sé stesso e formare una caldera le cui immense tracce avrebbero corrugato la superficie terrestre per sempre. Per ora, il ribollimento era controllabile ma gli occhi cominciavano a iniettarsi di sangue e la bocca a schiumare. “Ti ammazzo, piccola serpe” La frase, rimbalzata tra una facciata di cemento e l’altra e trasportata dal vento, giunse in brandelli ad Andromaca. La tristezza le aveva otturato i sensi: non capì che quella rabbia non era per lei. Quella stessa rabbia che si scatenò con violenza, di lì a poco, su due ragazzotti che ebbero l’impudenza di chiedere a Ettore solo una sigaretta. Massacrò entrambi a sangue, coperto dalla luce nera della notte. Sollevato dal piccolo sfiatamento di pressione, si allontanò a spalle curve, mani in tasca, in cerca di altri guai. L’istinto lo guidò nella zona in cui abitava Federica e quel grandissimo figlio d buona donna del dottorino, tuo degno compagno. Vi faccio neri, vi stronco per sempre, voglio vedervi annaspare in salita su una
sedia a rotelle. Fate talmente schifo che neanche la morte vi vorrebbe, troppo pulita per voi, piccoli giudici ignoranti, chiusi nelle vostre miserie di perbenismo e ipocrisia. Chissà se anche lui ti fa godere come riuscivo a fare io, vermiciattola invidiosa dell’altrui respiro. Eccoti lì, maiala putrida e infestante, ancora le luci accese. Non avete un cazzo da fare nella vita, inutili e viscide amebe, solo parlottare e sputare sentenze, dall’alto del vostro ignobile e miserabile scranno. Alto??? Sei in basso, tu e quella merda che ti si scopa. Mancavano circa quaranta ore al grande torneo e i pensieri di Ettore si ripetevano ossessionantemente come una litania. La spossatezza alle 4 di notte sopraggiunge anche se il corpo è saturo di adrenalina. Prima o poi si ha bisogno di dormire, se non circolano altre sostanze chimiche di provenienza esogena. Ettore procrastinò l’irruzione e l’irrinunciabile distruzione. Doveva capire il momento giusto per l’attacco, conoscere i movimenti dell’uno e dell’altra, sorprenderli in solitudine senza nessuna possibilità di difesa, separatamente, impedendo che uno si potesse fare scudo dell’altra. All’azione di forza era necessario affiancare un intervento diplomatico, allisciare contatti e oliare ingranaggi, sfruttare conoscenze e riscuotere favori ati. Telefonò al primario dell’ospedale in cui lavorava quel grandissimo figlio d buona donna del dottorino: la figliola aveva ato la selezione per entrare a Ingegneria solo grazie a lui – un’altra capra, altre braccia rubate all’agricoltura dai soldi di paparino, un’altra mignotta salvata dalla strada, il padre non sa che me la sono trombata a sangue per farmi ringraziare – quale altra occasione migliore per farsi ripagare? Infatti, il primario non si fece pregare ed elargì generosamente le informazioni. Ora Ettore sapeva. La notte prima del torneo Federica sarebbe stata sola in casa perché quel grandissimo figlio d buona donna del dottorino sarebbe stato in turno. Aveva tutta la notte per agire indisturbato, per sfogare la sua rabbia sulla colpevole. Restava da risolvere un altro piccolissimo problema: come entrare in casa.
Contava sul suo vincente potere di convincimento ma i tempi erano ristretti. Alle 23 doveva andare a firmare in Questura; ciò significava che sarebbe potuto arrivare da Fede poco prima della mezzanotte. Una donna sana di mente non apre la porta a uno sconosciuto qualsiasi di sera tardi. Doveva uscire lei dalla tana; doveva trovare un escamotage, per farle mettere il naso fuori dalla porta. La forza avrebbe fatto il resto. “Ho paura, Fede. Non so cosa mi succederà. Ha detto che mi odia” Andromaca era sopraffatta dalle parole ruvide scagliate dal suo Ettore. Federica non ne aveva, invece, di parole. Lasciava andare il fiume in piena di Andromaca. “Temo che voglia farmi del male. Non ce la faccio a sopportare altri schiaffi. Vorrei ricominciare a vivere tranquillamente, senza violenza, senza ferocia, senza pazzie. Basta” Un singhiozzo sommesso balzò da una cornetta all’altra. “Avverti la Polizia. È segnalato, non può girare a piacimento” “Per quanto tempo lo fermeranno? Per una notte? Due? Poi? Dovrò vivere per sempre con il timore di un agguato?” “Vuoi venire qui? La mia casa è grande, posso ospitarti” “Ti ringrazio ma sarebbe cedere all’anormalità. Non voglio andar via di casa o perdere il mio lavoro dopo quel che ho ato e compromettere tutto per un pazzo di cui mi sono innamorata.” Fede ripensò al suo rapporto con Ettore; anche lei pensava di essere perdutamente innamorata di lui ma il tempo e Achille, entrambi gentiluomini, le avevano fatto cambiare idea. Ettore era un uomo affascinante, carismatico, misterioso e al contempo solare. Niente di più, però. Dietro a quella facciata di grande uomo, solo un essere superficiale, senza spessore né principi, votato all’edonismo sfrenato e alla convenienza. A lui tutto era dovuto. Lui non doveva alcunché e a nessuno. La bambagia in cui era cresciuto, il cui fornitore ufficiale era sua madre, era stata
rimpiazzata prima da Federica stessa, poi da tutte le altre donne che si erano succedute, fino ad Andromaca. Più il suo potere e il suo carisma crescevano, più le donne che gli si avvicinavano sentivano di dovere mantenere quella bambagia, accontentando tutti i suoi desideri. Fede si sentì di nuovo in colpa: non aveva parlato al momento opportuno, non aveva interrotto la catena, non gli aveva fatto capire quanto il suo comportamento fosse sbagliato, crudele, indegno. Aveva agito da codarda: era fuggita lasciando una pesante eredità a chi era venuto dopo di lei. Questa realtà le si sbatteva in faccia come una sonora sberla, l’aveva di fronte e le chiedeva aiuto. Ironia della sorte a cui non riusciva a sottrarsi. La vita stava facendole pagare lo scotto della sua fuga, le conseguenze inimmaginabili del suo atto di paura. Senza volerlo, aveva creato un mostro che le si stava ritorcendo contro con violenza inaudita. Avrebbe potuto fuggire ancora, chiudere il telefono con un semplice “sbrigatela da sola”. Ognuno è artefice delle proprie disgrazie e Andromaca, a differenza di lei, se l’era proprio cercata. Ma la colpa l’avrebbe inseguita per il resto dei suoi giorni. Si sentiva responsabile, giustamente o meno e non sapeva cosa fare. La fuga era l’unica soluzione che riusciva a trovare e quella testona non voleva accettarla. Ci vuole coraggio per fuggire e cambiare rotta anche se ciò richiede rinunce e sacrifici e rivoluzioni, interne ed esterne. “Avrò il coraggio di affrontarlo? Non lo so, non lo so, non lo so. Spero mi verrà. Spero di rimanere ferma sulla mia decisione nonostante le sue minacce. Di avere la forza di non cedere” “L’avrai. Ne sono certa” Fede tristemente e impotentemente lasciò Andromaca al suo destino.
Poi ci ripensò. Non era impotente. Non era sola. Non era tutto inutile. Lo scontro poteva essere evitato. Guardò il suo piccolo giocare con il lego; gli piaceva costruire le città così, nel salone, di tanto in tanto, sorgevano boschi di grattacieli multicolori e avveniristici in scala e, tra le strade che separavano le megastrutture, Pat si perdeva per ore creando storie, inseguimenti, supereroi e avvenimenti supernaturali. Le sue costruzioni venivano debitamente archiviate – mamma fotografa la città, questo è un progetto che mi piace molto e vorrei tenerlo per quando sarò un grande architetto – e distrutte affinché la fantasia avesse lo spazio per ampliarsi e conquistare nuovi territori. Si perse immaginando di immergersi nella generosa e ancora incontaminata fantasia del piccolo Pat; lì tutto era positivo, fertile, in accrescimento. Aveva bisogno proprio di questo. Ricreare in sé stessa un atteggiamento costruttivo, non rassegnato. Ognuno è artefice del proprio destino. Lei era andata ben oltre, diventando artefice involontaria anche del destino altrui. Ora doveva fare qualcosa per sé stessa e per Andromaca. Chiamò l’agente di Polizia che serbava da anni la sua vicenda; era ora di intervenire. Fede si tranquillizzò solo quando seppe che un solerte agente sorvegliava l’abitazione di Andromaca. Decise di uscire con il piccolo Pat per andare a prendere un gelato anche se era pomeriggio tardi. Si udì un allegro urletto sul marciapiede e una furia entusiastica aprire con tutte le sue forze il pesante portone in metallo e vetro e catapultarsi fuori. “Pat, non attraversare!” Ettore, dietro i suoi occhiali scuri e un berretto copricapelli aveva riconosciuto la voce. Lei non gli aveva badato, confuso tra i anti.
Lui la seguì con lo sguardo altalenante tra lei e il pargolo a seguito. Quanti anni avrà il piccolo mostro?...sembra sei, sette. Già, di più non può essere. Quindi, era vero! Era veramente incinta quando se ne è andata. Quello è mio figlio…MIO figlio e quel grandissimo figlio di buona donna del dottorino ha preso il mio posto! Quello è MIO figlio. Mi ha tenuto nascosto anche questo, bastarda verme schifosa. E ha rifilato a quel povero bambino un padre farlocco, fasullo, finto, fantoccio. Come lo ha chiamato? Pat? Ettore rise tra sé e sé. Pat…Patroclo… ahahahah! Achille e il suo protetto Patroclo…te lo ucciderò, mia cara Fede. Come te l’ho dato, te lo toglierò. Dovrai soffrire come stai facendo soffrire me. In quel momento, mamma e marmocchio furono raggiunti da un uomo che Ettore identificò con Achille, vista l’affettuosità dell’accoglienza. Eccoli là, la famigliola felice. Vi siete presi tutto, compresa la mia vita. Dovrete pagare per la vostra infamia, per il furto, per avermi impedito di vivere la mia vita. Li vide, sorridenti della loro normalità, camminare pacifici. Il loro o strideva come ruote sull’asfalto sottoposte a una brusca decelerazione con l’animo nerobluastro di Ettore. Si sentiva usurpato e defraudato e non voleva arci sopra. Anzi. Voleva alimentare l’odio che gli sgorgava dallo stomaco, fiele amaro che transitava per il suo apparato digerente fino alla bocca impossibile da digerire. Se lo rimasticava, il bilioso Ettore, lo buttava giù e poi lo faceva tornare su per essere sicuro che avesse mantenuto tutte la sua ruvida organoletticità. Li vide rientrare felici nella loro tana calda. Uno strappo nel suo cervello sancì la consapevolezza di essere stato derubato. Moglie, figlio, amante, era tutto suo ma non ne poteva godere. Di nuovo un flusso amarognolo in bocca. Ettore sputò, senza ritegno, in strada. Rise pensando a ciò che avrebbe detto sua madre. Qualcuno cominciò a notare quella presenza ferma da più di un’ora nello stesso
punto. Piccoli vermi schifosi, vi accorgete di qualsiasi deviazione dalla vostra normalità. Avete più paura che anima. Si allontanò. Tornò a casa a preparare psicologicamente e tatticamente il compartimento stagno degli scacchi per l’indomani. Nel frattempo, avrebbe escogitato qualcosa per entrare. Alle 23 in punto Ettore, profumato e sbarbato, si presentò in Questura; raccontò allegro agli agenti della meravigliosa cena a base di prelibati frutti di mare e cavoletti di Bruxelles, il tutto annaffiato di bianco di Franciacorta, leggero e frizzantino. “Professore, non dovrebbe bere” l’agente lo rimproverò complice. Ettore raccontò i suoi piccoli lussi con un pizzico di cattiveria in più; voleva suscitare ammirazione, vedere la luce della stima e l’oscurità dell’invidia, voleva sentirsi grande e voleva che lo sentissero soprattutto loro, i piccoli, piccolissimi, onesti lavoratori normali. Non poteva dimostrar loro il suo disprezzo, non l'avrebbero presa bene. Lo avrebbero pestato – loro possono, sono la Polizia, hanno il potere in mano - e poi buttato in strada, a incolpare ignoti. Vi sentite padroni, vi sentite potenti. Siete solo piccoli burattini mossi dalle mani di qualcuno più potente di voi, a sua volta legato e mosso da un altro burattinaio, ancora più in alto. Rido della vostra boria, di come vi fate prendere in giro e di come sbavate per una vita di vero potere che non avrete mai. Ancora sorridendo benevolo per crearsi un alibi psicologico ai loro occhi, salutò cortesemente gli agenti e uscì. Tante voci ammiranti si unirono nei saluti al Professore; Ettore aveva un seguito incredibile tra i poliziotti, forse per i suoi successi con le donne, forse, sotto sotto, per una sorta di cameratismo maschile che ancora crede in una supremazia degli uomini sulle donne e che, spinti dalla testosteronica divisa, ormai messa a dura prova dalla discesa in campo di donne abbigliate con la medesima, sempre sotto sotto, avrebbe appoggiato imperituramente le prove di forza che Ettore aveva fatto subire alle sue molteplici donne. Una sorta di condivisione di intenti
per un genio del male che mai e poi mai, indossando quella testosteronica divisa, avrebbero estrinsecato. Il dovere e il rispetto delle leggi prima di tutto poi, nella vita privata, la coerenza può anche andare a farsi friggere. Oltreato il portone, con una smorfia di disgusto, aveva già ripreso la sua faccia indurita, gli occhi iniettati di sangue, l'umore nero-bluastro, livido e tempestoso. Badando a non essere seguito, si diresse con poche tortuosità alla meta. Non aveva ancora risolto l’enigma: come entrare? “Fede, sono Andromaca. Scusami se ti chiamo a quest’ora ma non resistevo. Sono sotto casa tua. Potresti scendere un attimo? Solo due chiacchiere così mi tranquillizzo.” Infilò una tuta al volo, controllò che il piccolo stesse dormendo della grossa, accese il walkie-talkie e scese in strada, sperando che funzionasse anche lì. Un pensiero la travolgeva: e se Ettore l’avesse seguita? Era un’imprudenza. Telefonò alla Polizia che confermò l’avvenuta firma all’ora concordata. Suppose che Ettore non avrebbe potuto vedere Andromaca uscire di casa e dirigersi verso di lei. Non avrebbe avuto il tempo. Si tranquillizzò. Dove cazzo va? Si chiese Ettore che, nascosto tra le ombre cittadine, aveva scorto Fede uscire dal portone. Guardò in direzione della corsa della sua ex moglie e vide Andromaca. Il portone, lentissimamente, si stava richiudendo. Guardò di nuovo le due figure. Il portone non aveva ancora ceduto al richiamo della molla. In un attimo si infilò nell’ultimo spiraglio prima della chiusura ad ogni sua
fortuita possibilità. Quelle due deficienti mi hanno lasciato campo libero. “Cosa è stato questo suono?” chiese Andromaca indicando il walkie-talkie. “Non saprei. Forse Pat si è svegliato e si è messo a giocare. Di solito, è tranquillo quando si sveglia. Va in bagno da solo. È indipendente” Fede sorrise al pensiero della sua grande gioia, nonostante i geni in condivisione. “Sta diventando grande” Andromaca partecipò della serenità di quel nucleo familiare che lei non avrebbe mai avuto. Il walkie-talkie emise ancora qualche rumore. Dopo qualche secondo, alcune voci. “Ha il televisore?” “Così sembrerebbe” Parlottarono ancora un po’ poi la stanchezza tuonò nella loro testa. “Torni a casa?” “Si. Quel che sarà, sarà” “Stai attenta e difenditi. Ricordati di esserne capace” disse Fede abbracciando solidale Andromaca Ognuna andò da parti opposte verso l’imminente futuro. Ognuna sapeva di andare incontro a qualcosa di certo. La vita, però, come negli scacchi, è piena di avversari e non sempre va come programmato. La scena che Federica si trovò di fronte, appena aperta la porta, infatti, le gelò il sangue. La paura la immobilizzò, le tolse il fiato e le forze. Sentì di essere sul punto di svenire. Ma non doveva. Doveva rimanere lucida, limitare i danni, proteggere il
suo piccolo, a costo della sua vita. Comprese di non aver capito niente. Capì che l’odio di Ettore non era per Andromaca ma era per lei, resuscitato dopo una lunga sepoltura ma mai cancellato e ora, eccolo, in tutta la sua violenza. “Ciao carissima, sto facendo amicizia con nostro figlio.” Il suono delle parole di Ettore era una lama su una lavagna. “Non sei contenta di vedermi?” Ettore si alzò – era a terra insieme a Pat entrambi circondati da lego – e si avvicinò alla donna con movimenti esasperantemente lenti. La abbracciò, fintamente affettuoso, sussurrandole nell’orecchio che qualsiasi mezzo di comunicazione con l’esterno era stato disattivato e che non doveva preoccuparsi da ora in poi, era in buone mani. Le sue. “Come sei entrato?” “Sarei stato un buon padre, se me ne avessi dato la possibilità. Ho scoperto di avere un grande ascendente sui bambini. L’ho convinto ad aprire la porta in pochi secondi e abbiamo iniziato a giocare insieme.” Ettore la stringeva e Fede era rigida come uno stoccafisso, impaurita e schifata da quel contatto molto poco desiderato. “Non fargli del male.” “Certo che no. In realtà,” disse Ettore staccandosi da lei in modo teatrale “avevo ben altre intenzioni.” Uno sguardo di cattiveria trafisse le convinzioni di vita pacifica di Federica. “Volevo toglierti ciò che tu hai negato a me per tutti questi anni.” Ettore attese la reazione di paura di Federica che, nonostante l’intenzione di mantenere lucidità e freddezza, fu scossa da terrore puro. “Poi l’ho visto e mi sono detto che lui non ha colpe. È la madre ad averne.” Altra pausa teatrale. “Quella sera, quando te ne sei andata, era vero che fossi incinta, giusto?”
Silenzio. “Rispondi o ti uccido davanti a lui” Sussurrò l’uomo senza tremori. “Si.” “E da quanto tempo lo sapevi?” “Dal giorno in cui mi hai picchiato” “Senza volerlo, potevo farti il grosso favore di farti abortire, invece, toh, ha resistito. Eccolo qui.” e indicò il bimbo “bello e forte. Come papà” Federica continuava a restare immobile senza perdere di vista i movimenti del suo ex marito. “Dimmi una cosa: lo chiama papà?” Silenzio. “Rispondi” Silenzio. “Non mi provocare. Rispondi” Ettore si era avvicinato minaccioso e aveva posto la sua grande mano sul sottile collo di Federica; delicatamente, per ora. Annuì impercettibilmente, abbassando gli occhi, quasi si vergognasse di ciò che aveva fatto. La rabbia stava per esplodere; la mano si strinse attorno al collo e lei iniziò a respirare a fatica. Guardò suo figlio, terrorizzata dal fatto che potesse percepire il pericolo, iniziare ad agitarsi, costringendo Ettore a zittirlo con violenza. Ma lui mollò la presa, controllando la sua rabbia. La sua bocca si stirò in un sorriso maligno; la mano si avviò a una carezza sul viso di Federica. Sentiva il suo respiro profondo, reso rumoroso da un rantolo polmonare, quasi che il ribollimento interiore di Ettore trovasse sfogo nell’aria che fuoriusciva dal
suo corpo. “Non fargli del male” “Sono suo padre, piccola. Non potrei mai” “Mamma, ho sonno” Si voltarono entrambi verso quella vocina. Federica si mosse verso di lui, lo prese amorevolmente in braccio e lo portò a dormire. Ettore la seguì; non si fidava e voleva controllare che non fe scherzi. Aveva imparato che le risorse di Fede erano maggiori di quel che si aspettasse. Quando atterrò sul letto, Pat era già crollato avvinto da un sonno improvviso, quanto sospetto. “Cosa gli hai dato?” “Niente di che.” Ettore era ironicamente vago. “Solo una dose massiccia di sonnifero” “Sei uno schifoso bastardo!” Federica gli si avventò poco furbescamente. Ettore le afferrò i polsi, bloccando qualunque velleità di movimento. “Cosa sono?” Federica si agitò ancora sotto l’effetto di un istinto di ribellione, inutile e controproducente. “Vuoi accelerare la tua dipartita?” con uno sberleffo, Ettore le espose in sintesi il programma delle future ore. Federica non reagì, non chiese, non provocò ulteriormente. Si immobilizzò di nuovo. “Pensi di calmarmi in questo modo? Povera illusa. Sono venuto qui con precise intenzioni. Mi conosci, sai quanto sono caparbio nell’ottenere ciò che voglio. Finché non sarò soddisfatto, non me ne andrò.” e la guardò intensamente “Abbiamo tutta la notte davanti” Ettore esplose in una risata satanica, isterica, drammaticamente comica nella sua ridondanza e nel suo eccesso.
Un’eco ne amplificò l’aspetto ridicolo. “Sei pazzo” “Questo non puoi dirlo. Hai fatto di tutto per metterti insieme a me, ti sei innamorata, hai voluto sposarmi, mi hai lasciato, mi hai nascosto mio figlio, mi hai tolto Andromaca” Pausa: il petto di Ettore andava su e giù velocemente, il costato premeva sulla pelle come volesse uscire e i polmoni lavoravano più del dovuto per regolare la circolazione aerea. “Mi hai tolto la mia vita. Ora non puoi dire che sono pazzo. Se lo sono, tu ne sei responsabile” Altra pausa: Ettore voleva veder crescere il terrore negli occhi di Federica. “E pagherai per questo” Federica era paralizzata e stoppava a stento i brividi di sudore freddo che le percorrevano i nervi. Ettore prese un ombrello. Lo faceva roteare, se lo ava di mano in mano, ci girava attorno. Federica comprese che i giochi stavano iniziando; inutile tentare una fuga. Si aspettava una randellata sulla nuca ma Ettore era già al terzo giro attorno a lei, sempre immobile nella medesima posizione, e non era ancora successo. Nessun colpo. Federica pensò di urlare per farsi sentire. “Forza, colpisci, bastardo, cosa aspetti?” Ettore, rapidamente, le mise una mano sulla bocca. “Piccola, se urli disturbi i vicini. Sssh. Buona” Incredibilmente, la baciò. Dapprima solo sulle labbra, poi spalancò la bocca e infilò con forza la lingua nella bocca di lei, stuprandola. Federica non rispose; non potendo ribellarsi – Ettore la cingeva con le sue lunghe braccia, impedendole qualunque movimento che comunque Federica non
aveva intenzione di compiere per non peggiorare la situazione – aveva optato per una difesa iva. Il prolungarsi di questo atteggiamento fece inferocire Ettore; si staccò dalla bocca, la guardò e ciò che vide fu solo pena. Partì il primo schiaffo che fece vacillare Federica, poi, con l’ombrello la colpì dietro le gambe, costringendola a cadere sulle ginocchia. Ancora nessun sussulto, nessun urlo. Ettore si aprì i pantaloni, intenzionato a sfruttare convenientemente la posizione di Federica, favorevole al suo piacere. Con rapidi e sapienti movimenti, costrinse Federica ad aprire e mantenere aperta la bocca, in modo che potesse muovercisi dentro liberamente. Le teneva i capelli tirati per regolare velocità e forza e trarne più piacere possibile. Lei tentò di morderlo ma due ceffoni ben assestati calmarono i tentativi di ribellione. Eppure, insistendo, sarebbe stato facile fargli perdere i sensi per un po’, giusto il tempo di correre fuori a chiedere aiuto, magari allungato da un calcione ben assestato su quelle parti maschili piuttosto sensibili agli urti. Le donne, però, figlie di donne, non sono abituate a esercitare la propria forza. Da bimbe tirano capelli, mica pugni. Altrimenti la mamma, a sua volta figlia di donna, le rimprovera. Non sta bene, non sta mica bene che una ragazza mostri i muscoli. Anche se li ha. Una femmina degna di questo nome non usa la forza, bensì l’astuzia, anche quando ha a che fare con la forza altrui. A volte, la scelta si rivela vincente. Altre situazioni, dove regna la brutalità che rifiuta qualsiasi tipo di ragionamento, percepito come tentativo di raggiro – a ragione: l’astuzia è questo – richiederebbero altrettanta violenza, altrettanta brutalità. Almeno per calmare, fermare, difendersi: poi si parla, mica ci si vendica. L’uso e l’esaltazione della violenza non è cosa di donne, naturalmente e socialmente orientate alla creazione e alla conservazione della vita. Ma, a volte, quando ci si imbatte in animali, nel momento in cui sta scattando la distruzione e l’oltraggio, non si dovrebbe aver paura di mostrare i muscoli di cui
anche le donne sono dotate. Nessuna vendetta, solo difesa. A volte, purtroppo, le parole non bastano, anzi, le parole sono controproducenti perché l’uomo non ha difese contro di esse e si rivolge alla violenza per zittire la donna e la coscienza. È proprio in quei momenti che il calcione suddetto – e solo quello: niente vendette – dovrebbe partire e ristabilire l’equilibrio, la parità, i diritti. Federica, forte spiritualmente come una roccia, era una donna e, in quanto tale, non sapeva come inviare la sua determinazione ai muscoli. Continuò a subire. Più subiva e più Ettore si infervorava, autoconvincendosi di donare piacere con la sottomissione forzata. Si sfogò dentro di lei che rischiò il soffocamento. Appena libera, Federica vomitò tutto il suo schifo e oltre e ciò fece scattare in Ettore una nuova furia. La prese per i capelli e la costrinse a leccare e rimangiarsi tutto ciò che aveva emesso. Lei cercò di ribellarsi e di divincolarsi dalla stretta. Ettore le fu sopra e lei, a pancia in giù, con la faccia addosso al suo vomito, non poté fare altro che obbedire. I conati si susseguivano e continuava a rigettare anche la propria anima. Questi sussulti le scuotevano il corpo. A Ettore sembrarono inviti sessuali. Tenendola ancora con la faccia schiacciata a terra, le strappò i vestiti di dosso e le montò sopra aprendole le gambe. Federica cercò il più possibile di resistere, contraendo gambe, glutei e il corpo tutto ma, ugualmente, si sentì infilare con dolore non sapeva più quante dita in tutti gli orifizi posizionati da quelle parti. Si sentì lacerare da dentro, cercò di urlare ma Ettore continuava a schiacciare la sua testa a terra, impedendole l’emissione di suoni. Svenne. Ettore ne approfittò per girarla e masturbarsi davanti a lei, giocando con il suo
corpo. La leccò, le infilò la punta dell’ombrello nella vagina, le dita, le strizzò i capezzoli fin quasi a tranciarli. Ebbe la sua soddisfazione dopo poco. Le legò i polsi e la portò sotto la doccia per pulirla dal suo vomito. L’acqua risvegliò Federica che si sentì accarezzare amorevolmente. Istintivamente, guardò l’orologio piazzato sul muro del bagno per le mattine lavorative in cui la fretta, se si poltrisce, la fa da padrona. Erano solo le due. Achille sarebbe tornato tra cinque ore. Un’eternità in cui lei avrebbe potuto morire, risorgere e di nuovo morire. Non era finita. I polsi le dolevano. I legacci erano stretti e laceravano la pelle. Intanto, Ettore la puliva con cura, massaggiandola e frizionandola con una spugna morbida. La asciugò, la massaggiò con unguenti e creme. Federica continuava a tremare dentro e non proferiva verbo. Mentre Fede, ammutolita, seguiva i suoi movimenti con gli occhi, cercando di anticipare eventuali capovolgimenti di intenti, Ettore si prodigava in parole gentili. La sollevò di peso e la stese sul divano. Sussurrandole parole rassicuranti, le legò le caviglie e si allontanò per controllare se il bambino ancora ronfasse nel suo lettone. Ettore girava per casa nudo, come se fosse la sua, a suo agio. La vergogna e l’inibizione erano due compartimenti chiusi per sempre. Federica, nel vederlo allontanarsi verso la stanza del piccolo Pat, ebbe un tuffo al cuore e pregò che lo lasciasse vivere, che si scagliasse solo contro di lei. Per ora le sue preghiere erano state esaudite. Cosa sarebbe successo a lavoro finito non lo avrebbe mai saputo.
Ettore la degnò di uno sguardo vacuo e si diresse in cucina. Fece scorta di cibo. “Vedi, piccola? Non ti sto facendo del male.” E la accarezzò in tutto il corpo suscitando ancora ribrezzo e paura. “Hai ancora uno splendido corpo. Ti sei mantenuta bene, nonostante la gravidanza. Girati, voglio vedere il tuo fantastico pancino da cui è uscito il bimbo.” Federica lo accontentò. Il suo sguardo si fissava sugli orologi sparsi per la casa: era ata solo un’altra ora. “Quel fantastico bambino, avremmo potuto crescerlo bene, io e te insieme. I miei ne sarebbero stati orgogliosi. Mio padre avrebbe approvato, finalmente avrei fatto qualcosa che avrebbe apprezzato. Ma me lo hai tolto” La mano stava trasformando il movimento da carezza a intensa pressione. Sotto quel peso, Federica sentiva i suoi organi schiacciarsi, il suo sterno sgretolarsi. Ettore continuava, come se volesse appiattire una stoffa gualcita. “Me lo hai tolto. Mi hai tolto la gioia di essere padre” “Non… te… non te ne fregava niente, al tempo” A stento, Federica parlò; non era riuscita a trattenersi. Ettore le prese il viso come in una morsa e le ossa scricchiolarono. “Non puoi parlare così. Eri mia moglie. Ero pronto a costruire una famiglia con te. Mi avevi convinto. Avevo scelto ciò che mi avevi proposto, avevo scelto te, avevo scelto noi. E tu? Cosa hai fatto tu? Te ne sei andata! Ecco cosa hai fatto” “Sei pazzo” La mano di Ettore strinse ancora di più le ossa del viso, sogghignando bestiale. “Mi hai massacrato, te lo ricordi, Ettore? È per questo che sono fuggita. Sapevo…sa…sapevo di aspettare un bambino” non riusciva più a respirare “non volevo farlo crescere con un sadico. Avevo paura che la tua violenza colpisse anche lui”
Ettore aveva spento la sua capacità di ascolto e rivolto la sua mente a immagini sanguinolente. Pensava solo ad Andromaca e voleva vendicarsi del furto subito, dell’ingerenza di quei due piccoli mostri invidiosi da schiacciare come vermi. Prese il peperoncino e se ne imbrattò le mani, ne soffiò via l’eccesso sugli occhi di Federica, che non poté neanche strofinarselo via perché aveva le mani legate, e iniziò a toccarla insistentemente, sempre più profondamente. Il dolore era lancinante. Per ore che sembrarono infinite, Ettore sottopose Federica a un’altalenante serie di torture, scemandone ad arte l’intensità in modo da illuderla che tutto fosse finito, curandone le parti più rovinate e poi colpendo su di esse. La stuprò selvaggiamente, picchiandola a calci e pugni. Finalmente Ettore, esausto, raggiunse la definitiva soddisfazione. L’opera era terminata e lasciava le tracce dello sterminio. Tracce di sangue, cibo, vomito, sperma spiaccicato sul muro, stracci e brandelli di vestiti imbrattati di umori e annodati al corpo di Federica. La guardò: giaceva senza vita a terra in una posizione goffa. Le ho spezzato il collo? Sicuramente qualche vertebra si. Se è ancora viva, erà il resto dei suoi giorni in carrozzella. Quel che si merita, bastarda maiala schifosa. Le sentì il polso muto. Andò dal piccolo Pat ancora dormiente. Per scrupolo – da dove veniva? – sentì il polso anche a lui. Avrò esagerato con la dose di sonnifero? Il respiro era udibile e profondo. Era vivo e tale lo lasciò. Alle 5 del mattino era ora di togliere le tende.
Nel più terrificante dei silenzi chiuse la porta, lasciandosi dietro il compartimento dedicato all’odio. L’aria frizzantina del mattino lo rallegrò: sentiva che avrebbe vinto, senza alcun problema e che per il giovane nipponico non ci sarebbe stato nulla da fare. Avrebbe massacrato anche lui. Si diresse in uno dei pochi bar aperti abbastanza lontano da chiunque fosse in grado di riconoscerlo. Ordinò un caffè: il sapore era orribile. Non protestò solo perché ormai il vulcano aveva eruttato e il condotto magmatico non aveva più nulla da sputacchiare. Nessuna rabbia in corpo. Il torneo avrebbe avuto inizio a mattina inoltrata perciò poteva riposare un po’, giusto qualche ora. Si mise orizzontale e chiuse gli occhi. La nausea gli salì dallo stomaco alla bocca immediatamente. Si tirò su a sedere, con le spalle poggiate sul muro. Chiuse gli occhi e provò a dormire in questa posizione. La situazione era migliorata ma il sonno, solo superficiale, gli donò immagini contorte, suoni abominevoli, luci accecanti. Si agitò nel letto, sudò, contrasse i muscoli come a difendersi da una botta in procinto di arrivargli addosso. La parte non cosciente della sua mente era in overflow e stava facendo tracimare la sporcizia verso il cosciente. I compartimenti stagni stavano per cedere di nuovo, compressi dalla spinta delle immagini orrorifiche che viaggiavano nel suo cervello da cui non poteva difendersi perché lui ne era il creatore ed erano reali: era il corpo maciullato di Federica, erano i suoi orifizi sventrati, la sua pelle lacerata, il suo viso gonfio, i suoi denti saltati. Per Ettore fu la prima volta, mai si era sentito così prima. Non ci badò quando suonò la sveglia, anzi se ne fregò con la volontà superficiale che lo aveva portato così avanti nella vita. Si ripulì per benino e si avviò, già trionfante, a conquistare la vetta del mondo.
Epilogo
Mi piacerebbe poter raccontare che Ettore fu omericamente ucciso da Achille ma ciò presupporrebbe che Ettore, prima avesse ucciso Patroclo, anzi Pat, e ciò non sarebbe bello. Mi piacerebbe raccontare che Ettore, almeno, fu arrestato dalla Polizia, avvisato da Achille che tornò dal turno in ospedale e trovò Federica ancora viva, le prestò le prime cure e poi corse a denunciare il carnefice ma ciò non sarebbe realistico, sarebbe solo ottimisticamente roseo. Mi piacerebbe anche raccontare che Andromaca fu l’artefice della fine di Ettore, piombando all’improvviso su di lui e immobilizzandolo con la stessa violenza che lui aveva tante volte usato contro di lei ma ciò presupporrebbe essere nel Far West. Oppure, mi piacerebbe narrare del gesto epico del piccolo Patroclo, anzi Pat, che risorgendo dal sonno profondo in cui il padre-carnefice lo aveva gettato, senza che se ne avvedesse, sferrò un colpo di forza inaudita sul suo capo tanto da fargli perdere i sensi e poi telefonò alla Polizia, ponendo fine alla storia ma ciò presupporrebbe che siamo in un film della Marvel e Pat un supereroe. Più semplicemente, mi piacerebbe raccontare di donne che si ribellano alla violenza, prima che questa arrivi ad essere fisica; mi piacerebbe ricordare alle donne che sono nate libere e non sottomesse e che quindi non devono dire grazie a nessuno di esistere o sentirsi di esistere solo ringraziando qualcuno, possibilmente un uomo, restando nella sua ombra; mi piacerebbe narrare di donne che non accettano compromessi, che non vendono il loro corpo, che non stirano le camicie perché qualcuno glielo chiede come atto d’amore, o magari di donne a cui sono stirate camicie in modo abituale, di donne che non fanno la lista della spesa affinché i propri uomini la facciano, perché se gli uomini sono project manager a maggior ragione sono in grado di controllare, con una check list che solitamente, per motivi professionali, amano molto, se in casa manca il detersivo per i capi bianchi o il parmigiano per la pasta. Mi piacerebbe narrare di queste donne e essere compresa dalle donne.
Perché spetta alle donne il compito di educare i figli, di responsabilizzarli equamente, senza vizi di forma ab ovo. Sono piccoli e lenti i i che conducono ad una cancellazione di parole vuote, inventate dagli uomini, come “parità dei diritti” o “quote rosa”. La vera civiltà non è concedere a qualcuno di avere gli stessi diritti ma non metterlo neanche in discussione.
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