Fegato E Cuore 3z4g2m

proprietà letteraria riservata © 2012 BookSalad ISBN 9788890655036

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Booktrailer

Edizione digitale a cura di Ada Ascari www.ada.ascari.name

Alessandro Marchi è nato nel 1979 a Bologna. Prima ancora di laurearsi in Storia Contemporanea comincia a collaborare con varie testate giornalistiche. Dopo anni di collaborazioni, si dedica al campo della comunicazione e delle pubbliche relazioni. Nel 2009 ha pubblicato un romanzo, Parada Ópera. Grazie a qualche racconto s’è tolto delle soddisfazioni. Scrivere lo fa stare bene, anche solo la lista della spesa. Un ottimo motivo per insistere, no? Qualcosa su di lui si trova sul sito www.alessandromarchi.eu

ALESSANDRO MARCHI

FEGATO E CUORE

CAPITOLO I

Lo squarcio nel torace era solcato da una lunga cicatrice verticale. In quel petto batteva il cuore di un estraneo. Ogni mattina Steve Campbell si svegliava con la sensazione di avere qualcosa altro da sé intrappolato fra costole e polmoni. Nel silenzio della sua stanza il battito di quel cuore poteva diventare insopportabile. Odiava quell’organo non suo, ma a volte riusciva a ringraziare chi gli aveva dato una seconda opportunità. L’operazione aveva ribaltato la sua vita. Oggi, l’unica cosa che vorrebbe fare è gestire un negozietto aperto 24 ore al giorno che non inaugura mai. Ieri invece Steve Campbell era un giocatore di calcio professionistico, alle soglie dell’Olimpo del pallone. Racconta di essere sceso in campo in alcune partite di Premier League col West Ham, prima che la sua malformazione congenita venisse individuata e lo costringesse a fermarsi. Personalmente ho i miei forti dubbi che Campbell sia il suo vero cognome: cercando sul web non ne ho trovato traccia. Forse Steve non ha nemmeno mai toccato un pallone in un campo di Premier. Comunque sia, Steve non ha un cuore. O, per essere precisi, ne ha due, per cui l’espressione sopra è vera solo metaforicamente. Ne ha uno nuovo di zecca che gli tormenta il petto, e un altro vecchio e fuori uso che fa bella mostra di sé nel salotto di casa. Un pulp-souvenir sotto formalina al quale non vuole assolutamente rinunciare.

Una volta ripresosi dall’operazione dovette reinventarsi una vita. Ancora oggi si chiede se sparirono prima le ragazzine che gli avevano giurato amore eterno o la sequela di “amici” che si erano accodati lungo il suo “cammino trionfale”. Era solo, come nemmeno un portiere davanti ad un rigorista. Saper dare i calci ad un pallone non lo avrebbe più aiutato. Conservava da parte qualche soldo – un’eredità, mi sembra di aver capito – ma non abbastanza per vivere di rendita. Neanche per sogno. La maggior parte di quei soldi se l’era bevuti in pochi mesi. Una sera, rincasando mezzo ubriaco, una voglia irrefrenabile di arachidi tostate e salate lo colse. Ma il desiderio di assaporarle lasciò posto alla frustrazione di non poterle trovare alle due del mattino nella più buia periferia londinese.

Impossibile? Miracolosamente no. Gli fu sufficiente meno della metà di tutto ciò che possedeva, cioè più o meno due sterline, per comprare un pacchetto di noccioline in un sudicio negozietto, dove un pakistano dalla faccia stropicciata stava sfogliando una rivista con troppe tette per la sua religione. Con avidità affondò le dita nella busta insozzandole di sale e unto. Portò ingorde manciate di arachidi alla bocca, masticando e spezzando i semi con foga. Scolò anche il fondo della pinta che aveva strappato al pub in un bicchiere di plastica e ruttò compiaciuto. Asciugatosi con la manica della giacca, si guardò attorno quasi si fosse ridestato in quel momento. Con lo sguardo annebbiato e lo stomaco in subbuglio vide nei paraggi quattro negozi aperti a quell’ora. Tutti riforniti di ogni porcheria potesse soddisfare voglie simili alla sua. Tutti gestiti da pakistani, almeno a prima vista. Ecco. Fu lì, mentre la lingua andava a staccare un pezzo di nocciolina da un molare, che gli venne l’idea. Avrebbe aperto un negozio suo. Padrone di se stesso. Qualche birra, due patatine da sgranocchiare e le imperdibili riviste porno-soft, e il gioco è fatto. Se lo potevano fare loro, perché non lui? D’altronde, fino a quel momento, di tutti i capi che aveva avuto nelle decine di inutili lavori tentati, nemmeno uno aveva saputo apprezzare la sua capacità di ingurgitare quattro pinte di ale a pranzo, e tornare quasi in orario e quasi sobrio al lavoro. Ridicolo, no? Del perché non avrebbe potuto farlo anche lui se ne rese conto quando ancora non aveva aperto il negozio, durante i lavori per l’inaugurazione. Era strafatto, con le occhiaie gonfie e nere, impalato sulla soglia della sua bottega. Distrutto. Non aveva il fisico. Come avrebbe potuto affrontare venti ore al giorno senza dormire? La mancanza di sonno lo rendeva uno zombie, e anche piuttosto irritabile. Come diavolo facevano a resistere i suoi futuri concorrenti? Osservandoli bene si rese conto che anche loro avevano le occhiaie. Solo, sulla pelle scura si notavano di meno. Magra consolazione. E poi, loro almeno continuavano imperterriti a sorridere. Steve invece era inebetito dalla mancanza di riposo e preoccupato dalle continue spese. Concluse la sua superficiale indagine sui rivali del Pakistan stabilendo che dovessero avere dei sosia. Arciconvinto, senza modestia, di non poterne avere a sua volta, capì di avere bisogno di un aiuto. Ed è qui che nella storia entro io.

CAPITOLO II

Mi chiamo Vincenzo Caligiuri e sono un mangiaspaghetti. Comiciarono a chiamarmi così appena arrivato, e m’ero quasi convinto che fosse normale. Non è neanche tanto male, visto che i nomignoli peggiori hanno sempre a che fare con l’essere dei voltagabbana, dei cagasotto, delle checche o dei mafiosi. Inutile dire che sono tutti epiteti fondati sulla pura verità. Non è forse vero che abbiamo cambiato sponda sia nella Prima che nella Seconda Guerra Mondiale? Sì, cazzo. Siamo dei voltagabbana. Non è forse vero che l’italiano d’esportazione ha i capelli sempre usciti dal parrucchiere, veste con abiti aderenti, si depila le sopracciglia e si lamenta del freddo? Sì! Offendiamo lo stereotipo dei gay. Ma qui si parla di Steve Campbell, e di cosa io c’entri con lui.

* * *

C’entro, purtroppo, anche se nessuna persona sana di mente vorrebbe. Ma quando atterrai in Inghilterra ero uno sbarbatello di poco più di vent’anni illuso di essere giunto nel Bengodi. Arrivai a London Stansted ad un orario assurdo con un volo super-low-cost da un aeroporto italiano di provincia. Ma dovevo risparmiare, e mi stava bene così. Avevo un mese di tempo per combinare qualcosa, per cui non c’era fretta. Trascinai il mio sacco monospalla, adeguatamente insozzato dal grasso della stiva dell’aereo, fino al bus fuori dal terminal. Rimasi allucinato quando mi chiesero tanti soldi quanti ne avevo pagati per il volo per prendere un bus che mi portasse in città. Con le mie due parole di inglese non riuscii a fargli capire che erano pazzi, e girare forte un dito puntato sulla tempia non facilitò la conversazione con il bigliettaio. Sprofondato in un seggiolino della National, ebbi tutto il tempo di fare ciò che la gran voglia di partire non mi aveva permesso di pensare prima. Cose pratiche, tipo: cosa sono venuto a fare? Dove dormirò? Come mi guadagnerò da vivere se tutto costasse caro come l’autobus?

Scesi una volta arrivato in città. In realtà ero in periferia. Scoprii solo più tardi che la city era almeno altre quindici miglia più in là. Ma io che ne potevo sapere? Erano iniziate le case da mezz’ora, quanto ancora poteva essere grande Londra? (L’ho già detto che ero stupido, no?) Solo qualche giorno dopo mi resi conto di essere sceso a parecchi chilometri dal centro. Era la prima volta che mettevo il naso fuori dall’Italia, se si escludono un paio di villaggi turistici a Sharm El-Sheik e Ibiza con gli amici delle superiori. In quel momento, e solo dopo un paio di giri completi su me stesso in cerca di un punto di riferimento, capii che lì non sarebbe stato sufficiente saper dire gracias o shukran dopo aver ordinato un drink. Mi resi conto solo più tardi di come in quei primi giorni costituissi il prototipo della succulenta preda per qualunque tipo di malintenzionato. Avrebbero potuto rapinarmi, violentarmi, picchiarmi o schiavizzarmi. Ma avrebbe anche potuto andarmi peggio.

CAPITOLO III

In Inghilterra nemmeno i campetti di allenamento delle squadre giovanili di calcio sono spelacchiati. Il Football è una religioIn Inghilterra nemmeno i campetti di allenamento delle squadre giovanili di calcio sono spelacchiati. Il Football è una religione. E l’erba è la chiesa dove la si pratica. Racconta Steve che un giorno di febbraio di non so quanti anni fa, mentre lasciava il prato a fine sessione per entrare in doccia, venne fermato da un uomo distinto, con una spilletta con i martelli incrociati sul bavero del cappotto. «Quanti anni hai, ragazzo?» «Diciassette.» (Il numero degli anni nel racconto di Steve varia a seconda del numero delle pinte bevute. Una volta erano stati appena quattordici, figurarsi.) «Ti piace giocare a calcio?» «Certo, sennò cosa starei qui a fare?» (La diplomazia non era il suo forte.) «Ok, certo. E ti piacerebbe essere pagato per farlo?» «Sì, ma col Tottenham non giocherò mai.» Non era un ragazzo sveglio, e l’uomo distinto lo guardò perplesso. Soprassedette: ad un giocatore non serve troppo la testa se è bravo coi piedi... «Bene ragazzo, molto bene. Vedi questo pin qui?» - fece, sollevando la spilletta con gli hammers[1] ben in vista. «Sì.» «Sai cosa rappresentano?» «Cazzo, certo. Quello è il West Ham!» - Rispose piccato il giovane Campbell, quasi offeso che lo si ritenesse così tonto.

«Bravo ragazzo, bravo. Io lavoro per il West Ham[2]. La squadra di Premier. E mi piacerebbe che tu giocassi con noi. Ti va?» Quale ragazzino non ha sognato e ri-sognato questo momento? Il momento in cui c’è la possibilità di diventare un professionista, e nella propria squadra del cuore! Ogni giovane calciatore ha già in mente la risposta da dare, e forse ha anche studiato davanti allo specchio la faccia giusta da fare. Ma il giovane Steve Campbell no. Lui si limitò a dire: «Quanto mi pagate?»

* * *

Miracolosamente l’accordo si fece lo stesso. A imporre i propri consigli a Steve ci pensò il padre Ascot, che aveva un’idea tutta sua di lavoro: si accordarono per pochi spiccioli, perché il vecchio Ascot riteneva che “non fosse morale” guadagnare soldi per giocare. Quello non era “lavorare”, a sentir lui. Il contratto era per una sola stagione, per cui al compimento della maggiore età Steve confidava di poter negoziare un ingaggio da professionista senza l’ingombrante presenza del padre. In cambio al ragazzo sarebbero stati pagati gli studi dal club, l’abbonamento al bus e tutto il materiale scolastico. Campbell doveva essere un calciatore veramente promettente se una squadra di tale tradizione lo aveva scelto. Ed effettivamente a volte scese in campo in Lega e in Coppa. Centrocampista muscolare, dedito all’interdizione, non colpì certo le fantasie dei tifosi di Upton Park[3], più orientati verso giocatori di classe. Giocò però piuttosto bene nel suo stile rude e guadagnò gli attestati di stima dello staff tecnico e di qualche osservatore di altre squadre. Era pronto, diciottenne e promettente, a firmare un contratto pesante. Ma oggi sfido a trovare qualcuno che si ricordi di lui. Probabilmente solo i barman dei pub vicini allo stadio. Era solito scolarsi un paio di birre prima di ogni allenamento, e un numero imprecisato dopo. I compagni lo tolleravano solamente perché era un ragazzino. I dirigenti invece avevano una soglia di sopportazione molto più bassa.

Al momento di ridiscutere gli accordi economici il padre di Steve si presentò con una richiesta esorbitante (ma non diceva che giocare “non era lavorare”?), forte di una proposta dalla First Division[4]. I dirigenti scelsero di prendere tempo, e sfruttarono la ione del ragazzo per l’alcool come pretesto per sottoporlo ad esami medici più approfonditi. Uscì la malformazione congenita al cuore, e addio carriera.

* * *

Steve si ritrovò a are da una squadra all’altra nelle leghe minori, falsificando certificati medici, arricchendo le ditte farmaceutiche produttrici di cachet postsbronza, litigando e venendo alle mani con compagni e allenatori. Riuscì a trascinarsi nell’anonimato fino ai trentadue anni, quando la sua pancia gonfia e il suo fiato corto gli consigliarono di lasciar perdere il calcio giocato. In realtà credo di aver capito che non ci fossero proprio più squadre disposte a sopportarlo. Si riciclò giocatore di freccette da pub, e non smise mai di andare in tribuna Sud al vecchio “Boleyn Ground”, come lo chiama ancora Steve. Poi trovò sulla sua strada uno come me, e non gli parve vero.

1 Hammers: Significa “martelli”, e sono il simbolo del West Ham United. Perché Steve avesse pensato al Tottenham, non è chiaro. 2 Squadra dell’East End londinese, nota per avere un settore giovanile di altissima qualità, “L’accademia del calcio”. 3 Il Boleyn Ground, lo stadio di casa del West Ham, si trova in Upton Park e i due nomi sono usati indifferentemente. 4 La First Division è l’equivalente della Serie B italiana, ora si chiama “Championship.”

CAPITOLO IV

Prendevo una pallina di carne e dio-sa-cosa macinata, la schiacciavo sulla piastra, la giravo e la spostavo sul panino. Riprendevo un’altra pallina di poltiglia cruda, la schiacciavo, la giravo, e la spostavo sul panino – dove ad attenderla c’era una salsina maleodorante e una fettina di cheddar arancione. Solo questo. Mai tritato la carne, mai lavata l’insalata (ammesso che si dovesse lavare quella specie di plastica), mai visto un panino finito. Così da quattro mesi. Londra è figa, fighissima per carità, ma per starci devi avere un bel po’ di sterline in tasca. Sennò fa schifo come tutte le città viste con gli occhi di uno straccione. Prendere, schiacciare, girare e spostare; prendere, schiacciare, girare e spostare. Era una catena di montaggio, ma dovevo ringraziare di aver trovato quel lavoro, altrimenti in capo a due settimane sarei stato costretto a rientrare in Italia. Soldi da parte non ne conservavo. Avevo cambiato più mestieri che magliette, ma l’unico in cui sentivo di potercela fare era dare lezioni di italiano private. Durata: una settimana, il tempo di scoprire che il mio inglese era così orribile da non farmi capire dall’alunno. Prima avevo tentato di tutto: infilato pubblicità nelle buchette, lavato cessi nel palazzone di una multinazionale, consegnato pacchetti per un corriere privato, tinteggiato steccati in periferia per due mele tipo Tom Sawyer e altre amenità. Ormai dopo tre anni dall’arrivo a Londra, il “Prendere, schiacciare, girare e spostare” mi veniva bene. Avevo anche trovato alcuni amici e gli ultimi due Natali li avevo trascorsi con i colleghi al pub, dopo il lavoro (sapeste quanta gente mangia hamburger il giorno di Natale). Tornavo da mamma e papà una volta all’anno, fra un impiego e l’altro, a chiedere qualche soldo. Non ne ricevevo molti, ma in cambio venivo caricato di provviste per un mese (soprattutto conserve della mamma, salami e cipolle di Giarratana) accompagnate da suppliche invocanti un mio definitivo rientro in Italia. Avessi saputo di avere nel mio destino Steve Campbell, forse sarei rimasto.

* * *

Steve entrò nella mia vita il primo giorno in cui al fast-food mi assegnarono il turno di chiusura. A quell’ora i pub hanno quasi tutte le saracinesche a mezz’aria, e non è raro che qualche ubriacone capiti nelle catene di hamburger per supplicare un’ultima birra. Succedeva anche da noi che però, per legge, non potevamo servire alcol dopo l’orario di cena. Il nostro capo era ligio al dovere e ci aveva subito chiarito che “preferiva perdere un cliente piuttosto che dar da bere ad un ubriaco”, rischiando di provocargli dei danni. Era chiaro che intendesse: “piuttosto che dover chiudere il locale”. Comunque Steve (che non sapevo ancora chiamarsi così) entrò proprio quella sera, mentre fuori non pioveva. Avevamo già ribaltato le sedie sui tavoli, e un collega stava pulendo. Steve si guardò attorno come se fosse entrato nella Cappella Sistina, sollevando la testa all’indietro e avanzando piano, di sghimbescio. Arrivato al bancone, dove stavo riando mentalmente la risposta alla richiesta che sapevo mi avrebbe fatto, prese il menù, e si ò la lingua in bocca rumorosamente, quasi assaporando in anticipo il panino che avrebbe fagocitato. Ci pensò ancora un po’ con un’espressione concentrata. Io rimasi in silenzio, mentre scambiavo un’occhiata di intesa con un collega, Craig, che stava ando lo straccio sghignazzando silenziosamente. Steve cacciò poi una mano in tasca, estrasse un paio di monete e disse: «Si, credo che prenderò una birra. Una pinta, grazie.» «Perfetto. Uno e ottanta, signore. Le serve altro?» «A posto così, grazie.» Incassai il denaro, e andai a spillare la pinta. Quella commedia meritava una ricompensa. Craig arricciò il naso disapprovando il mio comportamento. Vidi socchiudersi la porta di ingresso mentre versavo, e un amico di Steve infilare dentro la testa. «Bastardo fortunato» - mi parve di sentirlo mormorare.

Con in mano la sua pinta in un bicchiere di plastica, Steve uscì, non senza avermi lanciato uno sguardo di profonda gratitudine. Non fece in tempo ad uscire che il suo amico entrò, e si diresse a i spediti verso di me, tendendo la mano piena di monetine e ordinando una birra già a metà salone. «Mi dispiace signore, ma dalle ore venti non serviamo più alcolici. Sono spiacente.» Ecco cosa avrei dovuto rispondere anche a Steve, e che invece dissi solo al vecchio Lucas (che non sapevo ancora chiamarsi così). «Ma come?!? Il mio amico là è appena uscito con una pinta!» - Rantolò esterrefatto, sgranando gli occhi. Lui non aveva fatto NIENTE per guadagnarsi la birra. Aveva l’aspetto dell’ingordo che non avrebbe goduto della sua pinta, ma solo della soddisfazione di essersela procurata. Decisi che non la meritasse, e rimasi fermo nella mia posizione. Lucas dovette uscire a mani vuote, e sono certo che fu proprio nel momento in cui si ripresentò a secco all’amico che Steve mi inserì, ahimè, nella lista dei suoi preferiti.

* * *

Dopo quell’episodio la presenza di Steve diventò costante. Almeno, ogni qual volta si trovava in zona Cheapside. Gli versavo birra clandestina nei bicchieri della Pepsi, ma lui non se ne aveva a male. Anzi. Sembrava anche aver capito che non avrei tollerato che lui desse per scontato questo mio favore. Esigevo che se lo guadagnasse birra dopo birra. Così ogni volta quel-che-restava-di-Steve doveva recuperare una stilla di lucidità e improvvisarsi attore. Una sera arrivò a braccetto di una signora più vecchia di lui di almeno vent’anni, e con un bel po’ di strada alle spalle. Si arrestarono davanti al menù. Le illustrò alcuni panini come fossero esclusive creazioni di gourmet note a lui solo per poi concludere: «Scegli quello che vuoi cara, io prenderò solo una pinta. Sono un po’ pieno» - e

si massaggiò lo stomaco come dopo un lauto pasto. Chapeau. Versai una bella pinta ad entrambi ed incassai i soldi. Ma loro restarono immobili un attimo, guardando fisso alle mie spalle. Poi presero le birre frettolosamente, e si avviarono alla porta. Li seguii con lo sguardo, perplesso. «Mister Caligiuri» - la voce alle mie spalle mi fece correre un brivido lungo la schiena - «posso parlarle un attimo?» Conoscevo bene quella voce, era quella del capo. Da dove cavolo era spuntato, a quell’ora? Quel “Mister Caligiuri” anziché “Vinnie” come faceva di solito, non prometteva nulla di buono. Mi fece una lavata di testa di un quarto d’ora. Un tempo abnorme, nei ritmi frenetici della catena della ristorazione. Per questo non la presi neanche male. Nelle sue parole scorsi il desiderio di insegnarmi qualcosa. Era un vecchio manager, non un cinese rampante come gli altri, e quella sorta di insperato calore nelle sue parole mi ricordò, dopo tanto tempo lontano dai miei genitori, le prediche di mio padre. Ne fui quasi contento. Meno contento ero invece dei due giorni di sospensione non retribuiti che mi beccai con effetto immediato, dietro promessa di non trasgredire mai più la regola. Mi scusai, tolsi il camice e uscii dalla porta sul retro. In strada vidi l’amica di Steve impegnata a massaggiarlo con la mano più o meno a metà strada fra testa e piedi, e pensai di tirare dritto. Ma lui alzò lo sguardo e mi chiamò con un «Hey, amico, grazie!» - Che rafforzò sollevando al cielo il bicchiere ormai vuoto. Feci un gesto a tagliare l’aria con la mano e buttai lì: «It’s over. È finita.» Solo a quelle parole Steve ritenne opportuno chiedere un time out alla sua occasionale compagna e presentarsi. «Steve Campbell. Che è successo ragazzo?» «Vincenzo Caligiuri. Non avrei dovuto servire birra in bicchieri della Pepsi, ecco

cos’è successo.» Alla signora, per motivi igienici, preferii non stringere la mano, limitandomi ad un cenno della testa. «Problemi?» - Chiese lui, come se potesse risolverli con una telefonata. «Due giorni senza paga. Non è un dramma.» «Senti amico, tu sei in gamba. Ti ho visto. Forse ho qualcosa per te. Dove posso trovarti, a parte qui?» Per lui ero in gamba perché gli avevo dato alcool ad un’ora proibita. Ecco tutto, non sapeva altro di me. Cosa poteva voler dire con “forse ho qualcosa per te”? E poi, che diavolo... Stavo dando ascolto ad un alcolizzato intento a farsi masturbare in un vicolo da una vecchia baldracca in cambio di una birra! Dovevo essere impazzito. O disperato. «Mi trovi qui» - dissi con rassegnazione - «È il posto dove o la maggior parte del tempo.» «Ok.» Tirò fuori uno scontrino, sul retro del quale voleva appuntare qualcosa. Chiese una penna alla signora che mostrava segni di impazienza. Oltre ad un mezzo capezzolo. Lei frugò nella borsa e assieme alla penna estrasse un rossetto col quale si ridisegnò le labbra, non senza sbordare di un buon mezzo centimetro in ogni direzione. «Ecco qua ragazzo. Chiamami la prossima settimana.» Mi allungò lo scontrino sul quale aveva scarabocchiato a tratti incerti nome e cognome, oltre ad un numero di telefono. «Per cosa ti chiamo?» - Gli chiesi senza troppo badare alla cortesia. «Forse ho un lavoro per te. Un lavoro VERO. Devo sistemare i dettagli. Dammi una settimana.» «Ok. Una settimana» - buttai lì senza nessuna convinzione.

Feci per allontanarmi, ma Steve chiese ancora: «Da dove vieni?» «West Ham.» «No, intendo, dove cazzo sei nato con quel cognome e con quell’accento?» «Italia.» «Ah, Italia!» - Si aprì in un sorriso - «Siete bravi con gli affari, voi, eh?» Ammiccò facendomi l’occhiolino. Sospettai che stesse confondendo i luoghi comuni sugli italiani con quelli sugli ebrei, ma non volli contraddirlo. «Certo» - replicai imbarazzato - «E abbiamo il naso grande.» Nel dirlo mi ai il dito sul naso ma lui non colse l’ironia. Si limitò a sbellicarsi (che avesse colto la battuta?), con l’amica avvinghiata al braccio che sembrava invece non aver capito nulla del discorso. Li salutai e mi avviai a casa, accartocciando lo scontrino in tasca.

Il mio naso non è poi così grande, anzi, ha un bel profilo quasi greco. Quasi.

CAPITOLO V

I due giorni di stacco forzato li ai a letto (da solo) per recuperare energie e naturalmente mi scordai dello scontrino col numero di Steve Campbell. Ripensandoci oggi, credo si fosse trattato di un’inconscia forma di autodifesa. Al rientro mi ritrovai davanti una tabella di turni che non lasciava spazio a dubbi: quattro settimane consecutive di apertura. La punizione dunque non era finita. Il turno del mattino significava sveglia alle cinque e mezza e arrivo al bancone con le cispe negli occhi. Per non parlare della puzza di fritto ad irritare le narici ed impregnare i capelli già dalle sette. Mi sarei messo a cercare un nuovo lavoro, ma per il momento tentai solo di vedere il lato positivo. Avrei riscoperto la città di pomeriggio e magari sarei riuscito a vedere la fuggevole primavera inglese: l’ultima volta che c’era stata ero in bagno e me l’ero persa. Anche il mio amico Craig Bellamy era di turno al mattino in quei giorni. Il fatto che si chiamasse esattamente come un giocatore del West Ham lo impose subito all’attenzione generale, e mostrò in seguito di non demeritare la mia personale: scansafatiche al punto giusto, riusciva a mescolare la ione per il calcio a quella per la letteratura, sapendo cavarsela egregiamente in ogni ambiente. Era un compagno buono per tutte le stagioni, dall’appuntamento serale a quattro alla rissa occasionale – grazie alla sua stazza. All’uscita dal fast-food eravamo soliti trafugare un paio di panini “speciali” che Emma, un donnone di colore che ci aveva accolto come figli, ci preparava tentando di evitare gli ingredienti più nocivi fra quelli a disposizione. Con i nostri bravi sacchettini uscivamo nella pioggia (pioveva sempre verso le due) e ci dirigevamo a fare quattro i, a volte giù verso Blackfriars, a volte preferendo prendere la metro e scoprire qualcosa in più del nostro quartiere, West Ham. Infilarsi in quel budello che è la metropolitana londinese è sempre un’esperienza straniante per un ragazzo che viene da un paesino con una sola linea di autobus. È chiarissimo come i tunnel furono scavati quasi centocinquant’anni fa: sono stretti, bassi, tortuosi. I convogli sono stati costruiti di conseguenza, e non serve essere dei giganti per venire costretti dal tetto del treno a stare gobbi tutto il viaggio. Là sotto la gente cambia completamente, aumentando l’aggressività che alla luce del sole (o sotto la pioggia, più spesso)

non appare. Tutti hanno fretta, tutti spingono e chiedono strada, tutti corrono e nessuno parla. A me non piaceva la metro, perché mi sentivo in trappola: preferivo, se era possibile, prendere il bus e andarmi a sedere al piano di sopra, in prima fila, perché mi sembrava di volare. Comunque sia, scendevamo a Stratford, o a Plaistow - a seconda della linea sulla quale eravamo saliti e della voglia di camminare. Non avevamo granché da fare, dopo il lavoro. Craig ogni tanto voleva cercare un libro, anche se poi spesso lo lasciava sullo scaffale, dicendo “ne devo finire un altro”. Ho sempre amato eggiare senza meta. Rimpiangevo di non aver avuto abbastanza tempo per farlo, prima, troppo assorto nel cercare un lavoro per pagare l’affitto. A proposito di affitto, fu proprio in quei giorni che prendemmo la decisione di cercarci una casa per conto nostro, o comunque in una situazione migliore rispetto all’attuale. Craig viveva nella stanza che una vecchia affittava al piano superiore della sua villetta a schiera. Puzzava tremendamente di cavolo. La signora, non la casa. Quella puzzava di chiuso, di muffa e deodoranti spray, di scarpe e naftalina. Ero andato solo una volta da lui, e ne avevo ricavato una sensazione di oppressione, una chiusura soffocante. La vecchia mi disse: «Sei italiano, eh, Garibaldi? Vedi di non rubare niente qui!» Che simpatica. Ma l’aria viziata, Cristo santo. Quella mi diede ancor più fastidio della calorosa accoglienza della cariatide mangia-pudding. E io? In casa mia l’aria era fresca o meglio, gelida. Non credo che il riscaldamento avesse mai funzionato per tutto l’inverno. C’ero andato ad abitare nel settembre precedente, attirato dall’idea di avere un letto vero in una stanza tutta per me... in una casa vera. Fino a quel momento, per anni, m’ero barcamenato fra divani di amici, pavimenti di ex-amici (chi mi aveva offerto un freddo pavimento era stato depennato dalla lista dei buoni), letti di compagnie occasionali e stanze in affitto da anziane puzzolenti di rognoni, pesce fritto o polpette. Insomma, era giunto il momento di concedersi una residenza davvero all’altezza, con il riscaldamento e tutto il resto. Immancabilmente, Craig ed io ci trovavamo a vagare col naso all’insù, in cerca di cartelli che dicessero “affittasi”, tentando di ingannare il tempo in attesa di arrivare al Trowel & Telegraph o al Black Lion, pub dove avremmo incontrato il nostro gruppetto di amici.

* * *

Eravamo proprio al nostro solito tavolo di fianco alla vetrata del Black Lion tutti, tranne me, con una pinta davanti. Ero astemio. Ciò aveva reso estremamente complicato farmi accettare all’interno di qualsivoglia gruppo o comunità su suolo britannico, ma purtroppo la mia non era una scelta, bensì la conseguenza di una malattia al fegato che non tralasciava di crearmi a volte qualche problema più serio. Stavo dunque sorseggiando un tè con davanti un giornale di annunci immobiliari. Craig aveva in mano un evidenziatore, e il solo fatto di cerchiare gli annunci più interessanti sembrava lo fe avvicinare sempre più alla nuova casa. Faceva un bell’ovale giallo fluorescente attorno alla descrizione dell’appartamento. Poi richiudeva il cappuccio e inclinava la testa per guardare la perfezione del suo tratto, soddisfatto come davanti ad un’opera d’arte. Infine mi sorrideva, dicendo: «Ok, vediamo se c’è altro, Vinnie.» Al nostro tavolo era seduto Mark Ali, con gli auricolari del suo iPod costantemente impegnati a sparagli bassi nelle orecchie. Ci guardava con aria di sufficienza, scuotendo la testa ad ogni nuovo cerchio di evidenziatore. Il suo giubbotto lucido stonava particolarmente là dentro, così come i suoi orecchini di brillanti e la cuffia bianca griffata sempre calcata sugli occhi. Ma forse non aveva tutti i torti a scuotere la testa: Craig stava infatti continuando a cerchiare gli annunci più simili alla casa dei suoi sogni, che ad un alloggio in linea con le nostre possibilità economiche. Dall’altra parte del tavolo c’erano Ferdinand e Joshua, eternamente impegnati nel ruolo immaginario di vice-allenatori del West Ham United. Cercare un posto decente nel quartiere sembrava una chimera. Le nostre magre entrate ci consentivano di affittare qualcosa solo nelle zone più malfamate (ANCORA più malfamate dell’East End, intendo) ma nulla in quella che ormai ritenevamo la “nostra” città. Mi staccai dal giornale per stiracchiarmi le ossa, mentre Craig abbassava lo sguardo quasi fosse colpa sua, quell’assenza di possibilità. «Dobbiamo trovarci un nuovo lavoro» - dissi.

«Perché?» - Replicò Craig, mostrando una mancanza di ambizione che mi irritò molto. «Per avere più soldi, e quindi una casa più grande.» «E come lo troviamo un altro posto? Lo sai che è difficile...» «Così, col giornale. Come con le case.» «Ok» - concluse Craig, non troppo convinto. Confermai con un cenno della testa, poi cominciai a stiracchiarmi. Mi girai sul divanetto, e fuori dalla finestra qualcosa attirò la mia attenzione. Non capii bene, ma mi sembrò di aver riconosciuto qualcuno. Poi vidi la porta del pub aprirsi. «Vincenzo! Dove ti eri cacciato, canaglia!?» Non riuscii a rispondere. Il mio cervello stava ancora cercando un punto di contatto fra l’uomo che avevo davanti e la vita che avevo vissuto fin lì. Mentre gli altri quattro seduti al tavolo mi fissavano, realizzai. «Steve...? Ho... Ho lavorato molto» - balbettai. Il nuovo arrivato non si fece invitare. Strisciò una sedia dal tavolo vicino, e si sedette con noi. Assieme a lui c’era anche quel suo amico, Lucas, la cui faccia da topo sembrava ancor più gialla alla luce del giorno. Si guardava attorno muovendo la testa a scatti, come fosse minacciato, sempre sul chi vive. Sedeva in punta di sedia, con l’impermeabile addosso. Pareva pronto a scattare per andarsene. Steve aveva invece un aspetto decente e, nonostante si fosse seduto spavaldamente con lo schienale della sedia davanti, mi risolsi a concedergli qualche minuto di tempo – tanto più che non avevo alternative. «Perché non mi hai chiamato, ragazzo?» Non aspettò nemmeno la mia risposta, che aggiunse: «Voi non avete la gola secca, ragazzi? Un giro di birra per tutti, offre Steve!»

Non avrebbe potuto esordire nel gruppo in modo più felice. Venne immediatamente accettato da tutti, specialmente da Joshua – che solitamente centellinava la sua Ale fino all’esasperazione. «Non per me» - dissi - «Non bevo.» Solo successivamente, ripensandoci, riuscii ad apprezzare l’incredibile sforzo che fece Steve, in quel momento, per non coprirmi di insulti e attentare pubblicamente a quel che restava della mia virilità. I due nuovi arrivati si alzarono per portare le pinte, e Mark – togliendosi un auricolare – mi domandò: «Dove l’hai conosciuto?» Nella sua voce c’era un tono di sospetto. Il giro di birra pagato non era stato sufficiente a far abbassare la guardia a Mark. «Al fast-food. Veniva la sera tardi ad elemosinare una birra, ed io gliela davo.» «Già, e questo ti ha procurato un bel casino» - aggiunse Craig, ricordandosi della mia sospensione. Alzai le spalle, ma Ferdinand ormai mi stava guardando con l’ammirazione che si concede ad un donatore di sangue. Steve e Lucas tornarono con i bicchieri, e il primo riprese a parlarmi, mentre il secondo teneva la sua birra fra le ginocchia, senza mai abbandonarla sul tavolo. «Hai perso il mio numero?» «Pare proprio di sì» - mentii. «Beh in questi giorni si sono sistemate un bel po’ di cose» - disse - «e pare che finalmente ce la farò.» «A fare cosa?» «Non ti avevo detto nulla?» «No. Mi avevi detto che avrebbe potuto esserci qualcosa per me...»

«Cristo, scusami. Non faccio altro che parlare di questo, credevo di avertelo detto. Gestirò un negozietto aperto 24 ore su 24 vicino al vecchio Boleyn.» «... al vecchio Boleyn...» - mormorò facendogli eco Lucas, con gli occhi bassi sulla birra stretta fra le mani. Il nome dello stadio degli Hammers fu più che sufficiente ad attirare l’attenzione dei due “vice-allenatori”, che aspettarono che Steve proseguisse. E lui non si fece pregare. «Pensaci. Un punto sempre aperto dove soddisfare tutti gli sfizi. A qualunque ora. E proprio vicino allo stadio. Farò soldi a palate.» Il piano imprenditoriale era chiaro, anche se piuttosto sballato. Le strade intorno allo stadio pullulavano di attività del genere ma nessuna aveva la necessità di stare aperta continuamente: lo stadio viveva infatti solo nelle ore delle partite, per poi riassopirsi fino al sabato successivo. E nei dintorni nulla poteva giustificare una simile necessità, visto che le abitudini dei cittadini del quartiere – abitato per lo più da indiani – prevedevano a letto presto e sveglia all’alba. «Fico» - chiosai senza troppa convinzione, aggiungendo un po’ di acqua tiepida alla bustina ormai esausta. «Ehy, ma non hai capito o ti fai pregare? Io voglio che tu lavori per me.» «Con me» - si corresse subito. «Non lo so. Ora ho un ingresso sicuro, e un contratto in regola, bene o male. Non posso permettermi di rischiare. Vedi» - aggiunsi sollevando il giornale - «con Craig qui stavamo anche cercando una casa. Se cambio, ne parlavamo prima, è per guadagnare qualcosa di più.» Steve si allungò per dare un’occhiata agli annunci. «Fiuuuùùù» - fischiò - «Vi devono già pagare piuttosto bene quei bastardi. Vedo che avete sottolineato solo le reggie!» «No, ecco, infatti. Non possiamo permetterci una reggia. A stento arriviamo a seicento sterline al mese.»

«A testa?» «In due...» Scorsi Craig affondare la faccia nella birra per la vergogna. Con quella cifra avremmo potuto affittare una stamberga a cinquanta chilometri dalla città, col bue e l’asinello. Steve tirò sul col naso, raddrizzò la schiena e annunciò: «Non c’è problema ragazzi, voi venite a stare da me.» Lo fissai inebetito. Craig, invece, riemerse dal bicchiere e mi guardò facendo oscillare la testa in senso affermativo. Aveva l’espressione contenta di un cane che sta per uscire a eggio. Sembrava si fosse liberato in un solo istante della puzza di cavolo, della vecchia e dei deodoranti spray. Avrei dovuto dirgli della prostituta e della sega in mezzo alla strada? Avrei dovuto esprimere le mie perplessità riguardo all’intimo rapporto Steve-alcool? Avrei dovuto fargli capire che andare a vivere con lui era per me sacrificio supremo perché mi avrebbe costretto a lavorare in quel negozietto sballato? Avrei dovuto trovare il coraggio di spezzare la sua speranza di una vita migliore? Avrei dovuto dare una botta col giornale a quel musetto di cane contento? Avrei dovuto, sì, ma non lo feci. E in capo a qualche giorno ci trasferimmo, armi e bagagli, da Steve Campbell.

CAPITOLO VI

La casa era al numero 79 di Napier Road, e ci arrivammo in un’uggiosa serata di Settembre. Esternamente l’edificio era molto curato. La classica villettina monofamiliare con due piani, vetrate grandi e un micro-cortiletto sul davanti. Erano abitazioni un tempo destinate agli operai, oggi quasi un lusso. I mattoni erano stati ridipinti di rosso, e gli infissi di porte e finestre erano bianchi. Un lavoro perfezionato di recente. Per un attimo mi balenò l’idea che, in fondo, non saremmo stati tanto male. I nostri bagagli erano ridotti all’essenziale: uno zaino e una sacca a testa. Craig aveva anche un piccolo scatolone contenente una ventina di libri. La sua biblioteca era chiusa in quel cartone di Doritos. Steve ci aveva detto di presentarci in serata perché sarebbe stato impegnato nell’allestimento del negozio per tutta la giornata. Voleva inaugurare di lì a poco. Negli ultimi giorni non ci eravamo mai sentiti, rimanendo all’appuntamento che avevamo fissato una settimana prima al pub. Sembrò sorpreso di vederci, quando venne ad aprire. «Ehy ragazzi» - disse appoggiandosi allo stipite. Non mostrò segni di ospitalità. Supposi che si fosse dimenticato, e probabilmente era così. «Ehy Steve. E così, eccoci qui...» - dissi, con un gesto onnicomprensivo di Craig e dei bagagli. «Oh già, certo!» - sembrò risvegliarsi dal torpore - «Venite avanti, venite avanti» - ci invitò. Si girò spalancando la porta, calciò di lato qualcosa e stappò una latta di London Pride. Mentre era di spalle lanciai a Craig un’occhiata piena di significato. «Bevete qualcosa ragazzi?» «Io una birra me la faccio volentieri» - disse Craig, che s’era premurato di

portare dentro, come prima cosa, lo scatolone di libri. «Bravo ragazzo. E tu, Italia?» Non gradii affatto lo sprezzante riferimento geografico. «Sono a posto, grazie.» Mi sembrò di sentirlo mormorare “checca”, ma preferii non indagare oltre. La televisione nel salotto al piano terra era accesa. Davanti solo un divano, un tavolino e qualche lattina vuota sul tappeto. Sembrava che nessuno avesse mai consumato una vera cena, lì dentro. Poi LO vidi, appoggiato su una mensolina, dentro un vasetto di vetro. «Oh Cristo!» - Esclamai indicandoLO - «e quello che cazzo è?!?» Craig aveva fatto un salto indietro di un metro buono. «Ah quello? È il mio cuore. Quello vecchio, intendo» - rispose Steve con tranquillità, battendosi la mano sul petto. Non poteva certo aspettarsi che capissimo subito. Craig ed io rimanemmo impalati: lui con lo scatolone appoggiato al ventre, io con la sacca sulle spalle. «Mi hanno operato di cuore qualche anno fa...» Si sentì in dovere di alzare la canottiera per mostrarci un cicatrice verticale enorme, che a me parve tutt’altro che vecchia. La vedevo pulsante, rossa, viva, pronta ad esplodere. Feci per girare lo sguardo. «... E qui tengo quello che mi hanno tolto. Brutto figlio di puttana, stava per ammazzarmi.» Anche il suo fegato, scoprimmo poi, stava per ammazzarlo. Ma in quel caso era Steve stesso il responsabile, e al suo tessuto epatico non rivolse mai espressioni così ingiuriose. Comunque, quello fu tutto ciò che ci avrebbe mai detto volontariamente del suo cuore. Il resto glielo strappammo a fatica nei mesi successivi, o lo venimmo a

sapere da chi lo conosceva meglio di noi. «Venite di sopra, ragazzi, vi faccio vedere il vostro regno.» Ciabattò salendo le scale, senza fare il gesto di aiutarci con le borse. La sua ospitalità era comunque parecchio maggiore di quella che avrei potuto immaginarmi da un alcolizzato dell’East End. Al piano superiore c’erano due stanzette, un ripostiglio e un bagno. Steve invece dormiva di sotto. «È perfetto Steve.» Lo chiamai per nome per la prima e più o meno ultima volta. «Beh, te l’avevo detto che saremmo stati bene. Io torno di sotto a mettere il culo sul divano. Craig, quando vuoi la birra sai dove trovarmi.» Io presi la camera più piccola, che però aveva un microscopico balconcino, mentre Craig preferì quella più spaziosa “per la libreria”, disse. Guardando lo scatoloncino di Doritos non potei fare a meno di sorridere. Buttammo le nostre sacche sul letto e scendemmo di sotto. Steve nemmeno si prese la briga di invitarci a sedere. Era piantato proprio in mezzo al divano, con le braccia allargate sopra lo schienale. L’idea di infilarsi esattamente sotto le sue ascelle non attirava particolarmente nessuno dei due. Io avevo chiaro solo un obiettivo: evitare di sedermi con quel cuore in formalina di fronte. Mi buttai quindi sul pavimento a gambe incrociate alla sinistra di Steve, mentre Craig afferrò una sedia su cui sedette a cavalcioni, per simulare una certa comodità. Nessuno pronunciò una parola per parecchi minuti. Mi sembrava già chiaro che quella sarebbe stata la prima ed ultima notte in quella casa, e che sarebbe comunque stata lunghissima. Ci schiarimmo più volte la voce, senza risultato. Steve fissava lo schermo come ipnotizzato. Era un programma di fai-da-te della tele via cavo. Arrivò la pubblicità, e Craig fu bravo a cogliere l’attimo. «Posso prendere una birra, Steve?» «Certo, amico, certo! Ecco!» - Fece allungandogli l’ultima lattina da mezzo litro

rimasta nel cartone ai suoi piedi - «Io non posso esagerare, che domani si lavora...» Ciò non toglie che, stando al cartone vuoto, cinque lattine grandi se le fosse scolate. E, a quanto pareva, a stomaco vuoto. «Guardavi quel programma per avere idee per il negozio?» Bravo Craig, bravo, avanti così fratello. «Sì, ci sono ancora un po’ di lavoretti da fare. Ma, cazzo, in questi programmi hanno uno strumento per ogni cosa. Un’operazione, uno strumento. È assurdo.» «Già, già...» Cacchio. Nonostante le sue mani forti e la sua struttura imponente, Craig non avrebbe potuto essere più ignorante di così sul lavoro manuale domestico. Dubito ancor oggi che sappia distinguere un martello da uno scalpello. Quella conversazione non sarebbe andata lontano. «Voi lavorate domani?» «No, abbiamo il turno lungo domenica, quindi domani siamo fermi. Ne approfitteremo per sistemare un po’ le nostre camere e vedere la zona.» «Non c’è molto da vedere qua attorno. A parte il vecchio Boleyn, ovviamente» tenne a specificare Steve con una punta di orgoglio - «ma quello immagino lo conosciate già, eh?» Intuii che da quella risposta avrebbe potuto dipendere la serena convivenza dei mesi e degli anni a venire, se mai ve ne fossero stati. Non potevamo permetterci una risposta sobria, schiva o diplomatica. Era necessaria un’entrata dura. «Cristo, così ci offendi. Io e Craig, qui, da quando siamo a Londra non ci siamo persi una partita, amico.» Buttarla sulla dignità personale di tifoso m’era sembrata l’unica maniera di troncare sul nascere l’interrogatorio e i sospetti del tifoso DOC Steve Campbell, già giocatore del (poco) blasonato West Ham United.

In realtà eravamo stati allo stadio un paio di volte, e in entrambe le occasioni i gloriosi giocatori di casa non erano riusciti a segnare. Uno 0 a 0 e uno 0 a 2. Una noia mortale, e croce sopra alle partite di calcio, almeno per me. Craig rinunciò per questioni economiche, ma quando poteva le seguiva alla tv. Evidentemente rasserenato dal non essersi messo in casa due profani, Steve sembrò ridestarsi dal torpore che lo stava facendo sprofondare nel sofà. «Che sofferenza quest’anno eh, gli Irons[1]?» Una veloce occhiata scambiata con Craig sancì che nessuno dei due avesse la minima idea di cosa fossero gli “Irons”. «Eh sì, come no...» «Cioè, voglio dire, speriamo di salvarci.» Questa era facile. «Certo, ma ci vuole uno che faccia goal!» In una squadra ci vuole sempre uno che faccia goal e io, memore delle due partite soporifere che avevo visto qualche anno prima, non trovai di meglio da dire. «Cazzo puoi dirlo forte ragazzo! Se quell’argentino del cazzo non si decide a buttarla dentro vado là e completo il lavoretto alla sua gola!» Allora non avevo idea a chi o cosa si riferisse e l’unica possibilità era quella di buttarla sull’unico nome che conoscessi[2]. «Ci vorrebbe Paolo Di Canio, altroché!» Di Canio aveva giocato lì[3], lo sapevo, e sapevo anche che aveva conquistato il cuore dei tifosi. Ero già meno certo che fosse un goleador, ma in quel momento non avevo altra via d’uscita. Riuscii a percepire le chiappe di Craig stringersi forte, mentre Steve dava una lunga sorsata alla birra.

«Di Canio, oh sì ragazzi. Quel mangiapizza era un grande. Che fine ha fatto?» Boh. «È ancora nel giro» - improvvisai. «Già...» - sembrò spegnersi. Il programma di bricolage era ripreso per appena un paio di minuti, prima di esaurirsi nei saluti finali. «Beh» - fece lui scollando i jeans dal divano - «Ci vediamo domattina ragazzi. Io sono cotto.» «A domani» - rispondemmo con un coro di voci bianche. L’inaspettata chiusura della spinosa conversazione sul calcio ci suggerì di documentarci al più presto su vita, morte e miracoli del West Ham. O là dentro sarebbe stata durissima. Il mattino seguente il fatto che non stesse (ancora) piovendo ci fece alzare di buon umore. Ci si accontenta di poco, oltre la Manica. Avevo ato la notte a sognare quel cazzo di cuore in formalina: nel sogno cercavo di aprire il contenitore per prendere l’organo, ma non ci riuscivo. Alla fine il barattolo mi cadeva, e addio cuore. Qualcosa di simile s’era ripetuto tre o quattro volte durante la notte, per cui al risveglio rivedere Craig fu un piacere. Ci trovammo sul pianerottolo quasi in contemporanea, entrambi curvi a “C” dopo la notte sulle terribili brandine. Steve era già uscito, e noi ne approfittammo per dare un’occhiata intorno. La casa non era affatto male, di base. Il salone aveva anche una di quelle tipiche vetrate semicircolari, tanto coreografiche quanto inutili, se fuori piove sempre. Era nascosta da pesanti tende, e la sera prima non l’avevamo neanche notata. Tutto, all’interno, era completamente disadorno e trascurato. L’unica cosa spolverata regolarmente sembrava essere il barattolo contenente il cuore. Dalla camera da letto di Steve, nella quale non osammo entrare, uscivano miasmi indescrivibili e dalla porta socchiusa s’intravedeva solo il letto sfatto e una sciarpa celeste e granata appesa al muro (i colori ufficiali del West Ham, nel caso ci fossero dubbi). La cucina era più essenziale di quella di un camper, a voler essere generosi, e in tutta casa – questo lo notò Craig – c’erano due soli libri: un almanacco del calcio

del ‘79-‘80 (!) e un volumetto di marketing e tecniche di vendita praticamente intonso. Ne deducemmo che il nostro padrone di casa non dovesse essere una cima ma in realtà, ad un’analisi meno superficiale, avrebbe potuto essere considerato un individuo dall’“intelligenza selettiva”, come provai a spiegare a Craig riferendomi agli episodi del fast-food: «Vedi, lui VOLEVA fortemente quella birra. SAPEVA che non era suo diritto, e che avrebbe dovuto guadagnarsela. E lo faceva ogni sera inscenando un teatrino. Aveva CAPITO che solo così gli avrei spillato una birra, e non ha mai mancato di originalità. Invece il suo amico, Lucas – ti ricordi Lucas? - Ecco, lui non l’aveva capito, e infatti è rimasto a becco asciutto. Secondo me è più profondo di quel che possa sembrare.» «Ma Vinnie, stai parlando di una fottuta birra» - ribatté spazientito Craig, mentre metteva a bollire l’acqua per il tè - «Ha solo fatto un po’ di scenetta. Ehy, questo non è un esperimento con cavie... Stiamo parlando di uno cui sono brillati gli occhi solo quando ha sentito parlare di calcio, e che ha appena due libri in casa, Cristo santo!» I libri. Sapevo che per Craig sarebbero stati una discriminante. «Ok. Ammetto che l’apparenza gioca contro di lui» - anche io avevo tre libri in tutto, quindi non mi sembrava il caso di calcare la mano. «Almeno quello.» «Ma dobbiamo sperare che io abbia ragione. Altrimenti perché siamo qui? Tu mi sembravi così entusiasta di venire...» «Dopo aver vissuto per anni con la nonnetta rancida ogni cosa non può che essere meglio. Cosa vuoi che mi importi di stare con un hooligan alcolizzato?» A lui forse non tanto, ma a me sarebbe importato parecchio.

* * *

Nel pomeriggio decidemmo di andare a vedere come procedessero i lavori nel negozietto di Steve. Già all’ingresso ci pentimmo di essere ati. Era del tutto evidente che lì non avesse mai messo piede nessuno con una benché minima concezione di lavori elettrici, di carpenteria, di falegnameria e quant’altro. I muri non erano stati stuccati e qua e là emergevano buchi e profonde scrostature. Le prese elettriche erano ancora tutte da chiudere, ma i fili che fuoriuscivano caotici lasciavano supporre che sarebbe stata una gara dura. In mezzo al locale troneggiavano quattro scaffali di acciaio pericolosamente sbilenchi, su cui era stato poggiato di tutto. Nulla avrebbe fatto pensare ad un’inaugurazione da lì ad una settimana. C’avrebbe inchiodato chiedendoci di aiutarlo, era ovvio. «Ehy ragazzi!» - Esclamò venendoci incontro - «Che ve ne pare? Sto sistemando i dettagli» - disse aprendo una lattina. Ci parve quantomeno ironico. Ci tolse dall’imbarazzo e, senza aspettare la nostra risposta, chiese: «Volete darmi una mano?» Gli erano bastate meno di dieci parole per are al sodo. Non era stupido. Sapevo che Craig non avrebbe resistito che pochi secondi. Il ricatto psicologico, sottotraccia ma molto ben presente nelle nostre menti, era così semplice da essere diabolico: come avremmo potuto negare il nostro aiuto all’uomo che ci aveva accolti in casa sua, dandoci un tetto e un letto-brandina ad un terzo del prezzo di mercato? Come avremmo potuto vietare alla dirompente vitalità dell’industrioso inglese Campbell di convogliarsi in un’opera di imprenditoria individuale negandogli il conforto delle nostre mani operose? Non avremmo potuto, e infatti non potemmo. Non era stupido, decisamente non era stupido. Affatto. «Alla grande Steve, dicci cosa dobbiamo fare!» - Esclamò Craig con molto più entusiasmo del necessario. «Certo, diccelo» - aggiunsi compensando la spinta del mio amico con un muso lungo fino a terra. Craig si diede da fare con le prese elettriche, millantando conoscenze che nemmeno immaginavo, e temo non avesse. È incomprensibile come sia ancora vivo. A me toccò per prima cosa il soffitto da imbiancare e la schiena mi ringraziò, cambiando la propria arcuatura da “C” a “D”. Il risultato non fu una

colonna vertebrale diritta, ma direi più ad “S”. Se non altro Steve non aveva risparmiato sul materiale. Là dentro c’era tutto, ma praticamente nulla era stato aperto o utilizzato. Volli scacciare il sospetto che stesse aspettando noi due grulli per cominciare davvero il lavoro. Volli evitare l’idea che avesse calcolato che la nostra manodopera costasse molto meno di quella di un paio di operai specializzati. Steve non faceva altro che andare su e giù per il negozio senza costrutto, spostando oggetti a casaccio e scrutando il nostro lavoro alle spalle – ripartendo equamente il suo tempo fra noi due. Evitò almeno di avventurarsi in improbabili suggerimenti operativi, visto che era del tutto evidente che non avrebbe potuto darne di sensati. Mentre lavoravamo, il novello imprenditore si sentì comunque in dovere di illustrarci la sua aberrante concezione del business made in England: «Vedete ragazzi, questa roba m’è venuta in mente qualche tempo fa. Come fai quando esci dalla partita e hai tremendamente voglia di qualcosa, e i pub hanno già chiuso la cucina? Ti tocca andare da uno di quei mangiacurry» - tracannò una sorsata di birra - «ti tocca andare a pagare questa gente che viene qui a fare i nostri lavori. I lavori che noi inglesi sappiamo svolgere meglio di chiunque altro, cazzo! Entri in uno di quei maledetti negozi, dove c’è una puzza di minestrone andato a male terribile, e devi anche sforzarti di parlare lentamente nella TUA STESSA lingua per farti capire... Proprio qui a casa nostra!» Mi aspettavo che da un momento all’altro scoppiasse in una risata. Che sdrammatizzasse aggiungendo “scherzo, ragazzi, ma voglio fare un po’ di soldi anch’io, no?” ridacchiando. Anzi, non me lo aspettavo, ma lo speravo – sotto sotto – un po’. Invece, nulla. Mi girai piano piano. Craig stava facendo lo stesso: aveva dei cavi in mano, e squadrava Steve di sottecchi. Era deficiente o cosa? Era forse solo ubriaco? Si rendeva conto di avere di fronte un italiano arrivato a Londra proprio per lavorare e un gallese giunto in Inghilterra per lo stesso motivo? E di quali cazzo di lavori stava parlando che gli inglesi facevano tanto bene? Vendere panini? Probabilmente non ne aveva idea nemmeno lui. Craig non disse nulla. Si alzò in tutta la sua imponenza, si aggiustò un po’ i pantaloni, e poi si chinò a recuperare da terra i cavi che fuoriuscivano dal muro. Guardò Steve, che a sua volta lo stava fissando con espressione ebete, e gli si

avvicinò. Sembrava calmissimo. Lo toccò nel petto con i cavi e lo fulminò. Il corpo di Steve fu percorso da un fremito velocissimo e incontrollabile che lo scosse con inaudita violenza. Lo vidi ballare una specie di tarantella prima di crollare al suolo pesantemente. La lattina s’era saldata alla sua mano, e versava a terra un po’ di schiuma puzzolente. Dalla bocca semichiusa usciva un lievissimo fumo, o forse era solo una mia impressione. Comunque, l’aveva steso. Craig l’aveva fatto secco! Non riuscivo a crederci, ma sono certo che in quel momento la mia faccia esprimesse più stupore che paura. A mia volta - avevo osservato la scena dai primi gradini della scala - scesi con in mano il rullo. Lo ai, ancora intriso di vernice, sul corpo esanime di Steve. Dissi a Craig “hai fatto bene” e scavalcai il corpo, per avviarmi all’uscita.

Naturalmente tutto questo lo immaginai solamente. Non riuscimmo neanche a controbattere. Avevamo entrambi la bocca semichiusa, pronti a dire qualcosa, ma nessuno dei due iniziò per primo. Avevamo trovato proprio un bel padrone di casa... Steve ci guardò con aria di sfida, con i rotoli di ciccia che debordavano come un pane di lievito al di sopra della cintura. Non celava quella pancia gonfia, la ostentava. In quel momento avevo dentro un misto di rabbia e rassegnazione. Sarebbe servito a qualcosa tentare di discutere, per fargli capire quanto irritanti potessero essere per noi quelle parole? Mi chiedevo solo questo, perché certo non potevo pretendere di essere in grado di cambiare la sua testa (?), il suo modo di ragionare (?), la sua educazione (?). No, in quel momento non potevo proprio pensarci. Lo conoscevo troppo poco. Craig si alzò e disse: «Ora dobbiamo proprio andare» - e non l’avevo mai sentito così secco nel rivolgersi a nessuno. «Ok ragazzi, vi ringrazio. Ci vediamo più tardi a casa.» «Non credo, saremo fuori. A dopo.» Non avevamo alcun programma per la serata ma Craig aveva la faccia scura e tirata, e io non emisi un fiato. Appena fuori sembrò sbollire tutto d’un colpo,

soffiando fuori l’aria: «Scusami Vinnie, m’ha fatto imbestialire. È che non riesco a capire come possa pensare che...» «Non credo che quel cervello ragioni davvero!» - Lo interruppi. Sghignazzammo amaramente mentre il cielo si faceva scuro.

* *

Qualche ruggine l’infelice uscita di Steve l’aveva lasciata. Craig è un ragazzo molto buono, quello che – dovendolo descrivere – si vedrebbe etichettare come “ragazzo d’oro”. Lui odiava essere definito così, un “buon ragazzo”. Però è la verità. Tuttavia quella volta non aveva voglia di concedere facilmente a Steve la possibilità di riscattarsi. Credo che sia stato il pensiero di ritrovarsi al piano di sopra in casa di un’anziana aromatizzata al cavolo ad averlo trattenuto in Napier Road. Non era molto tempo che abitavamo lì, che una sera lo incrociai di ritorno da un turno pomeridiano. Ero sul divano a guardare Sex and the City, quando entrò dalla porta, piuttosto abbattuto. «Che succede Craig?» - Gli chiesi, allungandomi per dargli un buffetto. «Che diavolo stai guardando?» «Sex and the City!» - Risposi, con un po’ troppo entusiasmo. «Mh. Ti piace?» - Disse con sconcerto. Tentai di dissimulare il mio entusiasmo: «Beh, sai, non c’è nulla di meglio a quest’ora...» «Eh già, già, vero. Potresti leggere un libro.»

«Potrei» - ammisi. «Capito, non ti va.» «Ora no, ma accetto consigli. Ma tu cos’hai che non va? Ti vedo strano, o sbaglio?» «Sono solo un po’ a terra.» «Perché?» «Il prossimo fine settimana faccio un salto a casa.» «Beh, dovresti essere contento, no?» «Sì, dovrei. È questo il punto, credo. Non sono contento di andare.» «Vuoi dire che stai tanto bene qui con noi, nella casetta di Steve e Vinnie» canticchiai con la vocetta stridula. Gli strappai un sorrisetto. «Sì, sto bene, certo. Ma credo in realtà di non avere voglia di andare per non affrontare i miei genitori.» «Cosa vuoi dire?» «Sono anni che sono qui, e ancora lavoro al fast-food.» «Anch’io! Dovrei prenderla come un’offesa?» - Mi opposi, senza in realtà ritenermi affatto pungolato. «No, per carità. Però loro ci tengono tanto. Hanno fatto sacrifici per tirare su cinque figli, e vorrei dar loro delle soddisfazioni. Sai, mia madre ci terrebbe molto a vedermi laureato. Lei va dalla parrucchiera il giorno prima che io torni a casa. Vuole farsi vedere sempre a posto. Me l’ha detto mia sorella piccola. Ci tiene tanto, sai?» Dovette sforzarsi molto per non far scendere una lacrimina, e anch’io. «È una cosa bellissima, Craig. Dovresti esserne orgoglioso. E, se senti di

potercela fare, potresti provare a fare l’università da non frequentante.» «Forse hai ragione. Ho sempre creduto fosse impossibile. Però qualcuno ci riesce. Ne parlerò con i miei.» «Vedrai che saranno orgogliosi del loro figliolo.» «E il lavoro?» «Cosa?» «Non dovevamo cercarne un altro?» «Hai ragione. Magari ne troviamo uno per guadagnare di più e lavorare di meno!» «Vabbé» - si schernì Craig - «adesso non esageriamo.» In quel momento in casa irruppe Steve. Dico “irruppe” perché quasi sfondò la porta, tanto era brusco nei movimenti. Aveva bevuto parecchio, chiaramente. E lo ammise senza ritegno. «Cristo ragazzi, sono ubriaco fradicio» - disse, barcollando sino alla spalliera del divano. Si appoggiò coi gomiti e fece ciondolare la testa in mezzo a noi due. Emanava un olezzo disgustoso. Il suo sguardo appannato venne attratto dalle immagini che uscivano dalla televisione. «Che porcheria da checche state guardando, eh?» Mentre parlava, m’ero fissato a guardargli i denti. Aveva dei segni neri profondissimi fra un dente e l’altro, e le gengive quasi grigie. Facevano impressione. «È Sex and the City, hai presente?» - Risposi, trattandolo come fosse in grado di intendere e di volere. Si staccò dalla spalliera e ci barcollò davanti, grattandosi il didietro, andando verso camera sua. «Certo che ce l’ho presente, certo. Ma non sono tipo da Sex and the City» - disse

Steve - «Direi che sono più da Fuck-the-City[4]!» e si lasciò andare ad una risata sboccata, punteggiata da colpi di tosse, mentre infilava la porta di camera. Naturalmente non avevo afferrato la battuta, ma Craig sì: fu un po’ umiliante farsela spiegare.

1 Irons significa “Ferri”. È un altro soprannome della squadra che viene dal suo nome originario Thames Ironworks. 2 Steve si riferiva a Carlos Tevez, talentuoso giocatore argentino, protagonista di un burrascoso e poco chiaro trasferimento nel West Ham, che giocò una pessima prima parte di stagione nel suo anno a Londra. Il riferimento alla gola viene da una profonda cicatrice che Tevez ha sul collo, sembra a causa di ustioni subite da bambino. 3 Paolo Di Canio giocò nel West Ham dal dicembre 1998 al giugno 2003. Collezionò 137 presenze e 51 goal fra campionato e coppe, ottenendo la Coppa Intertoto nel 1999 ma soprattutto un enorme affetto da parte dei tifosi. 4 Si riferisce all’assonanza fra Sex-and-the-City e Fuck-the-City dove “City”, nel secondo caso, è il Manchester City, la seconda squadra della città di Manchester che, il fine settimana seguente, avrebbe affrontato il West Ham. Inutile dire, per la cronaca, che il Manchester City vinse 2 a 0, a dispetto della battutona di Steve..

CAPITOLO VII

avamo il nostro tempo fra turni al fast-food e infinite chiacchiere al pub con Joshua, Mark e Ferdinand. Avevamo appena assistito ad una brillante operazione di marketing creativo. Il locale dove lavoravamo era stato rilevato da una nuova catena di ristorazione se. Il vecchio gestore era stato spedito altrove, sostituito - ça va sans dire – da un cinese di Lione e il rinnovamento era stato piuttosto superficiale. In pratica, una mano di vernice bianca, divise nuove per noi e un cambio totale al nome dei panini. Per l’imbottitura, invece, nessun problema: c’era dentro lo stesso identico schifo, a detta di Rose. Più grave il discorso delle nuove uniformi: ci obbligarono ad indossare una divisa da ristorante di lusso, con tanto di giacca e papillon. Dovevamo essere inappuntabili, sbarbati e pettinati. Per noi fu un trauma: eravamo costretti a lavarci per presentarci al lavoro, a lavarci i denti prima del turno, a raderci ogni mattina, anche quando l’orario del mattino ci imponeva una sveglia antelucana. Ero sicuro che avremmo retto poco. E tutto questo per vendere gli stessi panini, ora con un nome se, al triplo del prezzo. Funzionò, devo ammettere. La gente veniva a mangiare un vecchio cheeseburger assaporandolo come un filetto e la clientela non era calata. Non capirò mai il marketing.

* *

Steve lo incrociavamo solo a tarda sera, sbracato sul divano. A volte teneva il barattolo con il cuore appoggiato fianco a sé. Sospettavo gli parlasse. Il suo entusiasmo per il negozio sembrava sopito, e di inaugurazione non parlava più. Erano ate alcune settimane da quando eravamo andati a trovarlo, e lui ci aveva forzato a dargli una mano. Non sapevamo come impiegasse tutto il giorno, ma potevamo dirci ragionevolmente certi che lo sprecasse. In compagnia del ratto Lucas, molto probabilmente. Erano amici da molti anni, coetanei. Il ratto Lucas al secolo faceva Wright di cognome e lo soprannominavamo ratto

per ovvi motivi. Aveva il viso aguzzo, la bocca e il naso piccoli e tutta la sua faccia sembrava protesa in avanti nello sforzo di convergere verso il labbro superiore. Era piccolo, gracile, e vestiva sempre in maniera trasandata. Sopra qualunque cosa portasse, poggiava il suo impermeabile beige, che indossava in qualunque stagione. Da quel che avevo capito campava ormai da parecchi anni con l’assegno di disoccupazione, una cinquantina di sterline la settimana. A Londra, non c’è da stare allegri con una simile cifra. Questo poteva forse spiegare come mai avesse sempre un atteggiamento difensivo e conservativo nei confronti di qualunque cosa avesse in mano. A lui una pinta di birra poteva durare tutta la sera, quando gli altri facevano almeno cinque o sei giri. Raramente l’avevo visto mangiare, e fumava solo a scrocco. Non l’avevo però mai sentito parlare del suo tentativo di cercarsi un lavoro. Ho l’impressione che gli pie vivere così. Quand’era con Steve formavano una coppia alla Stanlio e Ollio: uno basso l’altro alto; uno magro l’altro panciuto; uno coi capelli scuri e la carnagione quasi cinerea, l’altro rosso e con la pelle di un rosa porcino. Loro però non facevano tanto ridere. Fatico a percepire che tipo di rapporto potesse intercorrere fra i due, anche se sono certo che Campbell non si sia mai fatto troppe domande sull’amicizia che provava per l’amico, mentre per Wright Steve rappresentava il modello di inglese cui aspirare. Ognuno ha i maestri che si merita.

* * *

Era arrivata la bella stagione, ovvero quella in cui piove non più di una volta al giorno, e il vento freddo si alza solo all’ora del tramonto. Eravamo seduti sulle panche all’esterno del Trowel & Telegraph, io imbacuccato, gli altri – naturalmente – in maniche corte. La resistenza degli inglesi al freddo ha origini per me misteriose. Stavamo attendendo che ci raggiungesse Mark, ma invece ci ritrovammo davanti la coppia Steve-Lucas. Ogni volta che ci incontrava l’uomo-ratto chiedeva a Craig una sigaretta. Lui, puntualmente, rispondeva che non fumava, e diceva a Lucas di rivolgersi a me. A mia volta prima di dargli una L&M preferivo aspettare che mi riformulasse la richiesta: era uno so vederlo sforzarsi di parlare un inglese lento e corretto.

Non che ce ne fosse bisogno, capivo e parlavo ormai perfettamente, ma lui sembrava non esserne ancora del tutto sicuro. Era diventato una specie di gioco, e anche gli altri se la ridevano. Dopo la consueta scenetta, quindi, i due si sedettero al nostro tavolo. Lucas accese la L&M che s’era guadagnato, e cominciò a fumarla proteggendola dal vento col bavero dell’impermeabile. Steve non pareva proprio aver voglia di parlare, e non s’era nemmeno ancora alzato per prendersi una birra. Sospettai che stesse male. Sembrava in depressione da post-sbronza, ed era un’ipotesi perfettamente plausibile. Lo vidi estrarre il pacchetto dalla tasca dei pantaloni e accendersi una sigaretta, ma le sue mani erano malferme. Vagava attorno con lo sguardo, cercando un appiglio in qualcuno di noi. Sembrava avesse bisogno di sfogarsi, e sono certo che – se solo fosse stato credente – si sarebbe rifugiato da un prete. In quel momento, però, doveva accontentarsi della compagnia di quattro semi-sconosciuti e di un uomo-ratto. Mi sentii all’angolo, quasi obbligato a dargli una sponda. Perché? Perché dovevo essere così sensibile, buono e altruista? Mi facevo pena da solo, mentre – con un’occhiata incoraggiante – lo invitai ad aprirsi. Lui prese la rincorsa per iniziare a parlare. Si sporse anche un po’ in avanti, cercando un’impossibile intimità. «Mia moglie fa in modo che mio figlio mi odi.» Ossignore. Io mi aspettavo qualche guaio col negozio, problemi di erezione o – nella più tragica delle ipotesi – una nuova sconfitta del West Ham. Ma questo? In dieci parole aveva infilato dentro due bombe di cui eravamo completamente all’oscuro. Uso il plurale perché anche Craig – pur facendo finta di nulla – stava ascoltando, spostando le pupille agli angoli degli occhi come faceva sempre quando voleva fare l’indifferente. Insomma, noi non avevamo idea che ci fosse una signora Campbell, e ancor meno che ci fosse uno Steve Junior! La notizia che c’era un erede di quell’essere avrebbe dovuto gettare il mondo nel panico. A quel punto fu chiaro persino a Steve che FORSE, prima di espormi questo tipo di problematica, avrebbe dovuto aggiornarmi sul suo stato civile, e molto altro. Mi fece cenno di alzarmi e di seguirlo. Afferrai la mia tazza e lo raggiunsi al bancone, dove chiese una ale. Poi uscimmo ma, anziché tornare al tavolo, andammo ad appoggiarci su un muretto poco distante. Almeno due persone su

cinque a quel tavolo capirono la situazione: Craig dissimulò, mentre per Lucas fu impossibile. Era completamente perso là in mezzo, da solo. Guardava l’amico da lontano, prigioniero della panca sulla quale sedeva. Prima che uno di noi due si decidesse a parlare, arono cinque minuti buoni. Io mi stavo domandando a che grado di disperazione possa giungere un uomo per parlare di un problema così serio con il cameriere del fast-food che gli serviva la birra di notte. «E così, sono sposato, sì. Non te l’aspettavi, eh?» «In effetti no.» «Beh, non sono sempre stato lo schifo d’uomo che vedi adesso. Una volta ero anche peggio.» «Questo spiega tutto.» «Ho conosciuto quella troietta di Jane che non ero neanche maggiorenne. Dio, come me lo faceva tirare. Aveva un corpo pazzesco, e sembrava non gli bastasse mai.» «Sono ottime credenziali.» «Già, ma io ero una testa di cazzo allora, e non vedevo più in là del mio naso» proseguì ignorandomi, e su questo punto avrei voluto specificare che era TUTTORA una testa di cazzo - «Così non mi rendevo conto che quella zoccoletta ci aveva semplicemente visto giusto: stavo per diventare un calciatore professionista. E quindi soldi, soldi, soldi. Ecco quello che aveva visto.» «S’intendeva di pallone, però.» Non faceva ridere, lo ammetto. Steve tirò un paio di boccate di fumo e riprese a parlare. Credo che acquisisse nuova linfa da ogni insulto alla moglie che riusciva ad inserire nel discorso. «Calcio e figa, non pensavo ad altro. E non ascoltavo nulla, tranne mio padre, chissà perché. Solo che il vecchio si scordò di dirmi di usare il preservativo con Jane, e così lei rimase incinta. E sai qual è la cosa bella? Non era affatto

incazzata la perfida mignottella! Mentre io, oh Cristo, io ero fuori di me.» Si fermò per bere. Mi diede l’idea che non volesse nemmeno proseguire nel racconto, o forse era semplicemente finito lì. Ma so che, se non si interrompe, ciò che deve essere detto prima o poi viene fuori. E così fu. «Ero incazzato nero, e mio padre pure. Lui con me, io con lui e con lei. La stronza infatti non ne voleva sapere di abortire, anzi: sapeva di avermi legato nella maniera più salda. Ma ce l’avevo anche con mio padre, che mi aveva appena convinto ad accettare un contrattino da poco, con quella sua idea che giocare a calcio non fosse lavorare. Così andò come andò e io mi ritrovai con un cuore non mio, un figlio mio che non volevo, una moglie incazzata e un padre deluso. Senza contare che avevo voglia di ammazzarmi dopo aver perso la possibilità di diventare professionista.» Mi sforzai di dire qualche frase intelligente. Rastrellai anche gli angoli più bui del cervello, ma non ne uscì nulla. «Merda. Ok, ora so che hai moglie e figlio: ma oggi cos’è successo?» «In realtà niente di nuovo. Il ragazzo, Philip, si chiama Philip, è quasi maggiorenne. Però è sempre cresciuto con una mamma troia e vendicativa, quindi adesso crede che suo padre sia una specie di mostro. Ero andato per trovarlo – lo posso vedere un giorno ogni due settimane – e volevo accordarmi per fare qualcosa di speciale più avanti, quando compirà gli anni e potrà decidere con chi stare. Ma lui ha detto qualcosa tipo “Non credo, STEVE, non so se voglio fare qualcosa con te”. Steve? Steve, capito? Mi ha chiamato per nome! Niente papà, papi, babbo... Steve. E, a parte questo, mi dice che non sa se vuole are del tempo con me. Quella schifosa...» «Ma scusa» - lo interruppi - «perché tua moglie ti dovrebbe odiare così? Questo non l’ho proprio capito...» «Non ti ho detto quanto troia sia?» «Sì, mi pare tu l’abbia accennato.» «Ecco appunto. Nonostante fosse una storia classica da B-movie io l’ho capita dopo la puzza. Lei era interessata ai miei soldi e basta. Quando è saltato fuori il problema al cuore era troppo tardi per abortire, ma sono certo che l’avrebbe

fatto. È nato Phil e lei s’è messa a stracciarmi il cazzo a più non posso. Non ha smesso di rompermi le palle nemmeno in ospedale. Cristo santo quanto rompeva. Io avevo il prosciutto sugli occhi, e cercavo di capirla. Cercavo di capire che avere un bimbo a diciassette anni è dura. Cercavo di capire che porta via tante energie. Cercavo di darle una mano. Ma lei non voleva una mano, mi voleva morto. E voleva un marito ricco, cosa che io non avevo più la possibilità di diventare.» Stavo accompagnando la sua storia scuotendo la testa e fumando come un turco. Il tè s’era praticamente ghiacciato sul muretto. «Insomma, per lei ero diventato una merda totale. Nella sua testa aveva ribaltato la situazione, e quindi ero io quello ad avere incastrato lei. Ti rendi conto? Beh, ho resistito tre anni, poi non ce l’ho più fatta. Una sera le ho mollato una sberla così forte che è andata in terra. Un momento prima l’avrei ammazzata, ma quando l’ho vista cadere sono impazzito di dolore. Non potevo credere di averlo fatto. Mi sono subito piegato su di lei, mi sono prostrato, avrei fatto di tutto. Ma ormai era inutile. Ricordo che ha girato la testa verso di me, mentre col dorso della mano stava asciugandosi una striscia di sangue che le colava dal labbro. Aveva uno sguardo d’acciaio, ma sembrava contenta. Aveva un ghigno in faccia così cattivo... M’è rimasto dentro, per me quella è l’immagine della malignità. Mi ha detto soltanto “Ti sei fottuto”.» «E?» «E se n’è andata, portando via Phil. Ha ottenuto il divorzio in un lampo, ma per fortuna pochi soldi. Anche perché non ne avevo. Da allora vedo mio figlio ogni quindici giorni, e non sono mai riuscito a dirgli quanto gli voglia bene.» «Mi dispiace. Non immaginavo.» Non aggiunse niente. Non disse più nulla per vari minuti, nei quali ebbi tutto il tempo di imparare a memoria la facciata dell’edificio di fronte e i cartelli stradali che riuscivo ad abbracciare con lo sguardo. Quella lunga confessione era stata una rivelazione per me. Mi fece capire quanta sofferenza e quanti fatti della vita possano portare una persona ad essere quello che vediamo oggi. Fermarsi all’apparenza, e alla condizione presente, per descrivere o capire una persona è un errore assoluto. Mi mise una mano sul ginocchio, dando un paio di colpetti e sospirò:

«Andiamo dagli altri ragazzi ora, direi che per oggi ti ho annoiato abbastanza.» Non seppi cosa replicare ma mi sembrò di vederlo sollevato. Forse avevo sbagliato tutto. Forse avrei dovuto fare il prete e confessare la gente. Non avrei avuto problemi di soldi o di lavoro. Avrei mangiato sempre. Capisco che sia un luogo comune, ma io un prete magro non l’ho mai visto… Tornammo al tavolo e chiacchierammo fino all’ultima luce riflessa, poi ognuno andò a casa sua. Craig, Steve ed io ci avviammo in silenzio giù per Church Road. Avvertivo la curiosità di Craig, ma mi chiedevo se sarebbe stato giusto nei confronti di Steve dire qualcosa. Un confessore tiene tutto per sé, in fondo. Fu lo stesso Steve a togliermi dall’imbarazzo. «Craig, forse ti starai chiedendo cosa abbia detto a Vincenzo prima.» Aveva un tono sicuro, ostentatamente freddo e distaccato. Molto diverso, certamente, da quello usato poco prima con me. «Prima di tutto sappi che non ci siamo appartati perché siamo diventati all’improvviso due luride checche» - eccolo tornare lo Steve di sempre - «ma perché dovevo dirgli un paio di cose e non mi andava che tutti si fero i cazzi miei.» «Ok» - lo invitò a proseguire Craig. «Insomma ho moglie e un figlio, si chiama Phil. O meglio, avevo moglie, perché siamo divorziati. E quella stronza mi crea problemi con mio figlio, che ha quasi diciotto anni.» «Oh, capisco. Un bel casino.» «Direi di sì. Direi che si può riassumere così. Un bel cazzo di casino» - chiuse le danze Steve, seccando mezza sigaretta con una boccata davanti alla porta di casa. Nei giorni seguenti ci parve tornato l’alcolista, tifoso, panzone, irascibile, ignorante e intollerante Steve di sempre. Non sapevo se esserne rallegrato o meno.

CAPITOLO VIII

Steve rientrò in casa sudato, con la faccia più paonazza Steve rientrò in casa sudato, con la faccia più paonazza del solito, a torso nudo e con la maglietta in mano, accompagnato da un odore ammorbante (più ammorbante del solito, intendo). «Torno a giocare a calcio» - buttò lì, quasi fosse ovvio. Craig ed io ci guardammo, sondando velocemente come diavolo fosse possibile per un quasi trentasettenne ubriacone con la pancia rientrare in Premier League. Io gli fissai la cicatrice sul torace. Poteva davvero il livello del gioco essere così scarso? A dir la verità, questo lo stavo pensando soltanto io – che di calcio non capivo un cazzo – mentre il gallese aveva subito afferrato che si trattasse di un atempo in una squadretta rionale. «Bella idea, e dove giochi?» - Gli chiese allora Craig. «Si chiama Bari FC, e giocano su in Upton Lane la domenica mattina. Cristo, sarà dura svegliarsi ma è piuttosto vicino, e a quei negretti serve qualcuno che sappia cos’è il football, amici!» «Comecosachi?» - Biascicai. Insistevo nel sorprendermi e nell’irritarmi a certe entrate a gamba tesa di Steve, proprio non riuscivo a farci l’abitudine. «È una squadra quasi tutta di immigrati, Vinnie. Forse se ti tingi i capelli di nero prendono anche te. Dovresti vederli quegli indiani, sono letteralmente persi in mezzo al campo. Ero capitato lì dove si allenano nei giorni scorsi e credevo stessero scherzando. Mi sono detto “oddio, non staranno davvero giocando a calcio”. Gli ho urlato un paio di volte da dietro la rete di darsi al cricket così l’allenatore mi ha detto “Hey signor fenomeno, ci faccia vedere lei”; e così gliel’ho fatta vedere. Da fermo, in mezzo al campo, con una sigaretta in mano. Spettacolo.» Aveva gli occhi contenti, mentre raccontava, come non li avevo mai visti.

«Sono messi così male?» - Domandai volutamente senza tatto. Ma Steve non colse. «Peggio che male. Stanno ricomponendo la squadra dopo un paio di stagioni di stop, e sono all’osso. Fanno cagare e mi sa che al portiere verrà mal di schiena a forza di raccogliere palloni nella porta.» «E allora perché ci vuoi giocare?» - Domandai senza ottenere risposta. «Pensi che ci sia posto per un roccioso difensore gallese?» - S’inserì il buon Bellamy. «Diavolo Craig, se solo riesci a stare in piedi il posto da titolare non te lo leva nessuno! Giovedì c’è allenamento, fai un salto e vedrai che ti prenderanno.» Mentre lo diceva si diresse al frigo, prese una latta di Carling e la fece sibilare. Tracannò una sorsata così colossale che potevamo vedere la birra gonfiargli lo stomaco. Ruttò sonoramente, gettò la lattina e ne prese un’altra. Si stirò le braccia e la schiena, liberando da sotto le ascelle un olezzo agghiacciante in tutto il salotto. Per tentare di sopravvivere camuffai l’odore con quello di una sigaretta che mi accesi in fretta e furia. «E a voi ragazzi come va?» «Molto bene» - risposi io - «Quel lavoro mi sta uccidendo e l’aria fritta mi riempie la faccia di brufoli. Ci fanno vestire da pinguini per sembrare camerieri di classe ma ci pagano peggio che se pulissimo i cessi in un bordello di Bangkok. Non o la notte in compagnia da mesi e forse dovrò andare da uno psicanalista perché ho istinti omicidi nei confronti di chiunque chieda un hamburger senza cetriolo. Per il resto va alla grande.» «Io ti ho sempre detto quale sarebbe la soluzione, Vinnie: venire a lavorare nel mio negozio.» Ops. Avevo toccato il tasto sbagliato. Eppure ero convinto che l’idea del negozio fosse morta e sepolta. Lavorare con Steve e vivere con Steve? Urgeva ritirata in grande stile. Ma la fretta mi fregò. «Sai cosa pensavo? Potrei provare a venire anch’io a giocare con voi a calcio» bluffai per perdere tempo - «Magari un po’ di aria fresca mi farà bene...»

Mentre io me la ridevo i miei due compagni di casa si guardarono per qualche secondo. Steve era squagliato sul divano, con i rotoli della pancia che lo costringevano a respirare affannosamente. Un po’ più sopra, la lunga cicatrice verticale pulsava, quasi violacea. Craig tentò la via della diplomazia, come se lui fosse Maradona, o che so io: «Vedi, forse sì. Forse ti farebbe bene però, ecco... Non so, mi sembra che tu non abbia mai giocato e forse, diciamo, ci vorrebbe un po’ di preparazione...» Aspettavo solo una scusa buona per trarmi d’impaccio e scansare sia il maledetto negozio di Steve che la squadretta rionale. Ero pronto. Stavo per aprire la bocca e concedere ai due calciatori-nati l’esclusiva della scienza del pallone, per ammettere che il football è frutto della terra d’Albione e che nessuno è più degno di loro di correre dietro ad una sfera di cuoio in braghini corti, anche e soprattutto nelle domeniche mattine gelate di gennaio. Ero pronto, è vero, ma Steve fu più veloce. «Beh, vieni giovedì e si vedrà, bello mio. Magari hai classe. E sennò sarà uno so sfotterti.» Eccheccazzo.

* * *

Giovedì quindi ci presentammo tutti e tre al campo. Io ero ansioso di dimostrare la mia incompetenza, Steve la sua classe e Craig il suo ardore. Prima di uscire di casa aveva preparato la borsa materializzando dall’armadio un necessaire tecnico di tutto punto: scarpini tacchettati, parastinchi, calzettoni, pantaloncini e maglietta tarocca di Ryan Giggs[1]. Ma dove diavolo l’aveva tirata fuori tutta quell’attrezzatura? Mi chiedevo se i sudditi di Sua Maestà ne fossero dotati sin dalla nascita. Più banalmente io indossavo una maglietta di cotone stretch viola, pinocchietti da mare fiorati in azzurro, calzettini tipo fantasmini di spugna neri e un vecchio paio di Nike lise di cui mi vergognavo sommamente.

Quando mi vide entrare in campo conciato così Steve scosse la testa e si preparò ad una scorpacciata di risate. Anche l’allenatore Imran – che scoprii essere obbligatorio chiamare “Mister” – nel salutarmi non mancò di squadrarmi dalla testa ai piedi, e poi di nuovo su fino alla testa – dove m’ero permesso di poggiare un cappellino. «Questo lo usano solo i portieri» - disse il Mister sfilandomelo - «E tu non sei un portiere, vero?» «Non lo so, signore» - dissi cercando con lo sguardo un consiglio da parte di Craig (che scosse la testa) - «Direi di no. No, decisamente no, non sono un portiere.» «Bene ragazzi, grazie di essere venuti. Ora scaldatevi un po’ insieme agli altri con qualche giro di campo. Non forzate, le presentazioni le faremo dopo.» “Non forzate”, aveva detto. Non c’era pericolo. Al terzo giro, per quanto tentassi di tagliare gli angoli e correre più all’interno di tutti, cominciai a sputare come un lama. Dopo appena un altro paio di tornate iniziai a tossire come un tisico, e a condire gli sputi con ingenti quantità di catarro. Stavo caracollando e ciò che mi infastidì maggiormente era che Craig, invece, procedeva dritto e sereno. Sembrava non avesse neanche mosso il sudore. Quel bastardo non fumava, ovvio. Ma Steve? Diavolo, lui sì che doveva essere in difficoltà! Pur con la vista annebbiata dalla fatica e i polmoni infiammati dall’aria fresca che dovevano pompare, cercai il grasso Steve nel gruppetto della squadra ma non riuscii a trovarlo. Poi lo individuai: era in piedi di fianco all’allenatore, e chiacchieravano fitti di non so cosa. Neanche avessero in mano le sorti del mondo e dovessero decidere – lì e ora – che farne. Perché quello stronzo non correva come tutti noi? Per fortuna il Mister ebbe pietà di me e richiamò i giocatori attorno a sé per le presentazioni. Quando disse il mio nome mi sembra di ricordare che risposi al saluto della squadra sbavando una quantità abnorme di succhi gastrici sull’erba. Craig invece s’era preparato un discorsetto fatto di umiltà, impegno e sacrificio. Fortunatamente il mio piano prevedeva un’uscita in grande stile tipo “mi dispiace verrei volentieri ma il mio fegato... il lavoro...”. Insomma, confidavo che quella sarebbe stata l’ultima volta che mi avrebbero visto ad un o dalla crisi respiratoria. Di quello che facemmo dopo ricordo pochissimo, tranne che non vedevo l’ora

che finisse. Durante gli esercizi avo il tempo a fingere di allacciarmi le scarpe per saltare la fila e rifiatare. Nella partitella finale, che disputammo quando ormai faceva buio, notai che il pallone aveva uno strano comportamento: sembrava calamitato dai piedi di Steve e respinto dai miei. Lo toccai una volta che era finito fuori, ma per batterlo in campo con le mani. Scivolai anche in parecchie occasioni, dato che non avevo i tacchetti. Quando l’allenatore ci spedì a fare la doccia rispolverai antichi rituali di ringraziamento alle divinità pagane. Ma per me non era ancora finita. «Ehy Vincenzo, vieni qui» - mi chiamò Mister Imran. Aveva grossi baffi neri, capelli di media lunghezza e ben curati, altrettanto neri, e la carnagione olivastra. M’impressionava la sua mandibola, quadrata e sporgente. L’avrei visto bene in divisa militare. «Sì?» «Devi solo fare un po’ di fiato, ragazzo, ma contiamo su di te. Sei andato bene» mi disse poggiandomi una mano sulla spalla. Andato bene? Ma cosa andava blaterando? In quel momento volevo solo morire, e lui diceva che ero andato bene? Non avevo capito niente del gioco – e nemmeno degli esercizi – e lui diceva che ero andato bene? Ci avevo lasciato mezzo polmone nicotinico in quel rettangolo d’erba, e lui diceva che contavano su di me? Già, aveva detto proprio così, e dicendolo m’aveva fottuto. Non potevo tirarmi indietro subito se loro contavano su di me. M’aveva incastrato. Feci un cenno misto di ringraziamento e rincrescimento, alzando un po’ le spalle, e mi avviai agli spogliatoi. «Vincenzo, un’ultima cosa: comprati delle scarpe da calcio.»

1 Giocatore gallese in forza al Manchester United e Capitano della formazione del suo Paese.

CAPITOLO IX

Mark Ali era un tipo davvero strano, quindi era perfetto per integrarsi col resto del gruppetto. Faceva il dee-jay, o comunque lavorava in radio. Era sempre vestito all’ultima moda, ed era difficile capire come potesse permetterselo con lo stipendio dell’emittente. Il suo programma occupava la fascia di metà pomeriggio, e riusciva a finire giusto in tempo per l’apertura dei pub. S’era trovato a ripetere le stesse frasi scontate per dieci anni buoni, ed era ormai giunto ad un livello di menefreghismo impressionante. Una volta mi invitò in studio, durante una diretta, “per farci due risate”, disse – o qualcosa del genere. Feci l’errore di dirlo a Steve (non per invitarlo, semplicemente gli riferii che IO ero stato invitato). Purtroppo Steve non amava Mark. Per una questione di “cani”, mi sembra di ricordare.

* * *

Era successo tutto qualche tempo prima. Mi pare che stessimo bighellonando in una via del centro, e che qualcuno di noi stesse cercando un regalo per fare bella figura con cinque sterline. Non importa. Incontrammo Mark Ali che teneva al guinzaglio il suo cane, uno Spitz nano avvolto in un cappottino rosso. La maniera estremamente modaiola di vestirsi di Mark si scontrava fortemente con la mise anfibi-jeans corti-bomber rattrappito di Steve, che lo salutò con un: «Cazzo, è la prima volta sai che vedo un CANE con un NEGRO al guinzaglio.» Gelo. L’intolleranza razziale di Steve era nota, ma in genere la rivolgeva contro i giocatori di colore delle altre squadre, riservando una fredda indifferenza nei confronti delle persone della strada e astenendosi verso i conoscenti. Rincarò la dose, quando ancora la nuvoletta uscita dalla sua bocca non era completamente svaporata, pensando invece di correggersi:

«Voglio dire: di solito i negri fanno fatica a procurarsi abbastanza soldi per mangiare loro, figurati se si occupano di un cane.» Oh Cristo, ora si ammazzano. Mark si scagliò al collo di Steve, che non vedeva l’ora di alzare le mani. Sentii il respiro profondo del DJ caricarsi e partire all’attacco. In quell’inspirazione percepii quasi la costrizione di doverlo fare, la consapevolezza che in quel gruppo non avrebbe potuto essere altrimenti. Era rassegnazione, direi. Mi sembrò di intravedere sulla faccia di Steve un ghigno di soddisfazione mentre tirava giù per il bavero del cappotto la testa di Mark, e intanto colpiva la nuca producendo un suono sordo e secco che pareva estremamente doloroso. Il cagnolino stava impazzendo, guaendo e saltellando attorno come un indemoniato. Steve lasciò Mark dopo pochi secondi, e a tutti noi sembrò si fosse consumato un rituale. Ali si scostò un po’, sistemò sciarpa e cappotto e si ò la mano sui capelli. Poi prese in braccio il cane, ci salutò come se nulla fosse e riprese a camminare. Steve grugnì qualcosa per accomiatarsi da lui, mentre si accendeva una sigaretta con la mano che aveva appena tartassato la testa di Mark. Io non ci stavo capendo niente, ma credo che quella scena assurda avesse a che fare con le dinamiche di gruppo, il rispetto, il territorio e non so quali altre stronzate del genere. Non le avevo capite allora, e anche adesso mi sfuggono e mi inquietano.

* * *

Risalendo Queenstown Road in direzione dello studio della radio mi preoccupai di spegnere il telefono cellulare, e staccai persino la batteria, che non si sa mai. Mi accorsi che davanti a me c’era proprio Steve Campbell, e lo chiamai perché si fermasse. Forse avevamo viaggiato sin lì sullo stesso treno, senza incrociarci. Forse era solo un’improbabile coincidenza. Magari, ma purtroppo... Quando mi avvicinai mi accolse con una pacca sulla schiena ben assestata, e un sorrisone aromatizzato al malto fermentato.

«Dove stai andando?» - Domandai. «Da Mark, coglione, me l’hai detto tu, non ti ricordi?» «Hai bevuto?» «Cazzo, puoi scommetterci!» - disse a voce alta, senza nascondere una punta di orgoglio. Non avrei dovuto essere sorpreso, ma ingenuamente pensavo fosse opportuno presentarsi in radio sobri, per correttezza. In fondo Mark era lì per lavorare... Mi sbagliavo, e Steve aveva ragione. Mi accorsi che portava una busta di carta con dentro sei lattine di birra grandi, e cominciai a preoccuparmi che potesse farci cacciare dallo studio. Mi sbagliavo, l’ho già detto? La segreteria della radio era sguarnita (avrei scoperto più tardi che la segretaria era stata sostituita da un sistema di risposta automatico di e-mail e da un risponditore su micro-cassetta) e l’aria lì nella prima saletta puzzava di chiuso e cavi elettrici riscaldati. Avrei rimpianto quella salubre aria una volta entrato in studio. Dalla sala di controllo intravidi Mark Ali attraverso il vetro. Dico “intravidi” perché il cristallo sembrava molto sporco. Ma mi sbagliavo ancora. Là dentro la nebbia era creata da un fumo denso e stratificato. Mark mi aspettava con le cuffie al collo, i piedi sul tavolo e una canna in bocca. Quando vide che eravamo in due certamente un brivido gli corse lungo la schiena, ma ci fece ugualmente cenno di entrare, mentre tirava forte accendendo la brace rossa. Guardò Steve in maniera neutra, ma sembrava sul chi vive. Sempre per una questione di rispetto (e per evitare una gragnola di pugni, credo) non poteva certo cacciarlo. Avrebbe dovuto fare buon viso a cattivo gioco, e stare attento a non andare fuori dalle righe. «Venite ragazzi» - ci disse. «Ho portato il carburante Al» - esordì Steve, con un tono cameratesco che nei confronti di Mark suonò molto forzato. S’inventò di sana pianta anche il soprannome “Al”, che non fece altro che denotare distacco. Chi ti conosce davvero non ti chiama con un soprannome che nessuno ha mai usato, no? Ci stringemmo la mano, poi il dee-jay ci invitò a sederci e fece un cenno col capo ai tecnici del suono e della regia che stavano prendendo posto di là dal

vetro. «Facciamoci un goccetto prima di iniziare» - suggerì, tirando fuori da un cassetto una bottiglia di scotch bevuta a metà e andocela. Ali iniziò la trasmissione con un breve singulto, mentre ingoiava un secondo sorso di whisky. «Buon pomeriggio amici, benvenuti in compagnia di DJ Ali per altre due ore da are insieme!» - E continuò così per un paio di minuti, fino a lanciare la prima canzone. Appena partita la musica alzò le cuffie e disse: «Che palle. Ormai vado in automatico. Sempre le stesse minchiate» - e cominciò a rullare una cartina. Nonostante la droga, che l’unico 100% britannico in studio riteneva una cosa da “froci debosciati”, Steve sembrava perfettamente a suo agio - e decise che fosse arrivato il momento di piazzare i suoi sudici anfibi sul tavolo. Nel farlo, con la consueta delicatezza, provocò una forte vibrazione nel microfono in cui Mark stava blaterando qualcosa – causando un momento di silenzio nella trasmissione. Ali non si scompose, e continuò a parlare come se nulla fosse successo. Gli ascoltatori avrebbero pensato ad un aggio a vuoto della propria radio. Steve riuscì a soffocare una risata solo per qualche secondo, poi la lasciò rimbalzare nello studio quando partì la seconda canzone. Mark raccolse il canuto dal posacenere, e lo aspirò. Poi, con la voce ingrossata dal fumo e gli occhi strizzati, disse: «La cosa incredibile qui è che non ti sta ad ascoltare nessuno. Sentono, non ascoltano. Ora vedrete.» Io e Steve ci guardammo con aria interrogativa, per quanto fosse possibile esprimere con le nostre facce da coglioni un simile sentimento. Si arono ancora un giro di whisky e aspettammo che Mark tornasse in onda. «Siete sempre su radiononsocosa e io sono Mark Ali. Questo pomeriggio lo stiamo ando ascoltando delle canzoni come sempre e come sempre io vi sto parlando senza capirci molto e comunque speriamo vi stia piacendo la musica che stiamo ando e che compriate le robacce che pubblicizziamo. Ora un altro disco.» Disse proprio così. Ma noi eravamo già un po’ fuori, e non ci parve tremendo.

«E allora?» - Fu Steve a rompere il silenzio. «Come ‘allora’? Cazzo, non ho detto niente!» «Voi cazzo di DJ non dite MAI un cazzo di niente. Non dovevi farci vedere qualcosa?» Il fatto che non avesse chiosato con “brutto arabo del cazzo” o “maledetta scimmia fumatrice” mi parve incoraggiante. «Ma non hai sentito? Ho usato sempre lo stesso tono e... Lascia stare. Volevo farvi vedere che di là dal vetro non si sono accorti di nulla, e vedrai che nessun radioascoltatore chiamerà per lamentarsi.» «Cristo Mark, non capisco. Lamentarsi di cosa? Al massimo cambieranno stazione pensando che sei un po’ moscio. Punto. Ma la musica che metti è buona, brutto stronzo. Questi chi sono, i Travis?» - Disse Steve alzando il dito indice verso l’alto, come a cercare la giusta concentrazione. «I Coldplay. Ok, se quello di prima v’è sembrato normale, ora sentite questa.» A me, in effetti, era sembrata più o meno la solita inconcludente tiritera di ogni dee-jay del mondo, inclusi quelli trattati come star. Ma ora ero curioso di sentire cosa avrebbe inventato Mark, che sembrava anche un po’ alterato dalla massiccia presenza di hascisc nell’ambiente. Forse non avremmo dovuto farlo fumare, o farlo ubriacare. Ma che dico?!? Era stato lui a farci fumare, era stato lui a tirare fuori lo scotch. Quindi se l’era cercata. Dai microfoni Mark si lanciò in un’invettiva anti-inglese che fece accapponare la pelle persino a me. Non so cosa gli prese, era incomprensibile perché avesse scelto l’infelice presenza di Steve per spalare merda sui londinesi. Ok, quella era una radio prevalentemente per immigrati, ma in studio in quel momento c’era un figlio dell’East End sbronzo! Credo che Mark non abbia nemmeno fatto in tempo a dire trenta parole. Steve scattò in piedi come una furia, quasi si arrampicò sul tavolo nella foga, con la bocca a schiumare rabbia e malto. Di là dal vetro rimasero allibiti, e quando entrarono nello studio Mark aveva già ricevuto abbastanza pugni in faccia e calci al torace da perdere i sensi. I due

tecnici strattonarono Steve che – soddisfatto della punizione inflitta – si lasciò scollare dalla schiena di Mark sulla quale stava infierendo. Lo cacciarono fuori dalla porta, e io non fui in grado di fare nulla. Mi ero limitato a scattare in piedi e cacciare un urlo acuto e stridulo, ma non avevo fatto altro. Inebetito, lì in piedi con la bottiglia tenuta su dal collo, mi limitai a bofonchiare: «Scusate il casino. Oh, tutto ok Mark? Mi dispiace, ci si vede, eh?» - E infilai la porta. “Tutto ok Mark????” Come cazzo m’era venuto in mente di chiedergli se andava tutto bene? Avevo davanti la sua maschera di sangue, avevo sentito le sue costole scricchiolare sotto i colpi dello stivale di Steve, avevo sentito i suoi gemiti di sofferenza. Dovevo essere impazzito. Scendendo le scale mi tremavano le gambe. Sarà stato per il fumo, o la tensione, ma appena uscito dalla porta vomitai nel cortiletto interno. Qualcosa scivolò di sotto attraverso una grata. Mi pulii con la manica del giubbotto, e – fissando la bottiglia che avevo ancora in mano – mi sorprese un nuovo conato. Frantumai il vetro gettandolo contro un muricciolo. Quando uscii in strada vidi Steve poco lontano, appoggiato ad un palo che stava fumando. Non volevo credere che fosse ancora lì. Non avevo voglia di vederlo, di parlargli. Non avrei voluto fosse mai entrato nella mia vita, in quel momento. Per un attimo pensai di far finta di nulla, pensai di girare subito l’angolo e non farmi trovare per un bel po’. Pensai anche di andarmene dalla casa di Napier Road. «Vincenzo!» Cazzo. Si diresse verso di me e io, controvoglia, lo attesi. Non dissi una parola. «Chissà cosa gli avrà preso...» – disse, con gli occhi alle finestre dell’edificio, come se in quello studio ci fosse stata una sola persona ad andare sopra le righe. Sentimmo avvicinarsi le sirene dell’ambulanza. «Vieni» - mi prese per un braccio - «andiamo da qualche parte.»

«Non mi va» - cercai di divincolarmi - «ho appena vomitato.» «Non fare lo stupido» - sibilò strattonandomi - «devo parlarti. È importante.»

* * *

Non posso nascondere che incamminarmi verso la metropolitana a fianco di quel bruto mi fe correre un brivido lungo la schiena. Mi sentivo colpevole, completamente colpevole, per quel che era successo. Ero stato io a dire a Steve che sarei andato da Mark, attirandolo quindi dentro lo studio – io, novello Cavallo di Troia. Avevo anche un po’ di paura, a dire la verità. «Sei preoccupato per quello che è successo là dentro, eh?» Non me la sentivo di applaudirlo per la perspicacia, dopo che mi aveva visto vomitare l’anima. Non aspettò la mia risposta e continuò: «Stai tranquillo, è tutto a posto.» «Non mi sembra che Mark possa dire altrettanto» - mi azzardai a dire. «Ti dico che è tutto a posto, non ti preoccupare. Senti, non l’ho picchiato per quello che ha detto, non sono mica un animale. Si meritava quella lezione, tutto qui.» Non riuscivo a capire come potesse Mark meritare quella massacrata da Steve, che lo conosceva appena. «Ma se vi sarete visti dieci volte nella vita... Come ha fatto a meritarsela...?» Obiettai. «Vedi Vinnie, a volte se caghi fuori dal vaso ti va bene perché qualcuno pulisce per te, o nessuno se ne accorge. Altre volte, invece, sporchi il cesso sbagliato. Ecco cos’ha fatto Ali.»

«La tua sottile metafora non mi avvicina alla spiegazione.» «Quell’arabo di merda ha tentato di vendere della droga al nipote di Lucas. Lucas l’ha scoperto e mi ha chiesto di fare qualcosa. Io ho fatto qualcosa. Punto e basta. La questione è chiusa qui.» Lo disse come se Lucas gli avesse chiesto di impostare una lettera per lui, ma in effetti nel sistema di valori del Signor Campbell questa spiegazione filava abbastanza. «Quindi se l’è cercata, eh?» - dissi, cercando di leggere fra le pieghe quanto potesse irritarlo il fatto che ogni tanto mi fi qualche cannetta a casa sua. «Oh, sì, puoi dirlo forte! Quello stronzo ci aveva già provato, e io l’avevo già avvertito. Ti ricordi quando l’abbiamo incrociato per strada, con quel suo cane da finocchio? Ecco, lì. Lì l’avevo avvertito di lasciar stare il nipote di Lucas, ma evidentemente non ero stato chiaro. Stavolta spero abbia capito che deve smetterla di fare il coglione.» «Se me l’avessi spiegato così a me, io avrei capito» - feci gli occhi dolci e mi ripromisi di stare più attento ai segnali lanciati da Steve, soprattutto per la mia integrità fisica. «Bravo.» «Ma perché sei venuto proprio qui questa mattina?» «È una lezione pubblica. Lo ricorderà meglio. E poi è andata bene anche a lui: per strada avrei potuto ammazzarlo senza tanti complimenti. Lì mi sono limitato, avevo poco tempo.» Vidi una goccia di sangue sulla punta del suo stivale e mi venne istintivo proteggermi le palle con la mano. Tentai una disperata operazione di lavaggio di coscienza: «Quindi posso pensare che sia stata una fortuna averti detto che andavo allo studio radiofonico...» «Hey Vinnie, ho capito. Sei preoccupato perché credi di avermi portato da lui.

Beh, non è così amico, stai tranquillo. Lui sapeva che sarei venuto. Anzi, forse ti ha chiamato proprio per avere un testimone, o nella speranza che la tua presenza mi bloccasse.» «Beh, non pare aver funzionato» - dissi, comunque sollevato. «Non molto. Ma gli va dato atto di averci provato.» Scendemmo le scale della stazione. Mentre mi consideravo fortunato per essermi sempre tenuto alla larga da certe logiche di gruppo, codici d’onore e minchiate varie, i miei pensieri furono interrotti da Steve. «Comunque non è per questo che ti volevo parlare» - disse. «Ah no?» «No.» «Ok, e di cosa quindi?» «Domani viene da noi mio padre.»

CAPITOLO X

Per il giorno dell’arrivo eravamo schierati al gran completo al binario quattro della stazione di Paddington. Craig ed io proteggevamo lateralmente Steve, che aveva tanto di cartello con su scritto “Mr. Campbell”. Quando lo vidi uscire di casa con quello in mano sorrisi, perché m’ero fatto l’idea che si trattasse di una specie di scherzo per solleticare lo humour inglese del padre. Ma, una volta giunti al binario, notai che Steve teneva DAVVERO troppo bene in vista il cartello. Così mi azzardai a domandargli: «E quello? Hai paura che non ti riconosca?» «È da parecchio che non ci vediamo» - troncò, non senza un accenno di vergogna. Meglio chiudere il discorso e aspettare. Certo, il quadro che m’aveva dipinto il giorno prima non era idilliaco, però quale figlio non ha contrasti – anche forti – col padre? Probabilmente stava drammatizzando, sperai. «A proposito, come si chiama tuo padre? Sai, quando mi presento sono troppo concentrato a non sbagliare il mio nome per prestare attenzione all’altro» intervenne Craig. «Si chiama Ascot. Ascot Campbell.» Ascot. Ero convinto si trattasse di una marca di giacche di tweed, o robe del genere. Il padre di Steve viveva a Plymouth, dove aveva deciso di installarsi quando non era in mare. Faceva il marinaio, anche se non giurerei che si dica ancora così, oggi che i marinai sembrano operai che lavorano in fabbriche sull’acqua, anziché sulla terra. Comunque, il signor Campbell aveva iniziato ad andar per mare quando per arrivare in India si doveva ancora circumnavigare l’Africa, perché il Canale di Suez non era stato aperto. Ora che era in pensione aveva la sua barchetta con cui uscire in mare per pescare qualcosa per cena, e i suoi scacchi. Giocava a scacchi continuamente, spesso da solo. Anzi, quasi sempre da solo. Steve ci spiegò che il padre voleva assolutamente vivere in un grande porto dell’Inghilterra e aveva scelto Plymouth - al ballottaggio con Dover

- perché diceva di non poter fare a meno dei gabbiani, ma di non sopportare l’idea di intravedere le coste della Francia in una giornata limpida. Quando le porte del treno si aprirono con un soffio, individuai il vecchio Ascot Campbell prima del suo stesso figlio. Con i piedi sul predellino sporse il torace fuori dal treno, scrutando l’orizzonte con la mano sopra la fronte. Ovviamente non c’era nessun raggio di sole dal quale proteggersi, ma quel gesto rivelava il suo animo marinaresco persino più della cuffietta da nostromo e della sacca monospalla in cui teneva la sua roba. Quando anche lui ci vide fece un cenno con la testa che tradì la stizza per essere stato accolto. Si avvicinò puntando il suo sguardo oltre le nostre spalle, poi sul cartello, poi ancora oltre. Giunto alla nostra altezza rallentò impercettibilmente per consentirci di affiancarlo, e proseguì. «Pensi che non sappia arrivare fino a casa?» - Disse, rivelando una voce raschiata dal fumo e dal vento. «Mannò, papà, cosa dici... Volevo farti conoscere i miei amici, tutto qui.» «Begli amici che ti scegli, un tontolone e un mangiapizza.» Come diavolo faceva a sapere che ero un mangiapizza? Si capiva così bene dalla faccia? Pensai che forse la sua esperienza di genti incontrate in giro per il mondo l’avesse reso estremamente sensibile nel riconoscere le provenienze delle persone, e mi consolai. A Craig poi era andata anche peggio: l’aveva chiamato “tontolone”, senza bisogno di sapere che era ADDIRITTURA gallese. Steve ci guardò implorando perdono, ma non seppi se concederglielo quando avvertii che il suo tono di voce s’era alzato di un’ottava, e arricchito di fregi e moine da far accapponar la pelle. Stava letteralmente strisciando: «Hai fatto buon viaggio, papino? Vedrai, in un quarto d’ora saremo a casa.» «Il viaggio è stato uno schifo. E cosa credi, che sia rincoglionito? Siamo dall’altra parte della città, ci vorrà almeno un’ora ad arrivare alla tua stamberga.» Al vecchio non la si dava a bere, e la colorazione del viso di Steve era già ben oltre il pomodoro maturo. Per la prima volta qualcuno teneva sotto scacco il nostro hooligan e io ammiravo già quel vecchio catarroso di Ascot, anche se m’aveva dato del mangiapizza.

Ci infilammo, comprimendoci ben benino, sulla Mini di Steve, tutta blu ma con la bandiera inglese disegnata sul tetto. Attenzione, non la bandiera britannica, la famosa Union Jack, no. Era proprio la bandiera inglese, quella bianca con croce rossa. Per lui la Union Jack era una maniera di svilire il proprio vessillo unendolo a quello di scozzesi, gallesi e nordirlandesi. Puah! Arrivammo a casa senza incidenti, ma il vecchio s’era tenuto stretto alla maniglia sul tettuccio per tutto il viaggio, con la sacca sulle ginocchia. Aveva inveito praticamente contro chiunque, compresa un’anziana che aveva osato tardare qualche secondo nel completare l’attraversamento pedonale sulle strisce. Quando entrò in casa mostrò il suo gradimento per l’ambiente: «Gesù santo figliolo, che puzza tremenda c’è qui dentro! Ti si sta decomponendo il gatto sotto il letto? Apri quelle dannate finestre prima che muoia asfissiato!» Ero certo che Steve volesse lasciarle appositamente chiuse, ma poi cedette all’istinto filiale e le aprì. Ascot abbandonò la sacca sul divano. «Immagino che tocchi a me dormire qui.» «No papà» - rispose un mansueto Steve - «ci starò io. Tu puoi prendere la mia stanza.» Una smorfia di quella faccia di terracotta fu tutto quello che ottenne per ringraziamento. In effetti quel viso non era facilmente intellegibile: la pelle era bruciata dal sole e crepata come un campo riarso. Le labbra praticamente non esistevano, ridotte a due fili sottili sotto ad un naso grosso e tozzo, da pugile. La barba incanutita disegnava un giro strano attorno ai contorni rotondi della faccia. Ascot riprese la sacca e, prima di infilare il corridoio, rivolse al cuore-inbarattolo uno sguardo di profondissimo disprezzo. In tutto questo Craig ed io non c’eravamo ancora presentati, ma lui ormai era sparito in camera sua. Ci sedemmo sul divano fissando la tv spenta. «Che ne pensi?» «Che sarà una dura settimana, “tontolone”» - risposi, caricando il simpatico

epiteto col quale Ascot aveva bollato il mio amico. «Maledetto mangiapizza, me la pagherai» - rispose Craig simulando la voce di un vecchio marinaio. Sghignazzammo facendo sussultare le nostre gabbie toraciche e scuotendo la testa. Poi sentimmo dei i avvicinarsi e ci zittimmo di colpo. Girammo la testa all’unisono, per scoprire che era “solo” Steve. «Cristo ragazzi, sarà un mese pesante» - sospirò, andando a chiudere le finestre. La mandibola di Craig cadde sul pavimento. Io sperai di aver capito male. «Un mese? Ma s’era detto una settimana!» «Temo si tratti di un mese» - allargò le braccia Steve - «Mi pare d’aver capito ci sia un torneo di scacchi qui in città, e il mio vecchio non se lo vuole perdere.» Mi ai la mano fra i capelli un paio di volte. Ero abbastanza pronto per bestemmiare. «Magari puoi portare tuo padre da tuo figlio. Potrebbe fargli piacere vedere il nonno.» «Oh, a Philip forse, chissà. Ma mio padre odia quel ragazzo, perché pensa sia il segno del mio fallimento. Odia quella puttana di sua madre, che m’ha incastrato, e odia me, per averlo generato.» «Un ottimo quadro. Ritiro la mia idea e me ne vado in camera» - chiosai, alzandomi. «Io ho il turno, è meglio che vada» - si affrettò ad aggiungere Craig (che non aveva il turno). «Mi lasciate solo ragazzi?» «Non sei solo» - risposi diabolico - «c’è il tuo papino.»

* *

Il giorno dopo a svegliarmi fu un borbottio di fondo che non capivo da dove venisse. Non era la caffettiera, ne ero certo. Erano le cinque del mattino, e l’enigma doveva essere risolto prima di tornare fra le coperte fino, almeno, alle otto. Aprii la porta della stanza e cominciai a distinguere provenire dal piano di sotto gli accidenti che la voce ringhiosa di Ascot stava lanciando senza sosta. Mi ai spazientito una mano sul viso, quando sentii aprirsi anche la porta di Craig. «Lo senti anche tu?» «Va avanti da mezz’ora» - mi disse. «Ma in salotto non c’è Steve?» «Forse è ubriaco. O forse è morto.» Fosse morto non farebbe rumore, pensai, scartando l’ipotesi di Craig. Comunque Steve non era né ubriaco né morto, ma semplicemente un figlio succube. Non l’avevo mai visto in piedi a quell’ora (anche perché probabilmente io stesso non lo ero mai stato) ma adesso stava addirittura tentando di preparare una colazione per il padre. Era bastato sporgermi un po’ per scorgere quella scena surreale: il vecchio era già vestito, con una micro-scacchiera davanti mentre il figlio – in boxer e con la faccia gonfia di sonno – stava armeggiando in cucina. Ascot non sembrava per nulla riconoscente dello sforzo e, anzi, stava intensificando e alzando di volume il borbottio. «Tutto bene là sotto?» - Feci scivolare giù dalle scale la mia voce. Il borbottio si interruppe di colpo. Risalii qualche gradino cercando di essere più silenzioso di un ninja. Nessuna risposta. Mi rivolsi con lo sguardo a Craig, che aveva la testa appoggiata allo stipite della sua porta, senza ottenere da lui che una scrollatina di spalle. Il rumore comunque era cessato, e tornammo a letto.

Quando fu davvero ora di alzarsi, l’episodio delle cinque aveva assunto i contorni sfumati dell’allucinazione. Di sotto non c’era nessuno, tranne un bigliettino di Steve che diceva che era andato a fare la spesa. Povero Steve, aveva davvero bisogno di comunicare. Solitamente i suoi spostamenti erano imprevedibili quanto quelli di un gatto randagio. Sentii alzarsi anche Craig. «Buongiorno tontolone» - lo apostrofai. Ci mise un attimo a collegare. «Ok, può bastare mangiapizza. Devo dedurre che il vecchio pazzo sia uscito?» «Sì, e sicuramente il sole doveva ancora sorgere.» «Tu non sai quanto abbia imprecato nel mio letto stamattina» - dolce, caro Craig: disse proprio “imprecato”. «No, ma posso immaginarlo. Io credo di aver riato tutti i santi del calendario.» Ci sedemmo per fare colazione, ingobbiti sulla tazza di tè. Craig non la smetteva di stropicciarsi gli occhi. «Quando sei di turno oggi?» - Mi chiese. «Oggi pomeriggio. Scusa, ma non siamo assieme?» «Può darsi. Non ricordo, dopo ci guardo. Che fai stamattina?» «Boh. Prima pensavo di dormire ma ora credo sia più saggio non attendere il ritorno di Steve. Non ho nessuna voglia di fargli da spalla su cui piangere o – peggio – da punching ball.» «Giusto. Mi accompagni a prendere qualche libro?» «Ok, se tu mi accompagni a prendere le scarpe da calcio.» «Ma allora ti sei deciso a continuare?»

«Non lo so ancora, ma il Mister mi ha incastrato. Ha detto che contano su di me, e che sono andato bene.» Craig fu gentile a celare tutto il suo scetticismo e la sua incredulità per le parole di Imran dietro ad una bella sorsata di tè. Ci provò, almeno, ma da sopra la tazza i suoi occhi mi stavano dicendo abbastanza. Ero conscio dei miei limiti, e apprezzai il suo tatto in silenzio. Uscimmo nella mattina uggiosa diretti in Oxford Street, dove avremmo trovato sia libri che scarpe. Decidemmo di recarci direttamente al lavoro, per rientrare solo in nottata. Quando tornammo a casa eravamo più leggeri di qualche sterlina, ma Craig aveva un sacchetto di Waterstone’s pieno di libri e io uno di Sport24 con una bella scatola rossa. In salotto Steve era appiattito sul divano, mentre il padre stava giocando a scacchi solitario – sulla sua mini-scacchiera magnetica – e borbottando, of course. Campbell junior ci accolse festante come non ci capitò mai più di vederlo. Si alzò dal divano e ci venne incontro con tanto trasporto che quasi mi scappò di abbracciarlo. «Bentornati ragazzi, com’è andata la giornata? Tutto ok al lavoro? Cosa avete comprato?» Sembrava una mamma apprensiva. Ascot invece non aveva nemmeno sollevato lo sguardo. Mi ricordai che ufficialmente non ci eravamo neppure presentati, ma considerai la pratica ormai archiviata. Craig cominciò ad estrarre uno ad uno i libri che aveva comprato. Io stavo attendendo con pazienza il momento di sfoderare con orgoglio le mie scarpe nuove. Molto opportunamente, dal sacchetto di Waterstone’s spuntò anche Febbre a 90, un fantastico classico di Nick Hornby sul mondo del calcio, e sulla sua vita di tifoso dell’Arsenal in particolare. Era l’imbeccata che aspettavo. «Ed ecco qui» - esordii trionfale, convinto di sentire in sottofondo un rullo di tamburi - «i miei nuovi gioiellini!»

Nel dirlo, aprii la scatola rossa come fosse uno scrigno. E in effetti, qualcosa dentro brillava, eccome! Erano delle Puma color oro con rifiniture azzurre, una creazione celebrativa della quarta Coppa del Mondo conquistata dall’Italia a Berlino. Sulla suola c’erano quattro stelle, e sulla linguetta il Tricolore italiano. Uno dei modelli francamente più pacchiani che si fossero, sino a quel momento, mai visti[1]. Fra l’altro, m’erano costate una cicca perché in Inghilterra delle scarpe che ricordassero agli inglesi che non sollevavano la Coppa da quarant’anni non è che avessero avuto grande successo. Craig, che aveva cercato in ogni modo di consigliarmi qualcosa di più sobrio, scoppiò a ridere. Steve rimase interdetto, ma in quel momento non era abbastanza sicuro di sé per cominciare ad offendermi. «Che cazzo è quella roba? Sei una checca di ballerina o cosa?» Riconobbi lo stile Campbell, ma stavolta a parlare era stato il padre. Poi rincarò la dose: «Sono dorate, Gesù Santo, dorate! Dove pensi di giocare al calcio, in un salone da ballo? Steve, il biondino qui è frocio o soltanto un esibizionista?» Fui sorpreso dall’uso della parola “esibizionista” molto più che dall’ottusità di tutto il resto. Quanto al fatto che l’essere gay avrebbe potuto impedirmi di giocare a calcio mi sembrò una baggianata assoluta. Lo sono un bel po’ di giocatori di livello mondiale, anche se nessuno è disposto ad ammetterlo. E allora? In ogni caso, non sapevo cosa replicare. C’era una risposta giusta? Mancavano ancora ventinove giorni di convivenza col marinaio da strapazzo, avrei potuto dirgli “Senti vecchiaccio, lezioni di gusto da uno che va in giro con una camicia di flanella a quadri dentro i pantaloni di fustagno blu non le prendo. E poi che ne sai di calcio, se quando eri giovane tu non l’avevano ancora inventato?” Avrei potuto? Avrei potuto, ma non sarebbe stato affatto salutare. Così decisi per un molto più diplomatico “tutti i gusti sono gusti” che snocciolai in perfetto inglese e rafforzai con la versione latina “de gustibus non disputandum est” tanto per scavare un solco culturale piuttosto netto fra il marinaio e me. Infine, soddisfatto, chiosai con un razionalissimo “costavano poco e mi stavano comode” che avrebbe stroncato anche un toro. Un toro, forse, ma non un lupo di mare.

«Come vuoi ballerina. Steve mi ha detto che domani avete allenamento, staremo a vedere come te la caverai con quei lingotti ai piedi.» Eccheccazzo. Sarebbe venuto anche lui a vederci? Mi domandai se al negozio avrebbero accettato indietro le scarpe.

* * *

Il giorno seguente Craig lo ò sfinendomi in una lunga opera di persuasione per convincermi a non rinunciare al Bari FC. Ebbe successo, ma non completamente per merito suo: avevo già chiamato Sport24 e avevano detto che non facevano cambi sui prodotti in offerta. Pur di non tenermi le scarpe dorate intonse, le avrei usate per sfidare i miei polmoni in una gara di resistenza. Mi bastava sopravvivere un tempo sufficiente a vedere Ascot restare a bocca aperta davanti alle mie qualità calcistiche, poi avrei lasciato questo mondo di sofferenza in pace. Va subito detto che persi disonorevolmente la sfida, almeno quel giovedì. Il mio fiato durò quattro giri di campo. Poi fui costretto a dissimulare un problema muscolare per saltare tutti gli esercizi più faticosi e rientrare giusto in tempo per la partitella. Ma fu un fiasco pazzesco. Non avevo mai indossato scarpe da calcio vere, e i tacchetti sembravano messi lì apposta per inchiodarmi al terreno. Facevo una fatica tremenda in qualunque movimento. Così conciato risultavo ancora più lento del normale, il che praticamente faceva di me un giocatorereplay. Mi muovevo al rallentatore, e credo che fu in quell’occasione che i simpatici compagni di squadra presero a chiamarmi “Slow-motion”. Uscendo dal campo per raggiungere la doccia giocai la carta della disperazione: mi massaggiai teatralmente il bicipite femorale (la parte posteriore della coscia, profani) fingendo smaccatamente di aver giocato infortunato. Il marinaio, unico spettatore del nostro allenamento, non se la bevve nemmeno per un secondo e – prima che entrassi negli spogliatoi – fece in tempo ad apostrofarmi con gentilezza: «Sei una schiappa biondino.»

Una volta sotto la doccia ci pensò Steve a rincarare la dose. «Beh, Vinnie, sembra che quelle cazzo di scarpette da ballo non ti abbiano aiutato molto, eh?» - Disse, per poi cacciarsi a ridere. Ah ah ah, grasse risate. «Sono solo un po’ fuori forma. Magari dovrei smettere di fumare.» «O magari smettere di giocare» - ah ah ah, di nuovo. Craig fu più umano: «Sì, vedrai che quando starai bene fisicamente ti verrà tutto più facile. Se vuoi andiamo un po’ a correre quando non abbiamo il turno.» «Ecco, sì, magari sì» - mentii. Neanche per sogno, pensai. «Vedrai, ci vorrà solo un po’ di tempo, e quello non ci manca.» Certo, come no. «Ragazzi, un attimo di attenzione» - era il Mister a parlare - «Ho appena ricevuto il calendario dell’Indipendent Sunday League: cominciamo la settimana prossima.» Tombola. Naturalmente tutti gli altri erano entusiasti, ma io sapevo che, presentandomi in quelle condizioni, sarei stato destinato al ruolo di scaldapanchina titolare, con delega al tè caldo e al ghiaccio spray. Fra l’altro, la Lega Indipendente della Domenica era un campionato pensato per stroncare moralmente e fisicamente le riserve: si giocava la domenica mattina presto, e l’inizio delle partite corrispondeva con l’inizio della stagione fredda. Avrei fatto meglio a comprarmi un bel giaccone caldo anziché le scarpe. «Grandioso» - sentii mormorare Steve, sotto la doccia. Ma il suo tono non era di vera soddisfazione. «Che c’è da brontolare?» - Chiesi - «A te il posto non lo toglie nessuno.» «No, ma vorrei che qualcuno lo togliesse a “quelli”.» Indicò con un vago gesto della testa praticamente tutto lo spogliatoio, dove gli

altri stavano cambiandosi. «Cosa vuoi dire?» «Quei negri sono delle schiappe, Vinnie. Quasi peggio di te.» «Cristo santo! Sono i tuoi compagni! Come puoi parlare così?» Ero indignato ma, ovviamente, cercai di non alzare la voce. «Cosa posso farci? Abbiamo colonizzato l’India, è vero, ma ci siamo scordati di insegnargli a giocare a football. E, a quanto vedo, anche in Sudan e Sierra Leone abbiamo portato altro...» «Stai dicendo delle idiozie.» Stavo andando su di giri ma, nudi sotto la doccia con un panzone inglese, è sconsigliabile alzare i toni. «Sto dicendo la verità, solo che ti secca ammetterlo» - replicò serafico. «Forse non te ne rendi conto, caro il mio colonizzatore, ma qui la minoranza SEI TU.» Sembrò accusare il colpo, e ne volli approfittare. «Nel caso non te ne fossi accorto, sono LORO ad aver accettato TE nella squadra, non il contrario. Sei tu il diverso, qui.» Steve mi guardò freddamente, ma potrei giurare che stesse almeno cercando di pensare. Ci voleva il colpo del KO. «Guarda bene. Sono i nostri compagni di squadra. Sono uguali a noi. Uguali identici. Hanno sudato proprio come noi oggi. Si sono impegnati, si sono divertiti, hanno fatto cose giuste e cose sbagliate, proprio come noi. E ora andranno a casa, ognuno dalla propria famiglia. Esattamente come noi. Solo che a noi ci tocca Ascot.» Scrollò le spalle e chiuse la doccia. Se non altro non aveva replicato, e lo presi come un segnale positivo.

Di ritorno a casa nessuno aveva molta voglia di parlare, poi fu Craig a rompere il silenzio (in realtà il silenzio non era mai totale, perché Ascot borbottava fra sé e sé ininterrottamente): «Non vedo l’ora ragazzi, domenica giochiamo!» - Disse, caricando la frase di entusiasmo ben oltre il lecito. «Parla per te» - risposi - «io al massimo scalderò la panchina.» «Ci mancherebbe altro» - sputacchiò con la sua voce rugginosa il vecchio. Ero già contento di aver ridotto al silenzio il figlio: non mi rimanevano le forze per contraddire anche il padre. «Dai Vinnie» - riprese Craig - «la stagione sarà lunghissima, vedrai che giocherai.» «Certo, come no. Potrei tentare di fare una macumba a sette-otto di voi per ottenere il posto» - scherzai. «Non scherzare sulla macumba, biondino!» - Almeno non mi chiamava più mangiapizza - «Una volta stavamo navigando verso i nostri possedimenti dell’Africa Nera, ma fummo costretti a fermarci in Gambia per un problema alla nave. Beh, ci fecero una macumba quelli, ve lo dico io! E non c’è niente da ridere... Tutto iniziò...» Non riuscii a seguire la storia che, fra sortilegi malvagi ed eroiche imprese, ci accompagnò fino a casa e per buona parte della cena.

1 Negli anni a venire colori e modelli da calcio spostarono sempre più in alto l’asticella del cattivo gusto e della pacchianeria, ma allora non potevo certo saperlo.

CAPITOLO XI

Il marinaio non aveva perso l’abitudine di svegliarci a suon di imprecazioni ben prima che il sole sorgesse. Eravamo talmente incazzati che ottenemmo da Steve di non pagare il mese d’affitto per evitare un marinaicidio. Craig ed io riuscimmo anche a farci spostare i turni di lavoro quasi tutti al mattino. Li odiavamo, ma almeno avrebbero conferito un senso alla sveglia delle cinque. Radersi la faccia, ancora ingenua e impreparata al contatto con la lametta così presto, era drammatico. Non mancavamo di presentarci al ristorante rappezzati di pezzettini di carta igienica o cotone emostatico perché ci sbarbavamo dormendo. Mi stavo convincendo che stessimo accumulando crediti per la santità, ma Craig al riguardo era piuttosto scettico. Comunque Ascot continuava ad andare alle partite di scacchi e a vedere i nostri allenamenti; Steve invece era mansueto come un agnellino e impegnato nel ruolo di bravo figliolo. Domenica il Bari FC avrebbe esordito in campionato, presumibilmente con Craig al centro della difesa, Steve al centro del campo ed io al centro della panchina. Nei pochi momenti in cui coincidevamo tutti in casa non si parlava d’altro. Venerdì sera, incredibile ma vero, Steve diede una cena in casa, invitando il solito gruppetto. Il suo concetto di “cena” era un po’ particolare, in quanto prevedeva solo bevande alcoliche, qualche cetriolino e patate fritte. Nessuno degli invitati mosse alcun appunto all’offerta, però: c’erano Lucas Wright, Joshua Ellis, Ferdinand Butler e noi quattro, visto che Ascot aveva pensato bene di rimanere in casa (a borbottare contro la qualità dei cetriolini, credo). Joshua e Ferdinand erano colleghi in fabbrica, e praticamente non avevano visto altro che Londra Est nella vita. Da come parlavano della zona ovest sembrava davvero non ci fossero mai stati. Comunque, non erano mai andati fuori dall’Inghilterra, questo è certo. Joshua, che era ebreo, vagheggiava spesso di un suo prossimo viaggio in Israele, anche se ne parlava da almeno quattro anni. Aveva più di trent’anni, ma non so quanti ne mancassero ai quaranta. A giudicare dalla faccia, non molti. Era secco e scavato, e spesso sembrava si stesse mordendo le guance per risucchiarle all’interno. La sua ipocondria era per noi

fonte di grande divertimento: alternava un sorso di birra ad una spruzzata di Sudafed, lo spray per la gola più economico del mercato. Ne consumava a tonnellate, e sono certo fosse la sua più grande fonte di spesa mensile. Se non altro, questo permetteva a Joshua di odorare sempre di menta. Penso fosse intimamente convinto di essere un genio del calcio dato che, pur esprimendo le sue opinioni con pacatezza, non mancava mai di sottolineare la ferrea logicità delle sue affermazioni. In questo si accompagnava benissimo a Ferdinand, che avrebbe dato un braccio per giocare un solo minuto di Premier con la maglia del West Ham. Ci aveva anche provato da piccolo, ammesso che piccolo lo fosse stato mai: era alto quasi due metri e pesava, a spanne, almeno un quintale e mezzo. Era mastodontico, e anche da bambino – diceva – era stato sempre piuttosto grosso. Avrebbe dovuto darsi al rugby, ma lui continuava insistentemente a pensare che solo il calcio fosse uno sport. Aveva la mia età, ma dimostrava qualche anno in più. Era capace di ingurgitare quantità spropositate di cibo e birra, tanto che quella sera Steve aveva previsto una dozzina di lattine solo per lui. La serata stava scorrendo serenamente, nonostante ormai tutti fossero un po’ alticci. Tranne me, inviperito col mio fegato. Mi stavo gonfiando con spropositate dosi di anidride carbonica contenute nelle lattine di Dr. Pepper, mentre continuavo a sgranocchiare patatine da un sacchetto. Non troppe, maledizione, che poi affaticano il fegato anche tutti quei fritti. Lo straniamento si faceva sempre più forte man mano che aumentava il numero di birre bevute dagli altri. Fumavo una sigaretta via l’altra, seduto in terra con le spalle poggiate al divano. Osservare come l’alcol cambiasse i volti e le espressioni dei miei amici era ormai un divertimento che ben conoscevo. Non era certo la prima volta che mi trovavo nella condizione di fare da testimone a tutte le idiozie che facevano e dicevano da ubriachi. Ad un certo punto, però, intravidi un barlume di lucidità nello sguardo di Steve. Si alzò, e andò in cucina. Sembrava mi avesse fatto un cenno, e lo raggiunsi. «Ehy, come va?» «Tutto ok.» «Mi sembra che stia riuscendo bene la serata, eh?» «Già...»

Non stava certo incoraggiando la conversazione. «Volevi parlarmi?» «No, cosa te lo fa pensare?» «M’era sembrato che m’avessi chiamato e...» «No, tutto a posto» - m’interruppe. Prese dal frigo qualche altra bottiglia, nascondendosi dietro lo sportello aperto. Feci per andarmene, ma sentii i suoi occhi frugarmi le spalle. «Vincenzo...» Chiamandomi col nome completo aveva già anticipato di volermi dire qualcosa di importante. «Sì?» «Avevi ragione: volevo parlarti.» «Ti ascolto.» «Domenica sarà un giorno importante...» «Oh, no!» - Lo anticipai senza dargli la possibilità di continuare - «Non torniamo sulla partita! Cristo Santo, è solo calcio! Chi se ne importa! Divertitevi e basta, io starò a guardarvi e mi porterò un buon libro da leggere in panchina! Ma adesso basta!» «No, no Vinnie, calma, non parlavo della partita.» «Ah. Ops. Scusa.» Continuò senza farsi pregare. «Domenica è il compleanno di Philip. Mio figlio sarà maggiorenne.» «Ehy congratulazioni!»

«Già, già, grazie» - sorrise a mezza bocca, un po’ imbarazzato - «Sai cos’è incredibile? Che quasi abbia l’età che avevo io quando l’ho concepito...» - e fece un gesto dondolando la mano sinistra - «Più o meno.» «Ti sembreranno volati questi anni, immagino.» «Se penso a quanto poco l’ho visto, sì. Ho fatto un calcolo: degli ultimi quindici anni della sua vita, io l’ho visto sì e no, in totale, per un anno e mezzo. Sommando i vari fine settimana, intendo.» «Cazzo.» «Sì. Già. Cazzo. E pensando a tutti questi anni ati io vedo tre vite separate. Il mio tempo di padre è volato, il mio tempo di figlio non è mai esistito, il mio tempo di uomo è stato un calvario.» Non sapevo cosa dire. Non mi veniva niente di più umano che poggiargli una mano sulla spalla. E lo feci. «Domenica potrai stare con Philip?» «Non sarebbe il mio giorno, ma sembra che sua madre mi conceda di vederlo.» «È una buona notizia. Hai organizzato qualcosa?» «Lo porterò a cena in un posto che adora. Ma prima forse andremo da qualche altra parte. Non so. Mi piacerebbe che si ricordasse del suo diciottesimo compleanno con suo padre.» «Vedrai che se ne ricorderà, stai tranquillo.» «Tu ricordi il tuo?» «No» - non ero pronto a mentire, m’aveva colto di sorpresa - «ma solo perché già odiavo le celebrazioni forzate. Ero rimasto sconvolto dalla festa del mio decimo compleanno, credo. Ero così teso perché tutto andasse perfettamente che a giornata finita ero invecchiato di dieci anni, anziché uno.» Steve fece una smorfia a metà strada fra l’amaro e il divertito e andò di là con una cartone di sei bottiglie. Sono sicuro che se non fosse stato per la sua

immagine di duro da difendere, avrebbe voluto ringraziarmi, credo.

* * *

Arrivò la tanto attesa domenica, alla quale ero invitato come spettatore di prima fila. Il Mister volle che ci ritrovassimo al campo alle nove, quando ancora si stava svolgendo una partita di bambini. Non osai immaginare a che ora dovessero aver iniziato quei piccoli indifesi. Ovviamente l’erba del campo era coperta di brina, il cielo era bianco e la mia voglia di are un’ora e mezza inchiodato su una panca al freddo poca. M’ero portato dietro Febbre a 90 da leggere, tanto per stare in tema e darmi un’aria distaccata. Facemmo una lunga riunione pre-partita sui gradoni di cemento della tribunetta, fra i genitori infreddoliti che ci guardavano augurandosi che non fosse quello da noi personificato, il futuro dei propri figli. Steve cercava attorno a sé con lo sguardo, Craig annuiva ad ogni parola di Imran, Ascot – poco lontano – borbottava per ogni cosa. Ecco un altro convinto che, con lui in panchina, la Nazionale inglese avrebbe vinto almeno cinque o sei Mondiali. Io ero infagottato in un piumino extra large che, avevo calcolato, mi avrebbe tenuto calde anche le gambe, una volta rannicchiato in panchina. Non indossavo neanche le mie scarpe dorate. Feci il riscaldamento con le Adidas da eggio, giusto per toccare la palla e stare un po’ in compagnia dei ragazzi. Steve si riscaldò fumando tre o quattro sigarette, mentre Craig fece più giri di campo quella mattina che io in dieci allenamenti. Naturalmente dei nostri avversari non sapevamo nulla, se non che avevano un’improbabile maglia verde e viola. Gli organizzatori del torneo avrebbero dovuto vietar loro di scendere in campo con quell’obbrobrio addosso. Poi capii che doveva essere uno stock avanzato dagli Anni Novanta, e in cuor mio sentii che fosse giusto perdonare quei peccatori. Le nostre divise bianche e rosse erano sobrie e dignitosissime al confronto. Ne avevo avuta una anch’io, priva di numero, giusto in caso di emergenza. (Ne andavo comunque fiero, ebbene sì). Alle 10.30 spaccate prese il via il nostro campionato della domenica. Testimoni dell’evento, non più di una dozzina di persone, panchine comprese. Sulla nostra,

oltre a me, sedevano coach Imran, Siraz Khankhara (chiamato da tutti solo Siraz) che dava una mano e un vecchio portiere, un nero di cinquant’anni di nome Djibril. Djibril viveva in Inghilterra da una trentina d’anni, ma parlava ancora un inglese drammatico. Per riuscire a scambiare due parole con lui mi vidi costretto a restare sveglio, mentre avevo in programma di cadere in stato di semiincoscenza già dopo cinque minuti dall’avvio. Non avevo idea di come stesse andando la partita, ma ero certo che di goal non ne fossero stati segnati: io parlavo con Djibril, mentre i nostri due allenatori stavano in piedi davanti alla panchina, parlottando a braccia conserte. Sbadigliavo ogni tre per due, mentre da sotto i baffoni Anni Ottanta del nostro secondo portiere parole dal suono profondo ma dal significato oscuro mi solleticavano le orecchie. Era in grado di inventarsi termini rocamboleschi, che io mi sforzavo di comprendere applicandoli ad una qualunque lingua esistente. Doveva essere circa la metà del primo tempo, quando capii benissimo ciò che voleva dire. «Guarda su sedie che guardano campo. C’è ragazzo che sembra Steve magro e giovane e donna che forse è mamma di ragazzo che sembra Steve magro e giovane.» Mi voltai di scatto. Quel ragazzo poteva davvero essere Philip. La signora, senza dubbio piuttosto appariscente, salutò con un gesto civetto Ascot, che la ignorò. Lei, allontanandosi, non mancò di sollevare il dito medio dalle unghie laccate in rosa alle spalle del vecchio. Philip non si sedette molto vicino al nonno. Era una fila più sopra. Saggia scelta, visto che il vecchio marinaio continuava a sputacchiare tutt’intorno a sé. Cercai Steve con lo sguardo e lo trovai esattamente lì dove sempre stava, nel cerchio di centrocampo. Non seguiva con gli occhi il pallone, ma guardava verso la tribuna. Salutò il figlio con un gesto plateale. «Buon compleanno Philip!» - Urlò dal centro del terreno di gioco. «Ciao Steve» - lessi nel labiale del ragazzo, che subito si sistemò due enormi cuffie stereo gialle sopra le orecchie. «Ragazzo che sembra Steve magro e giovane è figlio di Steve per verità?» - Mi

chiese Djibril. «Sì, è suo figlio.» Djibril mosse la testa in un cenno di assenso lungo e grave. Poi cominciò a sbucciare un arancia. «Vuoi?» «Sì, grazie.» Mangiammo qualche spicchio, mentre si avvicinava l’intervallo. Io pensavo a cosa stesse pensando Steve, Steve forse pensava a cosa stesse pensando Philip, e il ragazzo forse pensava perché cazzo suo nonno dovesse continuare a sputare e ad ignorarlo. Finito il primo tempo, Steve si avvicinò al figlio, e parlottò con lui un paio di minuti. Io ero in mezzo al campo a fare due palleggi con Djibril, che era più imbacuccato di me. «Tu non li usi i guanti da portiere Djibril?» «Se tu credi che io ho bisogno di guanti, tu regala me guanti.» «No, Djibril, a me vai benissimo così.» «Djibril è qui per amico, non per gioco.» «Che vuoi dire?» «Io mai sono portiere. Djibril qui solo per amico.» «Ok. Credo di aver capito.» In effetti non aveva nemmeno le scarpe da calcio, e l’avevo visto solo ad un paio di allenamenti fare un po’ di corsetta e qualche esercizio. «Quindi sono l’unico in panchina, mi pare di capire.»

«Amico, se tu capisci questo, questo è buon inizio per te.» Ecchecazzo. Non so cosa Steve avesse detto al figlio, ma ad inizio del secondo tempo Philip era scalato una fila sotto, arrivando a sedersi ad un paio di metri da Ascot. Che continuava, imperterrito, a bombardare di sputi la fila davanti a sé. Djibril s’era seduto a fianco di Imran e Siraz, ormai placati, all’altra estremità della panchina. Io ero tentato di accendermi una sigaretta, ma resistetti con imprevedibile professionalità (in realtà a trattenermi era la prospettiva di tenere le mani fuori dalle tasche, faceva troppo freddo). Per evitare di assopirmi e morire ibernato mi alzai muovendomi un po’. Mentre ero girato sentii un grido, subito seguito da qualche applauso e molte bestemmie. I violaverdi avevano segnato, non so come. Imran era in piedi, sconsolato, con le braccia larghe. Il nostro portiere stava recuperando la palla dalla rete, mentre gli avversari simulavano un’orgia col marcatore. Lungi dall’essere rattristato, chiesi a Djibril cosa fosse successo. «Loro fatto goal furbo. Loro battuto calcio fermo non fermo e noi...zzz...Dormito.» «O-ok.» Siraz annuiva con la testa convinto, come se la descrizione del portiere-nonportiere fosse dettagliata sin nei particolari. Il team manager era magro, tirato, con la pelle giallognola, un naso aquilino e capelli e baffi nerissimi. L’avevo sempre visto con la tuta della squadra e sospettai che avesse l’armadio pieno di tute uguali come un personaggio dei fumetti. Mi disse: «Scaldati.» «Magari» - risposi alitandomi nell’incavo delle mani - «Sto congelando.» «No, riscaldati per essere pronto ad entrare!» «Io?»

«No, io. Su avanti, non perdere tempo.» Non sapevo bene in cosa consistesse un buon riscaldamento, ma corricchiai un po’ più forte del solito e feci qualche piegamento. Incredibile, stavo per esordire, ed era solo la prima di campionato! Non mancavano molti minuti, è vero, ma ero già certo che far parte attiva della squadra avrebbe cambiato il mio atteggiamento nei confronti del calcio. Dello sport in generale. Della vita, volendo esagerare. Ero contentissimo, e all’improvviso mi sentivo la forza di sette tigri e il fiato di sette polmoni. Corsi ancora un po’, poi altri piegamenti. Poi ancora. E ancora. Poi l’arbitro fischiò tre volte e i violaverdi alzarono le braccia al cielo. Siraz si scusò: «Mi spiace, ma non c’era il cambio giusto. Vedrai, la prossima volta andrà meglio.» Rimasi impalato lì, da perfetto pirla. È successo anche ai più titolati campioni di essere chiamati a scaldarsi e poi non entrare in campo, certo. Ma io non lo sapevo, e per me in quel momento contava solo che IO non ero stato mandato in campo dopo il riscaldamento. Probabilmente tutti si aspettavano una sconfitta ben peggiore, quindi il morale nello spogliatoio era alto lo stesso. Paradossalmente ero io il più nero, io che – se non mi avessero illuso col riscaldamento – avrei accettato col sorriso anche uno 0 a 10. Io, che ero finito a giocare a calcio solo per non andare a lavorare nel negozio di Steve. A proposito di Steve, si lavò e cambiò molto in fretta, e mi fece l’occhiolino prima di uscire dallo spogliatoio. «Buona fortuna, divertitevi» - gli dissi. Mentre mi stavo asciugando i capelli, mi si avvicinò Imran. «Ehy Mister» - non riuscivo a celare il broncio. «Non te la prendere Vinnie, capita.» «Ok.» «Dico sul serio, avevo in mente un cambio ma poi non mi sembrava l’idea

migliore.» «Ok, fa nulla» - mentii. «Ci vediamo martedì?» «Si ci sarò.» Col cazzo. Dopo fu il turno di Craig. «Dai Vinnie, la prossima volta giochi.» «Non sono la Vergine inconsolabile, Craig. Non c’è bisogno che veniate in processione. Anche Djibril è stato in panca, ma nessuno va a consolarlo.» «Non c’è bisogno di fare il duro con me, ti conosco. Non sai nascondere il muso lungo. Ma vedrai che verrà il tuo turno.» Sorrisi per il suo sforzo quasi paterno. «Craig, la sai una cosa?» «Cosa?» «Martedì ti faccio il culo.» Aprii la bocca in un bel sorriso sincero. «Così mi piaci mangiapizza. Andiamo a prenderci qualcosa alla taverna del Boleyn.»

* * *

Le nuvole avevano resistito, cariche sopra le nostre teste, per tutta la partita. Non avremmo potuto pretendere di più. L’acqua cominciò a cadere stancamente

mentre ci dirigevamo verso il pub, e non aveva ancora smesso a sera, quando ne uscimmo. Fu una domenica che mi fece ricordare quanto mi mancasse la domenica, quella vera. Quella del bambino, o del ragazzo, che non ha nulla da chiedere, nulla da fare. Solo godere della giornata, riempirsi d’ozio, ricaricarsi di cose buone in attesa del lunedì di scuola. Troppi anni erano ati da quando, per sopravvivere, avevo dovuto accettare di lavorare per turni. E i turni non riconoscono feste che tengano: mi hanno rubato la dolce pigrizia della domenica. Prima di rientrare ci fermammo a prendere kebap e patatine da mangiare a casa, davanti alla televisione. Sapevamo che la Campbell’s family era fuori, e sicuramente le tre generazioni si sarebbero affrontate in una sfida all’ultima birra per stabilire quale fosse la più forte.

* * *

Solo più tardi venimmo a sapere che il compleanno in famiglia era stato tutt’altra cosa. Dalla porta entrò un uomo anziano, provato, trasandato. E non era Ascot, ma suo figlio Steve un non-ancora-quarantenne, disfatto e affranto. Dietro di lui un altro derelitto: lo si sarebbe detto piangere sotto quella scorza dura, non fosse stato il vecchio, bisbetico Marinaio. Steve invece aveva pianto, lo si capiva bene dai contorni degli occhi rossi e dalle guance arrossate dal tanto sfregare. Eppure era quell’hooligan alcolizzato che ben credevamo di conoscere, che avresti immaginato versare lacrime solo per una retrocessione del West Ham United. Craig ed io rimanemmo immobili, con la patatina a mezz’aria e la bocca un po’ aperta. I due Campbell non dissero una parola, nemmeno ci guardarono, e filarono in camera – andoci davanti. Riprendemmo a masticare cercando di non far rumore, per avvertire ogni sospiro dovesse giungere dalla stanza di là. Nulla.

arono venti minuti, poi quaranta, poi un’ora. Craig disse: «Domattina ho il turno, meglio che vada a letto.» «Ok.» «Se sai qualcosa...» «...Ti vengo a svegliare. Ok, Craig, ‘notte.» «Buonanotte.» Rimasi piantato lì, respirando l’odore dei cartocci unti del cibo. Davanti a me la televisione trasmetteva qualcosa di indefinito, ma in quel momento stavo concentrando i miei sforzi nell’affinare l’udito. Attesi ancora un po’ e, quando stavo per andare di sopra, sentii la porta aprirsi. Uscì Steve, che si accese una sigaretta appena arrivato in salotto. Mi guardò per un attimo, e nel suo sguardo c’era tutto il fastidio di trovarmi ancora lì, misto però ad una certa speranza. La speranza di potersi sfogare, interpretai. «Non è ora di andare a letto?» - Esordì lui, facendomi pensare che si immaginasse ancora davanti al figlio. «Mah, magari adesso vado, sì» - risposi non senza qualche imbarazzo. «Cosa c’è alla tele?» Non riuscivo a capire se stesse cercando di sbloccare la conversazione oppure di farmi sloggiare di lì. «Niente, come al solito.» Era ovvio che lui avesse fatto il suo per rompere il ghiaccio. Ora toccava a me. «Com’è andata la giornata?» - Chiesi a bruciapelo. «Bene» - mentì lui.

«Cosa avete fatto di bello?» «Siamo stati a mangiare da Ultimate Burger in New Oxford Street e poi ci siamo fatti qualche birra in un pub lì vicino.» «Buoni quegli hamburger. A me piace quello col chili.» «Io ne ho presi due con funghi e formaggio.» «E Philip?» - Chiesi, sapendo di rischiare che Steve troncasse lì la discussione. «Ha preso quello di pollo.» Lo disse senza sospirare, senza strane inflessioni. Forse, pensai, non era successo un bel niente con Philip. Magari s’erano solo sfregati gli occhi con le mani intrise di salsa piccante, ecco perché piangevano. Certo, come no! Sei idiota o cosa, Vincenzo? Ci fu un momento, lunghissimo, di silenzio quasi assoluto. Potevo sentire la cartina della sigaretta sfrigolare e consumarsi. «Philip se ne andrà.» «Cosa?» «Philip se ne va.» «Che è successo?» Aspettai con pazienza che avesse voglia di spiegarmi. «La giornata sembrava abbastanza serena. Io cercavo di fare il buon padre, Phil il buon figlio e Ascot era meno fastidioso del solito. Ero tranquillo, troppo tranquillo. Abbiamo parlato della partita di stamattina e di calcio per tutto il pomeriggio.» Attesi. «...È una delle poche cose che abbiamo in comune...» Mi accesi una L&M e mi misi comodo.

«Mentre stavamo bevendo l’ultima birra Philip ha detto “Steve, noi ci trasferiamo” e io non ho capito più niente. Sembra che quella stronza di Jane abbia deciso di lasciare Londra.» «Dove vanno?» «Vanno a Liverpool. Già questa settimana. Capito? Capito quella stronza? Aveva già organizzato tutto da tempo e quindi...» «... Quindi la sua generosità per il diciottesimo compleanno di Philip...» «... Già, quindi... Esatto, bravo... Quella generosità era solo un modo per farmi star buono. Un contentino.» «Ti ha indorato la pillola. Ma Phil non ti ha detto nulla?» Steve mi guardò penetrandomi con lo sguardo, facendomi capire di aver centrato IL problema, di aver azzeccato LA domanda. Fece dondolare la testa su e giù un bel po’ di volte prima di rispondere. «Philip è d’accordo. È quello che mi fa più male. Ha detto che se non può avere un padre vero, inutile averlo due volte al mese. Ha detto che non ha un nonno. Capisci?» «Capisco le tue parole, quelle sì. Ma non posso capire cosa si provi a sentirle.» Rimanemmo zitti per un po’, fumando in silenzio. Fui io a riprendere: «Scusa, ma Philip non è abbastanza grande per capire che c’è stato un divorzio? Insomma, non è colpa tua se non puoi vederlo spesso. E Ascot... Beh, Ascot...» Non mi veniva proprio niente di carino da dire su Ascot. «Philip è cresciuto con sua madre. Ogni singolo giorno si sarà sentito ripetere che essere immondo fossi io. E poi, non ha tutti i torti.» «Mah, insomma, non capisco... Lo trattavi male quando vi vedevate?» «No. Non lo vedevo proprio.» «Come?»

«Non lo volevo vedere!» - Sputò fuori, quasi non riuscisse più a tenere dentro quella frase. Urlò: «Io non volevo vedere mio figlio! Dopo il divorzio, per cinque anni, non l’ho voluto vedere, nemmeno quel fottuto giorno ogni due settimane. Capito?» «...» «Ho sbagliato, ho sbagliato lo so. E adesso non si torna indietro. Ho dovuto aspettare di maturare un po’ per capire che non potevo dare a lui la colpa dell’odio che provavo per Jane, che lui era innocente, che era il mio erede, una gioia assoluta e totale, che era la mia possibilità di una vita migliore! Ho atteso che avesse otto anni, Cristo, otto anni prima di rivederlo! E un bambino queste cose le porta dentro, e le ricorda per sempre. Non credere Vinnie, non credere. I bambini si ricordano bene. Sembra che facciano i capricci solo per i giochi, ma non è così. Non s’è sentito accudito dal padre, non s’è sentito voluto bene. Quando ho capito che l’amavo, dentro di me, era troppo tardi per recuperare il rapporto. Sono dieci anni che lo vedo una ventina di giorni l’anno. Dieci anni! Cristo santo, ho visto mio figlio a rate!» Si prese la testa fra le mani e cominciò a singhiozzare, quasi rabbiosamente. Non gli scendeva una lacrima, le aveva spremute tutte prima. Io non sapevo cosa fare, non ne avevo idea. Mi guardai attorno e lo sguardo si fermò sul vaso di vetro che conteneva il vecchio cuore di Steve. «Hai mai detto a Philip quello che hai appena detto a me?» «Non così, forse» - rispose una voce che usciva dalle sue mani - «Ma lui sa che gli voglio bene.» Scossi forte la testa: «Ma come diavolo pretendi che lo sappia? Perché c’è scritto in qualche carta del cazzo che sei suo padre?» Si rivolse a me, chiedendomi di più con lo sguardo. Ma io non avevo altro da dire. Non ero padre, ero un figlio a mia volta lontano dalla famiglia e non avevo visto abbastanza film melensi per sapere che battuta andava pronunciata in quel momento. Ma aggiunsi: «Non darlo per scontato, Steve, non farlo.» Si ò le mani sulla faccia e sui capelli radi, più e più volte. Non sembrava lo

stesso Steve che, solo quella mattina, smistava palloni al centro del campo erboso, fiero della sua pancia alcolica e del suo tocco sapiente. Era invecchiato dieci anni in una sola domenica. «Come si fa a chiedere perdono?» - Sussurrò. Non volli sentire la domanda, perché non conoscevo la risposta.

CAPITOLO XII

Dopo la domenica del compleanno di Philip la situazione in casa cambiò parecchio. Steve ava sempre più tempo fuori, e rientrava sempre più tardi. Nessuno di noi sapeva cosa fe. Saltava un allenamento su due, e all’altro arrivava tardi e spesso sbronzo. La squadra perse altre tre partite consecutive senza mettere assieme uno straccio di goal. Anche Ascot era cambiato. Il suo borbottare acido s’era trasformato in un mormorio triste e malinconico. Ci svegliava lo stesso alle cinque, ma ora quel vecchio sperduto ci faceva pena, anziché rabbia. Non era più aggressivo, era mesto e fiacco. Si vedeva che era debole, debole dentro, e avrebbe potuto cedere di schianto. Quando se ne andò, a fine mese, quasi ci dispiacque. Quasi. Quanto allo strano mondo del Bari FC, nulla sembrava poter intaccare l’alto morale della squadra. Non lo intaccavano le quattro sconfitte delle prime quattro partite, gli zero goal fatti e i dodici subiti, l’ubriaco sbandato in cabina di regia. Niente. La squadra era un gruppo di ragazzi che aveva voglia di stare insieme, di divertirsi, di sudare e di confrontarsi. Anch’io avevo messo da parte il mio disamore per il calcio, la mia frustrazione per non aver mai giocato e le mie lamentele per la troppa fatica. Trovavo che gli allenamenti fossero solo il pretesto per conoscere un gruppo di persone interessanti, tutte diverse fra loro, ricche di esperienze differenti, profonde, educative. Era davvero bello stare lì con loro, indipendentemente dai polmoni che avrei dovuto bruciare per farlo. Col are delle settimane soffrivo sempre meno e, per gli inizi di dicembre, riuscivo quasi a completare dieci giri di campo con la squadra. Con la forza di volontà, non certo con il fiato. Correvo al loro fianco perché volevo parlare con loro, ascoltarli e capirli. Non so se ce l’abbia fatta davvero, ma era la curiosità e l’interesse verso storie diverse dalla mia a farmi fare un altro giro, a farmi desiderare altre parole. Per me il Bari FC era diventato un mondo in cui trovavo quello che non avevo avuto né a casa, prima, né in Inghilterra, poi. Un mondo fatto di persone, di individui con le proprie particolarità, mai monotoni e capaci di trasmettermi una

visione del mondo attraverso tanti occhi. A casa era impossibile, chiusi nel nostro paesino e nel nostro sguardo miope e ristretto. Una volta emigrato non avevo avuto attorno abbastanza gente per succhiare da loro l’esperienza. Ora ce l’avevo, ed ero contento così. Delle partite non mi importava granché, anche se condividere le fatiche degli altri mi rendeva partecipe dell’aspetto puramente sportivo della faccenda. Craig invece teneva moltissimo al calcio in sé, al risultato. Si preparava con cura e metodo, ma tutto il suo impegno non era stato sufficiente ad evitare le quattro batoste. Lui era praticamente l’unico della difesa a combinare qualcosa di decente, a rinviare qualche pallone e a prendere i cross alti di testa. Faceva il boia e l’impiccato, là dietro, ma da solo non poteva molto. I suoi compagni di difesa erano due indiani, Baahir e Madangopal, che insieme non arrivavano a pesare ottanta chili. Volavano via con un soffio di vento: non proprio l’ideale contro alcuni colossi inglesi o cambogiani che giocavano negli attacchi avversari. Sulla sinistra c’era Roberto, un colombiano bassissimo e velocissimo, che però aveva la drammatica tendenza a piazzarsi in attacco, e non ritornare mai. Morale, Craig difendeva quasi da solo, ed era un miracolo che non venissimo sommersi di goal. Per lui il sabato sera e la domenica mattina facevano parte di un meticoloso rituale pre-partita che rispettava sin nel minimo dettaglio. Sabato sera cenava alle sei, e si concedeva solo una birra. Rimaneva in casa a guardare le partite di Premier League (forse per trarre spunto dalle giocate dei campioni?), e prima di andare a letto – mai oltre le undici – confezionava la sua borsa da gioco con maglietta e pantaloncini perfettamente ripiegati, calzettoni appallottolati nel vano di sotto, assieme a scarpe e parastinchi. Sistemava asciugamano, bottiglietta d’acqua, accappatoio e ciabatte in maniera così precisa che la borsa sembrava composta da mattoncini Lego. La mattina della domenica si svegliava alle sei, entro le sette aveva fatto colazione, alle otto usciva per recarsi al campo dove prima delle nove iniziava il suo riscaldamento personale. Spesso fuori dai cancelli, visto che il custode non arrivava mai prima delle dieci meno un quarto. Io ero con lui, ahimè, anche se la mia applicazione del rituale era un po’ meno rigida: cenavamo assieme, poi uscivo e tornavo verso le due di notte. Mi svegliavo con gli urli di Craig che mi diceva che erano le otto, e che lui stava per uscire. M’infilavo la tuta a rovescio, cacciavo nella sacca un indisciplinato groviglio di calze, pantaloncini, maglietta, asciugamano e scarpe e mi precipitavo giù dalle scale senza aver ancora mangiato nulla. Poi, una volta al campo, lasciavo il mio compagno al suo riscaldamento e andavo al bar a fare una

ricca colazione, leggendo anche un po’ il giornale. Quella domenica, la prima senza Ascot sugli spalti, ero certo che avremmo interrotto la nostra striscia negativa. Avevamo davanti l’unica altra squadra del campionato inchiodata a zero punti come noi, i Colts. Il loro nome sapeva molto di football americano, e mi si accese la lampadina sul nostro. “Bari FC”, ma perché? Lo chiesi ad Imran, che oltre ad allenatore era anche il fondatore della squadra. «Tu dovresti saperlo mangiapizza» - scherzò - «il Bari non è una squadra italiana?» «Sì, certo, ma qui siamo nell’East End londinese, che diavolo c’entra?» «Ti ricordi David Platt?» Nella mia testa si materializzò una faccia allungata con una fronte spaziosa come una piazza su una figurina Panini, ma nulla di più. Retaggio degli sticker dei Mondiali di Italia 90 che si trovavano attaccate ai pali dei semafori, sui banchi di scuola, nelle cabine del telefono. «Dovrebbe dirmi qualcosa?» «Io adoravo David Platt, e lui – quando fondai la squadra – giocava nel Bari, quello della Serie A italiana. Era subito dopo il Mondiale[1], e noi non avevamo molti giocatori all’estero. Era il mio idolo, e mi interessai alla squadra...» «Ah! Quindi anche i colori...» «...Sì, siamo bianchi e rossi proprio come il vostro Bari.» «Ma pensa un po’...» - mormorai - «Non me l’ero mai chiesto fino a che non ho visto i “Colts”...» Il mister arricciò il naso. «Puah, “Colts”. Gente senza fantasia. Li stracceremo.» Il suo ottimismo, non ato da alcun dato oggettivo, mi lasciava sempre un po’ perplesso. Non capivo se fosse un modo di dar fiducia a noi o far coraggio a

se stesso. Steve quella mattina arrivò al campo dieci minuti prima del fischio d’inizio, ma almeno non era ubriaco. Sembrava anzi stranamente loquace e sorridente. In panchina, come solito, sedevo io al fianco di Djibril e Siraz – come sempre in tuta nonostante fossimo abbondantemente sottozero. Sul campo c’era un poco rassicurante strato di brina che, assieme alla nebbia, conferiva alla mattinata un aspetto sinistro. Per quel che riuscivo a vedere dalla panchina la palla stazionava sempre ben distante da entrambe le porte. Anche Djibril era sul punto di addormentarsi e persino Siraz, di solito una maschera di professionalità, si lasciò scappare un “che strazio ragazzi” che ci trovò d’accordo. L’intervallo fu accolto da tutti come una liberazione. Mi portai un thermos di tè in panchina per are meglio i secondi quarantacinque minuti (da notare come stessi assorbendo il gergo tipico dei calciofili). Al ritorno in campo notammo che la nebbia s’era leggermente alzata, consentendo, almeno ai nani, di vedere qualcosa sotto il metro e cinquanta. Peccato che Craig fosse circa quaranta centimetri più in su, con la sua testa, quando un pallone calciato altissimo da uno dei Colts piombò nella nostra area, nascosto alla vista nel suo camuffarsi contro il cielo bianco. Craig mancò la palla di mezzo metro, questa rimbalzò sulla schiena di Madangopal e finì fra i piedi di uno degli avversari, a non più di due metri dalla porta. Il tipo era talmente scarso che sembrò cercare con tutte le proprie forze di ciccare la palla ma questa, beffarda, rotolò lo stesso alle spalle del nostro portiere Naadir. Lo shock ci risvegliò dal torpore. Imran aveva le mani sulla testa, e ormai era ammutolito. Si girò per pescare qualche variante dalla panchina ma, quando mi vide avvolto nel piumino intento a sorseggiare tè, per qualche incomprensibile motivo si mise le mani sulla faccia e decise di lasciare la squadra com’era. Solo a dieci minuti dalla fine dovette arrendersi all’evidenza. «Forza Vinnie, entri tu.» «Mister, se devo riscaldarmi non c’è tempo.» «Niente riscaldamento, dentro subito. Non vedi che Marcellus s’è fatto male?» Ah, ecco spiegato il motivo del mio ingresso. Mi tolsi davvero di malavoglia il piumone, strinsi i lacci delle mie Puma ed

entrai in campo. Confesso che in quel momento avrei voluto che la nebbia occultasse la doratura delle mie scarpe. Me ne vergognavo, ben conoscendo i miei limiti tecnici e fisici. Ma, d’altronde, c’erano si e no sei persone fra il pubblico... Non riuscii nemmeno a trotterellare fino alla porta avversaria che su un calcio d’angolo a nostro favore si scatenò una bolgia selvaggia davanti al portiere dei Colts. Dalla mischia sbucò il pallone, che andò ad infilarsi in rete. Avevamo pareggiato con un’azione brutta almeno quanto la loro. Nessuno dei nostri presenti nella mischia comunque si tirò indietro e tutti cominciarono a correre come ossessi, ad esultare smodatamente e ad attribuirsi il goal. Una scena patetica. Mi sembrava chiaro che pareggiare potesse soddisfare tutti, per andare a casa al più presto e col minimo danno. A tutti meno che a Craig. Doveva essere ormai l’ultimo minuto quando lo intravidi sganciarsi dalla difesa, palla al piede, e cominciare a dribblare avversari. Non aveva molta grazia, ma tanta grinta (e due spalle possenti). Mentre io vegetavo in area, lui era finito vicino alla bandierina dell’angolo, marcato da due avversari. Ne uscì scagliando un pallone a mezz’aria davanti alla porta, forte e teso. Io chiusi gli occhi, e mi buttai sulla traiettoria. Ricaddi sull’erba con un tonfo sordo, come di cassa toracica in frantumi. Alzando gli occhi vidi il loro portiere mandare a quel paese più o meno tutto il mondo terrestre e ultraterreno, e i miei compagni saltare braccia al cielo. Avevo segnato! GOAL! Cosa avrei dovuto fare? Avrei dovuto darmi un contegno ben sapendo che si trattava di un episodio casuale? Avrei dovuto limitarmi ad alzare una mano come se fosse normale amministrazione? Avrei dovuto dare seguito alla mia indignazione per le eccessive esultanze sul goal del pari? No, avrei dovuto fare il matto come vedevo fare ai calciatori in tv, e così feci - urlando e correndo verso la panchina, togliendomi la maglietta e agitandola come una clava. Quando abbracciai Djibril fu così gentile da informarmi sull’accaduto: «Ehy Vinnie, tu non deve esultare tanto. Capisci che tu non ha segnato. Palla non ha sfiorato te. Quando caduto a terra loro difensore inciampato su tue gambe e caduto ha colpito per grosso errore palla in porta di squadra di lui. È stato autogoal. Grande sbaglio di lui.»

«Certo, lo sapevo» - mentii arrossendo. «Certo, io sa. Comunque tu fatto cosa di molto giusta a provare.» Ancora oggi ringrazio Djibril per avermi impedito di perpetrare quella figuraccia. Comunque sia, avevamo vinto la nostra prima partita, e la sensazione era stupenda. Il lunedì feci una fatica tremenda ad alzarmi dal letto, e respirare mi provocava una fitta al petto. Diagnosi chiara, microfrattura ad una costola. Saltare qualche allenamento per recuperare mi fece apprezzare ancora di più il gruppo di ragazzi del Bari FC: ne accusavo l’assenza, anche se la fatica – invece – non mi mancava affatto. In quei giorni avevo anche scoperto cosa rendesse Steve un tantino meno abbacchiato e distante rispetto all’ultimo periodo. Una nuova dirigenza e un nuovo allenatore nel West Ham gli davano la speranza di poter disputare una stagione decente ma – soprattutto – era contento di aver deciso di andare a trovare Philip a Liverpool sotto Natale. «Ma Jane lo sa?» «Ovviamente no.» «E la cosa non ti preoccupa?» «Ho deciso di non preoccuparmene.» «Potrebbe non farti vedere il ragazzo.» «In realtà no... Ora lui è maggiorenne.» «Ah, vero. Ma Philip? Lui ha detto che va bene che tu vada?» «A dire il vero, non lo sa nemmeno lui.» «Vuoi fargli una sorpresa?»

«Sì, un regalo di Natale, diciamo.» «Scusa se te lo dico ma...» «Dimmi pure» - s’affrettò a sollecitarmi. «... Ma mi pare che l’ultima volta lui non fosse troppo contento di vederti, o sbaglio? Cosa ti fa pensare che possa aver cambiato idea?» «Non so se lui abbia cambiato idea. Ma sono cambiato io. Ho pensato molto, sai Vinnie?» Feci una fatica pazzesca a trattenere una risata. Immaginare Steve intento a pensare era un’impresa. «Ok» - dissi senza convinzione. «Ho pensato che in fondo avevi ragione tu. Che dovrei cercare di esprimere quello che provo per lui. Gli voglio bene, dopo tutto è mio figlio!» «Secondo me fai bene a fare così. Ma...» «Ma cosa?» «Niente, niente. Forse dovresti avvertirlo, tutto qui.» «Beh, vedremo. Ci facciamo una birra?» «Io non bevo, Steve.» «Sì, certo, è vero, scusa Vinnie. È che sono un po’ nervoso, capisci? Mi sembra che tutto possa cambiare.» «Te lo auguro. Beh, su, ti faccio compagnia bevendomi un succo mentre tu ti fai la birretta.» «Ok, offro io! Andiamo al Trowel.»

* * *

Mentre camminavamo in silenzio meditavo su come avrei potuto fare in modo che chiamasse Philip e gli chiedesse conto delle sue intenzioni. Non avevo mai visto Steve con gli occhi così brillanti – tranne che per un paio di roboanti successi del West Ham o altre questioni calcistiche – e temevo che una delusione l’avrebbe ammazzato. Anche fisicamente, forse. Quanto forte poteva essere quel cuore impiantato lì da chissà dove? C’era un milione di motivi perché una persona come Steve mi risultasse indigesta, ma era altrettanto vero che ne intravedevo uno che mi faceva sperare di potergli dare una mano: era un uomo che stava muovendo i primi i verso una vita differente, e non sopportavo l’idea che questo suo sforzo venisse frustrato. La sua volontà di ricostruire un rapporto col figlio mi aveva fatto intuire uno Steve Campbell molto diverso dal razzista, intollerante alcolizzato che avevo conosciuto sino a quel momento. Sentivo il bisogno di fare in modo che quella persona nuova venisse fuori, e che – invece – non tornasse più il suo lato peggiore.

* * *

Seduti nel tavolo in fondo, quello più caldo, c’erano Lucas, Joshua e Ferdinand. Quando ci videro presero a scodinzolare. Ebbi l’impressione che stessero ingannando il tempo in attesa che arrivassimo. Steve esordì offrendo un giro a tutti, tanto per far aumentare il mulinare di code. Sembra che Ferdinand, finalmente, volesse farsi avanti con una certa Mary – di cui ci parlava da anni. «I-io vo-volevo farle un regalo per Natale.» Non m’ero reso conto che avesse iniziato a balbettare. Probabilmente lo faceva solo parlando di quella ragazza. «Che tipo di regalo?» - S’intromise Lucas, nella cui testa vidi materializzarsi un registratore di cassa. «Uno be-bello, una cosa i-i-i-importante.»

«Tipo?» - Insistette Lucas, come se avesse in tasca almeno quattro o cinque doni papabili. «Non lo so e-e-e-esattamente» - rispose Ferdinand - «Pe-pe-per questo lo ch-chchiedo a vo-vo-voi.» Che qualcuno potesse ritenerci esperti in questioni femminili sorprese tutti. Pur potendoci sempre cullare nelle illusioni, la verità era che Joshua era rimasto scioccato dalla sua prima storia a sedici anni e da allora vedeva le donne come virago in grado solo di farlo soffrire – quindi per lui solo calcio e soliloqui; Steve aveva un precoce matrimonio fallito alle spalle seguito da una lunga serie di frequentazioni mercenarie; Lucas viveva in casa con sua madre – unica donna a lui relazionata di cui avessimo notizie; Mark (il solo ad avere una vita sessuale decente) non era più parte stabile del gruppo e io... Beh io... io... lasciamo perdere. Ci guardammo tutti da dietro i nostri bicchieri, prima che qualcuno cominciasse a parlare per aiutare Ferdinand. «Stai pensando a qualcosa tipo... Un lettore DVD o qualcosa tipo... Un vestito?» - Fu Joshua a rompere il silenzio. Lettore DVD? Vestito? Ma cos’aveva in testa, le pigne? Non mi stupii che da dieci anni non vedesse una donna, forse allora si regalavano cose del genere... Aspettai la risposta di Ferdinand prima di intervenire. «No-no-Non lo so, qualcosa di ro-ro-romantico?» - Disse. «Secondo me la devi andare a prendere sotto casa con la macchina – ce l’hai la macchina vero? – e portarla un fine settimana sulla costa e poi darle giù fino a che non ringrazierà di essere nata donna e di avere incontrato Ferdie Butler, meglio conosciuto come “La trivella dell’East End”.» Era ovviamente stato Steve a dare il suo contributo di saggezza alla causa di Ferdinand. Si concesse una copiosa sorsata di Ale e schiantò il boccale ormai vuoto sul tavolo. Joshua e Lucas risero sboccatamente, dando di gomito al malcapitato Ferdie, che invece arrossì aumentando la sua balbuzie. «No-no-non so se-se-se si-si-sia giu-giu-giusto di-di-dire co-co-così. No-no-noi ci co-co-conosciamo a-a-appena...»

«Cazzo, Vecchia Trivella, appunto! Devi subito calare il carico e farle capire che Mr. Butler ha dei validi argomenti a suo favore! Per parlare ci sarà tempo!» Tanto per chiarire la sua affermazione, Steve l’accompagnò da un esplicito gesto in cui l’avambraccio sinistro era eretto (è proprio il caso di dirlo) a protagonista, andolo con un lungo fischio. La situazione si prestava perfettamente ad una scenetta del genere. Ferdinand era un ragazzo timido, sicuro di sé solo nel parlare di calcio, che necessitava di robuste quantità di alcool per sciogliersi un po’, ma in quel momento non aveva bevuto abbastanza. Dall’altro lato c’era la personificazione di tutti i vizi, incarnati in un inglese corpulento, aggressivo, irriflessivo e volgare. In mezzo due persone che non vedevano l’ora di farsi quattro risate (a testa) canzonando un amico, e una terza troppo impegnata a pensare ad altro per dire o fare qualcosa di intelligente. Ancora con le lacrime agli occhi dal ridere, Joshua butto lì: «E un anello?» Non l’avesse mai fatto. Ferdinand valutò l’opzione anello. «S-Sì, ci avevo pensato... Ma non è un po’ troppo impegnativo?» «Farai colpo di sicuro, invece» - disse serissimo Lucas. Steve non parlò, ma accennò un motivetto arabeggiante a bocca chiusa e continuò ad agitare il suo avambraccio come fosse un cobra in preda all’incantatore. Mi si accese una lampadina, e valutai che la questione potesse essere ottima per mandare un messaggio neanche troppo velato a Steve. «Vedi Ferdinand» - m’inserii nella discussione dopo qualche minuto di silenzio, come fossi l’unica persona assennata del gruppo - «secondo me il problema non è strettamente legato a cosa le regalerai.» «No? Dici?» - M’interruppe. «Proprio così, lasciami finire e ti spiegherò» - ripresi stoppando altri commenti

con un cenno della mano - «Se non ho capito male, con questa Mary tu hai a mala pena parlato qualche volta, giusto?» «Sì...» «Ecco. Quindi, cosa ti fa pensare che lei voglia approfondire la tua conoscenza? Se capisci quello che intendo...» «Certo che intende!» - Proruppe ad alta voce Steve, sparando di nuovo in aria il suo avambraccio teso con un fischio. Tutti risero, anche Ferdie. Ma io volevo andare al punto, e volevo che Steve ascoltasse bene. «Ora non parlavo di sesso Steve. Parlavo di accettare la “corte”, le attenzioni di Ferdie. Vedi Ferdinand» - tornai a rivolgermi al diretto interessato con tono professorale - «credo che tu corra il rischio di accelerare troppo i tempi. Di darle un segnale sbagliato partendo subito con un regalo, per giunta importante. Dovresti cercare di capire se a lei interessi almeno un po’, se il tuo interessamento possa essere contraccambiato. Capito?» «S-sì, credo... C-c-credo di sì.» «Ok, mi spiego. Magari cerca di parlarle e trovare un paio di cose in comune, non lo so un cantante che vi piace, o un programma tv, qualcosa... Poi magari la volta dopo le presti un disco di quel cantante della tua collezione, ed entri un po’ più in confidenza, ok?» «T-ti seguo.» La balbuzie era in miglioramento. «Beh, credo che se riuscissi a stabilire un campo di interesse, allora magari sotto Natale potresti invitarla per un drink al pub, oppure ad un cinema. Una cosa leggera, Ferdie, non ti buttare subito come se fossi innamorato. Primo, perché rischi di rimanerci male, nel caso lei non contraccambiasse; secondo perché può essere che lei sia interessata ma risulti spaventata dal tuo approccio troppo forte. Ok? Take it easy, man.» «Ok, thank you bro.» Nel pronunciare le ultime frasi alzai un po’ il tono della voce, e mi assicurai che

anche il mio padrone di casa stesse ascoltando. In effetti era così, ma Steve risultò più seccato che riconoscente dalla lezioncina: mi squadrò e si alzò di scatto per prendere un’altra birra. Tornammo a casa sotto una pioggerellina fine, quasi sospesa. Il tabacco delle nostre sigarette sapeva di umidità.

* * *

Steve seguì il mio consiglio, ma non so se andarne fiero. Avrei potuto impedirgli di andare a sbattere contro la realtà? Avrei dovuto sottrargli il numero di Phil a Liverpool? Avrei dovuto chiamare io stesso Phil per avvertirlo? Forse, ma non feci nulla di tutto questo. Era grande abbastanza per scornarsi da solo. Mi sarei limitato ad indicargli la cassetta del pronto soccorso in caso di botte forti. E botte forti furono. Philip si negò al telefono per parecchi giorni. Steve trascorreva i suoi pomeriggi sul divano, scuri alle finestre chiusi, con cordless e cellulare a fianco, alternando le chiamate dall’uno e dall’altro portatile. Una chiamata, un sorso di birra, uno sbuffo, un’altra chiamata, un sorso di birra, uno sbuffo, un calcio alla lattina,... Era un ciclo continuo dal quale temevo non sarebbe uscito fino a che Phil non gli avesse parlato. Per fortuna (?) dopo una settimana il ragazzo cedette, e parlò col padre. Dopo l’anticamera, Steve non poteva certo aspettarsi di essere accolto a braccia aperte. E infatti fu respinto a calci. Phil non voleva vederlo, almeno per il momento. «Ha detto che è meglio che non vada su a Liverpool...» - mi accolse così, una sera, al rientro dal lavoro. Nemmeno un “ciao”, nulla. Puzzava tremendamente di alcool, e l’aria in casa era così spessa che si poteva tagliare col coltello. Doveva aver fumato tre pacchetti almeno, perché sembrava ci fosse la nebbia. Anch’io non salutai. «Ti dispiace se apriamo un po’?» - Chiesi spalancando i vetri, senza aspettare risposta. Steve fece spallucce e stappò un’altra birra. Appoggiato di spalle al davanzale aperto – preferivo congelare che morire asfissiato – ripresi:

«Ci hai parlato?» «Sì.» «E? Cos’ha detto?» «Quello che ti ho detto. Che non vuole vedermi ora. Che è meglio se prendiamo un po’ le distanze. Che deve capire cosa sente per me...» «Insomma...» - tentai di interrompere, ma Steve non mi fece caso. «Sembrava dicesse cose da telenovelas! Quelle stronzate che si dicono alle fighe per scaricarle, tipo “prendiamoci una pausa” o “ti voglio troppo bene, non voglio farti soffrire”. Cristo Santo! Sembrava mi prendesse per il culo!» Era un uomo ferito, e disperato. Stava quasi schiumando, non capivo bene se di rabbia o frustrazione. Era rosso in viso, la voce impastata, e non ero nemmeno sicuro che stesse parlando proprio con me. Il suo era più uno sfogo verso il cielo. «Quindi...» - provai di nuovo, senza successo. «Insomma è mio figlio! Posso essere scaricato da mio figlio? Della madre, chi se ne frega, ma mio figlio, Cristo!» Scagliò a terra la lattina ormai vuota. «Insomma ti chiede tempo. E tu che pensi di fare?» «Non lo so, non lo so... Ma sicuramente non finisce qui.» Si avvicinò a me, appoggiò i gomiti sul davanzale e si accese una sigaretta. Poi soffiò il fumo verso l’alto, staccandosi dalla finestra. Riprese a parlare fissandomi negli occhi con aria di sfida. «Non finisce qui, anzi. Sai che ti dico?» - Sembrava convintissimo, con la sigaretta fra le dita davanti alla faccia, e il dito puntato verso di me - «Andrò lo stesso a Liverpool, ecco cosa farò. Sissignore.» Mi sembrava la peggiore idea possibile, ma cercavo la maniera meno brusca per dirglielo. Mi mise fretta chiedendomi un parere:

«Che ne pensi, Vinnie?» «Beh, sai,...» - esitai per prendere tempo - «Io non ho ascoltato la telefonata, quindi so solo quello che mi dici tu. E pare proprio che lui non sarebbe molto d’accordo di vederti piombare lì. In fondo ti avevo già detto che, secondo me, questa telefonata serviva proprio per evitare di...» «Sì, sì, va bene ho capito» - troncò. «Ok. Forse è meglio che vada a letto ora. Buonanotte.» Steve borbottò qualcosa di incomprensibile, ma certamente non mi augurò la buonanotte. Forse non ne avevo diritto, ma sentivo profondamente ingiusto che Steve ora mi trattasse così, dopo aver chiesto i miei consigli. Un po’ di sano egocentrismo non guasta, ogni tanto.

* * *

Per le vacanze di Natale la casa si svuotò. Io non vedevo l’ora di are qualche giorno al caldo, servito e riverito, Craig andava a casa a ritrovare la sua ragazza storica e Steve aveva programmato la sua avventura a Liverpool. Non potevo dire che non lo ammirassi, in qualche maniera, per questa sua tenacia. Era una volontà inedita, la sua, un desiderio di cambiamento quasi violento. Questo mi preoccupava, perché temevo che la forza che lo spingeva potesse andarsene tanto in fretta quanto era venuta. E mi sentivo anche un po’ causa di tutto quell’ardore. Aumentava il senso di colpa.

* * *

Rientrai al 79 di Napier Road l’ultimo giorno dell’anno, giusto in tempo per il San Silvestro alla londinese. Quando arrivai davanti alla porta di casa mi accorsi che era socchiusa. Che si fosse intrufolato un ladro? Tesi tutti i (pochi) muscoli, e sentii un fischio nelle orecchie. Se fossi stato un gatto avrei gonfiato il pelo sulla schiena. Ero pronto a scattare, anche se confidavo non ce ne sarebbe stato bisogno. Spinsi leggermente il portone, permettendo ad una lama di luce di tagliare il buio del salotto. Non ebbi il coraggio di entrare, e rimasi impalato sulla soglia a guardar dentro. Gli occhi tardavano ad adattarsi, così feci mezzo etto in casa, tenendo la valigia davanti a me. Le finestre erano tutte chiuse, quindi l’unica via d’uscita era quella principale. A meno che sul retro... Decisi di giocare d’anticipo, cogliendo l’eventuale intruso di sorpresa. Allungai la mano sulla parete e accesi tutte le luci di colpo, urlando: «Vieni fuori bastardo!!!» Sentii il tonfo di qualcosa di pesante cadere sul pavimento di legno, poi il rumore di vetri infranti. Poi quattro bestemmie. «Sei scemo o cosa???» - Ragliò contro di me. Era il “bentornato a casa” di Steve. «Steve?!?! Che cazzo ci fai qui?» «Dormivo, porca puttana. È forse vietato?» - ò la domanda con una trafila di improperi. «No, è che – Cristo – ho trovato la porta socchiusa, tutto buio, credevo ci fosse un ladro...» - provai a giustificarmi. «...E tu pensavi di sorprenderlo con l’abile mossa di accendere le luci, tanto per permettergli di vederti bene quando avesse voluto fracassarti il cranio, vero? Porca troia, guarda che casino!» Steve s’era appena ritirato su da terra, dov’era caduto per il sussulto dal divano.

Nel farlo aveva frantumato alcune bottiglie di birra lasciate sul pavimento. Mi resi conto in quel momento della situazione. «Un attimo. Tu cosa ci fai qui?» «Ci abito, cazzo. E stavo dormendo. Dovevo chiamarti in Italia per avere il permesso?» «No, ma, aspetta, tu non dovevi essere a Liverpool fino a martedì?» «Sì, ma sono tornato prima, ok? È così difficile da capire?» Il tono con cui l’aveva detto non richiedeva DAVVERO una risposta. Steve stava raccogliendo i vetri rotti spostandoli in un mucchietto con il piede, coperto solo da un calzino di spugna che una volta doveva essere stato bianco. «Lascia stare, faccio io dopo» - dissi, avviandomi di sopra. Grugnì qualcosa e si rimise sul divano.

* * *

Mi ripresi appieno dalla festa di Capodanno solo il 4 Gennaio. In quei giorni in casa eravamo due vegetali: io per la stanchezza e l’abuso di sostanze stupefacenti, Steve per la paura di essere stato rifiutato come padre e l’abuso di alcool. Sì, credo fosse proprio paura di essere rifiutato nell’esclusivissimo gruppo padre-figlio in cui avrebbe voluto entrare con Philip. In realtà erano tutte mie congetture, perché lui non aveva voluto parlarmi di quel che era successo – o non successo – a Liverpool. Quando provai a sondare il terreno, fu categorico: «No, non c’è niente di cui ti voglia parlare.» «Sicuro?» «Sì. Questo dolore è tutto per me.»

Non credo l’avessi mai sentito pronunciare la parola “dolore”. Fu sgradevole. Mi diede la sensazione che tutto fosse già deciso, che non ci fosse nulla da fare e che la speranza, seppur fragile, di ricostruire il rapporto fosse definitivamente andata perduta. E che anche lo Steve buono che avevo intravisto era scappato per lasciare solo lo Steve cattivo. Disse più con quella parola che se ne avesse cercate altre mille.

1 Si riferisce appunto al Mondiale di Italia 1990. David Platt (nato il 10 Giugno 1966 a Chadderton) è stato un centrocampista inglese dalla ottima visione di gioco e con l’istinto del goal. Militò in Italia col Bari nel 1991-92 (11 goal in 29 gare), poi con Juventus e Sampdoria – di cui fu successivamente anche allenatore per un breve periodo.

CAPITOLO XIII

Sul campo d’allenamento in Upton Lane eravamo appena una decina, allenatori compresi. Alcuni ragazzi dovevano ancora rientrare dalle vacanze nei Paesi d’origine, e Steve non s’era presentato. L’anno vecchio s’era concluso con due striminziti pareggi in tre partite e tutti speravamo che l’anno nuovo segnasse un cambio di marcia. In realtà, a seconda della religione professata da ognuno di noi, l’anno nuovo cadeva in momenti completamente differenti, ma in quel freddo pomeriggio non ci avevo pensato. «Grazie di essere qui ragazzi, spero abbiate ato delle buone vacanze» iniziò il suo discorso Imran - «E che non abbiate mangiato troppo! Quest’anno dobbiamo cercare di fare più punti perché altrimenti rischiamo la retrocessione in seconda divisione.» Tutti sapevamo cosa avrebbe significato: la Sunday League si gioca di domenica, ma il nostro pur tremendo orario delle 10.30 non è il peggiore, dato che la seconda divisione su alcuni campi gioca alle 9. Alle 9! Tutti noi avremmo sputato sangue per evitarlo, di questo ero certo. Per fortuna solo due squadre sarebbero retrocesse e una sembrava essere già scritta: i Colts – che anche noi avevamo battuto – erano fermi a un punto. Noi eravamo a quota cinque mentre a undici lottava un gruppetto di formazioni nel limbo fra le prime posizioni e la retrocessione. Ritornare ad allenarsi, specialmente sottozero, fu un trauma non indifferente: ogni mia giuntura mi pregava di lasciar perdere e di correre a casa a farmi un tè caldo. Ero fortemente tentato di ascoltare il consiglio, quando ricominciai a sentire i ragazzi che parlavano di come avessero trascorso quei giorni a casa. Cominciai a viaggiare, con la mente, dal Mali al Senegal, dal Pakistan alla Colombia, fino al Galles e a casa mia. Ricordai in un attimo il motivo per il quale fossi ancora lì, con indosso una calzamaglia di lana e le manopole, nonostante non fossi interessato al calcio e la microfrattura mi desse ancora un po’ di fastidio. Provai a spiegare a Craig ciò che sentivo, e capii che non me ne sarei pentito: «Hai mai la sensazione di avere uno sguardo privilegiato sul Mondo, qui?» -

Domandai. «Cosa intendi?» «Beh, voglio dire, quante altre persone possono dire di conoscere e condividere esperienze con gente che viene da ogni parte del globo? Non ti senti un privilegiato?» «Sì, capisco. Piace molto anche a me e sai cosa?» - Continuò senza aspettare un mio cenno - «In qualche modo questa sensazione di viaggiare pur rimanendo fermi è la stessa che provo quando leggo. I libri mi aiutano a vedere cose che altrimenti non avrei tempo di scoprire.» Non ci avevo mai pensato veramente. Gli sorrisi, contento di aver condiviso con lui quel momento. Poi quel sorriso mi s’ingessò in faccia, e credo che l’effetto fosse abbastanza buffo, visto da fuori. Dopo un paio di giri così, il Mister – fermo in mezzo al campo – mi disse: «Vincenzo, hai una paresi facciale?»

* * *

Uscimmo dopo la doccia in un buio pesto. Attraversammo il parco, illuminati solo dalla luce della luna che filtrava tra gli alberi, in un silenzio assoluto. Andavamo verso il Trowel & Telegraph, dove forse avremmo trovato gli altri. Ci sedemmo al nostro solito tavolo e ordinammo un club sandwich. Non c’erano che un paio di persone. Un tipo era ad un tavolo solo con la sua birra, ma continuava lo stesso a parlare incessantemente con QUALCUNO ipoteticamente seduto di fronte a lui. Aveva i capelli pettinati con cura, a spazzola e freschi di barbiere. La sua faccia rubizza era incisa di rughe profonde, ma sotto sotto non sembrava avere più di quaranta anni. La sua barbaccia, una volta rossa, declinava ormai al bianco. Ad ogni sorso alzava il bicchiere, brindando alla salute di chissà chi. Le sue mani tozze

insistevano nel dare indicazioni, non so per cosa. Annuiva convinto, con grande energia, confermando qualcosa che gli sussurrava il vento. «Dev’essere matto» - sussurrò Craig. «Perché dici così?» «Ma non vedi? Sta parlando da solo!» - Rispose un po’ spazientito. A volte mal sopportava la mia vena da bastian contrario. «Magari per lui lì c’è davvero qualcuno.» «Sì, forse, ma – visto che non c’è – è matto. Punto.» «Chi siamo noi per dirlo? Nessuno è normale, visto da vicino.» «Porca miseria Vinnie, devi sempre filosofeggiare?» «Mi piace complicarmi la vita.» Ci portarono i nostri fantastici sandwich, che divorammo in silenzio. «Comunque non è che voglia sempre dire la mia» - ripresi, buttando giù un sorso di Coca-Cola - «È che alcune cose che sono successe mi hanno fatto pensare ai casi della vita che possono portarti a distruggerti.» «Ti riferisci a Steve?» L’uomo dalla barbaccia bianco-rossa s’era alzato per chiedere un’altra birra. Lo aveva fatto in maniera estremamente normale, parlando con tono pacato e cortese. Aveva preso il suo bicchiere, per poi risedersi al suo posto. E ricominciare a conversare, scusandosi anche – m’era parso – con l’interlocutore immaginario. «Sì, mi riferisco a Steve. Dobbiamo fare qualcosa, non credi?» «Cosa intendi?» - Disse con una certa preoccupazione. «Si sta distruggendo. Più di prima, intendo.» «Non credi sia abbastanza adulto da sapere quello che fa?»

«Non sei mai abbastanza adulto, o abbastanza pronto, quando si tratta di cose come queste.» «Non lo so, Vinnie, non lo so. Mi sembra sia troppo orgoglioso per chiedere aiuto. Specialmente a noi.» «Non ne sono così convinto. Ultimamente, qualche volta insomma, abbiamo parlato. Mi sembra abbia bisogno di sfogarsi, mi sembra stia cercando un appiglio.» «Davvero credi sia così?» «Mi pare di sì, ma dopo Liverpool... Zero... Non mi ha detto nulla. S’è chiuso a riccio. Tu ne sai niente?» «No, meno di zero. Ci siamo incontrati poco, e io ho fatto – lo ammetto – finta di non vedere come si stesse buttando via» - confessò Craig, abbassando lo sguardo sul piatto vuoto. «Sì, anch’io dopo Natale ho perso la vocazione da crocerossina» - confessai a mia volta. «Hai in mente qualcosa?» - M’incalzò. «No, onestamente no. Non possiamo certo forzare il ragazzo, Philip.» «Su questo hai ragione. Il calcio?» «Una specie di football-therapy vuoi dire? Mah... Non so...» Fummo interrotti dall’arrivo di Joshua. Rimanemmo sorpresi nel vederlo solo. «Ciao J, dove hai messo Ferdinand?» «Ciao ragazzi» - fece lasciandosi cadere sulla sedia e spruzzandosi subito in gola un paio di dosi del suo spray per la tosse - «Ferdie ultimamente è sempre con la sua ragazza.» «Boom! “La sua ragazza”, vuoi dire che ce l’ha fatta?» - Chiese Craig contento

come una Pasqua. «E bravo il nostro Ferdinand, ma senti» - abbozzai fingendo non mi interessasse più di tanto - «alla fine sai che metodo abbia usato?» «Avevi ragione tu vecchia macchina» - fece Joshua, assestandomi una pacca sulla spalla un po’ troppo amichevole - «l’ha abbindolata con quelle smancerie. Lei gli ha confessato di non aver mai ricevuto tante “tenere attenzioni” – proprio così gli ha detto. Vi rendete conto?» «Ah, le donne» - sospirai teatrale - «così prevedibili.» Gli altri mi squadrarono, prima di mettersi a parlare delle solite cose. Mi alzai, dicendo che avevo bisogno di fumare all’aperto. In effetti quell’odore mentolato mi dava sui nervi. Uscii dalla porta e guardai in alto. La luna era una falce rivolta all’insù. Arrotolai bene la sciarpa intorno al collo e presi a camminare, senza sapere dove andare.

* * *

«Mi piace come suonano i nomi delle stazioni di Londra, a te no?» - E continuai, senza aspettare la risposta - «Mornington Crescent, Stepney Green, Blackfriars, Seven Sisters,... Suonano così bene, io li trovo stupendi!» «A me sembrano soltanto nomi» - mi troncò Craig. Stavamo affrontando una delle più lunghe trasferte della nostra Sunday League, circa una decina di miglia. Eravamo attesi dall’Inter Camden, squadra ostica che gioca in Regent’s Park. Sì, proprio in mezzo al parco. «Ma sei sicuro che dovessimo scendere qui?» - Mi domandò allarmato Craig. «Io? Io stavo seguendo te!»

Non avevo idea di dove ci trovassimo, e a dire il vero neanche di quando ci trovassimo. Ero andato a letto non più di quattro ore prima, e Craig aveva pensato bene di svegliarmi che ancora faceva buio. Lo odiavo per questo, e credo dovesse ritenersi abbastanza fortunato che non l’avessi morso alla giugulare per quel dispetto. «Cazzo. Ok, diamo un’occhiata alla cartina che c’è dentro la stazione.» Non eravamo lontanissimi dal parco, ma ci avremmo messo venti minuti buoni a piedi. «Che facciamo? Aspettiamo l’autobus?» Non avevo opinioni in merito a nulla. Volevo solo arrivare al campo e sedermi sulla mia panchina. Ci sarebbe stata una panchina per me nel parco? «Non so Craig...» «Sai che ti dico? Corriamo.» «Cazzo dici?» «Andiamo là correndo, ci servirà da riscaldamento!» «Sei pazzo? Non dirai sul serio!?» Diceva sul serio. Non mi aspettò e partì. Dovetti sforzarmi parecchio per resistere alla tentazione di raggiungerlo solo per falciarlo con uno sgambetto. Inutile dire che arrivammo al parco in uno stato pietoso, almeno io. Ero talmente intabarrato che avevo sudato come un finlandese in sauna, mentre Craig era appena appena un po’ arrossato in viso. Impiegammo quasi lo stesso tempo a raggiungere il parco che a trovare il campo, visto che ce n’erano almeno una dozzina affiancati, e si stava giocando in tutti! Ci richiamò un urlò di Djibril. Stavo tentando di riprendermi, e crearmi una panchina morbidosa con i giubbotti e le sacche degli altri, quando il mister mi si avvicinò:

«Tutto bene Vincenzo?» Riuscì a rispondere fra un colpo di tosse e un respiro affannoso: «Benone Mister. Abbiamo sbagliato metropolitana così abbiamo dovuto correre un po’.» «Meglio, così sei già caldo per giocare.» «Cosa?» «Così sei già pronto per andare in campo, dico. Forza e coraggio!» Mancavano solo cinque minuti al calcio d’inizio, e meno male. Non avevo idea di cosa si fe. Andai da Craig e gli dissi che dovevo giocare. «Te l’avevo detto che sarebbe arrivato il tuo momento, Vinnie! Forza!» «Craig?» «Sì?» «Dove devo mettermi?» «N-Non te l’ha detto Imran?» «No.» Craig trotterellò verso il Mister, mentre io dissimulavo qualche piegamento. In realtà cercavo di nascondere la faccia paonazza. Che vergogna, giocavo a calcio da mesi e non avevo idea di quale fosse il mio ruolo! «Giochi a sinistra, a centrocampo.» «Lì?» - Feci indicando con la mano grossomodo una zona del campo. «Sì, Vinnie, lì.» «Ok.» «Dai che ce la fai.»

«Certo, vai tranquillo» - dissi ostentando sicurezza. Nel primo tempo toccai la palla un paio di volte, sempre per caso, e la vidi transitare vicino in altre tre occasioni. Nient’altro. Mi annoiai terribilmente, anche perché la partita stessa era noiosissima. Nessuno aveva tirato in porta. Dopo poco m’accorsi che ero stato schierato per obbligo, visto che eravamo undici contati. Ciò non aiutò ad aumentare la mia autostima. All’intervallo scegliemmo di chiuderci nei giubbotti per scacciare un po’ il freddo, e vedemmo arrivare Steve. Allargò le braccia quando era ancora a cinquanta metri da noi, sembrava volersi scusare. Poi, però, non disse altro che: «Come andiamo?» «0 – 0» - gli fu risposto. Si chinò per cambiarsi le scarpe, e Imran cominciò a squadrarci uno a uno. Escluso il portiere, tutti sapevamo che avremmo potuto dover cedere il posto a Steve, ma io lo sapevo un po’ più degli altri. Ero tradizionalmente l’uomo della panchina, e avevo semplicemente fatto schifo. Avrei dovuto farmi da parte volontariamente? Avrei dovuto sacrificare il mio divertimento personale al successo di squadra? Avrei dovuto riposare le mie stanche membra e confortarle con del tè caldo che Djibril stava bevendo? Sì, avrei dovuto, e – per una volta – lo feci. «Scendo io mister» - dissi col mento alto. Sentii un mormorio di approvazione e sollievo. Imran tentò molto debolmente di farmi desistere anzi, pensandoci bene mi pare che non ci abbia provato affatto. Mi ringraziò e cominciò a dare istruzioni a Steve. «Hai una tazza di tè anche per me?» - Chiesi a Djibril. «Certo amico. Tu prendi tè e siedi qui. Panchina fatta da Djibril è comoda come letto di Marajà.» Mi spalmai sui giubbotti dei compagni, mentre gli altri stavano rientrando. Steve mi ò vicino strizzandomi l’occhiolino. Aveva paura che lo avrebbero sentito se avesse ringraziato? Al diavolo la sua

immagine di duro! Comunque il vecchio Campbell si piazzò nella solita posizione centrale, cominciando a smazzolare aggi ovunque. Finalmente si materializzò qualcosa di simile al gioco del calcio a Regent’s Park, in quella fredda mattina di gennaio. Quando infine si rese conto che nessuno avrebbe mai segnato, neanche se avessimo giocato per tre giorni, Steve si schiodò dal cerchio centrale e prese la mira con un paio di tiri che sfiorarono il palo. A quel punto, era chiaro. Solo un suo tiro da lontano avrebbe potuto sbloccarci, e così fu. Calciò da trenta metri, rasoterra. La palla acquistò velocità sull’erba ghiacciata, e il portiere non pensò nemmeno per un secondo di buttarsi sulla terra durissima. Uno a zero e tutti a casa, visto che le docce non c’erano. Sulla strada del ritorno, in tre nella Mini di Steve, c’era una strana atmosfera. E non mi riferisco all’odore di sudore che seccava sulla pelle, sotto le magliette sintetiche. Normalmente gli inglesi chiedono scusa per qualunque cosa. Se anche solo con lo sguardo ti incrociano per strada facendoti deviare di un millimetro la tua traiettoria, dicono “sorry”. Così, quando capita che qualcuno sia scortese o maleducato, sembra lo sia dieci volte di più. Nel caso particolare di Steve, sembrava lo fosse cento volte di più. Non era in grado di chiedere scusa, o di ringraziare normalmente. «Beh, alla fine l’importante era vincere...» - esordì l’usurpatore di posti in campo. «Hai ragione. Ora ci mancano quattro punti per salvarci» - lo sostenne Craig. Io rimasi ostentatamente in silenzio. Guardavo fuori dal finestrino, seduto sul sedile posteriore. «Che ne dici Vinnie?» «Oh, sì certo» - buttai lì accentuando la mia noncuranza. «Sei stato utile, oggi, alla grande» - disse Steve. «Come no. Non mi hai nemmeno visto giocare.»

«Me l’ha detto il Mister.» Bugiardo. Tentava di lisciarmi il pelo. «Certo, certo.» «Dai Vinnie, non ti offendere, ma hai fatto bene a lasciarmi il posto, no? Ho fatto goal!» «Non vedi come sono contento?» - Ironizzai. «Ma insomma, sinceramente, era giusto così insomma io sono... Tu sei... Io... Insomma potevo fare goal e l’ho fatto!» «Stai forse dicendo che sono scandalosamente scarso, per cui è giusto che ti lasci il posto?» Certo che lo stava dicendo, non avevo bisogno che me lo confermasse. «Mannò, sto solo dicendo che eri stanco, e qualcuno doveva scendere...» «Senti, mi sono fatto da parte per togliere il Mister dall’imbarazzo. Tanto avrebbe tirato giù me! Punto e basta.» «Questo non è detto» - ribatté senza alcuna convinzione Craig. «Discorso chiuso» - chiosai. Non so perché me la fossi presa. Non stavo più in piedi, e in campo ero inutile. Avevo fatto la cosa giusta, ma mi dispiaceva che il mio gesto fosse dato per scontato da tutti. Era l’implicito riconoscimento che fossi il peggiore della squadra, e non poteva certo farmi piacere. Rimanemmo in silenzio fino a casa. Steve fermò la macchina, e il primo a scendere fu Craig. Per un attimo restammo dentro solo noi due. «Vinnie?» «Mh?» - Mugugnai. «Grazie» - sussurrò.

«Oh, finalmente ci voleva tanto a dirlo?» - Sorrisi platealmente, allargando le braccia - «Prego Mr. Campbell, prego.» Uscì dalla macchina inforcando gli occhiali scuri, e recuperando il suo sguardo da duro.

CAPITOLO XIV

Ormai era nostra abitudine, dopo le partite, fermarci tutti assieme a mangiare nel ristorante indiano di Naadir, il nostro portiere. Naadir aveva moglie e sei figli, tre dei quali – due ragazzi e una ragazza – abbastanza grandi da lavorare nel locale. Per il Bari FC era diventato un rito allegro e accomunante, cui però Steve si sottraeva sistematicamente, adducendo scuse sempre più improbabili. Una volta ritirò fuori che aveva dei lavori da sbrigare al negozio, quando ero certo che non ci mettesse piede da almeno tre mesi. Sapevo perché non voleva stare lì, ma mi faceva rabbia pensarlo. Una volta decisi di essere esplicito con lui: «Perché non vieni mai a mangiare con la squadra?» «Ho da fare, lo sai.» «Non dire cazzate, sono mesi che non fai niente.» «Non mi va, ok?» «Possibile che non ti vada MAI?» «Sì, è possibile, evidentemente.» «Non ti va di stare con gente di colore?» - Decisi di andare al punto. «Non mi va di mangiare quella merda.» «Ma di che cazzo parli?» «Senti, lo sai benissimo. Tutta quella roba ti distrugge lo stomaco, Cristo, non lo vedi? Puzza mortalmente, cominci a puzzare di curry dai pori e neanche te ne accorgi! Dio, e poi ci fosse uno che parli inglese là in mezzo! Il più simile è quel gallese di Craig, ma lui lo vedo già a casa...» «Ma ti rendi conto di che cazzate stai dicendo? Cos’hai in quella testa, dei cavi che fanno contatto?» - Non potevo credere che la stessa persona in grado di soffrire tanto per un figlio potesse mancare così di sensibilità e rispetto nei

confronti del prossimo - «Hanno culture differenti, cibi differenti, lingue differenti... Ma tu per loro sei quello differente, eppure continuano ad accettarti e a volerti includere. Perché è bello conoscersi, è bello aprirsi. Perché siamo tutti parte di un insieme.» «Della squadra vuoi dire?» - Chiese, interessato. «Certo, ma non solo. Non solo. La vita non finisce dentro il campo, e tu lo sai.» Lo lasciai lì, sperando che qualche pietra gettata ogni tanto potesse smuovere l’acqua.

* * *

Rivedemmo il fantasma di Ferdinand una sera al Black Lion. Era smunto, emaciato, prosciugato. E non pareva proprio fosse per l’eccessiva attività sessuale. «M-m-Mi s-s-sa che è fi-fi-finita con Ma-Ma-Mary» - annunciò, roteando il fondo di una birra nel bicchiere. Lucas annuì lentamente come se stesse ascoltando solo la realizzazione di una sua antica profezia. Il saggio Lucas. Craig alzò le sopracciglia in maniera sin troppo teatrale, mentre Joshua – che ovviamente già sapeva tutto – si limitò a stringere la bocca con aria dispiaciuta. Toccava a me fare una faccia da lutto, ma non mi venne niente di buono. Assunsi una forzata espressione stupefatta e domandai: «È successo qualcosa? Mi pareva di aver capito da Joshua che tutto filasse liscio.» «S-Sembrava anche a me, in effetti. Poi qualcosa è ca-ca-ca-cambiato. Ha detto che era s-s-stanca della rou-rou-routine.» «Che routine? Vi frequentavate da un paio di mesi...»

«S-s-sai com’è-è-è...Io ho i miei tu-tu-turni, i miei o-o-orari... Lei studia ed è più li-li-libera.» «Ah, capisco. Voleva essere riconquistata ogni giorno.» «Bra-bra-bravo! Ha detto proprio così, proprio così “riconquistata ogni giorno”.» Stavolta fu il mio turno di annuire solennemente. Avevo individuato il pomo della discordia. Speravo nessuno si aspettasse anche che avrei trovato la soluzione, però, perché non avevo alcuna idea. «Idee?» - Chiese puntualmente Joshua. «Ci vorrebbe Mark» - dissi senza pensare. Lucas mi fulminò con lo sguardo. Gli altri non ne sapevano nulla, quindi Ferdinand ammise candidamente: «L’ho sentito, ma ha detto di avere qualche problema con sua madre. Dice che gli sta molto addosso.» «Per cosa?» - Domandò Craig. «Mah, sembra che sia in qualche giro poco raccomandabile. Ma non è certo una novità per Mark, eh?» - Chiese conferma Ferdie, guardandoci tutti. Convenimmo silenziosamente con il nostro Cuore infranto, il cui problema, però, rimaneva insoluto. Joshua si spruzzò un po’ di spray in gola, nel silenzio generale. Si ritenne soddisfatto alla terza erogazione. Lo stavamo guardando tutti, ma lui ripose il suo spruzzino in tasca e alzò le spalle: «Beh? Che c’è? Ho la gola un po’ arrossata.» «Certo, un po’ arrossata» - lo canzonò Craig. «Ok, vogliamo parlare della mia gola o possiamo dare una mano a Ferdie?» Replicò brusco Joshua. «Idee?» - Feci io furbescamente, fregando tutti sul tempo.

Nessuna. In tema di donne eravamo degli zero assoluto. Ferdinand avrebbe dovuto cavarsela da solo. «Potremmo ordinare un altro giro» - suggerì lo stesso Ferdinand, allargando le braccia come ad arrendersi al destino. Se l’era cavata anche stavolta, vecchia pellaccia. C’est la vie.

* * *

La nostra squadra stava rapidamente migliorando: ogni tanto strappavamo un punticino, e avevamo anche bissato la vittoria contro i Colts, in casa loro, condannandoli definitivamente a giocare alle 9 del mattino la stagione seguente. Posso solo immaginare il loro odio nei nostri confronti. Eravamo ancora penultimi ma il pessimo livello generale della Lega ci consentiva di sperare ancora: davanti a noi c’era il Santos FC, una squadra imbottita di brasiliani che – contrariamente alla tradizione – col pallone erano soliti litigare. Noi avevamo aggiunto fra di noi un argentino, Alvaro, simpaticissimo cuoco ventenne, che viveva a Londra da pochi mesi. Non parlava quasi inglese, ma correva come un matto e sorrideva sempre, e tanto bastava. S’era integrato in un attimo, in campo e fuori. Spesso, al ristorante di Naadir, dava anche una mano. Mi divertivo molto a parlare con lui, perché spesso inventava parole nuove senza accorgersene, mischiando spagnolo e inglese con disinvoltura. Un pomeriggio arrivammo entrambi al campo d’allenamento con troppo anticipo. I cancelli erano chiusi e ci mettemmo a fare un pisolino ai piedi di un albero lì vicino.

* * *

Ero in Italia, su una spiaggia della Riviera Adriatica, credo. Avevo molta sete, moltissima. La gola mi si stava chiudendo, e facevo fatica a respirare e persino a deglutire. Decisi così di alzarmi per andare a prendere qualcosa. Tutti si giravano

a guardarmi, perché ero nudo. Era terribile, mi sentivo perso ma non ricordavo di aver mai avuto un costume, o un telo. Non sapevo come coprirmi. Nessuno rideva o mi insultava, ma mi sentivo vulnerabile e senza protezione. Arrivai al bar, e mi diedero l’acqua senza che la chiedessi. Uscii ma non ero rinfrescato. C’era un africano, carico di cose da vendere. Mi chiese se volessi comprare qualcosa, ma io gli feci vedere che ero nudo, e quindi non avevo niente. Ma non ero più nudo, no. Adesso avevo dei pantaloncini, e una camicia estiva. Mi sentivo nudo di fronte a lui, adesso. Stavo male, peggio di prima. Gli dissi che, comunque, non avevo niente ma lui mi chiese qualcosa da mangiare. “Ho da bere” dissi, ma l’acqua era già calda. Il nero si girò e se ne andò. Ora mi trovavo in un parcheggio di automobili arroventate dal sole. Dall’intrico di lamiere non sapevo come uscire, ma forse non volevo neanche farlo. Stavo cercando qualcosa, non so cosa. Poi rividi il nero. Era accovacciato all’ombra di una jeep enorme e stava scartando un pacchettino. Guardandolo da lontano mi colse una tristezza infinita, un senso di impotenza grandissimo, la voglia di urlare. Provavo a chiamarlo, ma non ne conoscevo il nome, e non usciva voce dalla mia gola secca. Così mi avvicinai e il suo sguardo mi attraversava, senza sentimenti. Semplicemente, guardava oltre. Aveva gli occhi venati di rosso, ed erano malinconici, enormi e disperati. Immaginai che stesse pensando perché diavolo si trovasse lì, in un mondo così brutto, accucciato in un parcheggio riarso dal sole, lontano da dov’era nato e dalla sua vita. Cosa aveva fatto di male, per trovarsi in quel posto? Mi avvicinai ancora, e vidi che stava mangiando, ma non riuscivo a mettere a fuoco che cosa. Mi concentrai sulle sue mani che frugavano nel cartoccio. Dentro c’erano denti e ossa microscopiche. “Non ci lasciano altro” mi spiegò, senza che avessi detto nulla. Mi misi a piangere e mi rannicchiai vicino a lui, mormorando delle scuse. Poi si avvicinò il proprietario dell’enorme jeep, e il nero era già lontano. L’uomo cominciò a battermi sul fianco con lo stivale, ma io non riuscivo a recuperare la coordinazione. Rimanevo sospeso fra il sonno e la veglia. Poi il tipo mi calciò più forte, e mi svegliai. Ero ancora sdraiato all’ombra, e Alvaro mi stava dando dei calcetti. «Ma quanto dormi, bell’addormentato nel bosco!» - Mi canzonò - «Dai andiamo che gli altri sono già dentro.» Avevo il respiro un po’ affannoso, e una sete atroce. Ma ero contento di essere lì e non sulla spiaggia. Quando entrai nello spogliatoio mi vidi davanti Omar, e quasi mi venne un

colpo. Mi resi conto che somigliava moltissimo al nero del sogno. «Ho qualcosa sulla faccia?» - Mi chiese, andando a guardarsi allo specchio. «N-no, scusami» - risposi. «Mi stai guardando strano...» «Sarà innamorato» - s’intromise sghignazzando Alvaro. Omar fece una smorfia disgustata. «No, ora ti spiego. M’ero addormentato e ho fatto un sogno...» Raccontai il sogno a Omar, con tutta la difficoltà che comporta narrare qualcosa di confuso e pieno di contraddizioni che sta svaporando dalla testa, minuto dopo minuto. «Beh, io ci sono ato anche dall’Italia, amico. Il tuo sogno è molto vero, te lo garantisco. Lo capisco. Ma se uno come te mi si fosse addormentato addosso piangendo, credo lo avrei riempito di pugni.»

CAPITOLO XV

Pioveva a dirotto quel pomeriggio. Un po’ ci godevo: primo perché mi toccava lavorare - e con quell’alluvione senz’altro ci sarebbe stata meno gente per la strada; secondo perché sapevo che Steve era allo stadio e si sarebbe infradiciato. Devo però ammettere che are le serate con lui era estremamente gratificante. Con tutti i suoi difetti era in grado di farti sentire una persona migliore. Era un po’ come appaltare a terzi quella componente maligna in ognuno di noi, e potersene avvalere solo se necessario – disinteressandosi degli scarti di lavorazione. Nonostante la positività di questa sua caratteristica, nutrivo per lui un sentimento molto contorto, che non ero in grado di chiarire in soliloquio: tentavo di sfogarmi a volte con Craig, ma con quel buon samaritano era impossibile lanciare una soddisfacente e incivile sfilza di improperi verso altri! Prima di uscire lasciai un messaggio attaccato alla porta di Craig per chiedergli di trovarci più tardi in Covent Garden, giusto per essere sicuri di andare dove ci fosse un po’ di vita. Tanto più che nei giorni prima di San Patrizio a Londra non c’è un cazzo. Tutti aspettano la festa del patrono irlandese per comportarsi come irlandesi e poi divertirsi a sfottere gli irlandesi. Presi la cerata per coprire anche lo zainetto, infilai la porta e mi diressi verso la stazione della metro. Il rumore della pioggia superava anche quello delle macchine, e le gocce tamburellavano sempre più forte sulla tela. Non avevo molta strada da fare, ma lo stesso non riuscii ad arrivare a West Ham senza essermi inzuppato le scarpe. Sarebbe stato un lungo viaggio con i piedi a mollo. Mi appisolai sui sedili della metro. L’acqua, raffreddatasi nelle Adidas, mi fece pensare a quanto potesse essere dura la vita per un povero immigrato. Avevo bisogno di piangermi un po’ addosso, ma quel giorno non c’era nemmeno la cuoca Emma a coccolarmi come un figlio, e dovetti tenere per me i piedi bagnati e i pensieri cattivi. Come se non bastasse m’ero sbagliato di grosso sull’affluenza al nostro locale: sembrava che tutti gli idromani del Regno Unito si fossero dati appuntamento nella piazzetta davanti al locale per una bella secchiata d’acqua e un hamburger. Scambiai i miei cinque minuti di pausa toilette con una sigaretta sul retro, e ne

approfittai per mandare un messaggino a Craig, dicendogli che prima di uscire sarei ato da casa per cambiarmi le scarpe ed infilarmi una muta da palombaro. Non avevo proprio voglia di are la serata in ammollo. Una volta terminato il turno e smesso di piovere, mi avviai a casa tenendo la cerata in un sacchetto di plastica. Il fatto che la gente ora non stesse più bagnandosi mi fece sentire ancor più solo nella mia condizione di uomo-coipiedi-zuppi: così, prima di scendere nella stazione della metro, mi infilai da Sport24 e comprai un paio di Adidas nuove. Per evitare di provarle coi calzini fradici le acquistai identiche a quelle che avevo ai piedi. Magari saranno anche state uguali, ma quelle erano nuove e asciutte, e tanto bastava a eccitarmi nell’attesa di sfoggiarle quella sera stessa. E poi non erano proprio identiche: c’era una righina verde sul tallone che nel modello vecchio mancava. Arrivai a casa sollevato, e desideroso di una bella doccia calda. Mi spogliai completamente già all’ingresso e salii le scale nudo. Mi cacciai sotto la doccia e ci rimasi fino a che il vapore non rese il bagno un ambiente adatto alla vita anfibia. Andai in camera e mi vestii per la serata, poi scesi di sotto per recuperare il sacchetto con le Adidas nuove. Quando le estrassi dalla scatola celeste ne respirai a pieni polmoni il profumo e le osservai come fossero un capolavoro di scultura. Fu proprio in quel momento che mi resi conto che in casa mancava qualcosa. L’aria era fresca, e il profumo della doccia la pervadeva. C’era silenzio. Mancava Steve, ecco cosa. A quell’ora solitamente era già rientrato anche dalle numerose pinte post-match, anche perché il West Ham di quei mesi era piuttosto restio a regalare soddisfazioni ai tifosi che, quindi, rientravano presto a casa in preda ad una sbronza triste e per nulla sociale. Ricordo che qualche giorno prima la squadra avevo perso 6 a 0 e c’era stato parecchio casino nei bar dove i tifosi stavano seguendo la partita. Naturalmente, Steve aveva preso parte ai tafferugli ed era tornato a casa con un taglio sulla fronte e una mano tumefatta. Craig ed io avevamo evitato di chiedergli spiegazioni, ma lui era stato ben fiero di fornircele senza richiesta dettagliando le sue imprese di picchiatore da strada. Mi par di ricordare che il valido motivo fosse un diverbio sulla formazione iniziale, o

qualcosa del genere. Prima di telefonargli, comunque, mi premurai di controllare su internet il risultato della partita. Oh-oh. A quanto pare una nuova sconfitta, 4 a 3, con due goal incassati nei minuti finali. Decisi di soprassedere, lo avrei chiamato più tardi. Provai anzi un certo fastidio nei confronti prima di me stesso – che m’ero fatto degli scrupoli per quell’hooligan da strapazzo – e poi di Steve – il cui pensiero aveva osato disturbare il mio flirt con le Adidas nuove. Solo allora mi accorsi di un biglietto di Craig appiccicato alla porta, in cui mi diceva dove avrei dovuto raggiungerlo. Benissimo, indossai il giaccone e mi fiondai in strada. Correvo veloce, comodo, fico e ammortizzato, verso la stazione.

* * *

Avevamo appena ordinato qualcosa da mangiare quando squillò il cellulare di Craig. Io sedevo con una gamba ripiegata sotto il sedere e con la mano sinistra continuavo a lisciare la pelle delle scarpe. Ma sulla faccia di Craig calò una tenda scura in un attimo. Nella confusione del locale non avevo sentito cosa avesse detto, ma vidi che terminò la conversazione molto agitato. «Era Lucas. C’è stato un incidente.» «Cosa?» - Là dentro c’era davvero troppo rumore. «Ho detto che c’è stato un incidente, e Steve è in ospedale.» «Oh Cristo!» «Già... Sembra che sia stato investito.» «Merda, ti ha detto qualcosa di più?» «No... Però lui è là.»

Rimanemmo un attimo immobili, come se non avessimo idea di cosa fare. Ma c’era una sola cosa da fare. «Non credi che dovremmo andare anche noi? Ti ha detto in quale ospedale si trova?» - Domandai. «Sì, si certo. Andiamo.» In quel momento arrivarono al tavolo i nostri sandwich. Li raccogliemmo con un paio di fazzoletti e uscimmo di nuovo nella notte di Londra.

* * *

L’odore dell’ospedale è malattia e paura. Fatico a sopportarlo, mi dà il voltastomaco. C’è solo un reparto in cui riesco a rimanere qualche minuto senza impazzire: quello della maternità. Lì non c’è paura, ma attesa e gioia, e anche le luci al neon e le pareti verde cenere non possono soffocare la bellezza della speranza di una nuova vita. Una volta giunti in ospedale chiedemmo di vedere il Signor Campbell ma ci dissero di attendere al secondo piano, e nient’altro. Per tutto il tragitto eravamo stati in silenzio, ma ero certo che Craig stesse facendo le mie stesse congetture sulla gravità dell’incidente e sulle possibili conseguenze. D’altra parte ero anche ragionevolmente sicuro che lui si stesse interrogando in termini di rapporti umani, mentre io ero impegnato a soppesare i risvolti pratici e materiali dell’intera faccenda. Non volevo condividere con un ragazzo buono e sensibile come lui le mie preoccupazioni sull’eventuale organizzazione dei funerali e sul fatto che avremmo dovuto cercarci una nuova casa. No, era decisamente meglio parlare d’altro. «Sai che prima, quando ho visto che non era ancora rientrato, avevo pensato di chiamarlo?» - Buttai lì, senza aspettarmi che Craig rispondesse. Invece mi guardò neanche fossi uno stregone. «Vuoi dire che te lo sentivi?» - Disse sgranando gli occhi, e tirando la testa un

po’ indietro per mettermi a fuoco. «No, ecco, non volevo dire questo. Semplicemente mi sembrava strano che non fosse ancora rientrato. Ho anche guardato il risultato della partita prima di contattarlo.» «E?» «Niente, poi ho visto il tuo biglietto e sono venuto al bar...» «No, voglio dire» - mi interruppe - «E com’è andata la partita?» Non me l’aspettavo da Craig. Balbettai, come un puritano, come se fossi davvero scandalizzato per l’inopportunità della domanda: «Beh, ecco, han perso 4 a 3... Vincevano 3 a 2 ma poi hanno perso. Ma non credo sia questo il momento...» «No, infatti» - chiuse il discorso, riuscendo a risparmiarsi il mio sermone buonista. Arrivammo di sopra, nella sala d’attesa, dove Lucas Wright era avvolto nel suo impermeabile troppo grande. Ci salutò con un cenno e ci ripeté sottovoce le poche cose che già ci aveva detto al telefono. Lui non era andato allo stadio, ed era stato avvertito da un compagno di curva di Steve – che aveva assistito all’incidente. Eravamo tutti lì, seduti e impotenti. Mi venne una voglia tremenda di fumare, non foss’altro che per scacciare quell’odore di ospedale da sotto il naso. «Vado fuori per una sigaretta» - dissi alzandomi. Craig mi rispose con un cenno della mano. Fuori le nuvole avevano lasciato posto ad un cielo nerissimo, dove solo le stelle più luminose potevano vincere le luci della città e farsi ammirare da quaggiù. Mi sentivo debole, ed ero un po’ raffreddato. A volte il fegato mi giocava questi

brutti scherzi, dandomi improvvisi attacchi febbrili che altrettanto rapidamente se ne andavano. Sicuramente are tutto il pomeriggio con i piedi bagnati non aveva migliorato le cose. Spensi la sigaretta nella sabbia del posacenere dopo un paio di tiri, ma rimasi ancora un po’ fuori a respirare l’aria fredda e a riflettere. Sì, pensavo meglio da solo che in compagnia. Con Craig a fianco, in particolare, sentivo il bisogno di equilibrare la sua grande sensibilità con generose badilate di cinismo – nemmeno fossimo gemelli siamesi. Ma lì fuori in quel momento ero solo, e potevo chiedermi cosa davvero mi stesse angosciando. Da parecchi anni ormai ero a Londra e avevo conosciuto una marea di persone: ragazzi buoni per un’uscita e ragazze buone per una chiacchierata, colleghi di lavoro simpatici e colleghi di lavoro da sopprimere, compagni di bevute in allegria e compagni di stanza da allergia. Però Steve era stato il primo a riporre in me un qualche tipo di fiducia: non lo aveva fatto – giustissimamente – nessuna persona sana di mente, nessun capo e neanche qualche amico. Beh, forse un po’ Craig, ma più o meno negli stessi mesi in cui conobbi Steve. E non capivo cosa ci trovasse, quell’uomo che adesso era in una stanza di ospedale attaccato ad un tubo, in me. Lui odiava tutto ciò che io rappresentavo, tranne me stesso. Ero straniero, e lui non sembrava sopportare nessuno che fosse nato fuori dall’isola. Non bevevo alcol (anche se avrei voluto) e lui non si fidava di chi non beveva. Non sapevo giocare a calcio, quindi probabilmente faticava a classificarmi come uomo. Inoltre, cercavo di mantenere un’igiene personale decente, mentre per Steve il vero maschio non ha necessità di lavarsi. Eppure si era confessato con me in più di un’occasione. Mi aveva aperto il suo (secondo) cuore come nessuno aveva fatto prima. D’altronde non riuscivo a mettere a fuoco nemmeno ciò che io provassi per lui. Campbell ostentava il suo razzismo e la sua intolleranza, mentre io amavo il melting-pot e le contaminazioni. Campbell era grezzo, limitato e ignorante, ma soprattutto fiero di esserlo. Dovevi essere con lui o contro di lui – e potevi stare certo che per gli amici del gruppo avrebbe dato la vita. Ma io non mi sentivo dei suoi, e al tempo stesso non ero in grado di odiarlo. Criticavo i suoi atteggiamenti e le sue frasi più becere, ma non gli impedii mai di esprimersi. Beh, avevo caricato un bel freddo ed ero sicuro solamente di non aver chiarito un bel niente dentro di me.

Quando arrivai al secondo piano vidi Craig e Lucas in piedi, intenti a parlare con un dottore. Affrettai il o e, senza nemmeno salutare, chiesi: «Allora, novità?» «Il dottore mi stava dicendo che...» - iniziò Craig. «Il signor Campbell ha subito un forte trauma in seguito all’impatto con un’auto. Al momento dell’ingresso in ospedale era svenuto e presentava la frattura di due costole, numerosi ematomi e un’emorragia interna. L’emorragia è stata subito ridotta, e ora il paziente è sedato per riposare. Domani potremo essere più precisi.» «Ma in definitiva come sta?» «Piuttosto bene direi. È stato fortunato. Abbiamo visto che il Signor Campbell ha già avuto vicissitudini peggiori, se la caverà benone.» «È una pellaccia il vecchio Steve» - disse Craig prendendo la frase direttamente da un battutista americano di serie B. «Si potrebbe definire così, immagino» - disse il dottore, arricciando il naso come se qualcuno gli avesse scoreggiato in faccia. Lucas annuiva col capo. «Dottore?» «Si?» «Possiamo vederlo?» - Anche io non volli essere da meno in quanto a frasi da telefilm. «Giusto un paio di minuti. Poi vi consiglio di andare a casa e tornare domattina.» Entrammo nella stanza, dove c’erano quattro pazienti, e ci avvicinammo al letto di Steve, che era in fondo a fianco alla finestra. Il dottore rimase sulla porta, tenendola aperta con la mano. Mi stava già sul cazzo. Il dottore, non la porta. Lucas strinse con una mano il freddo metallo della spalliera e parve trarne

sommo piacere. Vidi la sua faccia distendersi. Socchiuse gli occhi per sentire meglio le sensazioni di quel momento che per lui doveva essere di sollievo assoluto. Immaginai che avesse temuto davvero di perdere un punto di riferimento, il suo unico compagno di vita. Mi ripromisi di indagare più a fondo sul loro rapporto in un’altra occasione. Craig ed io ci scambiammo un’occhiata, comunque molto rasserenati. Steve era tutto intero e sarebbe tornato a romperci le palle molto presto. «Signori...» - disse spazientito il dottore alle nostre spalle. Io girai i tacchi velocemente e gli ai di fianco a razzo per vincere la tentazione di tirargli un pugno. Lucas fu l’ultimo ad allontanarsi dal letto, lentamente, ed uscì dalla stanza senza mai staccare gli occhi da Steve, per imprimersi bene sulla retina quell’immagine. Non mi piaceva Lucas, non so perché, ma dovevo riconoscergli una fedeltà maggiormente propria della razza canina, che di quella umana. Mentre scendevamo le scale, sentii il dovere di dirgli qualcosa. «Vedrai che si rimetterà presto, stai tranquillo» - lo incoraggiai, senza ovviamente alcun fondamento per poterlo dire, se non l’ottimismo e le parole del dottore. Lui alzò lo sguardo da topo-cane fedele e mi ringraziò sollevando il mento e contraendo la bocca, annuendo ancora.

CAPITOLO XVI

In effetti Steve tornò a romperci le palle nel giro di un paio di settimane. E lo fece all’ennesima potenza. Con la scusa delle due costole rotte ci trasformò nei suoi servitori. Non poteva portare pesi, e così toccava a noi trascinare le casse di birra e le borse della spesa da Tesco fino a casa. Sentiva dolore nei movimenti – almeno così diceva – perciò si inchiodava al divano dalla mattina alla sera e pretendeva gli portassimo cibo, lattine e sigarette senza soluzione di continuità. Per difenderci da quella novella forma di schiavitù (doveva essere un vizio inglese, evidentemente) prolungammo i nostri turni al lavoro agganciandoci sistematicamente qualche eggiata in centro, o gli allenamenti. Avevamo anche un patto di solidarietà, per far sì che a nessuno di noi toccasse stare troppo a lungo solo in casa con Steve, e spartirci l’assistenza. Quella sera stavamo rientrando a casa, e il clima era generoso come non mai: potevo permettermi di girare con addosso solo una giacca sportiva, aperta. Mi sentivo stranamente euforico: «Sai cosa mi piace dell’alternarsi delle stagioni? Che ogni volta che ne arriva una... Ho proprio voglia che arrivi. È il suo momento insomma, e io sono pronto.» «Quando il tempo si riscalda e migliora piace a tutti, è vero!» - osservò Craig. Ma non era esattamente ciò che intendevo. «Non è proprio così... So che fra qualche mese non vorrò più il caldo, e avrò voglia di infilarmi il piumino, di are le serate in casa, di aspettare il Natale. Mi piace proprio che le stagioni cambino, mi sembra che dia nuova spinta alle cose.» «Sul fatto che ti piaccia l’inverno inglese... Permettimi di dubitare!» Era ormai piuttosto tardi e, davanti alla porta di casa, fummo sorpresi nel vedere la luce della stanza di Steve accesa. Probabilmente s’era addormentato dimenticando di spegnerla, pensammo. Scoprimmo invece il degente assorto nella lettura di certi documenti.

Ci fermammo sulla soglia della camera a osservarlo in silenzio, come una bestia rara. Aveva fogli sparsi ovunque, sul letto e sul pavimento, dove sedeva a gambe conserte. Era la prima volta che lo vedevamo leggere qualcosa. Indossava un inedito paio di occhialini da presbite sulla punta del naso che lo facevano sembrare molto più vecchio. E anche più magro: i giorni ati in ospedale l’avevano sgonfiato un pochino, anche se lui stava facendo di tutto per vanificare il miglioramento. Non sentì il bisogno di spiegarci nulla: «Hey ragazzi, com’è andata la serata?» «Tutto ok» - rispose Craig. «Che fai di bello?» - Buttai lì. «Oh, niente, niente. Sistemo un po’ di carte dell’ospedale, sai com’è: me ne hanno rilasciate un sacco per un graffio da nulla! Però non vorrei perderle, ecco.» «Già, già,...» - finsi di accettare la spiegazione. Quelle carte erano vecchie, quasi ingiallite, in gran parte compilate a mano. Non si riferivano alla recentissima degenza, era chiaro.

* * *

Dopo quella sera ò ancora qualche giorno prima che Steve si decidesse a renderci partecipi della sulla illuminazione. Lo fece davanti ad una pinta di Ale sui grandi tavoli esterni del Trowel & Telegraph, in quella che era la sua prima serata fuori dopo l’incidente. «Ragazzi, voi credete nel destino?» Era solo la prima birra, non poteva star già delirando. Ci guardammo incerti su cosa rispondere.

«Io no, credo che ognuno possa crearsi il proprio destino, e aiutare anche quello degli altri. Ma credo in Dio, questo sì.» «Qui Dio non c’entra, Craig» - parve volerlo zittire Steve. «Oh sì, caro. Sì che c’entra. Dio c’entra sempre. E, per qualche religione, è lui ad avere già deciso il nostro destino» - rispose il gallese. Steve fece una linguaccia e riprese, senza aspettare che anch’io dicessi la mia: «Io credo che il Destino ci indichi una via, e a noi tocchi seguirla. Dobbiamo aiutarlo, ecco.» «Dove vuoi arrivare?» - Domandai, brusco. «Sto arrivando al punto. Vedete, l’incidente che ho subito è stato terribile...» «Steve, Cristo santo, erano solo due costole fratturate e poco altro! Stai meglio di prima!» - Lo interruppi subito, già spazientito. «Ah, sta zitto, che ne sai tu. Non mi riferisco ai danni che mi ha fatto, ma a quelli che avrebbe potuto farmi. Ragazzi, quel botto avrebbe potuto uccidermi, per come è avvenuto l’incidente. Se sono qui, è questione di centimetri. E, secondo me, quei centimetri sono proprio un segno del destino, sissignore.» «Cosa intendi?» - Chiese Craig, incuriosito dall’insolita riflessività di Steve. «Intendo che se sono ancora su questa Terra, dopo aver visto la morte in faccia, è perché sono destinato a fare qualcosa. Se sono ancora qui c’è un motivo. Altrimenti, se avessi esaurito la mia funzione, Dio mi avrebbe chiamato a sé, e tanti saluti! Invece no, mi ha lasciato qui. Perché?» «Già, perché Diavolo lo avrà fatto?» - Ironizzai. Anche Craig si concesse un risolino di soppiatto. «Tu ridi, ma io ci ho pensato. E credo che la risposta stia qui» - disse, battendosi forte il petto, proprio sopra la cicatrice. «Nel tuo cuore?»

«Sì, nel mio cuore. Ma, per essere più precisi, nel cuore che mi è stato donato. La risposta è il mio donatore.» «Vuoi dire che sai chi era il donatore?» - Spalancai gli occhi. «No, Vinnie, non lo so. PER ORA non lo so. Ma è proprio quello che intendo scoprire, perché credo che dietro quel nome ci sia una storia che, in qualche modo, mi spiegherà perché io sia ancora qui.» «Per rendere ricchi i barman di tutta Londra?» Non avevamo preso la sua teoria sul serio, ma ci saremmo presto resi conto che ci sbagliavamo di grosso.

* * *

Sto lì a parlare con una mia amica, infischiandomene della musica e delle luci stroboscopiche. Lei si tocca i capelli tutto il tempo e parla a voce bassissima, quasi sussurrando. Non distinguo bene le parole, ma capisco il significato, sono a mio agio. Non faccio in tempo a girarmi per prendere il mio bicchiere, che lei è diventata Steve. No, aspetta, io so che è Steve, ma non sembra lui. In effetti è più giovane, ed è come dev’essere Philip, che però non ho mai visto bene da vicino. Mi dice che gli fa ancora male la pancia, e che non vuole più bere birra. Io dico che non bevo da un sacco ma a volte sto male lo stesso e lui ci rimane di sasso. Le luci gli illuminano spesso la faccia di verde, e io ho l’impressione che la parte destra del suo volto si stia scarnificando, lasciando vedere qualcosa di metallico sotto. Come il manifesto di Terminator, me lo ricordo bene. Lui non ci fa caso, e infatti dopo un po’ torna normale. Ma intanto continua a fissarmi come se fossi io quello strano. Gli chiedo se ci sia qualcosa sulla mia faccia ma dice di no, dice che è tutto ok. Non mi convince affatto, però, proprio per niente. E, anzi, sembra che se la stia ridendo. Allora mi alzo, deciso a guardarmi allo specchio e chiarire che diavolo abbia che non vada. Ma mi si parano davanti prima Ascot e poi Lucas. Quando arrivo allo specchio mi guardo e sono Steve. Ho la faccia di Steve, ma non ne sono sconvolto. Mi sembra normale. Mi guardo la pancia, che s’è gonfiata. Rivolgo lo sguardo allo specchio e intorno non c’è più musica, né luci. Io e lo specchio, o dovrei dire Steve e lo specchio? Poi la faccia riflessa si

mette a parlare, senza che io muova la bocca: mi dice “tu non sai chi sono io – tu non sai chi sono io”... Ho i brividi, e faccio di tutto per staccarmi da lì. Sento un velo sul volto che mi ottunde i sensi e mi rende difficile respirare, poi la faccia dice ancora... “tu non sai chi sono io – tu non sai chi sono io... E io nemmeno.”

* * *

Mi svegliai in un bagno di sudore. Il fegato mi faceva molto male, una fitta come se ci fosse qualcosa piantato dentro. Lo premetti forte con la mano, annebbiato dal sonno e dal dolore. Cominciai a respirare forte a bocca aperta, sempre più profondamente, ad intervalli via via più lunghi... Ripresi la calma e lasciai che la stanchezza mi vincesse di nuovo.

* * *

«È brutto avere una sola vita, cazzo.» Sembrò aver buttato lì quella frase, uscita dal profondo della pancia come una gassosa impellenza intestinale. Poi continuò: «Voglio dire, come fai ad imparare dagli errori, se quando li hai commessi è già troppo tardi?» Sollevai piano gli occhi dalla mia tazza, e lo guardai come se lo vedessi per la prima volta. In qualche occasione lo avevo sentito fare qualche considerazione più profonda rispetto al suo consueto repertorio di volgarità e luoghi comuni. Ma quella volta... Potrei quasi giurare che avesse parlato con una voce diversa dalla sua. Sembrava una voce che venisse dal cuore. Sapevo a cosa si stesse riferendo. «Però, vedi, io mi sento di averne avute due di vite. Forse tre. E non le voglio

sprecare tutte, come ho fatto con la prima. Devo farlo anche per Philip, perché abbia un padre all’altezza. Forse così lo riconquisterò.» «Andrai avanti su quella cosa del donatore?» «Sì, e spero vorrai darmi una mano.» Sapevo me l’avrebbe chiesto. Avrei dovuto negare il mio aiuto ad un uomo che aveva appena dichiarato di volersi redimere? Avrei dovuto sottrarmi al richiamo del Destino, che aveva indicato a Steve una missione da compiere? Avrei dovuto fare da spettatore mentre la storia si dipanava di fronte a me? Avrei dovuto, sì, ma non fui capace di rifiutare. «Cosa pensi di fare?»

CAPITOLO XVII

Non so come diavolo riuscì a convincermi, ma lo fece. Tentai anche molto vigliaccamente di coinvolgere Craig in quella impresa disperata, ma Steve fu categorico. «No, tu sei più veloce a correre. E in due saremo più agili. E poi, voi italiani siete i più bravi a rubare.» Su questo aveva ragione, e solleticò al punto giusto il mio amor patrio: era mio compito difendere il nostro buon nome di ladri e truffatori. «Ecco il piano: entriamo nell’ospedale come due utenti qualunque e andiamo all’ufficio informazioni. Poi chiedo di poter visionare la mia cartella. Allora un’infermiera dovrà andare a prenderla, e qui entri in gioco tu.» «Vai avanti.» «Dovrai seguirla e scoprire dove tengono le cartelle.» «Scusa, ma non hai detto che te la fanno vedere senza problemi?» «Certo che me la fanno vedere ma, prima di darmela, estraggono un inserto dove ci sono le notizie riservate. O comunque c’è un fascicolo che non mi danno. Quindi tu dovrai seguire quella cazzo di infermiera e trovare quella cartellina con le informazioni riservate.» «Ho un’idea migliore. Facciamo che chiediamo di sapere il nome del donatore e se non ce lo dicono li supplichiamo. Noi italiani siamo bravi anche in questo: supplicare. Andiamo forte.» «Quando hai finito con le cazzate ti spiego anche il resto del piano.» «Non credo di avere fondo per le cazzate, comunque vai pure avanti.» «Bene. Allora, tu hai seguito l’infermiera, giusto? Sai dove sono le cartelle. Lo memorizzi, te lo segni da qualche parte. E poi torniamo a fare il furto più avanti.

Tipo due giorni dopo.» «Geniale. Ti è per caso venuto in mente che Scotland Yard avrebbe una lista di sospettati lunga appena due nomi, e i nomi sarebbero Steve Campbell e Vincenzo Caligiuri? Cristo, vai a chiedere qualcosa, te la negano, e due giorni dopo la cosa che hai chiesto sparisce! Ma chissà chi sarà mai stato!» - replicai cercando di farlo sentire più idiota possibile. Perché questo era, un idiota. Mi agitai parecchio. Che sarebbe successo un casino tremendo era ben più di una sensazione. Era lampante che Steve non si stesse rendendo conto di quanto grave fosse quello che aveva in mente. E avevo chiaro che c’ero già in mezzo, e per me sarebbero stati dolori. A quella mia osservazione Steve si rabbuiò. Non mi pareva proprio che stesse pensando, anche se si sforzava di simulare il contrario. Sono quasi sicuro che, ad un’approfondita indagine scientifica, il suo encefalogramma sarebbe risultato piatto. Ero furioso, e lo ero ancor di più perché stavo vedendo che per lui quello era il furto perfetto, e non aveva previsto un piano B. Cercai di recuperare la calma e chiudere il discorso. Non volevo più parlare di quell’enorme stronzata. Se le procedure dell’ospedale impedivano che il ricevente conoscesse il nome del donatore dell’organo per me il discorso si chiudeva lì. «Ok, mi sa che dovrai cercare altre strade» - gli dissi con freddezza, con l’illusione che potesse rassegnarsi serenamente. Mi guardò come se avessi detto la più grossa stupidaggine del secolo. «No, Vincenzo, forse non hai capito. Andrò fino in fondo. E se non sarai con me, sarai contro di me.» Non mi sembrava il caso di farla così tragica ma, forse, aveva visto qualche film d’azione in tv o letto il Vangelo secondo Matteo. Propendo per la prima ipotesi. Fatto sta che non riuscii a piantarlo lì, e – ripeto: non so come – mi convinse a diventare un ladro.

* * *

Le mille luci dietro le finestrelle dell’ospedale di San Bartholomew si ritagliavano un grosso spazio nel cielo quasi buio sopra Londra. Io ero lì davanti, e mi sentivo microscopico e pericolante. Temevo che se avessi varcato la soglia d’entrata con l’intenzione di rubare, non sarei comunque mai tornato indietro. Mi sarei sentito sempre braccato, e avrei avuto il terrore delle telecamere a circuito chiuso e delle divise della polizia (entrambe non mi piacevano comunque, ma almeno non ne avevo paura). Avevo un cappello con la visiera ben calcato sulla fronte per la prima fase, e un amontagna da infilarmi in testa al momento giusto. Non ci potevo credere, avevo in tasca un amontagna per compiere un furto! Ok, forse prendere quel fascicolo non sarebbe stato il reato più grave del mondo ma avevo in mente almeno cento cose da fare più piacevoli per guadagnarsi il carcere o l’inferno. Chiaramente la versione riveduta e corretta del piano aveva mandato Lucas in avanscoperta per individuare la posizione dei fascicoli. A quel punto, lui aveva consegnato a me un foglietto scarabocchiato con la posizione della porta ed una noticina che diceva “Guardia al piano”. Ma che fortuna avevo pensato, c’è anche la vigilanza! Per l’impresa ero dotato di una torcia elettrica, un paio di pinzette, guanti di plastica per non lasciare tracce. E anche di una scusa. Avevo portato i documenti con gli esiti di alcuni esami del mio fegato, e all’occorrenza mi sarei dichiarato in cerca di un epatologo. Gran fortuna avere un fegato semi-fottuto, torna sempre utile. Chi invece stava cercando di costruirsi un alibi a prova di bomba era Steve. Per farlo, non aveva trovato nulla di meglio che piazzare qualche casino, farsi arrestare dalla polizia e are la notte al fresco. Ero certo che ce l’avrebbe fatta, e infatti ero preoccupato solo per me. Ero sceso a Blackfriars e m’ero diretto all’ospedale a piedi facendo il percorso più intricato possibile. Ero convinto che questo servisse a qualcosa. Impiegai quaranta minuti anziché dieci, ma ebbi almeno il tempo di scaricarmi un po’. Fumai setto o otto sigarette succhiandole con estrema avidità. Confidai che l’aria

fredda mi avrebbe snebbiato un po’ le idee, ma con ogni evidenza il fumo non era nel mio cervello, ma in quello del signor Campbell. Ancora una volta mi domandai se si potesse arrivare a fare una cosa del genere per amicizia. O se fosse incoscienza, stupidità o spirito di avventura. Prima di entrare dall’ingresso principale mi risolsi a credere che, in fondo, fosse la curiosità di sapere da dove diavolo venisse quel cuore a muovermi. Una volta l’avevo sentito parlare, e aveva una bella voce, quel cuore. Mi ricordai comunque di calcare bene il cappello e tenere le mani in tasca. Entrando, l’odore di etere e di malattia mi assalì subito. Come avevo potuto dimenticarlo? Odiavo l’atmosfera dell’ospedale, l’odore di chiuso, l’aria caldissima e le luci al neon. Mi sentii immediatamente male. Debole, fiacco, sudaticcio. Ero convinto che le persone entrassero là dentro sane, per ammalarsi solo dopo esserci state. In quel momento mi sembrava che stesse succedendo anche a me. C’era una temperatura infernale, ma non potevo togliermi il cappello. Mi slacciai un po’ il giubbotto e allentai la sciarpa, ma non volevo che il dolcevita nero si vedesse troppo. Ebbene sì, sotto m’ero vestito completamente di nero, per la cinematografica fuga che immaginavo nei vicoli del North Bank. La stanza che ci interessava era al sesto piano, dalla parte opposta rispetto alle scale. Dannazione. Non c’era allarme, ma la porta era chiusa a chiave. Aridannazione. Dunque, avrei dovuto aspettare che qualcuno l’aprisse e intrufolarmi in qualche maniera, visto che non avevo idea di come si scassinasse una serratura. Il tutto senza che la guardia mi sorprendesse, e riuscendo ad uscire da lì sulle mie gambe con i fogli, senza lasciare tracce pericolose nelle telecamere a circuito chiuso. Una eggiata, praticamente. Anche dentro l’ospedale adottai la tattica di arrivare alla meta attraverso un percorso articolato. Presi l’ascensore una dozzina di volte, e percorsi le scale in su e in giù come un forsennato. Ero già stanco e non avevo ancora fatto niente: evidentemente la mia dedizione al calcio non era servita granché, e capii che il Mister aveva ragione nel non schierarmi quasi mai. Nel camminare evitavo accuratamente di incrociare lo sguardo di chiunque. Feci un giro di perlustrazione al sesto piano, e il primo paio di gambe che scorsi da sotto la visiera erano quelle in pantaloni sintetici blu e anfibi della guardia giurata. Il cuore accelerò tanto da stroncarmi il fiato, e mi diressi subito verso il bagno. Mi sciacquai la faccia bagnandomi anche la sciarpa. Quando uscii, venni colto dalla paranoia di aver lasciato all’interno dell’ospedale le mie impronte

organiche, il mio DNA! Cercai di scacciare i cattivi pensieri usando la razionalità: non faranno certo un costosissimo esame del DNA per due fogli di carta... Spero. Decisamente, dovevo smettere di guardare film americani dove fanno l’esame del DNA anche per un furto in panetteria. Scesi ancora al piano di sotto e poi al quarto. Lì mi sedetti su una delle sedie lungo il corridoio. Erano ormai le sette di sera, e l’orario delle visite era stato abbondantemente superato. L’ospedale si andava svuotando, e avrei dovuto agire in fretta. Tirai un profondo respiro che mi venne mozzato in gola. «L’uscita è da quella parte, signore» - mi gelò una voce. Riconobbi i pantaloni blu delle guardie, ma non era la stessa persona: i piedi che avevo piantati davanti indossavano scarpe da ginnastica. «Certo, molte grazie» - mormorai, cercando di dissimulare un accento spagnolo, o qualcosa del genere. Mi alzai, senza mai guardare in faccia la guardia, e mi avviai verso le scale. Una volta sparito dietro alla porta antincendio salii le scale per ritornare al sesto piano. Nella mia testa non s’era accesa alcuna lampadina su come sarei entrato in quella stanza, e ancora più indefinita era rimasta la mia strategia di fuga. Attraverso lo spioncino della porta vidi che la guardia mi dava le spalle, camminando proprio verso la stanza. L’avrebbe superata in pochi secondi, per poi svoltare nel corridoio e perdersi nel suo giro di controllo al piano. Immaginai di avere almeno cinque minuti a disposizione. Non erano molti, ma almeno la sofferenza sarebbe finita presto. Entrai nel corridoio silenziosamente, quando vidi che un’infermiera stava uscendo proprio dalla stanzetta dell’archivio. Prima che fe in tempo a trovare il mazzo di chiavi in tasca, la chiamai. Non ci pensai su neanche un secondo e, forse, fu la cosa giusta: «Scusi dottoressa...» Calcai il “dottoressa” per darle una pompatina all’ego. Lei rispose guardandosi bene dal correggermi. «Dica» - fece un po’ scocciata. Le chiesi qualche informazione a caso, facendo di proposito confusione con i fogli che avevo in mano, intontendola di parole, nomi di dottori inventati, mezze frasi in spagnolo o in italiano... Ero un attore nato. Continuavo a tenere il mento

basso, con la visiera che mi copriva il viso quasi per intero. Mentre stavamo parlando sentii sfilare il o pesante della guardia alle nostre spalle: salutò a mezza bocca l’infermiera, mentre io gli davo le spalle. Era il momento di scollarmi da lì ed entrare nello stanzino. La donna, Margareth diceva la targhetta appuntata sulla sua divisa, non vedeva l’ora di andarsene e approfittò subito di un varco di silenzio che le lasciai. «Allora, è tutto chiaro, no? La saluto, buonanotte.» «Buonanotte e grazie» - risposi ossequioso. Si allontanò prendendo le scale. Perfetto, non era tornata a chiudere la porta. In quel momento mi trovavo solo nel corridoio, immerso nel silenzio più totale. Ballavo sul filo, a metà fra la guasconata e il crimine. Ma ormai avevo l’adrenalina a mille, e nulla mi avrebbe più fermato. Aiutandomi con una manica feci girare il pomello della porta, ed entrai nello stanzino. Accostai di nuovo la porta piano, poi mi infilai i guanti di lattice e accesi la torcia. La stanza non era poi così piccola, strapiena di faldoni, carpette, buste gialle, lastre e cd. Per fortuna eravamo in Gran Bretagna e non in Italia, e quindi era tutto archiviato e piuttosto ben classificato. Da fuori sentii ancora i i della guardia. Quel bastardo stava accelerando il ritmo dei suoi giri, mi parve. Spensi al volo la pila – si sa mai che un filo di luce fosse filtrata da sotto la porta sin nel corridoio – e restai all’ascolto, immobile. Trattenni il respiro, confidando che il mio cuore continuasse a fare il suo dovere. I i si persero nel corridoio, e io ripresi a studiare l’archivio. Purtroppo l’ordine alfabetico dei faldoni era subordinato all’ordine per anno d’intervento... E io non avevo idea di quando avessero operato Steve! Avrei dovuto cercare sotto la “C” negli ultimi vent’anni, e l’idea di rimanere lì a lungo mi spossò. Improvvisamente ebbi un calo di pressione, credo, e mi sentii venir meno. Restai in piedi per miracolo, ma avvertii il corpo ribellarsi. M’imperlai di gocce di sudore freddo. C’era una finestra, e l’aprii un po’ per riprendermi con una bocca d’aria fresca. Inspirai profondamente quattro o cinque volte e mi calmai. Ormai la cazzata l’avevo fatta. Adesso si trattava di uscire da lì coi documenti, e sulle mie gambe. Puntai la luce sugli Anni Novanta, e non ci volle poi molto a trovare “Campbell, Steve”. Mi allungai per prendere il faldone, e non seppi trattenermi dal darci

un’occhiata. Era strapieno di esami, referti, elettrocardiogrammi e Dio solo sa cos’altro. Avrei preso solo i fogli con le indicazioni del donatore, o magari appuntato il nome. No, come non detto, non avevo con me nemmeno una matita. Fare affidamento sulla mia memoria, neanche a parlarne. Avrei preso i fogli, ecco tutto. Scorsi i documenti con frenesia, interrompendomi solo per il nuovo giro della sorveglianza. Proprio a metà fra gli esami che evidenziavano la malattia del cuore e quelli preoperatori c’era una bustina di plastica nera, con l’etichetta “confidenziale”. Confidenziale fra chi? Mi domandai. Mah. Diedi una rapida occhiata: sì, era quello che cercavamo. Non memorizzai il nome, forse nemmeno lo lessi. Volevo solo uscire da lì in fretta. Riposi il faldone al suo posto, e piegai la busta infilandola in una tasca interna del giaccone. Spensi la luce, con la mano già sul pomello della porta. Poi capii che sarebbe stato più saggio attendere un nuovo giro della guardia, aspettare che asse, ed uscire avendo a disposizione qualche minuto. Nell’attesa mi assalirono tutti i dubbi del mondo. Se l’ospedale aveva delle telecamere a circuito chiuso, come mai nessuno era ancora arrivato lì? Ammesso e non concesso che fossi stato fortunato, come diavolo speravo di uscire senza che una telecamera mi scovasse? E ancora: sarebbe servito a qualcosa il amontagna? No, certamente no, ma me lo infilai lo stesso, cacciando il cappellino in tasca. Sentivo le gambe malferme. Temevo di non farcela. Che cavolo stavo combinando dentro l’ospedale San Bartholomew, con un amontagna in testa e dei documenti rubati in tasca? Assecondavo il bislacco piano di un ubriacone dell’East End. Avrebbe retto come scusa in tribunale? Eccola lì, la vampata di febbre. Una conseguenza del fegato, ormai lo avevo imparato, che però si manifestava sempre nei momenti peggiori. Mi sentii bruciare da dentro, le caviglie cedermi, le mani tremare. La guardia ò davanti alla porta. Mentre il rumore degli anfibi sul linoleum scompariva lontano, io respiravo forte, cercando di ossigenare il cervello e svegliare i sensi. Silenzio. Feci scattare pianissimo la maniglia, e sgattaiolai fuori. Ma commisi l’imperdonabile errore di soffermarmi a controllare che non ci fossero

telecamere. Maledetta ossessione da Grande Fratello! Dalla finestra, che avevo dimenticato aperta, si scatenò una corrente d’aria che fece chiudere la porta con un fragore tremendo. Rimasi un istante attonito, davanti alla porta chiusa e con l’eco del rumore ancora nelle orecchie. Fu un secondo, poi: «Fermo!» - Gridò la guardia, che apparve in fondo al corridoio, correndo con la grazia di un rugbysta in pensione. I suoi cento chili scaricati sul pavimento facevano tremare tutto. Pensavo che solamente nei film l’inseguitore urlasse “fermati!” o “torna indietro!”, ma chissà se sia nato prima l’uovo o la gallina. Fatto sta che l’energumeno vestito di blu sprecò molto fiato in stupidaggini del genere mentre io volavo giù dalle scale, come facevo da bambino, usando il corrimano come la corda di un ring. Dovevo essere già vicino al piano terra quando un altro sorvegliante mi si parò davanti, e – benché l’avessi appena intravisto nella confusione della fuga – ero ragionevolmente sicuro che impugnasse una pistola. Quando realizzai che sarei morto, mi prese il panico: ero indeciso su quale immagine avrebbe dovuto essere l’ultima a armi per la testa. Non feci in tempo a farmi divorare dal dubbio che urtai contro l’uomo in divisa. Che, ad onor del vero, non aveva nessuna pistola – probabilmente quella cosa scura che avevo visto era la ricetrasmittente. Cademmo a terra in un groviglio imbarazzante, ma riuscii a sgusciargli via, rialzandomi e schiacciandogli anche una mano con la scarpa. Dietro, l’energumeno del sesto piano aveva il fiato più corto del mio e si prese in piena faccia una porta basculante, l’ultima prima dell’uscita. Correvo verso la libertà dimenticando i dolori e la paura, a testa alta come se stessi per tagliare il traguardo di una gara olimpica. Dietro sentivo gli anfibi tartassare il pavimento, ormai troppo distanti per prendermi. O no? Davanti c’erano le vetrate scorrevoli automatiche, e non si sarebbero certo aperte velocemente, ammesso che non le avessero bloccate. All’altezza della reception qualcuno urlò. Ebbi un istante di nebbia, poi uno di lucidità: eccola lì, l’uscita di sicurezza con l’amato maniglione anti-panico! Mi ci buttai contro di spalla, neanche l’avessi dovuta sfondare, ed uscii. Nonostante avessi avuto molto tempo per pensarci, non m’ero premunito di programmare una via di fuga. Però lo scenario notturno del North Bank, la mia

paura, le due guardie alle calcagna, le tenebre a nascondermi, erano esattamente il copione come l’avevo immaginato. Magra consolazione. Per prima cosa cercai di uscire dal complesso ospedaliero, poi continuai a correre in una direzione qualunque, coi polmoni sanguinanti. Ero allo stremo, ma le guardie lo erano di più. Le loro grida s’erano zittite, i loro i sempre più lontani. Sapevo che da lì ad un paio i minuti sarei stato costretto a fermarmi perché stavo procedendo in apnea. Ero sicuro che da un momento all’altro le gambe avrebbero smesso di collaborare. Era una gara di resistenza che si giocava sul filo. Infilai tre o quattro stradine a caso, attento solo a cambiare direzione più volte possibile. Poi non ce la feci più, e mi rassegnai al destino. Che andasse come andasse, io mi sarei fermato lì. Girai un’ultima volta a destra, vidi un sottoscala buio, con davanti un paio di cassonetti della spazzatura. Perfetto: mi accucciai lì dietro e aspettai. Mi sedetti sul cemento ricoperto di rifiuti, puzzolente e marcio com’ero io in quel momento. Aspettai che le guardie arrivassero, mi trovassero e mi condannassero all’ergastolo o m’impiccassero. Ho già accennato che tendo un po’ alla drammatizzazione? Non successe nulla di tutto questo. Probabilmente i sorveglianti mi avevano perso di vista una volta usciti in strada. Non potevo saperlo, e sinceramente non mi interessava nulla. Mi interessava solo di essere lì, coi documenti in tasca. Sano e salvo. Agli acciacchi avrei pensato dopo, alle paranoie avrei pensato domani. Sfilai il amontagna e mi addormentai lì, come un cane randagio.

* * *

Mi svegliai con un incredibile mal di testa. Guardai l’orologio: non avevo dormito più di mezz’ora, a occhio e croce. Una fitta al ginocchio destro e un polso dolorante mi ricordarono la caduta. Le gambe erano svuotate di ogni energia. Mi alzai dirigendomi verso la fermata del bus, esausto. Feci per accendermi una sigaretta, e notai di avere ancora i guanti di lattice. Li sfilai e li ridussi ad una pallina di carbone, squagliandoli con l’accendino. Poi accesi la

mia L&M, e la fumai soddisfatto. Mentre arrivavo alla fermata, gettai in due cassonetti distinti anche il cappellino e il amontagna. Era troppo freddo per sfilarsi anche il giaccone, che comunque avrei fatto sparire presto, così come le vecchie scarpe. Ero quasi triste al pensiero che non mi sarebbe rimasto un solo ricordo di quella notte incredibile. Arrivai in Napier Road trascinando i piedi. Desideravo solo farmi inghiottire dal letto. Quando aprii la porta di casa però fui contento di vedere che c’era Craig lì ad aspettarmi. «Vinnie, grazie al cielo!» - Mi abbracciò. Confesso che fu un bel momento, anche perché evitò di sottolineare che puzzavo tremendamente. «Com’è andata?» «Sono qui, alla fine.» «Ce l’hai fatta?» «In un qualche modo, sì.» «Grande Vinnie, racconta! Non tenermi sulle spine!» Non era da me fare il sostenuto. Avevo bisogno di sfogarmi. «Lasciami cinque minuti per darmi una lavata. Senti un po’, ma Steve ce l’ha fatta?» «Avevi dei dubbi? Hanno chiamato dalla stazione di polizia, erà un paio di notti al fresco per schiamazzi e ubriachezza molesta.» Abbandonai i documenti sul tavolinetto e salii a lavarmi. Quando scesi di sotto la busta nera era ancora al suo posto. Solo Craig avrebbe potuto essere in grado di resistere alla curiosità, credo. Io, di sicuro, no: al suo posto l’avrei aperta e poi tentato di rimetterla a posto. Invece lui era lì, placido nel suo pigiamone, con una birra in mano a guardare la tv. Era così composto che non metteva nemmeno i piedi sul tavolinetto. L’avresti detto un bambino, non

fosse stato per la lattina da cui tirava lunghe sorsate. Sembrava chiaramente contento di rivedermi, come un secondo ritorno a casa. Chissà se aveva temuto non tornassi? Non ebbi mai il coraggio di chiederglielo. Né lui mi chiese nulla, ma attese che iniziassi il mio racconto. Craig seguì la mia storia con estrema attenzione: posso dire che per una volta qualcuno pendeva dalle mie labbra. Sicuramente drammatizzai un po’ la situazione e, forse, calcai la mano su qualche dettaglio, ma chi non l’avrebbe fatto? Avrei forse dovuto sminuire la mia impresa? Avrei dovuto sembrare un impiegato del catasto di ritorno dall’ufficio? Avrei forse dovuto negare a Craig la gioia di essere l’amico di un eroe? Forse, ma mi guardai bene dal farlo. Venne poi il momento della busta. Era ancora poggiata lì, mascherata nell’anonimato del suo involucro nero. Per un attimo pensai che per il nome che era scritto lì dentro, avevo rischiato di finire in galera. Mi anticipò Craig: «Per quel nome stavi finendo in gabbia, Vinnie... Ti rendi conto?» «Ci stavo pensando proprio ora. Ma no, non credo di essermene davvero reso conto. Come ti ho detto, avevo molti dubbi prima di entrare in ospedale. Poi è stato come se non potessi decidere più niente, come se fossi l’inconsapevole rotellina di un ingranaggio più grande. Destinato a girare, ma senza andare da nessuna parte, insomma.» Ci zittimmo. Posammo entrambi lo sguardo più volte sulla busta. Ostinatamente. Mi decisi a prenderla in mano, e la portai al petto. «Credi dovremmo farlo?» Eccolo lì il buon Craig, leale fino al midollo. «Cristo santo Craig, ho rischiato la vita per questo cazzo di nome, e ora voglio conoscerlo! Dobbiamo farlo certo!» - Dissi alzando un po’ la voce. «Non credi dovremmo lasciarlo fare a Steve? È una sua questione privata» rispose imibile, a voce quasi sussurrata.

«Privata un cazzo, visto che ci siamo in mezzo tutti. Anche tu, ora, sei complice per omessa denuncia.» Non ero affatto convinto di voler aprire la busta, in fondo sapevo che il gallese aveva ragione, ed ero solo curioso da impazzire. «Bah» - scrollò le spalle Craig - «Rimango dell’idea che, se vorrà, sarà lui a dirci chi era il donatore.» Volli mostrarmi ragionevole, anche se mi costò una gran fatica: «Certo, hai ragione. In fondo, che differenza fa per me? Che si chiami John Smith o Paul Williams a me cosa cambia? Non lo conosco, e rimarrà soltanto un nome.» «Esatto. Su, andiamo a letto ora, Lupin...» Ah ah ah. Non ero ancora certo che fosse la mossa giusta. Né lasciare la busta chiusa, né andare a letto: l’adrenalina era ancora in circolo e mi muovevo a scatti come un cocainomane. «E poi sai Craig» - continuai - «Forse in tutta questa strana storia non conta il risultato, ma la storia in sé. Essere stati in grado di farlo, immagino. Voglio dire, ora che cazzo se ne fa Steve di questo nome? È il nome di uno che il cuore non ce l’ha più... Pensandoci bene, tutto questo non ha molto senso.» «Forse per lui ce l’ha. Glielo chiederemo quando tornerà. Sai, il Destino...» «Forse. Spero che quella fottuta cella sia bella umida» - dissi, con un po’ di falso risentimento. Ci avviammo su per le scale ridacchiando, mentre la busta era ancora lì, nera ed enigmatica.

* * *

Doveva essere quasi l’alba quando mi svegliai di soprassalto. Avevo sognato la guardia dell’ospedale, ma stavolta aveva davvero una pistola in mano. Ero riuscito a riaprire gli occhi prima che premesse il grilletto. Mi tirai a sedere sul letto. Diavolo, avevo rischiato per quella busta. Volevo conoscerne il contenuto, era mio diritto. Ma forse sarebbe stato più saggio che Craig non lo sapesse. Decisi di agire subito. Uscii sul pianerottolo in punta di piedi. Silenzio assoluto. Non feci in tempo a sentire il cigolio del primo gradino: «Vinnie, non ci provare» - mi pugnalò alle spalle Craig. Mi aveva sentito dal letto, con la porta chiusa, quel dannato gallese. Cosa cazzo faceva, dormiva con un occhio aperto? Aveva un radar? Decisi di fare finta di niente. «Di cosa parli Craig?» Riuscii ad intuirlo arricciare il naso anche da dietro la porta. «Lo sai benissimo. Torna a letto.» E va bene, maledizione, avrei aspettato che la busta l’aprisse Steve. Prima di rientrare in camera, mi congedai. «Craig?» «Si?» «Vaffanculo.» «‘Notte Lupin.» Stavolta lo percepii sorridere.

* * *

Quando Steve tornò dal carcere era bello come il sole. Due giorni senza alcool gli avevano fatto sparire le borse sotto gli occhi, era lucido e attivo come non mai. L’avevano sgabbiato alle sette e alle otto ce lo ritrovammo in sala, mentre stavamo per recarci al lavoro. Saltò i preliminari. Mi abbracciò molto virilmente, confortandomi con due pacche sulla schiena belle forti. «Mi fa piacere vederti qui, vecchio scassinatore folle.» «Anche a me fa piacere vederti tutto intero» - mi sforzai di dire. «Bof, per me è stata una eggiata» - alzò le spalle - «non è certo la prima volta che o la notte in guardina. Senti, ma ce l’hai?» «Eccola lì» - dissi, indicando la lettera nera sul tavolinetto con una certa indifferenza, come se l’avessi ritirata all’ufficio postale. Steve prese la busta, e stava per aprirla in piedi. Poi si fermò di colpo: «Forse è meglio che mi sieda.» Esitò un altro po’, andosela fra le mani, e fingendo di volerla aprire con cura. Mi ero già spazientito: «Che diavolo c’è ora, Steve?» Abbassò la testa. Craig, neanche fosse caduto lì dal cielo, sembrava non aver capito nulla, e ci guardava alternatamente con la bocca mezza aperta. «Beh, vedete ragazzi... Non credevo che saremmo riusciti a prendere la busta. DAVVERO, intendo.» Cioè, mi aveva mandato allo sbaraglio pensando che non sarei tornato, almeno non da uomo libero? Per un attimo, in testa si materializzò l’idea di lasciar scarnificare lentamente Steve da un esercito di formiche rosse carnivore, dopo averlo legato ad un palo nudo e cosparso di miele, come parziale indennizzo. Fui un po’ meno arzigogolato nell’esprimere il mio fastidio:

«Che cazzo vuol dire?» «Vuol dire che ora ho paura di aprirla.» Craig si lasciò scappare un gemito al sentire pronunciare da Steve la parola “paura”. «Beh, amico, fattela are la tua paura! Perché io ho preso quella busta e tu adesso la apri e scopri chi cazzo ti ha dato quel cuore da coniglio. Ok?» «Hai ragione. In fondo è solo un nome, no?» Non l’apriva. «Sì, è solo un nome.» Ma non l’apriva. «E poi che ci faccio col nome?» Ancora non l’apriva. «Cristo santo, questo lo vedrai dopo! Ora apri o lo farò io.» Mi sarei aspettato un momento parecchio più solenne, e non sentii neanche un rullo di tamburi quando strappò la carta. «Martin Prince.» «Il donatore era questo Martin Prince?» «Già. C’è anche l’indirizzo.»

CAPITOLO XVIII

Gli uccellini si davano il buongiorno cinguettando, anche se del sole – ancora – non c’era traccia. Appoggiato alla ringhiera del balconcino, con la porta-finestra spalancata, respiravo l’aria della notte che se ne andava. Non c’era stato modo di dormire. Non so esattamente cosa mi tenesse sveglio, ma sul tavolo c’erano QUEL nome, Martin Prince e – last but non least – l’ultima partita del nostro campionato. Il match contro il Santos era la classica gara mors tua vita mea, dato che il vincitore si sarebbe salvato, e lo sconfitto sarebbe retrocesso. Il pareggio andava bene a loro, che erano due punti sopra. Eravamo riusciti a rintuzzare l’assenza di Steve grazie all’innesto di uno studente statunitense (!), forse uno dei cinque o sei americani in grado di giocare a calcio. Era così roccioso che sotto la doccia incuteva un certo timore e, direi, rispetto. Non voglio scendere in altri dettagli, ma gli si potevano contare i muscoli (cosa avevate capito maliziosetti?). Mike, così si chiamava, aveva assunto i contorni del salvatore (una specialità americana dai western in poi, credo) visto che in un mese aveva segnato quattro goal, consentendo al Bari FC di giocarsi la salvezza all’ultima di campionato. Nonostante questo, Steve l’aveva bollato come “yankee ubriacone” - da che pulpito! - e aveva snocciolato una serie di irripetibili luoghi comuni sugli americani (bisogna dire che eravamo sotto la Presidenza Bush, quindi aveva gioco facile persino lui). Personalmente, avevo visto il campo col binocolo. In compenso m’ero fatto lunghe chiacchierate col saggio Djibril, e imparato un paio di ricette da Alvaro il cuoco. Quel giorno, con lo sguardo sulla città addormentata, sapevo che le domeniche in panchina mi sarebbero mancate. Sapevo che mi sarebbero mancati i giri di campo a sentire cosa combinavano le mogli dei ragazzi, lo stretching raccontandosi battute, i pranzi dopo le partite al ristorante di Naadir. Non volevo finisse, ecco tutto. Non mi sembrava di chiedere troppo. Ma già sapevo che, forse, era così bello proprio perché destinato a finire. Capivo che era così speciale perché limitato, così importante perché raro.

Quando il cielo cominciò a rischiarare, m’incantai a guardare le stelle sparire. Trassi un profondo respiro e scesi di sotto. Nell’istante in cui arrivai in salotto vidi anche Steve sbucare dalla sua camera, e sentii alle mie spalle Craig. Non erano neanche le sei, ma eravamo già tutti lì. I nostri occhi si cercarono l’un l’altro, sgranati. Nessuno voleva essere il primo a cedere. Tentai di soffocare una risata. Ne uscì una mezza pernacchia, ma poi lasciai esplodere la gioia che avevo dentro: non ero stato il solo ad aver ato la notte in bianco. Che bambinoni! Emozionati come bimbi la vigilia di Natale! Ci mettemmo a ridere scuotendo la testa, e ripartendo a turno quando la ridarella generale sembrava essersi estinta. «Metto su il tè» - riuscì a dire Craig. Eravamo tutti e tre in boxer e maglietta. Steve aveva una smanicata troppo aderente, che esaltava la rotondità del suo ventre. «Vieni anche tu, vero?» - Gli domandai, visto che le sue condizioni non erano ottimali. «Non mancherei per nulla al mondo» - proclamò - «Neanche se il West Ham giocasse la finale di FA Cup.» BOOM! Craig si girò e lo guardò con ammirazione. Io ero contento come un cane nel suo branco. Il branco, però, purtroppo era stato decimato. Non che ci volesse molto, visto che eravamo sempre contati. Ma quel giorno c’erano davvero parecchie assenze: un’intossicazione alimentare in un ristorante cinese, pare, cosa che consentì a Steve di confermare le sue teorie sulla qualità del cibo non britannico. Eravamo nel nostro campo di Upton Lane, chiusi nello spogliatoio. «Ragazzi, oggi come non mai avremo bisogno di tutti voi. Conoscete tutti i sacrifici che abbiamo fatto per giocare questa stagione, sapete quale sia l’importanza della partita di oggi. Non c’è bisogno che vi raccomandi nulla, se non di aiutarvi l’un l’altro. Abbiamo sempre fatto della collaborazione, del gruppo, la nostra forza. Non scordatelo mai, noi siamo una rete, dove ogni nodo

è fondamentale per il suo vicino. Forza ragazzi!» Mike uscì dalla porta sparato come un siluro, seguito dal resto della squadra. Io volli godermi quel momento, quell’aria carica di tutte le nostre diverse vite convogliate lì. Chiusi gli occhi, seduto sulla panca, e appoggiai la nuca sulle piastrelle fredde. «Vinnie?» - Era la voce del Mister. «Sì?» - Mi ripresi. «Oggi c’è bisogno anche di te, lo sai.» «Sì, Mister, ci sono.» Ero carico come un Marine. «Mi dispiace averti fatto giocare poco quest’anno» - disse facendo un gesto vago con la mano. «Non importa, Mister. Forse non ho imparato a giocare a calcio, ma ho imparato altro. Mi sono divertito.» «Grazie Vincenzo» - disse, appoggiandomi la mano sulla spalla. Poi Imran fece per uscire. Prima che imboccasse la porta, lo fermai. «Mister?» «Sì?» «In che ruolo gioco io?»

* * *

La partita contro i brasilioti (espressione coniata con amore dal nostro argentino Alvaro) fu bellissima. Sulle tribune c’erano almeno cinquanta spettatori, con tanto di improvvisata torcida[1].

C’era sole, e vento a tratti. Il cielo era azzurro come non mai, sopra Londra. Mi gustai, da spettatore privilegiato, ogni singolo momento della gara. Noi schieravamo Naadir in porta, Roberto, Madangopal, Baahir e Craig in difesa, Alvaro, Marcellus, Steve ed io a centrocampo, Mike e Omar in attacco. In panca con Mister Imran c’erano Siraz e Djibril, ovviamente. Come sempre, rimasi per lo più ai margini del gioco, ma ero maggiormente interessato a godere di ogni dettaglio dell’atmosfera che alla mia prestazione sportiva. Apprezzai Baahir e Madangopal muoversi come un sol uomo, mi piacque il gesto di Craig che aiutò un avversario a rialzarsi, applaudì forte alle parate di Naadir o ai dribbling di Alvaro. Ascoltavo i suggerimenti di Imran e Siraz come fossero oracoli, mi caricavo con l’incoraggiamento di Djibril dalla panchina e di Joshua, Ferdinand e Lucas – dalle tribune. Quando un tiro di un attaccante del Santos finì nella nostra porta, mi sembrò fosse solo un modo per rendere il tutto ancora più epico. Un semplice intralcio che i protagonisti del film avrebbero superato. Non potevamo perdere, me lo sentivo. Riversai il mio smodato ottimismo sulla squadra, andando a confortare uno a uno i miei compagni. Sembravo una mascotte, l’unico ancora non sudato, col sorriso (ebete) stampato in faccia. Alvaro se ne stupì tanto che mi chiese persino se avessi fumato marijuana prima di giocare. Comunque le mie pacche sul sedere, distribuite con generosità, sortirono l’effetto sperato: pur di non riceverne più i compagni si riversarono all’attacco sperando di pareggiare, e magari anche vincere. La qualità della squadra, cresciuta coi mesi, aveva in parte liberato Steve dal suo compito di predicatore nel deserto, consentendogli di riprendersi l’antico e amato ruolo di diga di centrocampo. Era un picchiatore eccellente, metodico e chirurgico. A fine primo tempo i brasilioti avevano già esaurito le tre sostituzioni e tutti i giocatori in campo transitavano ad almeno dieci metri dal buon Campbell. Noi eravamo brutti, sporchi e cattivi, e per questo mi sembrava fossimo un manipolo di eroi alla conquista di un fortino inespugnabile. Facevamo una confusione tremenda vicini alla loro area, pestandoci i piedi e scontrandoci fra di noi in continuazione. Mike distribuiva a destra e a manca gomitate senza distinzione di razza, credenze religiose, squadra di appartenenza. Un vero

democratico della gomitata. Io rimanevo là, isolato sulla fascia. Ad un certo punto, proprio dall’angolo più vicino a me, Alvaro calciò un corner in nostro favore. Fece un finta, salvo poi armi il pallone sui piedi. Che diavolo... Incapace di capire cosa fosse meglio fare, pensai bene di scagliare il pallone alto in mezzo all’area, dove giganteggiavano Mike e Craig. Quella parabola che mi uscì dai piedi era più perfetta di una formula matematica, il volo del pallone era angelico: e cadde proprio sulla testa del mio amico gallese. Non credo abbia dovuto fare altro che rimanere lì, per vedere la palla schizzargli sulla fronte e finire in goal. A tutti sembrò una giocata fenomenale, e mi guardai bene dal rivelarne la natura completamente casuale. Mi presi complimenti e pacche sul culo e ripartimmo in parità. Mancavano solo venti minuti alla fine della nostra stagione, e io avrei voluto durassero per sempre. Invece no, quei minuti scorrevano velocissimi. I miei compagni erano presi da smanie di protagonismo, per cui ognuno – palla fra i piedi – cercava di dribblare l’intera squadra avversaria e depositare in rete. È necessario specificare che nessuno riusciva ad andare oltre il primo dribbling? Imran ormai non dava più consigli, ma urlava ordini assurdi tipo “segna!” o “corri!” come se qualcuno tirasse per non segnare o non corresse già al suo massimo. Io, che nemmeno con la fantasia riuscivo ad immaginare di saltare dieci difensori, calciavo lontano ogni pallone asse nella mia zona. Era lo sterile tentativo di ripetere il colpo di c...classe di prima. Mancava ormai davvero pochissimo. Avevo ancora la palla lì, a mia disposizione. I supponenti brasilioti non avevano ritenuto utile marcarmi per tutta la partita, e nulla poteva lasciar loro pensare che fosse necessario farlo in quel momento. Io, che non avevo la loro fantasia, che non sapevo correre con la palla fra i piedi, che non ero in grado di tirare, potevo solo ributtare il pallone in mezzo all’area, dove sembrava ci fossero un centinaio di persone. Purtroppo la palla rimbalzò sul terreno davanti a me e quando la calciai, fortissimo, s’impennò così alta che la perdemmo di vista per un attimo, contro il sole. Il loro portiere si portò la mano sulla fronte per proteggere gli occhi dai raggi. Il pallone ripiombò verso la porta con una traiettoria beffarda, ispirata dal vento, disegnata dalla sorte. Concluse la sua corsa oltre la riga fatale e io mi sentii lieve come quel soffio d’aria, brillante come quel raggio di sole, contento come un bambino. Mi ritrovai sotterrato dai compagni, e la festa non s’interruppe più, per ore e ore. Prima in campo, poi negli spogliatoi, poi al ristorante e al pub, e infine per le

strade del quartiere. Con noi c’era anche Steve e, durante la bolgia, mi piaceva cercare il suo sguardo e leggerci dentro. Non era facile, con la patina di alcool che gli velava gli occhi. Avevamo occupato praticamente per intero il Trowel & Telegraph, dentro e fuori il locale. L’angolo della strada sulla quale affacciava era diventato l’incrocio più caotico di Londra, peggio di Piccadilly Circus. Amici, parenti, giocatori, simpatizzanti e ubriaconi qualunque giocavano a rincorrersi per la strada, a spruzzarsi coi sifoni del seltz (avrebbero dovuto fare attenzione con quei reperti archeologici) e a schivare le macchine di aggio solo all’ultimo momento. Come unico gufo rimasto sobrio, mi aspettavo la tragedia da un momento all’altro. Tanto la prefiguravo, che avevo chiesto a Steve in anticipo le chiavi della sua Mini e lui – non per sicurezza ma perché era fradicio di birra – ogni due minuti mi chiedeva se le avessi io. Alla ventesima richiesta gli dissi che le avevo date ad un eroinomane di aggio che aveva bisogno di un posto tranquillo dove farsi una dose, e lui sembrò tranquillizzarsi. Mi rimproverò direi – se non suonasse eccessivo – amorevolmente col dito e disse: «Hai sempre voglia di scherzare, eh, vecchio mangiaspaghetti? Ma da quanto tempo era che non ti chiamavo così? Cristo santo, mi manca sfotterti un po’ come si deve...» Mi si appoggiò con un braccio sulla spalla. Poi mi strinse il collo, nell’incavo del suo gomito: «Ahhhhh» - sospirò - «Vinnie, Vinnie. Sai cosa?» «No» - tentai di replicare, mezzo strozzato dal suo debordante affetto etilico. «Avevi ragione tu, ancora una volta.» Singhiozzò. «Avevi ragione» - riprese - «a dirmi che stare con questi ragazzi è bello. Non credo di aver mai avuto così poca voglia di picchiare qualcuno.» «Beh, incoraggiante» - replicai sarcastico, divincolandomi dall’abbraccio. «Dico sul serio. Sto bene. Mi manca solo una cosa.»

«Cosa?» «Philip. Avrei voluto fosse qui oggi. Si sarebbe divertito.» Si rabbuiò di colpo. «Credo di sì, ma non ti crucciare. Ci sarà una prossima volta.» «Forse. Speriamo. E così» - ripartì cambiando completamente tono, e sfoggiando un sorrisone un po’ sgangherato - «E così abbiamo scoperto che sei anche un gran calciatore, brutto stronzo! Tutta la stagione a grattarti in panchina, e poi si scopre che sei un fenomeno, cazzo! Sei pigro, ecco cosa. Non avevi voglia di sudare brutto rottinculo!» Lo ringraziai per le belle parole, ma insistette, appoggiandosi un po’ a me, un po’ al muro. «Hey Imran, Imran vieni qui» - chiamò il Mister, che si avvicinò - «Come mai in una stagione intera non ci siamo accorti che questo ragazzo era un fenomeno, eh?» - Finse di rimproverarlo. Imran stette al gioco: «Ammetto la mia incompetenza, e rimetterò il mio mandato al gruppo di investitori che ci sostiene» - disse con voce serissima, come fosse davanti ad un microfono. «Brutto stronzo, l’investitore qui sei tu!» - gli diede un buffetto Steve. «Già e anzi» - disse Imran alzando la voce - «Andiamo tutti dentro che voglio dire una cosa alla squadra.» L’incrocio si svuotò rapidamente, tutti rientrarono nel pub, rendendolo un microcosmo ad alta densità di popolazione. Ognuno aveva in mano il proprio boccale, o la propria bottiglia. C’era un silenzio quasi irreale, dopo tutta quella confusione. Qualcuno si schiariva la gola, qualcuno soffocava una risata. Imran si avvicinò al centro del locale, e salì in piedi su una sedia. Tutti potevano vederlo, con quel suo aspetto da generale in libera uscita. I baffi e i capelli erano ancora in ordine, era perfettamente sbarbato e composto nonostante avesse bevuto. Da quel pulpito mi ricordava ancora di più un capo militare pronto a tenere un discorso alle truppe.

«Cari ragazzi del Bari FC, voglio ringraziarvi tutti... Perché ci siamo salvati! E l’anno prossimo, giocheremo ancora alle 10 e mezza!» Scoppiò un boato e volò qualche schizzo di birra. La platea non aveva certo bisogno di orazioni ciceroniane per scaldarsi. «Oggi è un giorno molto bello per tutti noi, e per le nostre famiglie e i nostri amici. Ma fra due settimane potrebbe arrivare un giorno ancora più bello...» fece una pausa studiata, durante la quale nessuno fiatò - «...Voglio annunciarvi che mi ha chiamato la dirigenza del West Ham, e ho organizzato un’amichevole con loro!!!» Il locale quasi esplose, e la birra inondò tutti dall’alto. Sono certo che una vittoria in Coppa del Mondo dell’Inghilterra non avrebbe provocato tanto clamore. Il frastuono salì altissimo, parecchi si abbracciarono e qualche bambino piccolo venne spedito in aria in segno di giubilo. Ci volle qualche minuto perché tornasse un minimo di calma, e Imran potesse riprendere il suo discorso. «Si tratta di una specie di regalo al quartiere fatto dalla squadra» - spiegò - «Ma, purtroppo, c’è un ma. La partita si farà solo se il West Ham riuscirà a salvarsi dalla retrocessione sabato. È una precisa condizione della dirigenza che, per ovvi motivi, eviterà altre uscite pubbliche se dovesse perdere e scendere in First Division.» La notizia raffreddò un tantino gli animi (ma non troppo, l’alcool scorreva a fiumi). Il West Ham avrebbe dovuto vincere all’Old Trafford, in casa del Manchester United appena laureatosi campione d’Inghilterra. Una eggiata.

* * *

Fu, in effetti, una partita da niente. Il Manchester, già battuto in una gara vera all’andata, si fece docilmente sconfiggere per 0 a 1, permettendo quindi al West Ham di salvarsi terminando il campionato quindicesimo, nonostante il record di sconfitte stagionali, ventuno. A segnare fu proprio Tevez[2], quell’argentino cui Steve prima di Natale avrebbe volentieri fatto la pelle. Senza alcun ritegno, il giorno stesso si comprò la maglia col suo numero 32 sulle spalle e professò “di

aver sempre creduto in quel piccolo gaucho bastardo”. Ancor più allarmante fu che non se la tolse per tutta la settimana. Per il Bari FC quel risultato era però, se possibile, ancora più importante: era la conferma che ci sarebbe stata un’amichevole con il West Ham, proprio nello stadio di Upton Park. Steve se n’era reso conto benissimo sin dal lunedì successivo alla partita dell’Old Trafford. Era andato in fibrillazione, assumendo un comportamento del tutto anomalo: pur continuando ad indossare la sinteticissima maglietta celeste e granata, cessò di bere birra fino al giorno del match. Per lui fu uno sforzo tremendo e così duro che per affrontarlo dovette aiutarsi con due dita di whisky ogni tanto. Sì, parve un controsenso anche a me, ma Steve era fatto così. Impose anche a Craig la sua astinenza e io, per cinque giorni, mi sentii meno diverso del normale. Ogni mattina di quella strana settimana quei due si alzavano di buon ora, per fare un po’ di jogging prima di colazione. Poi, mentre Craig riprendeva la sua vita e io proseguivo la mia, Steve si chiudeva in casa a studiare col videoregistratore tutte le partite della stagione del West Ham. Nel pomeriggio andava al parco, per fare qualche esercizio e palleggiare un po’ con qualcuno. Poi a letto presto la sera, dopo una cena leggera. Il resto della squadra, credo, abbia riposato. Non avevamo infatti più a nostra disposizione il nostro campetto, dato che avevamo pagato l’affitto soltanto sino al termine della stagione. Quando ci ritrovammo al Boleyn Ground, il pomeriggio dell’amichevole, Steve era teso e concentrato come aspettasse la finale di Champion’s League. Tutti gli altri erano in bermuda, sandali e occhiali neri. Il nostro Campbell aveva fatto un insistente giro di telefonate per obbligare tutti a presentarsi due ore prima dell’inizio, come veri professionisti. Tutti avevano nicchiato ma, seppur controvoglia, erano lì. «Vuoi spiegarci il perché di quest’anticipo?» - Domandò, una volta riuniti nel parcheggio, Mister Imran. «Perché giocheremo qui» - e si voltò lentamente verso lo stadio, presentandocelo come se nessuno l’avesse mai visto - «contro una squadra di professionisti. E

come professionisti dobbiamo comportarci.» Lo stadio era davvero pacchiano, in quel suo giallo ocra, con due immense torri con guglie squadrate, a simulare un castello medievale a presidio dell’entrata. Sopra, la gradinata, grigia e imponente. Le scritte, in bordeaux. Un guazzabuglio di colori che non poteva certo suggestionare. Eppure a qualcuno quest’effetto lo faceva. «Voglio che capiate cosa significa questo stadio» - riprese Steve - «e sentiate l’atmosfera che si respira.» «Qualcuno di noi c’è stato. Io, per esempio» - puntualizzò Marcellus. «Sì, certo, ma non quando è vuoto. Non quando lo vedi immenso attorno a te, non prima di giocarci dentro.» «Comunque a quest’ora sarà ancora chiuso» - obiettò Siraz. «Non per me. Andiamo» - disse Steve raccogliendo la sua borsa e invitandoci a seguirlo. Si diresse verso il magazzino a sinistra. Da una porta sbucò un vecchio grosso e impacciato, che indossava una tuta del West Ham. «Steve?» «Joe, vecchia spugna!» I due si abbracciarono dandosi pugni sulle spalle. «Siete già qui, eh?» - Riprese Joe - «E così adesso giochi con questi ragazzi?» «Puoi dirlo forte Joe! Sono i migliori. Siamo noi il Bari FC!» «Che mi venga un colpo! Hai fatto bene a tornare a spezzar caviglie a qualcuno! Immagino tu non abbia perso il vizio, eh? Beh, mi fa piacere Steve...» - disse il magazziniere, rimanendo con le parole a mezz’aria. Steve colse la palla al balzo: «Allora ci fai fare un giro dentro la pancia del vecchio Boleyn?» - chiese. Joe ci squadrò con calma, sporgendo il labbro inferiore.

«Puoi scommetterci le chiappe Steve! Quando mi hai chiamato pensavo sarebbe stato un po’ un casino, ma siete arrivati così presto che qui non c’è nessuno! Dirò che siete entrati dal bar, se me lo chiedono. Forza andiamo.» Certo, vedere l’interno di uno stadio sin nei meandri è bello. Se poi stai per giocarci dentro, ancora di più. Ma non così tanto da rimanere senza fiato, come sembrava essere Steve. Era tornato indietro di quasi vent’anni, ovviamente. Ci illustrava ogni singolo dettaglio con la voce rotta dall’emozione. In ogni punto ricordava un aneddoto, sapeva cosa ci fosse dietro ad ogni porta, prima che venisse aperta. Steve si aprì, raccontando alla squadra le sue alterne fortune da calciatore. Non l’aveva mai fatto prima, e fu un segno di grande fiducia nei confronti di tutti i giocatori. Ovviamente saltò la questione personale di Jane e Philip, limitandosi all’aspetto sportivo della vicenda. Quando sbucammo sul prato di Upton Park tutti eravamo stati catturati dalla storia, così tanto che persino io ebbi un brivido lungo la schiena. Rientrammo negli spogliatoi in silenzio, percorrendo i corridoi con rispetto. La scritta “The Academy of football” ritornava ovunque. Cominciammo a svestirci senza scambiare una parola. Steve era stato in grado di farci sentire tantissimo quella partita, persino più dell’ultima gara del nostro campionato domenicale. Era parte del ruolo di Imran riportarci sulla terra: «Ragazzi, ringraziamo Steve per quello che ha voluto condividere con noi» esordì, lasciando qualche secondo perché tutti potessero rivolgergli un gesto di riconoscenza - «Siamo qui per divertirci, prima di tutto. Ricordate che è la festa che celebra una doppia salvezza: la loro e la nostra. Mi raccomando di stare attenti con le gambe di quei giocatori, perché valgono svariati milioni di sterline l’una, e non vorrei trovarmi nei guai... Non so se mi spiego...» Nello spogliatoio si sparse una risatina. «Comunque andate in campo con il sorriso e divertitevi. Per le foto non preoccupatevi, ci penseranno gli amici dalle tribune, e anche Siraz ha la macchina.» Non ci fu dubbio che andammo in campo con il sorriso, forse anche troppo. All’intervallo stavamo perdendo per 6 a 0, e i loro attaccanti non accennavano a

volersi fermare. Il pubblico del West Ham, in fondo, voleva spettacolo e noi eravamo la vittima sacrificale. Steve si stava dannando l’anima in mezzo al campo, ma quei giocatori – che in tv sembravano delle mezze schiappe – ora erano degli alieni. Avrebbero potuto superarci in dribbling senza rovesciare il caffè dentro una tazzina tenuta in mano, avrebbero potuto correre su una sola gamba battendoci comunque in velocità, avrebbero persino potuto calciare una palla medica da cinque chili scagliandola comunque con più forza dei nostri tiri. Sembravano dei mostri e non si stavano nemmeno impegnando. Nella ripresa Imran mi fece giocare, e mi resi conto di che spinta incredibile possano darti migliaia di occhi addosso. Mi divertii moltissimo, anche se il mio apporto fu scarsino. Ad un certo punto diedi la palla a Steve, che cominciò a correre a testa bassa verso la porta del West Ham. Nessuno aveva voglia di stenderlo con un calcio, come sarebbe avvenuto normalmente in campionato, così riuscì a tirare forte dal limite dell’area. Il portiere si tuffò tardi e la palla finì in rete. Inutile dire che esultammo come pazzi, in maniera completamente illogica (eravamo sotto 9 a 1 con quel goal): eravamo contenti per Steve, avevamo capito quanto ci tenesse. Lo speaker, annunciando il marcatore, ricordò il breve ato di Campbell nelle fila della squadra di casa, e dalle gradinate si alzò un mormorio, che poi divenne un applauso. Un applauso sempre più forte. Fu incredibile. Vidi Steve asciugarsi il naso col dorso del braccio, poi ancora gli occhi, e di nuovo il naso. Quel grosso burbero stava piangendo. Rispose addirittura all’applauso con un quasi impercettibile segno della mano. Per noi la gara era finita lì, avevamo avuto quel che desideravamo. Terminò 12 a 1, con gran soddisfazione di tutti. Negli spogliatoi fu una gran festa e un intonare cori per il nostro Steve, poi per Imran, e naturalmente per il Bari FC. In quel momento, stanco, sudato e col ginocchio sbucciato, stavo in equilibrio sul filo che separa una grande felicità da una profonda tristezza. Era quello, quel momento preciso, il più bello di tutto l’anno. Era il coronamento di un’unione imperfetta, il suggello di tanta fatica, il frutto di molte parole e tanti fatti. Eppure era anche il momento prima della fine di tutto. Non era un dramma, ma la constatazione della verità. Sapevamo, o almeno io capivo bene, che mai saremmo tornati a giocare lì. Che mai Steve ci avrebbe di nuovo aperto il cuore in quella maniera. Che mai più ci saremmo salvati all’ultima giornata con quel doppio colpo di fortuna, che mai più avremmo fatto festa per un giorno intero occupando l’incrocio stradale. Era così, una semplice verità: l’unicità dei momenti felici.

Prima che precipitassi del tutto, arrivò Craig: «Cos’hai Vincenzo? Ti vedo strano» - mi chiese. Mi risvegliai dai miei brutti pensieri. «No, tutto ok. È solo che...» - non seppi come continuare. «... Ti dispiace che finisca, no?» - Mi disse, con semplicità disarmante. «Sì, esatto, mi dispiace. Credi sia normale?» «Certo, è normale! Dispiace anche a me, e credo un po’ a tutti qua dentro.» «Non sembra.» «Vedrai che è così, solo magari qualcuno se ne renderà conto nei prossimi giorni, quando martedì sera non sarà più ad allenamento, o la domenica mattina potrà dormire.» Sorrisi malinconico. Avevo pensato lo stesso. E mi tornavano in mente gli accidenti tirati alla sveglia nelle domeniche d’inverno. «Ma in fondo» - proseguì Craig - «È proprio questo il bello. Sapere di aver fatto una bella esperienza, e portarsela dentro. Metterla in valigia, e andare avanti.» «Metterla in valigia?» - Rimasi un attimo interdetto. «Sì, nel proprio bagaglio di esperienza, da portare sempre con sé. Me lo dice sempre mia madre. In fondo, domani può succedere qualcosa di meglio.» Non ero molto convinto: «Lo credi davvero?» «Certo! Non eri tu quello che aveva iniziato a giocare solo per sfuggire al negozio di Steve?» Touché. Non se n’era scordato, l’amico dalla memoria d’elefante. «Già, è proprio vero. Chi l’avrebbe mai detto che sarebbe finita così?»

«Esatto. E chi avrebbe mai detto che anche Steve sarebbe finito così?» - Disse, indicandolo mentre distribuiva abbracci e pacche sulle spalle a maliani, senegalesi, sudamericani, iraniani e indiani.

* * *

Un paio di giorni dopo, smaltita la sbornia, Steve attese sul divano che rientrassimo dal lavoro e ci chiese di sederci. «Devo dirvi una cosa.» Aveva in mano quella busta nera. Sentii una scossa alla nuca. Avevo un brutto presentimento: «Cazzo, le telecamere: mi hanno beccato?» Craig cadde dalle nuvole, e anche Steve sembrò spiazzato: «Beccato? Di cosa parli?... Ah no, non credo. Beh, insomma, per il momento Scotland Yard non ha ancora messo una taglia sulla tua testolina bionda.» «Fottiti.» Uff. M’ero sentito perso. Ero riuscito a nascondere l’idea che mi rintracciassero dai filmati, ma ogni tanto riaffiorava con forza. Steve riprese il filo, tenendo la busta nera dritta davanti a sé: «Ho deciso di andare a cercare la famiglia del donatore.» Rimanemmo pietrificati, anche se era la conseguenza più logica dopo aver portato a termine il furto. «Che ne dite? Voglio una vostra opinione» - insistette. Per fortuna fu Craig a cominciare.

«Vedi Steve, ho letto qualcosa sull’argomento recentemente. Io credo sia un grosso rischio. Te l’avevo detto già prima, e credo ancora sia così. Se nella maggioranza dei casi si evita di conoscersi, fra familiari del donatore e ricevente, un motivo c’è. Il trauma può essere molto forte, sia per te, sia per la famiglia, che saprà che il cuore di un loro caro batte nel tuo petto.» Istintivamente, tutti e tre rivolgemmo lo sguardo al muscolo cardiaco sotto formalina che campeggiava sulla mensola. «Questi incontri» - riprese Craig - «sono fortemente sconsigliati. Insomma, io non lo farei. C’è un motivo per il quale certe informazioni sono tenute segrete. E il fatto che tu ora le possegga, non significa che sia giusto usarle. Rimani con il tuo nome, e accontentati. Se Dio lo vorrà, magari un giorno... Un giorno sentirai parlare di questo Martin Prince.» Steve ascoltò in silenzio, sospirando ogni tanto e stringendo la bocca per dare la massima attenzione. Quando Craig finì, mi rivolse uno sguardo quasi supplichevole. «Mi spiace Steve, ma la penso come Craig. Non credo sia una buona idea. Tutta questa storia della ricerca, del fatto che se ti sei salvato dall’incidente sia per una valida ragione... Questa storia del destino cui vai incontro... Non mi convince del tutto. Sono giorni felici, questi. Non rischiarli, perché non sono molti nella vita. Pensa a Philip, impegnati per lui. Questo sì, pensa a Phil.» Steve incassò. Ma un mulo testardo rimane un mulo testardo, anche se guidato bene. «Se decidessi lo stesso di farlo, mi aiutereste?» Alzammo le spalle, non capendo a cosa si riferisse. «Voglio dire» - chiarì - «chi verrà con me in casa di Rose Prince?» Aveva già deciso tutto, e trovato anche la famiglia. Non mi restò altro da fare se non accompagnarlo.

1 Lo scatenato tifo brasiliano, fatto di balli, canti e percussioni. 2 Carlos Tevez terminò la stagione in Premier con 19 presenze da titolare e 7 goal, tutti importantissimi. Fu nominato Hammer of the Year – un riconoscimento che i tifosi attribuiscono al giocatore più rappresentativo dell’anno – e ò nel mercato estivo proprio al Manchester United.

CAPITOLO XIX

Uscimmo dalla casa di Rose e Martin senza voltarci indietro. Avrei voluto farlo, per salutare la donna e dirle “grazie” per averci aperto il suo cuore, ma mi colse una sensazione di panico: se adesso avessi smesso di seguire Steve l’avrei perso per sempre, ne ero sicuro. Quando aveva visto la foto del ragazzo l’espressione del suo volto era andata ben oltre lo sconvolgimento, e ora temevo avrebbe fatto qualche gesto istintivo e pericoloso. Così fui costretto a corrergli dietro lungo il marciapiede, mentre si dirigeva verso la macchina. Anzi no, stava andando esattamente dalla parte opposta. Le mani affondate nel giubbetto di jeans erano strette contro il torace: avrei giurato fossero proprio ad altezza cuore. Arrivato all’angolo si fermò di scatto, ruotò repentinamente su se stesso e ripartì in direzione contraria. Me lo ritrovai di colpo faccia a faccia, sempre a testa bassa, che camminava spedito verso l’auto. Riuscii a stargli mezzo o indietro, ma non ebbi la forza di chiamarlo, di invocare una sua reazione, di cercare almeno di farlo sfogare.

* * *

Il grande deserto era per lui solo una fantasia lontana, un mito che il padre cercava ogni tanto di alimentare, senza nemmeno troppa convinzione. Martin a Londra ci viveva davvero bene, e persino un po’ meglio da quando aveva conosciuto Rhoda. Era ormai l’ultimo anno del college, e i piani del ragazzo erano stati chiari sin da bambino - quando aveva preso un fustino cilindrico di detersivo, gli aveva ritagliato una finestrella, e se l’era messo in testa a mo’ di casco spaziale: «Farò l’astronauta!» - Aveva annunciato trionfante in cucina, con la polvere di detersivo che cominciava a farsi sapone in bocca.

Ma quanti lo dicono? Forse tutti, almeno dieci volte al giorno per qualche anno. Il “guaio” era che Martin aveva avuto la forza per inseguire il proprio sogno, solo adattandolo un po’ alla realtà, col are degli anni: avrebbe frequentato Ingegneria dei veicoli aerospaziali negli Stati Uniti. Se possibile, al MIT di Boston. Ciò che riempiva d’orgoglio il petto dei genitori era che il ragazzo sembrava crescere dritto e forte come una sequoia senza bisogno di troppe indicazioni. Aveva radici solide per crescere alto. Ma anche l’albero più robusto fatica nella tempesta. Il padre se ne andò presto, richiamato anzitempo al fianco del Signore, come aveva detto mamma Rose. Martin sembrò assorbire il colpo bene, anche troppo. Si rifugiò nello studio, negli amici e nel calcio. Cos’altro avrebbe dovuto fare? Rose era contenta che il suo figlio più grande fosse già così maturo. Era più preoccupata per il figlio minore che, ancora piccolo, non avrebbe avuto la figura paterna a guidarlo. Ma intanto Martin portava avanti l’amore con Rhoda e la ione per il West Ham. Il suo idolo era Paul Ince, centrocampista cresciuto proprio all’Accademia del Football. Gli spezzò il cuore saperlo in partenza per il Manchester United, dopo che l’aveva visto giocare nei campetti del quartiere. Comunque aveva continuato a frequentare la South Bank, ma Ince lui non lo fischiò mai[1]. Era ato già qualche anno dalla morte del padre, che le preoccupazioni di Martin dovettero rivolgersi a Rhoda. Lei non sembrava più essere così solida: cercava di scansare i problemi di una ragazza adolescente nel modo più sbagliato, con la droga. E nella Londra di fine Anni Ottanta - inizio Novanta c’era solo l’imbarazzo della scelta. La droga ti veniva a bussare alla porta. All’inizio sembrava solo un atempo, poi divenne un’abitudine ed infine un’esigenza. Martin cercava di distrarre Rhoda in ogni modo e di aiutarla a scuola. Ma non c’era niente da fare. Sembrava aver trovato la sua via, e Martin – in quella strada – non era un compagno di viaggio. Un brutto giorno, l’ultimo giorno di Martin, il ragazzo stava rientrando a casa con lo zaino pieno di libri appena comprati alla libreria dell’usato. Aveva deciso di prendere una scorciatoia, ando dietro le case vecchie attraverso un campo, usato ormai come discarica. Voleva arrivare a casa più presto possibile per poter telefonare a Rhoda ed

incontrarsi la sera stessa. Inoltre stava facendo buio, l’erba era già umida e lui era vestito troppo leggero. Nel prato c’erano ancora dei ragazzini che giocavano a pallone. Si chiese come fero a vederlo, con il lampione più vicino a venti metri. La palla gli rotolò vicino. Gli corse dietro un ragazzino che indossava una maglietta granata e celeste di almeno tre taglie più grande: era suo fratello. «Hey tu! Non è ora di andare a casa?» - Disse Martin, stoppando il pallone. «Non rompere Martin, adesso arrivo. Siamo ancora pari, chi segna questo vince tutto.» «Sì, ma è ora di andare, forza vieni con me» - insistette il fratello maggiore, lasciando trapelare nelle parole autoritarie un certo margine di trattativa, che il fratellino non si fece sfuggire. «Ok, Marty. Aspetta un attimo e vengo con te. Segniamo questo e arrivo» disse, rimettendo in gioco la palla e schizzando al centro del campo. Era bravo il suo fratellino, ma soprattutto correva veloce e sembrava non stancarsi mai. Però gli piaceva la musica molto più del calcio e la mamma aveva già deciso che gli avrebbe regalato un piccolo stereo portatile a pile per il prossimo compleanno. Martin si rassegnò ad attendere che la palla superasse la linea immaginaria fra i due giubbotti buttati in terra. Si cacciò le mani nelle tasche dei pantaloni per riscaldarsi un po’ e cominciò a battere i piedi. S’era alzata un po’ di brezza e la sua felpa non lo proteggeva dal vento. Così decise di cercare riparo dietro a quell’ammasso di ferri vecchi alle sue spalle. Non voleva perdersi il goal, se il suo fratellino avesse segnato, e camminava rivolgendo lo sguardo al campetto. S’appoggiò sul cofano di una vecchia Vauxhall che una volta doveva essere stata rossa. Ma non era la sola carcassa di auto lì. Sembrava un cimitero degli elefanti meccanici, con tutti quei telai sventrati. Pezzi di motore non ne erano rimasti, ma alcune macchine avevano ancora dentro le reti dei seggiolini. Martin sentì alcuni rumori provenire da una di quelle, lasciata ad arrugginire più indietro. Si avvicinò, incuriosito da una lucina fioca dietro il parabrezza. «Rhoda, che ci fai qui?»

La sua ragazza era lì, assieme a tre ragazzi più grandi. Erano vestiti come soldatini, con i giubbotti di pelle, gli anfibi Dottor Martens e i jeans stretti. Non era un mistero per nessuno che fossero spacciatori, anche se non erano del quartiere, e nessuno li conosceva se non con dei soprannomi. «Martin, per favore, non cominciare.» «Maledizione, vieni via!» - Gridò Martin con voce stridula, facendo per prenderla. Quasi di controvoglia, dai posti di dietro dell’auto si alzarono due tipi che allargarono le braccia. «Lei resta qui» - dissero, e sembrava proprio un dato di fatto. «Sentite, se c’è da pagare qualcosa vi pagherò» - li anticipò Martin - «Voglio solo che Rhoda venga a casa» - disse rivolgendole lo sguardo. Ma lei era assente, infastidita, superiore. Aveva in mano il suo accendino, e il ragazzo al posto di guida non s’era mosso, per non rovesciare il cucchiaino. Però, senza guardarlo, ebbe lo stesso modo di gelarlo: «Senti bambino, è meglio che tu te ne vada, o qualcuno si farà male. Levati di qui e faremo finta di non averti visto.» «Non me ne vado senza Rhoda.» Uno dei tipi colpì il tetto della macchina con un pugno, e urlò: «Togliti dal cazzo o ti faccio pentire di essere nato, stronzo!» Martin aveva il cuore a mille, le dita dei piedi arricciate dentro le scarpe, e non sentiva più il freddo. Avrebbe voluto essere con Rhoda, sul suo letto, nella camera di sopra, al caldo. Nient’altro. Intanto la partitina era finita e il fratellino stava cercando Martin fra i rottami, attirato dalle voci che aveva sentito. «Martin, Martin, abbiamo vinto! Ho fatto un gran tiro, hai visto? Possiamo andare a casa, ora» - diceva disperdendo le sue parole nel buio.

Per fortuna Martin non poteva sentirlo. Era impegnato a cercare una soluzione veloce che salvasse lui e la ragazza. Non era certo la situazione migliore in cui ragionare, con uno spacciatore incazzato a due metri. Anzi, tre spacciatori. «Rhoda, ti prego, vieni via» - insistette. «Martin, vai via tu. Ci vediamo dopo, stai tranquillo» - provò a blandirlo la ragazza, indispettita dall’essere trattata come una ragazzina. «No, senza di te non vado» - disse Martin, e nel farlo saltò sul cofano della macchina e andò dal lato eggero, quello di Rhoda - «Andiamo dai!» Cercò di afferrarla per un braccio, ma l’energumeno del sedile posteriore fu più rapido ad acchiappare lui. Lo trattenne per un braccio e gli rifilò una manata sulla nuca che lo stordì per un attimo. «Stai fermo, mosca. Non rompere il cazzo» - ringhiò storcendogli il braccio all’indietro, e costringendolo a piegarsi. Martin si divincolò, tentando di dare un pugno all’altro, che lo schivò gettandolo a terra con un calcione sul ginocchio. Rhoda lanciò un urletto, ma non fece nulla. Martin aveva la faccia nel fango, e capì che avrebbe dovuto liberarsi dello zaino per poter fare qualcosa. Appena se lo tolse, però, un anfibio lo colpì ripetutamente alla schiena. Era l’altro tipo che stava seduto dietro. Martin si contorse e rantolò: «Figlio di puttana!» «Cos’hai detto?» Cominciarono a tartassarlo di calci. Il primo lo colpì allo stomaco, troncandogli il respiro, e col secondo gli ruppero il naso. Era già abbastanza, Martin non stava sentendo più nulla. E meno male, perché in quel momento, oltre la carcassa di un minivan, era comparso il suo fratellino. Sotto gli stivali le ossa di Martin scricchiolavano come grissini, mentre Rhoda era inginocchiata di fianco alla macchina, piegata dal pianto e dalla paura. Si stava mordendo violentemente le dita, e tirando i capelli, in preda ad un’isteria sconosciuta e incontrollabile. Ansimava forte e perdeva bava dalla bocca.

Quello seduto sul sedile davanti uscì. Girò con calma attorno alla macchina, da dietro, e abbassò gli occhi su quel fagotto di stracci e sangue che pochi minuti prima era un ragazzo di nome Martin. Si vedeva poco, al buio, ma non c’era molto da capire. Il silenzio era assoluto, tranne che per i singhiozzi di Rhoda. Con una calma serafica, spiegò ai suoi cosa fare. «Avete esagerato ragazzi. Va a finire che questo sacco di merda ci fa il dispetto di morire qui. Prendete subito la macchina e sparite per un po’. Appena avete modo di farlo indisturbati vi togliete quei cazzo di anfibi sporchi di sangue e buttate via quei vestiti. Cambiatevi, capito?» I due picchiatori annuirono. Il fratellino, intanto, era scappato a casa, correndo con tutto il fiato che aveva in corpo, rimandando le lacrime a dopo. «Io nel frattempo faccio una telefonata anonima all’ambulanza da una cabina poco distante. Poi sparisco e ci sentiamo fra qualche giorno.» «E quella puttana? Ci ha visti, non possiamo lasciarla qui.» «Non sa chi siamo. È solo una troietta che faceva pompini per una dose. Non le crederà nessuno, ammesso che si riprenda. Lasciamola lì.»

* * *

La madre ci mostrò una foto del ragazzo. Lo si vedeva con una polo rossa, sudato, con i capelli chiari appiccicati alla fronte e la faccia un po’ paonazza. ava un braccio attorno alle spalle ad un amico con la felpa del college, la pelle scura, i capelli ricci e un principio di baffetti. Anche lui aveva la fronte imperlata di sudore. Sullo sfondo un campo verde, forse da calcio. «Questo è Martin, l’estate prima di andarsene...» - disse la madre con voce ferma, piena di fierezza, mentre noi assentivamo costernati - «...indossava sempre quella felpa blu, era davvero la sua preferita» - sorrise amaramente - «ce

l’aveva anche il giorno in cui me l’hanno ammazzato. Il piccolo Mark assistette a tutta la scena.» Rose lasciò sgorgare fuori le lacrime, mordendosi il labbro inferiore. Piangeva a singulti. Noi eravamo rimasti impietriti. Vidi gli occhi di Steve cercare qualcosa su quel rettangolino di carta, impazziti. Riguardammo ancora la foto: Martin, la felpa blu del college, la fronte imperlata di sudore... Il fratellino Mark...

* * *

Salimmo in auto, e Steve guidò a strappi come non mai, ben oltre il cronico difetto alla frizione della vecchia Mini. Non aprì bocca per tutto il tragitto, né mi guardò. Teneva le mani aggrappate al volante. Nemmeno io, a dire il vero, cercai di stimolare una sua reazione. In fondo, pensandoci, che diavolo di motivo poteva avere per tenere il broncio? Ok, quel ragazzo era nero, il suo donatore era un ragazzo di colore e allora?! Per me la questione era chiusa: Steve era stato fortunato ad avere il trapianto. E lo era stato ancora di più pensando che il cuore di Martin era giovane e forte... E puro. Ok, Martin Prince l’avevo “conosciuto” un’ora attraverso gli occhi innamorati della madre. Ma una morte tanto assurda, inspiegabile, truce... Me lo faceva vedere come un eroe positivo. Che a Steve battesse nel torace il cuore che era stato di un ragazzo di colore a me sembrava un segno, un dettaglio, non certo una sventura. La cosa che veramente mi sconvolgeva era che Steve avesse avuto ragione. Sembrava ci fosse proprio un motivo per cui fosse sopravvissuto all’incidente. Riscattare Mark. Non lo sapeva nessuno dei due, ma – in qualche modo – erano fratelli. E pensare che solo qualche mese prima stava per ammazzarlo di botte, Mark Ali. Ali, aveva voluto limitarsi al cognome del padre. Prince, il cognome della madre, era quello che risultava nei documenti dopo la morte del genitore. E così il collegamento l’avevamo fatto solo lì, nel salotto di Rose. Lì, di fronte a quella foto. Di fronte all’evidenza che il nostro Destino, prima o poi, chiede di essere ascoltato. Mark Ali era il fratellino di Martin Prince. Il cui cuore, ora, batteva nel petto di Steve.

* * *

Arrivati a casa, Steve si chiuse in camera come un adolescente. Non avrei potuto immaginare reazione più immatura, o almeno a me sembrava così. Drogato dai telefilm americani, me lo figuravo buttarsi sul letto a pancia in giù e coprirsi la testa col cuscino. Bah... Capisco che per uno come lui avere il cuore di un ragazzo nero – ma lui avrebbe detto NEGRO, inutile nasconderselo, e forse l’avrebbe condito con qualche aggettivazione sgradevole – fe un certo effetto. Però speravo di vederlo uscire entro pochi minuti. Non fu così. Non fu affatto così. Steve rimase barricato in camera per quattro giorni. Suppongo uscisse per procacciarsi il cibo e andare in bagno, ma Craig ed io non lo vedemmo mai. Probabilmente approfittava dei nostri turni di lavoro per farlo. A Craig avevo spiegato tutto: di Rose, di Martin, del fatto che Steve avesse nel petto il cuore del fratello di Mark, di quella morte assurda, del Destino e della reazione di Steve che aveva sotto i propri occhi. Non si può dire che fossimo delusi da quell’atteggiamento, ma la speranza che avesse un briciolo di autoanalisi e di umanità era dura a morire. Speravamo anche che l’esperienza di integrazione del Bari FC l’avesse un po’ cambiato. Ma forse ci sbagliavamo.

* * *

Una domenica mattina – orfani del campionato – ce lo ritrovammo in cucina, intento a preparare la colazione, da bravo uomo di casa. Ci aspettavamo delle spiegazioni, un discorso lungo e serio, uno sfogo. Qualcosa. Invece nulla. «Buongiorno ragazzi. Stavo facendo una vecchia e sana colazione all’inglese, ne volete un po’?» - Ci salutò, serio ma sereno. Craig ed io ci guardammo con un misto di preoccupazione e perplessità. Che abbia preso un colpo in testa e abbia scordato tutto?

Decidemmo comunque di non fargli domande. Sapevamo che ci avrebbe parlato. Lo fece subito, mentre mangiavamo uova, fagioli e salsiccia a tavola. «Parlerò con Mark» - esordì - «Dobbiamo fare qualcosa.» Craig ed io ci interrogammo con lo sguardo, e mi feci da portavoce: «Fare qualcosa... In che senso?» - Domandai, spiazzato. «Cristo Santo, Vinnie, ma hai sentito la storia che ci ha raccontato Rose? Ti rendi conto di quel che è successo?» Erano domande che non richiedevano risposta. Strinsi forte la forchetta e lo invitai a proseguire con un cenno, quasi vergognandomi. Per la prima volta, al suo cospetto. «Qui c’è un ragazzo, orfano di padre, che cerca di tirare la fidanzata fuori dal giro della droga. Questo ragazzo viene massacrato, a calci, da tre spacciatori. E il suo fratellino, Mark appunto, è lì a vedere. Martin non ce la fa, e muore in ospedale per le ferite. Però la madre ha la lucidità di donare quel cuore, e quel cuore batte qui dentro il mio corpo. È la mia seconda vita, è la mia seconda opportunità. La ragazza non fa niente, e di lei non si sa più nulla, ok. Ma Mark? Mark è qui, lo conosciamo. E, come se non bastasse, sappiamo che spaccia.» Qui Craig ebbe un sussulto, perché della storia del nipote di Lucas non sapeva nulla. Lo invitai a non fare domande, comunicandogli con un gesto del dito che gli avrei spiegato quel dettaglio dopo. Steve continuò: «Vi rendete conto? Mark è finito in un giro che sembra simile a quello degli assassini di suo fratello. Perché? C’è qualche motivo particolare? Ora, poi, quel fratello – in modo diverso – sono io. Sono io a portare qua dentro il suo cuore. E pensare che l’ho riempito di botte. Io non ci posso credere, stavo per ammazzare il ragazzo che devo ringraziare per essere ancora vivo. Perché secondo me, non lo so per certo ma credo sia così» - disse scandendo le parole e cercandoci con lo sguardo - «se il piccolo Mark non fosse corso veloce dalla madre per chiamare l’ambulanza quei maledetti assassini non l’avrebbero fatto tanto presto. Non abbastanza, comunque. E insomma, io voglio andare in fondo a questa storia. Voglio parlare con Mark. Voglio tirarlo fuori di lì. E so come fare.»

«Ma ecco, esatto, come pensi di fare?» «Troverò gli assassini di Martin. Siete con me? Ma sappiate che ci vorrà fegato, ragazzi.»

* * *

«Sei pronto per affrontare quest’avventura dietro ad un vecchio inglese, stupido, ubriacone e razzista?» - Si schernì Steve, caricando di melodrammaticità la sua domanda. «Posso pensarci su un attimo?» - Risposi, lasciandolo interdetto per un istante. «Non se pensi di voler continuare a vivere sotto il mio tetto pagando due penny…» «Beh, se la metti così… Tu sei pronto ad affrontarla fianco a fianco con un mangiaspaghetti, suonamandolino, frocio impunito?» Mi guardò dritto dritto negli occhi, profondamente. Li strizzò; poi una luce sembrò illuminarlo, e tutti i fili annodarsi dentro la sua testa, in un attimo. Quindi distese il volto in un sorriso quasi dolce. Mise una mano sulla mia spalla, strinse un po’ e disse: «Certo amico.» Ero con lui. Eravamo con lui. Con quel nuovo Steve ce l’avremmo fatta. Sarebbe stato un casino, ma eravamo sicuri di farcela.

* * *

Ah, è possibile che debba sottopormi ad un trapianto di fegato, così almeno mi ha detto il dottore. Ma non credo che andrò in giro a cercare il donatore, non

credo proprio. Altrimenti ci sarebbe da scriverci un’altra storia.

FINE?

1 Paul Ince (nato nel 1967 a Londra), era tifoso degli Hammers e firmò per il West Ham quando aveva solo 14 anni. Fu inserito nella scuola della squadra, e debuttò nel 1986. Nonostante le sue prestazioni, la squadra crollò fino alla Seconda Divisione, e Ince fu venduto al Manchester United. Una sua foto con la maglia della nuova squadra pubblicata prima del trasferimento provocò la collera dei tifosi del West Ham nei confronti del giocatore.

NOTA

Il Bari FC esiste veramente. È una squadra che gioca davvero nella Sunday League, ad Upton Lane. Fu fondata nel 1995 da Imran Merchant – che la allena e ne è presidente – e disputò tre stagioni nella South Essex Football League. Poi si fermò per due anni, per tornare nel 2000. Ho intervistato Imran, e – oltre a spiegarmi le origini del nome del team – mi ha spiegato che la filosofia della squadra è esattamente quella di creare un punto d’unione e di ritrovo per le genti di tutti i Paesi che vivono nel quartiere di West Ham. I giocatori sono anche soci della squadra e contribuiscono, in maniera volontaria, a far crescere il movimento. Recentemente il Bari FC ha anche inaugurato un settore giovanile, allenato da un Mister del West Ham United, per ragazzini dai 7 agli 11 anni. Imran ci tiene a dire che nella sua squadra sono tutti uguali, senza distinzioni di età, religione, provenienza, e senza discriminazioni e distinguo fra chi è più forte e chi lo è meno (Vincenzo era un’eccezione). La storia della stagione 2006-07 è stata da me arbitrariamente cambiata per adattarla all’intreccio del romanzo. Il Bari FC infatti vinse quel campionato. Ma una squadra forte non sarebbe stata altrettanto divertente. A fine stagione il Bari FC giocò veramente un’amichevole col West Ham (la cui stagione agonistica è stata invece ripercorsa fedelmente), ma non credo sia andata a finire proprio così. È davvero importante?

RINGRAZIAMENTI

Ringrazio la florida situazione economica dell’Italia, che mi ha consentito di stare a casa i mesi sufficienti a scrivere questo romanzo.

Ringrazio Caterina, per la sua fede incrollabile nelle mie potenzialità di scrittore, l’amore incondizionato che mi ha dato mentre scrivevo il libro, la sua profondità di analisi, la sua infinita capacità di migliorarsi.

Ringrazio Lorenzo che mi ricarica, col suo essere un bambino allegro, ogni volta che lo vedo. E ogni volta che mi dice “ciao zio!” correndomi incontro per abbracciarmi.

Ringrazio la mia famiglia, che non credo si renda conto di quanto è importante.

Ringrazio chi mi ha aiutato tantissimo, con pazienza e affetto, sacrificando in cambio di nulla tante ore libere, in fase di correzione del manoscritto.

Ringrazio Rachid e Chiara, che mi hanno accolto a Londra quando avevo bisogno di ispirazione con una leggerezza e una semplicità meravigliose.

Ringrazio l’inverno nevoso durante il quale ho potuto stare in casa a scrivere senza la smania di uscire; e la primavera di sole che mi ha incitato a finire.