Giovanni Andrea Negrotti
DANNATA
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Titolo | Dannata Autore | Giovanni Andrea Negrotti Copertina a cura dell’autore ISBN | 9788867514489 Prima edizione digitale 2012
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RACCONTO BREVE DI GIOVANNI ANDREA NEGROTTI Vincitore primo Premio al 2°concorso internazionale di narrativa e testi per canzoni “La forza dei sentimenti” Associazione culturale e teatrale LUCE DELL’ARTE ROMA Ogni riferimento a persone o luoghi è puramente casuale frutto della creatività dell’autore che ne declina ogni responsabilità. FotoArtistica di copertina Guido Zuffetti in arte Kurtz. Un ringraziamento particolare alla dott.ssa Carmela Gabriele, alla giuria del concorso e al Dott. Alfonso Pascale.
Una prosa dolente ma intensa che mi ha accompagnato con rara sensibilità e immediatezza in un mondo interiore che mi era ignoto. Ho compreso finalmente dove nasce la violenza, cosa la scatena: la diversità. Non solo quella che vediamo nell'altro, quanto invece, e forse in misura maggiore, quella che è in noi, quella parte di noi che la famiglia, la scuola, gli amici e la società non accettano. Oggi la nostra civiltà ha bisogno di un correttivo in profondità se non vuole dissolversi. E questo correttivo può derivare solo da un nuovo bene di legame, che va oltre il generico spirito di coesione, il sentimento di solidarietà o ancora il senso di appartenenza ad una comunità. E' la capacità di accettare chi è diverso da noi. Ma per poterlo fare dobbiamo prima imparare ad accettare la parte di noi che da bambini ci siamo abituati a reprimere. E' la parte di noi più fragile. Ma solo se sapremo riconoscerla, impareremo a riconoscere la fragilità degli altri. Questo nuovo bene di legame è il senso di fraternità. Ma una fraternità civile e una sorellanza civile. La fraternità degli antichi era una fraternità di sangue e di suolo. Poi si è imposta una fraternità fondata sull'identità nazionale, sulle appartenenze di classe o di ceto, sulle affiliazioni religiose e ideologiche. Ma quella più solida è stata ed è tuttora la fraternità fondata sull'identità di genere, con cui i maschi eterosessuali hanno costituito il proprio dominio sia sulle donne, sia sui diversi, favorendo ogni forma di violenza nei loro confronti. Dobbiamo introdurre in ciascuno di noi e nella vita collettiva una nuova forma di fraternità o sorellanza, una fraternità o sorellanza civile, universalistica e senza distinzioni, per poter eliminare alla radice il germe della violenza. Ma prima dobbiamo farlo nella nostra vita dove si annida quella parte di noi che non vogliamo riconoscere. Questo racconto tragico ci indica il percorso. Un percorso non facile e non scontato, che mette in discussione tutto di noi e della civiltà in cui viviamo.
dott. Alfonso Pascale
Tanti anni ati con Ettore; i più belli della mia vita. Lui era l’uomo che ogni donna desidera, era l’amore in persona, tutto ciò che avessi mai potuto desiderare. Era l’amico, l’amante e il padre; si, il padre, visto che il mio era troppo occupato per il suo lavoro. Ettore, purtroppo la vita o il destino me lo portò via quel mattino dell’incidente di cui ancora mi rimprovero per non aver insistito nel trattenerlo un po’di più a letto, senza capire perché, senza lasciarmi neanche un figlio, qualcosa di lui. Mi ritrovai vedova a trentacinque anni e non sapere cosa fare del resto della mia vita, sola, senza più neanche mio padre, per quel che valeva, morto anche lui qualche anno prima. Certo rimaneva mia madre, se così la vogliamo chiamare, una madre assente, presa solo dalle sue cose, dalla sua Silvia, l’amica cara che diventò parte della famiglia, giacché mia madre non ebbe mai il coraggio di affrontare la sua omosessualità vista la sua posizione nell’elite delle persone snob, ed erano gli anni dove ancora vi era discriminazione e vergogna. Ora capisco le lunghe assenze di mio padre dovute in parte al lavoro di diplomatico sempre in viaggio per il mondo. Ricordo raramente di viaggi con lui e la famiglia, mia madre che soffriva di emicranie croniche non lasciava mai volentieri il nostro paese - Andate pure, io starò qui a riposare, Silvia mi terrà compagnia, anche lei non sta bene ultimamente- Questa era la frase di rito quando quelle poche volte mio padre mi portava con sé nei suoi viaggi. Poi, quando si era da soli in qualche paese nel mondo io rimanevo quasi sempre da sola o con una governante in albergo, a fare shopping, oppure a visitare musei e siti archeologici. Mi son fatta una cultura sull’archeologia che neanche uno studioso riuscirebbe in tutta la sua vita. Mi rinfrancavo quando mio padre finiva i suoi incontri e allora si cenava insieme, dopo si andava a dormire in stanze separate, io con la governante e lui da solo - Devo alzarmi presto domattina ed è meglio che non ti disturbo- Diceva così per trovare la scusa delle stanze separate, ma credo che avesse una donna, allora non ci pensavo ma ora che ricordo credo proprio di si, anche se devo dire che mio padre non si è mai fatto scoprire, non trapelava mai niente neanche dai nostri discorsi a cena, come del resto sapevamo entrambi della relazione di mia madre con la sua amica eppure non avevamo mai parlato di questo. Una volta, fu che la relazione di mia madre con Silvia fosse motivo di una discussione, era un mattino d’estate nella villa al mare, Silvia aveva sempre avuto un atteggiamento autoritario nei miei confronti e all’epoca io avevo sedici anni, non fu un bel ricordo, lei si preparava per andare in spiaggia mentre mia madre e mio padre erano già andati dopo la colazione. Solitamente mi alzavo tardi quando ero in vacanza e dopo la colazione avevo l’abitudine di occuparmi del mio corpo con calma e devozione mentre tutti erano a prendere il sole in spiaggia. Non mi accorsi che lei era
ancora in casa e mentre ero intenta a spalmarmi la crema sul corpo apparve all’improvviso. Ebbi uno scatto e paradossalmente mi venne d’istinto di coprirmi col telo da bagno - Hai paura di me? Vuoi una mano a spalmarti la crema?- disse, mentre si avvicinava sempre di più. Provavo una strana sensazione, pudore più che altro, anche se ero abituata a vederla per casa da quasi dieci anni, anche se era una donna, ma ancora non avevo capito la sua indole. Mi prese la bottiglietta di crema dalle mani e messosene un po’sul palmo le fregò assieme, poi iniziò a spalmarmi le spalle e lentamente diventavo più concedente, lei continuava a spalmarmi sino a che arrivò ai miei giovani seni turgidi, da prima il movimento attorno delle sue mani mi pareva normale, man mano che incedeva era più insistente e mirato, provai una sensazione di piacere ma subito di disapprovazione alche le allontanai seccata le mani sgusciandole sotto le braccia e corsi a rinchiudermi nella mia stanza. Piansi di rabbia e di vergogna sino all’ora di pranzo, non si era azzardata a seguirmi e raggiunse i miei in spiaggia. A tavola ebbe il coraggio di guardarmi con occhi di libidine senza curarsi minimamente delle occhiate di mia madre - Come mai non sei scesa alla spiaggia?- chiese mio padre - Avevo mal di pancia … sai le mie cose!- Risposi, mentre Silvia mi guardò con un sorriso dato che non feci parola dell’episodio, ma continuava a guardarmi con occhi di lussuria ed a un certo punto disse - Stai diventando una donna, hai anche un bel seno!!- Rimasi impietrita mentre mia madre diede un colpo di tosse, all’improvviso non so che mi prese , gli scaraventai il vassoio dell’insalata addosso e scappai fuori a rifugiarmi nella casa degli attrezzi. Mentre uscivo mia madre urlò forte il mio nome richiamandomi e Silvia si dileguò. Dalla casa degli attrezzi sentivo i miei litigare come non avevano mai fatto, sentivo rumori di piatti rotti e sedie che si rovesciavano, rannicchiata nell’angolo sotto il balcone potevo solo immaginare mentre piangevo e tremavo di paura cosa stesse accadendo. Avrei voluto morire quel giorno pur di non avere dei genitori così. Più tardi mio padre venne a parlarmi, lo sentivo che mi chiamava dal di fuori col nomignolo che era solito usare per coccolarmi, mi svegliai lentamente mentre lui continuava a chiamarmi dolcemente, strisciai sino alla porta aprii e ritornai al mio posto. Vedendo la porta aperta entrò, era stranamente pacato, dolce, mi sarei aspettata un serio rimprovero. Invece anche se aveva un tono autorevole mi chiese in modo sereno il motivo della mia azione; tremavo, non avevo la forza di parlare, poi all’improvviso scoppiai in un pianto isterico e dissi tutto d’un fiato quello che era accaduto, mio padre provava a calmarmi cercava di abbracciarmi ma io continuavo a piangere e scartare le sue mani mentre urlavo – Quella schifosa lesbica la devi mandare via dalla nostra casa, mi ha rubato mia madre!!! Ha rubato tua moglie!!! La odio, la odio!!!- Poi crollai nelle braccia di lui e lo
sentivo singhiozzare, ma non disse una parola, mi assopii tra le sue braccia e mentre in braccio mi portava nella mia stanza allungai una mano sul suo viso … sentii la sua guancia bagnata, portai la mia mano sulle labbra per poi riporla sulle sue. Mi sorrise, sempre senza parlare, forse quello era stato l’unico suo gesto d’affetto in tutta la sua vita. Ma ora capisco quando ha sofferto in silenzio sino alla morte. Rimossi questo episodio rapidamente dalla mia mente, continuai la mia vita tra scuola e amici, tra feste dei miei in casa e feste che mi organizzavo nella dépendance per conto mio. La festa più bella fu quella del mio ventesimo compleanno, si, quella dove conobbi Ettore. Lui era più grande di me, dieci anni, lo portò alla festa nella dépendance Lucilla, un’amica dell’università, una di quelle che fa il giro di uomini uno alla settimana; quella volta era il turno di Ettore. Al principio non era nei miei interessi, anzi, non lo calcolai per tutto il tempo della festa, mi sorrideva spesso ma lo ritenevo un gesto di cordialità trovandosi ad una festa che non era stato invitato. arono un po’ di mesi dal mio compleanno ci trovavamo in pieno autunno e lottavo col mio ombrello sino sotto i portici del centro commerciale e mentre indietreggiavo per portami all’asciutto con l’ombrello devastato dal vento mi scontrai con un uomo; mi voltai di colpo e … e incontrai il suo sguardo imbarazzato - Ciao! Ma tu seii?! ….- Si!- lo interruppi - E tu sei Ettore!!- mi guardò sbigottito - Ricordi il mio nome?!! -Certo! E tu ricordi il mio!- Su questo dialogo incominciammo a ridere e si prestò a fare due i con me. Prendemmo un caffè e cominciò a parlarmi di sé e di tutte le cose che gli piaceva fare, mi affascinava quell’uomo maturo, ero a mio agio, mi sentivo protetta, calcolata, non badavo né al tempo climatico né al tempo che ava. Dopo quel giorno c’incontrammo sempre più spesso e mi fece conoscere i suoi amici, i suoi genitori, e un sacco di gente semplice e umile come lui, Ettore era sfortunato col lavoro e benché sapesse che io ero benestante non mi chiese mai niente e se qualche volta mi azzardavo a pagare io il conto si offendeva, avevamo adottato allora un sistema, quando lui non aveva soldi non ne portavo neanche io e così se ci veniva voglia di qualcosa ideavamo un piano per farcelo regalare, come quella volta che finsi d’essere incinta per farci regalare il gelato al bar del corso, o le mele alla bancarella … io distraevo i padroni e lui prendeva al volo due mele e viaa … alla fontana del parco a ridere e mordere avidamente quei frutti come quando facevamo l’amore.
Quello che facevamo a letto era qualcosa di più del solito amore o sesso, per noi era un suggellare le nostre anime, sapevamo cosa volevamo senza chiedercelo, io sapevo cosa lo faceva impazzire e come; lui sapeva di me in eguale misura,
eravamo un’unica cosa. Fuori dal letto era medesimo, mai una discussione, un diverbio, uno screzio, neanche un filo di gelosia, tanto che a volte facevamo finta di litigare perché pareva strano anche a noi che non succedesse mai … poi ridevamo come degli scemi … Quanti bei ricordi, ma anche no, visto che i miei non erano mai stati d’accordo né sulla nostra relazione né sul fatto che decidemmo con Ettore di andare a vivere insieme, questo fu un motivo di polemica in famiglia, tanto che un giorno uscii di casa con quello che avevo addosso e poche altre cose, sbattendo la porta. Ettore non aveva un lavoro fisso, ci adattavamo; poi il colpo di fortuna dopo un colloquio di lavoro, fu assunto da una azienda import-export di frutta e verdura. Sono sicura che ci fosse lo zampino di mio padre, anche se erano un paio di anni che non ci vedevamo, però sentivo che in qualche modo mi aiutava senza mai interferire nella mia vita. Anche io presi a lavorare dopo gli studi, non con la mia laurea di Ingegneria cibernetica applicata al corpo umano, non so perché feci quella scelta, ma all’epoca mi piaceva. Questo mi diede la possibilità di utilizzare gli studi grafici del corpo umano per disegnare modelli di abiti e tute per l’astronautica, mi bastava vendere pochi disegni alle aziende produttrici in un anno, per guadagnare quanto normalmente si guadagna in due. I soldi non ci mancavano per fortuna, ma mi mancava un figlio … non potevo averne neanche in provetta, per la mia malformazione dell’utero che capita raramente … e doveva capitare a me?!! Col tempo mi abituai e anche Ettore non mi estenuava benché a lui fe piacere avere un figlio nostro. Per scelta ci sposammo solo in comune e non facemmo neanche il ricevimento, a parte un pranzo coi suoi e pochi amici; i miei erano latitanti da anni. Ormai sembrava che fossero già morti per me, sino al giorno che Ettore morì in quel brutto incidente, ero sconvolta, spaventata, distrutta dal dolore ma anche adirata con la vita che mi aveva rubato ancora qualcosa che amavo. Mia madre venne all’ospedale quel giorno, dopo una vita che non la vedevo a parte di nascosto quando morì mio padre. Ero seduta sulle poltroncine davanti alla sala operatoria e apparve da dietro la porta vetrata, un fantasma; non mi alzai , venendomi incontro tese le braccia con occhi lucidi, la ignorai, si sedette di fronte e chinò il viso soffiandosi il naso. Dopo quel giorno non ho più rivisto mia madre e neanche la sua amica Silvia. Andai a vivere in una città lontana da tutto ciò che mi ricordasse il mio ato decisa a rifarmi una vita a voltare pagina. Sola e senza conoscere nessuno mi ritrovai come proiettata in un'altra era come se fossi andata via dal mondo in cui vivevo e approdata in un altro pianeta. Trovai casa in un grande stabile del centro in una via commerciale, condividevo l’appartamento con una ragazza più giovane che studiava all’università, Evelina, nome singolare, era una ragazza carina, molto socievole, dinamica, ma a volte introversa; si chiudeva in stanza per studiare e
usciva solo per qualche bisogno, senza dire una parola, senza salutare, non facevo caso a questo suo comportamento. Avevo trovato lavoro in un ufficio poco distante e solitamente uscivo alle sette del pomeriggio, Evelina si dedicava a fare vari lavori, dalla cameriera, alla badante e anche baby sitter.
Non ero mai abituata a i suoi vari orari ma quella sera era a casa, avevamo un unico bagno e lo impegnava lei, le chiesi di uscire un attimo perché avevo necessità, lei mi guardò e si avvicino alla porta senza però uscire del tutto, per non discutere dovetti adattarmi e visto che si era voltata di spalle feci quello che dovevo. Non avevo fatto caso che era appena uscita dalla doccia, con l’asciugamano a modo di turbante in testa e l’altro telo avvolto nel suo esile giovane corpo. Stavo per uscire dal bagno quando mi bloccò e sorridente mi disse -Mi spalmi la crema corpo sulle spalle per favore?- Esitai un attimo, presi la boccetta dalle sue mani e ne misi un po’sul palmo, la sfregai e iniziai a spalmare la crema sulle sue bianche spalle … in quell’attimo mi riaffiorò il ricordo di Silvia e il suo gesto di quell’estate di tanto tempo fa, mi fermai per un attimo cercando di scacciare quel pensiero -Bhe’?!! Che c’è?!! Già stancata?!!mi arguì. Ripresi a spalmare la crema sulle sue spalle da dietro verso il davanti e di nuovo quel pensiero mi affiorò, lo cacciai senza fermarmi e mi ritrovai a massaggiare il suo seno nello stesso modo che Silvia fece con me, la cosa mi disturbava e sospesi il massaggio, lei mi prese le mani e le guidò di nuovo sui suoi seni poi le lasciò e continuai il movimento da sola, il suo telo era ormai a terra; lei gemeva di piacere, si voltò e ad occhi chiusi io continuai a massaggiare i suoi seni come lo stessi facendo a me. Mi tolse la giacca, poi iniziò a sbottonare la camicetta e volò via anche quella … fummo smaniosi, anche il mio reggiseno volò via e le sue mani avide mi accarezzarono e mi sembrarono quelle di Ettore , che solo lui sapeva come toccare i miei seni, poi si strinse a me e avvicinò sempre più le labbra alle mie; vicino e poi lontano, desideravo la sua bocca la sua lingua; mentre le mani andavano su e giù per il corpo giovane di ragazza. Ad un tratto sentii la sua lingua vischiosa e dolce penetrare nella mia bocca e cercare la mia lingua, era una sensazione strana provare le stesse cose che avevo provato con Ettore, come se in quel momento lui fosse lì, come se il suo spirito si fosse impossessato di Evelina, ma poco per volta era come se io avessi trovato la mia vera natura. Ero io e lei nello stesso istante, ero io ventenne, figlia dannata partorita da una lesbica. Tutto tornava chiaro, i miei pensieri confusi di bambina mentre mia madre mi lavava, le sue carezze , il piacere che mi provocò Silvia in quell’episodio, le notti da adolescente a masturbarmi pensando a lei; che nel
risvegliarmi attribuivo a degli incubi per giustificare quel mio gesto. Questo crescendo alimentò quella sorta di odio nei suoi confronti. Tormentata e dannata scappai da quella casa e dalle attenzioni di quelle donne, rifugiandomi nell’amore etero di Ettore che ho sempre considerato un vero uomo. Ma mentivo a me stessa, in quel momento capii che trovai amore in quel fuoco di ione con Evelina, che qualunque cosa una possa nascere è la sua vera natura che le cambia la vita, infondo capisco anche mia madre; che forse neanche mi voleva sapendo che avrebbe messo al mondo un’altra omosessuale, oppure fu proprio un caso che io nascessi?! Però vivevo la mia vita da omosessuale senza vergognarmi lottando perché chi dopo di me, di tante come me, siano trattate come umani prima di tutto e non come fenomeni da evitare o discriminare, penso che anche Ettore in qualche modo avesse quella parte di femminilità celata e solo con me poteva rivelare perché tra me e lui non c’era nessuna differenza. Quella ragazza ventenne che viveva con me, ero io in quel momento che avrei dovuto affrontare la mia vera natura e solo per pregiudizio o per non dare un’ulteriore dolore a mio padre non feci. Anche la mia ritrosia nei confronti di mia madre e di Silvia e le persone come loro erano tutte congetture dettate dall’idea che io ero eterosessuale e non avrei mai cambiato per non essere uguale a mia madre, ero fermamente convinta che ero “normale” condannando sempre la relazione di mia madre con Silvia, odiandola per avermi messo al mondo sapendo che non voleva figli e che non amava mio padre. Ho sofferto tutta una vita quando vedevo le mie compagne con le loro mamme, donne etero, e qualcuna addirittura aveva l’amante. Tutti sapevano che Silvia era la sorellastra di mia madre, la mia zia acquisita, forse fu questo a non destare sospetti su quella presenza in casa e dei pochi gesti affettuosi che si scambiavano in pubblico. Per fortuna almeno l’onta di esser presa in giro dall’ignoranza della gente fu risparmiata e anche mio padre si salvò da maldicenze, l’astuzia di mia madre nel nascondere il suo stato fu emblematica. Lei difendeva quel suo amore “diverso” lo proteggeva dalle insidie delle persone, lo viveva in segreto e discrezione, su questo forse vi era da ammirarla. Io non avrei saputo fare lo stesso essendo di carattere impulsivo e fragile. Come sosteneva Freud, ogni persona ha una parte di femminilità o mascolinità che si manifesta in percentuale da persona a persona, la mia e’ stata un omosessualità occulta, rifiutata, doveva succedere prima o poi che venisse alla luce; dovevo vivere quel tormento, dovevo subire quel martirio, questo penso.
La mia vita con Evelina è stata il voltare la pagina, anzi un rinascere, non si può
voltare una pagina e pensare di continuare la stessa vita cambiando i personaggi, si può solo cancellare tutto ciò che è stato prima, chiudere definitivamente una storia e riaprirne un’altra. Evelina è stata la rinascita, lei così giovane ma consapevole della sua condizione, non se ne preoccupava minimamente, diceva che il problema non era il suo, ma degli altri. Certo ammiravo quel suo coraggio quando per strada mi teneva per mano o mi baciava ardentemente. Nei primi tempi trovavo un po’ d’imbarazzo ma poi notavo che la gente in quella città non badava a noi, nessuno ci guardava con disprezzo o con stupore, e via via anche il mio imbarazzo spariva. Raccontai tutta la mia vita a lei come se io fossi quella più giovane e inesperta, lei era senza dubbio più emancipata di me e capiva tutta la mia sofferenza; almeno credevo che una ragazza così non avesse avuto problemi ad accettarsi, pensavo che fosse stato più facile per una giovane donna di quel tempo affrontare la sua omosessualità, invece forse fu più crudele di quanto io avessi pensato. Evelina proveniva da una famiglia cristiana, dove certi valori sono più radicati, una famiglia di ceto medio, lei non si era mai sentita attratta dagli uomini sin da bambina, aveva avuto relazioni con alcune amiche ma poi queste erano scomparse e anche tutti gli altri amici l’allontanarono, i fratelli, specie il più grande la riteneva una vera vergogna per la famiglia col suo comportamento. Un giorno la picchiò brutalmente tanto che la mandò all’ospedale. Anche il padre per farle cambiare idea ingaggio dei ragazzi per farla violentare, pessima idea oltre che ignobile, quella violenza non fece altro che peggiorare il rapporto con gli uomini e alla fine trovò il coraggio di scappare anche lei da quella vita di soprusi e torture. Ancora potava i segni di quelle brutture e qualche volta la vedevo carezzare piano le cicatrici come una meditazione ciò che le era costato essere una omosessuale. Certi momenti dopo che facevamo l’amore si accoccolava su di me in una tenera posizione infantile e notavo tutta la fragilità di un animo sensibile di una donna che non aveva avuto l’affetto che ogni bambina o bambino deve ricevere dai genitori. Un po’ mi sentivo madre in quei momenti e riaffiorava in me quel desiderio che non avevo potuto esaudire a causa di quella malformazione all’utero. Penso che anche questo fosse un segnale, il non avere figli per non dover subire loro i pregiudizi della gente o il soffrire una condizione che non dipendeva da loro. Mi ritenevo felice con lei, anche quel senso materno mi piaceva, lei era sempre gioiosa, curiosa, aveva sempre fame di sapere, di conoscere, spesso andavamo dei week end in gita in qualche città o al mare. E fu in una di queste gite che Evelina incontrò il fratello che lavorava in un bar. Quel giorno fu terribile, quell’atteggiamento di disprezzo e discriminazione ferì lei quanto me. Eravamo in una città in giro per musei e chiese e stanche e sudate decidemmo di sederci al tavolo di un bar sulla piazza. Il cameriere che venne al tavolo si rivolse a me,
Evelina portava dei grandi occhiali da sole e sembrava nervosa, non guardò neanche il cameriere e disse a me cosa voleva. Questi suoi momenti li rispettavo anche perché subito dopo tornava sorridente e felice con una delle sue barzellette. Il cameriere arrivo con i grossi bicchieri d’acqua poggiandoli sul tavolino e bruscamente con tono ironico ma severo rivolto ad Evelina incominciò ad insultarla -Pensavi che non ti avessi riconosciuto con questi occhiali da gay, ah?!!- Strappandoglieli dal viso e gettandoli per la piazzaSmettila Roby!!! Lasciami in pace!!!- rispose lei raccogliendo gli occhiali, mentre io esterrefatta non riuscivo a reagire. -E questa chi e’, ah?! La tua Pappona?!! Che?! Ora ti sei messa a fare le marchette, ah?!!- -Ti ho detto di smetterlaaa!! E lavati la bocca!!- ribatte lei seccata. Il tale le diede il bicchiere d’acqua in faccia e urlò -E tu lavati questa faccia da schifosissima lesbica!!!Evelina scappò via e io senza dire una parola presi ad inseguirla raccogliendo le nostre borse, mentre quell’energumeno continuava a ridere e insultare sotto gli occhi sbigottiti di alcuni clienti stranieri. Lei correva velocissima, avevo difficoltà a raggiungerla, la persi di vista. Non sapevo che fare non sapevo dove cercarla e mi recai all’albergo. arono le ore e stavo a letto non riuscendo ad avere un pensiero una qualsiasi cosa nella mente, provavo solo ansia e disperazione, piangevo. Non so quanto tempo o ma sapevo che ormai era quasi sera, mi rinfrescai il viso e decisi di uscire a fare un tentativo di ricerca. Provai a are in tutti quei luoghi che avevamo visitato durante il giorno, ai giardini, al luna park , camminavo come una sbandata con gli occhi pieni di lacrime pensando a come certe persone siano così meschine, a quanto dolore e sofferenza può causare il non essere “normali” per il resto del mondo, camminavo e pensavo, la disperazione si trasformava in presentimento. Iniziavo ad essere preoccupata seriamente per Evelina, le luci della strada si avviavano a prendere il posto del sole che ormai era tramontato e il traffico si faceva più denso, un ultimo pensiero mi o per la mente nell’avvicinarmi alla stazione, mi diressi là con il cuore che mi guidava. Davanti alla stazione vi era un sacco di gente e le luci blu dell’ ambulanza e della polizia non mi destarono più di tanto. Avvicinandomi sempre di più a quella folla sentivo una strana sensazione ma non volevo pensare al peggio, la gente borbottava che qualcuno si era buttato sotto il treno e io sempre più impaurita singhiozzavo e affrettavo il o facendomi posto tra la calca, andando avanti a spintoni, pensando che no, non poteva essere. Arrivai con fatica ai binari; un corpo giaceva coperto da un lenzuolo appena macchiato di rosso, gli agenti della polizia avevano delimitato il posto e rilevavano le misure, con gli occhi appannati dalle lacrime guardavo quel corpo e speravo che non fosse così. Il lenzuolo non copriva tutto di quell’ esile corpo, un braccio usciva appena, era quello di una donna, mi stropicciai gli occhi
e notai un bracciale al polso di quella sventurata, ero troppo distante per vederlo bene ma il presentimento mi spinse a ravvicinarmi; diedi un urlo e mi precipitai verso quel corpo eludendo gli agenti, sorpresi dal mio gesto, qualcuno mi afferrò non riuscendo a trattenermi, mi gettai su quel lenzuolo urlando disperatamente tutto il mio dolore, tutto lo strazio e l’angoscia covata in quelle ore, ripetendo Perché??!!! Perché, Amore miooo!!.- Il silenzio incombe su quella stazione rotto solo dai miei singhiozzi mentre un’agente mi indusse a rialzarmi invitandomi a seguirlo nell’ufficio. Ho creduto di morire anche io in quel momento che ero sul suo corpo ancora caldo, se solo fossi andata prima alla stazione avrei potuto salvarla, riaverla con me, saremmo stati abbracciati come quando a volte dopo fatto l’amore si accovacciava su di me in una tenera posizione infantile e notavo tutta la fragilità di un animo sensibile di una donna che non aveva avuto l’affetto che deve ricevere e un po’mi sentivo madre.
FINE
... A tutte le persone che sono definite diverse e perciò discriminate .
Giovanni Andrea Negrotti Poeta
GAN
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DANNATA Colophon Racconto breve Prefazione Dannata - Inizio Dedica