ANGELO D’ANTONIO
CRIME
Copyright © 2015 Angelo D’Antonio – “CRIME”
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Angelo D’Antonio
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Il presente romanzo è opera di pura fantasia. Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, indirizzi e-mail, siti web, numeri telefonici, fatti storici, siano essi realmente esistiti od esistenti, è da considerarsi puramente casuale.
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A mio padre e a mia madre. Rimarrete sempre nei nostri cuori e nei nostri pensieri.
1.Torino, 10 settembre 2007– ore 5.20
Il vicecommissario Alessio Cipriani mette giù la cornetta e impreca. Col pugno colpisce il legno duro del tavolino del soggiorno, quindi prende la giacca e la pistola.
Aveva altri programmi in mente per quella mattina.
Apre la porta ed esce sul pianerottolo, avvolto in una bolla melmosa di penombra. Si chiude la porta alle spalle e socchiude gli occhi qualche istante, per riordinare le idee.
«Vaffanculo» sibila, poi scende le scale di corsa. La sera prima ha parcheggiato la macchina proprio davanti al portone del palazzo e ha evitato di scendere fino ai parcheggi sottostanti l’edificio. Quei cunicoli scuri, bagnati da riflessi di luce al neon, lo mettono a disagio. I i echeggiano sinistri fra le macchine, scivolando sulle pareti grigie e dietro ogni colonna sembra annidarsi un’ombra pronta a saltarti addosso. Non sono paure da detective, se lo ripete spesso, ma quando può parcheggia la macchina in strada, dove il buio della notte sembra meno minaccioso.
L’agente lo attende in strada, vicino alla volante. I lampeggianti azzurri guizzano su tutti gli oggetti circostanti e il volto del poliziotto è macchiato da strani riflessi cerulei. Ha poco più di quarant’anni, un fisico asciutto e un’espressione cordiale.
Cipriani lo saluta con un cenno della testa ed entra nella sua auto.
Partono insieme e dopo venti minuti si fermano davanti ad un edificio. Ci sono altre pattuglie sul posto.
«Primo piano» dice l’agente senza specificare altro. Le informazioni essenziali Cipriani le ha già ricevute per telefono meno di un’ora prima. Si stringe un po’ di più nella giacca per proteggersi dal fresco del mattino, quindi entra nell’edificio e si avvia per le scale. Un o alla volta, senza fretta. La rampa è in penombra. Le ombre danzano dietro ogni angolo.
Cipriani si ferma sulla soglia della camera da letto, i denti stretti, i lineamenti del volto tesi. Una donna è davanti a lui, ai piedi del letto. Morta. Decisamente morta. L’uomo fa scorrere lo sguardo sul corpo scomposto della donna: dalla testa, poggiata sul bordo del letto, ai piedi, distesi lungo il tappeto cremisi. L’espressione sul volto ha assunto un’improbabile distesa serenità. Se non fosse stato per la ferita da arma da fuoco al petto, Cipriani penserebbe che sia semplicemente addormentata. Ma non lo è. Il sonno adesso è solo quello eterno.
Sente dei i alle sue spalle e si volta. Dal corridoio vede arrivare il medico legale, Antonio Ricciardi. Lo saluta con un sorriso di circostanza.
«Fai largo, amico, queste sono cose da uomini di stomaco» annuncia il medico, mollandogli una sonora pacca sulla spalla.
«Ehi!» esclama ancora il dottore vedendo il corpo della donna. «Bella, ma troppo moscia per i miei gusti».
«Fai presto» lo imbecca Cipriani, «e non voglio sentire altre battute di cattivo gusto. Fammi almeno questa cortesia».
Il dottore alza le spalle e non risponde. Si china sulla donna e apre la piccola borsa nera che ha portato con sé. Cipriani si volta per non dover guardare quel medico amorale che svolge il suo lavoro. Lui non si distingue certo per essere un modello di vita, ma mal sopporta i sarcastici atteggiamenti del dottore.
«Morta, sì» dice di nuovo il medico, non resistendo alla tentazione di innervosirlo.
«Sei uno stronzo» mormora Cipriani.
Il dottore piega la testa di qualche centimetro. «Cosa stai dicendo?»
L’uomo scuote la testa. «Niente di importante. Fai il tuo sporco lavoro. In fretta».
È più di un’ora che l’agente è giunto sul luogo del delitto e comincia a non sopportare più la fresca aria che soffia senza posa. Ma non vuole nemmeno sedersi in macchina. Il suo turno è quasi finito ed è stanco morto. Seduto nel tepore della vettura la stanchezza lo avrebbe di certo vinto.
«Ce la fumiamo?» La voce del compagno che è seduto in auto lo fa sobbalzare. L’altro è uscito dalla macchina e l’ha raggiunto sul marciapiede a fianco del portone. L’agente lo fissa con sguardo incredulo. «Ora fumi anche tu?»
Il collega scuote la testa. «No, ma mi sono stufato di aspettare senza fare niente. Dai, offrimi una sigaretta».
Alla terza boccata vedono Cipriani uscire dal portone. I due poliziotti lo guardano avanzare fino a loro con la testa china, assorto in pensieri impenetrabili.
«Tutto a posto, signor commissario?» chiede il primo agente.
Cipriani alza lo sguardo e lo fissa negli occhi vispi. Fa spallucce e non dice nulla, quindi si volta e cammina a i cadenzati verso la sua macchina.
«Non ti sembra strano?» chiede l’agente.
«Normale non è mai stato» scherza il collega.
«Già» ammette il primo. «Hai visto giusto. Ma sai che ti dico? Muoviamoci, che è tardi. Voglio andarmene a dormire pure io».
Intanto Cipriani ha messo in moto la macchina, ma non parte immediatamente. Lascia il motore per farlo riscaldare e si perde in mille considerazioni. Poi, senza concedere altro tempo alle riflessioni, inserisce la marcia e pigia sull’acceleratore. I copertoni stridono sull’asfalto umido e lancia la macchina lungo le strade deserte della mattina. A quell’ora Torino è ancora vuota e in quel modo riesce a sfogare parte della tensione. Mentre sfreccia a bordo della sua
Punto blu rivede il corpo della giovane donna e nelle immagini della sua mente la vede muoversi, alzarsi e andargli incontro, nell’angusto spazio della sua camera da letto. Sempre nella sua mente prova ad allontanarla, a ricacciare quelle immagini nei recessi bui che le avevano partorite.
È tutto inutile. Tanto non c’è più. È morta.
Inchioda e la macchina sbanda violentemente in mezzo alla carreggiata. Tiene il piede premuto sul pedale del freno con tutta la forza che ha, anche quando la macchina ormai è ferma. Davanti a lui, a meno di cento metri, un semaforo lampeggia colorando la foschia tutt’attorno di un surreale alone arancione. Cipriani sta stringendo forte gli occhi, tanto da farli lacrimare e la mattina intorno a lui è tutto un intrecciarsi di dardi di luce perlacea. L’arancione del semaforo è come il centro di un universo lontano.
Poi i fari di una macchina che sopraggiunge alle sue spalle lo scuotono e, dosando piano l’acceleratore, riparte. Riporta la vettura sul lato destro della strada e prosegue con andatura lenta. Con il dorso dell’impermeabile si asciuga gli occhi umidi. Dopo pochi minuti ha ritrovato tutta la sua lucidità.
Si avvia verso casa. Ha ancora un po’ di tempo prima di dover andare in ufficio.
Entra nel suo appartamento, ripone la giacca e la pistola e si siede davanti al suo potente computer.
Lo accende.
Ora può finalmente dedicarsi alla sua attività secondaria, alla sua vita parallela, alla faccia oscura della sua medaglia.
Lui spia le persone.
A lui piace invadere la sfera privata delle vite altrui.
Lo eccita, lo fa star bene, riempie i vuoti di una vita squallida condotta a cercare di proteggere l’incolumità di uomini e donne di cui a lui fondamentalmente non gliene importa nulla.
Avvia il computer. Guarda con orgoglio il lavoro fatto sinora.
Ha un database con oltre mille profili di persone che abitano a Torino di cui lui conosce tutto. Sa dove vivono, sa cosa fanno, sa chi frequentano, sa come si comportano. Il suo è un lavoro da vero professionista. Per ogni profilo ha un dossier composto da fotografie, riprese con la videocamera, intercettazioni ambientali. Un lavoro accurato e preciso.
Nulla è affidato al caso se non la scelta delle sue creature.
È proprio ora è venuto il momento di estrarre a sorte la prossima vita da setacciare.
Lancia sul computer il software che ha in memoria tutta la popolazione della
città al di sopra dei 35 anni.
Dopo alcuni secondi appare sul desktop la risposta.
La sua prossima creatura è una donna che abita in viale Thovez.
2.Torino, 10 settembre 2007 – ore 9.15
Reparto di Cardiologia dell’Ospedale Molinette di Torino. La dottoressa Barbara Mori sta visitando una signora di cinquantacinque anni. L’elettrocardiogramma non evidenzia nel suo tracciato nessuna anomalia. La misurazione della pressione però non è confortante. La pressione sistolica supera il valore di 200, mentre quella diastolica di 120. La frequenza cardiaca supera i 100 battiti al minuto. L’espressione della dottoressa è volutamente preoccupata. Vuole far capire alla paziente che non deve assolutamente sottovalutare il suo quadro clinico.
«È necessario, signora» sentenzia Barbara, «che lei incominci subito ad assumere un antipertensivo e un betabloccante. Dobbiamo assolutamente riportare i valori pressori nella normalità. Le prescrivo una pastiglia di ramipril da 5 mg da prendere la mattina e una pillola di atenololo da 50 mg da dividere in due e da assumere metà alla mattina e metà al pomeriggio. E mi raccomando una bella dieta. Vada almeno una volta alla settimana dal suo medico di base e si faccia controllare la pressione. Noi ci rivediamo tra un mese per una visita di controllo. Se dovesse avere dei problemi, non esiti a contattarmi».
«La ringrazio, dottoressa» risponde la signora impaurita. «Farò tutto quello che lei mi ha prescritto».
Dopo aver consegnato alla paziente il referto medico e le ricette, una volta sola nello studio, Barbara si siede alla scrivania e si massaggia le tempie. Questa notte non ha dormito molto e sente che la stanchezza accumulata negli ultimi giorni le si sta scaricando tutta addosso.
D’improvviso suona il telefono posto sulla scrivania.
Barbara risponde: «Pronto?».
È l’infermiera. «Dottoressa, c’è al telefono il signor Stefano».
Barbara trasale. Sono mesi che non sente più Stefano.
«Me lo i… grazie».
Barbara aspetta che l’infermiera le i la comunicazione. Attende qualche secondo. Nessuna voce dall’altra parte della cornetta.
«Pronto, pronto?» Barbara non capisce. Il bip continuo sancisce la conclusione della telefonata.
Ma perché Stefano l’ha chiamata senza poi parlarle?
E si sarà trattato veramente dello stesso Stefano con cui lei ha avuto una relazione mesi prima?
Stefano.
I ricordi si affollano nella mente di Barbara, come un turbinio di foglie sollevate da una folata di vento.
È notte sotto i portici di via Po. Il manichino nudo e senza sesso del negozio di abbigliamento non si vergogna, come succede di giorno, se qualcuno, per caso, si ferma e lo guarda.
È una notte di giugno. Sta diluviando.
In questo momento Barbara Mori, fissando la vetrina col manichino nudo, ha appena incrociato i suoi occhi. Non l’ha fatto apposta, non avrebbe voluto, eppure è successo. Fissando le palpebre di plastica, socchiuse e spente del manichino, è successo che Barbara abbia visto i suoi, di occhi, persi come due monete nel tombino, bersagliato dalla pioggia e che, proprio adesso, è stato scosso violentemente da un’auto in corsa.
Non vuole guardare, Barbara, né il tombino traballante né la strada riflessa sul vetro. Preferisce stare lì impalata, davanti al manichino senza sesso del negozio, che è chiuso da quattro anni con l’insegna spenta.
Certe notti, di nebbia o senza luna, sotto i vecchi portici vanno a braccetto il buio e la paura; basta un fruscio, un rumore, un’ombra e dallo spavento vien voglia di scappare, ma non a Barbara, non al manichino; sono come spenti, entrambi.
Chiude gli occhi, Barbara, vorrebbe il buio assoluto, lei.
Ma è stata maldestra, non doveva chiuderli, i colori sono più vividi, ora, come illuminati da un potente riflettore: dietro le sue spalle, dall’altra parte della strada, Barbara adesso immagina la vetrina con l’insegna rossa del “Piccolo Bar”, la serranda è abbassata, l’interno è buio. Ma fuori, davanti all’ingresso, Barbara, con gli occhi chiusi, è come se vedesse, anzi no, vede un fantasma e, per non vedere, li riapre subito, gli occhi, spalancandoli come chi è spaventato.
Meglio guardare il manichino, così il fantasma va via, si dissolve, scompare.
Vattene Stefano.
Eppure Barbara venticinque minuti fa è uscita di casa senza ombrello e uscendo non ha certo badato alla pioggia, con l’intenzione di rivedere il posto in cui, cinque mesi prima, aveva visto per la prima volta Stefano. Saranno state più o meno le tre del pomeriggio e lui era dentro la sua auto, parcheggiata dove non si dovrebbe, c’è il divieto di sosta permanente lì, a due metri dall’ingresso del “Piccolo Bar”. Con la testa reclinata a sinistra, un po’ sul finestrino un po’ inghiottito dalle spalle, stava dormendo Stefano: nemmeno questo si dovrebbe.
Soprattutto lì.
Né si dovrebbe – perché poi andò così, come non doveva andare – parlare per ore con un uomo sconosciuto e solo e poi invitarlo a casa per un caffè. Non si dovrebbe perché parlandogli, col are dei minuti, si potrebbe desiderare sempre più intensamente il suo corpo asciutto, con la voglia di stringerlo, possederlo, farlo tremare. Tremando.
Nell’ultimo anno Barbara Mori, medico in una città né troppo grande né troppo
piccola, non aveva mai baciato o abbracciato un uomo, fino a quel pomeriggio. Ed era, Barbara Mori, una cardiologa dalla carriera assicurata prima che, sciagurata, incontrasse Stefano, uno sbandato privo di una fissa dimora. Ma non solo. Prima di Stefano, Barbara Mori era quella che, lo dicevano tutti, “sta per diventare il primario del reparto di Cardiologia del principale ospedale torinese, le Molinette”.
E tutti i colleghi avevano fatto a gara nel sorriderle e nell’invitarla a cena.
Ora è cambiato tutto.
Ora la scansano.
Lei non è più la stessa. È svogliata, deconcentrata, arriva sempre in ritardo in ospedale, va via sempre prima degli altri, litiga spesso con i colleghi. Ha solo un pensiero nella testa: Stefano. In reparto la sopportano solo in virtù del fatto che suo padre fu un importante magistrato cittadino. Ma sono settimane, mesi ormai, che il primario, amico di vecchia data del compianto padre di Barbara, quasi finge di non vederla. Comunque lei, Barbara, non si sente una perseguitata. Anzi li capisce e si è lasciata emarginare, docile come un cane triste.
Durante le riunioni di reparto, verso mezzogiorno, prima della pausa (panino o insalata alla buvette dell’ospedale), lei sta in disparte, non dice mai nulla.
Prima era tutto diverso. Era lei che teneva banco.
Parlava lei, parlava il primario, prendevano la parola i colleghi del reparto, ma alla fine riparlava ancora lei, Barbara. Era la donna della sintesi finale. Rivolgendosi al primario proponeva le varie attività che dovevano svolgersi in reparto, le attribuzioni delle mansioni, i turni di guardia.
E comunque, l’ultimo quarto d’ora della riunione era un dialogo, Barbara da una parte il primario dall’altra, con gli altri colleghi spettatori, in attesa di conoscere le sorti del loro pomeriggio: frenetico, da sbadiglio, metà e metà, dipendeva tutto da quel quarto d’ora.
Da qualche mese il rituale è mutato.
Ora parlano tutti, se il primario lo consente e l’uomo delle sintesi è diventato il dottor Antonio Rigamonti, il collega anziano del reparto. Era il numero tre, prima, adesso invece sostituisce Barbara e, neutrale come la Svizzera, va d’accordo con tutti. Ma, è chiaro, non avrà mai la fermezza per dirigere il reparto. Troppo accomodante, autorevolezza zero. Nella sala riunioni, Barbara ascolta, ma non si espone più, quasi si mimetizza nascosta dalle schiene degli altri.
E tutto ciò perché ha perso la testa per un uomo, ritenuto da tutti i suoi colleghi un vagabondo.
Vattene Stefano.
Fu solo dopo la prima notte trascorsa con Stefano che Barbara ripensò alle voci. Lei si era lasciata andare a qualche confidenza con una collega, ritenuta amica. Ma ben presto le voci e le dicerie avevano preso a rincorrersi.
«Se una dottoressa si mette a fare la badante, vuol dire che le si è svitato qualche bullone del cervello».
«Da quando le è morto quel paziente di quarantasei anni non è più la stessa».
«Non è a posto. Non dovrebbe stare con un barbone che dorme in macchina».
Le aveva ripescate tra i ricordi con facilità queste e altre voci.
«È stata la puttana del primario» fu la peggiore, quella che cominciò a ronzargli in testa, insistente.
Il ricordo di Stefano ha corroso l’anima e il cervello di Barbara. Potesse, forse, lo incenerirebbe quel ricordo. Perché è un ricordo bastardo. Velenoso.
In questo preciso istante, se qualcuno la vedesse, potrebbe pensare che Barbara abbia smarrito il cervello: non solo sta fissando il manichino, ma addirittura gli sta dicendo qualcosa, a bassa voce, in fretta.
Sta come pregando, in effetti, ma come pregano quelli che mentre lo fanno pensano ad altro. Barbara Mori, in questo momento, sta dicendo a se stessa: «Basta, basta». Perché la vita continua, perché i suoi pazienti hanno bisogno di lei, perché non è giusto che in ospedale sia considerata una demente e poi perché deve cercare di risolvere i suoi problemi nervosi. Sì, ma come? E con l’aiuto di chi?
Le viene in mente l’unica vera amica che le sia rimasta: Ludovica Vinci, una collega conosciuta ad un congresso di cardiologia e con la quale ha stretto un cordiale rapporto, anche se si vedono poco in quanto lei abita a Venezia. Barbara ha bisogno di sentire una voce di conforto, una persona con la quale condividere le sue frustrazioni.
È già tutto svanito. Fine della preghiera alla ricerca dell’equilibrio perduto. Tanto adesso a Barbara Mori non importa niente di niente. Nemmeno di respirare.
Il suo sguardo sembra voler penetrare il buio, oltre la vetrina, dietro il manichino. Ora è peggio di quando le diagnosticarono una forte depressione, dopo la morte ravvicinata dei suoi genitori. Aveva perso dieci chili e la voglia di vivere.
Allora, camminando di notte, trovava conforto sognando di essere lontana, in un piccolo paese della Toscana dove c’è il mare e pescherecci da inseguire con lo sguardo e il rumore della risacca da ascoltare, chiudendo gli occhi così da non pensare a niente.
Ora è peggio.
“Vivi in un posto di merda” pensa Barbara, “e non riuscirai mai a fuggire”.
E pensa anche, Barbara, guardando il manichino, che vorrebbe essere come lui.
Con gli occhi spenti e fissi sulla pavimentazione dei vecchi portici, così da non vedere altro.
Vattene Stefano.
Il suo sguardo, in questo istante, vaga nel lungo corridoio dei portici deserti anche di ubriachi e gatti, stasera. È uscita di casa perché di notte, da tempo, le piace camminare. Da un paio di settimane, però, più che camminare barcolla perché dorme poco o niente e, quando dorme, ma è più dormiveglia che sonno, ha sempre Stefano in mente.
Sempre la stessa identica, dannata immagine: svestito, il viso inclinato, l’espressione dolce, i capelli corti leggermente scomposti. È nudo, con le braccia tese verso di lei, che implorano un abbraccio.
No, no, no pensa Barbara.
L’immagine cambia, fa male, fa urlare.
Allunga le braccia, lei, ma verso alcune ombre che ridono e lui non c’è.
Vattene, vattene Stefano.
Il suono del telefono interrompe la meditazione di Barbara.
È nuovamente l’infermiera. Dice: «Dottoressa, volevo ricordarle il funerale di domani».
Barbara ringrazia e riattacca l’apparecchio.
Adesso non sa che fare, s’interroga. L’indomani, nella piccola chiesa dell’ospedale, ci sarà un funerale.
Eccoci però. Ha preso una decisione, Barbara, proprio adesso. Non andrà.
Pensa così, ora, Barbara. Ma ha paura di se stessa: perché quel che pensa ora forse non lo penserà più tra poche ore quando – anche se non vorrebbe, ha deciso che non andrà, no? – entrerà in chiesa e così vedrà la bara, chiusa, con dentro il corpo di Sergio, un caro paziente al quale si era particolarmente affezionata, morto alcuni giorni prima in reparto.
“Al funerale ci saranno quattro gatti” pensa Barbara. Ci sarà la vecchia zia, ci sarà l’ex moglie di Sergio che è andata a vivere lontano, con un giovane ballerino, nonché insegnante di ballo, esperto di nacchere e di danze andaluse.
Gente che lei non ha mai visto e di cui non le importa nulla.
La telefonata precedente ha avuto però un effetto devastante. Il ricordo di Stefano l’assale di nuovo. Nonostante lei cerchi di scacciarlo è un chiodo fisso che le sta rodendo il cervello.
Lei l’ha lasciato.
Non sopportava più i suoi comportamenti. Nelle ultime settimane era diventato morboso, assillante, geloso. Non la lasciava più vivere. Le telefonava continuamente, di giorno e di notte. La tormentava. Soprattutto lei non sopportava che la chiamasse in ospedale, dove il suo rapporto con lui era diventato di pubblico dominio. Gli aveva detto ripetutamente di non farlo più. Ma lui niente, perseverava, faceva finta di non capire.
Il loro addio non era stato indolore. Lui non l’aveva presa bene. L’aveva insultata e anche offesa.
Ha lo sguardo fisso su una crepa, ora. Una crepa profonda sul muro, che sovrasta, parallela, l’insegna spenta del manichino.
Pensa e rivede e non si ribella alla solita immagine, Stefano inginocchiato sul letto. Pensa e vede Stefano nudo che trema e che ha le mani allungate verso di lei, imploranti.
Sente la sua voce: «Vieni». Una voce che non vorrebbe ricordare mai più e che vorrebbe ricordare per sempre.
Vieni.
“Vattene”, pensa Barbara.
“Resta”, pensa Barbara.
“Vattene, resta” sta diventando pazza, “meglio la morte” sta pensando Barbara e trema. Ha l’acqua della pioggia in bocca. Sputa per terra e, forse, lo fa perché le è impossibile sputarsi in faccia. Sputa e avrebbe voglia di sedersi con le spalle rivolte al manichino e di portare le mani al viso e piangere disperata come un bimbo che ha perso la mamma. Ma non deve, non lo fa: qualcuno magari la sta osservando, dietro qualche finestra con un binocolo a visione notturna o magari arriva qualche guardia giurata o, peggio, una pattuglia della polizia o i carabinieri.
Già si immagina un maresciallo dei carabinieri che le dice: «Tutto bene, signora?».
Non deve sedersi, anche se ha le gambe molli, non deve pensare a Stefano, perché Stefano è un pensiero che fa male.
Specie il pensiero del suo corpo.
Si sente morire Barbara pensando che non sarà più suo. Ma c’è morte e morte.
«Vattene, vattene Stefano» dice a voce alta. Che importa se qualcuno adesso a e la vede e poi ripete: «Vattene» in sincronia perfetta con un gesto brusco della mano, così da scacciare l’immagine del sesso di lui, che tante volte ha accarezzato e baciato.
Nuovamente il suono del telefono fa riemergere Barbara dal fiume in piena dei suoi ricordi. È sempre Carola, la sua infermiera.
«Dottoressa, mi scusi, ha di nuovo telefonato quel signor Stefano e mi ha detto di lasciarle un messaggio».
Barbara è inquieta. «… E quale sarebbe questo messaggio?»
«Mi ha pregato di dirle che le invierà un’e-mail…».
Silenzio.
«… Scusi, dottoressa, mi ha capito?»
Barbara come in stato di trance risponde con un filo di voce.
«… Sì, ho capito, Carola, ti ringrazio».
Come un automa Barbara riattacca il telefono.
Le invierà un’e-mail?
Cosa vuole dire con quel messaggio? Perché non le ha parlato direttamente? E cosa dovrebbe scriverle? Barbara scaccia gli inquieti pensieri dalla sua mente. Sarà stato pure uno sbandato, ma non è un delinquente. Non può farle del male. E poi lei non sa neanche dove lui sia finito. Da quando l’ha lasciato non l’ha più né visto né sentito. È scomparso nel nulla, si è come volatilizzato. Perché farsi risentire proprio adesso, a distanza di mesi?
Il tono di arrivo di una e-mail fa trasalire Barbara.
Apre con la mano destra bagnata dal sudore il programma di posta elettronica e legge il messaggio.
Un sorriso appare sul volto di Barbara. Le ha scritto da Venezia la sua cara collega Ludovica Vinci.
“Ciao Barbara,
come stai? Io sono nei casini più completi. Come ben sai dopo il periodo di maternità sono tornata al lavoro a tempo pieno. E, con un marito che in casa non c’è quasi mai, non riesco a trovare il tempo per fare tutto. Conciliare il lavoro, soprattutto il nostro lavoro, con un bimbo piccolo in famiglia è un’impresa molto ardua, te lo assicuro. Prima di mettere al mondo un bimbo, pensaci non una e neanche dieci, ma mille volte”.
A quelle parole Barbara ha un sussulto. Mettere al mondo un bambino. Deve essere un’esperienza straordinaria, pensa, un’esperienza che però a lei il destino
non ha ancora riservato e, probabilmente, non riserverà mai.
Continua a leggere il messaggio.
“Senti, pensavo di proporti un viaggetto. Hai già fatto le ferie? Se non le hai ancora pianificate, perché non vieni a trovarci a Venezia? Io e mio marito saremmo veramente felici di poterti ospitare per tutto il tempo che vuoi. Noi abbiamo preso le ferie a ottobre e, come puoi ben immaginare, abbiamo qualche difficoltà a muoverci, per cui staremo a casa, sperando, se il tempo continua ad essere bello, di poter andare ancora al mare. Pensaci e fammi sapere, anche all’ultimo momento.
Un caro saluto. Ludovica”.
Barbara è riuscita ad allontanare da sé il ricordo di Stefano. Ora pensa alla proposta di Ludovica. Per lei le ferie sono state sempre un cruccio. Non sapere dove andare e con chi andare. Un vero incubo. Ne ha accumulate talmente tante che potrebbe stare a casa tre mesi. Ma la proposta di Ludovica è allettante. A Venezia ci è andata ultimamente solo per partecipare a dei congressi, mai come turista. Sarebbe una bella occasione per stare con l’amica e il suo bimbo e per visitare la città.
Pensa che accetterà.
Adesso è più serena. I ricordi sono svaniti.
Durante l’ora di pausa Barbara, da alcune settimane, ha iniziato a frequentare una palestra di fitness, per scaricare un po’ la tensione e tenere in forma il suo fisico.
Anche oggi, alle 13.00 in punto, ha varcato la soglia della palestra.
Dopo essersi cambiata, si reca nell’ampia sala dove si trovano le macchine e gli attrezzi. Incomincia a fare qualche esercizio con dei pesi leggeri. Ad un certo punto si accorge che, a pochi metri da lei, un uomo, un tipo belloccio, sulla trentina, con un fisico statuario e numerosi tatuaggi su tutto il corpo, la sta fissando insistentemente.
Barbara fa finta di niente e continua i suoi esercizi. L’uomo abbondantemente sudato e con un Gatorade in mano, si avvicina lentamente. La osserva mentre lei, sdraiata su un lettino, esegue con scrupolo, così come le ha insegnato il personal trainer, gli esercizi con i pesi.
Infastidita da quella presenza, Barbara interrompe gli esercizi, si solleva sul lettino e si rivolge all’uomo.
«Scusa, non hai niente di meglio da fare che guardarmi mentre mi faccio i cavoli miei?» dice Barbara chiaramente irritata.
L’uomo sorride divertito. «Che tipetto che sei! Non ti volevo certo disturbare. Scusami. E che ti ho notata fin dal primo giorno che hai incominciato a frequentare la palestra. Abbiamo gli stessi orari. Volevo solo fare la tua conoscenza, niente di più».
«Beh, mi dispiace, ma io vengo in palestra per lavorare non per fare conoscenze e perdere tempo in chiacchiere».
L’uomo continua a parlare come se non avesse sentito le parole di Barbara. «Sai che hai un bel fisico. Non voglio offenderti, ma non sei più una giovincella. Ma ti dico che sarei ben contento di incontrare ragazze della mia età con il tuo fisico».
Barbara abbozza un sorriso: «Se era un complimento, lo apprezzo e ti ringrazio. Ma adesso, se non ti dispiace, lasciami continuare i miei esercizi, non ho molto tempo a disposizione».
«Certo, certo» l’uomo alza le braccia in segno di resa. «Stai tranquilla, ti lascio in pace. Buon proseguimento e… ci vediamo prossimamente».
Dopo quarantacinque minuti Barbara interrompe gli esercizi. Giusto il tempo per una doccia tonificante e poi al lavoro.
Entra negli spogliatoi e si dirige verso il suo armadietto.
Quando lo raggiunge rimane un attimo immobile. Appiccicato all’armadietto c’è un post-it con sopra scritto: “Sei una gran bella figa, mi piacerebbe fare certe cose con te…”.
Barbara è incredula. Chi ha appeso quel messaggio? È stato forse l’uomo che
l’ha avvicinata in palestra? Uno stato d’ansia la assale.
Apre l’armadietto e prende il suo telefonino. Accende il display e legge che ci sono tre chiamate senza risposta. Cerca il numero del chiamante, ma non risulta. È anonimo.
Chi l’avrà cercata? E perché, se era tanto urgente, non ha lasciato un messaggio sulla segreteria telefonica?
Barbara si riveste e torna in ospedale meditando sugli strani eventi che si sono succeduti nel corso di quella mattinata.
Sono ate le 21.30 quando Barbara esce dall’ospedale. Per lei ormai è diventata la normalità. Ha perso il conto delle ore di straordinario che ha accumulato negli ultimi tempi.
Da quando ha lasciato Stefano, si è rituffata a capofitto nel lavoro. Non ha avuto difficoltà a risalire la china e a riconquistarsi la stima e il rispetto dei colleghi. Perché lei è la migliore, lei è una dottoressa con la “D” maiuscola. È di nuovo il punto di riferimento del reparto e il primario le delega sempre maggiori responsabilità, anche perché è prossimo alla pensione.
Barbara è tornata ad essere “una macchina da guerra”, un caterpillar che non si ferma davanti a niente e a nessuno. Nulla succede in reparto che lei non voglia o di cui lei non sia a conoscenza.
Ovviamente ciò ha avuto delle conseguenze. La sua vita privata è pressoché nulla e, a parte la palestra, non ha il tempo né l’energia psicofisica per dedicarsi ad altro fuorché al lavoro.
Si avvia al parcheggio dove ha posteggiato, come ogni mattina, il suo Porsche Cayenne. Si avvicina al Suv ed aziona l’antifurto. Nonostante l’oscurità, intravede sotto il tergicristallo del parabrezza un foglietto bianco. Lo prende in mano ed entra in macchina per illuminarlo con la luce dell’abitacolo. Resta allibita.
Sul foglietto c’è scritto il numero del suo cellulare privato.
Un numero che conoscono in pochi e che ha cambiato di recente, dopo essere ata ad un altro operatore telefonico.
Chi cavolo ha lasciato quel biglietto? E perché? Vuole comunicarle qualcosa? Si tratta della stessa persona che le ha lasciato il post-it in palestra?
Troppe domande senza risposta per una donna stanca e affaticata.
Straccia il biglietto, lo butta a terra e sale in auto per tornare a casa.
3.Torino, 11 settembre 2007 – ore 6.00
L’ispettore Simone Berardi fa roteare il pomello del rubinetto della doccia e lo richiude. Strizza i capelli nel lavandino e afferra l’asciugamano avvolgendosi dentro. Chiude gli occhi e tira un sospiro. Non è agitato, ma l’idea di tornare in Commissariato dopo essere stato sospeso e di rivedere certi volti, gli mette addosso una certa ansia e allo stesso tempo lo rende più combattivo di quando era andato via. Il vetro della mensola vibra e l’uomo spalanca gli occhi. Allunga un braccio e abbassa il volume della radio. Sono le sei del mattino e, a quell’ora, c’è solo una persona che potrebbe chiamarlo. Recupera il cellulare e il display conferma la sua ipotesi. Risponde.
«Allora, come ti senti?» gli domanda il suo partner.
«Sto rientrando in servizio, Lentini. Non uscendo da una clinica riabilitativa».
«Mi mancavano le tue gentilezze».
Berardi ride sottovoce benché Lentini non possa vederlo.
«Spero che tu sia super carico» riprende.
«Due volte».
«Allora ti sarei grato se ne tenessi una scorta anche per me».
Berardi aggrotta la fronte e attende.
«Oggi ti reintegrano dopo due mesi di astinenza e per regalo ci spediscono al Valentino».
«Scherzi?»
«Magari!» fa una breve pausa. «Hanno trovato una prostituta morta e da come me l’hanno descritta è meglio se rimandi la colazione».
Quando arriva sul posto, l’intera area è stata invasa da giornalisti, TV, curiosi e delimitata dai nastri gialli. Per telefono, Lentini gli ha solo accennato riguardo al cadavere ritrovato sulla sponda del Po, nei pressi del Parco del Valentino. Parcheggia e si dirige a piedi. Indossa gli occhiali da sole, anche se di sole non ce n’è. Quello è il modo che ha per celare il dolore che gli si crea negli occhi ogni volta che s’imbatte nel suo lavoro. Manca dalla scena da due mesi: non sono poi tanti, ma tornare tra quella gente e quell’odore di morte, gli ricorda che non c’è modo d’abituarsi a quello che fa e che vede.
Berardi si fa strada tra la folla e in lontananza scorge Lentini e Lo Russo. Mentre cammina, sulla destra nota i sommozzatori in azione. Una volta raggiunti il suo partner e il vicequestore, quest’ultimo lo fissa compiaciuto. «So che ieri sera sei ato a riprendere le tue cose. Sono felice che tu sia tornato».
Berardi annuisce e sorride appena.
«Lentini ti spiegherà, io devo tornare in centrale. Vi aspetto là» conclude.
Gli dà una pacca sulla spalla, si allontana e lui lo segue con lo sguardo. Quando torna a fissare il suo partner, nota che gli sta sorridendo.
Serio, Berardi gli chiede: «Che c’è?»
«Non ti va di abbracciarmi?»
Attende un istante. «No».
L’altro annuisce. «Ti voglio bene lo stesso».
«Cos’è successo?» domanda Berardi.
Il collega nello spiegare prende a gesticolare e, indicando ora il fiume Po ora l’area circostante, dice: «Sembrerebbe che il nostro assassino non abbia lasciato tracce».
Berardi fissa poco più in là e in terra nota una cerata gialla. S’incammina e si mette sulle ginocchia. La solleva e un brivido gli percorre la schiena fino a
ramificarsi sulle braccia, riportandolo in quello stato odioso in cui si percepisce il dolore che una persona può provare mentre soffre.
Si ritrova così ad incrociare l’espressione triste di una donna: gli occhi spalancati, il viso pallido posizionato in maniera errata in confronto al resto del corpo e, attorno al collo, l’evidente segno violaceo della corda che le ha tolto la vita. Si volta e vede il collega della polizia scientifica venirgli incontro. L’uomo ricopre il corpo e si alza.
«L’abbiamo recuperato da poco e dobbiamo eseguire gli esami autoptici» fa presente.
Berardi distoglie lo sguardo e fissa oltre il viso del collega innanzi a lui. Mentre pensa che l’assassino si aggira indisturbato per le strade di Torino, un tuono riecheggia in cielo: il temporale è in arrivo.
Tornano in centrale per stilare il rapporto e per cominciare a lavorare sul caso, ma prima di entrare Berardi si ferma a fissare quella struttura.
«Sei agitato?» gli chiede Lentini.
L’uomo fa spallucce. «Neanche più di tanto».
L’altro gli cinge le spalle. «Vedila così. Ora che sei tornato, potrai aiutarmi con Ilaria».
L’uomo lo fissa. «Chi?»
«Ilaria. È una recluta arrivata da poche settimane».
«Tu non stavi con Marina?» gli chiede liberandosi dalla presa.
Lentini si sfrega il capo. «Non te l’ho detto?»
«Non lo voglio sapere».
«Comunque dovresti vederla. Giovane e bella, sembra tanto indifesa. Sperduta in mezzo a un sacco di agenti più grandi di lei».
Assumendo un’aria da presa per il culo, Berardi dice: «Come ho fatto a non pensarci! E tu vuoi solo aiutarla ad ambientarsi, no?».
«Esatto!» esclama Lentini con un sorriso a trentadue denti.
«Scordati il mio aiuto».
«Il primo approccio è importante» dice Lentini con ovvietà.
Berardi ride ironico. «E vuoi che ce l’abbia con me?»
«Sei uno che ci sa fare con le donne, no?»
Annuisce. «Sei un tipo sveglio».
Lentini fa una smorfia. «Di te si fiderà. Le parli un po’, la fai sentire a proprio agio e poi me la presenti. Io non so quali saranno i vostri discorsi».
«I nostri discorsi?»
«Eh già. Perché per me è difficile parlare con una donna, quando mi interessa solo quella cosa là…»
«Ti prego, falla finita».
«Suppongo che non mi aiuterai».
«Supposizione esatta».
«Prova a capirmi. Io sono un uomo a cui non piacciono le relazioni fisse…»
Berardi lo fissa stupito. «Credo di essermi perso qualcosa in questi due mesi allora».
Lentini scuote il capo sconsolato e cambia discorso.
«Non dovevi traslocare?»
«Sì, ora abito in un piccolo appartamento a Porta Palazzo».
«Ma ce l’hai una donna tu? Non ne parli mai…»
Berardi cambia espressione. Lentini in effetti non conosce la sua vita sentimentale. Mente: «No, ci siamo lasciati».
«Vi siete lasciati o ti ha lasciato?»
«Che differenza fa?»
«Fa una bella differenza perché dalla tua espressione mi sembra di aver toccato un nervo scoperto».
«Fatti i cazzi tuoi» è la risposta laconica di Berardi.
Durante la conversazione, Lentini nota che il collega continua a maneggiare il cellulare schiacciando i tasti telefonici senza poi però attendere la risposta. «Ma cosa stai facendo, chiami qualcuno e poi non parli?»
«Anche questi non sono cazzi tuoi».
Lentini si arrende. «Va bene, messaggio ricevuto. Con te oggi è impossibile conversare».
Berardi fa per muoversi verso il Commissariato quando una sensazione lo costringe a voltarsi e ad osservare intorno.
«C’è qualcosa che non va?» gli chiede Lentini.
Fissa il posto ancora per qualche secondo. «Ho avuto come l’impressione che qualcuno ci stesse spiando» risponde tornando a guardare dinnanzi a sé.
«Paranoia da rientro» suggerisce Lentini.
«Non perdi mai l’occasione per stare zitto».
Berardi si ferma ancora davanti al Commissariato e dice a Lentini: «Entra pure, io ti raggiungo. Devo fare una telefonata».
4.Torino, 11 settembre 2007 – ore 11.20
Barbara è in un momento di pausa dal lavoro. Ne approfitta e si siede alla scrivania. Apre sul computer il programma di posta elettronica e risponde all’email ricevuta il giorno prima da Ludovica Vinci.
“Cara Ludovica,
mi ha fatto un gran piacere ricevere il tuo messaggio.
Io sto bene, compatibilmente con il lavoro che mi sta assorbendo gran parte del tempo nell’arco della giornata e soprattutto gran parte delle mie energie psicofisiche. Ho comunque seguito il tuo consiglio: mi sono iscritta ad una palestra, così mi scarico un po’ e riesco, almeno per un’ora, a staccare la spina.
Capisco le difficoltà in cui tu ti trovi adesso. Ma un po’ ti invidio. Sai quanto mi piacciono i bambini e quanto avrei desiderato averne uno. Ma, come tu ben sai, per fare un bambino bisogna essere in due e io, per ora, non ho ancora trovato l’altra metà e chissà mai se la troverò.
Come puoi immaginare, conoscendomi, non ho ancora fatto le ferie e non ho pianificato nulla, per cui accetto molto volentieri la tua proposta di venirvi a trovare a Venezia. Sarà una bella occasione per rivederci e anche per spupazzarmi un po’ il tuo cucciolo.
Appena posso, ti comunico la data del mio arrivo.
Ciao, un bacio, Barbara”.
Dopo aver inviato l’e-mail, Barbara apre Facebook. Non è una fanatica di social network, i suoi “amici” si possono contare sulle dita di una mano, ma adesso è curiosa di vedere se c’è qualche messaggio per lei. Apre la schermata “home” e nota subito che c’è una notifica. Clicca sulla piccola icona in alto a sinistra e legge: “‘24settembre’ ha pubblicato qualcosa sulla tua bacheca”.
Barbara rilegge più volte quelle parole. “‘24settembre’?” pensa. “E chi cavolo è? Non lo conosco. Ma soprattutto che razza di nickname è ‘24settembre’?”
Clicca su “profilo” e controlla cosa è stato scritto sulla sua bacheca. Quando visualizza il messaggio rimane senza parole.
C’è scritto: “34715621373471562137
34715621373471562137
34715621373471562137
34715621373471562137
34715621373471562137”
Quell’insieme indistinto di numeri la manda totalmente in confusione. Apparentemente non vuol dire nulla, ma dopo qualche secondo Barbara si rende conto di cosa si tratta. È il suo numero di cellulare privato ripetuto molteplici volte.
La frequenza del suo battito cardiaco aumenta improvvisamente così come aumentano gli interrogativi sul significato di quel messaggio. Barbara lo rimuove immediatamente dalla bacheca e clicca su “24settembre” per vederne il profilo. Ma la risposta è laconica: “‘24settembre’ condivide solo alcune informazioni del suo profilo con tutti. Se conosci ‘24settembre’, aggiungilo come amico”.
Non appare nessuna informazione utile.
Barbara, come d’istinto, clicca su “aggiungi agli amici” e invia la richiesta. «Voglio vedere chi sei, brutto bastardo» dice a voce alta.
Si alza dalla scrivania e va alla finestra. Tra pochi minuti sarà il turno del prossimo paziente. Barbara ripensa a quanto gli è successo negli ultimi due giorni. Le pseudo telefonate di Stefano, le chiamate non risposte, il post-it in palestra, il biglietto sulla macchina e adesso il messaggio su Facebook.
La fronte è sudata e le mani sono ghiacciate.
Adesso ha una certezza: deve seriamente iniziare a preoccuparsi.
Alle 13.50 Barbara esce dalla palestra. Oggi ha deciso di anticipare di qualche minuto il rientro perché vuole fermarsi davanti a un negozio di pelletteria per vedere una borsa che le piace. Si ferma di fronte alla vetrina e osserva con attenzione l’articolo in pelle. A un tratto, come d’istinto, si volta sulla sua destra. Quando volge lo sguardo intravede un uomo che con un balzo scompare dietro l’angolo della strada a una trentina di metri da lei. Si è trattato di un istante, ma lei lo ha visto in faccia. Era l’energumeno che l’ha avvicinata in palestra il giorno prima.
Barbara si mette a correre in direzione dell’angolo della strada. Quando arriva volge lo sguardo verso la via alla sua sinistra.
Non vede nessuno.
Perché la stava seguendo? Sarà forse lui il misterioso autore dei messaggi che ha ricevuto?
Barbara ha deciso. Se dovesse ancora importunarla, andrà alla polizia.
Torino, 11 settembre 2007 – ore 22.20
Dopo aver firmato le ultime cartelle per le dimissioni di alcuni pazienti per il giorno dopo, Barbara, esausta, finalmente si appresta a tornare a casa.
Prende le sue cose ed esce dal reparto. Scende al pian terreno e imbocca il lungo corridoio che porta all’uscita dell’ospedale. Non c’è nessuno in giro, neanche un infermiere. Senza quasi rendersene conto, Barbara viene nuovamente assalita da un evidente stato d’ansia. Affretta il o. Supera l’ingresso laterale che porta al parcheggio interno.
Improvvisamente, in un silenzio quasi irreale, Barbara sente distintamente dei i alle sue spalle. Si volta e, nell’oscurità, intravede dietro di lei, a circa cinquanta metri, la sagoma di un uomo che sta procedendo nella sua stessa direzione. Barbara si ferma e vede che anche l’uomo alle sue spalle si blocca.
Potrebbe essere chiunque, potrebbe essere un collega che ha fatto tardi come lei, ma Barbara in questo momento non è più in grado di ragionare serenamente. Si mette a correre in direzione della sua auto posteggiata e sente che anche i i alle sue spalle si sono fatti più rapidi.
È ora convinta che qualcuno la stia seguendo.
Giunge finalmente al suo Porsche Cayenne, prende le chiavi in mano e aziona il telecomando. Apre la portiera e sale in macchina. Aziona immediatamente il tasto blocca porte.
Ora è al sicuro.
Guarda fuori dal finestrino e non vede più nessuno.
Sbatte violentemente le mani sul volante. È stata una stupida. Si è lasciata suggestionare. Perché qualcuno dovrebbe seguirla? E poi proprio in ospedale dove, anche di notte, ci sono decine di persone che lavorano e che potrebbero correre in suo aiuto.
Barbara si rende conto che quello che le sta succedendo sta mettendo a dura prova i suoi nervi.
Deve tranquillizzarsi, deve tornare razionale, come lo è sempre stata.
Mette in moto l’auto e si avvia verso casa.
Sta sorseggiando una tazza di latte con caffè solubile e sta mangiando alcune fette biscottate. Dopo i panini indigesti che ingoia in ospedale alla velocità della luce al rientro dalla palestra, Barbara adora bere il latte caldo a cena.
Sparecchia la tavola e si sdraia sul divano.
Adesso è tranquilla e vuole rilassarsi un attimo prima di andare a dormire. Si abbandona completamente e i pensieri scorrono veloci nel suo cervello.
Le viene in mente un film struggente con Kevin Costner dal titolo “Le parole che non ti ho detto”.
Ripensa a Stefano. Quante parole non dette sono rimaste in sospeso nel loro
travagliato rapporto.
Ricorda ancora il giorno in cui lei ha troncato la loro relazione.
Un giorno lontano, fatto di “cose vissute”, di parole lasciate a metà, di ricordi chiusi in un cassetto.
Lui le disse: «Dici che la nostra storia non può continuare? Allora io ti confesso che non ti amo… forse non ti ho mai veramente amata».
Furono lampi e tuoni, furono fucilate, le sue parole. Aleggiarono nell’aria per interminabili “momenti di vita” che sapeva, non avrebbe più vissuto. Pensava che a loro non potesse succedere… non dovesse succedere, e come, davanti a una malattia improvvisa, si sentì impotente.
La sua aspettativa di vita, lasciata arenarsi sulla spiaggia della loro “esistenza”, come una barca alla deriva… Lui… In lui aveva riposto tutta la sua fiducia, aveva riposto tutto il suo “sapere”, insieme avevano “creato” un mondo vivente, fatto di sofferenza, ma anche di gioia, fatto di sudore, di paure e di felici emozioni.
Ma lui nell’ultimo periodo con i suoi comportamenti, totalmente irrazionali e dettati da un inspiegabile attaccamento morboso nei suoi confronti, aveva rovinato tutto. Lei, seppur innamorata, non poteva sopportare un uomo oppressivo che la stava chiudendo dentro una gabbia.
Per lui aveva trascurato il lavoro, rinunciato alla carriera, incrinato il rapporto con i suoi colleghi.
Ma non poteva andare oltre.
Aveva deciso. Non sarebbe ritornata sui suoi i. Lei se ne stava andando e non si sarebbe più voltata indietro. Abbandonava tutto ciò che di buono avevano costruito.
Tutto quello per cui avevano lottato, ormai, era ato in secondo piano per lei.
Ora Barbara ricorda i suoi silenzi, le dolci parole che in ato gli aveva scritto, il loro amore che “adorava” come adorava la loro vita insieme.
Ma lui aveva preferito buttare tutto a mare senza ascoltare il suo lamento, senza udire il suo implorante urlo.
Ricorda ancora quando gli scrisse: “Emozionami, come il mare emoziona il mio sguardo, come la pioggia emoziona i miei pensieri, come emozionante può essere un bacio rubato ad un sorriso triste, come può essere un abbraccio, come può essere un amore che duri un’ora… o tutta una vita. Chissà quando tu, tornando a casa, penserai a queste parole, o quando guarderai il sole sorgere, oppure l’alta marea accarezzare le calde sabbie, quando sentirai il calore del sole sfiorare le tue gote, chissà se scorgerai una luce dentro al tuo cuore, pensando al nostro amore”.
Era stato angosciante per Barbara prendere quella decisione, ma, ancora ora, ripensandoci, si rende conto che era l’unica scelta possibile.
Barbara si scuote dallo stato di catarsi in cui è caduta. Un pensiero improvvisamente si fa largo nella sua mente. Si alza dal divano e si dirige verso il suo studio. Si siede alla scrivania e accende il computer portatile. Si collega a Facebook. Nota immediatamente che c’è una notifica: “‘24settembre’ ha accettato la tua richiesta di amicizia”.
“Bene,” pensa Barbara “adesso vediamo chi sei”. Clicca sul suo “profilo” ma rimane delusa. Il “profilo” di “24settembre” è praticamente vuoto.
Ha un solo “amico”: lei.
C’è una sola informazione: maschio.
Poi null’altro.
Barbara sta per chiudere il programma, quando in basso a destra vede che “24settembre” si è connesso. Clicca sulla chat e scrive un messaggio istantaneo.
«Chi sei? Chi ti ha dato il mio numero di cellulare?»
Attende qualche minuto. Nessuna risposta.
Ancora pochi secondi e lo stato del suo interlocutore cambia: “‘24settembre’ è offline”.
«Vai al diavolo!» dice Barbara ad alta voce. Esce dal programma e spegne il computer.
Va in camera da letto e prende dalla sua borsa il cellulare personale che oggi non ha ancora . È solo uno scrupolo, perché le telefonate le riceve solitamente sul telefonino dell’ospedale. Su quello personale non chiama praticamente mai nessuno.
Non appena connesso con la rete, il cellulare incomincia, in rapida sequenza, ad emettere toni di avviso di ricevimento di messaggi. Barbara è frastornata. È un suono continuo che dura diversi secondi. Alla fine quell’odioso rumore cessa.
Barbara guarda il display e, con enorme stupore, legge che ci sono 15 messaggi in arrivo.
“Ma chi mi ha scritto 15 messaggi?” pensa. Nuovamente l’ansia l’assale ed il battito cardiaco aumenta progressivamente.
Con la mano tremante apre la cartella dei messaggi in entrata e vede che il mittente è sempre lo stesso. Un numero stranissimo: 045678360895.
E i messaggi sono tutti uguali: vuoti e senza alcun testo.
Barbara prova a chiamare quel numero. Una voce metallica in una lingua incomprensibile pronuncia alcune frasi. Barbara immagina che quello che ha sentito corrisponda in qualche modo al nostro: “L’utente non è raggiungibile”. Posa il cellulare. È spaventata. Ripensa a quello che le è accaduto negli ultimi due giorni. Un pensiero si fa strada nel suo cervello. Un pensiero che l’angoscia. Un pensiero associato a un termine che ha sentito pronunciare alcune volte in televisione o letto qualche volta sui giornali.
Un termine in lingua inglese che la terrorizza.
Stalking.
“Cara Ludovica, sei l’unica persona al mondo con la quale io mi possa confidare. Da un paio di giorni mi stanno capitando degli strani avvenimenti che sono fonte per me di forte inquietudine. Sto ricevendo insolite telefonate, sms e messaggi su Facebook. Ho il timore che qualcuno mi abbia preso di mira e mi voglia molestare. Ma non so chi possa essere e quale sia il motivo che lo spinga ad agire così nei miei confronti. Dammi un consiglio, amica mia, non vorrei sopravvalutare questi episodi, magari si tratta soltanto di stupidi scherzi da parte di qualche imbecille, ma non vorrei neppure che si trattasse di qualcosa di più serio e che possa ripetersi ancora. Sono già stressata per il lavoro, non voglio stressarmi anche per altro. Dimmi per favore cosa ne pensi e come, secondo te, mi dovrei comportare. Magari qualche tua amica o conoscente è già stata oggetto di simili ‘attenzioni’.
Un bacio, Barbara”.
Invia l’e-mail e spegne il computer.
Guarda l’orologio. È già mezzanotte ata.
Adesso Barbara si sente più serena. Contattare la sua amica, anche se solo indirettamente tramite la posta elettronica, le infonde sempre fiducia, perché è sicura che le risponderà e le scriverà parole sensate.
Fa il giro della casa e controlla la porta di ingresso e le persiane delle finestre. Si accerta che siano ben chiuse. Non le era mai capitato prima di preoccuparsene. Ma abita al piano rialzato, facilmente raggiungibile da parte di qualche malintenzionato.
Si rende conto che solo ora, dopo quello che è accaduto, le è venuto lo scrupolo di controllare. Si arrabbia con se stessa. La sua vita e i suoi comportamenti non possono essere condizionati da qualche idiota. Alla fine Barbara riesce a scacciare il senso di ansia che l’ha assalita questa sera. Si avvia verso la camera da letto. Ora se la sente di andare a dormire.
5.Torino, 12 settembre 2007 – ore 20.30
Barbara è distesa sul letto e sta fissando il soffitto. Ha gli occhi sbarrati per la stanchezza e per la mancanza di sonno.
La notte precedente non la dimenticherà facilmente.
Il telefono di casa ha risuonato in maniera ripetitiva, ossessiva.
Ad ogni ora.
Era come se il suo molestatore avesse un disegno ben preciso in mente: quello di risvegliarla ogni volta che lei stesse per riaddormentarsi.
Ma il suo piano è riuscito parzialmente. Soltanto per le prime due telefonate, quando Barbara ha provato inutilmente a rispondere e ha tentato di riprendere sonno.
Successivamente ha lasciato suonare a vuoto il telefono e non è stata più in grado di riposarsi.
E la giornata non è proseguita diversamente.
Ad ogni suo spostamento, da casa all’ospedale, dall’ospedale al bar, dal bar all’ospedale, dall’ospedale in palestra, dalla palestra all’ospedale ed infine dall’ospedale a casa ha sempre ricevuto una telefonata anonima sul suo cellulare.
Sempre senza alcuna risposta.
Sempre seguito da un sms senza testo inviato da quello strano numero. Come se il suo molestatore seguisse i suoi movimenti e volesse comunicarle che i suoi spostamenti non avano inosservati. Ormai Barbara ha una certezza. Qualcuno ha deciso di invadere con prepotenza la sua sfera privata. E non si tratta di certo della bravata di qualche amico in vena di scherzi.
Anche perché lei non ha praticamente più amici, a parte Ludovica.
Gli unici possibili sospettati sono Stefano e il ragazzo della palestra.
Ma Stefano è uscito dalla sua vita ormai da un pezzo e, poi, non lo ritiene capace di mettere in atto un simile comportamento.
Rimane il ragazzo della palestra.
Ha deciso.
Il giorno dopo lo affronterà.
Mentre sta riflettendo sente in sottofondo il tono di arrivo di una e-mail.
Si alza e si reca nel suo studio dove si trova il computer portatile.
È Ludovica.
“Cara Barbara, ho letto il tuo messaggio che mi ha molto colpita. Sono assai dispiaciuta per quello che ti sta capitando. Da un lato vorrei dirti di non preoccuparti e che sicuramente si tratta di uno scherzo, dall’altro, come donna, ti invito a non sottovalutare l’accaduto. Cerca di stare in compagnia nei luoghi isolati e di farti accompagnare da qualcuno la sera nel parcheggio. Mi raccomando stai attenta. Se gli episodi dovessero ripetersi, vai di corsa dalla polizia. Loro ti potranno sicuramente dare una mano.
Tienimi informata.
Un bacio, Ludovica”.
Quella e-mail invece di tranquillizzarla, le ha messo un senso di ansia addosso. Se anche la sua unica amica le dice di stare attenta, significa che ha tutte le ragioni per essere preoccupata.
Rilegge le ultime parole: “… vai di corsa dalla polizia. Loro ti potranno sicuramente dare una mano”.
Sarà realmente così come dice Ludovica?
Con questo interrogativo Barbara decide, suo malgrado, di andare a dormire.
Che notte sarà quella che sta per iniziare?
6.Torino, 13 settembre 2007 – ore 7.15
Barbara ha ato un’altra notte insonne.
Il telefono ha continuato a suonare ininterrottamente.
Ma ormai Barbara si è abituata a quel suono, seppur insopportabile. Non ha neanche provato a rispondere, tanto era sicura che nessuno avrebbe parlato. Ha provato a scavare nella sua vita rivoltandola come un calzino per cercare di dare un volto al molestatore. Ha ato al setaccio le sue vecchie amicizie, i suoi ex partner, i suoi colleghi attuali e quelli ati. Ma nessuno di loro ha destato in lei un qualche sospetto. Giunge alla conclusione che si deve trattare di una persona da lei comunque conosciuta, ma che forse non appartiene a quelle con le quali ha avuto un rapporto significativo e che dunque in questo momento non riesce a ricordare.
Di nuovo il pensiero corre al ragazzo della palestra. Per Barbara quasi sicuramente è lui lo stalker.
Si alza dal letto. È mattina presto, ma tanto è consapevole che non riuscirà più a dormire. Si siede al computer ed effettua delle ricerche su internet. Per combattere un nemico bisogna conoscerlo, è la sua conclusione. Un articolo attrae la sua attenzione:
“Ti senti perseguitata con telefonate, messaggini, minacce, molestie o qualsiasi altro atteggiamento che ti mette a disagio? Potresti essere vittima dello ‘stalking’. Con questo termine si indicano i comportamenti persecutori, diretti o
indiretti, ma comunque ripetuti nel tempo, che incutono uno stato di soggezione nella vittima provocandole un disagio fisico o psichico e un ragionevole senso di timore.
Un fenomeno difficile da denunciare. Il fenomeno è molto diffuso e numerose sono le donne che ne rimangono vittime e che, almeno inizialmente, cercano di risolvere il problema da sole, pensando di avere a che fare con persone che rispettano le loro scelte. Nella maggior parte dei casi infatti i persecutori sono uomini che si pensa di conoscere bene in quanto ex partner, amici o colleghi di lavoro.
In molti casi inoltre le vittime non denunciano questi comportamenti per paura che la situazione diventi ancora più insostenibile. Ma in realtà l’unico modo per cercare di venirne fuori è trovare il coraggio di denunciare senza vergogna e senza imbarazzo.
Proprio per cercare di aiutare le donne che si trovano in queste condizioni la Polizia di Stato, insieme all’Università di Napoli, ha creato ‘Silvia’ (Stalking inventory list per vittime e autori) un progetto per monitorare i casi attraverso un formulario che aiuti anche gli operatori a conoscere meglio le caratteristiche di questo fenomeno. L’obiettivo è anche quello di sensibilizzare i poliziotti per fare in modo che il primo contatto con le forze dell’ordine sia rassicurante e permetta di instaurare un rapporto di fiducia con la vittima.
Nel nostro codice penale non esiste ancora un’ipotesi di reato specifica per questo fenomeno (come è invece per Usa, Canada, Australia e altri paesi europei), ma in base agli elementi descritti dalla vittima si può ascrivere la condotta a singoli reati: minacce, ingiurie, molestie, lesioni o violenza privata. È però al vaglio del Parlamento una proposta di legge che prevede una nuova fattispecie di reato art. 612-bis - Atti persecutori.”
Segue un vademecum per chi è oggetto di atti persecutori:
– Evitare qualsiasi contatto con lo ‘stalker’
– Conservare le prove dei contatti
– Attivare una segreteria telefonica
– Registrare le telefonate
– Memorizzare gli sms
– Conservare le mail
– Conservare eventuali bigliettini
– Annotare tutti gli episodi avvenuti, specificando cosa è successo, quando e dove ed eventuali testimoni.
– Mettere in pratica strategie di sicurezza, tra le quali:
- informare della situazione le persone vicine
- non diffondere informazioni personali
- tenere sempre a portata di mano un cellulare per chiedere aiuto in caso di emergenza.
“Non esiste una legge,” pensa Barbara, “ma almeno qualche tentativo per combattere il fenomeno è in corso da parte delle autorità competenti”.
Quando esce per andare in ospedale e durante i suoi spostamenti, non fa più caso alle puntuali telefonate che riceve sul cellulare, seguite dagli sms.
Però si guarda attorno continuamente, scruta con attenzione tutti gli uomini che incontra, cerca di individuare l’uomo che la sta molestando. Si sente seguita, pedinata, osservata.
Ma non sa da chi e non sa come.
Potrebbe essere ovunque. A piedi, in macchina, in moto. Davanti o dietro di lei.
Potrebbe essere l’uomo sulla quarantina che in questo momento sta fingendo di leggere il giornale su una panchina a pochi metri da lei, oppure il signore anziano che con noncuranza sta fumando una sigaretta appoggiato a un semaforo e che la sta osservando.
Tutti e nessuno.
La sua è una ricerca difficile, ma non deve cadere nella trappola che le sta tendendo il suo stalker.
Non deve perdere la lucidità e soprattutto il coraggio di affrontare la situazione che si è creata con l’entrata in scena di questo misterioso personaggio.
Alla fine, dopo una mattinata interminabile, arrivano le 13.00.
L’ora di andare in palestra.
L’ora della verità.
7.Torino, 13 settembre 2007 – ore 13.10
Barbara è in palestra, si è cambiata e si sta dirigendo verso gli attrezzi.
Nota che è presente anche il ragazzo che l’ha avvicinata un paio di giorni prima.
Il suo principale sospettato.
Sta parlottando con un altro uomo. Appena la vede, saluta il compagno e le si avvicina.
«Ciao Barbara, come va?»
Lei lo osserva perplessa. «Come fai a sapere il mio nome?»
L’altro fa spallucce. «Beh, sai, la palestra è piccola, la gente mormora…».
Barbara lascia perdere quell’argomento e parte all’attacco. «Perché mi hai seguita l’altro giorno? Perché mi fai delle telefonate anonime? Perché mi molesti? Cosa vuoi da me?».
Il ragazzo fa una faccia stupita. «Guarda che ti sbagli. Io non ti ho seguita e non
ti sto facendo nessuna telefonata anonima. Ma cosa ti salta in mente?»
«Non dire cazzate! Ti ho visto in faccia. Eri proprio tu. Sappi che se ti sei messo in testa delle idee strane, hai completamente sbagliato persona. Dammi ancora fastidio e io vado dalla polizia».
L’uomo cambia espressione. Adesso è chiaramente adirato. «Ma chi pensi di essere? Credi di avercela soltanto tu? Come te ne trovo a decine di donne e non ho bisogno di ricorrere a mezzucci da psicopatico per farmi notare. Sai cosa ti dico: vai a farti fottere, stronza!». L’uomo si allontana sbattendo per terra il piccolo asciugamani.
Barbara rimane impietrita. E se si fosse sbagliata? E se avesse ragione quel ragazzo? Si sta rendendo conto che quello che le è successo negli ultimi giorni la sta condizionando negativamente. È diventata troppo sospettosa nei confronti di tutti. Anche se quello che sta avvenendo non si può considerare normale, adesso deve solo tranquillizzarsi. Le è ata la voglia di fare gli esercizi. Si riavvia verso gli spogliatoi per cambiarsi e tornare in ospedale.
Barbara ha appena finito di visitare un paziente. Apre la porta del suo studio e nota che in sala d’aspetto non c’è più nessuno. È sera ormai.
Prima di andare a casa, decide di scrivere un’e-mail a Ludovica.
“Cara Ludovica, gli episodi non si sono interrotti. Anzi. Non ho ancora seguito il tuo consiglio di andare alla polizia perché pensavo di aver individuato il mio molestatore. Ma mi sono sbagliata. Non so chi sia. Non ho alcun sospetto. In queste condizioni cosa potrei andare a dire alla polizia? Mi riderebbero in
faccia.
Mi sono documentata. Non esiste un reato specifico per lo stalking. E questo non fa altro che aggravare la situazione delle donne molestate che non hanno alcuna forma di tutela.
Avrei tanto bisogno di qualcuno che mi aiutasse in questo momento. Qualcuno a cui aggrapparmi. Qualcuno che mi fe sentire al sicuro e che mi proteggesse.
Purtroppo, come tu ben sai, sono sola.
Ho tante conoscenze, ma nessun vero amico, né tantomeno un compagno.
A casa, la sera, non c’è nessuno che mi aspetta.
Non mi resta che affrontare con le mie sole forze quello che il destino mi ha riservato.
A presto, amica mia. Barbara”.
Prende la sua borsa ed esce dallo studio. Ha spento il cellulare e a casa staccherà il telefono.
Questa notte cercherà di dormire.
8.Torino, 14 settembre 2007 – ore 19.20
Barbara si sta preparando per andare a cena con i colleghi.
È in anticipo, si siede sul divano e accende la televisione, ma non trova nessun programma di suo gradimento.
Si alza e si sporge dalla finestra per osservare il movimento in strada. È già buio e a quell’ora c’è un discreto traffico.
La sua attenzione viene attratta da un’auto parcheggiata a una ventina di metri dal suo palazzo. A bordo, illuminato dalla luce dell’abitacolo, scorge la sagoma di un uomo con in mano un oggetto. Barbara mette ben a fuoco l’immagine e capisce di cosa si tratta: è una macchina fotografica.
L’uomo sta facendo delle fotografie.
Ma cosa sta fotografando? Barbara non riesce a intuirlo.
Non c’è nessun personaggio noto in viale Thovez per cui non può trattarsi di un paparazzo.
Subito assalita da un senso di ansia, Barbara si allontana dalla finestra.
Non sa cosa fare. Attende qualche minuto e torna nuovamente a guardare fuori. L’auto è ancora lì con a bordo l’uomo che fotografa.
Barbara adesso ha paura, ma non vorrebbe spaventarsi per futili motivi. Non è detto che quell’uomo stia fotografando lei o la sua abitazione.
C’è un solo modo per verificarlo.
Barbara ha deciso di uscire di casa e di scendere in strada.
Anche se c’è confusione e lo stare in mezzo alla gente dovrebbe proteggerla, Barbara è lo stesso molto tesa e nervosa. Deve solo avvicinarsi a quell’auto, facendo finta di niente, e osservare più attentamente cosa sta facendo il suo occupante. E soprattutto vederlo in faccia.
Barbara apre il portone e guarda in direzione dell’auto parcheggiata.
Ma non è stata abbastanza veloce.
L’auto non c’è più.
Torna in casa con il cuore che batte all’impazzata.
Cerca di ricomporsi e di riacquistare un minimo di autocontrollo.
Dopo quello che le sta succedendo, nulla le sembra più normale.
Va nel suo studio e nota sul desktop del computer che è arrivata una e-mail.
È di nuovo Ludovica.
“Cara amica mia, io e mio marito siamo sinceramente in ansia per te. Lo so che non hai nessuno. Ma cerca lo stesso una collega dalla quale andare a dormire. Non stare da sola. Piuttosto prendi qualche giorno di ferie e vieni da noi. Magari, nel frattempo, le acque si calmeranno e il tuo molestatore, non trovandoti più, rinuncerà a darti fastidio. Ascoltami, non farti travolgere dagli eventi. Ne hai già ate tante tu. Non lo meriti. E ti ripeto: vai dalla polizia. Non potranno non aiutarti. Fammi conoscere le tue decisioni. Un abbraccio, Ludovica”.
Barbara abbozza un sorriso nel leggere il messaggio di Ludovica. È davvero una cara amica. È quasi una sorella per lei, una sorella che non ha mai avuto nella realtà.
Guarda l’orologio. È giunta l’ora di andare a cena.
9.Torino, 14 settembre 2007 - ore 23.25
L’uomo è seduto in macchina. Sta fumando una sigaretta. Guarda l’orologio e nota stizzito che le undici sono già ate da un pezzo.
“È strano,” pensa, “lei normalmente a quest’ora è sempre di ritorno a casa. Probabilmente questa sera la puttanella avrà avuto qualche contrattempo o forse la cena si sarà protratta oltre il lecito”.
Ma l’uomo è tranquillo. Non ha fretta, attenderà quanto basta. Si trova all’inizio di viale Thovez, in una zona molto elegante di Torino, ai piedi della collina. Ha parcheggiato dal lato opposto rispetto alla casa dove lei abita. Un edificio non di recente costruzione, ma molto ben curato e rifinito. La strada è pressoché deserta, fiocamente illuminata da esausti lampioni. L’unica presenza umana è rappresentata da un ragazzo che, a circa cento metri di distanza da lui, sta portando a so il cane.
Ad un tratto vede due potenti fari che si avvicinano. L’auto rallenta in prossimità dell’abitazione che sta controllando. C’è ampio parcheggio e, senza alcuna difficoltà, accosta a lato del marciapiede.
L’uomo sorride. Getta il mozzicone della sigaretta dal finestrino e si rannicchia sul sedile per non farsi notare.
Una portiera si apre. L’uomo intravede una donna che si appresta a scendere dall’auto appena parcheggiata. La donna, nell’atto di scendere, divarica le gambe e per qualche decimo di secondo mette in evidenza l’interno delle cosce. Indossa
un tailleur color antracite con la gonna che le arriva appena sopra il ginocchio.
L’uomo osserva con attenzione e un brivido gli attraversa la schiena. Ammira il corpo sinuoso della donna, che, dopo aver preso le chiavi dalla borsetta, apre il portone dell’ingresso e scompare.
L’uomo è soddisfatto. Anche questa sera ha portato a termine il suo compito.
Adesso sa tutto di lei. Dopo settimane di appostamenti e di pedinamenti e dopo aver iniziato a lavorarla ai fianchi negli ultimi giorni con le telefonate anonime, gli sms, Facebook e spacciandosi per il suo ex fidanzato Stefano, sa di dover are alla seconda fase: quella del contatto diretto.
Un ghigno sinistro appare sul suo volto.
Barbara Mori è spossata. Le ultime giornate sono state molto faticose. Prima il lavoro, poi l’incontro con il ragazzo in palestra, lo stress di tutte le telefonate e di tutti gli sms ricevuti, infine l’auto con il fotografo.
Senza tener conto della noiosissima ed interminabile cena con i colleghi alla quale ha partecipato, più per motivi di opportunità personale che per un reale interesse a are la serata con loro.
Si spoglia e si guarda nello specchio in camera da letto. I suoi quarant’anni non le pesano. Osserva il suo corpo. È ancora quello di una ragazza. Tutte le curve si trovano al punto giusto. Alta, slanciata, lunghi capelli castani e grandi occhi di
un color azzurro intenso.
Ma, allora, per quale motivo non riesce a trovare un uomo con cui condividere la propria vita?
Sarà colpa del suo carattere, scontroso e introverso?
Sarà perché negli ultimi anni, Stefano a parte, ha dedicato quasi tutto il suo tempo al lavoro trascurando totalmente la sfera privata e gli affetti personali?
Ha perso poco alla volta tutti i vecchi amici. È circondata soltanto da colleghi verso i quali umanamente prova poco più che indifferenza. La protratta solitudine la sta facendo chiudere in se stessa, la sta trasformando in un piccolo orso che si ritrae a qualsiasi rapporto umano che non vada oltre il mero aspetto professionale.
Barbara si siede sul letto e pensa a quello che è diventata.
È da anni un’apprezzata cardiologa, dirigente di 1° livello presso il reparto di Cardiologia del principale ospedale torinese, le Molinette. Esperta in miocardiopatie.
È un medico preciso, preparato e stimato che ha un solo obiettivo: curare al meglio i propri pazienti e salvare, se possibile, il maggior numero di vite umane. Vive il suo lavoro come se fosse una missione. Nulla c’è di più importante nella sua vita. Ha continuamente l’ossessione di non essere sufficientemente
aggiornata e per questo non si perde un congresso o un convegno, dovunque esso sia. Già pensa da qualche giorno al prossimo congresso di Roma nel quale verranno trattati, tra l’altro, argomenti per lei molto importanti, quali quelli legati ai tre tipi di miocardiopatie: ipertrofiche, dilatative e restrittive.
Sul lavoro è una stakanovista. Non si stanca mai, è sempre pronta a sostituire i colleghi che le chiedono cambi dei turni di guardia. È in grado di reggere dodici ore di fila senza staccare la spina, neanche per un caffè o un panino.
Ma è questo quello che lei realmente vuole?
E il privato?
La famiglia, i figli e tutto il resto?
A quarant’anni non può più procrastinare una scelta che ha rimandato per troppo tempo. Eppure tra quelli che la circondano non mancano i corteggiatori, ma a lei non c’è nessuno che veramente interessi. Forse, con il tempo, è diventata troppo esigente, forse…
Uno squillo, prolungato, alla porta di casa.
Barbara si risveglia, come d’improvviso, da un apparente stato di trance e ha un sussulto. Ci mette qualche istante per realizzare quale rumore abbia sentito. Poi un secondo, ancora più fastidioso, squillo. Barbara corre in bagno, indossa l’accappatoio e si precipita alla porta.
Guarda dallo spioncino. Scruta attentamente, ma non vede nessuno.
È indecisa sul da farsi. Chi può aver suonato a quell’ora? Forse lo scherzo di qualche ragazzino impertinente. Non si fida ad aprire la porta, anzi, quasi inconsciamente, gira tutte le mandate della chiave.
ano pochi secondi e suona il cellulare.
“Cristo,” si chiede “cosa sta succedendo?”
Il suono è lancinante nel silenzio della notte. Guarda il display e legge: “Anonimo”.
Risponde.
«Pronto? Chi parla?»
Nessuna risposta.
«Pronto, pronto?»
Silenzio totale.
Chi l’ha chiamata però non ha riagganciato. Barbara sente il suo respiro.
«Stefano, sei tu?»
Nessuna risposta.
«Ma vaffanculo! Stronzo!»
Barbara chiude la comunicazione e cerca di controllare il suo stato di agitazione.
È ata l’una di notte.
Deve assolutamente andare a dormire.
Staccherà di nuovo il telefono e spegnerà il cellulare.
Adesso si è tranquillizzata. Domani l’attende una giornata particolarmente massacrante.
Sta per mettersi a letto, quando dal suo studio sente nitidamente il tono di arrivo di una e-mail emesso dal computer, che si è dimenticata di spegnere. Svogliata si dirige verso la stanza e si avvicina alla scrivania. Sul desktop del portatile è apparsa l’icona della posta in arrivo. Barbara clicca con il mouse sull’icona ed apre il programma.
Guarda il mittente.
È inquietante:
[email protected].
Legge il messaggio. È agghiacciante: “Io ti ucciderò…”.
10.Torino, 15 settembre 2007 – ore 6.30
È mattina presto e Alessio Cipriani è appostato davanti all’edificio in viale Thovez dove abita la sua creatura.
Lui è mattiniero, dorme poco di notte ed è già un po’ che attende davanti al portone, nonostante sappia perfettamente che è ancora presto e che la sua vittima probabilmente uscirà soltanto tra un po’.
Ma gli piace attendere le sue creature, osservare con attenzione anche i minimi dettagli delle zone in cui abitano, appuntarsi ogni particolare anche insignificante.
Adesso è in una fase di riflessione e ria mentalmente alcuni momenti della sua vita trascorsa.
Prima di essere promosso e approdare a Torino, prestava servizio presso la Questura di Verbania.
Ricorda con un sorriso quella esperienza, anche perché proprio in quel periodo si era reso conto di avere un vuoto profondo nella sua solitaria vita quotidiana e che quel vuoto doveva in qualche modo essere colmato.
E fu allora che gli venne in mente la brillante idea di crearsi un’attività parallela e incominciò ad entrare nelle vite private altrui.
Lui era diventato un personaggio inquietante nella zona in cui abitava.
Lo chiamavano l’inglese. Si faceva intravedere qua e là, nelle strade di un quartiere di periferia di quella cittadina del nord Italia e i residenti del posto lo chiamavano così: l’inglese.
Forse per il suo modo impeccabile di vestire: completo grigio ad un petto, camicia bianca, linda di bucato, sembrava ata sotto una pressa per come non si fe notare neanche la più piccola piega o sgualcitura, una cravatta nera a piccolissimi pois grigio chiari che guarniva un collo lungo ed esile e delle scarpe lucidissime.
Ma c’era dell’altro che portava la gente a soprannominarlo così.
Tutta la sua persona, a partire dal suo aspetto fisico per arrivare al modo di apparire distante, freddo, educato e riservato, soprattutto severo, gli aveva fatto appioppare quel sostantivo.
Aveva una folta capigliatura brizzolata, ben ordinata sulla testa, i suoi occhi risultavano alterati dietro gli occhiali dalla montatura sobria ed essenziale e un folto paio di baffi, ingrigiti dall’età, erano lì a camuffare parte della bocca, che ad un occhio attento sarebbe risultata carnosa e ben disegnata.
Camminava con o rapido, quasi fosse sempre in ritardo per un appuntamento, a qualsiasi ora del giorno, al mattino o alla sera, lo vedevano così, con lo sguardo distante e fisso e con il ritmo che sostiene un soldato
durante la marcia.
Portava sempre con sé una valigetta nera, tipo ventiquattrore, e la gente poteva contarci che se c’era lui, c’era anche lei, quasi fosse il prolungamento del suo corpo, quasi fosse la sua amante o il suo più caro amico.
Nessuno lo conosceva nel quartiere, ma tutti lo conoscevano. Non parlava mai con nessuno, ma ad ogni incontro regalava un mezzo inchino e un timido sorriso.
Lo conoscevano le vecchie casalinghe della zona, quando, nelle prime ore della mattina, affaccendate nella scelta di frutta e verdura nel mercato rionale, lo vedevano are in fretta tra un banco e l’altro.
Lo conosceva il proprietario del Bar Antico in piazza che, ogni mattina alla solita ora, gli serviva il solito cappuccino bollente con il solito bicchierino di rhum.
Lo conoscevano i ragazzi delle scuole elementari e delle medie che spesso con boria e alterigia si prendevano gioco di lui, a causa soprattutto di quella cravatta a pois.
Lo conoscevano i maratoneti che marciando al ritmo della musica dei loro walkman tra il verde dell’unico grande parco del quartiere, ne intravedevano l’ombra a riposo, tra le fronde degli alberi e i verdi cespugli, adagiata sulla panchina di fronte alla fontana e sempre lì lo trovavano la mattina presto, su quella panchina.
Nessuno conosceva però il suo nome, né il suo indirizzo, nessuno era a conoscenza della sua vita, se avesse famiglia, parenti, se vivesse solo e di che cosa si occue durante le sue lunghe giornate.
Era lì nel quartiere, tra la gente, ora in piazza, ora nel più solitario vicolo, a eggiare, lui e i suoi pensieri, lui e chissà quali segreti, era lì ovunque, quasi avesse il dono dell’ubiquità.
Era arrivato in quella tranquilla cittadina mesi prima all’improvviso, spuntando così dal nulla, senza fare rumore, ma già solo dopo qualche giorno la gente del posto parlava di lui, con vaga curiosità e un alone di mistero, lanciando qua e là qualche occhiata maliziosa e fuggitiva. Ogni persona nel quartiere contribuiva a vestirlo di identità diverse: ora era forse una spia venuta chissà da dove, ora era un serial-killer in attesa di colpire la prima vittima, ora era forse un agente delle tasse o un evaso da qualche istituto.
Questo era il suo destino, il destino dell’inglese, un soprannome e mille identità diverse.
Cipriani sorride ancora pensando a quella precedente esaltante esperienza. Se solo gli abitanti del suo quartiere avessero saputo che lui era un poliziotto fuori dalle righe, un tutore della legge dalla doppia personalità, come il dottor Jekyll e mister Hide, se solo avessero saputo che lui in quella ventiquattrore, che portava sempre con sé, conservava brandelli di vita altrui, magari proprio di uno di loro, se solo avessero saputo…
Il suono della radiosveglia sancisce la fine di un sonno che non è mai arrivato. Barbara non ha chiuso occhio. La donna è ancora scossa. Ha rimuginato per ore su quello che è successo la notte precedente. Se la telefonata anonima ormai per lei non costituisce più una novità, il messaggio di posta elettronica è molto più
preoccupante. L’indirizzo della sua casella e-mail lo conoscono soltanto i suoi colleghi e qualche amico che non vede da tempo. E poi il nome del mittente, “Persecutore”, la fa rabbrividire.
Si alza dal letto e cerca di resettare i suoi pensieri. Una nuova giornata sta per cominciare e lei non può lasciarsi intimidire da uno stupido messaggio. Il suo lavoro l’attende e il suo lavoro è troppo importante per essere, anche solo minimamente, condizionato da qualche imbecille.
Come tutte le mattine fa una tonificante doccia, beve velocemente un caffè e si prepara per andare in ospedale.
Esce sul pianerottolo e, quasi senza rendersene conto, scruta in tutte le direzioni.
Non c’è nessuno.
“Che stupida,” pensa “a quest’ora non c’è mai nessuno”.
Esce in strada e si avvia verso il suo Porsche Cayenne. Ci sono delle persone che deve scansare ferme davanti al portone.
La donna viene attratta dalla loro presenza. Osservano in direzione dell’ingresso. D’istinto anche lei si volta verso quella stessa direzione.
Guarda e il sangue le si raggela.
Sul portone in legno massiccio c’è una scritta impressa con uno spray di color rosso sangue: “Io ti ucciderò…”.
Cipriani viene attratto dal portone dell’edificio che si apre.
Vede uscire la sua donna. È alta, slanciata, i folti capelli color castano. La segue con lo sguardo. Vede che si sta avviando verso piazza Vittorio.
Nota un capannello di persone davanti ad un portone dall’altra parte della strada poco distante da lui, ma non ci fa caso: è troppo concentrato sul suo obiettivo.
Cipriani scende dall’auto e la segue a debita distanza.
Una volta giunta in piazza, la donna si blocca davanti alla fermata del tram.
Cipriani la imita e si mette a leggere il giornale.
Arriva il tram e la donna sale. Anche il poliziotto sale sul mezzo di trasporto.
Ci sono dei posti liberi e i due si siedono. Cipriani subito dietro alla donna.
Per un attimo la donna si volta e i loro sguardi si incrociano. Ma è solo un attimo.
Cipriani, di nuovo con noncuranza, si mette a leggere.
Dopo una ventina di minuti la donna si alza per scendere. Schiaccia il bottone rosso per prenotare la fermata.
Cipriani aspetta l’ultimo momento. Poi appena le porte si aprono, si alza e scende anche lui.
Continua a seguire la donna, senza farsi notare.
Ma bastano pochi i per capire qual è la destinazione della vittima.
Il poliziotto la segue sin dentro l’edificio, poi vede la donna prendere un ascensore.
A quel punto si ferma. Non può andare oltre, potrebbe insospettirsi.
Nel frattempo, con una microcamera, ha scattato numerose fotografie.
Ha già del materiale sufficiente per aprire il suo nuovo dossier.
“Bene” pensa, “per stamane può bastare”.
Guarda l’orologio. È ora di andare in ufficio.
Barbara è nel Commissariato di Via Giuseppe Verdi, in pieno centro di Torino.
L’ispettore Simone Berardi ha ascoltato con attenzione il suo racconto relativo agli episodi che si sono verificati negli ultimi giorni, ma la sua espressione non nasconde una certa insofferenza.
«Guardi, signora, accadono centinaia di casi di questo genere e le assicuro che, nella stragrande maggioranza, si tratta di gesti isolati, opera di qualche stupido amico che vuole soltanto divertirsi. Stia tranquilla, molto probabilmente lo scherzo è già finito e chi lo ha messo in atto sa di aver raggiunto il suo scopo, spaventandola».
«Le assicuro, signor ispettore,» ribatte Barbara «che io non ho amici così stupidi da non avere niente di meglio da fare che rompere i coglioni ad una loro amica. Qui si tratta di qualcosa di più serio, dell’opera di un mitomane».
«Bene,» l’ispettore si sporge dalla scrivania con tono di sfida «allora se è come dice lei, mi dia qualche elemento, qualche indizio su cui lavorare. C’è qualcuno che lei sospetti possa essere l’autore di questa pagliacciata?».
«Ma cosa ne so? Io non ho alcun sospetto. Non ho nemici. Non conosco nessuno
che possa volermi del male al punto di minacciarmi in casa mia. L’unico che mi viene in mente è il mio ex, Stefano Torrisi. Ci siamo lasciati mesi fa in maniera piuttosto burrascosa. Inoltre c’è un ragazzo della palestra che frequento che mi ha importunata».
«Bene, Stefano Torrisi. Nato dove e quando?» chiede l’ispettore.
«È nato a Torino il 19 gennaio 1963».
«E il ragazzo come si chiama?»
«Non ne ho la più pallida idea» risponde Barbara sconsolata.
Berardi guarda Barbara con sufficienza. «Come faccio a effettuare un controllo se non ho i dati? Verificheremo solo il primo».
L’ispettore Berardi effettua il controllo sul database del computer. Barbara nota che la sua espressione si incupisce. L’ispettore rimane alcuni secondi immobile a fissare il video. Poi lentamente alza la testa. «Mi dispiace signora Mori, ma Stefano Torrisi non può essere il suo molestatore».
«Per quale motivo?» chiede Barbara che ha intuito che c’è qualcosa di strano nelle parole dell’ispettore.
«Il suo ex è morto un mese fa in un incidente stradale. Era completamente
ubriaco. Ha investito un ante e poi si è schiantato contro un muro. Sono desolato…».
Barbara rimane impietrita e non riesce a proferire una sola parola. Quella notizia l’ha sconvolta. Tutto il resto adesso a in secondo piano.
«Mi perdoni, ispettore» quasi si scusa, «ma sono rimasta molto scossa da quello che lei mi ha appena detto. Ci siamo lasciati tempo fa, è vero, ma per me quell’uomo è stato importante. A questo punto non so cos’altro dirle».
L’ispettore Berardi parla con un tono paternalistico. «Sono costernato, non volevo certo darle questa brutta notizia.
Ma ragioni solo un attimo. Non possiamo certo indagare sul conto di un milione di persone a Torino con la speranza di scovare il suo persecutore».
Barbara è frastornata.
«Non potete mettere sotto controllo i miei telefoni per intercettare eventuali nuove chiamate?»
Il poliziotto la guarda come se avesse chiesto la luna.
«Se lo scordi. Le intercettazioni costano care e vengono autorizzate soltanto in casi rari, o comunque se c’è una minaccia seria e conclamata. Nel suo caso
siamo in presenza di una minaccia potenziale senza alcun riscontro».
Barbara si alza, definitivamente rassegnata.
«Va bene, ho capito. La mia presenza qui è del tutto inutile, tanto a voi non ve ne frega un cazzo di quello che capita a noi donne. Quando poi ci scappa la morta, vi fate venire gli scrupoli di coscienza e fate i dibattiti su quello che si poteva o non si poteva fare per prevenire il delitto. Ma tanto poi, dopo qualche giorno, tutto torna come prima».
Il poliziotto risponde con tono comprensivo: «Mi dispiace signora. Purtroppo in questa materia c’è un vuoto legislativo. Mancano le pene certe e i colpevoli godono di una sorta di impunità. L’unica cosa che può fare è sporgere una denuncia contro ignoti per minacce, ma le dico già che servirà a ben poco».
«Lasci perdere ispettore, le evito di riempire degli inutili moduli che finirebbero per marcire in qualche cassetto. La saluto».
Barbara è indignata. Cosa deve succedere per avere un po’ di attenzione da parte della polizia? E se gli episodi dovessero ripetersi? E se lei fosse realmente in pericolo di vita?
Decide in un attimo: deve procurarsi un’arma per l’autodifesa.
Il vicecommissario Alessio Cipriani ha un sussulto. Ha visto Barbara uscire dall’ufficio di Berardi.
La osserva con estrema attenzione allontanarsi nel corridoio. Ha notato sul suo viso un’espressione triste.
Di scatto spegne la sigaretta che stava fumando e si dirige verso l’ufficio del collega.
Apre la porta ed entra.
«Ciao, Cipriani. Cosa ti porta da queste parti?» gli dice Berardi sfogliando le pagine di un quotidiano sportivo.
«Come al solito vedo che sei molto impegnato» risponde sarcastico Cipriani. «Chi era quella donna che è appena uscita dal tuo ufficio?»
«Mah, niente di particolare. Una che afferma di aver subito delle molestie di vario genere da parte di un anonimo».
«E ti ha fatto dei nomi?»
«Pensa, poverina, che il suo principale sospettato era il suo ex che però è morto un mese fa. Mi ha fatto molta pena».
«Ha sporto denuncia?» chiede con noncuranza Cipriani.
«No, ha preferito lasciar perdere. Sai, le ho spiegato che in questi casi abbiamo un po’ le mani legate…». Berardi continua a parlare leggendo i titoli del giornale.
Cipriani lo osserva e sogghigna. «Sì, soprattutto se si imbatte in un poliziotto come te che non ha voglia di fare un cazzo!»
Berardi, senza distogliere lo sguardo, sorride. «Grazie, capo…».
Poi improvvisamente si alza e, senza salutare, esce dall’ufficio.
Cipriani si avvicina e sbircia sulla scrivania i fogli sparsi in un disordine totale. Ne vede uno, accanto al quotidiano, sul quale sono scritti degli appunti:
“Barbara Mori cardiologa presso le Molinette
anni 40
residente in viale Thovez 10
nubile…”
Il resto è di scarso interesse.
Cipriani prende il foglio, lo piega e se lo mette nella tasca interna della giacca.
Ha appena avuto un’intuizione geniale.
11.Torino, 16 settembre 2007 – ore 7.30
Alessio Cipriani ha preso un giorno di ferie e si trova a casa.
Ha un solo pensiero in testa adesso.
Non riesce a dimenticare quella donna che ha visto uscire dall’ufficio di Berardi.
Ha preso una decisione. Non era mai successo prima d’ora. Aveva sempre lasciato al caso la scelta delle sue creature.
Ma questa volta è diverso.
Neanche lui riesce a spiegarsi il perché di questa sua reazione emotiva. Si è più volte domandato cosa lo abbia colpito in particolare di quella donna che ha intravisto per pochi secondi quando è uscita dal Commissariato.
Ma per lui è stato come un colpo di fulmine. In lui è come se fosse scattato un click improvviso, ha provato delle sensazioni mai provate prima, ha scorto per un attimo fuggente un corpo, un volto, un’espressione tanto desiderati nel suo inconscio ma inutilmente cercati fino a quel momento.
Si siede davanti al computer. Accede al file che aveva creato per inserire le informazioni relative all’ultima creatura selezionata e lo cancella con tutto il
contenuto sino ad allora raccolto. È una chiara violazione del protocollo non scritto che si è imposto e che per lui costituisce il modus operandi della sua segreta attività. Ma ha deciso di farlo. Lo deve fare.
Crea un nuovo file e lo denomina “Barbara Mori”.
La sua prossima creatura sarà, per la prima volta, scelta da lui.
È eccitato per la nuova avventura che lo attende, ma allo stesso tempo timoroso.
Sinora lui ha indagato sulle vite altrui in maniera assolutamente asettica, senza provare alcuna emozione nei confronti degli esseri umani oggetto delle sue attenzioni.
Ma teme che, con Barbara Mori, le cose possano cambiare.
Sarà forse quell’espressione triste che ha intuito sul viso della donna. Quella sua richiesta di aiuto, quell’urlo inascoltato che lo hanno soggiogato e lo costringono adesso a occuparsi di lei.
Deve però stare attento. Non può permettere ai sentimenti di prendere il sopravvento. L’attrazione che prova per quella donna non deve condizionare le sue indagini.
I sentimenti sono pericolosi, possono nuocere al rapporto che lui deve instaurare
con la sua creatura, possono far commettere degli errori. E lui non ha mai sbagliato prima d’ora e non può sbagliare proprio adesso. Deve, come sempre, curare ogni minimo dettaglio. Ogni appostamento, fotografia, filmato, intercettazione deve essere condotto con raziocinio. Ogni particolare delle sue battute di caccia deve essere studiato nei minimi particolari. Anche quelli apparentemente insignificanti. I sentimenti offuscherebbero i suoi sensi e lui smetterebbe di essere una perfetta macchina funzionante. Ogni errore potrebbe portarlo al fallimento.
Le sue sono come opere d’arte che vanno plasmate con mano esperta, senza imperfezioni o smagliature.
Si perde un attimo nei suoi pensieri e torna indietro nel tempo, quando era piccolo.
Rammenta quando andava a scuola ed era sempre il primo della classe.
I suoi genitori, entrambi insegnanti in un liceo, erano fieri di lui ed in lui avevano riposto tutte le loro aspettative.
Era il modello da seguire per tutti i suoi compagni di classe. I suoi insegnanti lo portavano sempre ad esempio e quando qualche suo compagno era in difficoltà durante un’interrogazione, lui veniva sempre chiamato per prestargli aiuto.
Tutti si aspettavamo da lui la perfezione perché la sua mente era perfetta. Primeggiava sempre nei test scolastici, era considerato “un’eccellenza”, una mente superiore, un vero genio.
Lui era un genio capace di svolgere a mente operazioni matematiche complesse, lui sapeva ricavare una radice quadrata da un numero a tre cifre quando i suoi compagni di scuola erano ancora intenti a sottrarre il cinque dall’undici.
Era affascinato da tutti i problemi di fisica applicata al viver quotidiano, leggeva libri destinati a ragazzi con un’età maggiore rispetto alla sua e la parola sbagliare non faceva parte del suo vocabolario. Lui non sbagliava mai e regalava ai suoi genitori una soddisfazione dopo l’altra.
Ma poi, con il are degli anni, qualcosa in quel meccanismo perfetto che era il suo cervello, si era rotto.
L’intelligenza superiore era rimasta inalterata, ma erano incominciate a mancare le motivazioni e la voglia di primeggiare.
Il rapporto con i suoi genitori era diventato conflittuale. Erano abituati a vedere un figlio protagonista e non uno studente mediocre che si perdeva nella massa indistinta dei suoi coetanei.
Ma il giovane Alessio non stava bene. Prima qualche crepa e poi una voragine si era aperta nel suo più intimo io, un desiderio represso di evadere dalla quotidianità, di provare nuove emozioni che andassero ben oltre la semplice supremazia sui banchi di scuola.
Fu allora che decise di entrare in polizia, più per sfogare la sua rabbia accumulata nel tempo che per un reale interesse ad aiutare il prossimo.
E la decisione all’inizio sembrò quella giusta.
Alla Scuola di Polizia tornò ad essere il migliore del suo corso.
Chiese espressamente di andare alla Squadra Mobile, di diventare operativo.
Fece velocemente carriera ed era unanimemente considerato un ottimo poliziotto.
Ma durò poco. Di nuovo quella sensazione di indolenza, di insoddisfazione prese il sopravvento. Quel vuoto nel suo animo che lo tormentava, quella mancanza di interesse per ciò che lo circondava. Inoltre la totale assenza di sentimenti da provare nei confronti di una persona dell’altro sesso.
Un ulteriore vuoto che non riusciva a colmare.
Fu allora che decise di dare una svolta alla sua vita.
Fu allora che nacquero le sue creature. Alessio Cipriani sorride ripensando al suo ato, ma le immagini luminose dello screensaver del suo computer lo riportano alla realtà.
Incomincia a lavorare al nuovo file.
Inserisce diverse sottocartelle che via via dovranno essere alimentate con le informazioni che progressivamente saranno raccolte: dati anagrafici, studi compiuti, lavoro attuale e precedenti esperienze, nominativi di eventuali mariti e fidanzati, nominativi dei colleghi, proprietà immobiliari e mobiliari, precedenti penali, sanzioni amministrative, eventuali denunce sporte o subite.
Grazie all’aiuto di un hacker, è riuscito a trovare il modo di connettersi agli archivi della Polizia di Stato dal computer di casa.
Effettua un primo controllo sul conto di Barbara Mori.
Nessun precedente penale.
Nessuna denuncia sporta o subita, solo il verbale dell’interrogatorio condotto da Simone Berardi.
Domiciliata in Torino, viale Thovez 10.
Medico cardiologo dal 1992 presso l’ospedale Molinette di Torino.
Nubile con una relazione pregressa con Stefano Torrisi, denunciato più volte per vagabondaggio e deceduto un mese prima.
Due contravvenzioni per eccesso di velocità, una sanzione amministrativa per ritardato pagamento del bollo auto.
Poi null’altro.
Alessio Cipriani si gratta la testa.
L’uomo non ha dubbi. È venuto il momento di aprirsi un varco nella vita privata di quella donna.
È iniziata la nuova battuta di caccia.
12.Torino, 16 settembre 2007 – ore 20.30
Barbara è di ritorno a casa dopo un’intensa giornata lavorativa.
Vede con sollievo che la scritta sul portone è stata cancellata dalla portinaia. In ospedale non si è confidata con nessuno, ma ha studiato con attenzione i suoi colleghi cercando di capire se l’autore dei messaggi potesse essere uno di loro. L’indagine si è però rivelata subito un buco nell’acqua. Sono quasi tutti sposati, padri di famiglia, persone perbene. Come può uno di loro trasformarsi in molestatore di una donna? Le sembra inverosimile.
È ata in un’armeria e ha acquistato una pistola Beretta PX4 Storm CO2. Essendo una CO2 non necessita del porto d’armi ed ha potuto comprarla immediatamente. La tiene carica nella borsa, con pallini a punta, meno precisi ma più letali.
Un senso d’ansia la pervade. È come se attendesse che da un momento all’altro possa succedere qualcosa.
E quel qualcosa accade.
Rimbomba nel silenzio dell’appartamento il suono del telefono fisso.
Uno, due, tre squilli.
Barbara osserva il cordless con timore. È incerta sul da farsi. Poi come d’istinto si precipita alla finestra e osserva le auto parcheggiate nel viale. Sembrano tutte vuote. Se la telefonata è stata così tempestiva al suo rientro, può voler dire che qualcuno la tiene sotto osservazione.
Il suono del telefono cessa.
Per lei è come una liberazione.
Ma il sollievo è di breve durata. Nuovamente quel suono maledetto e contemporaneamente anche quello del cellulare.
Barbara è sconvolta. Si tappa le orecchie con le mani ed emette un forte grido come per liberarsi: «Basta!».
Prende il cellulare e vede che sul display appare la scritta: “Anonimo”. Risponde.
«Chi sei brutto figlio di puttana?»
«Barbara, ma sei impazzita?» la voce del suo collega Antonio Rigamonti la fa come uscire da un incubo.
«Scusa, Antonio» cerca di giustificarsi Barbara, «ma sto ricevendo delle telefonate anonime e pensavo che fossi il mio molestatore».
«Perché non ci hai detto nulla in ospedale? Magari possiamo darti una mano ad individuare il responsabile di queste telefonate».
«Hai ragione, dovevo parlarvene. Ma sono stata troppo assorbita dal lavoro oggi. Magari domani facciamo due chiacchiere» taglia corto Barbara.
«Comunque volevo solo dirti che ti sei dimenticata di firmare alcune cartelle per le dimissioni di un paio di pazienti. Domattina fallo come prima cosa, altrimenti chi li sente quelli. Sono già pronti con le borse in mano!»
«Oh cavolo, è vero! Sì, lo farò appena arrivo».
«Sei sicura di star bene, Barbara? In tanti anni che ti conosco non ti è mai successo di dimenticarti qualcosa e per di più se si tratta di lavoro». Il tono del collega è realmente preoccupato.
«Stai tranquillo, Antonio. Va tutto bene. È che sono un po’ stanca. Prima o poi doveva capitare anche a me. A domani».
Barbara schiaccia il tasto rosso di fine comunicazione. È stata proprio una stupida. Non può ridursi adesso a temere ogni telefonata che sopraggiunga. Si sente più sollevata. Non fa in tempo a rasserenarsi un po’ che squilla nuovamente il cellulare. “Sarà di nuovo Antonio” pensa Barbara, il collega anziano del reparto che ha sempre avuto un atteggiamento paternalistico nei suoi confronti.
Senza un attimo di esitazione risponde al telefono.
«Pronto?»
Silenzio totale.
Barbara ripiomba nuovamente nel suo dramma personale.
«Pronto?» insiste.
Dall’altra parte nessuna risposta, soltanto, in sottofondo, un leggero respiro.
Barbara decide di prendere l’iniziativa: «Chi sei? Cosa vuoi da me?».
Una voce maschile, chiaramente alterata, ribatte: «Io voglio solo ucciderti, Barbara…».
«Perché? Cosa ti ho fatto?»
«Non potresti capire, Barbara. Tu mi hai fatto del male, molto male. Devi morire, mi dispiace». La voce è cantilenante.
«Non puoi volere la mia morte senza dirmi il perché. Dimmelo, ti prego!»
L’uomo non parla più.
Barbara prova a continuare la conversazione: «Pronto… Pronto?».
Un bip continuo viene emesso dal cellulare e sancisce la fine della chiamata.
Resta un attimo come se fosse in trance.
Alcuni secondi dopo sente il tono di un sms in arrivo. Il mittente è di nuovo 045678360895. Legge il messaggio e rabbrividisce.
Il testo recita: “Un bacio dal tuo persecutore”.
Barbara scoppia in lacrime e si prende la testa tra le mani. È sola. Non ha più i genitori, non ha fratelli né sorelle, non ha praticamente amici. Ma mai come in questo momento avrebbe bisogno di qualcuno che la consolasse, che le desse una mano per rincuorarla. Ma l’attimo di debolezza dura pochi minuti.
Barbara prende dalla borsetta la pistola, la impugna e mormora quanto mai decisa: «Bastardo, io ti ucciderò!».
13.Torino, 17 settembre 2007 – ore 7.30
Barbara esce di casa prima del solito.
Quando varca il portone un senso di ansia la assale. Si volta di scatto e guarda l’ingresso. Fortunatamente non legge alcuna scritta. Si sente sollevata.
Magari il poliziotto aveva ragione. Il molestatore ha già raggiunto l’obiettivo di terrorizzarla e forse per lui può bastare.
Giunge in ospedale abbondantemente prima dell’orario di inizio lavoro. Oggi deve visitare un paziente in condizioni piuttosto gravi affetto da stenosi aortica. Quasi inconsciamente ricorda una recente relazione ascoltata ad un congresso.
“… La stenosi aortica può essere causata dalla malattia reumatica, da un’aorta bicuspide e, in epoca attuale, più frequentemente in Europa e nel Nord America, da un processo di degenerazione e calcificazione dei lembi valvolari. Dati epidemiologici pubblicati in letteratura ci dicono che il 25% della popolazione con età superiore a 65 anni è portatore di una sclerosi aortica emodinamicamente non significativa, ma comunque associata ad un significativo rischio indipendente di mortalità cardiovascolare, che il 3% della popolazione di età compresa tra 75 e 86 anni è portatore di una stenosi aortica critica e il 5% di una forma moderata. La metà circa dei casi è asintomatica…”
Arriva all’ascensore che deve prendere per salire al suo reparto. Non c’è ancora nessuno. Schiaccia il pulsante ed attende. Un flebile suono la richiama dai suoi pensieri per segnalarle che l’ascensore è giunto al pianterreno.
Entra e schiaccia il tasto numero due. Vaga con lo sguardo all’interno del piccolo spazio. Con la coda dell’occhio destro intravede una massa informe di colore rosso che si staglia sulla parete bianca dell’ascensore. Volta lo sguardo in quella direzione e mette a fuoco la figura. È una scritta impressa con un pennarello indelebile.
Barbara legge la scritta: “Io ti ucciderò… -7”.
La disperazione prende il sopravvento. Come colta da un raptus Barbara cerca affannosamente di cancellare con le mani quella scritta, ma inutilmente. Stravolta, si accovaccia nell’ascensore colta da una crisi di pianto. Intanto è arrivata al secondo piano e la porta si apre automaticamente. Sulla soglia c’è un uomo che è in attesa. Barbara lo guarda e si mette ad urlare.
Si sveglia e si ritrova sdraiata in un letto di ospedale. Ha un fortissimo mal di testa. Si guarda intorno e vede seduto sulla destra della stanza un volto familiare. È quello del primario di Cardiologia, il professore Cesare Aimone.
«Barbara… come ti senti?» le chiede con tono ansioso.
«Cesare… mio Dio, cosa è successo?»
«Un infermiere ti ha trovata in ascensore in preda ad una crisi isterica. Sei quasi semisvenuta. Ti abbiamo somministrato una dose abbondante di tranquillante e ti sei addormentata. Hai dormito fino ad oggi pomeriggio. Ma dimmi, cosa ti sta capitando? Sono seriamente preoccupato per te».
«Sono vittima di uno stalker, Cesare».
«Sei vittima di che cosa?» Aimone strabuzza gli occhi.
Barbara abbozza un sorriso. «Scusami, purtroppo qui in Italia se ne parla poco ed il termine è sconosciuto. Sono vittima di un molestatore. Mi sta tormentando con telefonate anonime e minacce. È stato a casa mia ed ora ho scoperto che è stato anche qui, in ospedale. Ho paura, Cesare, ma non so che cosa fare».
«Cristo, Barbara… e chi potrebbe essere? Hai qualche idea?»
«Assolutamente no. Sto brancolando nel buio. Al telefono ho sentito la sua voce, ma era chiaramente contraffatta. Non so chi possa essere e perché ce l’abbia con me».
«Sei stata alla polizia?»
«Sì, ci sono stata, ma non ho concluso nulla. Non c’è in Italia una legge contro i molestatori e la polizia può fare ben poco, almeno questo è quanto mi ha detto l’ispettore con cui ho parlato».
«Hai qualcuno da cui andare, che possa starti vicino insomma?»
Il primario pone la domanda ma conosce già la risposta.
«Lo sai bene, Cesare, che sono sola come un cane. La mia vita è qui in ospedale, ma non posso certo trasferirmi in Cardiologia» è l’amara conclusione di Barbara.
«Forse il molestatore ti conosce bene e ti ha scelta proprio perché sei sola e indifesa» azzarda Aimone.
«Può essere» taglia corto Barbara. Non ha voglia di parlare di quell’argomento. «Comunque grazie per quello che avete fatto stamattina. Adesso, se sei d’accordo, andrei a casa, così mi riposo un po’ e cerco di rilassarmi. Forse».
«Non ci sono problemi, Barbara. Sappi comunque, e parlo a nome del reparto, che se hai bisogno di aiuto noi saremo sempre presenti. Mi hai capito?»
«Sì, ti ho capito Cesare, grazie. Fammi solo un favore. Fai cancellare quella scritta in ascensore».
«Già fatto Barbara, già fatto».
Barbara apre la porta di casa, entra, si toglie le scarpe e si butta sul divano.
È stata per lei una giornata pesantissima.
Rivolge lo sguardo fuori dalla finestra. Il sole sta tramontando.
Chiude gli occhi e cerca di rilassarsi. Sente il bisogno di una doccia. Si solleva a fatica dal divano e si avvia verso il bagno.
Davanti alla porta d’ingresso vede sul pavimento un foglietto di carta che le è sfuggito poco prima. Lo raccoglie e lo gira. Stampato nel mezzo del bigliettino c’è scritto uno strano indirizzo di un sito web e dei dati di accesso:
“www.freesitesnf.cn/xhg/898/new_poll.html
name: barbara
: winner”.
«E questo che cavolo è?» mormora Barbara. Il foglietto lo ha trovato proprio davanti all’ingresso e può essere stato infilato dal pianerottolo facendolo are sotto la fessura.
Il mese precedente, per il suo compleanno, i suoi colleghi le avevano preparato una sorpresa simile. Via e-mail le avevano mandato un indirizzo di un sito web dove aveva trovato un “buono virtuale” per un week-end in riva al Lago Maggiore. Era stato un bellissimo regalo e aveva ato due giorni meravigliosi. Magari, visto quello che era successo quella mattina, i suoi colleghi avevano deciso di farle di nuovo una sorpresa.
Decide che la doccia può aspettare. Va nel suo studio e si siede alla scrivania di fronte al portatile. Guarda il monitor mentre aspetta l’avvio del sistema operativo.
«Spero sia un altro buono per un viaggetto» dice ad alta voce Barbara, per la verità un po’ perplessa e non troppo convinta di quello che ha appena detto.
Quando sullo schermo appare il suo sfondo con le icone, si collega ad internet e digita nella barra di navigazione l’indirizzo trovato sul bigliettino.
Si apre una pagina su sfondo nero, con un titolo bianco in caratteri enormi:
“NUOVO SONDAGGIO: TERMINE SCADUTO
CLICCA QUI PER VEDERE I RISULTATI
SI RICORDA CHE IL VIDEO DELL’EVENTO SARÀ
TRASMESSO OGGI A PARTIRE DALLE ORE 20.30.”
Barbara segue il link e le si apre una nuova pagina, sempre su sfondo nero, con un semplice menù da cui può scegliere:
“1) LE CANDIDATE
2) I RISULTATI
3) VIDEO IN DIRETTA (SOLO PER UTENTI
ABILITATI)”.
Clicca sulla voce numero uno. La connessione ora sembra più lenta. Sulla barra di stato la scritta: “Waiting for www.freesitesnf.cn” sembra bloccata. ano alcuni secondi e la scritta cambia in: “Transferring Data from www.freesitesnf.cn”. Nella pagina che si apre si vedono quattro foto in miniatura che ritraggono delle ragazze in primo piano e Barbara nota subito che la seconda è lei. Sotto le foto la scritta: “Clicca sulla foto di una delle candidate per accedere alla sua pagina” lampeggia vistosamente.
Una sensazione di paura inizia a nascerle improvvisamente dalle viscere. Senza pensarci clicca sulla sua foto e le si apre la “sua pagina”. La paura si trasforma in terrore e la vista le si annebbia mentre vede caricarsi miniature di sue immagini prese di nascosto ovunque: in strada, nei negozi, in ospedale e, cosa che la paralizza del tutto, in casa sua mentre dorme. Sotto le foto c’è il testo con la sua biografia:
“Barbara, 40 anni. Nata a Pisa, vive a Torino da 33 anni. Laureata in Medicina, lavora come cardiologa presso l’ospedale Molinette di Torino. Capelli castani, occhi azzurri. Altezza 1,70 cm circa…”
Il testo prosegue, ma non riesce ad andare avanti. Preme il pulsante back del suo browser, torna alla pagina precedente e sceglie la seconda voce: “I risultati”.
Attende il caricamento della pagina successiva. Pochi secondi, ma le sembrano ore. Alla fine si apre la solita pagina su sfondo nero:
“LA VINCITRICE DI QUESTO MESE È: BARBARA.
CLICCA QUI PER VEDERE L’EVENTO IN DIRETTA
(SOLO PER UTENTI REGISTRATI).
CLICCA QUI PER ACQUISTARE L’ACCESSO.”
«Vincitrice di cosa?» urla Barbara. Sul bigliettino ci sono anche una name e una . Torna alla Home del sito e segue il link per l’evento in diretta. Le si apre un box chiedendole i dati di accesso, digita quelli trovati sul foglietto e attende il caricamento della pagina. Lentamente si apre una sua foto. Sotto vede apparire la scritta:
“LA VITTIMA DEL MESE È: BARBARA, CON 274 VOTI.
METODO DI MORTE SCELTO: IMPICCAGIONE.
CLICCA QUI PER IL VIDEO IN DIRETTA!”
La sua mente già provata non trova nessun appiglio a cui aggrapparsi. Punta il mouse sul link al video. Si apre una finestra su sfondo nero. Attende il caricamento dei dati. Quando compare la prima immagine del video trasmesso in diretta sente un brivido gelido lungo la spina dorsale e si accorge che un goccio di urina le sta bagnando le mutandine. Nel video riconosce lo studio di casa sua ripreso dall’alto: lei è di spalle, seduta davanti alla scrivania che guarda il computer. Dietro di lei un uomo con una corda in mano si sta avvicinando lentamente. Si gira di scatto ma non vede nessuno. Con la coda dell’occhio nota però un gancio sul soffitto che non è mai esistito.
Torna con lo sguardo sul monitor e vede che le immagini sono scomparse. Al loro posto appare una scritta di colore rosso intenso che, sullo sfondo nero, abbaglia gli occhi. La frase è già impressa nella mente di Barbara: “Io ti ucciderò… -7”.
In preda al più totale panico, Barbara prende il portatile e lo scaglia per terra. Urla, urla con tutta la voce che ha in corpo. Poi, affranta, si accovaccia in un angolo della stanza e scoppia in un pianto a dirotto.
Barbara è sdraiata sul letto da ore e continua a meditare. È un fiume di pensieri quello che scorre nella sua mente. Ma uno prevale su tutti gli altri. Le è stato concesso un privilegio che non molti possono avere: conoscere il giorno della propria morte. Forse è per cercare di star meglio e ironizzare un po’ che considera privilegio la peggiore tortura che possa capitare a un essere umano. Barbara ricorda di aver letto di recente un libro che narrava la storia di un innocente condannato a morte. Lo cerca nella pila dei volumi che ha sul comodino e che sono la sua unica compagnia serale prima di prendere sonno e alla fine lo trova. Rilegge un o che l’aveva particolarmente colpita.
“Non c’è nulla di piacevole nel contare le ore che mancano a salire sulla sedia elettrica e l’attesa diventa insostenibile quando sai d’essere innocente ma ti sei rassegnato a pagare al posto di qualcun altro per un crimine molto grave. Morirò per vendicare Peter Messner di cui ormai so vita, morte e miracoli ma soprattutto morte, senza averlo mai visto. Non ho nulla a che fare con quell’uomo, lui ha vissuto tutta la sua vita senza sapere della mia esistenza, è stato ucciso e io morirò pensando a lui… a quel cadavere senza volto che mi sta impresso nella mente dal giorno in cui mi hanno condannato. Non mi hanno neanche fatto vedere una foto dell’uomo che ho ucciso. Mi sto quasi convincendo di averlo ucciso davvero, anche se ricordo bene dov’ero quella dannata sera.
Come potrei scordare Kate, che con la sua voce sensuale e decisa mi chiede di uscire con lei dopo tanto tempo? Andiamo a cena da Terence’s e poi, complice il vino, ci mettiamo a girare in macchina come sedicenni neopatentati, fermandoci a vedere tutto ciò che attira la nostra attenzione. Infine incontriamo un gruppo di vecchi amici e accettiamo di unirci a loro per andare a casa di un certo Carlos, dove “Ci sarà da divertirsi”, dicono. In effetti, ci divertiamo molto, del tutto ignari dell’omicidio che sta avvenendo nella villetta accanto.
Alle cinque del mattino, sono appena rincasato e suona il camlo. Vedendo uno sbirro allampanato e serio davanti alla porta, ho pensato che mi avesse seguito e volesse multarmi per eccesso di velocità o guida in stato d’ebbrezza, invece, dopo avermi chiesto le generalità, ha snocciolato un bel: “Lei ha il diritto di rimanere in silenzio” eccetera e mi ha portato via senza troppe spiegazioni.
Ero ubriaco mentre mi sottraevano per sempre dalla vita.
Tutti i miei compagni di baldoria quella sera avevano alzato il gomito, alcuni erano anche fatti e così le loro testimonianze sono valse quanto il mio dichiararmi innocente.
Chi devo ringraziare di tutto ciò?
Forse Dio, ma lo farò solo dopo che mi avrà spiegato perché ha deciso questo destino per me. Almeno se potessi dire di essermi sacrificato per qualcuno o qualcosa sarei già più soddisfatto, se mi fossi tolto la vita saprei chi incolpare: in questo modo, invece, la mia vita perde ogni significato di fronte ad una morte ingiusta. La colpa è della pena di morte, dei giudici, di chi mi ha incastrato, del mio avvocato o chissà di chi altro.
Fino a pochi anni fa il “braccio della morte” era solo un luogo orribile visto in qualche film e il tema della pena capitale lo avevo affrontato solo a scuola quando mi proclamavo contrario e dicevo che se qualcuno uccide deve soffrire fino a pentirsi per poi star male il doppio e mi atterriva l’idea che la legge possa sbagliare e uccidere degli innocenti.
Credo di averlo scritto in un componimento.
A pensarci mi viene da ridere, scrivevo quelle frasi e poi uscivo a farmi i cazzi miei con i miei amici o a sedurre ragazzine in discoteca anziché farmi sentire, parlare, agire contro una legge davvero bastarda.
Adesso tremo quando mi alzo dalla mia branda bassa, scomoda e fredda come il marmo, tremo anche per la paura che ho di Trevor, il mio compagno di cella.
Trevor è un bel californiano biondo cenere dal volto abbronzato e i lineamenti dolci come il miele che ha ucciso tre persone perché non si sentiva abbastanza
considerato sul posto di lavoro. Lo guardo con timore e lo saluto sempre con tutti i riguardi cercando anche di conversarci perché non si sa mai, potrebbe sentirsi di nuovo denigrato e farmi fuori.
So che è paradossale e inutile ma non voglio morire prima del giorno stabilito, un po’ perché spero ancora che qualcuno mi scagioni e in parte perché ormai mi sono abituato all’idea di morire il venti giugno, dopo aver compiuto trentacinque anni.
La vita qui dentro fa schifo ma oggi forse sarà un po’ diversa dagli altri giorni perché James il Rosso, un guardiano che chiamo così per distinguerlo dagli altri James che conosco in questo postaccio, mi annuncia che, visto che manca poco al “gran giorno” e che mi sono sempre comportato bene, mi concedono di avere un colloquio con qualcuno.
Questo qualcuno, come speravo, è Kate che, bella da mozzare il fiato e felice di vedermi, mi parla attraverso un vetro opacizzato e pure un po’ sporco: «Mi manchi, Mark! – mi chiamo così – Tutti parlano sempre di te e di quanto è ingiusta questa situazione… Hai paura?». Mi sembra una domanda stupida ma trattengo una risposta sarcastica e cerco di cambiare discorso: «Sono abbastanza preparato ma dimmi, non ci sono possibilità di trovare il vero colpevole e dimostrare l’errore prima che sia troppo tardi? Continuo a pensare che tra qualche anno, quando ormai sarò un mucchio d’ossa, arresteranno l’assassino. Sarebbe assurdo, non pensi?».
Kate mi risponde guardandomi dritto negli occhi: «Non ci sono novità e come sai il tuo avvocato ha archiviato il caso. Sicuramente il vero colpevole deve restare nascosto… e poi t’hanno visto uscire da quel cancello e hanno trovato l’arma del delitto nel tuo bagagliaio, come dimostrare che non c’entri nulla? Loro non sanno che Carlos lanciò le chiavi della tua auto nel giardino dei vicini e che solo per questo eri lì dentro…».
Smetto di ascoltare… sono un po’ deluso da Kate, dopo tutti questi anni non vedo più in lei un volto amico pronto a far di tutto per farmi ridere e a svelarmi ogni suo segreto, solo una voce petulante che mi ricorda che devo morire e rassegnarmi a questo. Purtroppo il rumore dei miei pensieri non copre abbastanza quello della sua voce e riesco ancora a sentirla bene. «Ci sono un po’ di cose che non sai di me» dice arrotolandosi una ciocca di capelli intorno all’indice come faceva anche da piccola, quando doveva confessare qualcosa di grosso.
«Adesso sono sposata e ho un bimbo di tre anni».
Facevo meglio a non ascoltare! Io e Kate ci conosciamo da più di vent’anni e la nostra amicizia ha sopportato allontanamenti e crisi, non riesco a credere che mi abbia tenuto nascosto un marito e un figlio… di tre anni. TRE anni…
«Kate, perché me lo hai detto solo ora? Tre anni… Un momento… eri incinta la sera del delitto?»
«No… è successo proprio quella sera dopo che tu sei tornato a casa. Il padre del bambino è Carlos e l’ho sposato perché ci siamo innamorati, ma l’ho concepito ubriaca, questo posso dirlo solo a te!»
«Perché me l’hai detto? Per farmi sapere che mentre mi arrestavano tu facevi l’amore?»
«No… per farti sapere che morirai per non rovinare la mia famiglia».
«Cosa? Non capisco che cazzo stai dicendo… quello stronzo di tuo marito aveva un grosso debito con Peter Messner che è stato una specie di strozzino, anche se la polizia non l’ha scoperto».
«Carlos era stato minacciato, così appena ne ebbe l’occasione si sbarazzò di Peter inchiodando una persona qualsiasi… tu! Non sapevo queste cose durante il processo, ho scoperto tutto ieri».
Oddio è incredibile: sono salvo!
La guardia mi fissa con uno sguardo eloquente e devo salutare Kate: «Fai tutto il possibile e salvami! Va subito dal mio avvocato, spiegagli tutto… tiratemi fuori! Ciao Kate!» esclamo e uscendo dallo squallido locale per colloqui la sento sussurrare: «Addio Mark», lasciandomi nell’orrore.
Addio?
Per quale ragione mi ha detto addio se può salvarmi? Forse è troppo tardi?
Provo a parlarne con il mio compagno di cella ma non ottengo alcun conforto… mille domande si accavallano nella mia testa e non c’è nessuno a cui posso rivolgermi. Posso solo aspettare.
Non sopporto quest’attesa piena d’incertezza anche perché è il diciotto giugno e mancano solo due giorni alla mia fine. Ho chiesto di vedere il mio avvocato o un
giudice… ho chiesto e richiesto di telefonare a Kate ma non mi hanno concesso niente, la gentile risposta alle mie richieste è stata: «Hai già avuto il tuo colloquio con quella bella pollastra, adesso devi solo aspettare di sederti e pagare per quello che hai fatto! Non cercare di trovare cavilli e cazzate varie!».
Venti giugno, cammino verso la morte. Stanotte ho dormito qualche ora, tanto per vivere l’ultimo risveglio della mia vita, non so come ho fatto, penso che nessun detenuto abbia dormito granché durante la sua ultima notte. Io ci sono riuscito anche conoscendo il nome e il volto della persona che dovrebbe morire al posto mio e che è stata salvata dal silenzio della mia migliore amica. Dovrei sentirmi così deluso dal mondo e dalle persone da essere sollevato all’idea di andarmene per sempre, invece vorrei vivere e scappare fuori di qui subito. Non posso farlo adesso.
Mi fanno cenno di sedermi sul “trono fatale” davanti ad un pubblico composto dai parenti di una persona che non ho ucciso. Persone che inneggiano alla vendetta. Una vendetta che sarebbe sbagliata in ogni caso e lo è a maggior ragione stavolta, perché io: «Sono innocente!» grido per un’ultima e disperata volta.
Poi chiudo gli occhi e lascio che tutto sia predisposto e non riesco a smettere di far fluire i miei pensieri come se li stessi scrivendo.
Non avrò la possibilità di mettere per iscritto ciò che mi sta accadendo.
Tra pochi secondi l’elettricità mi farà secco.”
Barbara finisce di leggere la pagina e una nuova sensazione sente prendere vita
nel suo corpo. Una sensazione piacevole e di sfida.
«Io non voglio salire sulla sedia elettrica e non ci salirò» dice a voce alta richiudendo il libro che ha tra le mani.
14.Torino, 18 settembre 2007 – ore 8.30
Barbara ha chiamato la polizia.
Alcuni agenti girano per casa ed ispezionano attentamente le stanze. Sono guidati dall’ispettore di polizia Simone Berardi, lo stesso funzionario incontrato da Barbara in Commissariato, un uomo sulla cinquantina, brizzolato e con uno sguardo intenso e penetrante.
Dopo il sopralluogo, Barbara vede gli uomini confabulare tra di loro. L’ispettore si avvicina alla donna e le dice: «Non ci sono segni di effrazione sulla porta d’ingresso, dottoressa. La persona che è entrata aveva sicuramente le chiavi. Lei ha dato un mazzo di chiavi a qualcuno?».
«Assolutamente no, ispettore. Io conservo due mazzi di chiavi, di cui uno è sempre nel primo cassetto della credenza in salotto».
Con un cenno della testa l’ispettore indica ad uno degli agenti di andare a prendere l’altro mazzo di chiavi. L’agente torna dopo qualche secondo e scrolla la testa. «Mi dispiace, signora, ma nel cassetto non ci sono chiavi».
«Ma è impossibile!» esclama Barbara. «Sono sempre state là».
«Va bene,» sentenzia l’ispettore «diciamo che qualcuno, in qualche modo, si è impossessato del suo secondo mazzo di chiavi. Adesso per prima cosa deve chiamare un fabbro e cambiare la serratura della porta. Inoltre non abbiamo
trovato nessuna telecamera nel suo studio. Probabilmente è stata rimossa dal suo molestatore in sua assenza. Le immagini saranno state chissà quando. Ora mi faccia dare un’occhiata almeno a quello che lei ha visto al computer».
Barbara raccoglie da terra il suo portatile, scagliato la sera prima. Fortunatamente è ancora integro. Lo avvia e recupera il biglietto di carta sul quale è indicato l’indirizzo web. Lo digita sulla barra e schiaccia il tasto enter. Dopo alcuni secondi una pagina si carica ed appare una risposta laconica “Firefox non trova il server”.
Barbara in preda alla rabbia digita più volte l’indirizzo, ma la risposta è sempre la stessa.
«Non capisco,» dice rassegnata, «ieri sera si collegava senza problemi».
«Evidentemente il sito è già stato chiuso da chi lo ha creato. L’ha tenuto in vita giusto il tempo perché lei lo visitasse. Non ha salvato le immagini o il video che ha visto?»
«Purtroppo no» è la mesta risposta di Barbara.
«Senta, signora,» il viso dell’ispettore si rabbuia «senza prove concrete avrò dei seri problemi a convincere il procuratore ad autorizzarmi a mettere sotto controllo i suoi telefoni o a organizzare un qualche servizio di protezione».
«Ma cazzo! Qualcuno è entrato in casa mia e mi sta minacciando di morte! Mi
ha fotografato addirittura mentre dormivo! Cosa vi serve di più per proteggermi? Aspetterete che io sia morta? Quel gancio appeso al soffitto non l’ho certo messo io!»
«Non si agiti, signora» la voce dell’ispettore cerca di essere rassicurante. «Io le credo, ma allo stato attuale non ci sono gli estremi per considerare la sua vita in pericolo. Il gancio di per sé non vuol dire nulla. Potrebbe significare qualunque cosa. Non posso considerarlo necessariamente un messaggio di morte. Comunque, per darle un po’ di serenità, dispongo immediatamente che una volante effettui dei aggi regolari nell’arco della giornata sotto casa sua. Può andare bene?»
«Meglio di niente» mormora con tono sommesso Barbara.
I poliziotti se ne vanno. Barbara ha capito che non potrà contare su di loro. Ancora una volta si ritrova da sola e da sola dovrà affrontare il suo “Persecutore”. D’altra parte, riflette, molto probabilmente è proprio ciò che lui vuole.
Barbara non ne può proprio più. Si sente tradita e delusa, stanca, proprio stanca di questa vita, così grigia e monotona. Niente da segnalare su tutti i fronti. Una patina di grigiore insondabile incombe su di lei, sul suo corpo, sui suoi capelli, nella sua mente e nella sua anima…
Al mattino ormai si alza presto, la sua coscienza la risveglia prima del suono della sveglia ed è come se non avesse dormito per nulla. Fa colazione poi butta uno sguardo al caos domestico che regna intorno ed esce pensando a quante domeniche o sabati pomeriggio avrebbe sacrificato per cercare di renderlo più accettabile.
Ma il caos nella sua quotidianità è molto di più che i piatti da lavare o il bucato steso da una settimana, ormai asciutto e già da rilavare. È il fatto di non avere certezze che la intristisce e la invecchia. Lentamente è diventata consapevole di non averne mai avute, se non la certezza del suo nome, del suo codice fiscale o dell’indirizzo dove abita. Queste sono le uniche cose stabili e certe della sua vita. Ogni due o tre anni è costretta dagli eventi o da padroni di casa incompatibili con lei a cambiare dimora. Le sue relazioni durano poco perché si rivelano anch’esse incompatibili con il suo modo di essere.
E questo è il punto: cos’è il suo essere?
Ultimamente si chiede spesso dove si è persa, dove sia finita quella ragazzina curiosa e determinata, quella sognatrice ribelle dei suoi diciotto anni. Si sente ancora ribelle ma sognatrice e curiosa non più, quanto all’essere determinata al di là dell’ambito lavorativo poi, meno di zero.
Ecco: non ha più l’illusione di avere certezze o di poterle trovare un giorno e non si sente parte di niente. Si sente amorfa, fluttuante, un soffio leggero, uno scivolar via da tutto. Dopo l’incontro con i poliziotti ha deciso di non andare a lavorare – evento quanto mai raro – e di cercare di rilassarsi un po’ andando al mare a Spotorno, in Liguria, luogo che frequentava assiduamente da piccola con i suoi genitori. La stagione balneare è praticamente finita e la località ospita ormai pochi turisti, in gran parte anziani.
Barbara parcheggia l’auto sull’Aurelia e si avvia verso il grazioso budello del paese. eggia lungo le strette vie ed osserva le vetrine dei pochi negozi aperti.
Il mare non è lontano, vuole almeno vederlo, sentirlo. Forse spera
inconsciamente che il mare, l’acqua, possano risvegliarla, permetterle di ritrovarsi, per potersi poi cullare nel suo io più vero e finalmente ritrovare la forza di rinascere o meglio di nascere finalmente.
Si dirige verso il terzo molo e si avvicina all’acqua lentamente, quasi temendone il tocco, v’immerge i piedi e le mani e si bagna il volto. Solleva lo sguardo all’orizzonte respirando profondamente e per un momento lungo e magico si sente una briciola dell’universo, parte di qualcosa.
Ed i suoi pensieri riprendono un percorso normale.
Ripensa alle sue illusioni di un tempo, a quando si prefiggeva ancora degli obiettivi, delle mete da raggiungere e le manca quel sentimento di vitalità. Si sente l’anima ingabbiata, racchiusa dentro un nido di filo spinato le cui punte sono i suoi errori, le sue scelte sbagliate che solo adesso vede reali.
“La miseria umana, la mia miseria” pensa, “sta proprio qui, nel senno di poi”.
Nel capire soltanto dopo anni quanto sia grave la conseguenza di un sì o di un no, detti con la convinzione superficiale di avere in mano il libretto delle istruzioni.
Rivive con la mente immagini della sua vita lontana.
Sì, no.
Quanti ne avrebbe scambiati? E quanti le sono appartenuti veramente? Suoi, suoi della sua anima? Come la maggior parte delle persone, non si è resa conto di quante volte i sì e i no siano stati dettati da convenzioni o tabù, dal non voler ferire o turbare gli altri compagni della sua esistenza. Chissà quante volte ha rinnegato se stessa.
Eccolo, il suo caos.
Oltre al suo nome non sa più chi sia o dove voglia andare. Persa, persa!
Sente tutte le sue spine interiori salirle agli occhi in grosse lacrime e lascia che le scivolino sul viso, impotente. Neanche il suo stesso pianto, un tempo liberatorio, riesce a scuoterla. Sta lì, con i piedi nell’acqua, il viso bagnato, le braccia mollate lungo il corpo e lo sguardo all’orizzonte, morta per il resto del mondo.
Niente la scuote.
Non le sue lacrime né l’onda che le lambisce i piedi.
Così come sono cominciate, improvvisamente, le lacrime svaniscono, senza lasciarle alcuna emozione.
Ora è immobile, una statua fuori e dentro, l’unico movimento che la riguarda è dato dal vento che le scompiglia i capelli e le vesti.
Solo la sua mente fluttua in ricordi di emozioni lontane, attimi significativi, che ora le si svelano come brandelli di verità a lungo e invano cercata, inconsapevolmente posseduta, acquisita al aggio di quell’attimo stesso e subito dimenticata.
La vita è davvero così semplice? Così leggera e inconsapevole?
No, è certa di aver sempre saputo che un giorno sarebbe arrivata a quella riva, a quell’istante in cui ora si trova, a fare i conti con se stessa.
Ha sempre intuito che nelle sue mille insicurezze, ciò che alla fine ha deciso non le è mai appartenuto veramente ed ora sa che in tutte le sue scelte non ha mai pensato a quello che lei voleva davvero.
Eppure ha vissuto così fino a quel giorno, comportandosi come se invece fosse stato proprio così. È come svegliarsi da un lungo sonno. E durante il sonno, la sua vita scivola via.
Ha perso l’attimo giusto per molte cose che non avrebbe più potuto recuperare. Non ha più tempo per realizzare i sogni.
Ripensa al giorno in cui, parlando con qualcuno, disse di avere la sensazione che non avrebbe avuto figli. Ricorda che, al pronunciare quella frase, sentì come una premonizione. Ora sa che sarebbe stato così, inevitabilmente. Ha perso il tempo per poter generare, per trasmettere, forse anche solo parte dei suoi lineamenti, ad un altro essere umano. Questo è ormai uno dei suoi tanti sogni perduti.
“Diventerò vecchia e sarò sola, come la vecchia e pazza Maria, che chiama per nome le sue galline” ricorda di aver detto in un altro giorno e sente quanto sia vicina e reale la solitudine che l’aspetta. Sente chiaramente che non avrebbe lasciato nessun segno del suo aggio, nessuno con gli occhi o la bocca simili ai suoi avrebbe riso o pianto al suo ricordo, non avrebbe lasciato niente dietro di sé perché la sua vita non era stata vissuta, mai, nemmeno da lei. Sente un dolore acuto e improvviso nel suo petto, come se il suo groviglio interno, scattando come una molla, le conficcasse all’unisono tutte le sue spine nelle carni.
Ed in quell’attimo tutto il suo corpo urla.
Barbara torna a casa che è sera inoltrata. Si sente più distesa, più serena. Meditare su se stessa le è stato di molto aiuto e sfogare la rabbia che si è accumulata inconsapevolmente per anni nel suo corpo l’ha liberata dal senso di depressione che negli ultimi giorni l’aveva tormentata.
Sale fino al suo pianerottolo e viene nuovamente scaraventata nell’incubo che sta vivendo. Davanti alla sua porta d’ingresso, appoggiato per terra, c’è un mazzo di rose rosse. Barbara lo prende in mano. Nei fiori non trova nessun bigliettino. Barbara in un primo tempo rimane perplessa, ma poi capisce. Le rose sono sei, esattamente come sono sei i giorni che mancano alla sua esecuzione da parte del “Persecutore”.
15.Torino, 19 settembre 2007 – ore 3.10
L’uomo sta dormendo. Ma il suo sonno è molto agitato. Sta sognando.
Si è risvegliato nel letto di un ospedale. È solo.
Si ricorda ancora il freddo, quel freddo che gli penetra le ossa e lo fa tremare.
E il buio che lo circonda.
Un buio confuso come i suoi ricordi. Sì, sa chi è. Non ha perso la memoria. Ma la domanda a cui non sa dare una risposta è come mai si trovi lì, in un letto d’ospedale, solo.
La sua mente è annebbiata, confusa.
Qualcuno dapprima gli ha detto che ha avuto un incidente in autostrada. Un semplice, banale incidente. Di quelli che capitano a decine tutti i giorni. Non sa dire ora perché, ma a quella spiegazione, semplice e frettolosa, non ha mai creduto.
L’ultimo ricordo che la sua mente mette a fuoco è una lettera. Una lettera scritta a mano. Una calligrafia rotonda, un cuore disegnato in basso con un pennarello rosso.
Un nome. Anna…
L’uomo si sveglia di soprassalto. È madido di sudore e ha un leggero tremolio. Si asciuga la fronte con il lenzuolo ed accende la luce in camera da letto. Ha i brividi, sente che potrebbe avere la febbre. Da un paio di giorni ha un forte raffreddore.
Si accende una sigaretta.
Anna.
Tutte le notti ha un sogno ricorrente in cui la protagonista è sempre la stessa: Anna.
Per rilassarsi, torna indietro con i suoi ricordi al giorno in cui ha conosciuto la sua Anna.
Era quasi l’ora del tramonto. Lui camminava sulla spiaggia senza avere una meta particolare, così, godendosi la luce del calar del sole in una serata di fine estate. La spiaggia sembrava deserta ma, con gli occhi socchiusi per via del sole radente, non riusciva a vedere molto lontano, solo ombre lunghe.
Lei era lì. Sdraiata su un telo di spugna, nell’ombra proiettata dalla splendida chioma di un pino marittimo solitario, lasciava che la brezza proveniente dal mare le accarezzasse la pelle, mentre con gli occhi chiusi si concentrava sul
rumore delle onde che, vicinissime, lambivano la costa sabbiosa di quel tratto di mare.
Lui, continuando a camminare, la vide entrare nel suo campo visivo, dapprima in lontananza, poi sempre più vicina. Aveva i capelli lunghi e neri, la pelle leggermente ambrata, un’espressione rilassata; ogni tanto socchiudeva gli occhi per bearsi della vista del cielo filtrato tra i rami dell’albero che le offriva il riparo della sua ombra.
Quando fu ad un o da lei, lui si fermò e le disse semplicemente: «Ciao».
Lei aprì un solo occhio, il destro, come era solita fare quando aveva il sole negli occhi e senza spostarsi dalla sua posizione, con un’espressione leggermente interrogativa, rispose al saluto: «Ciao».
A lui sembrò naturale sdraiarsi accanto a lei e continuare la conversazione iniziata con tanta semplicità.
«Mi piace guardare il cielo da sotto gli alberi» disse lei.
«Hai ragione, non ci avevo mai fatto caso, è bellissimo» rispose lui.
Quando il sole cominciò a tuffarsi dietro l’orizzonte, lei si alzò a sedere, il viso illuminato di rosso dalla luce del tramonto e, raccogliendo con calma le proprie cose, lo salutò dicendo: «Allora a domani, forse».
«Ok, a domani» disse lui e restò un attimo fermo a guardarla mentre si allontanava a i decisi, l’asciugamano buttato in modo casuale sulla spalla abbronzata.
Lui tornò il giorno dopo, alla stessa ora e la trovò nello stesso posto, nella stessa posizione, questa volta che ascoltava musica da una piccola radio con gli occhi chiusi. Si stese accanto a lei e cominciarono a parlare e intanto che parlavano ava il tempo, la luce cambiava, ma entrambi avrebbero voluto restare lì per sempre, se non avessero dovuto, dopo un po’, tornare alle proprie rispettive vite, che via via diventavano reciprocamente meno misteriose, come pure le loro anime.
Ogni sera si salutavano e andavano via con la consapevolezza di essersi entrati nel cuore un po’ di più, fino a quando il sentimento esplose in tutta la sua pienezza e non fu più possibile per loro fare finta che non fosse successo. Cominciarono a cercarsi anche al di fuori del loro spazio, del loro appuntamento fisso, a sentirsi e a vedersi più spesso. La prima volta che si baciarono fu chiaro per loro che era lì che dovevano andare, che quello era un aggio scritto e nulla avrebbe potuto evitarlo. E tale era l’ebbrezza di stare insieme, che tutto il resto sembrava solo un’attesa, un tempo inutilmente dilatato che aveva il solo scopo di portarli attraverso l’oceano delle non poche incombenze quotidiane di entrambi, verso il porto sicuro del loro essere un solo cuore e una sola anima.
Ci furono anche momenti bui: sere in cui lei lo aspettò a lungo senza vederlo comparire, ferma sotto la pioggia senza curarsi di cercare riparo, si chiedeva incredula come fosse possibile, cosa potesse essere successo per tenerlo lontano. Successe più di una volta, ma ogni volta che uno dei due si allontanava, qualcosa lo costringeva a tornare, il vuoto era troppo grande, i pensieri di solitudine insopportabili, pur nella folla agitata che li circondava nelle rispettive vite.
Una volta lui stette via a lungo e lei fece tutto il percorso della disperazione, la discesa nel pozzo e la risalita, fino a trovare la forza di farsi una ragione, dopo
aver tentato inutilmente di richiamarlo a sé.
Quando era quasi decisa a non tornare più nel loro posto, ad abituarsi alla sua mancanza, una sera lui tornò. Lei non lo aspettava, ma nel vederlo il suo cuore fece un tonfo, i battiti accelerarono e il respiro le si fece affannoso. Lo abbracciò a lungo e quando l’abbraccio si sciolse, lui la guardò dritta negli occhi e le disse: «Devo partire».
«Devi proprio?» chiese lei.
«Sì. È un viaggio che volevo fare da tempo, ho aspettato tanto. Ora non vorrei più, ma è deciso. Tutto è deciso, il viaggio è prenotato, la data fissata. I compagni di viaggio contano su di me».
«Posso venire con te?» chiese lei con l’espressione senza speranza di chi conosce già la risposta.
«No. Non sai quanto mi dispiace» il suo dispiacere era sincero. Stava sorprendentemente annunciando il raggiungimento di un suo obiettivo e il rammarico per averlo raggiunto. La situazione sembrava assurda a lui stesso mentre ne parlava e per questo ancora più dolorosa.
Le comunicò il giorno in cui sarebbe partito, mancava ancora qualche mese. Si guardarono con un interrogativo negli occhi. Se continuare a vedersi e ad amarsi fino all’ultimo giorno, o separarsi da ora per sempre. Lei sapeva che una volta partito non l’avrebbe più rivisto.
Lui le disse: «Io vorrei continuare a vederti, pensaci».
«Va bene» rispose lei girandosi per andare via.
La sera dopo lui andò alla spiaggia e trovò un messaggio che diceva “Sì”.
Continuarono a vedersi e ad amarsi come era stato all’inizio. E fu sempre bellissimo. Indimenticabile. Per entrambi.
«È domani, vero?» disse lei guardando il cielo.
«Sì, è domani» confermò lui guardando verso l’orizzonte, sopra il mare che assumeva un colore grigiastro increspandosi ad ogni alito di vento.
Lei abbassò lo sguardo, come per analizzare ad uno ad uno i granelli di sabbia che in realtà erano troppo vicini perché potesse metterli a fuoco realmente senza l’aiuto degli occhiali… Dopo un silenzio che ad entrambi parve interminabile, aprirono bocca simultaneamente per dire:
«Che cosa farai?».
E istintivamente sorrisero, come succedeva ogni volta che dicevano involontariamente la stessa cosa nello stesso momento, a sottolineare un’identità profonda di pensieri che aveva a volte del soprannaturale. In realtà erano entrambi atterriti all’idea che questo non sarebbe più successo, che le loro strade
si sarebbero divise per sempre, così come divise erano prima di quella serata di fine estate di quasi un anno prima in cui si erano conosciuti. Guardando lui negli occhi si sarebbe potuto indovinare il turbinio di pensieri che si agitava nella sua testa, lo sguardo sembrava lontano ma come sempre vivissimo e profondo, tradiva uno stato di agitazione che non si sarebbe placato facilmente.
Lei aveva gli occhi lucidi, che camuffava col fastidio dovuto al sole e con lo sguardo volutamente abbassato respingeva il pensiero del vuoto che sarebbe rimasto al posto dei contatti quotidiani e di tutto quello che avevano costruito in quell’ultimo anno, nel quale era convinta di aver imparato cosa potesse essere l’amore nella sua connotazione più piena e completa.
Il cielo era plumbeo, nuvole grevi di pioggia si addensavano sulle loro teste, il mare grigio rumoreggiava e il vento soffiava deciso. Si alzarono in piedi, si presero le mani e decisero di lasciarsi con uno sguardo, senza baciarsi e soprattutto senza lacrime.
Lei disse: «Buona fortuna e grazie».
«Grazie di che?» fece lui, vedendo mentalmente scorrere il film di tutti i loro momenti insieme.
«Di essere tu» rispose lei.
Poi gli lasciò le mani, si girò e si allontanò lentamente, senza voltarsi indietro. Lui la guardò a lungo, fino a quando la vide scomparire contro il cielo che andava facendosi via via più scuro. Quando non la vide più, si sedette a terra e pianse.
Il giorno dopo lui tornò al solito posto in spiaggia, la trovò lì che fissava il mare e le disse che non sarebbe più partito.
Rinunciava a un sogno inseguito per anni solo per lei.
Quanti ricordi suscita in lui pensare alla sua donna.
E quanti sogni si materializzano nel suo inconscio durante i suoi travagliati sonni.
Sarà forse il suo smisurato amore per la sua compagna di una vita e la folle paura di perderla che sta facendo materializzare nella sua mente i fantasmi di un ato onirico?
Tutte le pareti della stanza sono tappezzate di fotografie di Anna, scattate nei luoghi più disparati. Tutta la camera è dedicata a lei.
L’uomo deve rilassarsi completamente e ha un solo modo per farlo. Sentire la voce di Barbara Mori e farla soffrire. Così come lei sta facendo soffrire la sua Anna. Afferra il cellulare appoggiato sul comodino. Sostituisce la carta Sim presente nel telefono con un’altra acquistata in Slovenia e non rintracciabile. Digita sul display un numero che conosce a memoria. Schiaccia il tasto verde di avvio della chiamata e attende la risposta.
16.Torino, 19 settembre 2007– ore 3.30
Le tre e trenta del mattino. Il sole sorgerà soltanto fra due ore… e sembreranno eterne, come al solito.
“Dannazione,” pensa Barbara, “è impossibile continuare in questo modo!” Ormai è a un o dalla più totale follia. Se avesse ancora voglia di fare dell’umorismo potrebbe dire di avere una brillante carriera di guardiana notturna al museo di storia naturale. Il fatto è che non ha più voglia di fare dell’ironia, nemmeno un po’. Ultimamente non è di casa nella sua testa.
Dunque… la situazione ha quantomeno del curioso. Chissà se ha ancora un briciolo di serenità mentale per cercare di riordinare le idee e ricostruire gli avvenimenti. Come diavolo è iniziata questa storia? È imperativo raccogliere tutta la lucidità sparsa negli angoli del suo cervello angosciato ed usarla per tentare di spiegare quello che può sembrare in tutto e per tutto un episodio ai confini della realtà.
Notti insonni e giorni ati nel più totale rimbambimento e nella paura che tutto si possa replicare: così è stato fino ad ora. Non seguendo le stesse modalità, certo, non con il medesimo modus operandi, ma è successo.
Come si presenterà questa notte? Sussurri? Rumori strani? O si staglierà la sua ombra sulla parete di fronte al letto? E soprattutto perché sta succedendo a lei?
Ha ato l’infanzia da un pezzo e, le secca dirlo, anche l’adolescenza. È una donna fatta già da qualche anno, anche se non ha poi così tante rughe o capelli
bianchi… giusto per mettere le cose in chiaro.
Insomma è una cosa che capita ai bambini, a quelli cattivi in modo speciale. È la minaccia che si sentono dire più spesso quando non vogliono rispettare il coprifuoco di casa: “Se non vai subito a letto arriverà il Babau a prenderti e ti porterà nel buio dove rinchiude tutti i bambini cattivi che non obbediscono!”, “Dormi oppure il Babau arriverà e ti spaventerà tutte le notti…” e così via.
A pensarci adesso è una vera crudeltà tirare in ballo una creatura mostruosa ogni volta che un figlio si comporta male. Se non crudele, quantomeno esagerata. Ma non si può negare che il Babau funzioni a meraviglia. E ne hanno paura tutti, anche quelli che si comportano bene. È un incentivo a fare sempre il bravo, di modo che non si sia mai costretti ad incontrarlo. La voce si sparge tra i compagni d’asilo come una macchia d’olio e alla fine si può quasi annusare l’odore del terrore che emanano le storie dei piccoli innocenti. In cuor suo ha sempre creduto che i bambini abbiano dentro una buona percentuale di masochismo che, se da un lato li terrorizza, dall’altro li aiuta ad esorcizzare le loro paure in modo impeccabile. È un metodo che funziona a meraviglia, dal momento che storie più paurose di quelle scaturite dalle fervide immaginazioni infantili non se ne sono mai sentite. Lo stesso Babau deve più di un ringraziamento per questioni d’immagine a quelle storie, perché nel corso degli anni persino il suo aspetto è mutato di continuo, fino a che ogni sua forma può essere quella descritta, oppure nessuna di esse. Il Babau è semplicemente l’essere malvagio che punisce i bambini cattivi, la creatura che si nasconde nelle tenebre, la creatura che è parte delle tenebre e le sfrutta per nascondere il suo vero aspetto, altrimenti troppo pauroso per noi poveri mortali.
«Cos’è stato?» mormora improvvisamente Barbara. «Un rumore, l’ho sentito bene!» Le sue orecchie si stanno abituando anche ai rumori più insignificanti. Un tintinnio, è sicura.
“Mi alzo?” pensa. “Devo andare a controllare? Probabilmente non è stato
niente… non vale la pena alzarsi per un tintinnio… Allora se sei sicura che non è nulla perché non vuoi alzarti per controllare? Hai forse paura? Paura di cosa? Tu sai bene che non c’è nulla nel buio! Lo sai da tanti anni! Il Babau non esiste e questa è una realtà! Nel mondo di oggi esistono tanti, troppi mostri reali in grado di fare del male… non abbiamo bisogno di crearne dei nuovi”.
«Ancora!» Un altro tintinnio di camlo! Viene da dietro la porta! Ma non c’è nessuno là fuori!
“Calma!” riprende a ragionare Barbara. Intanto prende dalla borsetta la pistola e la impugna con la mano destra pronta a far fuoco. “Stai calma, per la miseria! Perché sudi così freddo? Può essere il ragazzo dell’appartamento vicino… gli sarà caduta una moneta o una chiave… ma non se n’era andato?”
“Sì,” ricorda. “Si è trasferito la settimana scorsa”. E allora che spiegazione razionale può dare?
“Non esiste una spiegazione razionale! Quel rumore, era lui! Era il suo biglietto da visita di questa notte e tu sai che si sta avvicinando. Sai che sta venendo a trovarti anche questa notte!”
«No! Basta! Così non si può andare avanti!» urla Barbara.
Non può più dare ascolto a tutte le sue voci! Sono diventate troppe e tutte contraddittorie! Ma non la si può biasimare!
Sono notti che non dorme. Che quel dannato Babau non la fa dormire! È costretta a stare sveglia per fare la guardia ed impedirgli di farle del male.
Eccola la spiegazione razionale! È decisamente normale che dopo notti insonni si possano sentire rumori immaginari e magari anche vedere cose che non esistono! È solo una questione di autosuggestione! Solo quella e niente altro. E poi c’è questo maledetto caldo! Una dannata estate che non la fa dormire! Ha sempre sofferto il caldo e l’umidità e quest’anno si fanno sentire pesantemente sia l’uno che l’altra. Ha le gambe tese. Le danno un fastidio che non riesce a descrivere. Non riesce a tenerle ferme, non riesce a rilassarsi! Deve concentrarsi, cazzo! Se continua così perderà il lavoro e non vuole che succeda per una stronzata del genere! Non succederà per una stupida paura da bambina!
“Non c’è niente nel buio! Convincitene!”
Ma quanto dura ancora questa cazzo di notte? E perché è una notte così buia? Non c’è neanche una stella in cielo. Troppo buio! Troppo buio! Non è normale che sia così buio!
“Accendete qualche luce, per favore!” Una piccola luce le basterebbe, una luce piccola come quelle lampadine che si mettevano per non sprofondare la camera nelle tenebre. Lei la chiamava “la luce della salvezza” e non ci rinunciava quando era piccola. Ma quando era piccola, appunto! Ora è grande e non ne ha più bisogno! Ma perché è così buio… deve fare qualcosa. Non può sopportare un altro rumore che non sappia spiegare razionalmente. “Prendo una pillola per dormire?” Non può. Come medico si rifiuta di assumerla. Forse può alzarsi e guardare un po’ di televisione. No, neanche questo va bene… è notte fonda e non è ora di guardare la televisione. Lo sa che non c’è nulla di interessante di notte, a parte gli spettacoli pornografici. Ma che perde tempo a fare? Lei lo sa benissimo qual è la cosa migliore che deve fare adesso! Dormire!
Le palpebre sono pesanti da troppo tempo e gli occhi le bruciano. Non riesce a pensare lucidamente, deve riposare e riposerà. Adesso chiude gli occhi e dorme.
“No… ti prego Dio, no… l’ho sentito bene questa volta… questa volta era più vicino ma non era un tintinnio”.
L’ha sentito bene. È stato lui… sa che si sta avvicinando. Riesce a sentirne la presenza. Può sentire la malvagità che lo permea e sente che la scaglia su di lei. Le fa venire la pelle d’oca. Odia questa sensazione. Una sensazione di freddo insopportabile, come se lui asse accanto a lei.
La coperta! Deve coprirsi tutta… ecco fatto… adesso è al sicuro.
Lo sa, può sembrare assurdo ma ha sempre funzionato anche in ato. Da bambina faceva lo stesso. Tutti lo facevano. Era la loro arma… la loro unica difesa contro la paura che lui incuteva; sotto le coperte lui non può prenderti! Non può arrivare lì sotto! Non può superare quella barriera anche se cercherà di farlo. Si arrabbierà adesso e moltiplicherà gli sforzi per spaventarla, ma non ci riuscirà… è al sicuro sotto le coperte.
Non deve chiamare aiuto, non deve scoprirsi per cercare di uscire dalla stanza perché la prenderebbe subito. Sa che l’aspetta al varco ma non farà il suo gioco.
Le lancette fluorescenti le dicono che sono le tre e quaranta. Deve solo resistere ancora un paio d’ore e poi sarà al sicuro fino a domani notte. Non deve uscire dalle coperte, non deve mettere allo scoperto neanche un capello.
La coperta! Si sta muovendo! È qui! È lui che la muove! La agita per spaventarla! Vuole farle paura! Vuole farla uscire! Vuole portarla nelle tenebre! È il Babau, il Babau!
«Vattene, Vattene! Lasciami in pace! Vai via!» urla nuovamente Barbara.
“Calma, stai calma, può solo fare così, può fare solo i suoi giochetti ma non funzioneranno”.
Un respiro sul suo viso, un altro. Non è vento, la finestra è chiusa. “Fallo smettere! Qualcuno lo fermi! Sono paralizzata… è troppo caldo ed io sono qua sotto per sfuggirgli. Rischio di morire soffocata. Se uscissi e lo affrontassi, forse… non sono più una bambina. Posso combatterlo, vincerei io. Un altro respiro su di me. La coperta si muove ancora. È tutto buio. La notte non finisce mai. La mia notte non finisce mai!”
Non sa se può batterlo.
Forse. Forse può allungare una mano, può raggiungere l’abat-jour e accenderla. La luce lo fa soffrire. Lo può ferire e farlo fuggire. In fondo è facile… piano… se fa piano non se ne accorgerà. Il comodino è vicino. Le basterà un attimo. Un piccolo gesto che manderà via quella creatura! Ma non riesce a muoversi. No. Perché non riesce a muovere nemmeno un muscolo? Lui la sta bloccando con la paura! La sta soffocando con il suo buio!
“Sei una povera pazza! Il Babau non esiste!”
“Esiste eccome! Non tirare via la coperta! È lì! In piedi davanti a me!”
“Non esiste! Non c’è nulla davanti! La stanza è vuota, pazza!”
“Non sono pazza!”
“Oh, sì invece! Non immagini nemmeno quanto!”
“Non sono pazza!”
“Allora accendi quella luce! Liberati della coperta!”
“Non farlo! È lì! È quello che lui vuole!”
“Pazza!”
“Non sono pazza!”
“Pazza!”
“Non sono pazza!”
“Ti prende! Ti ha già preso! Sei già nelle tenebre!”
“È lì!”
“Non esiste!”
“Esiste! È attorno a te!”
“Vattene…”.
“Il Babau ti osserva. Prende i bambini cattivi. Tu sei stata cattiva. Lui lo sa. Non puoi scappare dal Babau, non lo puoi fermare, non ti puoi salvare”.
“Vattene…”.
Un rumore sordo ed uno sparo.
“Cos’è stato?”
“Lui”.
“Scappa, scappa, scappa!”
“Idiota! Ti sei agitata ed hai fatto cadere la pistola per terra! È partito un colpo accidentalmente”.
“Scappa!”
“Forse ce la faresti… ma forse la paura ti prenderà!”
“Scappa!”
“Dove… dove scappi? Non puoi scappare dalla paura. Non arriverà il sole a salvarti. Devi pagare. Sei stata cattiva… devi essere punita”.
“Vattene…”.
“Lui viene a prenderti…”.
“Basta! Vattene! Andatevene tutti dalla mia testa! Non sono pazza! Non sono cattiva!”
No… non è pazza. Sa che non lo è. Sa quello che ha visto. Ha fatto credere a tutti di non esistere. Ma esiste. Lo sa.
L’ha già combattuto, l’ha sconfitto, non poteva più tornare, l’ha ucciso. Ha visto la lama entrare… ha gridato… è morto…
“Che cosa hai fatto! Cattiva, cattiva! Bambina cattiva!”
Lei non è cattiva. Ha ucciso il Babau. Voleva farle del male. Voleva portarla via. L’ha ucciso e ora vuole vendicarsi. Vuole portarla via, nel buio.
“Sei stata cattiva! Ora il Babau viene a prenderti!”
Lo vede.
È in piedi davanti a lei. Non vede i suoi occhi in questa notte senza stelle, ma sa che la sta fissando con odio.
“Cosa aspetti, maledetto! Perché non ti decidi a prendermi! Perché vuoi farmi paura come facesti allora, da bambina?”
Chiude gli occhi. Chiude gli occhi e decide di non riaprirli fino alla mattina. Li tiene stretti, stretti e lui non le farà nulla. Non potrà far entrare la notte in lei. Ha gli occhi chiusi ma le sembra di vederla… la luce… non deve resistere molto tempo ancora… è salva… ce l’ha fatta… l’ha battuto.
È come se vedesse la luce entrare dappertutto ma non deve ancora aprire gli occhi. Lui sa ingannare. Deve aspettare fino a quando ci sarà più luce, ancora di più.
Ha tanto sonno adesso. Le palpebre sono chiuse. Ora sa che può dormire. Può dormire tranquilla.
È un attimo. Il sonno di Barbara dura pochi minuti. Lo squillo del telefono rompe il silenzio e penetra le tenebre.
17.Torino, 19 settembre 2007 – ore 3.50
Il telefono di casa squilla ripetutamente. Il suono emesso dall’apparecchio scuote Barbara e la fa tornare in sé. Esce, come per incanto, dallo stato di lucida follia in cui era piombata durante la notte. Accende la luce, si alza dal letto e si dirige nel soggiorno dove si trova il cordless. Sa già chi la sta chiamando, ma vuole rispondere. Deve rispondere.
È buio, un po’ di luce notturna entra dalla finestra aperta. È fine estate ma il caldo è ancora soffocante. Barbara si a una mano tra i capelli castani spettinati, scuote un attimo la testa ma non riesce a scacciare il torpore del sonno. Il telefono continua a squillare. Barbara finalmente risponde. «Pronto?» la voce tradisce l’ansia che l’assale.
Dall’altra parte del telefono la voce profonda ma un po’ afona di un uomo. Il respiro è faticoso, come se fosse raffreddato. «Ciao, Barbara».
Anche se annebbiata dal sonno Barbara cerca di riconoscere quella voce alterata ma dopo alcuni secondi di silenzio deve ancora una volta rassegnarsi. Non riesce a capire chi possa essere.
«Dimmi una buona volta chi sei e che cosa vuoi».
«Barbara… è del tutto irrilevante che tu sappia chi sono, ma la cosa certa è che io conosco te».
Sentendo queste parole, Barbara ha la tentazione di riattaccare, ma la voce dell’uomo la ammalia. Decide di continuare la conversazione.
«Ma chi cazzo sei? Se non me lo dici riattacco».
«Lo so che la tua curiosità non ti farà mai riattaccare» risponde la voce.
Barbara si stupisce a sentire quelle parole ma si rende conto che è vero, è curiosa di capirne di più. Si mette comoda nel letto, con la schiena appoggiata alla testiera e le gambe rannicchiate vicino al petto.
«Ok, cosa vuoi da me? Oltre uccidermi, ovviamente».
«Parlare, Barbara… soltanto parlare».
«E di cosa?»
«Qualsiasi conversazione tu voglia fare, io sono disponibile».
«Ma cosa stai dicendo? Sei tu che mi hai telefonato!» risponde Barbara bruscamente e un po’ seccata dalle parole dell’uomo. Quello che la spinge a parlare così è la rabbia di non capire.
«Barbara, Barbara, non arrabbiarti; sai, non è signorile per una Madonna alzare la voce e corrugare gli occhi».
«Cosa stai dicendo? E come diavolo parli? Mi paragoni alla Madonna!»
Barbara rimane sbigottita dal modo di parlare dell’uomo al telefono.
«Barbara, non stupirti del mio modo di parlare, certo sarà poco moderno ma è elegante e poi Barbara, non ti ho paragonato alla Santa raffigurazione di Maria, Madonna era il nome con cui erano chiamate le signore di una certa classe nel Medioevo».
Barbara annuisce, anche se rimane stupita da quella spiegazione.
«Senti, però smettila di chiamarmi continuamente per nome, m’innervosisce e poi a te non piace sentirmi irritata, giusto?»
«Sì, Barbara hai ragione, non mi piace che le donne si arrabbino».
Barbara alza gli occhi al cielo sentendosi chiamare nuovamente per nome. Pensa che l’uomo al telefono non abbia capito proprio niente.
La voce dall’altro lato intanto continua.
«A proposito di religione, tu credi in Dio?»
«No» mente Barbara. Lei in realtà è una fervida credente.
«Barbara, perché non hai fede? Perché non credi nel nostro Padre Salvatore?»
«Ma sei un prete? Ti avverto che non mi farai cambiare idea. Ci hanno già provato e non ci sono riusciti». Barbara cerca di scoraggiare il suo interlocutore a parlare di religione.
«No, Barbara, è lontano dalle mie volontà essere un divulgatore della parola di Dio».
«Allora perché mi fai queste domande?»
«Pura curiosità».
«Comunque io non credo per delle ragioni troppo lunghe da spiegare ora per telefono».
Barbara sente che l’uomo all’altro capo fa una piccola risata.
«Che diavolo c’è da ridere?» gli chiede irritata.
«Rido perché credo che tu non abbia una vera ragione e cerchi di liquidarmi con una scusa».
La donna rimane senza parole, sembra che quell’uomo riesca a leggerle il pensiero, ma subito si riprende. «Pensa quello che vuoi» gli risponde con tono indifferente.
«Va bene, cambiamo discorso, non voglio essere la causa della tua arrabbiatura».
Barbara inizia a stancarsi e cerca di trovare un modo per riattaccare. «Senti, io sono stanca, chiudiamo qui la nostra conversazione».
Ma la risposta dell’uomo non è quella che la donna vorrebbe sentirsi dire: «No, è qui che ti sbagli, il nostro dialogo è appena iniziato».
Barbara cerca di non dare ascolto a quelle parole e prova lo stesso a riattaccare ma qualcosa nella sua testa è più forte della sua convinzione e la obbliga a tenere la cornetta all’orecchio.
«Signorina Barbara, ti ho già detto che riattaccherai quella cornetta solo quando io lo vorrò». La voce dell’uomo è quasi un sibilo, si sente che c’è rabbia nelle sue parole anche se il suo tono resta calmo.
Barbara rimane impietrita sul letto, si stringe ancora più forte le gambe al petto ed inizia ad alzare la voce mentre il panico la chiude nella sua morsa gelida.
«Cosa vuoi? Chi diavolo sei? Perché mi segui? Perché mi fotografi di nascosto? Perché vuoi uccidermi?»
«Brami così tanto di darmi un nome? Va bene, dammi il nome che più ti piace, ci sono abituato, la gente mi chiama come vuole».
Barbara rimane sorpresa. «Ma cosa dici? Io dovrei darti un nome?»
«Sì».
«Stronzo! Questo ti va bene come nome?»
«Un nome non molto signorile, considerato anche il fatto che esce dalla bocca di una Madonna così graziosa, ma se a te piace allora va bene».
Barbara annuisce con la testa facendo dondolare i capelli.
«Allora stronzo, di cosa vuoi parlare? Non hai risposto alle mie domande» chiede con rabbia Barbara.
«Speravo di trovare una persona più pacifica, ma non importa, ti capisco, l’orario è proibitivo. Comunque pensavo di parlare un po’ di me giacché tu, milady, non ti sciogli».
«Non me ne frega niente di te!» ribatte convinta Barbara.
L’uomo fa finta di non sentire le parole della donna e prosegue nel suo discorso: «Sai, Barbara, ti ho telefonato per confessarti una cosa orribile che ho fatto e ho scelto di dirla a te perché mi piaci».
«Ma noi non ci conosciamo! Come fai a dire che io ti piaccio? E poi non voglio sentire quello che hai da dire».
Un vento freddo entra dalla finestra aperta, un brutto temporale si sta avvicinando. Barbara rabbrividisce e si copre con il lenzuolo.
«Cosa c’è, Barbara?» nella voce dell’uomo un’ombra di preoccupazione.
«Niente, solo un brivido, sta arrivando un temporale, l’aria è più fredda».
«Sai, Barbara, le leggende popolari dicono che quando si ha un brivido vuol dire che la morte ti ha sfiorata».
Barbara un po’ colpita da quelle parole fa un gesto scaramantico ma poi cerca di non lasciarsi impressionare. «Non preoccuparti, nessuna morte, è stato solo il vento». Ma Barbara sta ancora pensando al racconto che l’uomo le vuole fare. «Avanti dimmi quello che volevi dirmi e dai delle risposte alle mie domande, così posso tornare a dormire».
«Va bene, va bene» acconsente l’uomo. «Non ti credevo così curiosa, sai, la curiosità appartiene alle scimmie, dicono».
Barbara ha la sensazione che l’uomo voglia tirarla per le lunghe e si spazientisce. «Senti, stronzo,» taglia corto, «non mi interessano i detti popolari».
«D’accordo Barbara, se questo è il tuo volere ti accontento».
«Bene, ma muoviti».
«Ora inizio, sai, è un grosso fardello quello che mi porto dentro e non è facile parlarne».
Barbara non ne può più di sentire quell’uomo che ci gira intorno. Chiude gli occhi e butta la testa all’indietro, esausta, sospirando. Ma prima che possa ribattere, l’uomo inizia finalmente il suo racconto.
«Ciò che sto per raccontarti è accaduto circa due anni fa. Ero in auto per le strade della città e fuori c’era un temporale proprio come questa notte».
Barbara guarda fuori dalla finestra. Ha iniziato a piovere e tuoni e lampi squarciano a intervalli il cielo e la notte estiva.
L’uomo prosegue: «La noia mi affliggeva, non sapevo cosa fare e infine decisi di tornarmene a casa. Ma, strada facendo, ad un certo punto vidi un ragazzo lungo
la strada. Non aveva nulla per ripararsi. Il mio cuore mi suggerì che dovevo fare qualcosa, quindi accostai e gli chiesi se aveva bisogno di un aggio. Lui mi ringraziò e salì in macchina».
Barbara non capisce dove voglia arrivare ma inizia ad essere stanca di starlo a sentire. «Senti puoi fare un riassunto?»
«Barbara non correre» le risponde calma la voce dell’uomo. «Dove mi hai interrotto? Ah sì, troppo tardi mi accorsi che il ragazzo era uno sbandato, un delinquente. Sembrava strafatto ed emanava un puzzo insopportabile. Nonostante tutto gli domandai dove dovevo accompagnarlo e mi chiese di portarlo in un parco dove di solito si ritrovano i delinquenti della città».
Barbara approfitta di una pausa dell’uomo per dare un taglio alla telefonata. «Bene, l’hai accompagnato al parco e lì finisce la storia».
Dall’altra parte del telefono l’uomo le risponde con una risata che le fa venire i brividi. «No, Barbara, ascolta, ora viene il bello».
Barbara sente il sangue che le si gela nelle vene. Quell’uomo la terrorizza ma non riesce a riattaccare il telefono. Qualcosa la spinge ad ascoltarlo ancora. In quel momento sente una finestra nello studio che sbatte con forza. Barbara già tesa non riesce a trattenere un grido.
«Cosa succede, Barbara?»
La donna si riprende velocemente. «Niente, credo di aver lasciato una finestra aperta nello studio che tu ben conosci. Vado a chiuderla prima che si rompa».
«Vai, Barbara, chi sono io per distoglierti dalle mansioni di casa tua? Vai pure a chiudere la finestra prima che si rompa».
Barbara appoggia il cordless sul comodino ed esce dalla camera da letto dirigendosi verso lo studio. Attraversa tutto il corridoio dell’appartamento. Non accende nemmeno la luce, cammina spedita e supera la porta aperta che dà sullo studio. Chiude la finestra e torna velocemente in camera. Si butta di nuovo sul letto e prende in mano il telefono.
In quel preciso momento rammenta l’articolo letto su internet a proposito dello stalking e delle precauzioni consigliate alle donne vittime di molestie. Schiaccia quindi il tasto sull’apparecchio per attivare la registrazione della telefonata.
«Pronto, sei ancora lì?»
Dentro di lei spera di no, ma la voce dall’altro lato non si fa attendere: «Sì, possiamo riprendere?».
«Va bene, ma fai in fretta, voglio tornare a dormire».
«Ti stavo dicendo che lui voleva essere accompagnato al parco, ma io non volevo e visto che sono una persona previdente, in macchina tengo sempre un bastone per difendermi e senza farmi vedere da lui lo presi e lo colpii in testa».
Barbara rimane incredula a bocca aperta.
«Lo tramortii» riprende l’uomo. «Il colpo che gli diedi era così forte che gli ruppi la testa, il suo sangue mi stava sporcando l’auto e un forte senso di rabbia nasceva in me. Lo portai in una casa abbandonata fuori città, lo introdussi all’interno e lo legai a una colonna. Fortuna fece che il ragazzo avesse con sé un coltello a serramanico, glielo presi e aspettai che si risvegliasse».
Barbara sbigottita lo interrompe. «Cosa mi stai raccontando? Vuoi farmi di nuovo impaurire? Perché se è così ci stai riuscendo perfettamente, non serve che tu vada oltre». La sua voce era salita di tono, la paura la stava rendendo isterica.
«No, Barbara, te lo racconto solo perché devo confessarmi e ora stai zitta!»
Barbara si zittisce, colpita dalla violenza della voce dell’uomo.
«Quando il ragazzo si riprese gli dissi: “Hai finito di sollazzarti per la città e fare quello che vuoi”. Con il coltello iniziai a tagliargli la gola piano, le sue urla di dolore e panico gli uscivano prima dalla bocca e poi, mentre la gola si lacerava, le urla bagnate e rantolate gli uscivano dalla ferita».
Barbara è spaventata da morire, il suo respiro si fa sempre più affannato, chiude gli occhi con forza, non vuole più sentire, ma l’uomo continua il suo macabro racconto.
«Le lacrime scendevano dai suoi occhi, ormai era in preda alle convulsioni che durarono fino alla sua morte».
Barbara lo interrompe inorridita. «Basta! Che cazzo vuoi da me? Perché vuoi farmi paura?»
«Cosa voglio da te? Non ti ricordi? Due anni e mezzo fa sei stata violentata, dalla legge non trovasti giustizia e hai pagato un uomo perché ammazzasse il tuo aggressore, quell’uomo ero io e adesso ti ho descritto come è morto l’uomo che ti ha fatta soffrire, ora sono qui per avere la mia ricompensa».
Barbara non riesce a trattenere i singhiozzi. «Tu sei completamente pazzo! Io non ho subito nessuna violenza e non ho pagato nessuno per vendicarmi!»
L’uomo prosegue come se non avesse sentito le parole di Barbara. «Dei soldi non me ne faccio nulla, io voglio la tua anima».
Barbara smette di piangere, non è sicura di quello che ha sentito o forse non vuole crederci. «Cos’è che vuoi?» chiede con un filo di voce.
«Te lo ripeto. Io voglio la tua anima, ho diritto ad avere la tua anima». È una voce cantilenante quella che parla ora al telefono.
«Tu sei malato! Sei un pazzo! Lasciami in pace, ti prego!» Barbara non riesce più a controllare la paura che le fa stringere convulsamente le lenzuola.
«No, Barbara, la tua risposta è sbagliata, devi dire di sì, hai capito?»
Un rumore attira l’attenzione di Barbara, alza gli occhi verso la porta e tende le orecchie. Sente dei i che si avvicinano.
«Li senti i i, Barbara?» chiede l’uomo al telefono.
«… Sì» solo un sussurro esce dalla voce della donna.
«Sono io, Barbara, e vengo da te, hai capito? Barbara, Barbara, il tuo nome mi piace da impazzire».
Barbara è terrorizzata, la paura la tiene inchiodata al letto, non riesce a muovere nemmeno un muscolo. Inizia nuovamente a piangere disperata. «Basta, lasciami in pace ti supplico!»
«Dammi la tua anima e l’incubo avrà fine» dice l’uomo con il suo tono mieloso.
Barbara non regge più alla tensione e schiaccia il tasto sul cordless di fine comunicazione. È stata una telefonata agghiacciante. È stato capace di suggestionarla con qualche artifizio telefonico. In casa non c’è nessuno e nessuno si sta avvicinando a lei. E poi quella storia della violenza e dell’omicidio.
Barbara è depressa. Come potrà uscire da questa vicenda?
La risposta arriva dopo qualche secondo. Un sms viene ricevuto dal suo cellulare. Barbara lo legge e rabbrividisce.
Il testo recita: “Io ti ucciderò… -5”.
Ormai è rassegnata: questa storia potrà finire solo con la sua morte.
18.Torino, 19 settembre 2007 – ore 8.30
Barbara è nel suo studio e sta osservando la sua agenda degli appuntamenti.
Qualcuno bussa alla porta dello studio. Barbara distoglie lo sguardo dall’agenda e si irrigidisce. Ormai tutti i rumori inattesi le provocano uno stato d’ansia. «Avanti» pronuncia con un filo di voce.
Entra il dottor Ivan Zorzi, uno specializzando che lavora in reparto da un paio di mesi.
«Ciao, Barbara» dice senza alcun tipo di impaccio. «Il capo mi ha detto che devo affiancarmi a te questa mattina durante il giro delle visite». Parla come se non sapesse nulla di quello che è successo a Barbara. O almeno, così pare alla donna. La voce dell’uomo è inoltre nasale e tradisce una non celata costipazione.
Un brivido attraversa la schiena di Barbara. Sente le mani e le gambe che tremano. La sua voce è incerta.
«… Va bene, Ivan, per me… non c’è problema. Ma… scusa, sei raffreddato?»
«Sì, Barbara. Si sente?» dice sorridendo.
«Abbastanza. E… da quando?» azzarda la donna.
«Solo da un paio di giorni» risponde Ivan. «Perché, scusa?»
La domanda del medico manda in confusione Barbara. «No… niente… pura curiosità… Ci vediamo… dopo».
«Va bene, a dopo» conclude il medico. Esce dallo studio e richiude la porta.
Barbara rimane di nuovo sola. È pensierosa. Che sia Ivan il suo “Persecutore”? In fondo cosa sa di quell’uomo? Nulla. È in reparto da poco, è una persona schiva e introversa che non ha fatto amicizia praticamente con nessuno. L’identikit perfetto di un possibile molestatore.
Barbara prende dalla borsetta il bigliettino da visita dell’ispettore Simone Berardi e decide di chiamarlo.
«Perché non ci ha detto nulla delle ultime telefonate?» dice con un tono di rimprovero l’ispettore.
«Sarebbe forse successo qualcosa, ispettore?» risponde Barbara indispettita.
L’ispettore è in difficoltà: «Beh… forse no, la nostra richiesta di mettere i suoi telefoni sotto controllo è ancora alla firma del Procuratore. Però… con nuovi elementi… forse avremmo potuto…».
Barbara lo interrompe brutalmente: «Senta, ispettore. Lei vuole dei nuovi elementi e io le telefono per darglieli. Le ho fatto il nome del mio collega sul quale nutro qualche sospetto. Ho registrato una parte della telefonata che ho ricevuto questa notte dal molestatore durante la quale mi ha minacciata apertamente. Farete qualcosa, Santo Dio?».
La risposta è di quelle che deprimerebbero un clown.
«Senta lei, dottoressa. Il fatto che il suo collega sia raffreddato non significa assolutamente nulla. Non possiamo sospettare di tutti coloro che a Torino hanno un raffreddore, Cristo! Deve esserci qualche altro indizio ben più significativo per avviare un’indagine sul conto di una persona. Per quanto riguarda la telefonata ne terremo conto, stia tranquilla, per velocizzare l’iter di approvazione delle sue richieste. Per ora non posso fare altro. Spero che lei capisca. Mi dispiace».
Barbara riattacca il telefono senza salutare.
Nel frattempo è arrivata una e-mail di Ludovica.
“Scusa Barbara se non mi sono fatta più sentire, ma ho il bambino con la varicella e mio marito è fuori città per lavoro. Sono veramente incasinata. Non ho neanche potuto prendere ferie. Spero che la tua situazione sia migliorata. Appena ho un attimo di tempo libero ti chiamo.
Ciao, Ludovica”.
Barbara rilegge numerose volte il messaggio e giunge ad un’amara conclusione: adesso è veramente sola.
Dopo il giro di visite in corsia, Barbara decide di restare con Ivan. Se è lui il “Persecutore”, si ripete, finché si trovano in ospedale non potrà farle nulla.
«Ti va di prendere un caffè insieme?» Barbara è quanto mai decisa.
«Perché… no?» risponde Ivan tentennando.
Davanti alla macchinetta del caffè Barbara abbozza un tentativo di conversazione.
«Senti, Ivan, noi ci conosciamo poco. Visto che lavoriamo nello stesso reparto, mi piacerebbe sapere qualche cosa in più sul tuo conto. Dove abiti?»
«Fuori Torino» è la risposta laconica di Ivan.
Barbara non demorde: «Sei sposato, fidanzato?».
«No, vivo da solo».
Barbara si rende conto che quella conversazione non è affatto gradita al suo
interlocutore. «Scusa non voglio essere invadente, è solo per fare uno po’ di conoscenza».
«Avremo sicuramente altre occasioni per conversare, adesso devo tornare al mio lavoro. Ci vediamo». Il medico tronca brutalmente il colloquio.
Barbara rimane con il bicchierino vuoto del caffè in mano e osserva il collega che si allontana. Una domanda la tormenta: chi è in realtà Ivan Zorzi?
19.Torino, 19 settembre 2007 – ore 19.45
Una punto blu è parcheggiata davanti al numero 10 di viale Thovez. All’interno dell’autoveicolo c’è Alessio Cipriani che sta fumando una sigaretta.
Pensa a quanto sia beffardo il destino. La creatura selezionata dal suo computer abita soltanto a poche decine di metri di distanza. Adesso lui ha troncato quell’indagine per concentrarsi su Barbara Mori, un’altra donna che vive, ironia della sorte, nella medesima via. Una città di oltre 1.000 km quadrati di estensione tutta racchiusa in un microscopico lembo di territorio.
Cipriani sta meditando sulle sue prossime mosse da compiere. Prima di tutto deve imparare bene a conoscere le abitudini e gli spostamenti della sua donna. Poi deve scavare un po’ nel suo ato, raccogliere notizie sul conto della sua famiglia, rintracciare i suoi compagni di scuola e di Università, scoprire le identità di coloro che hanno avuto una relazione con lei almeno negli ultimi dieci anni, indagare sul conto dei suoi colleghi di lavoro.
Tramite un suo amico in questura, che gli doveva un favore, è già riuscito ad entrare in possesso dell’intero organigramma del reparto di Cardiologia. Sarà una ricerca lunga e laboriosa. Ma lui non si spaventa di certo. Dorme già poco di notte. Adesso dormirà ancora meno.
Probabilmente sarà necessario entrare in casa di Barbara Mori. Forse anche nel suo studio in ospedale.
Cipriani ha un sussulto. Un Porsche Cayenne parcheggia dall’altra parte della
strada.
Vede la dottoressa scendere dall’auto e avviarsi verso la porta di casa.
L’uomo controlla l’orologio: sono le 20.30.
Finalmente a casa. Stanca, di pessimo umore, parcheggia e ripone le chiavi del Porsche nella borsa. Sovrappensiero, si dirige verso il portone. Riordina le idee che si affacciano caotiche nel suo cervello cercando di dipanarsi nell’oscuro labirinto che dimora in lei. Quasi senza rendersene conto si ritrova nel suo nido. È la sua casa, il suo rifugio, la sua Itaca, la sua trincea. Accogliente e confortevole, si apre su un ampio ingresso per poi proseguire in un lungo corridoio ai lati del quale si trovano due stanze da letto, lo studio, una cucina comunicante con il soggiorno, un bagno.
E un piccolo sgabuzzino.
L’ha sempre inquietata quella stanzetta buia, stipata di inutili pezzi di un vissuto da cancellare. Il ricordo del Babau riaffiora e con lui riemergono la paura e il desiderio perverso di incontrarlo, al buio, in quel ripostiglio, sua segreta e infernale dimora. Un incubo che l’ha accompagnata per tutta la fanciullezza e che ora la perseguita. Lui era sempre là, negli sgabuzzini di innumerevoli case, ad aspettarla, una costante e sinistra minaccia. Avvertiva la sua presenza, nascosto nelle tenebre della stanza buia, ammantato di nero, gli occhi ancor più neri del male che spuntavano minacciosi da sotto la larga tesa del cappello e labbra sottili, ripugnanti e malvagie che si schiudevano oblique in un ghigno beffardo e spietato.
Il cellulare squilla e la riporta alla realtà.
«Pronto» risponde Barbara con voce assente.
«Ciao Barbara, sono Cesare. Vieni a cena da noi stasera? Lo so, è un po’ tardi, ma oggi mi sono completamente dimenticato di dirtelo in reparto».
«No, grazie Cesare. Sono stanca e ho sonno. Vado a dormire presto. Grazie, a domani» replica neutra.
Sarebbe rimasta sola e un po’ le dispiace.
Si sveste e si trascina in bagno. Indossa maglietta e calzoncini e si siede svogliatamente a tavola. Un generoso bicchiere di Grignolino è l’unico amico di una cena solitaria.
Si stende sul divano e accende il televisore. a da un canale all’altro e alla fine decide di vedere il solito reality.
Senza rendersene conto si addormenta.
È ata mezzanotte quando sente un rumore. Il suo udito è diventato molto sensibile. Si sveglia e scorge un’ombra fuori dal balcone al piano rialzato. Si gira di scatto ma vede solo il buio della sera. Eppure qualcuno la stava guardando.
Si alza.
Un altro rumore proviene dalla stanza attigua e ora distingue una sagoma scura dietro i vetri. Assalita dal panico corre ad abbassare le tapparelle. Il terrore la paralizza quando vede la portafinestra del balcone del soggiorno socchiusa.
Tutto è dilatato.
Pur correndo si ritrova sempre allo stesso punto, la distanza aumenta. Deve farcela, deve essere più svelta di lui. Il cuore batte all’impazzata, se non lo anticipa entrerà in casa. Afferra la maniglia e spinge ma una forza la contrasta. Si appoggia con tutto il peso. Ce l’ha fatta. E mentre si assicura di aver chiuso bene la portafinestra, immagina lo sguardo maligno del “Persecutore”, il suo ghigno orrendo. Sente la sua voce, roca e cupa: «Ciao Barbara, sono venuto per te».
Si trova in mezzo alla casa, tutto le ruota attorno, non riesce a organizzare i pensieri.
“Cosa faccio adesso?”
Ricontrolla finestre e tapparelle. Tutto è serrato. Ora che è al sicuro può pensare. Telefonerà a qualcuno per chiedere aiuto. Ma a chi? E per cosa? La prenderebbero per una pazza in preda a una crisi di nervi. Al diavolo per cosa la prendono. Dove ha messo il cellulare? Si precipita in cucina. Sul tavolo non c’è e non è nemmeno sulla credenza. Ma dove l’ha cacciato? Ma certo, nella borsa!
Rovista frenetica ma non lo trova. Rovescia tutto. Nulla. Sarà nella tasca laterale. Apre la zip. Non è nemmeno lì. Deve pensare. Deve ricordare. Pensare e ricordare…
Calma.
La tasca della giacca, ecco dov’è! Lo trova subito. Non riesce a coordinare i movimenti… ma quanto sono scomodi questi touch-screen! Cerca di dominare il tremito delle mani, quando sente un rumore alla porta d’ingresso. Lascia cadere il telefono, non ha chiuso a chiave, deve farlo subito. Le chiavi erano nella borsa, saranno sul pavimento insieme al resto. Eccole. Le mani tremano ancora, non obbediscono a nessun comando. Deve prendere la grande, quella lunga e stretta. Prova a infilarla nella toppa ma la mano non è ferma e la chiave non entra. Le dita tremano. Perché diamine non entra la chiave? Oddio, c’è già qualcosa infilato dall’altra parte! La porta si muove. Le cadono le chiavi e prima che se ne renda conto, la porta si apre.
Barbara corre verso la camera da letto e si chiude a chiave all’interno di essa. Apre il cassetto del comodino ed impugna la pistola. Controlla di aver tolto la sicura e che sia pronta a far fuoco. Attende, accovacciata dietro al letto, un paio di minuti, ma non succede nulla. Improvvisamente vede la maniglia della porta che si muove. Qualcuno sta cercando di entrare. Barbara prende la mira e incomincia a far fuoco. I pallini della pistola CO2 bucano il legno della porta e si conficcano nella stessa. Barbara spera che l’uomo si sia spaventato e sia fuggito. La maniglia della porta rimane immobile. Barbara resta in posizione di tiro per diversi minuti, poi decide di uscire dal suo nascondiglio. Si avvicina alla porta della stanza.
È indecisa sul da farsi.
Poi con circospezione la apre. Si affaccia sul corridoio e non vede nessuno. La porta di ingresso è aperta. Nonostante abbia cambiato la serratura, quell’uomo è riuscito di nuovo ad entrare.
“Ma come cazzo fa?” pensa con rabbia Barbara.
La casa è di nuovo vuota. L’uomo se n’è andato. Barbara si guarda intorno e la vede. C’è una scritta sul muro sinistro del corridoio impressa con uno spray.
Il colore è sempre lo stesso: rosso sangue.
La scritta recita: “24 settembre 2007…”.
Barbara la rilegge più volte. Capisce immediatamente il significato di quel messaggio: 24 settembre 2007, esattamente tra quattro giorni.
La data della sua morte.
È ata mezzanotte e Alessio Cipriani osserva la finestra dell’appartamento di Barbara Mori. La luce è ancora accesa. Un sorriso appare sul volto del poliziotto. Evidentemente la dottoressa soffre d’insonnia come lui.
Ad un certo punto gli pare di sentire alcuni colpi attutiti provenire da quell’edificio.
Il suo sesto senso gli dice che sta succedendo qualcosa. Non fa in tempo a scendere dall’autovettura, quando vede un uomo vestito di nero uscire dal portone e mettersi a correre in direzione di piazza Vittorio.
L’azione dell’uomo è stata troppo veloce e ha colto Cipriani totalmente impreparato. Non ha fatto in tempo a vederlo in volto.
Chi era quell’uomo? Da dove veniva? Avrà avuto a che fare con la storia delle molestie subite da Barbara Mori? E potrebbe essere successo qualcosa alla donna?
Ora il poliziotto è di fronte a un bivio. Non sa che cosa fare.
I suoi doveri istituzionali gli imporrebbero di intervenire per verificare che cosa è successo.
Ma incontrare adesso Barbara Mori significherebbe rinunciare alla sua attività di indagine segreta appena iniziata.
E lui non vuole per nessuna ragione al mondo rinunciare a quella indagine. Deve rischiare. Se è successo qualcosa alla donna, lo saprà il giorno dopo in centrale.
Ha deciso. Risale in macchina e si allontana dirigendosi verso il centro cittadino.
20.Torino, 20 settembre 2007 – ore 6.20
Barbara è sdraiata sul divano in soggiorno. È rimasta lì tutta la notte con le luci accese, barricata in casa. La pistola a portata di mano sul tavolino di cristallo. Ha ato le ore a meditare. La situazione è divenuta insostenibile. Quell’uomo la sta uccidendo mentalmente, prima che fisicamente. Non può più restare in quella casa. È indifesa e alla mercé del suo “Persecutore”.
Ma dove andare? A chi chiedere aiuto? Alla polizia forse? Le direbbero che non hanno indizi, che non hanno prove, che non hanno riscontri e bla, bla, bla. Il loro consiglio più prezioso sarebbe probabilmente quello di suggerirle di cambiare la serratura della porta. Come se cambiare la serratura della porta possa rappresentare la panacea di tutti i mali.
Forse potrebbe telefonare alla sua amica Ludovica per ascoltare una voce di conforto. Ma esclude subito questa ipotesi. Non vuole coinvolgerla anche perché lei è troppo impegnata con il suo bambino e non potrebbe esserle di nessun aiuto. Barbara ha un chiodo fisso nella testa: Ivan Zorzi.
Deve assolutamente sapere qualcosa di più sul conto di quell’uomo. Per ora è solo una sensazione, ma l’atteggiamento del collega non la convince. Ha elaborato un piano e lo metterà in atto questa mattina in ospedale.
Sono le 13.00. È l’ora in cui gli specializzandi vanno a pranzare alla buvette dell’ospedale.
Barbara si avvicina al loro studio. Come sperava è vuoto. La donna si avvicina
velocemente alla scrivania di Ivan. Purtroppo il computer ha lo schermo bloccato. Non importa, era prevedibile. Si volta quindi verso l’appendiabiti. Riconosce l’impermeabile di Ivan. Spera di essere fortunata e lo è. In una tasca interna trova un portatessere. All’interno c’è la carta d’identità. È recente. È stata rinnovata un paio di mesi prima. La legge. Nome e cognome, data di nascita… residenza: Torino, piazza Robilant 6.
Ma non aveva detto di abitare fuori città? Primo indizio a suo carico.
Ma quello che lascia più allibita Barbara è “lo stato civile”. Recita: coniugato. Ma non aveva detto di essere single? Secondo indizio a suo carico. E se due indizi fanno una prova…
Va alla fotocopiatrice e fa una copia della carta. Poi fruga ancora nelle tasche dell’impermeabile e trova le chiavi di casa. Bingo! Non sono le chiavi di una porta blindata protette da codice.
Esce di corsa dall’ospedale e si dirige ad una ferramenta in via Nizza che fa orario continuato.
Deve fare in fretta, ha solo un’ora di tempo.
Ordina un duplicato delle chiavi e fa ritorno in reparto. Sono le 13.50, ancora in tempo. Entra trafelata nello studio degli specializzandi e rimane pietrificata. Ivan Zorzi è seduto alla sua scrivania e sta lavorando al computer.
Il medico osserva Barbara con uno sguardo interrogativo.
«Ciao Barbara, che ci fai qui? Hai bisogno di qualcosa?»
La donna cerca di mantenere la calma e dice la prima cosa che le viene in mente: «… Sì, ciao Ivan… cercavo Cecilia… l’hai per caso vista?».
«Non è ancora rientrata dal pranzo, mi dispiace. Posso esserti di aiuto?»
ano alcuni secondi pieni di imbarazzo. Barbara non sa cosa dire. Deve trovare il modo di riporre le chiavi originali nell’impermeabile.
Improvvisamente ha un’intuizione. «Visto che sei al computer, mi guardi per favore se è uscito l’ultimo numero di “Cardiology”?» e così dicendo si avvicina alla scrivania di Ivan.
«Volentieri» risponde il medico.
Barbara si posiziona accanto a Ivan di fronte al computer. L’appendiabiti è alle loro spalle. Senza farsi accorgere, allunga la mano destra all’indietro e infila le chiavi nella tasca dell’impermeabile.
«Mi spiace, Barbara, ma non è ancora uscito. Ci sarà all’inizio della settimana prossima».
Barbara è sollevata, ha portato a termine la sua missione. «Non importa Ivan, grazie lo stesso». Dopo aver pronunciato quelle parole, saluta il collega ed esce dallo studio.
Ivan la osserva pensieroso e si domanda perché abbia inscenato quella commedia.
Barbara è appostata da circa un’ora davanti al portone del civico numero sei di piazza Robilant. Sono le 21.30: se Ivan non esce nell’arco di una mezzora, la serata si potrà considerare buca.
Ed ecco che il portone si apre, Barbara vede Ivan che varca la soglia e si dirige verso la sua auto. Attende che metta in moto e vada via, poi scende dal Porsche e si dirige verso il palazzo. Estrae dalla borsa la copia delle chiavi e, dopo alcuni tentativi, trova quella che apre il portone d’ingresso. Sulla targhetta è indicato solo il nome di Ivan Zorzi, al terzo piano. Barbara opta per le scale e si dirige all’appartamento del collega. Giunta davanti alla porta, prende la chiave più lunga e la infila nella toppa. La porta si apre. Barbara accende una potente torcia che si è portata dietro ed incomincia a scrutare l’interno dell’alloggio. Sembra di piccole dimensioni. Intravede la cucina, la camera da letto e quello che dovrebbe essere il bagno. La sua attenzione viene però attratta dall’ultima stanza in fondo al corridoio a sinistra. Ha la porta chiusa. Barbara si dirige verso di essa, apre ed entra. Sembra un piccolo studio. Il fascio di luce illumina una scrivania, un computer e un televisore. Poi Barbara indirizza la torcia verso le pareti. Il sangue si gela.
Sulla parete dietro la scrivania sono appese numerose foto che la ritraggono in diversi luoghi: in ospedale, davanti a casa sua, al ristorante. Inoltre è appesa una foto di grandi dimensioni che ritrae tutto il personale del reparto di Cardiologia. È stata scattata in occasione delle ultime feste natalizie. Il suo volto però è stato
estrapolato e ne è stata fatta una gigantografia che campeggia sulla parete sopra le altre immagini. Barbara è inorridita. I suoi sospetti erano fondati. Ha scovato il suo “Persecutore” e mai avrebbe immaginato che fosse a lei così vicino. Decide di uscire da quella casa degli orrori e di andare immediatamente alla polizia. Si volta di scatto, ma sbatte contro un corpo. Terrorizzata alza la torcia e illumina verso l’alto. Quello che vede la fa piombare nella più totale disperazione.
Ha appena illuminato il volto di Ivan Zorzi.
Ivan accende la luce nella stanza. Barbara non attende un attimo, gli dà una gomitata e lo sposta da un lato, poi si mette a correre cercando di guadagnare l’uscita. Ma il medico non si fa cogliere impreparato. L’afferra per un braccio, la strattona violentemente e la fa cadere per terra. Nella caduta Barbara perde la borsa che rotola sul pavimento ad alcuni metri di distanza da lei. Nella borsa ci sono la pistola e il cellulare.
Barbara è sola e indifesa, in balia dell’uomo.
Ivan si avvicina alla donna sovrastandola dall’alto. La guarda minaccioso e poi le si rivolge con rancore urlando: «Cosa cazzo ci fai nella mia casa?».
Barbara si volta verso la borsa. È troppo distante. Deve cercare di prendere tempo per farsi venire in mente qualche idea.
«Cosa ci faccio nella tua casa? E quelle, cosa ci fanno?» risponde indicando le fotografie appese alla parete. «Alla fine ti ho scovato brutto bastardo! Tu, con quell’aria di bravo ragazzo tutto casa e lavoro! E invece ti diverti a tormentarmi,
ad entrare nella mia casa, a frugare nella mia vita privata, a minacciarmi. Ma cosa ti ho fatto? Perché ti stai accanendo contro di me? Perché vuoi uccidermi?»
Ivan ascolta le parole di Barbara e ribatte: «Ma che cazzo stai dicendo, stronza? Ti ho solo fatto qualche fotografia, non c’è nulla di male. Ma l’ho fatto perché sono pazzamente innamorato di te. Hai fatto colpo su di me fin dal primo momento che ti ho conosciuta, ma non ho mai avuto il coraggio di confessartelo. Ho tenuto tutto dentro. Tu per me sei un’ossessione, non riesco a non pensare a te giorno e notte. Ucciderti? Ma sei impazzita? Io non ti farei mai del male. Tu sei una Madonna, solo da amare e venerare. Ma tu mi ignori completamente e ti fai sbattere sicuramente da qualcun’altro». Il tono di Ivan è diventato mieloso, un tono ben noto a Barbara.
«Madonna?» Barbara ricorda quel termine utilizzato dal “Persecutore” durante una delle sue telefonate.
Non ha più dubbi. Cercando di sfruttare il fattore sorpresa, si lancia in direzione della borsa.
Ma Ivan non si lascia cogliere impreparato. Afferra un piede di Barbara e cerca di trascinarla verso di sé.
La donna riesce a divincolarsi e a rialzarsi in piedi.
«Dove vuoi andare, puttana!» urla rabbioso Ivan.
Le si avvicina e la colpisce in faccia con alcuni schiaffi. Poi cerca di afferrarle il collo.
Barbara non si perde d’animo, con la coda dell’occhio intravede sulla scrivania un portamatite in argento. Lo afferra con la mano destra e colpisce con violenza il capo di Ivan.
L’uomo rimane un attimo intontito, giusto il tempo che serve a Barbara per liberarsi dalla presa e impossessarsi della borsa. Estrae dal suo interno la pistola e la punta contro il medico. «Adesso, figlio di puttana, stai immobile, altrimenti ti ficco un proiettile in mezzo agli occhi».
«Abbassa quella pistola, troia! Pensi forse di farmi paura?» Ivan tenta di avvicinarsi alla donna.
«Ti ho detto di stare fermo, cazzo!» Barbara è risoluta. Sposta leggermente il braccio e fa fuoco. Il pallino a a pochi centimetri dalla testa di Ivan e si va a conficcare nel muro alle sue spalle.
Con grande fermezza, sempre tenendo sotto tiro il medico, prende il cellulare e chiama la polizia.
È notte fonda. L’ispettore Simone Berardi sta ando al setaccio, con numerosi agenti, l’abitazione di Ivan Zorzi. Il medico è stato portato via e, nella casa, oltre ai poliziotti, c’è solo Barbara.
L’ispettore è visibilmente contrariato. «Bene, signora. Come al solito lei ha fatto di testa sua correndo dei seri rischi. Non solo, si è introdotta illegalmente nell’abitazione di un privato cittadino facendo una copia delle sue chiavi. Ma si rende conto che Ivan Zorzi potrebbe denunciarla per violazione del domicilio?»
Barbara si mette a ridere. «Adesso va a finire che io mi sono macchiata di un reato e che Ivan Zorzi è la vittima» dice con tono sarcastico.
Berardi cerca di tranquillizzare la donna. «Non sto dicendo questo. Lei è stata molto brava. Ha incastrato il suo molestatore. I suoi sospetti sul conto del suo collega erano fondati. Ne faccio ammenda, ma capirà eravamo senza alcun elemento di prova…».
Barbara mal sopporta la presenza del funzionario. «Lasci perdere, ispettore. La cosa importante è che ora teniate Ivan Zorzi in prigione per un lungo periodo di tempo. Deve pagare per quello che mi ha fatto e io voglio sentirmi al sicuro».
«Stia tranquilla, dottoressa» l’ispettore cerca di essere rassicurante. «Ora le prove a carico del medico sono schiaccianti. Quelle fotografie parlano da sole. Senza considerare il vasto assortimento di materiale pedopornografico che abbiamo rintracciato nel suo computer. Non ci saranno sorprese, glielo assicuro».
«Avete controllato i tabulati telefonici?» Barbara non vuole avere dubbi sul conto di Ivan.
L’ispettore è infastidito da quella domanda: «Non ce n’è bisogno, dottoressa. Abbiamo effettuato alcune indagini sulla vita privata di quell’uomo. Sua moglie
l’ha abbandonato un paio di anni fa per la disperazione perché era ossessivo, assillante e maniacale nei suoi confronti. E, guarda caso, lei ha una somiglianza incredibile con la sua ex-moglie. Evidentemente non è riuscito a sopportare il peso della separazione e ha deciso di scaricare su di lei il rancore covato dopo che è stato lasciato. Stia tranquilla. Può tornare alla sua vita normale. L’incubo è finito».
Barbara rimane in silenzio e ripensa più volte a quell’ultima frase: “L’incubo è finito”. Ma stranamente non prova gioia. Prende le sue cose e si dirige verso casa.
Forse finalmente questa notte riuscirà a dormire.
21.Torino, 21 settembre 2007 – ore 8.00
Alessio Cipriani è inquieto. Lui, dentro di sé, è convinto di aver visto il molestatore uscire di corsa dalla casa della dottoressa l’altra notte. Ciò che non si perdona è di non essere stato capace di vederlo in volto. Ma l’uomo era vestito di nero e si è abilmente mimetizzato nell’oscurità notturna.
L’evoluzione degli eventi ha condotto all’arresto di Ivan Zorzi, considerato dal suo collega Berardi il molestatore della Mori.
Ma lui non è convinto.
Ha condotto delle ricerche sul conto del medico. Il profilo che ne è venuto fuori non è quello del possibile stalker. Si tratta di un uomo frustrato per l’abbandono da parte della moglie e che si è invaghito della dottoressa. Sarà pure stato trovato in possesso di materiale pedopornografico, ma tutto questo non basta.
Dopo aver visionato sul computer il verbale dell’interrogatorio di Barbara Mori in Commissariato, lui ormai si è fatto un’idea ben precisa del molestatore che non coincide assolutamente con Ivan Zorzi.
Colui che stanno cercando è un uomo metodico, intelligente, astuto, che sa come e quando colpire. Insomma un vero professionista.
Cipriani ragiona e cerca di pensare con il cervello dello stalker. Quale sarà la sua prossima mossa?
Il suo comportamento nei confronti di Barbara Mori si sta manifestando in maniera sempre più invasiva. Prima i messaggi e le telefonate. Adesso, se lui avesse visto giusto sul conto dell’uomo fuggito l’altra sera, il contatto diretto.
Non esclude che il molestatore la tenga sotto controllo e la segua nei suoi movimenti.
Il poliziotto ha una convinzione. Non serve cercare nel ato di Barbara. Probabilmente non emergerebbe nulla di concreto.
Lui la deve tenere costantemente sotto stretta sorveglianza. Deve sapere con chi parla e dove si reca. È convinto che lo stalker tenterà nuovi approcci e lui deve essere pronto a intervenire.
Questa, per lui, non è un’indagine privata come tutte le altre. Non gli interessa più raccogliere materiale sul conto della sua creatura. Ora, ne è convinto, è in gioco la vita della sua creatura. E lui la deve salvare.
Mai gli era successo prima di confondere la sua attività di poliziotto con quella di cacciatore. Mai gli era successo prima di provare dei sentimenti per le sue creature. È sempre stato freddo, insensibile, distaccato, totalmente e unicamente concentrato sulle sue indagini private.
Ma con Barbara Mori è diverso. Quella donna l’ha colpito nel più profondo del suo animo. Quella donna ha bisogno di aiuto. Quella donna ha bisogno di lui.
Deve agire subito. Deve introdursi nell’appartamento della dottoressa e installare delle cimici nel telefono di casa. Inoltre dovrà applicare un dispositivo GPS all’auto della donna.
D’ora in avanti sarà l’ombra di Barbara Mori.
La bettola in via Barbaroux emerge dalla foschia come un miraggio. L’uomo inspira, espira, inspira di nuovo. Fruga nei taschini dell’impermeabile, tra briciole e fazzoletti raggrinziti, e tira fuori il pacchetto delle sigarette. Lo rivolta tra le mani rugose e lo soppesa con indifferenza. È vuoto. Lo getta via distrattamente. Sospira e volge il suo sguardo angosciato verso destra, verso il vicolo avvolto nel miasma delle serpentine di scarico, qua e là lugubri luci al neon, come stelle in un firmamento indistinto. La pioggia si infrange obliqua e tintinnante sui telai arrugginiti delle finestre. Oltre, tenebre immobili e anfratti dimenticati. E più in là ancora, attraverso miglia di nulla, si dischiude misterioso e solenne il tetro orizzonte. Tossisce. Il bagliore cinereo del lampione irradia il suo profilo statuario. Attraverso la sozza vetrata della bettola scruta di sbieco una giovane donna, rischiarata dalla fiamma volubile e incerta di una candela. Una come lei non dovrebbe essere da quelle parti. La guarda. Gli occhi, buchi neri nell’immensità azzurra. Capelli lucenti e la ciocca che le ricade languida sulla fronte. Le sue labbra vagamente curvate in un sorriso capovolto. Quel lungo abito di seta indaco. La guarda ancora. È seduta a un tavolo, sola. Stringe tra le mani un vecchio Moleskine rosso e lo sfoglia con aria assorta. Un raggio di luce obliquo le rischiara le mani tremanti, le dita così sottili, gli anelli splendenti. Beve un sorso di vino, gli occhi smarriti nel vuoto della mattina e della città. L’impronta del suo rossetto color porpora si impregna come un fantasma, come un monito, come una profezia, sul bordo del bicchiere. Deglutisce e riprende a sfogliare il Moleskine logoro, antico scrigno di ricordi sfuggenti.
L’uomo apre timidamente la porta sotto l’insegna della bettola. Qualcosa scamla e la donna trasale, ma gli occhi grandi e malinconici non paiono tradire inquietudine. Sorride cauta. L’uomo appende l’impermeabile e si guarda
attorno.
Un juke-box distrutto dal tempo implacabile. Poster sgualciti su pareti in rovina. Menù macchiati di lacrime mai versate. Due dita di polvere sugli ottantotto tasti di un pianoforte a coda. Insegne baluginanti e ronzanti nell’oscurità diffusa. Scintille qua e là. Un ventilatore che turbina lento, irrequieto e cigolante. Di là dal bancone, di là da una polverosa raccolta di libri di Raymond Chandler, di là da una sudicia e dimenticata macchina per l’espresso, il barista è immobile, imbalsamato in una posa bizzarra e singolare. Un volto senza volto, un’anima senza anima. Un simulacro pallido, il colore della morte. Emette un rantolo e batte le palpebre. È tutto. Per il resto, la bettola è deserta.
L’uomo si avvicina alla donna, ma non dice nulla. Solo la contempla con riverenza, una reliquia sacra nella perdizione di quell’universo sull’orlo del declino. Si siede a un tavolo nell’angolo meno illuminato, accanto a delle squallide riviste di moda impilate una sull’altra. Vi trova poggiato un bicchiere di vino e inizia a bere. Assapora il gusto acre, ricco, fastoso. Poi un sussurro infrange il silenzio. Schegge di silenzio dappertutto, ora.
«Anche tu l’hai persa?» domanda la donna.
«Cosa?» ribatte l'uomo con voce tremante.
La donna socchiude gli occhi e sorride e il sorriso stesso è una visione divina, una danza arcana di un mondo ormai risucchiato dall’oblio.
«La vita» dice.
L’uomo ci pensa su. «Sì, anch’io» ammette triste.
«Capita» asserisce la donna. Richiude il Moleskine e riprende a parlare con un tono di voce più basso, appena udibile. «Vuoi sederti qui?»
L’uomo si alza e si siede vicino a lei. Nessuno dei due parla per un pezzo. Soli, rimangono ad ascoltare quel loro silenzio così fragoroso, come un grido in faccia.
Improvvisamente l’uomo, come se si fosse risvegliato dal suo torpore mattiniero, si alza e, senza salutare, esce dalla bettola. Ha cose più importanti a cui pensare. E soprattutto ha un’altra donna che lo aspetta. Una donna di nome Anna.
L’uomo è tornato a casa sua. Abita a Porta Palazzo, uno dei quartieri più famosi di Torino, ma anche uno dei più popolari e degradati. Una volta, lì, ci abitavano i meridionali che si erano trasferiti a Torino, erano gli anni del miracolo economico, c’era il lavoro, c’era la speranza. Ma ora loro si sono spostati ed è diventato un quartiere più che altro popolato da immigrati extracomunitari. Abita lì da circa un anno. L’uomo adora il mercato di Porta Palazzo, il mercato all’aperto più grande d’Europa. Lui ama girare per le bancarelle in quel brulicare di voci ed etnie.
Il giorno scorre via fiacco e inafferrabile. I muscoli sono ancora intorpiditi dopo un’altra notte insonne. Mentre urina, dalla finestra del gabinetto intravede un cartellone pubblicitario sospeso sulla spoglia facciata del palazzo di fronte. Guardando le linee, la sagoma di quella mannequin, il suo sguardo ammiccante, l’uomo pensa: “Bellezza, non dovresti vantarti. Non dovresti dare sfoggio. Se sei come sei, diavolo, non è certo merito tuo. Si tratta, banalmente, di un dono. Ecco
cos’è la bellezza”.
Mutande e nient’altro in un gabinetto angusto e puzzolente. Piastrelle infradiciate, tubazioni corrose, ceramica scheggiata. Il gorgoglio dell’acqua nello scarico è insieme il ritmico sciabordare delle onde, il crepitio delle funi in tiro e uno scafo oscillante sulla superficie cristallina di un lago.
Vaga.
La lama del rasoio sulla sua pelle nuda e avvizzita, la schiuma da barba raggrumata in montagne come di panna. Innocui rivoli di sangue, la linfa vitale sbiadita e succhiata via.
Fissa lo specchio. Il suo riflesso che lo scruta austero e altezzoso, lo stesso cipiglio di chi sta assistendo a un fallimento.
E poi giù nella strada, a o svelto, il distintivo arrugginito che tintinna nelle tasche.
Lui è un poliziotto. Un tutore della legge.
Ma quale tutore. Non è stato capace di salvare Cinzia Vitali, una bambina di undici anni rapita ed uccisa, nonostante il pagamento del riscatto. Barboni, reietti, ubriaconi e troie. L’uomo li contempla silenzioso.
Dietro l’angolo, attraverso un viale grigio sotto il cielo plumbeo, alberi sguarniti come scheletri torti, radici, rami e foglie secche. Il banco dei pegni, vetrine maestose, oreficerie. Ratti che si contorcono nei vicoli, volantini calpestati, misteriose iscrizioni e simboli imperscrutabili sui muri di granito.
All’ora di pranzo fa una scappata al Cavallo Bianco ma, ovvio, lo trova chiuso. Quello è un posto per uccelli notturni. Allora mangia qualche porcheria dal paninaro sul lungo Po, solo un lurido caravan bianco piazzato ai bordi del marciapiede. Mosche che banchettano ingorde sui kebab nel vassoio.
Il paninaro le osserva corrucciato. «Dio è grande,» borbotta, «ma ha sbagliato due cose, amico. Le mosche e i froci. Tu sei frocio?».
L’uomo fa un cenno di dissenso mentre addenta l’hot-dog.
«Meglio,» conclude il paninaro con un sospiro, «io odio i froci».
Venature di calcestruzzo scavate nell’intonaco ingiallito e ganci deformati che sorreggono i cappelli. Pareti colme di cilindri un po’ buffi, di crani svuotati, di berretti scoloriti, di visiere di cartone e di bombette di stoffa. Nonostante gli ultimi scampoli di caldo settembrino, nell’angolo una stufa elettrica accesa e una vecchia, il calore che disegna volute liquide nell’aria. La vecchia alza lo sguardo a intermittenza, piangiucchia e borbotta.
L’uomo osserva il commesso, che è un tipo sulla trentina, tipico modello Charlie Brown con accenni di calvizie e denti sporgenti. L’uomo sta consultando un catalogo di cappelli.
«Per una donna?» dice il commesso alzando gli occhi.
«Sì» risponde l’uomo. «Qualcosa di speciale, il meglio che avete».
«Tutto quello che abbiamo è esposto in negozio» chiarisce Charlie Brown con aria annoiata.
L’uomo si guarda attorno.
«Potrebbe acquistare un cappello in feltro» dice il commesso. «Beige, come si portavano una volta. Quelli con le strisce di pezza. Ecco, la striscia di pezza dovrebbe essere nera».
L’uomo sorride.
«Tutto quello che abbiamo è esposto» ripete Charlie Brown con un cenno della mano.
L’uomo sospira, deglutisce e ritorna in strada.
Il sole ha iniziato la sua lenta discesa verso le tenebre.
Il funerale è la necessaria conclusione del caso Vitali. È stato ritardato di due mesi dalla data di ritrovamento del corpo senza vita della bambina su espressa richiesta dei genitori. Hanno voluto farlo coincidere con la data del suo compleanno. Nella quiete del pomeriggio i rintocchi della campana echeggiano imponenti e definitivi, ambigue cicatrici in esistenze già segnate. E l’uomo scruta le figure, le figure vestite in nero, le figure con il capo chino, le figure piangenti. Tra i volti indistinti e confusi scorge un collega fargli un cenno di saluto. Ricambia. Poi socchiude gli occhi e ripete mentalmente la preghiera: “Affido alla nuda terra le tenere ossa di una bambina di undici anni. Che venga sepolta qui e che qui rimanga. Così va la vita. Così va il mondo”.
Dopo il funerale decide di fare quattro i. Non è altro che un’anima abbandonata nel suo vagare e la destinazione finale è ignota. Guarda in alto, verso la luna. Ma è solo un abbozzo, uno spicchio di poco conto. E guarda in basso, verso quei consunti stivali di pelle nera che calpestano l’asfalto, che rivoltano la polvere. A ridosso di una parete scalcinata vede veleggiare frammenti di carta bruciata, insignificanti fanfaluche nell’aria gelida. Una città triste e dimenticata, una città sull’orlo dell’abisso. È il confine della solitudine.
L’uomo cammina lungo il limite, lungo il margine estremo, attento a non scivolare.
Il barbone nella viuzza lo richiama. «Non ti ho mai visto da queste parti» dice. È sudicio, puzzolente.
«Sono solo di aggio» risponde l’uomo.
«Tutti sono di aggio» dice il barbone con aria distratta. «Dove sei diretto?»
L’uomo alza le spalle. «Non lo so» sussurra. «Quant’è distante la fermata del bus?»
Il barbone risponde che non ne ha la più pallida idea. Chiede di nuovo dove sia diretto e l’uomo dice di nuovo che non lo sa.
«Sì che lo sai» dichiara il barbone. «Sei diretto alla fermata del bus».
L’uomo sorride e prosegue. Arriva all’ospedale Molinette e si dirige verso il reparto di terapia intensiva della cardiologia. È la prima volta in tante settimane che mette piede in ospedale. Sinora non ha avuto il coraggio. È stato un vigliacco, ma non avrebbe sopportato l’idea di vedere Anna soffrire, di vedere la morte sopraggiungere lenta, ma inesorabile. In ospedale non sanno nulla di lui. Si è tenuto sempre in disparte. Per i medici Anna è una single, non la sua compagna di una vita. Ma deve fare molta attenzione. Non deve incontrare quella puttana della cardiologa. Lo riconoscerebbe. Dalla finestra della stanza scruta la strada. Una linea al centro e poi solo asfalto. Tutto il resto oscurità.
Contempla con tristezza quella figura di donna poggiata sulle lenzuola, la bacia sulla guancia e si siede al suo capezzale. Le sussurra parole di perdono che lei non può sentire. Il suo cranio rasato, infiniti tubicini e le loro aguzze appendici conficcate con violenza nella pelle, il borbottio lamentoso delle macchine, qualche bip di tanto in tanto. Quasi a voler dire che sì, lei vive ancora.
L’uomo affonda il volto nelle mani.
Riemerge ansimando.
Mancanza d’aria.
Rumori sommessi dal corridoio, grida di dolore, sofferenze taciute, litanie e lagne e preghiere e invocazioni e suppliche. Chiude la porta.
Bacia ancora la donna e la sfiora e il contatto gli restituisce solo un brivido gelido lungo la schiena.
Un morbo impietoso e inesorabile. Cardiopatia ischemica è stato il verdetto. Nella sua forma più grave e irreversibile. Il segno perentorio della fine. Uno sberleffo. “Tutto quello che tocco va in rovina. Sono il Re Mida della distruzione” pensa. Giocherella con i pollici e tamburella sulle ginocchia. Dice: «Volevo comprarti un cappello». a una mano sulla superficie glabra della testa di lei. «Non senti freddo? Così nuda, così indifesa?» Si alza e indossa l’impermeabile.
«Io vado» dice. «Addio, Anna».
«Cosa prendi?» chiede il collega poliziotto seduto al tavolo.
«Niente» risponde l’uomo.
«Che hai?» dice l’altro con la bocca piena. Affoga i dispiaceri nel cibo, una lattina di bionda in una mano e un unto hot-dog nell’altra. Il Cavallo Bianco, irresistibile fascino da locale inglese, il fumo delle sigarette come una coltre di
nebbia tossica, tavoli sudici, giradischi gracchianti che intonano vecchie canzoni country. Atmosfera da tardo Medioevo, il tempo sembra fermarsi in certi posti.
«Tutto è andato a farsi fottere con il caso Vitali» riprende l’uomo.
L’amico annuisce. «Non è colpa di nessuno» sentenzia.
Si scambiano un’occhiata.
«Non dire cazzate».
L’amico cambia argomento. «Come se la a Anna?»
L’uomo batte le palpebre. «Non bene» dichiara.
Rimangono in silenzio. A fissarsi. Come se tutto il resto non esistesse. Come se tutto il resto non importasse nulla. La cameriera sfila tra i tavoli con leggerezza, quasi che danzasse sulla punta delle scarpe. Vassoi straripanti di bicchieri svuotati, schiuma raccolta sui fondi, bottiglie distrutte, disperazione in pillole.
«Che mi racconti?» domanda il collega dopo un altro morso.
L’uomo tossisce. Estrae il portafogli e sbatte sul tavolo una banconota da dieci
euro. C’e scritto, con un’incerta grafia da donna, un indirizzo e un numero di telefono.
L’amico strabuzza gli occhi. «Cos’è?»
«Ho conosciuto una donna» dice l’uomo con un abbozzo di sorriso.
«Quando?»
«Stamattina».
«Dove?»
«In una bettola».
«E come si chiama?»
«Dici la bettola?»
«No, la donna».
L’uomo riflette per un momento. «Non lo so» risponde scrollando le spalle.
Il collega puntella i gomiti sul tavolo e inarca le sopracciglia. «È una puttana?»
«No» risponde l’uomo ridendo.
«Sul serio?» insiste il collega sogghignando.
«Credo» conclude l’uomo. Poi il suo sorriso si dissolve. «Voglio andarmene».
«Per il caso Vitali?» bisbiglia il collega. «Non è stata colpa tua e lo sai».
«È per dimenticare. Per ricominciare».
«Anna, ricorda Anna. Ha ancora bisogno di te».
«È finita per lei» dice l’uomo abbassando lo sguardo sul tavolo. «È arrivata al capolinea».
Anche il collega abbassa lo sguardo. «Chiederai il trasferimento o hai chiuso?»
«Trasferimento» dice l’uomo. Allunga una mano verso la lattina del collega e beve un sorso.
«Dove andrai?»
«Lontano da qui».
«Dove? Hai delle idee?»
«No» asserisce. «Comunque prima devo finire un lavoro». Il collega è dubbioso. «Non è la scelta giusta. Pensaci».
«Pensare troppo fa male».
«Non pensare è peggio».
Qualche ora dopo, nel suo appartamento, si spoglia di tutti quegli indumenti che da soli elevano il suo ego. Camicie, divise, bluse, canottiere, pantaloni. Nudo, si siede sul margine del letto e ascolta inquieto il rumore del suo respiro, solo un lento e doloroso rantolo, ma è vivo. Fissa la cucina. Dimessa, malinconica e sciatta, come in un dipinto di Edward Hopper. Stringe la cornetta e compone il numero sulla banconota. Dall’altro capo ascolta solo una serie di vibrazioni metalliche e nessuna risposta. Sospira. Ripone la banconota nel portafogli e si avvia in bagno per fare una doccia.
L’acqua gli scorre addosso bollente. Il vapore si innalza lento e arrendevole nell’aria e nell’irrazionalità ogni cosa ha un senso, il disegno acquista finalmente compiutezza. Il suo viso si contrae in una smorfia e si trasforma in una maschera. Ha superato il momento di debolezza e di angoscia per un caso finito male, con la morte di una bambina rapita che lui non è riuscito a salvare.
Adesso pensa ad Anna.
E pensa a Barbara Mori, la cardiologa che l’ha presa in cura e che si è opposta al trasferimento di Anna presso una struttura ospedaliera all’estero dove, forse, avrebbe avuto qualche speranza in più di sopravvivenza. Per la presunzione e l’arroganza di quella troia della Mori, Anna si è vista privata dell’ultima, dell’unica opportunità di guarigione. Barbara Mori dovrà pagare a caro prezzo la sua incapacità di curare la sua amata.
Adesso deve tornare freddo, cinico e calcolatore. Deve concludere la sua missione di morte.
22.Torino, 22 settembre 2007 – ore 6.00
Barbara questa notte ha finalmente dormito e si sente più sollevata. Il suo stato d’ansia non è cessato del tutto, ma d’altronde non ci sperava più di tanto. Sa che dovrà imparare a convivere con essa e a dominarla ancora per un po’, almeno fino a quando non si saranno offuscati i ricordi di quella terribile avventura.
È mattina presto. Apre gli occhi e allunga la mano per staccare la musica della sveglia. Nella scelta della melodia ha optato per una fra le tante canzoni che le piacciono: “Solsbury hill” di Peter Gabriel. Il display segnala le sei.
È presto sul pianeta. Nasconde il viso sotto le lenzuola color rosa antico.
L’attraversa un fremito ed è consapevole di correre incontro allo stesso enigma che si era lasciata alle spalle la sera prima: il suo destino futuro esercita su di lei un’attrazione come di una calamita. Abbraccia stretta il cuscino: un successo strepitoso sulla sua carne. Desidera solo un caffè, poi può cadere tranquillamente dall’orlo del precipizio. Si è incisa una lettera sul cuore: “V” come Vincere.
Una parola chiara con un significato ben preciso. Si sente come al cinema. La pellicola che deve tracciare un finale e svelare il mistero.
Indugia a letto e arrotola distrattamente delle palline di carta. Il suo epilogo deve pur essere da qualche parte. La follia che ha vissuto deve trovare una degna conclusione. Ora è sola. È l’abisso destinato a chi cammina sul filo della vertigine. Rivede tutti i protagonisti della sua vita. Soprattutto rivede i suoi genitori morti prematuramente.
I melodrammatici orpelli dei ricordi si srotolano riflessi nelle vetrate della camera da letto. Questo mondo è la sua gioia e la sua casa. Giochi d’ombra e creazioni. Sono il suo piacere costante. Anche gli uomini furtivi ed eleganti del suo ato. Loro sono una formidabile istantanea, simili ad una fotografia. Osserva l’armadio aperto foderato di specchi e lì ci sono, tutte in fila, le reliquie dei suoi ultimi vent’anni: pizzi, lamé, sete, completi da tennis, da circo, da oca, da discoteca. Tutti i travestimenti possibili in una sfilata di mille colori. Gli abiti appesi: a quadri, a pois, con nastri, nodi, lunghe mantelle con guarnizioni di pelo, cappelli ed ogni altro capriccio, per apparire sempre un’altra, chiunque, ma non lei. La sua stanza è come un affresco.
Per la verità, questa mattina non sa da dove cominciare.
La sua massima attenzione è vivere, adesso. Tra un po’ entrerà nella toilette. Nuvole dense di cipria, manate di fard rosso e gli occhi da segnare con ampie spennellate di ombretto. Nell’universo invertito dei suoi modelli, in fondo, la mascherata non riguarda mai l’aspetto esteriore. La camicia da notte immateriale cade, fluttuando leggera, a terra.
Adesso rimane nuda e vede la bellezza del suo corpo non più giovane riflessa negli specchi rotanti. Le viene un moto d’eccitazione. Deve solo purificarsi dalla sua stessa intossicazione di sentimenti.
È già tardi sul pianeta. Mutandine, rossetto e tacchi a spillo.
Se l’è incisa sul suo cuore quella lettera: “V” come Vivere.
Va in cucina. Ha deciso di fare una colazione decente. Mette sul gas il pentolino col latte e la caffettiera. Tira fuori dall’armadietto un pacco di biscotti, la tazza e recupera un cucchiaino dal cassetto. Accende la Tv e va a prendere la posta ammucchiata dei giorni precedenti, che giace sul mobiletto dell’ingresso. Poi torna in cucina.
“… Ieri sera sono avvenuti nuovi scontri tra simpatizzanti di destra e di sinistra. Gli inquirenti hanno fatto sapere che ci sono stati dei feriti…”
La Tv è sintonizzata su un canale locale che trasmette il notiziario.
Barbara mostra la sua perplessità e commenta: «Finché ci sarà intolleranza politica, cosa ci si può attendere da questi fanatici?».
“… Ed ora iamo ad una notizia di cronaca: è stato ritrovato nei pressi della zona di San Salvario, il corpo di un barbone completamente bruciato…”
Lentamente alza la testa dalle bollette e fissa lo schermo. Si avvicina al televisore e alza il volume.
“… L’identità non è ancora nota, ma la Scientifica è già sul posto. Un dato inquietante è che sui resti del corpo è stata ritrovata una carta da gioco napoletana: il due di spade. Si ignora il significato di tale messaggio…”
Barbara rimane impietrita. Il due di spade. Il numero due, come i giorni che sarebbero mancati alla sua uccisione.
Ma come è possibile? Ivan Zorzi, il “Persecutore” è stato assicurato alla giustizia.
E se lui, in realtà, non fosse il “Persecutore”?
In fondo la polizia ha condotto delle indagini sommarie ed è giunta frettolosamente alla conclusione che il colpevole fosse il suo collega.
Questo dubbio la dilania. L’appetito le è ato. Spera che i suoi sospetti siano solo il frutto della sua immaginazione e che si tratti di una semplice coincidenza…
Ragiona, anche se non sa bene su cosa. La serenità è stata di breve durata. Lo stato d’ansia è tornato ad assalirla.
Se il “Persecutore” fosse ancora in circolazione non sarebbe necessario andarlo a stanare: lui avrebbe mantenuto la sua promessa, l’avrebbe cercata e l’avrebbe trovata. Forse ha carbonizzato quel corpo e lasciato quel messaggio per farle sapere che è ancora libero di colpire. In quel momento squilla il telefono. Barbara abbassa il volume del televisore e prende il cordless. «Pronto?»
«Ciao, Barbara, hai ricevuto il mio regalo?» la maledetta voce mielosa e distorta è nuovamente tornata a tormentarla. Barbara esita e la sua bocca assume la smorfia della ripugnanza. La ricorda bene quella voce: è quella del “Persecutore”. Si avvicina alla Tv. «Sì, proprio in questo momento» risponde Barbara disgustata.
«Allora, ti è piaciuto?»
«Sinceramente credevo in qualcosa di più grande. Ti pensavo molto più megalomane…»
L’uomo emette una risata finta e commenta: «Tranquilla, lurida troia… verrà il momento in cui toccherà anche a te e allora potrai vedere di cosa sono capace».
«Ti aspetto, bastardo!»
L’uomo ride nuovamente e aggancia.
Barbara invece rimane con l’apparecchio in mano e attende. Socchiude gli occhi e serra la mascella. Poi riattacca e scuote il capo. È spaventata a morte, ma non ha altra scelta che affrontarlo.
Due idee le balenano in testa, avvertire la polizia o aspettare le mosse del “Persecutore”. A quel punto le torna in mente Ivan Zorzi. Deve avvertire l’ispettore che in carcere c’è un innocente. Avrà pure commesso dei reati, ma non è il suo vero molestatore. I requisiti per chiamare la polizia ci sono. È stata di nuovo minacciata di morte e chi la minaccia si è addirittura macchiato di un omicidio per inviarle l’ultimo messaggio.
Lascia perdere la colazione, si veste e con l’auto si reca in direzione del Commissariato.
Alessio Cipriani è appostato fuori dalla casa di Barbara. Ha già sistemato un dispositivo GPS sotto il Suv della donna.
Quando vede Barbara uscire dal portone d’ingresso, intuisce un’espressione sconvolta sul viso della dottoressa. L’uomo immagina che sia sicuramente successo qualcosa che l’ha gettata nel panico.
Deve fare in fretta.
Lo stalker probabilmente è tornato in azione e lui lo deve fermare.
Scende dalla sua auto e si dirige verso il palazzo. Suona un camlo qualsiasi e si fa aprire il portone. Una volta all’interno dell’edificio, si dirige verso l’appartamento di Barbara. Con una forcina armeggia nella serratura della porta e in pochi secondi la apre. Si ambienta velocemente e va a caccia del telefono. È un cordless e lo trova appoggiato sul tavolo in cucina. Smonta rapidamente l’apparecchio e sistema al suo interno una microspia ambientale, chiamata più volgarmente “cimice”. D’ora in avanti potrà ascoltare e registrare tutte le telefonate.
Torna velocemente in strada e rientra nella sua auto. Apre il computer portatile, che è sistemato sul sedile anteriore e avvia il software collegato al dispositivo GPS che ha installato sull’autovettura di Barbara. Osserva il piccolo punto blu lampeggiare sulla mappa della città. Ingrandisce l’immagine e un’espressione stupita compare sul suo volto: l’auto di Barbara Mori è ferma davanti al suo Commissariato.
Barbara, una volta arrivata, si dirige verso l’ufficio di Simone Berardi. Varca la porta arcata e vede l’ispettore che la guarda con l’espressione di chi sta pensando: “Cosa cazzo vorrà ancora questa rompicoglioni?”.
«Oh, buongiorno dottoressa… in cosa posso esserle utile?» dice l’ispettore fingendo goffamente di gradire la visita di Barbara.
La donna si siede senza attendere l’invito del funzionario. Lo guarda in viso e replica senza esitazioni: «Ivan Zorzi è innocente, ispettore. Non è lui il mio molestatore».
Berardi si siede a sua volta alla scrivania. Emette un lungo respiro e poi esclama: «Ma cosa sta dicendo?».
Barbara gli racconta della notizia dell’omicidio di San Salvario, del messaggio lasciato dall’assassino e della telefonata ricevuta quella mattina.
Quando finisce il discorso nota che l’ispettore la fissa perplesso.
«Cosa c’è che non la convince?» dice preoccupata.
L’ispettore si massaggia il mento e si appoggia allo schienale della sedia. Non nasconde la sua impazienza: «A prescindere che la sua ipotesi è piuttosto fantasiosa, dottoressa e che non ha alcun riscontro, c’è un piccolo particolare che lei ancora non conosce, ma che smonta completamente le sue supposizioni».
«E quale sarebbe?» chiede Barbara colta impreparata da quella affermazione.
«Ivan Zorzi ha confessato. È lui il “Persecutore”».
Barbara rimane senza parole. È confusa, incerta, insicura, non sa più cosa dire. A fatica apre la bocca. Quasi balbetta. «Non è possibile… ispettore… Ivan sarà malato… ma non è lui…».
L’ispettore, indifferente alle parole di Barbara, le si rivolge con un tono paternalistico. «Ascolti, signora, le parlo da amico. Cerchi di dimenticare tutta questa brutta vicenda. Torni al suo lavoro, ai suoi interessi. O magari stacchi la spina e si prenda un periodo di ferie. Faccia un bel viaggio. Ma finisca di tormentarsi e di vedere molestatori dietro ogni angolo. Questa storia è conclusa. E il colpevole è stato assicurato alla giustizia».
Barbara a questo punto, scoraggiata, annuisce. «Forse ha ragione lei, ispettore. Seguirò il suo consiglio. Farò un bel viaggio e cercherò di dimenticare quello che è successo negli ultimi giorni». Si alza, rivolge un breve cenno di saluto al poliziotto ed esce dall’ufficio.
Simone Berardi osserva la donna mentre richiude la porta alle sue spalle.
Un ghigno appare sul suo volto. Se dovessero dare ascolto a tutte le donne che si presentano per denunciare casi di molestie, l’attività del Commissariato sarebbe paralizzata.
Loro, i poliziotti, hanno altro a cui pensare. Hanno il compito di salvare delle vite umane realmente in pericolo. E non devono più commettere errori come quelli che sono costati la vita a Cinzia Vitali, una bambina di undici anni. Hanno ampiamente sottovalutato la volontà omicida dei suoi rapitori e si sono ritrovati con il cadavere della ragazzina.
E per quegli errori commessi, lui e altri tre colleghi del Commissariato hanno duramente pagato con due mesi di sospensione.
No, pensa l’ispettore Berardi, il caso di Barbara Mori non è una priorità.
È sera. Barbara è tornata a casa dal lavoro. In ospedale ha suscitato molto scalpore l’arresto di Ivan Zorzi e tutti i colleghi hanno fatto a gara per dimostrarle il loro affetto e la loro vicinanza per le violenze psicologiche subite.
Durante la giornata ha cercato di dimenticare la telefonata ricevuta quella mattina, convincendosi poco alla volta che l’ispettore in fondo non aveva tutti i torti.
È ai fornelli e sta preparando la cena. Sono giorni che mangia poco e in maniera disordinata. Per questa sera ha deciso di cucinarsi un’abbondante pasta al forno. È in quel momento che sente un rumore. Impugna un piccolo coltello e si dirige verso l’ingresso. Tasta l’interruttore, ma la luce improvvisamente si spegne. Si mette spalle alla parete e sospira: «Merda!». Cercando di mantenere la calma, ritorna in cucina. Fuori la pioggia viene giù violenta. Ode un secondo rumore. Sembra che qualcosa sbatta contro la serranda. Non ci pensa su due volte. Raggiunge il cordless e compone il numero della polizia. Non appena si porta il telefono all’orecchio, nota che è muto. Non è funzionante e in quel momento Barbara capisce che non si tratta di una serie di coincidenze: non è stato il temporale a far staccare la luce e tanto meno a far saltare la linea telefonica.
Fuori c’è lui e sta tentando di entrare in casa. Quando sente un ulteriore rumore, corre velocemente in camera da letto, nel tentativo di recuperare il suo cellulare. D’un tratto si sente afferrare per la maglia. Qualcuno la spinge contro il muro e l’afferra per il collo.
«Adesso farai come dico io, sono stato chiaro?» dice la voce di un uomo.
La presa è forte, Barbara si dimena ma non riesce a liberarsi.
«Scordatelo!» urla.
Le manca il respiro ma è convinta di non voler soccombere. Solleva il coltello e colpisce l’uomo prima sul braccio per fargli mollare la presa e in seguito allo stomaco. Lui cade a terra tenendosi il ventre. Barbara, seppur trascinandosi, tenta di raggiungere la camera dove ha lasciato il cellulare. Ma l’uomo la tira per una caviglia e la fa cadere sul pavimento. Si rialza e corre in camera da letto chiudendo la porta a chiave. Una volta entrata si muove nel buio come un robot. La stanza è fiocamente illuminata dal chiarore delle luci esterne. Si precipita al comodino, poi al comò e infine guarda in borsa: il cellulare non c’è. Dopo alcuni secondi, sente bussare.
«Cercavi il tuo cellulare, forse?» poi la sua risata.
“Deve avermelo sottratto prima di aggredirmi” pensa Barbara. L’uomo è riuscito ad entrare in casa nonostante le sue precauzioni. Le viene da piangere, non sa cosa fare e come comportarsi. Poi ragiona. Non può restare lì dentro per sempre. La polizia non è stata avvertita e lei non ha modo di farlo. In più l’uomo non se ne sarebbe andato via, almeno non prima di averla uccisa. Ha una paura terribile,
ma pensa anche a quanta fiducia possieda in se stessa. Va all’armadio e apre le ante.
In quel momento l’uomo parla. «Ti lascio ancora qualche minuto, ragazza. Poi entrerò a modo mio».
Barbara lo sente ridere.
«Intendiamoci, non che questo gioco non sia divertente… il gioco del gatto con il topo fatto con te è molto più soso che con chiunque altra».
Barbara ha perso il coltello durante la colluttazione. Cerca la pistola, ma non la trova. Deve averla lasciata nell’altra borsa che ha dimenticato sul divano in soggiorno. Allora cerca le forbici da cucito che normalmente tiene nell’armadio insieme ad aghi e fili. Ogni tanto volge uno sguardo alla porta.
L’uomo riprende a dire: «Mi piace una preda che tenta di difendersi… e devo ammettere che sei un topolino proprio niente male. È un peccato doverti uccidere».
In quel momento Barbara recupera le forbici, le ripone nella tasca della tuta e si muove verso la porta. Poi si decide ad aprirla. L’uomo se ne sta immobile sulla soglia con un ghigno terrificante sulle labbra. Barbara lo osserva. Non l’ha mai visto prima. Ascolta la sua voce naturale, non distorta come al telefono. Non l’ha mai udita prima. Ha gli abiti insanguinati e si tiene una mano con un fazzoletto sullo stomaco. Evidentemente le sue ferite non sono gravi.
«Mi sorprendi, ragazza» dice con un tono stupito.
Piega il capo come fanno i cani.
«Credevo avresti resistito di più. Non so, magari… mentre affondo la lama nel tuo ventre, ti dimeni, mentre ti taglio via i seni m’implori di non farlo, oppure mentre ti brucio gridi che vuoi ancora vivere».
Barbara lo fissa con quanta più rabbia abbia in corpo e, decisa a voler restare viva, commenta: «Tu sembri sempre così certo di quello che dici».
«Lo sono, dolcezza. Non c’è niente che tu possa fare per vivere, perché io ho già deciso».
«Ma non mancano due giorni alla mia morte?»
«Ho deciso di farti una sorpresa. Chi ha detto che ti ammazzo oggi? La tua sarà una lenta agonia e il 24 settembre porrò fine alla tua sofferenza. Voglio gustarmi le tue ultime parole prima di ucciderti come si deve».
«Non puoi tenermi chiusa in casa due giorni. I colleghi dell’ospedale, non vedendomi andare al lavoro, mi cercheranno sicuramente e si allarmeranno. Il tuo piano non funzionerà».
«E qui ti sbagli, mia cara. Ho mandato dal tuo cellulare un messaggio al primario
per informarlo che sei influenzata e ti assenterai per alcuni giorni. Mi dispiace, nessuno ti cercherà. Sei sola, sola come un cane».
Barbara sente la sudorazione aumentare e mentre trema, sorride e trova il coraggio di parlare: «Credo che tu sia uno di quegli uomini che deve uccidere una donna per farselo diventare duro».
Barbara vede gli occhi dell’uomo che la fissano. Il sorriso è scomparso dalla sua faccia.
«Che cos’hai detto?» domanda digrignando i denti.
Barbara va all’attacco. «Le tue vittime sono tutte donne, scommetto. Cos’è, la mamma ti picchiava e abusava di te quando eri piccolo? O forse è colpa delle tue fidanzate se sei diventato così?»
L’uomo non smette di fissarla e Barbara continua: «Cos’è, non soddisfacevi le loro aspettative?».
«Sta zitta! Devi stare zitta!»
Ma Barbara insiste: «Perché c’è l’hai con le donne? Che cosa ti fanno di così terribile?».
L’uomo sembra essersi calmato. Fa spallucce e risponde: «Niente… ma sono
donne. Le donne ci hanno sempre fatto del male».
«Ci?»
«A me e a mio padre. Lui l’amava davvero e lei non l’ha mai capito».
«Parli di tua madre?»
«Lei non ha mai capito quanto fosse importante per mio padre. Lui si è sacrificato per tutta la famiglia e lei l’ha tradito. Doveva pagare… ha fatto bene a bruciarla. Doveva purificarla dai suoi peccati». L’uomo si interrompe un attimo e poi grida: «Sgualdrina maledetta!». Poi si volge nuovamente in direzione di Barbara come se si fosse accorto solo in quel momento della sua presenza.
«Sei di nuovo uscita col tuo amichetto del bar, eh?»
Lei lo guarda senza capire: «Cosa stai dicendo?».
L’uomo comincia ad avanzare verso di lei e le ordina: «Non te lo ripeterò una seconda volta. Comincia pure a dirigerti verso il termosifone».
Barbara indietreggia lentamente fino ad arrivare vicino al letto. Si fermano entrambi. A quel punto lui sorride. Il cuore di Barbara batte sempre più in maniera anormale.
«Dammi retta, Elena e non ti punirò più del dovuto».
L’ha chiamata Elena e Barbara è quasi sicura di poter affermare che sta impersonando la figura di suo padre e lei quella di sua madre.
«Ascoltami…»
Ma l’uomo fa cenno di fare silenzio: «Non devi parlare!».
«Sono tua mamma e tuo papà? Li vedevi litigare?»
L’uomo distoglie lo sguardo e dice: «Mi nascondevo sempre in camera, certo. Quella volta però non ho fatto in tempo».
«Che cos’hai visto?»
«La picchiava. Sberle, calci, pugni, fuoco. Vedo del fumo dalla finestra».
«Dove?»
«Nel retro di casa, la casa di campagna, isolata, ideale per ucciderla». L’uomo
sembra essersi perso in quel racconto. Ma non appena lo termina, riprende a fissare Barbara, come tornato alla realtà e dice: «È per questo che devi morire, mon amour».
L’uomo estrae dalla cintola un piccolo coltello. Fissa ora la lama, ora Barbara. La donna ricambia lo sguardo. Poi l’uomo le va incontro con l’arma tesa verso il suo corpo. Nel momento in cui Barbara lo vede avanzare verso di lei decide di reagire. L’istinto di sopravvivenza prende il sopravvento. Gli afferra il polso, ma viene ferita sull’avambraccio. L’uomo si avvicina al suo viso e l’odore acre che emana le penetra fastidiosamente nelle narici. Poi sussurra: «Ti ricordi quando ti dissi che ti avrei trovata? Bene, l’ho fatto. E il seguito? Ti ricordi del seguito? Ti ho promesso che ti avrei impiccata. E così farò».
Barbara lo spinge contro il muro e gli colpisce più volte la mano nel tentativo di fargli mollare la presa del coltello. D’improvviso l’uomo le sferra un pugno e le assesta un calcio al ventre che la fa arretrare e quasi mancare il respiro. Barbara perde l’equilibrio e cade per terra.
«Sei sicura di voler continuare? Sei esausta, guardati…» dice l’uomo in tono di sfida.
Barbara si tocca il labbro spaccato e si accorge che perde sangue dal braccio e dalla bocca. Lo sputa e continua a fissare il suo avversario. Poi si alza decisa a non dargliela vinta. Lui sorride. «Come vuoi».
Quando le va nuovamente incontro, Barbara si accorge di essere proprio di fianco al pesante armadio in legno massello con le ante a specchio. Attende che l’uomo si avvicini il più possibile e, non appena lui la raggiunge, Barbara apre improvvisamente un’anta e la richiude violentemente colpendo in pieno il suo aguzzino. È tale l’impatto che lo specchio va in frantumi e le schegge si
conficcano nel volto e nel corpo dell’assassino. Barbara fissa l’uomo dall’alto: non si muove, è immobile. Rivoli di sangue sgorgano dal suo corpo martoriato.
Velocemente raggiunge la porta d’ingresso, ma è chiusa dall’interno. Probabilmente l’uomo ha le chiavi in tasca. Cerca il doppione nel cassetto della credenza, dove l’ha riposto dopo aver rifatto fare per la terza volta la serratura. Non trova neppure quello. Prova ad urlare, a chiedere aiuto. Non ottiene risposte. Decide allora di prendere il cordless in soggiorno, ma una volta all’orecchio, il segnale le ricorda che l’uomo ha manomesso i fili della linea telefonica. «Il cellulare!» grida. Barbara però rammenta che l’uomo si è impossessato del suo cellulare e lei, per nessun motivo al mondo, si avvicinerebbe a lui. L’uomo giace ancora per terra: forse è morto, o forse ha perso i sensi. L’unica alternativa che ha è quella di recuperare le chiavi di casa, uscire, andare dalla polizia e far arrestare il vero “Persecutore”. Però il solo pensiero di doversi avvicinare a quel folle omicida le fa venire gli occhi lucidi.
Ma non ha alternative.
Annuisce a se stessa e lentamente, come al rallentatore, si avvicina al corpo steso. Ha quasi la mano vicina alla tasca destra dei pantaloni, quando nota un particolare che le fa venire il cuore in gola. Il coltello non è più vicino all’uomo. Dov’è? Dove diavolo è finito il coltello?
È un attimo. L’uomo, orrendamente ferito, si alza d’improvviso ed estrae dalla cintola il coltello ancora sporco del sangue di Barbara, poi l’impugna con le due mani e lo dirige verso il corpo della donna. Barbara ha il braccio che le duole da morire, ma con la forza della disperazione estrae le forbici dalla tasca ed affronta il suo avversario. Ma la lotta è impari. L’uomo afferra il braccio armato della donna e lo blocca contro la parete. Poi con forza affonda il coltello nel suo ventre.
Barbara rimane immobile. Le forbici le cadono dalla mano. Un bruciore fortissimo si irradia velocemente a tutto il suo corpo. Lentamente si affloscia sul pavimento. La vista si annebbia, il mondo le gira intorno come impazzito, il respiro si fa sempre più leggero, il battito del cuore sempre più impercettibile.
Si sente esausta. Ha voglia di dormire, di sognare, di tornare libera, di abbandonare a se stesso quel corpo che non sente più appartenerle. Lentamente la pace torna a regnare nel suo animo. Lentamente chiude gli occhi e un lieve sorriso compare sul suo volto.
Alessio Cipriani è in strada, davanti al portone del palazzo dove abita Barbara. Fuma nervosamente una sigaretta.
Si è fatto raccontare per filo e per segno da Berardi tutto quello che le ha detto la dottoressa.
Berardi è proprio un coglione, pensa. Ma come fa a comportarsi in maniera così superficiale? Possibile che non capisca che quella donna è realmente in pericolo? Possibile che non capisca che Ivan Zorzi è solo un povero psicopatico che si è addossato una colpa non sua?
Ora, più che mai, è convinto che solo con la sua indagine privata, forse, potrà salvare la vita a Barbara Mori.
Se quello che ha intuito la dottoressa fosse vero e probabilmente lo è, lo stalker è ato alla fase finale del suo piano. E ciò, non solo è avvalorato dal fatto che il conto alla rovescia si sta esaurendo, ma anche dall’efferato omicidio del barbone. Se lo stalker è arrivato al punto di uccidere un essere umano per inviare
il suo messaggio di morte a Barbara, vuole sicuramente dire che è pronto per portare a compimento anche un altro omicidio: proprio quello della dottoressa.
Cipriani rabbrividisce.
Guarda le finestre dell’appartamento di Barbara e nota che le luci sono ancora accese.
Ha deciso. Questa notte la erà in macchina. Deve assolutamente proteggere quella donna e impedire che quel bastardo possa farle del male.
Torino, 23 settembre 2007 – ore 1.15, vigilia dell’esecuzione
Riceve una busta e una rosa rossa. Nella busta c’è una chiave, con un indirizzo. Lo conosce, quell’indirizzo. C’è già stata, ma non recentemente.
Rammenta la prima volta che si era trovata davanti a quel grande cancello, che lentamente si era aperto silenzioso davanti a lei senza che nemmeno lo sfiorasse. Non sapeva cosa fare, era titubante, come capita prima di entrare in casa di sconosciuti. Ma era durato solo un attimo, poi un impulso irresistibile l’aveva invitata a superare la soglia.
Si era trovata in un luogo meraviglioso, diverso da qualsiasi altro luogo della sua vita, pieno di tutte le cose più belle, cose che le piacevano e la rendevano felice.
Un giardino ricco di fiori profumati e meravigliosi, una casa calda e accogliente, con il camino e morbidi cuscini su cui lasciarsi andare, una luce calda e invitante e sopra un cielo, pieno di stelle. Tutto questo insieme. Non era suo, ma si sentiva a suo agio, sembrava fatto apposta per lei.
Era tornata più volte, in stagioni diverse e piano piano aveva imparato a conoscerlo meglio, capiva come fare per migliorarlo, per renderlo più accogliente e la sua permanenza lì diventava sempre più piacevole.
La prima volta era estate, c’era il sole caldo, l’erba verde, tanta luce e tutto l’entusiasmo di una scoperta meravigliosa. Poi era tornata in autunno, faceva freddo, ma il fuoco la scaldava nel profondo; prendendo coraggio cominciava a conoscerlo un po’ di più, ad apprezzarne le meraviglie, anche quelle più recondite.
D’inverno erano stati i momenti più belli, non c’era rigore che potesse rovinare la bellezza del paesaggio innevato, del cielo freddo e cristallino, con le sue stelle vivide anche se lontane.
Poi era venuto il giorno della chiusura. Il giorno triste in cui, arrivata davanti al cancello con la solita gioia nel cuore, l’aveva trovato inspiegabilmente chiuso.
A lungo aveva tentato di aprirlo, incredula, afferrandone le sbarre lucenti, aveva tirato, scalciato, urlato, ma niente. E alla fine, stremata, si era arresa. Guardando tra le sbarre con gli occhi velati di lacrime aveva cercato di imprimersi nella memoria qualche immagine ancora, qualche raggio di luce, i fiori che sentiva più suoi, perché li aveva curati, innaffiati con amore e resi più belli e più forti. Poi camminando all’indietro, per non voltarsi, era andata via.
Ora ha ricevuto quella busta. È un invito. Perché adesso? Come mai la chiave? Cosa deve fare?
Ci pensa a lungo e poi decide di andare. Se non andasse le resterebbe il dubbio per sempre. Arriva davanti al cancello. Scintillante come sempre. Ma lei è cauta, ha imparato a non dare nulla per scontato, sente ancora nelle mani il dolore del suo stringere disperata quelle stesse sbarre, non è ato molto tempo. Gira la chiave nella serratura, scivola dolcemente senza sforzo e dolcemente si apre il cancello davanti a lei, svelando il giardino in tutto il suo splendore. Non che l’avesse dimenticato, ma l’emozione di trovarsi di nuovo dentro, dopo tanto tempo, è qualcosa che quasi la stordisce, che le annebbia leggermente i sensi. Procede verso la casa. Sembra quasi che tutto sia stato preparato per il suo ritorno: i fiori sono meravigliosi, il fuoco è , le finestre aperte e un’aria dolcissima e profumata si diffonde tutt’intorno. È inebriata, è come se percepisse tutto ovattato intorno a lei, come se procedesse guidata da un invisibile istinto, senza vedere, senza sentire.
Che meraviglia, le viene da chiedersi: «Ma perché? Come mai questo splendido regalo?». Si lascia avvolgere da quell’atmosfera fantastica, lascia che la sua mente e il suo corpo si sentano parte di quello scenario da favola, come e più che all’inizio, anche se con una consapevolezza diversa.
A un certo punto, dopo essere rimasta lì per un tempo indefinito, che le sembra comunque troppo poco, le luci si abbassano, all’improvviso ma lentamente, dolcemente, come ad indicare alla platea di un teatro che è finito l’intervallo ed è ora di rientrare in sala. Succede una, due, tre volte, capisce che non è casuale. Deve andare via. Nessuno le spiega perché, ma capisce che è una cosa grande, di quelle cose grandi che la vita ti mette davanti senza preavviso, senza possibilità di pensare, tanto meno di replicare.
Le porte si aprono davanti a lei. ando fa scorrere un dito su tutto ciò che incontra, sui fiori, sugli alberi, sulle pareti, come per portarsi via almeno un po’ di polvere, una sensazione tattile che accompagni il profumo che non la lascerà mai più.
Il cancello si apre quel tanto che serve per lasciarla are, anche un po’ a fatica. E non appena varca la soglia, guardando dritto davanti a lei, un po’ intontita e ancora inebriata dai profumi, il cancello si chiude di colpo con uno scatto della serratura. D’istinto si gira, le viene spontaneo tornare sui suoi i e provare a inserire di nuovo la chiave nella serratura… ma niente, non funziona più…
Resta lì un attimo inebetita… che succede? Ma era veramente lì dentro un momento prima? Perché farla entrare, farle riprovare quell’ebbrezza per poi metterla fuori e, ora lo sa, fuori per sempre?
Dura solo un secondo, mentre piano si allontana senza pensare a dove andare, segue come un automa il cammino del ritorno, tornando sui suoi i. Quando si volta a guardare, una fitta cinta di alberi sta crescendo ad una velocità innaturale tutt’intorno, già copre il cancello e velocemente le mura, il giardino non è più visibile e gli alberi, alti, continuano a crescere.
Ed ecco subentrare un altro stato d’animo. D’improvviso si sente come estranea a quel posto meraviglioso e l’esserci stata in ato, così come l’esserci rientrata poco prima, sembra solo un ricordo sfumato, come un bellissimo sogno, che al risveglio si dissolve lentamente nella luce dell’alba, lasciando tracce profonde ma non visibili. Sfuma a tal punto che si chiede se sia realmente esistito, se non sia un mero frutto della sua fantasia e ad un ultimo sguardo indietro vede solo una folta macchia di alberi, impenetrabile e immersa in una fitta nebbia.
Si guarda dentro e scopre che le cicatrici del recente ato rendono la sua pelle meno fragile, l’aiutano a non piangere più, ad accettare ora con rassegnazione il destino che ha voluto darle e poi toglierle tutto questo. Comprende che il volerne capire le oscure ragioni porterebbe la sua mente in un posto lontano da cui non sa se riuscirebbe mai a tornare. Lei, che cerca sempre di capire, di sviscerare tutto, è in una dimensione imponderabile in cui nulla è definito, nulla è completamente comprensibile.
E come accade dopo aver fatto un sogno molto reale, resta un attimo ferma in attesa di svegliarsi. Nell’aria pungente del mattino aspetta che il getto dell’acqua fresca le tolga la sabbia dagli occhi, perché deve essere quella che la fa lacrimare…
23.Torino, 23 settembre 2007 – ore 4.40, vigilia dell’esecuzione
Barbara si risveglia distesa sul letto. Ha fatto degli strani sogni e non sa nemmeno lei se è ancora viva o è già morta.
La bocca impastata, gli occhi cisposi e gonfi, un senso di nausea che le sale dalle viscere. Pensa alla sera precedente e si accorge di avere un vuoto nella memoria. Era in casa sua, questo se lo ricorda bene, ma poi niente.
Il nulla.
Guarda il soffitto bianco e prova a ricostruire la serata. E allora ricorda. L’intrusione del “Persecutore”, la folle conversazione avuta con lui, lo scontro fisico culminato con la coltellata ricevuta al ventre.
Cerca di stropicciarsi gli occhi ma la mano non risponde ai comandi del suo cervello. Per un istante teme di essere paralizzata. Riprova a portare la mano verso il suo viso. Niente. Al terzo tentativo sente un dolore ai polsi. Si accorge che ha le braccia e le gambe legate al letto.
Si sente stanca, spossata, ma non prova dolore. Alza leggermente il capo e vede che ha il ventre e il braccio sinistro completamente fasciati con una rigida bendatura.
Si guarda intorno. Vede una telecamera che la sta riprendendo, il puntino rosso . Significa che qualcuno in questo momento la sta guardando.
Pochi secondi dopo sente la porta della stanza cigolare sui cardini. Un uomo entra nel suo campo visivo. Ha il volto coperto da numerosi cerotti. Le ferite provocate dalle schegge dello specchio andato in frantumi.
«Perché non mi hai ucciso? Perché mi hai medicata?» chiede Barbara con un filo di voce.
L’uomo risponde con il suo solito tono mieloso: «Barbara, Barbara. Forse non l’hai ancora capito, ma tu devi morire il 24 settembre, non prima. Le tue ferite non sono gravi e devi arrivare a quel giorno nelle migliori condizioni possibili, altrimenti non proverei lo stesso gusto nell’ammazzarti».
«Ma perché proprio il 24 settembre? Che significato ha per te questa data?» chiede ancora Barbara.
L’uomo pare alterarsi e alza la voce. «Non ti riguarda! E tanto non capiresti, nessuno capirebbe il vero motivo per il quale tu devi morire il 24 settembre».
Barbara deglutisce. Sa che urlare sarebbe inutile, non ci pensa nemmeno. La paura è così violenta che teme di non riuscire a trattenere i propri bisogni fisiologici. Chiude gli occhi, già pieni di lacrime e inizia a pregare.
24.Torino, 23 settembre 2007 – ore 6.10, vigilia dell’esecuzione
Barbara è legata al letto, i capelli castani attaccati alla fronte dal sudore, gli occhi chiusi. Sta muovendo il braccio destro da quando il suo “Persecutore” è uscito dalla stanza, sempre lo stesso movimento, avanti e indietro.
Toccando con la mano uno dei tubi d’acciaio che compongono la testiera si è accorta di una sporgenza acuminata, un’impurità del materiale, forse. Da quel momento ha continuato a sfregare la corda che la tiene legata sempre in quello stesso punto, cercando di consumarla. A ogni minimo rumore smette, temendo che l’uomo possa sorprenderla.
Spera che non si accorga di nulla, quando tornerà. In ogni caso sa che, se non farà qualcosa, è destinata a morire. Non ha nulla da perdere.
Un rumore di i. Barbara si ferma e resta immobile. La chiave gira nella toppa. Il “Persecutore” entra nella stanza. Accende la telecamera puntata verso il letto, si avvicina a lei e si toglie i pantaloni. La donna chiude gli occhi. È la terza volta che la violenta da quando si è svegliata. Spera che sia l’ultima, qualunque cosa accada. Sente il corpo di lui, caldo e sudato, sopra il suo. Tiene gli occhi chiusi, stringendo ancora di più le palpebre, come se potesse smaterializzare il suo corpo soltanto concentrandosi. È la cosa che vorrebbe più di tutte adesso. Sparire da questo posto, da questo incubo.
Ha provato a fare qualcosa. All’inizio ha cercato di assecondarlo, dicendogli che le piaceva, che lo ammirava e che avrebbe voluto essere come lui, diventare la sua discepola. Gli ha detto che desiderava fare l’amore con lui, per eccitarlo, fingendo di provare piacere quando la toccava, sperando che la slegasse, o che in qualche modo si distraesse. Non sa come possa esserci riuscita. Dovrebbero
darle l’Oscar per la migliore interpretazione dell’anno. Poi ha tentato di stabilire un contatto emotivo con il suo rapitore, parlandogli di lei e della sua vita. Voleva risvegliare la sua umanità, la sua pietà, sperando che la risparmiasse.
Nessuna delle strategie ha funzionato.
Ormai ha smesso di fingere, sa che dal suo carnefice non potrà ottenere nulla, dovrà conquistarsi la sopravvivenza e la libertà da sola, se ci riuscirà. Sussulta quando la penetra, violandola per l’ennesima volta.
Dopo pochi minuti l’uomo si alza dal letto, si riveste e spegne la telecamera.
«Adesso devo uscire, ma tornerò presto, non preoccuparti, dobbiamo ancora fare tante cose, io e te… abbiamo poco tempo, ma ti assicuro che saranno momenti molto intensi» dice rivolto a Barbara. Le accarezza la guancia con il dorso della mano. «Hai un grande onore, lo sai? Sarai uccisa per mia mano. Non potresti chiedere di meglio».
25.Torino, 23 settembre 2007 – ore 6.45, vigilia dell’esecuzione
Barbara si è assopita. Dopo che il suo rapitore è uscito, ha tentato di nuovo di spezzare la corda che la tiene legata al letto. Ma non c’è stato nulla da fare. La corda è troppo spessa e lei ha così poche energie da spendere. Alla fine esausta ha rinunciato, e si è abbandonata al torpore. Sente di non avere più speranze, che il suo destino è segnato. A questo punto spera che l’incubo si concluda in fretta.
Sente la chiave girare nella toppa e la porta della stanza che si apre. Entra l’uomo. Lo guarda con un’espressione perplessa. L’uomo sta spingendo all’interno della camera il mobiletto sul quale c’è il televisore che normalmente si trova in soggiorno. Lo posiziona proprio davanti al letto di Barbara. L’uomo ha in mano una videocassetta. «Adesso ti farò un grosso regalo, Barbara,» dice con voce eccitata, «ti farò vedere come morirai».
Barbara è atterrita.
Osserva l’uomo che introduce la cassetta nel videoregistratore e schiaccia il tasto “play” sul telecomando.
Le immagini compaiono sul televisore. Si vede una porta che si apre in un ambiente buio. L’oscurità viene squarciata da un cono di luce che proviene dal piano superiore dell’abitazione. Un uomo scende le scale strette e ripide. Ha in mano una torcia. Non c’è altra fonte di luce.
Le scale lo portano nella cantina con il pavimento di pietra e i muri in cemento grezzo. Alle pareti ritagli di giornali con imprese di serial killer.
L’uomo attraversa la stanza e arriva a una seconda porta, di legno massiccio. Prende dalla tasca posteriore dei pantaloni una maschera e la indossa, poi apre la porta ed entra in un locale.
Su un letto, coperto da un lenzuolo dal collo in giù, il corpo di una ragazza. Di fronte a lei c’è una telecamera. La spia rossa illuminata segnala che sta riprendendo.
Curvo su un lavandino, dalla parte opposta, c’è un uomo con il camice bianco. Un medico probabilmente. Si sta lavando le mani. Le sfrega tra di loro in maniera compulsiva. Il viso è contratto da un’espressione di disgusto. Le guance sono rigate di sudore. In terra, accanto a lui, un paio di guanti di lattice sporchi di sangue.
«Tutto a posto?» gli chiede il nuovo arrivato.
L’uomo con il camice sussulta. Prima di rispondere si asciuga il sudore con la manica della camicia. «Ho fatto quello che mi hai ordinato. Tra poco dovrebbe svegliarsi».
L’uomo si avvicina al letto, mettendosi dietro la testiera. Accosta la bocca all’orecchio della ragazza. «Sonia? Mi senti?» sussurra.
La ragazza di nome Sonia muove in modo impercettibile la testa. Si intuisce dalla sua reazione che è ancora sotto l’effetto dell’anestesia. I suoi movimenti sono lenti, come al rallentatore.
Gira di nuovo la testa, prima da una parte poi dall’altra. «Ho il fuoco in gola» dice con un filo di voce. Apre e chiude la bocca. Deve sentirla secca e impastata. Muove lentamente le palpebre, ma alla fine riesce ad aprire gli occhi. Alza la testa e vede i due uomini, quello con il camice bianco e quello con la maschera.
Abbassa lo sguardo sul letto. Un lenzuolo le ricopre completamente il corpo. Il suo carnefice l’ha messa in una posizione a croce, le braccia aperte e distese, le gambe divaricate. Cerca di muoversi ma non ci riesce. Le gambe e le braccia devono essere legate al letto.
«Sonia? Non riesci a muovere le braccia, vero? Succede così, lo so». È l’uomo con la maschera a parlare. «Il tuo cervello crede che siano ancora attaccate al corpo, vero? Si chiama sindrome dell’arto fantasma». L’uomo toglie il lenzuolo.
Soltanto allora la ragazza vede che al posto delle sue braccia ci sono quelle di un manichino, appoggiate sul letto dove è sdraiata in modo che, nascosto sotto il lenzuolo, il corpo sembrasse intatto. L’uomo con il camice deve aver fatto un buon lavoro, cicatrizzando le ferite e cucendo i moncherini per evitare che morisse dissanguata.
Barbara non sopporta più la visione di quel filmato. È disgustata e terrorizzata. «Basta, basta, ti prego!» urla con tutta la voce che ha in gola.
L’uomo ferma il video, si dirige verso il letto dove è sdraiata Barbara e le blocca con le mani il volto in direzione del televisore. «Barbara, Barbara, non posso interromperlo proprio adesso che viene il più bello». Poi, improvvisamente alza il tono della voce: «Guarda e stai zitta, puttana!».
Le immagini riprendono a scorrere. Sonia inizia a gridare e a piangere. Singhiozzando sputa saliva dalla bocca, le cola il naso. Il suo volto si contrae, sfigurato da spasmi che non riesce a controllare. Piega la testa di lato e si vede chiaramente che ha dei conati di vomito. L’uomo con la maschera a quel punto esce di scena e ricompare con una corda che ha all’estremità un cappio. Prende uno sgabello e lo sistema sotto un gancio appeso al soffitto. Poi lancia la corda in alto e la fa scorrere all’interno del gancio. Sistema con cura il cappio e scende dallo sgabello. Il patibolo è pronto per l’esecuzione.
La telecamera sistemata di fronte intanto continua a riprendere tutta la scena.
I due uomini si avviano verso il letto e sollevano di peso il corpo di Sonia. La ragazza cerca di resistere. Si dibatte, scalcia, ma senza braccia può fare ben poco per contrastare la furia cieca dei suoi aguzzini.
Sonia viene sistemata in piedi sopra lo sgabello e immobilizzata. Il collo viene cinto dal cappio. Lei non oppone più resistenza, consapevole della fine ormai prossima. L’uomo con il camice si allontana, come per lasciare all’altro l’onore di procedere all’esecuzione della ragazza.
L’uomo con la maschera attende qualche secondo e pronuncia un’ultima irridente frase: «Adieu, mon amour». Dà un calcio allo sgabello e il cappio si stringe intorno al collo della ragazza in una morsa mortale. Il corpo di Sonia rimane appeso penzoloni senza vita.
A questo punto il filmato si interrompe.
L’uomo si rivolge a Barbara: «Ti è piaciuto, mon amour? Pensa che domani ti toccherà la stessa sorte. Il mio amico medico ti amputerà gli arti superiori. Così non sarai in grado di opporre resistenza. E poi… giù dal soffitto. In pochi attimi tutto sarà finito. Non ti eccita il programma?».
A Barbara manca l’ossigeno, si sente svenire. Pur essendo un medico, quello che ha visto ha provocato in lei solo orrore e ribrezzo. Ma deve reagire, deve scrollarsi di dosso la paura e il terrore. Non vuole morire come Sonia e farà di tutto per salvare la sua vita.
26.Torino, 23 settembre 2007 – ore 7.30, vigilia dell’esecuzione
L’uomo è uscito dalla stanza. Ha lasciato il televisore che ripropone in continuazione il filmato dell’uccisione di Sonia. In maniera ripetitiva, ossessiva, delirante.
Barbara però non lo guarda più. Quelle immagini sono ormai scolpite nella sua mente. Adesso ha un solo pensiero. Quello di scappare, sfuggire al suo aguzzino. Ha ripreso a sfregare la corda del braccio destro contro la sporgenza della testiera del letto. È incurante della stanchezza, del dolore lancinante che sente al ventre e all’altro braccio.
Sfrega, sfrega, sfrega e sfrega ancora.
Quella stramaledetta corda deve spezzarsi e consentirle di essere libera. Ha dentro di sé una rabbia e un odio indicibili. Vorrebbe avere tra le mani quel bastardo del “Persecutore” per infliggergli ogni sorta di male. Vorrebbe tranciargli il pene e farglielo ingoiare.
Se solo quella corda si spezzasse…
Il braccio le duole da morire. Si è procurata delle abrasioni sulla mano anche per l’accanimento con cui sta cercando di liberarsi.
Ma non importa. Deve farcela, non vuole fare la fine di Sonia. Il suo istinto di sopravvivenza la sta guidando in una missione ai limiti del possibile, ma se
attende ivamente gli eventi la sua morte sarà certa.
I suoi movimenti sono quasi paranoici.
Deve farcela, deve farcela, deve farcela.
Deve uscire da quella stanza che olezza di morte. Quella puzza la sente sui vestiti, sul corpo. L’aria è intrisa di un fetore irrespirabile. Sfrega la corda in maniera spasmodica. In quel momento scorrono le immagini dell’impiccagione di Sonia. Barbara per un momento le guarda e come reazione sfrega ancora più forte.
Si ripete che deve farcela, deve farcela, deve farcela.
Deve uscire da quella casa perché ha il bisogno di urlare, gridare, strillare, ruggire il proprio rancore contro gli uomini che l’hanno abbandonata nelle mani di un assassino. Il mondo deve sapere quello che le è successo, perché non capiti ad altre donne quello che è accaduto a lei. Mai più. Un rumore. Barbara interrompe i suoi movimenti. Sente la chiave che gira nella toppa della porta. “Merda” pensa “sta tornando”. Si sdraia completamente e finge di dormire.
Sente i i nella stanza che si avvicinano al letto. Poi una mano le prende il braccio destro e lo alza leggermente. Sente un ago che le penetra la pelle. È questione di pochi secondi. La mente si annebbia, il cuore rallenta i suoi battiti. Si sente completamente rilassata. Ha solo voglia di tenere gli occhi chiusi. Che bellissima sensazione. Tutti i pensieri abbandonano il suo cervello ed entra in uno stato di piacevole oblio. È sopraffatta dal sonno ed ora solo il buio la circonda.
Un colpo di clacson. Alessio Cipriani si sveglia di soprassalto. Nel sonno aveva appoggiato la testa sul volante dell’auto e inavvertitamente ha schiacciato il dispositivo sonoro.
«Merda!» urla con rabbia.
Guarda l’orologio. Sono le 8.30.
Si gira istintivamente verso la sua sinistra e vede che il Suv della dottoressa non c’è più.
Colto da uno stato di agitazione, afferra il cellulare e telefona all’Ospedale “Molinette”. Si fa are il reparto di Cardiologia.
Una voce gentile risponde.
«Buongiorno» dice con tono concitato Cipriani. «Vorrei parlare con la dottoressa Mori».
«Mi dispiace signore» è la laconica risposta, «ma la dottoressa oggi non viene. È malata».
«Cosa vuol dire è malata?» il poliziotto senza rendersene conto ha iniziato ad
alzare la voce.
«Come mi scusi…?» la voce al telefono rivela chiaramente una persona impreparata a quella reazione.
Cipriani in un attimo però recupera il controllo di se stesso. «No… mi scusi lei… grazie». Immediatamente il vicecommissario accende il suo computer per rilevare la posizione dell’auto della Mori. Guarda il piccolo punto blu lampeggiare. Sta percorrendo l’autostrada Torino – Aosta. È vicina all’uscita di Verres.
Cipriani impreca. È stato un incapace. Ha sbagliato come un dilettante. È distante più di ottanta chilometri dalla persona che doveva proteggere.
Solo un dato ormai è certo.
Lui l’ha presa. Barbara non sa da quanto tempo si trovi lì. Non sa neanche dove sia il “lì”. Certo sono ate delle ore da quando si è risvegliata, ma non saprebbe dire quante. Probabilmente l’hanno portata nello stesso luogo dove hanno ucciso l’altra ragazza. Ripensa a quella poveretta.
Quello che sa di sicuro è che non potrà resistere ancora a lungo. La sua forza fisica e la sua volontà stanno giungendo al termine. Gli occhi non sono abituati al buio pesto. Per quanto possano essere dilatate quasi fino ad esplodere, le pupille non riescono a scorgere neanche un filo di una qualunque luce, naturale o artificiale che sia. Le orecchie sentono solo il suo respiro affannato e i colpi di tosse sempre più frequenti e violenti. Ormai non riesce nemmeno più a capire quale parte del corpo le faccia più male né dove siano precisamente le ferite sulla
pelle. Anche se giace sdraiata su quel pavimento invisibile ed umido, le fitte non cessano di tormentarla… braccia, gambe, schiena e torace sono divenuti magazzini di dolore lancinante al quale non è possibile abituarsi. Ma non è più possibile neanche combatterlo perché le forze sono troppo scarse per poterle venire in aiuto.
Da quando è stata portata lì dentro è andata sempre peggio. Il “Persecutore” ha trovato subito il modo per far tacere le sue urla e i suoi interrogativi. La prima volta che la porta si è aperta, pensava che fosse venuto a darle da mangiare. Invece sono arrivati i colpi al viso, una mano pesante che non si tratteneva minimamente. Una violenza eseguita e non spiegata, sempre che la violenza possa trovare una spiegazione plausibile. Il crudele aguzzino non ha mai parlato… i pugni ed i calci alla schiena ed allo stomaco si sono spiegati benissimo e dopo le prime “riate”, la voglia di gridare o di fare domande è scomparsa.
Ma non la voglia di lottare.
Ci deve essere un modo per capire dove si trovi e se ci possa essere una via d’uscita.
A lungo è avanzata in quel buio maledetto a tentoni, strisciando le mani sulle pareti ruvide e sul pavimento per cercare qualunque cosa potesse darle speranza. Alla fine, a furia di esplorare, i polpastrelli sono riusciti a trovare una superficie liscia e fredda… una parete di metallo? Una porta di metallo! Ma priva di maniglia, purtroppo. La maniglia si trova solo all’esterno e quando è stata abbassata, facendo scattare la serratura e riportando il torturatore nella prigione buia, è bastato un calcio al mento per sbatterla al suolo senza un grido, facendole perdere i sensi e la curiosità.
Si è ripresa da poco tempo e quelle fitte sempre più pressanti le impediscono persino di ragionare. Il capo è rivolto verso il punto della stanza dove crede si trovi la porta di metallo. È terrorizzata al pensiero che possa aprirsi nuovamente. Non potrebbe scappare, lo sa bene. Non potrebbe avere ragione di lui neanche se fosse nel pieno delle energie, figuriamoci in quelle condizioni! E poi come può combattere un avversario che non riesce a vedere? Anche quando fa il suo ingresso, non traspare nessuna luce dall’esterno. Come può vederla così bene e colpirla con tanta precisione? Ma soprattutto perché? Perché tutto questo? Quale colpa può averle fatto meritare una punizione del genere?
È finita nelle mani di un pazzo che si diverte a torturare ed uccidere le donne in quella stanza buia, come fosse un moderno boia.
Forse ai suoi occhi malati, le persone che porta in questo luogo hanno delle colpe a loro sconosciute… colpe che lui deve lavare via nel più crudele dei modi. Una sorta di psicopatico giustiziere, quindi?
E se non ci fosse un motivo razionale per spiegare tutto ciò? Se fosse lì solo per un macabro disegno del destino, impossibile da decifrare? Questo fa molta più paura della sua condizione in sé. Deve esserci una ragione per quanto folle o assurda che sia, ma deve esserci!
Sapore dolce in bocca: il suo sangue. Prima che sbattesse la nuca al suolo, ricorda molto bene la punta della scarpa che andava a colpirla. Sapore dolce e la bocca piena. Sente il bisogno di sputare, sente le gocce del suo sangue cadere sul pavimento, ma quell’orribile dolce sapore in bocca non vuole saperne di andare via.
“Da quante ferite sta perdendo sangue?”, si domanda.
“Forse il pavimento è tutto rosso, ora… tutti quei colpi… forse ho un’emorragia interna… sto morendo dissanguata!”
Ma il suo aguzzino non aveva detto che doveva arrivare nelle migliori condizioni possibili al momento dell’esecuzione? Probabilmente quel folle non riesce a frenare la sua allucinante voglia di arrecarle dolore. Una fitta pazzesca alla schiena la strappa a questo pensiero e la conduce ad una nuova considerazione: “Il dolore. Dicono che quando stai per morire non senti più dolore… allora non sto per morire”.
È una follia: gioire per il dolore che sta martoriando il proprio corpo. Gioire sapendo che l’alternativa è peggiore.
Ma è così vero? In questa circostanza, davvero la morte è peggiore di quello che ha subìto e di quello che la attende? Perché non crede davvero che sia la libertà ad attenderla.
Non sarebbe meglio ora abbracciare la compagna di tutti gli esseri viventi?
Non sarebbe meglio prenderle la mano e farsi accompagnare da lei nell’ultimo sentiero, com’è destino di tutti?
Non sarebbe meglio rispetto al dolore che sta provando?
No, no.
Chi non ha più alcuna speranza parla a questo modo. Non può perdere la speranza di fuggire, è ancora giovane per morire. Molto, troppo giovane. Deve restare lucida e continuare a ragionare. Un attimo.
Lei nella tasca dei pantaloni della tuta tiene sempre delle grosse spille da balia. Le servono per stringere l’elastico un po’ troppo largo. Forse l’uomo non si è accorto che le aveva quando l’ha imprigionata! Del resto non ci aveva pensato nemmeno lei se non avesse fatto mente locale. Certo, delle spille da balia non farebbero molta differenza, ma magari contribuirebbero a darle più coraggio. La mano corre velocemente dentro la tasca dei pantaloni e si mette a cercare i piccoli ma preziosi oggetti… le dita che frugano nervosamente in uno spazio piccolo eppure non sembrano incontrare nulla nella loro ricerca fino a quando l’indice sbatte contro una protuberanza in metallo. Ne tocca una, due, tre. Basta scorrere poco più giù ed ecco che il polpastrello delinea i contorni delle spille.
Trovate!
Prima di tirarle fuori, gli occhi si spalancano e cercano ancora nel buio, in direzione delle pareti e del soffitto. Forse vedranno lampeggiare un minuscolo led rosso, forse ci sono delle telecamere appostate, forse qualcuno la sta spiando. Niente, nessun led. Almeno non riesce a vederlo. Si sfrega le palpebre e prova ancora qualche volta a guardarsi intorno. Non può essere sicura al cento per cento. È veramente troppo buio per poterlo essere.
Bisogna rischiare!
Però potrebbero esserci davvero delle telecamere e se chi sta spiando vedesse comparire magicamente degli oggetti metallici nelle mani della prigioniera,
prima si darebbe dello stupido per non averla perquisita a fondo, poi entrerebbe nella camera e la riempirebbe di botte ancora una volta togliendole anche quel barlume di coraggio.
Ma se non ci fosse nulla appeso al soffitto o alle pareti, si potrebbe iniziare a pensare più positivo.
Combattuta dal conflitto interiore, Barbara si dimentica persino di respirare e dimentica anche il suo dolore. Poi, quasi con un gesto involontario, la mano destra riemerge dalla tasca stringendo le piccole “armi”.
Dopo aver ato parecchio tempo a tastarle, ha imparato che quelle pareti non sono certo di ferro come quella maledetta porta. Non sarà una cosa facile in mezzo a quel buio ma è la sola idea e va sfruttata. La grossa punta della spilla penetra dentro il muro che pare assai friabile. Anche se le mani dolgono, iniziano a fare il loro lavoro. A poco a poco l’intonaco cede ed il suono dei frammenti che cadono al suolo infonde nuova forza e regala un sorriso di soddisfazione su quella bocca insanguinata.
Quando pensa di aver fatto troppo rumore si ferma e si guarda intorno tendendo le orecchie verso la porta d’ingresso. Poi i nervi si distendono nuovamente e continua a scavare.
Non vuole pensare che potrebbe metterci mesi per riuscire ad aprire un varco.
Non vuole pensare che potrebbe non arrivare da nessuna parte o che potrebbe esservi del cemento armato sotto l’intonaco a frenare la sua speranza.
O peggio ancora non vuole pensare che la punta possa spezzarsi e rendere nullo tutto quello che ha fatto finora.
Non vuole pensare a nessuna di queste tragiche possibilità o non potrebbe far altro che rannicchiarsi su sé stessa ed iniziare a piangere.
Ha poco tempo a disposizione per salvare la propria vita.
ano i minuti, poi la stanchezza prevale. Non può far altro che rimettere la spilla in tasca e sdraiarsi sul pavimento. Il dolore al ventre è ripreso più forte di prima e le mani sono intorpidite. Adesso deve riposarsi. Dovrà avere molta pazienza ma è sicura che i suoi sforzi saranno premiati.
Barbara riapre gli occhi. Si era addormentata. Quanto tempo sarà ato? Chi può dirlo? È sempre immersa nel buio.
Ricorda che qualche volta ha pensato a quanto debba essere triste essere ciechi, convivere con le tenebre per tutta la vita. «Oh, mio Dio! No!»
Un’esclamazione disperata per un’altra ipotesi di angoscia che è prepotentemente balzata nella sua testa.
E se fosse così? Se fosse diventata cieca?
Tutto quel buio non può essere naturale, lo ha sempre pensato. Per quanti sforzi faccia non riesce a distinguere nulla in quelle tenebre. Ma gli occhi si abituano all’oscurità anche se fitta. Qualcosa avrebbe dovuto scorgere, per tutto il tempo ato lì dentro quella maledetta stanza. Tutti quei colpi al viso, oltre che al corpo, possono aver danneggiato i nervi ottici, possono averle tolto la vista! La spiegazione è tanto semplice quanto spaventosamente triste ed ora non è proprio possibile trattenere le lacrime. Anche quel piccolo buco nel muro non ha più nessun senso.
L’eco dei ripetuti singhiozzi che rimbomba nella stanza, quasi copre il gelido rumore del chiavistello e il cigolio metallico della porta che si apre lentamente. Quasi… ma quando si resta in una stanza buia così a lungo senza poter contare sui propri occhi è come se gli altri sensi si amplificassero e quindi le orecchie sentono anche i rumori più insignificanti. E questo rumore, anche se leggero è tutt’altro che insignificante. È il rumore.
Barbara implora il “Persecutore”. «No… basta… basta per favore… non picchiarmi più… non violentarmi… ti prego, ti supplico…».
Nessuna risposta nel buio.
Ma d’altronde ha senso pensare che il suo aguzzino possa provare pietà proprio ora?
Quante possibilità esistono che egli venga mosso da comione solo adesso, dopo aver sfogato tanta, troppa violenza su una donna?
Una donna portata via alla sua vita ed alla sua serenità, una donna che ha
sopportato più di quanto una persona normale possa subire in una vita intera. Non può esistere pietà per lei proprio adesso, non avrebbe alcun senso sempre che vi sia un senso in quello che le sta succedendo.
Il buio non risponde ancora alla sua supplica. Già pensa che arriverà un pugno, un calcio che aggiungerà nuovo dolore a quello accumulato. Da dove arriverà? Non lo vedrà nemmeno stavolta, è sicura… ma lo sentirà. Istanti piatti, uguali, in attesa del responso. Ma non accade niente… niente fino al suono di un oggetto appoggiato sul pavimento seguito dalla porta che la rinchiude nuovamente nella prigione di tenebre. Nessun pugno, nessun calcio.
Si chiede perché. Perché stavolta non è stata picchiata senza motivo? Perché mai questa volta ha avuto pietà? Fa parte del suo crudele divertimento?
Domande troppo difficili che si intersecano ad altre ancora senza risposta ed altrettanto ansiose. Meglio cercare di rispondere al quesito più semplice, per il momento: cosa c’è per terra a pochi metri da lei?
Barbara striscia nella polvere e nello sporco senza pensare, cercando di zittire la voce prudente che ancora vorrebbe farsi largo nella sua mente e che le suggerisce che potrebbe essere una trappola. Forse una tagliola che le mozzerebbe la mano una volta toccata, o peggio. La curiosità non permette alla prudenza di avere la meglio e così le dita arrivano a toccare quella “cosa”. È molliccia ed emana un odore assai sgradevole. La mano di Barbara tasta quell’oggetto cercando di capire di che cosa si tratti. Lo palpa, lo scorre dall’alto verso il basso. È un oggetto lungo che sembra tenda ad assottigliarsi in corrispondenza di una delle due estremità. Poi improvvisamente si allarga e Barbara sente che la parte finale dell’oggetto è composta da cinque piccole protuberanze…
Non può essere! Barbara vacilla e ritrae schifata la mano. È sicura, quello che ha appena toccato è un braccio mozzato! Probabilmente il braccio di Sonia.
La donna in preda all’orrore si rialza e si mette a correre in una direzione qualsiasi. Corre nel buio, nell’oscurità, nelle tenebre. Non vede nulla. Va a sbattere contro il muro e rimbalza per terra. Si rimette in piedi e riprende a correre nella direzione opposta. Sbatte nuovamente. Le ferite al volto causate dagli urti si aggiungono alla ferite già esistenti.
Barbara è colta da un raptus. Deve uscire da quel luogo macabro, deve scappare da quella prigione che le ricorda soltanto che dovrà morire di una morte atroce.
Trova la porta in metallo. Sbatte i pugni con tutta la forza che le è rimasta e urla singhiozzando. «Ti prego… liberami… per favore… abbi pietà… lasciami andare». Nessuna risposta arriva dall’esterno. Barbara si piega sulle ginocchia appoggiata alla porta. È disperata. Piange a dirotto. Un forte senso di nausea la assale. D’improvviso si sente mancare e cade riversa per terra. Barbara è svenuta.
Un sonno profondo che dura… non si sa quanto. È una sorpresa il risveglio: la speranza non è ancora svanita. Potrebbe dirsi aumentata persino. Barbara prova a ignorare mentalmente quel braccio che lì, nel buio, è a poca distanza da lei. Si sente un po’ rinvigorita. Si ricorda delle spille da balia che ha in tasca. Ora ha più energie per continuare a scavare. Resta solo da trovare il punto esatto dove aveva iniziato il suo progetto di evasione. La donna è stupita dall’aver ritrovato il piccolo buco in poco tempo. È come se, oltre l’udito, anche il senso di orientamento sia stato giovato dal buio che la avvolge. Via con la punta ed i colpi ora sono più vigorosi e più decisi.
Arriverà dall’altra parte e vedrà la luce, la luce del sole e fuggirà da questo
incubo!
Questo pensa e questo desidera con tutta sé stessa. Alla fine, la punta della spilla a dall’altra parte del muro evidentemente molto sottile.
Ma che c’è dall’altra parte?
Non arriva nessun raggio di luce, nessun piccolo bagliore, naturale o artificiale che sia: solo buio anche dall’altra parte, lo stesso maledetto buio.
Lo stesso maledetto buio che c’è in quella maledetta stanza!
Non può essere! Non può crederci!
Sembra un interruttore che si sta spegnendo. Quello che prova è simile: la speranza si è spenta come un interruttore spegne la luce di colpo. Alla fine quello che resta è solo il buio, dentro e fuori. Un buio impenetrabile che rafforza la convinzione di essere diventata cieca e che riduce le probabilità di fuga in quella condizione. No!
Non deve comportarsi così!
Non deve mettersi a pensare proprio adesso! È la cosa peggiore da fare! La farà solo piangere e non la porterà a nulla se non ad altre botte, se mai l’uomo la dovesse sentire!
Basta così! Deve smetterla ora! Deve cavarsela da sola!
Un gemito indistinto, un filo di voce che non è sfuggito all’udito più sensibile. Pare anche avere un senso. Una voce dalla sua mente che sta ormai vaneggiando?
Un altro! Un altro più vicino, non è un lamento è una richiesta d’aiuto, una richiesta disperata che proviene dall’altra parte del muro. Un’anima sofferente intrappolata in un’altra stanza buia.
«Aiuto, c’è qualcuno? Aiuto…».
La voce è spezzata dalla stanchezza, una voce femminile indifesa e flebile. Anche lei è stata picchiata? Anche lei è stata annientata?
I lamenti continuano, ma anche se sono vicini, si fanno via via più leggeri, la voce sta cedendo. Che deve fare? Non sa se rispondere. Ma non può restare indifferente, deve farle sapere che non è sola! Che non sono sole!
«Chi… chi sei?» chiede Barbara con circospezione.
Solo silenzio al suo titubante appello.
«Chi sei?» chiede con maggior risolutezza. «Ti ho sentita, non aver paura! Parlami per favore o penserò di aver sognato la tua voce e non voglio averla sognata! Non voglio essere sola un’altra volta! Non voglio impazzire!»
Ancora un silenzio sconfortante segue al secondo appello. Poi, finalmente, giunge la risposta tanto attesa: «Sono qui… non so dove…».
«Io sono Barbara. Come ti chiami?»
ano alcuni secondi e poi Barbara sente distintamente la voce. Ma è un’altra voce. Una voce che annienta le sue speranze residue. «Ciao, Barbara…».
Paralisi improvvisa.
Battiti del cuore che si fermano.
Corpo che inizia a tremare.
Forze che si dissolvono.
Mutandine che si bagnano di urina.
Conati di vomito incontrollabili.
Quella che Barbara ha appena ascoltato è la voce del “Persecutore”.
Un rumore insopportabile.
Lampi di luce che accecano.
Barbara si risveglia nuovamente dopo l’ennesimo svenimento.
È intontita, ma non ha tempo per pensare a quello che è avvenuto un tempo indefinito prima.
La stanza non è più buia. Sul muro di fronte a lei vengono proiettate delle immagini dall’alto.
Sono immagini ripugnanti.
Immagini di sesso estremo, di amputazione di arti, di torture barbare.
Immagini che si sovrappongono e si alternano in un mix di sconvolgente brutalità.
Ma c’è un particolare che colpisce Barbara.
Sul muro illuminato è ben visibile l’ombra di un oggetto colpito in pieno dal fascio di luce del proiettore.
È un’ombra sinistra.
È un cappio che penzola.
Al soffitto di quella stanza è appeso un cappio. Un cappio che è stato messo apposta per lei. E che lei, colta dalla disperazione più totale, non potrà fare a meno di usare per porre fine una buona volta alle sue sofferenze.
Barbara è tentata. Ha la possibilità di uscire da quell’incubo senza fine. Alza le braccia e tasta il vuoto davanti a lei per cercare di afferrarlo. Dopo alcuni i la sua mano destra sfiora la corda e l’agguanta con forza.
Guarda nuovamente le immagini proiettate sul muro.
In quel momento va in onda un filmato amatoriale che riprende la scena di uno stupro di gruppo ai danni di una donna più o meno della sua stessa età.
Barbara ha nuovamente un conato di vomito, ma cerca di non svenire un’altra volta.
Afferra con le due mani il cappio, ma deve fare un salto per infilarselo al collo.
Ha deciso. Lo farà. Sta per slanciarsi, quando improvvisamente si ferma. È un attimo. Quasi senza rendersene conto, viene pervasa da una nuova linfa, da una nuova energia, da un nuovo vigore.
Neanche lei sa bene cosa le stia succedendo. Di una cosa però è certa. Non vuole ancora morire. Vuole ancora provare a restare in vita. Le è balenata un’idea per la testa.
Un’idea folle.
Il Suv è parcheggiato in una piazzola di sosta isolata. Alessio Cipriani lo osserva sconsolato. A bordo non ha trovato alcuna traccia che possa in qualche modo condurlo al luogo dove, presumibilmente, è tenuta prigioniera Barbara Mori. Si trova nei pressi di Brusson, un piccolo paese montano in Valle d’Aosta, vicino alla più nota Champoluc.
Il poliziotto si guarda attorno. Barbara potrebbe essere ovunque. Oltre al piccolo centro abitato, ci sono decine di case sparse lungo la strada o disperse nella rigogliosa vegetazione della valle.
Non sa cosa fare.
È tentato di rivolgersi ai Carabinieri del paese per chiedere aiuto. Ma è
consapevole del fatto che nel momento stesso in cui lui si rivolgesse alle Forze dell’Ordine, la sua indagine da privata diventerebbe pubblica. E lui non vuole che ciò accada.
La ricerca di Barbara Mori è affar suo.
Sale in auto. Perlustrerà la zona alla ricerca di qualche traccia, di qualche indizio che possa in qualche modo consentirgli di ritrovare la donna. Si lascerà totalmente guidare dal suo fiuto di poliziotto che tante volte lo ha aiutato in altre circostanze.
Il conto alla rovescia finirà il giorno dopo.
Deve fare in fretta e non può più sbagliare.
Barbara, vincendo la ripugnanza che prova per quello che sta per fare nonché la nausea provocata dal maleodorante odore che emana, raccoglie il braccio, dopo aver tastato per alcuni minuti il pavimento. Lo stringe fra le mani, si avvicina in punta di piedi alla porta di ferro e si mette dietro ad essa. È tesa. Non sa se il suo “piano” sarà coronato da successo. Ma adesso non è più tempo per pensare. Deve agire, subito.
Quando le grida escono acute dalla sua bocca, anche lei stessa si meraviglia: non immaginava certo di avere ancora così tanto fiato in corpo. Le invocazioni di aiuto rimbalzano su ogni parete e nella sua testa. Lo sfogo di Barbara si diffonde nella stanza, dopodiché si zittisce ed attende dietro la porta. Attende trepidante la reazione desiderata e sorride soddisfatta quando sente il chiavistello scattare e la porta aprirsi. Può sentire benissimo i i del nemico che si fanno strada sulla
soglia. Le mani stringono ancora più forte quella parte di corpo recisa con indicibile crudeltà. Barbara non riesce a distinguere bene i lineamenti del carceriere ma può intravedere la sua sagoma e questo le basta. Con tutta la forza che ha in corpo, colpisce con il braccio mozzo l’uomo che è appena entrato nella stanza. Al rumore del violento impatto segue un lamento di dolore che non sfugge alle orecchie di Barbara. La luce del proiettore le consente di intravedere quel tanto che basta per far sì che il suo calcio si possa abbattere con estrema precisione nel ventre dell’uomo. Ancora un altro rumore, più ovattato ma anche più intenso dei precedenti. L’aguzzino è crollato al suolo privo di sensi o perlomeno stordito. Il piano è riuscito!
Barbara aveva pensato di non riuscire più a ricordare come si sorridesse, ma adesso che corre nel corridoio, oltre la stanza buia che l’ha trattenuta così a lungo, crede di avere un bellissimo sorriso stampato sul volto.
Anche il corridoio è immerso nell’oscurità, ma in fondo ad esso Barbara vede una luce che lo rischiara fiocamente, la luce della libertà.
D’un tratto un dolore fortissimo alla nuca, proprio alla base del collo. Un dolore che mozza qualsiasi movimento all’istante e perfino qualunque emozione. Un dolore che non riesce a contrastare.
Barbara è crollata sul pavimento, ma ha ancora la forza per ragionare. “Non l’ho colpito abbastanza forte. Si è rialzato e mi ha preso alle spalle, o forse non è solo. Un altro faceva la guardia oltre la porta e non l’ho visto. Era buio, come potevo vederlo? Come ha fatto a vedere me? Come facevano loro a vedere sempre me? Non importa come… non ha nessuna importanza perché il risultato non cambia. Ho fallito”.
Due braccia sollevano Barbara e la trascinano con forza nella stanza buia. La
porta viene serrata. È di nuovo rinchiusa nella prigione.
Il dolore alla nuca è ancora lancinante, sente una specie di ronzio alle orecchie che le fa pulsare le tempie. È stato un colpo molto forte ma si stupisce di essere ancora viva. Qualcosa le preme la bocca. Un sapore di plastica, nastro adesivo. Non vogliono che prenda l’iniziativa di gridare ancora.
Ora non ha la minima idea di quello che le accadrà. O meglio, sa bene quale sarà il suo destino. La domanda è quando il “Persecutore” procederà nella sua terrificante esecuzione.
L’istinto porta la mano di Barbara alla bocca per strappare quella fastidiosa barriera, tuttavia le sue mani si fermano quando le orecchie sentono qualcosa vicino a lei. Un respiro pesante, una presenza in quella stanza buia.
Sta arrivando la punizione per aver cercato di scappare? Sta arrivando l’ennesima razione di botte?
Una voce la strappa all’attenzione verso quella presenza: «Uccidi… o sarai uccisa».
Una frase breve. Poche parole che hanno espresso un significato chiarissimo. Una scelta da fare immediatamente, a quanto pare, una scelta ripugnante per qualunque persona, per qualunque età. Una scelta da incubo, l’unica scelta che può salvarle la vita.
Adesso è piombato nuovamente il silenzio nello spazio angusto. Il proiettore è stato spento. La stanza è di nuovo immersa nella più totale oscurità.
Solo due respiri a spezzare debolmente quel mutismo.
Barbara ha completamente dimenticato lo scotch sulla bocca… le pupille scrutano il vuoto delle tenebre e lei si sta chiedendo quale sarà la sua scelta. Un sibilo. Un gemito di dolore soffocato dal nastro. Un bruciore acuto al braccio sinistro. Il suo braccio… il suo dolore. Sente bagnato dove brucia… sangue? Non può sentirne il sapore dolce ma sa che è quello. A quanto sembra, il suo compagno di stanza ha impiegato poco tempo per decidere. Ha già fatto la sua scelta ed ha obbligato Barbara a scegliere di conseguenza.
Un altro sibilo… il bruciore colpisce il fianco questa volta. Deve reagire al più presto o non avrà più forza per farlo né il tempo, perché il prossimo attacco potrebbe anche essere l’ultimo.
I sensi all’erta.
Una donna di quarant’anni che lotta per la propria vita, una donna che non ha più la mente di una donna. Ora nella sua mente cerca la ferocia, cerca l’odio che la può tenere in vita.
Il terzo sibilo che fende l’aria. Ma questa volta non fa seguito nessun bruciore e non una goccia di sangue che esce dalla ferita. Anche se non riesce a comprendere nemmeno lei come abbia fatto, è riuscita a evitare il colpo. Ma l’avversario è ancora lì, ci riproverà.
Deve sconfiggerlo se vuole vivere!
Deve ucciderlo o verrà uccisa!
Frugando nella tasca, Barbara prende l’ultima spilla da balia che è rimasta integra. Piega il metallo in modo da avere in mano una specie di piccolo coltellino. Non sa quanto male possa fare, ma se piantata con forza…
Il respiro dell’avversario è vicino, lo sta per individuare… concentrazione… concentrazione… Un rumore per terra! È inciampato nel braccio mozzato, lì proprio davanti a lei. L’affondo scatta perentorio e dal buio si leva un grido soffocato.
Anche l’altro aveva lo scotch sulla bocca?
Negli attimi di silenzio che seguono, Barbara sente la mano che impugna la spilla bagnarsi copiosamente. Lascia l’arma improvvisata che però non cade sul pavimento… è il corpo del nemico a schiantarsi su di essa.
Ha ucciso il “Persecutore” che l’ha rapita, finalmente?
Ha ucciso chi ha distrutto la sua vita?
Può essere stato così semplice, in fin dei conti?
Uno, due, tre, dieci lampi che disintegrano le tenebre. La stanza illuminata come fosse immersa nel sole.
Quelle luci che frustano le pupille di Barbara e la costringono a farsi scudo con le mani, fin quando il pizzicore diventa sopportabile e consente di sollevare le palpebre il necessario per guardarsi intorno.
Vede un corpo immobile davanti a lei. Il corpo pieno di sangue e la spilla piantata nel petto. Lo scotch sulla bocca, una scheggia di pietra appuntita nella mano sinistra.
Barbara si libera la bocca con uno strappo secco e doloroso. Gli occhi adesso sbarrati che non possono smettere di fissare il cadavere di una giovane ragazza. Una ragazza terrorizzata, una ragazza con cui lei forse ha condiviso dolore, speranza e paura. Una ragazza che ha appena ucciso per la propria sopravvivenza.
«Alzati! Muoviti! Rispondimi! Io… io non volevo… non volevo… perdonami…».
Improvvisamente sente una voce proveniente da un altoparlante incastrato nel soffitto. La voce del “Persecutore”: «Povera Barbara, pensi che non sapessi che avevi delle spille nella tasca? Ora anche tu sei un’assassina. Cosa provi in questo momento? Non è eccitante? Pensa, ti porterai nella tomba questo ricordo, per sempre».
Dopo aver pronunciato quelle parole, l’uomo si rivolge a un’altra persona presente in un piccolo studio dove sono installati numerosi monitor. Uno, collegato a una telecamera a raggi infrarossi, sta inquadrando Barbara, che è piegata su se stessa e sta urlando la propria disperazione.
«Sei stato molto bravo a far credere a quella puttana che eri svenuto. Preparati per domani mattina. Sarà di nuovo il tuo giorno. Voglio un lavoro chirurgico perfetto, come per l’altra ragazza».
«Non ti preoccupare» risponde il secondo uomo con un sorriso sinistro sulle labbra. «Non vedo l’ora di procedere all’amputazione di quelle due splendide braccia sinuose».
27.Brusson, 23 settembre 2007 – ore 21.05, vigilia dell’esecuzione
È rannicchiata in un angolo. Lo sguardo assente, sperso nel vuoto buio della stanza. Dicono che quando una persona sta per morire, ripercorre mentalmente tutti i ricordi più belli della sua vita. Soprattutto i ricordi legati ai propri cari. È quello che sta facendo Barbara. Perché Barbara è consapevole che sta per morire.
E allora i pensieri si affollano nel suo cervello, stentano a trovare un nesso logico, ano alla rinfusa da un momento all’altro della sua vita, da quando era bambina a quando è diventata adulta. Ma hanno tutti un solo filo conduttore: i suoi genitori. Barbara ricorda soprattutto loro, che l’hanno lasciata prematuramente. E ricorda in particolare suo padre, magistrato stimato, ma con il vizio del gioco, al quale era particolarmente attaccata, morto suicida una decina di anni prima. È lucida in questo momento catartico e rilegge mentalmente quell’ultima lettera lasciata dal genitore prima di togliersi la vita. È una lettera che conosce a memoria.
Maggio 1998
Carissima mia adorata Adele,
carissima mia piccola Barbara,
durante tutti questi gioiosi anni trascorsi insieme a voi, tra alti e bassi, come in tutte le famiglie, ho sempre cercato di portare il bene per la nostra famiglia anche a scapito di me stesso e dei miei amici. In effetti prima di tutto viene la
nostra famiglia e poi tutto il resto. Ho avuto pure la forza, malgrado la situazione in cui mi trovo, di aiutare un amico, uno dei pochi veri amici che mi siano rimasti, ma purtroppo non ce l’ho fatta ed ora sono giunto alla fine del mio travagliato viaggio. Finalmente ho trovato la pace e la tranquillità che forse, inconsapevolmente ed inesorabilmente, stavo già da tempo cercando.
Ho tradito la fiducia degli altri, in primis quella della mia famiglia, quella di mia figlia, quella di mia moglie.
Ho dovuto combattere, lottare e sto ancora combattendo e lottando contro i miei sbagli e i miei errori, la troppa e smodata fiducia negli altri, la disperata ricerca di un aiuto mai incontrato, le avversità della vita, le fatalità della burocrazia, l’indolenza abnorme della nostra Giustizia e la perfidia di gente che non vuole vedere un uomo, sereno e tranquillo, lavorare e dedicare il suo tempo alla sua famiglia e ai suoi figli.
No! Loro non te lo permettono!
Anzi! Io che ho sempre creduto in loro, nella loro solidarietà, sia come colleghi di lavoro, sia come amici, sia come confidenti! Proprio loro, i miei amici, nei quali avevo riposto la mia totale fiducia sono stati i primi a rallegrarsi del mio sfacelo, del mio lento ed inesorabile declino come uomo, come essere umano!
Appena ne hanno l’occasione sparlano con chicchessia, irriguardosi e irrispettosi della mia persona, di me, dei miei sentimenti, della mia famiglia e della mia deplorevole situazione attuale. Quando mi incontrano, non indugiano a sorridermi e mi augurano una buona e felice giornata, malignando sotto i baffi, con una contentezza che solo quelli come loro possono esternare, godendo delle mie disgrazie. Commentano, travisano, contorcono, modificano e divulgano a tutti i loro conoscenti e colleghi per sparlare di me, della mia
attuale situazione finanziaria.
Quanta ipocrisia! Quanto conformismo! Quanto convenzionalismo!
Che gran “merda” di uomini, rispettosamente parlando della “merda”, mi trovo attorno! E il lato peggiore e allo stesso tempo ironico è quello che io, ingenuamente, ho ancora la ferma convinzione che sono miei buoni amici, colleghi di lavoro che hanno, almeno così credevo, il Codice Deontologico, il riserbo, il tanto decantato e rispettato segreto d’Ufficio, l’etica morale e il lato umano, particolarmente forte, avendo fatto un giuramento dinnanzi alle Autorità e alla Costituzione.
Ma nemmeno uno di questi forti e fondamentali concetti ho riscontrato in loro, nessuno escluso. Che gran bella porcheria di uomini, rispettati dai più, poiché “tutori della legge” ma senza un briciolo di umanità, in particolare verso un amico, un collega in difficoltà, bisognoso di conforto, di aiuto, di una mano amica.
Io li classifico piuttosto null’altro che delle grandissime “merde” del genere umano che si tutelano e si nascondono dietro una divisa, quale scudo impenetrabile, per il loro subdolo e bieco modo di agire, con la ferma convinzione, la loro, di agire a fin di bene.
La maggioranza di loro si diverte, gode immensamente nel vedere una persona distrutta moralmente e fisicamente, in modo speciale se quella persona è stata estromessa dalla loro cerchia perfetta, immacolata e irraggiungibile, l’elite, il non plus ultra, coloro che lavorano per il bene del prossimo e non sono eguali a nessuno, sono gli unici degni di rimanere sul piedestallo più alto rimirando la plebe, sempre e solo dall’alto verso il basso. E se fra questi vi è un loro collega, allora bisogna cercare di rovinarlo e mandarlo a fondo più di quanto già non lo
sia e senza minimamente curarsi o preoccuparsi del perché o del percome lui, loro amico, sia finito in fondo al baratro della disperazione, della miseria e della solitudine!
Mi sembra di identificare in loro madre natura che, trasformata in un branco di lupi, estromette un consimile perché malato o infetto e, se gliene capita l’occasione, lo schernisce, lo deride, lo umilia e lo allontana sino ad ucciderlo o lo spinge ad uccidersi come stanno facendo loro, sì proprio loro, i miei amici e colleghi, con me. L’unica e sostanziale differenza è soltanto quella dettata dal fatto che il vero branco di lupi, in natura, lo fa per la sopravvivenza del branco stesso mentre loro, gli eletti del genere umano, usano la stessa tattica, ma non per sopravvivenza bensì con puro e astuto intelletto per divertimento. Tutto questo mi fa ribrezzo, ripugnanza, nausea, disgusto.
Vi prego, miei cari, perdonatemi se potete e non abbiate nessuna pena per una nullità, un’inanità e un fallito come me.
Lo so che quello che io ho fatto lo chiamano gesto sconsiderato, inutile, senza senso, senza un perché accettabile e ragionevole. È vero, la vita è e rimane, sempre e comunque, un gran bene prezioso e unico e vale la pena di viverla. Gran belle parole! Certamente per uno che abbia ancora la voglia di continuare e soprattutto qualcosa e qualcuno per cui continuare e in cui credere.
A conti fatti devo purtroppo, a malincuore, ammettere e ribadire che io non ho più nulla in cui credere, in cui sperare. Ho perso la mia famiglia, mia figlia, tutti i pochi amici che mi erano rimasti e pure la dignità e la fiducia in me stesso… tutto ineluttabilmente perso.
Credo che più in fondo di così non si possa certo cadere e rialzarsi diventa assai difficile e pesante, soprattutto con un fardello come il mio, da portare appresso
per tutti gli anni che mi restano da vivere.
Perdonami Adele, amata mia, sebbene tutto quello che ho fatto per noi, a partire da quando ti ho conosciuta e mi sono innamorato di te, l’ho fatto semplicemente con tutto me stesso e con il cuore, contro il parere di tutti, anche a discapito di me stesso, della mia nomea, della mia vita, di tutto quello che avevo e che ho, conscio di dover iniziare tutto nuovamente da zero.
Perdonami Barbara, forse un giorno, lo spero con tutto me stesso, tu capirai, topolino mio adorato.
Siete tutto ciò che mi è rimasto di bello e buono a questo mondo, ma non vi merito! Per mera colpa mia vi ho deluso e perso irrimediabilmente! E di questo ne sono pienamente edotto e consapevole.
Ho cercato, con tutte le mie forze e con tutto me stesso, di essere un buon figlio, un buon marito, un buon padre, un buon amico.
Ho fallito!
Irrimediabilmente e miserabilmente su tutta la linea, con tutti voi. Non riesco a sopportare il fardello e la responsabilità di questo grande e immenso peso che da troppo e lungo tempo sto trascinando su di me, con me, dentro di me, senza mai aver saputo o voluto, probabilmente a causa del mio egoismo e della mia testardaggine, valutare, apprezzare e capire quanto voi mi amiate.
Che Dio mi abbia in gloria e mi perdoni.
Addio.
Barbara è sopraffatta dall’emozione nel ricordare quelle parole.
Ma mai come in quel momento sente vicina la presenza del padre e della madre, morta di crepacuore un anno dopo. Loro sono lì con lei, la stanno prendendo per mano e la rincuorano.
Non deve temere la morte. Forse, in un punto qualsiasi dell’universo, potranno finalmente ricongiungersi.
28.Brusson, 23 settembre 2007 – ore 23.18, vigilia dell’esecuzione
Alessio Cipriani è seduto in un bar. Sta sorseggiando un bicchiere di Chambave, un vino rosso valdostano dal sapore asciutto, sapido e armonico. “Non è male” pensa, cercando per un attimo di dimenticare il motivo per il quale si trova in quel momento in quel posto.
Ma non ci riesce. La consapevolezza del totale fallimento che sta caratterizzando la sua indagine lo tormenta ormai da ore.
Come sono ore che sta vagando per la valle alla ricerca di Barbara Mori, senza alcun esito.
Ha controllato tutte le case disabitate, si è intrufolato nei villini abbarbicati sulla montagna, ha spiato dalle finestre di eleganti chalet in legno isolati dal centro abitato.
Niente, niente, niente.
Neanche una piccola traccia che rivelasse la presenza di Barbara.
Ha provato anche, con discrezione, a fare qualche domanda in giro a gente del posto per sapere se qualcuno fosse a conoscenza della presenza di estranei in paese o se avesse visto una donna con le fattezze della dottoressa. Un buco nell’acqua.
Ancora un’ora e poi a Barbara Mori potrebbe succedere di tutto e il suo intervento sarebbe, a quel punto, completamente inutile.
Cos’altro può fare? Come può rintracciare la sua creatura e salvarle la vita?
Non ha alternative. Andrà dai Carabinieri e cercherà di ottenere il maggior numero possibile di informazioni sul conto degli abitanti del paese. Non è più in grado di agire da solo. Al diavolo l’indagine privata. Ora la cosa più importante è evitare che Barbara Mori venga uccisa.
L’uomo è seduto nel piccolo studio. Controlla ossessivamente il monitor che inquadra la stanza in cui tiene prigioniera Barbara Mori. Lei è accovacciata contro la parete, ferma, immobile nella stessa posizione ormai da diverso tempo. Il suo piano è perfettamente riuscito. Ha portato quella donna ai margini della follia. L’attesa della morte doveva essere per lei una lunga agonia mentale, oltreché fisica. Per lui condurre quel gioco persecutorio è stato un’esaltazione del suo ego misogino, una sinfonia d’autunno del male e dell’odio che prova verso le donne. Mancano poche ore ormai alla degna conclusione di quell’opera d’arte. All’ultima spennellata di un quadro d’autore.
L’uomo cerca di calmare l’eccitazione che lo pervade e ritorna indietro con la mente al giorno in cui tutto è cominciato.
A volte l’amore è un gioco di ioni, di emozioni eggere e potenti. A volte non conta quanto ami la persona che ti sta baciando, che ti tocca, che ti fa battere all’impazzata il cuore dalla voglia di fare l’amore. A volte conta solo quanto la desideri in quel momento, l’eros che emana dallo sguardo, dalle labbra, non quello che succederà dopo aver consumato quel corpo, quella notte.
Il desiderio.
Puro e semplice, concepito al tramonto e ucciso alle prime luci del mattino.
Che tu sia cosciente o meno, il fuoco che divampa tra i tuoi più inconfessabili desideri ti consuma, ti toglie la razionalità. E ti trovi così, accarezzato da una mano desiderosa e tremante pronta a soddisfarti anche se non ti conosce.
Era quello che stava accadendo tra lui ed Elisa. Questa situazione a lei piaceva un sacco. Elisa era una ragazza fantastica, era una grande fortuna averla come spasimante. Ma lei lo usava come voleva. Lo chiamava per fare l’amore e poi non si faceva sentire per giorni, sicura che al momento del bisogno l’avrebbe ritrovato dove l’aveva lasciato. Non era bella, ma affascinante. Era troppo affusolata per essere bella. C’erano in giro molte ragazze più belle di lei, ma nel suo viso, nel suo sguardo da mangiatrice di uomini, c’era qualcosa in più. La sua espressione di malizia provocatoria era irresistibile. Ma non era solo quello che a lui piaceva di lei, aveva la vita fina e dei fianchi da urlo.
Erano in montagna e quel giorno Elisa stava davanti a lui, coperta da un minuto reggiseno e da delle mutandine di pizzo bianco, scalza, con i capelli biondi sulle spalle, ferma, in piedi. I suoi occhi color nocciola luccicavano e le sue labbra rosse erano increspate in un sorrisetto soddisfatto. A lui piaceva da impazzire quando lei si acconciava in quel modo. Elisa spostò una delle sue lunghe gambe magre, muovendo i piedi eleganti. L’eleganza era una delle sue caratteristiche fondamentali. Aveva le unghie laccate di rosso e lui le trovò davvero eccitanti.
«Rosso… il mio colore preferito» le disse, alzandosi un po’ dal letto, per guardarla. «Rosso come la ione, rosso come il sangue…».
Elisa si avvicinò al letto con dei lenti i ancheggianti. Poco dopo era su di lui e lo baciava, adorante, come se non fosse mai successo nulla di spiacevole tra loro, come se lei non l’avesse mai preso in giro, usato. Lei di certo si sentiva trionfante, era riuscita a trovarne uno che c’era sempre. Anche se l’avesse mollato per un altro, se lo chiamava lui correva. Perché? Era innamorato. Povero stupido, l’amore era una gran bella fregatura e lei non lo voleva come ragazzo. Lo voleva tra le lenzuola, il suo campo di maggior esperienza, ma per il resto era solo un illuso. Non c’era pericolo che Elisa mettesse le cose in chiaro. Per lei era gratificante avere un amante così devoto.
Elisa lo baciava e lo accarezzava. Lui era pronto a fare l’amore con lei, illudendosi di essere amato. Ma quella sera sarebbe stato diverso. Le sue carezze sul corpo di Elisa non erano leggere e ionali come le altre volte, ma più violente, esprimevano una ione diversa. I baci infuocati di Elisa a un tratto si fermarono. Lei continuava a fissarlo, con i suoi occhi maliziosi e il suo sorrisetto soddisfatto.
«Cosa c’è che non va?» gli chiese.
«Nulla, amore.» lui rispose «Dai, sdraiati e chiudi gli occhi, ho una sorpresa per te».
«Oh, sai che adoro le sorprese» disse lei obbedendo. C’era una strana atmosfera, il silenzio era nervoso e l’aria stessa era tesa, ma Elisa, curiosa ed eccitata dalla sorpresa non se ne curò. Cosa sarebbe stato? Delle manette? O magari lui aveva portato la panna…
«Apri gli occhi, amore mio» la sua voce era suadente.
Elisa ubbidì, ma quello che vide non le piacque affatto.
Lui era sopra di lei e aveva in mano un lungo coltello da cucina. Il sorriso di Elisa svanì: «Ehi! Ma sei pazzo!» esclamò, scostandosi come poteva. «Non so cosa intendi fare, ma il sadomaso non mi attira affatto!»
«Peccato,» rise lui «ma non è quello che avevo in mente».
«Andiamo, cos’hai intenzione di fare?» gli chiese Elisa, fissando la lama del coltello. Era stato affilato da poco.
«Di fartela pagare per tutte le volte che mi hai sbattuto promettendomi mari e monti e poi lasciato senza una spiegazione».
Lo stupore comparve sul volto di Elisa. Quella situazione non era affatto divertente.
«Voglio che tu soffra come ho sofferto io, ma fisicamente» spiegò lui, toccando la punta dell’arma.
«Oh, avanti, non è un bello scherzo».
«Infatti non lo è».
Con un balzo Elisa si spostò dall’altro lato del letto, più lontano che poteva dal coltello. «Smettila di fare lo scemo, mi stai facendo arrabbiare».
«Io faccio arrabbiare te? E tu? Che appena puoi scappi da me come se avessi la lebbra?»
«Questo non è vero! Oh, smettila con questa scenata! Ti giuro che voglio una storia seria con te!» mentì Elisa, magari secondo lei, sarebbe servito a qualcosa.
«Non dire bugie! Non ti tireranno fuori da questo guaio» sussurrò lui, avvicinando il coltello al viso di Elisa. Da quel momento lei iniziò ad avere paura sul serio. Cercò di allontanarsi ancora, ma lui la afferrò prima che potesse farlo. Elisa cercava di liberarsi dalla presa, ma non serviva a nulla. Lui abbassò il coltello sui suoi seni, toccandoli con la punta.
La paura si impossessò di Elisa e il cuore iniziò a batterle forte e veloce nel petto, voleva solo che tutto finisse per il meglio. Poi, non avrebbe più fatto cavolate in amore, giurò. Le bastava uscire illesa da lì. Il coltello spingeva sulla pelle, faceva male, così Elisa alzò lo sguardo e vide il viso contratto di lui, sudato, con gli occhi luminosi, felici, come non lo erano mai stati. Si intuiva chiaramente che la paura aumentava, era così spaventata che urinò. Era stato guardando i suoi occhi che Elisa aveva capito. Non si trattava di uscire illesi da quel luogo, ma di uscirne vivi. Urlò con tutto il fiato che aveva in gola, ma la baita era isolata, non c’era possibilità che qualcuno la sentisse.
«Se stai calma, farà meno male» lui le disse.
«Ti giuro che non fuggirò mai più, staremo sempre insieme, se non lo fai» supplicò Elisa.
«Sai meglio di me che non è vero».
«Ti prego! Non farmi del male!»
Lui rise e spinse più forte, facendo uscire dalla sua pelle un rivolo di sangue rosso.
«Non uccidermi, ti prego!» lo implorò.
Lui non rispose e continuò nel suo lavoro di taglio.
Le lacrime rigarono il volto di Elisa. «Non uccidermi! Abbi pietà di me!» piagnucolò.
«Sta zitta! Puttana!» le ordinò, infliggendo un colpo di coltello violento che le procurò una ferita profonda. Ormai il sangue scorreva fuori dal suo corpo, sporcando le sue mani e il copriletto. Lui se ne cospargeva e rideva ed era una risata divertita, una sensazione di gioia che non aveva mai provato.
Elisa strillò.
Un urlo disperato, quasi un appiglio a quella vita che stava per perdere. Un urlo che squarciò il cielo nero e che viaggiò per la montagna. Un urlo che invocava aiuto, quasi un’ultima speranza di una vita ormai spacciata, purtroppo per lei reso vano dagli alberi, i prati, le rocce.
Lui le inferse un ultimo colpo, mortale, alla gola.
Fradicio del sangue di Elisa, che zampillava come da una fontana, lui alzò trionfante le braccia al cielo e giurò a se stesso che da quel momento tutte le donne come Elisa non avrebbero meritato di vivere.
29.Brusson, 24 settembre 2007 – ore 2.00, giorno dell’esecuzione
Barbara ha completamente perso la cognizione del tempo. Non ha chiuso occhio, ma non saprebbe dire se sia giorno o notte.
Di una cosa è però certa: ormai manca poco alla sua uccisione e lei non vede l’ora che ciò accada perché solo con la morte riuscirà finalmente a porre termine a quell’atroce incubo. “Che strana la vita,” pensa Barbara, “io che mi adopero da anni per salvare le vite altrui, adesso non sono capace di salvare la mia”.
Un rumore improvviso nel buio.
La porta si sta aprendo e un fascio di luce proveniente da una potente torcia precede l’ingresso di un uomo nella stanza.
«Ci siamo, Barbara» dice una voce maschile mai udita prima. La donna si copre gli occhi accecati dalla luce. Intravede dietro di essa la sagoma di un uomo. Ha in mano una pistola e la sta puntando contro di lei. «Alzati e segui le mie istruzioni» prosegue la voce con tono perentorio.
Barbara si alza come un automa. Il cervello è resettato. I pensieri si sono azzerati. L’uomo le fa cenno di camminare davanti a lui e illumina il percorso da seguire. Escono dalla stanza e percorrono il lungo corridoio. Arrivano ad una rampa di scale che porta alla cantina con il pavimento di pietra e i muri in cemento grezzo. Alle pareti Barbara intravede i ritagli di giornali con imprese di serial killer. Riconosce immediatamente gli stessi luoghi ripetutamente visti in televisione. I luoghi dove è stata uccisa Sonia. Arrivano alla porta in legno
massiccio. Barbara la apre ed entrano in un locale illuminato da alcune potenti lampade al neon.
La stanza delle torture.
C’è un letto nel mezzo della stanza. Accanto ad esso un carrello con un set completo di strumenti da chirurgo.
«Adesso sdraiati sul letto» ordina l’uomo.
Barbara obbedisce senza fare resistenza. Lo guarda in faccia e riconosce il medico del video.
L’uomo attende che la donna si sdrai, poi le lega mani e piedi al letto. Adesso Barbara è totalmente alla sua mercé.
Ma ancora una volta l’istinto di sopravvivenza prende il sopravvento. Barbara si scuote dall’apatica rassegnazione in cui era precipitata e decide di giocarsi una carta per tentare di salvarsi la vita. L’ultima carta.
«Ascolta… non so come ti chiami…» dice Barbara.
«Non ha nessuna importanza il mio nome» risponde acido il medico mentre sta indossando il camice bianco.
«Non importa, ti chiamerò dottore. Ascolta dottore, non ti sembra che sia ingiusto che si sia divertito solo il tuo capo?»
Il medico volge il suo sguardo verso Barbara con una espressione interrogativa. «Cosa intendi dire?»
«Intendo dire che finora mi ha scopata solo lui. Non piacerebbe farlo anche a te?»
Il medico torna ad occuparsi della sua vestizione. «No, grazie. Mi basta il lauto compenso che lui mi paga per questi lavori, per così dire, extraprofessionali».
Barbara non demorde. Prova a insistere. «Capisco. Però un piccolo supplemento non si rifiuta mai. Mi piacerebbe fare l’amore un’ultima volta, prima di morire. Tu, tutto sommato, mi sembri una persona per bene. Magari hai bisogno di quei soldi per la tua famiglia. Non ti biasimo. Accontentami, ti prego. Non si nega l’ultimo desiderio ad un condannato a morte».
L’uomo incomincia a vacillare. «Se lui lo sapesse, mi ucciderebbe all’istante».
«Lui non lo saprà mai. Sarà un segreto che mi porterò nella tomba. Te lo prometto».
Il medico si toglie il camice e si avvicina al letto. Si vede che è chiaramente eccitato. «Beh, se proprio ci tieni, posso anche accontentarti».
Sale sul letto e incomincia ad accarezzare i seni di Barbara.
«Ma così non c’è gusto!» dice lei. «È come se tu lo fi con una bambola gonfiabile! Liberami le mani, in modo che possa contraccambiare le tue carezze. Ti assicuro che non ti pentirai».
Il medico si ritrae. «Non dire cazzate! Tu vuoi fregarmi, non sono mica un idiota! Ti dovrai accontentare».
«Ma cosa vuoi che faccia in queste condizioni? E poi lui mi prenderebbe subito».
L’uomo tentenna. È evidente lo stato di turbamento in cui Barbara lo ha cacciato. Alla fine cede. «Va bene, ti libererò solo la mano destra. Vedi di fartela bastare e di usarla bene. Ma non farmi sorprese, altrimenti ti opererò senza anestesia».
Il medico scioglie il nodo della corda che tiene legata la mano alla testiera del letto. Si slaccia i pantaloni e se li abbassa. Poi avvicina il suo viso a quello di Barbara e incomincia a baciarla.
La donna lo asseconda e incomincia ad accarezzare le sue intimità. L’uomo è ormai distratto, intento a consumare il rapporto sessuale. Le sue difese si sono drasticamente abbassate.
È il momento. Barbara ha a disposizione un solo tentativo e non può fallire.
Senza farsi notare, allunga il braccio destro verso il carrello sul quale ci sono gli strumenti da chirurgo. Ha già individuato il suo obiettivo: un lungo e affilato bisturi con lama fissa. Spera di riuscire ad afferrarlo. Allunga, allunga il braccio verso la sua arma. Ma deve stare attenta a non farsi scoprire dall’uomo.
Maledizione! Non ci arriva sdraiata sul letto. Dovrebbe alzarsi un po’, ma questo movimento potrebbe insospettire il medico.
Barbara non ha alternative. Deve rischiare, tanto non ha nulla da perdere. Deve essere veloce e precisa.
Cerca di distrarre il più possibile l’uomo con effusioni amorose e poi via all’azione che potrebbe salvarle la vita. Si alza quanto può sul letto e afferra il bisturi.
L’uomo rimane sorpreso. «Che cazz…»
Non fa in tempo a finire la frase. Barbara con un fendente preciso gli squarcia la gola tranciandogli di netto la carotide.
Un getto di sangue colpisce in pieno il volto di Barbara. Sente il suo odore acre e il suo sapore metallico. Si pulisce il viso con il lenzuolo già abbondantemente imbrattato di rosso e si scioglie velocemente tutti i nodi che la tengono legata al letto.
Guarda verso la telecamera appesa al muro. Il led è spento, non sta riprendendo.
Il “Persecutore” non ha assistito alla scena. Barbara fruga nelle tasche dei pantaloni del cadavere. Trova un cellulare e la pistola. La sua salvezza. Guarda il display e si dispera. In quella stanza non c’è campo. Non può telefonare alla polizia. Ma non importa. Adesso deve cercare di uscire da quella casa e mettersi in salvo.
30.Brusson, 24 settembre 2007 – ore 2.45, giorno dell’esecuzione
L’uomo è seduto nel suo piccolo studio. Ha appena visto, nel monitor posizionato davanti a lui, l’uccisione del medico da parte di Barbara. Aveva installato un’altra telecamera nella stanza, una di quelle telescopiche usate dalla polizia, invisibili all’occhio umano. Non avrebbe voluto perdersi per nulla al mondo l’amputazione delle braccia di Barbara.
Ma adesso le cose sono cambiate. È rammaricato per quello che è successo, ma non turbato. Deve solo apportare una piccola variazione al suo piano omicida. Barbara non riuscirà mai a fuggire da quella casa. E lui adesso si trasformerà in cacciatore, pronto a colpire la sua preda. In fondo, non è poi così dispiaciuto dell’inconveniente che si è verificato. Sarà ancora più eccitante ed esaltante catturare quella puttana ed ammazzarla come previsto.
Lui ha un grande vantaggio. Conosce a memoria quella casa ed è in grado di muoversi facilmente anche al buio. Inoltre al suo interno nessun cellulare è utilizzabile. Barbara è di nuovo sola, in un luogo ostile, senza possibilità di chiedere aiuto.
L’uomo spegne il monitor ed esce dallo studio. La caccia è iniziata.
Barbara esce dalla stanza delle torture e si ritrova nuovamente avvolta dal buio. Non può usare la torcia perché sarebbe un bersaglio troppo facile da localizzare. È guardinga, decide di utilizzare il display del telefono per avere un minimo di luce.
Sale le scale e si ritrova in una stanza abbastanza grande. Ha dei divani e delle poltrone. Potrebbe essere un salotto. Deve assolutamente capire dove si trovi la porta di ingresso.
Osserva il telefono. Continua a non esserci campo. Probabilmente quella casa si trova fuori Torino. Forse in montagna. Questa sensazione è avvalorata dal fatto che tutto l’arredamento e gli infissi paiono in legno. Non può però guardare all’esterno perché tutte le finestre sono sbarrate. Aprirle provocherebbe dei rumori che romperebbero il silenzio totale che regna nell’abitazione. Intravede la porta di ingresso della stanza e si dirige verso di essa.
È in quel momento che improvvisamente si accende un televisore presente nella stanza, che Barbara non aveva visto prima.
Le immagini che appaiono fanno ripiombare la donna nella più totale disperazione. Lei vede se stessa nella stanza. Evidentemente c’è una telecamera ad infrarossi che la sta riprendendo.
Lui la sta osservando.
Lui la controlla.
Lui è dappertutto.
Sconvolta Barbara abbandona le precauzioni adottate fino a quel momento e incomincia a correre, facendosi luce con la torcia, alla disperata ricerca di una
via di fuga.
La sua mente è un fiume in piena di pensieri.
“Corri Barbara, non ti fermare, corri, corri, corri, cerca di salvarti, stai calma, non ti far prendere dal panico, devi vivere, devi vivere, devi vivere, cerca l’uscita, non ti fermare, corri Barbara, non ti far prendere, lui vuole ucciderti, vuole farti del male, molto male, corri Barbara, corri, salvati, non avere paura, trova ‘sta cazzo di uscita…”.
Un urto, violento. Barbara si ritrova per terra. Perde la pistola che ricade nel buio sul pavimento lontano da lei. Contro cosa è andata a sbattere?
Una luce le illumina il volto. Lei è completamente accecata e si ripara gli occhi con le mani.
«Barbara, Barbara, ma dove vorresti scappare? Lo sai che la tua presenza in questa casa ha un fine ben preciso. Non puoi andare via proprio adesso…».
Ha sbattuto contro il corpo del “Persecutore”.
La sua voce la riporta violentemente alla cruda realtà.
È di nuovo nelle sue mani. Ha fallito. Questa volta non ci sarà più scampo. La morte è lì, vicino a lei.
31.Brusson, 24 settembre 2007 – ore 3.15, giorno dell’esecuzione
«Alzati e seguimi» le dice il “Persecutore”. Ha in mano un grosso coltello e lo punta contro il corpo della donna.
Barbara è sfinita. Non ha più speranze, è di nuovo nelle mani del suo aguzzino. Perché ritardare ulteriormente una fine ormai preannunciata?
«Senti, facciamola finita. Ammazzami qui senza ulteriori rituali o manfrine. Il tuo scopo l’hai raggiunto. Hai la mia vita nelle tue mani. Metti una volta per tutte la parola fine a questa commedia dell’orrore». Quella di Barbara è quasi una supplica.
Ma l’uomo è irremovibile. «Mi dispiace, ma quello che tu chiami un rituale è per me una missione che devo assolutamente compiere. E la devo compiere a modo mio. Deciderò io come e quando morirai. Fa parte della tua punizione».
«Ma Santo Iddio, posso, almeno prima di morire, sapere una buona volta chi sei e cosa ti avrei fatto di così tanto atroce da meritare la tua persecuzione?»
«Te lo dirò in punto di morte, Barbara, prima che tu esali l’ultimo respiro. Deve essere il tuo estremo ricordo che ti porterai nell’aldilà».
Barbara si rialza e si avvia con l’uomo verso la stanza delle torture. Entrano dentro e, con grande stupore della donna, non ci sono più né il corpo del medico, né le lenzuola sporche di sangue. È stato tutto ripulito.
L’uomo lega mani e piedi di Barbara. La fa sedere per terra. Poi mette in atto il rituale della corda con il cappio. Barbara osserva ora dal vivo la stessa scena ossessivamente vista alla televisione.
Il patibolo è pronto per l’esecuzione.
L’uomo con le braccia trascina a forza Barbara sotto la corda con il cappio. Prende lo sgabello e lo sistema accanto a lei. Poi solleva Barbara e la mette in piedi sullo sgabello. Le cinge il collo con il cappio. Manca solo l’atto finale.
Barbara chiude gli occhi e parla a bassa voce. Sta pregando.
Poi si rivolge al suo boia. «Adesso posso sapere chi cazzo sei?»
La risposta è irridente: «Mi dispiace, ma ti ho mentito. Non saprai mai la mia identità. Ti porterai questo dubbio nella tomba, per sempre. Ammesso che tu possa avere una degna sepoltura, cosa di cui io dubito molto».
Barbara guarda con odio il suo aguzzino. «Forza, bastardo, tira via quello sgabello, così compirai la tua maledetta missione».
«Sarà un piacere. Adieu, mon amour».
L’uomo si allontana leggermente e con il piede destro sferra un potente calcio allo sgabello. La corda si tende e penzola nell’aria con il corpo di Barbara appeso.
Brusson, 24 settembre 2007 – ore 3.35, giorno dell’esecuzione
Trascorsi alcuni secondi dall’esecuzione, però, accade un fatto del tutto inaspettato. La corda si spezza e il corpo di Barbara cade pesantemente a terra.
Lei rimane immobile, quasi incredula per quello che è accaduto.
Poi si volta verso il suo boia. Ha i muscoli tutti indolenziti.
Lui la guarda a sua volta con un’espressione sorpresa. Poi scoppia in una fragorosa risata.
«Sei stata fortunata, Barbara! La corda si è spezzata! Ma l’ho fatto apposta, puttana! La tua sofferenza non è finita, mi dispiace. La giornata è ancora lunga e ogni momento è sempre buono per morire. Faremo altri tentativi e chissà, al secondo o al terzo o magari al quarto… la corda reggerà il tuo peso e non si spezzerà».
Barbara è rossa e livida dalla rabbia, dal rancore, dall’odio verso quell’individuo. «Sei un bastardo, un maledetto bastardo! Ma pagherai per tutto quello che mi
stai facendo, prima o poi pagherai, ne sono sicura».
L’uomo la osserva e continua a sghignazzare divertito.
Il maresciallo dei Carabinieri della Stazione di Brusson si stropiccia gli occhi. Osserva il volto inquietante di quello strano poliziotto che l’ha svegliato nel cuore della notte per raccontargli una storia assolutamente inverosimile.
«Mi scusi, Cipriani» alla fine dice il sottufficiale, «ma ci sono alcune cose che dovrebbe spiegarmi. Se si tratta, come lei sta dicendo, di un’indagine prioritaria, vorrei sapere perché si trova qui da solo senza l’ausilio dei suoi uomini. In secondo luogo, per quale motivo io non ho ricevuto nessuna informativa da parte del suo Commissariato?»
Cipriani è in evidente difficoltà, ma non vuole mentire. «Ascolti, maresciallo. Questa è un’indagine non ufficiale che sto conducendo in prima persona. I miei colleghi di Torino non hanno ritenuto che ci fossero gli estremi per mettere la signora Mori sotto protezione. Io non ho condiviso questa decisione».
Il maresciallo incalza Cipriani: «Vuole quindi dirmi che i suoi superiori non sono a conoscenza della sua indagine?».
«È proprio così» ammette il vicecommissario.
Il maresciallo si alza dalla sedia e fissa Cipriani diritto negli occhi. «Mi dispiace, ma non mi farò coinvolgere nella sua inchiesta privata. Ma poi, chi le dice che la
dottoressa non sia partita spontaneamente? Quali elementi ci sono per asserire che sia stata effettivamente rapita?»
Questa volta è Cipriani che si alza. Avvicina il suo volto a quello del maresciallo. I due nasi quasi si toccano. Parla rabbiosamente: «Io sono sicuro che sia stata rapita! E se lei non mi dà una mano a scovarla, questa sera si ritroverà un cadavere in paese. Se la sente di rischiare?».
Il maresciallo si risiede. È in stato confusionale. Ma alla fine cede.
«Va bene. Faremo come dice lei. Ma stia attento, se è tutta una bufala dirò che mi ha costretto ad aiutarla con la forza».
«Mi sta bene».
«Di cosa ha bisogno? Da dove vuole incominciare?»
«Di quanti uomini dispone?»
«Quattro uomini più il sottoscritto».
«Bene. Formeremo due pattuglie da due uomini che andranno in perlustrazione per il paese e le borgate a caccia di possibili indizi. Io e lei invece ci fermeremo qui in ufficio e eremo al setaccio la popolazione di questa ridente cittadina per scovare quel bastardo che tiene prigioniera Barbara Mori. Non c’è altro
tempo da perdere. La vita di una donna innocente dipende da quanto saremo bravi nelle prossime ore. Speriamo solo di non arrivare troppo tardi».
È ato un tempo indefinito dalla messinscena della finta impiccagione. Barbara è rimasta sola nella stanza, legata e immobilizzata. Sente un fitto dolore alle ferite. Soprattutto a quella al ventre. Probabilmente il taglio si è infettato e ha ripreso a sanguinare.
Ma la sua attenzione è concentrata su un punto fisso della stanza che dista da lei una decina di metri: il carrello con gli strumenti da chirurgo, sul quale ci sono ancora un paio di bisturi. Il “Persecutore” l’ha lasciato lì, al suo posto. È stata una semplice dimenticanza o un altro trucco per metterla alla prova? Preferisce non pensare a quest’ultima ipotesi. Forse ha ancora una possibilità. Lo sconforto lascia il posto a un piccolo barlume di speranza. Se solo riuscisse ad arrivare a quel carrello e afferrare uno dei bisturi. Potrebbe cercare di tagliare le corde che la tengono legata e liberarsi.
Ma c’è un problema: le telecamere. Sicuramente lui la sta osservando e non le darebbe il tempo di mettere in pratica il suo nuovo tentativo di fuga. Deve trovare un modo per distrarlo, deve trovarlo…
Ecco! Un’altra idea folle, ma un’idea. Deve, con una scusa, far tornare il suo carceriere nella stanza e contare i secondi che impiega per arrivare. Quei secondi, moltiplicati per due, perché lui dovrà far ritorno alla sua postazione, rappresentano il tempo che lei avrà a disposizione per tentare di arrivare al carrello, prendere un bisturi e liberarsi dalle corde. A quel punto, una volta libera, venderà cara la sua pelle. Piuttosto si farà ammazzare, ma non prolungherà ulteriormente quella estenuante agonia. Ci sono molte incertezze nel suo piano: il tempo potrebbe essere insufficiente, lui potrebbe non abboccare. È consapevole delle difficoltà, ma deve provare. Restare ivi fa solo il suo gioco. Lei ora deve prendere l’iniziativa.
Barbara prende coraggio e urla: «Devo parlarti subito, puoi venire nella stanza? È molto importante».
A questo punto la sua mente in contemporanea inizia il conteggio e prega che il suo piano abbia successo “1, 2, 3, 4, 5… ti prego fai che scenda, 28, 29, 30, 31… ti prego, papà fallo scendere… 88, 89, 90, 91… ti prego, mamma aiutami… 110, 111, 112, 113… ti prego, Signore, dammi una mano, ho bisogno di te… 130, 131, 132, 133…”.
La porta che si apre.
Poco più di due minuti.
Il “Persecutore” ha abboccato.
L’uomo entra nella stanza. È chiaramente infastidito da quella chiamata. «Cosa vuoi di così urgente?» Barbara si è già preparata il pretesto. È rischioso, ma credibile.
«Volevo chiederti di porre fine una volta per tutte a questa pagliacciata. Ti sei divertito abbastanza? Allora ammazzami e mandiamo in onda i titoli di coda di questo film dell’assurdo».
Barbara ormai pensa di conoscere le reazioni del suo aguzzino. Non la ucciderà mai su sua richiesta, ma solo quando lui lo riterrà opportuno.
«Perché hai tutta questa fretta di morire, Barbara? C’è ancora tanto tempo. Come ti ho detto abbiamo ancora tutta la giornata di oggi a disposizione. Stai tranquilla, morirai. Ogni momento potrebbe essere quello buono. Chissà, magari torno tra cinque minuti e ti ammazzo. Ma adesso non ne ho ancora voglia. Riposati, mon amour, a presto».
L’uomo esce dalla stanza e chiude la porta con la chiave.
Quattro minuti.
Barbara come una scheggia si appoggia alla parete e fa leva con le mani legate.
Quattro minuti.
Piega le gambe all’indietro e, lentamente, con grande dispendio delle poche energie che le sono rimaste, solleva il corpo.
Quattro minuti.
Dopo un ultimo sforzo disumano, riesce finalmente a mettersi in piedi.
Quattro minuti.
Saltella fino a raggiungere il carrello con gli strumenti da chirurgo. Si sistema con il carrello alle spalle e afferra un bisturi con la mano destra.
Quattro minuti.
Impugna il bisturi con entrambe le mani in modo da poter sfregare la corda.
Quattro minuti.
La corda deve essere piuttosto vecchia perché le fibre cedono facilmente alla affilatissima lama del bisturi. La corda si è spezzata! In un lampo Barbara si libera le mani e scioglie il nodo che tiene legati i piedi. Adesso è libera! Ce l’ha fatta!
Tutto in quattro minuti!
Prende il bisturi più lungo e si apposta dietro la porta.
Adesso è una bestia feroce a caccia della sua preda.
La rabbia, l’odio, il rancore che ha covato in tutti questi giorni l’hanno resa un’arma letale.
Adesso deve solo attendere.
I quattro minuti sono trascorsi.
32.Brusson, 24 settembre 2007 – ore 7.05, giorno dell’esecuzione
Barbara sente la chiave entrare nella toppa. Si rannicchia più che può contro la porta. Vede l’uomo entrare con circospezione con una pistola in mano. Come una furia, balza fuori dal suo anfratto ed assesta un furioso colpo di bisturi contro la mano che impugna l’arma. Il fendente è così violento che quasi stacca il polso del suo carceriere. La pistola cade per terra e Barbara istintivamente le dà un calcio mandandola lontano sotto un armadio. Subito però si pente di quel suo gesto. Avrebbe potuto usarla. Ma non importa, ha il bisturi e in questo momento si sente una belva. Il “Persecutore” urla come un ossesso tenendosi la mano colpita e penzolante. Il sangue esce a fiotti. Barbara non gli dà il tempo per reagire e tenta di assestargli un secondo colpo, questa volta definitivo, alla gola.
Ma l’uomo, nonostante l’handicap della ferita, riesce a vedere in tempo partire l’affondo e lo evita scansandosi da un lato. Afferra con l’altra mano il braccio di Barbara e glielo torce fin quasi a spezzarglielo, costringendola a mollare la presa del bisturi. Ma lei non demorde. Ormai la bestia feroce che si è impossessata di lei la sta guidando nella lotta per la sopravvivenza. Avvicina il suo volto a quello dell’uomo e gli azzanna l’orecchio sinistro. Un morso violentissimo, che provoca il distacco della parte inferiore dell’orecchio. Il “Persecutore” è una maschera di sangue. Non si aspettava certo una reazione di quel genere. Adesso è come un animale ferito, accecato dalla rabbia. Barbara si libera della morsa e assesta un calcio poderoso ai testicoli dell’uomo. Le sue urla di dolore rimbombano in tutta la stanza.
La donna deve sfruttare la situazione di vantaggio.
Afferra la torcia, supera la porta e si mette a correre su per le scale e poi all’interno dell’appartamento. Deve trovare l’uscita, deve trovarla a tutti i costi.
Si ritrova nel salotto dove era stata catturata solo qualche ora prima. Fa ruotare la torcia e intravede la porta della stanza. La imbocca e si ritrova in un altro corridoio, sul quale si affacciano numerose porte. Barbara le scruta attentamente. Alla fine la individua. Ha trovato la porta d’ingresso! È l’ultima in fondo al corridoio. Barbara si precipita verso di essa illuminandola con la torcia. Rappresenta la libertà, la salvezza, la fine di un terribile incubo. È arrivata alla porta e tenta di aprirla. «Merda, merda, merda» urla. È chiusa dall’interno. «Dove cazzo saranno le chiavi?» si domanda sempre a voce alta.
Illumina tutta la zona circostante la porta, sperando che siano appese da qualche parte. Niente, non ci sono. È imprigionata in quella casa e non sa come uscire. La porta è chiusa, le finestre sono sbarrate e i cellulari non prendono.
Cerca di attenuare l’adrenalina che ha in corpo e di ragionare. Un rantolo soffocato alle sue spalle. Ma quando Barbara lo sente è troppo tardi. Un braccio robusto le cinge il collo con violenza, premendo sulla gola. Il “Persecutore” è tornato. Barbara sente la sua voce.
«Dove vorresti andare, Elisa? Il tuo posto è qui con me, non puoi lasciarmi. Io ti devo uccidere…».
Barbara non capisce perché la stia chiamando Elisa, ma non importa. È da tempo consapevole di avere a che fare con un pazzo schizofrenico. È stata colta di sorpresa, ma deve reagire.
La morsa è sempre più stretta, si sente mancare l’aria, la sta soffocando. Barbara allora si mette la mano in tasca e spera.
Sì, c’è ancora! Una spilla da balia, proprio in fondo alla tasca! È spuntata, ma è l’unica arma che ha a disposizione. La afferra con la mano, piega il metallo e colpisce con tutta la forza che ha in corpo, alla cieca, dietro di sé.
Un nuovo disumano urlo.
La luce della torcia illumina il volto del “Persecutore”. Ha la spilla conficcata nella fronte. L’uomo molla per un attimo la presa, ma le speranze di Barbara durano pochi secondi.
Il carnefice si riprende quasi subito e le colpisce il volto con un violentissimo pugno. Lei cade come un peso morto per terra. Un fortissimo mal di testa, un senso di nausea diffuso, tutto che le gira intorno. L’interruttore del suo cervello si spegne lentamente e lei ripiomba nel più impenetrabile buio.
33.Brusson, 24 settembre 2007 – ore 8.30, giorno dell’esecuzione
Non riesce a respirare. Pensa sia il raffreddore e, invece, è perfettamente in salute. Per modo di dire. Si gira tra le lenzuola per un paio di minuti, poi, sopraffatta dalla nausea, si mummifica guardando il soffitto. Respira a fatica, respira con la bocca. Tutto quello che ha mangiato è rimasto dentro di lei, ricordi, emozioni, sensazioni di un quotidiano fatto a mostro.
Il sonno è svanito, la pesantezza la opprime. Ha voglia di urlare. Ci prova, ma non esce niente dalla sua bocca. Un bruciore sale dallo stomaco fino alla gola. Annaspa nel suo stesso pensiero.
Un toc continuo batte nella sua mente.
Urla, rumori, macchine e treni che ripetono il loro squallido rumore nel suo cervello. Non ne può più. Vuole urlare, vuole girarsi, chiudere gli occhi e dormire.
Così succede.
È allora che vede una faccia brancolare nel buio. Un breve riflesso della luna illumina il suo sporco volto. Non ha lineamenti. Semplici occhi. Quasi pare un manichino, un manichino che fissa i suoi occhi, che fissa quello che lei non può vedere dentro di sé. Ha paura, ma non è solo quello a terrorizzarla. Una presenza sembra avvolgerla tra le coperte. Non è più padrona del suo corpo. Non riesce a muoversi. Solo lo sguardo fisso in quegli occhi da manichino.
La luna splende fuori e il vento fischia. Pensa sul serio di morire. Così sarebbe la sua fine, strozzata dai suoi sterili pensieri, uccisa tra le bianche lenzuola nel cuore buio della notte, mentre un manichino le tiene compagnia. Tutto il peso della giornata sul suo stomaco. Non riesce a respirare, sta per morire, questo pensa.
Di nuovo quel toc, di nuovo quel martellante frastuono del quotidiano che si schianta nella sua mente.
Il manichino, sorretto dal chiaro della luna, le sorride e con una fredda mano, le accarezza il volto madido di sudore. Ha freddo. Lei è nel letto, tra le sue bianche lenzuola, che viene affogata dall’oscurità. Vorrebbe essere uccisa in un altro modo, vorrebbe che la sua mano le togliesse la vita, non quello stupido burattino sorridente…
Barbara riapre gli occhi. Deve essere rimasta svenuta per parecchio tempo. Vede finalmente la luce. Sente freddo, è tutta intirizzita. È all’esterno della casa, una baita. Come supponeva si trova in montagna. È legata ad un albero, un gigantesco pino.
Prova un forte dolore al viso, in particolare alla mascella sinistra. Prende nuovamente coscienza della sua situazione. Un pensiero affiora nel suo cervello: “Cosa avrà in mente il ‘Persecutore’?”.
34.Brusson, 24 settembre 2007 – ore 8.50, giorno dell’esecuzione
Il maresciallo dei Carabinieri e Alessio Cipriani sono al lavoro da parecchie ore. Stanno sorseggiando un’abbondante tazza di caffè e sono entrambi stanchi dopo una notte insonne.
Le due pattuglie all’esterno sono in comunicazione continua con i due uomini in ufficio. Ma fino a quel momento non hanno segnalato alcunché di rilevante.
Il maresciallo è seduto al computer, mentre Cipriani consulta i dossier ammucchiati alla rinfusa nell’archivio e relativi alle indagini condotte negli ultimi anni.
Fino a quel momento non è emerso nulla di interessante. Cipriani è soprattutto alla ricerca di qualcuno che abbia dei precedenti per stupro, violenze o molestie nei confronti di una donna.
Il maresciallo alza le mani in segno di resa. «Mi dispiace, Cipriani. Ma nel nostro database non ho trovato nulla che ci possa aiutare. Purtroppo non è aggiornato. Per le indagini più recenti possiamo soltanto cercare tra le scartoffie che abbiamo in archivio».
«È quello che sto facendo, cazzo!» dice con voce rabbiosa Cipriani, che comincia a disperare di poter trovare qualche indizio utile al ritrovamento di Barbara.
Ma alla fine ecco qualcosa di interessante.
Il poliziotto prende in mano una cartella relativa alla scomparsa di una ragazza avvenuta in paese alcuni anni prima. Del corpo non si erano trovate tracce, ma durante le indagini era stato messo sotto inchiesta il suo fidanzato, un uomo con dei seri problemi mentali. Alla fine era stato prosciolto per mancanza di prove, ma il dubbio era rimasto. Cipriani è raggiante. Si rivolge con tono trionfante al maresciallo: «Cosa le dice il nome di Vincenzo Amodio?».
Il maresciallo rimane un attimo inebetito. Poi si mette le mani nei capelli. «Cazzo! Come ho fatto a non pensarci prima! La ragazza scomparsa e quello schizofrenico del suo fidanzato che se l’è cavata a buon prezzo! Andiamo subito a casa sua, forse è la pista giusta. Abita in un villino isolato a mezz’ora da qui».
I due uomini escono di corsa in strada, salgono in auto e si avviano sgommando verso la possibile prigione di Barbara Mori.
Barbara sta tremando dal freddo, vestita soltanto di una tuta di cotone.
La porta della baita si apre. Esce il “Persecutore”.
Ha un aspetto terrificante, infernale: i vestiti imbrattati di sangue, l’orecchio mozzato, la mano destra quasi recisa e sommariamente bendata. Barbara si stupisce che non sia ancora morto dissanguato. L’uomo tiene con l’altra mano una tanica piena di benzina.
Si avvicina all’albero al quale è legata Barbara. Ha lo sguardo allucinato. Ha una flebile voce che fatica a pronunciare le parole: «Elisa… è venuto il momento… mi dispiace… ma devo ucciderti… di nuovo…».
Barbara intuisce che anche il suo carnefice ha subito uno shock psicologico, forse a causa delle ferite subite. Per lui non è più Barbara Mori, ma una certa Elisa, forse una sua ata amante. Deve assecondarlo, lavorare sul suo cervello. Lei è una brava cardiologa, ma adesso deve trasformarsi in un’ottima psichiatra.
«Ascolta, amore mio. Io sono tornata soltanto per te. Se ti ho fatto del male, ti chiedo perdono. Sono qui per questo».
L’uomo continua con la sua cantilena. «Ma… tu… tu… sei stata… cattiva… con me… mi hai… usato… come un… oggetto… mi hai… sempre tradito…».
«Lo so, lo so. Ma adesso sono cambiata. Sono tornata a essere la tua Elisa. Guardami, sono in carne e ossa, pronta ad amarti per tutta la vita».
Improvvisamente l’uomo sembra tornare in se stesso. Alza la voce. «Tu sei una puttana! Sei tornata per tormentarmi. Ma non te lo permetterò! Ricordi quando ti ho uccisa la prima volta? Adesso per te sarà ancora peggio. Hai commesso dei peccati mortali, ti devo purificare…».
Barbara cerca di trovare l’argomento giusto per calmare l’ira dell’uomo.
«Come tuo padre ha fatto con tua madre? Mi vuoi bruciare?»
Ha toccato le corde giuste. Il folle ripiomba in uno stato di trance.
«Sì… lo devo… fare».
«Ma tua madre non amava tuo padre come io amo te. Lasciami vivere e non ti pentirai. Ho voglia di fare l’amore con te… e tu?»
L’uomo vacilla. «… Sì… anch’io…».
«Allora lascia stare quella tanica e liberami. Andiamo in casa e ti dimostrerò tutto l’amore che provo per te. Ti desidero da morire…».
L’uomo è chiaramente combattuto. Barbara prega che la sua sceneggiata abbia convinto quella mente malata.
D’un tratto posa la tanica sul prato e si avvicina all’albero. Estrae dalla tasca con la mano sana un coltello e taglia la corda che tiene legata Barbara all’albero. Lei non aspettava altro. Una volta liberata, si avvicina docilmente all’uomo. Pur provando ripugnanza, finge di volerlo baciare sulla bocca. Ma come un felino gli afferra la mano semi recisa e la tira in maniera violentissima. La mano si stacca definitivamente dal resto del corpo. L’uomo inizia a urlare come un indemoniato. Il sangue esce a fiotti dal braccio mozzato. Barbara non perde tempo. Solleva la tanica di benzina e la rovescia sul corpo dell’uomo. Lui ormai non reagisce più. È completamente in balia della donna.
Barbara fruga nelle tasche del carnefice e trova quello che cercava: un accendino. Si allontana leggermente da lui e si appresta a compiere l’atto finale. Ma prima pronuncia poche parole: «Adieu, mon amour».
Schiaccia il tasto dell’accendino e compare la fiamma. L’avvicina agli abiti dell’uomo. In un attimo prendono fuoco.
Il “Persecutore” è una torcia umana. Corre come un forsennato per il prato, cercando di spegnere le fiamme con l’unica mano rimasta. Poi, dopo alcuni minuti, si ferma e crolla per terra. Le fiamme continuano ad ardere e bruciano quel corpo martoriato. Si dibatte ancora per un po’, poi lentamente i suoi movimenti si arrestano. Alla fine rimane immobile, totalmente carbonizzato.
Il “Persecutore” è morto. Barbara torna in casa e cerca un telefono fisso. Prende la torcia e perlustra tutte le stanze. Alla fine lo trova in un piccolo studio dove ci sono numerosi monitor spenti. “Ecco da dove mi spiava” pensa la donna. Ha anche trovato una cartina che indica un paese di montagna: Brusson, Valle d’Aosta. È sicuramente il posto dove lei si trova adesso. La donna solleva la cornetta. La linea funziona. Digita immediatamente il numero della polizia. A loro basterà localizzare il punto di provenienza della chiamata per rintracciarla.
Finalmente è finita.
35.Brusson, 24 settembre 2007 – ore 10.30
La baita brulica di poliziotti, guidati dal Capo della “Mobile” di Aosta, Sergio Maiolo. È stata riattivata l’energia elettrica nella casa e finalmente c’è luce in tutte le stanze.
Barbara è sdraiata su un divano. Alcuni medici le stanno medicando le ferite, prima di portarla in ospedale. C’è anche una psicologa vicino a lei.
Il funzionario di polizia si avvicina alla donna.
«Avete informato l’ispettore Simone Berardi di Torino?» chiede Barbara.
«Ho provato a chiamarlo, ma mi hanno detto che è in ferie per alcuni giorni» risponde laconico il poliziotto.
Barbara alza le spalle. «Non importa. Piuttosto avete identificato quell’uomo?»
«Si chiamava Vincenzo Amodio. Aveva 37 anni. Lo conosceva? Provi a ricordare, signora».
La donna rimane un attimo in silenzio, cercando di scavare nel pozzo dei suoi ricordi e trovare quel nome. Ma la risposta è negativa. «Mi dispiace, ma non mi dice assolutamente nulla. Sapete qualcosa sul suo conto?»
«Il suo nome era noto alla polizia. Alcuni anni fa è stato indagato per l’omicidio di una certa Elisa Rivalta con la quale aveva una relazione. Ma è stato prosciolto perché non abbiamo mai trovato il corpo né un valido movente».
«L’ha uccisa lui, me l’ha confessato. E ritengo che il suo corpo sia stato sepolto qui, da qualche parte».
«Bene, così abbiamo risolto un altro caso» prosegue il funzionario con un tono asettico. «Era comunque una persona affetta da gravi problemi psichici. Ha avuto un’infanzia difficile. Suo padre è stato arrestato per avere assassinato la moglie. L’ha bruciata viva. Dopo qualche anno è morto in carcere. Vincenzo è stato in cura presso alcuni ospedali psichiatrici. Sembrava che fosse guarito e per questo cinque anni fa è stato dimesso. Evidentemente non era così».
«Direi proprio di no, dottor Maiolo» è l’amara constatazione di Barbara. «Dovete anche fare delle indagini sulla scomparsa di una ragazza di nome Sonia, sicuramente rapita da lui, uccisa in questa baita. Credo che quella poveretta sia stata ammazzata soltanto per filmare un video che mi è stato mostrato per terrorizzarmi».
«Ci siamo già attivati. Abbiamo visionato il video che è stato trovato in casa. Povera ragazza, ha avuto una morte atroce. Temo che questo prato sia un piccolo cimitero. Anche i corpi del dottore, che avrebbe dovuto amputarle le braccia e quello della ragazza, non ancora identificata, che lei ha accidentalmente ucciso, non sono stati ritrovati. Se Dio vuole, lei ha posto la parola fine a questa macabra sequenza di uccisioni, che avrebbe dovuto vedere anche lei, dottoressa, come protagonista».
«Quello che mi tormenta è che non sono riuscita a capire perché quell’uomo mi odiasse così tanto. Perché si è accanito su di me? Perché, per salvare la mia vita, mi ha costretta ad uccidere? In particolare non riesco a perdonarmi la morte di quella povera ragazza. È terribile».
«La capisco, signora Mori. Ma lei si è soltanto difesa. La sua vita o la sua morte. Lei ha giustamente scelto di vivere. Non aveva alternative. Adesso si prenda un bel periodo di riposo e cerchi di dimenticare questa brutta storia. Vedrà che col tempo il dolore e il rimorso si leniranno».
Barbara osserva per un attimo il funzionario di polizia. Lo guarda dritto negli occhi. «Dimenticare le sofferenze patite? Non credo ci riuscirò mai. Evitare che ad altre donne possa succedere quello che è successo a me? Questo forse lo potrò fare».
Un sorriso appare sul volto di Barbara. Ha appena preso una decisione importante, una decisione fondamentale per la sua vita futura.
Il vicecommissario Alessio Cipriani è seduto su un muretto e sta fumando una sigaretta.
È pensieroso e non riesce a scacciare dal suo cervello una amara constatazione: è arrivato tardi. Lui e il maresciallo sono giunti al villino quando la tragedia si era già consumata, quando la dottoressa aveva già ucciso il suo “Persecutore” e chiamato la polizia.
È arrivato tardi.
Se non fosse stato per il coraggio, la forza d’animo e la voglia di vivere di quella donna, Barbara Mori sarebbe stata sicuramente uccisa e lui non sarebbe stato in grado di evitarlo.
È arrivato tardi.
Come si può ridurre una donna in quel modo? Quando ha visto Barbara Mori, quando ha visto le condizioni nelle quali quel mostro l’aveva ridotta, non è stato in grado di non vomitare.
Ma dove ha trovato la dottoressa le forze per sopravvivere? Come ha potuto sopportare tutte le violenze fisiche e psicologiche alle quali è stata sottoposta?
È arrivato tardi.
Come poliziotto è profondamente afflitto per il suo fallimento. Come uomo prova vergogna per quello che un suo simile, per quanto malato di mente, è stato capace di fare nei confronti di una donna. È arrivato tardi.
Ha potuto scambiare solo poche parole con Barbara Mori. Ma è stato colpito dalla sua fierezza, dalla sua compostezza e dal suo orgoglio di essere donna. Una donna che non si è piegata di fronte alla più efferata violenza e crudeltà. Una donna che rappresenta l’emblema di tutte quelle donne che sono sottoposte ogni giorno alle brutalità maschili.
È arrivato tardi.
Cipriani spegne la sigaretta con il tacco della scarpa. Lui per anni ha vissuto in suo mondo, convinto che bastasse crearsi una vita parallela per colmare i vuoti dell’esistenza umana.
È stato uno stronzo.
Di fronte a drammi come quello capitato a Barbara Mori, tutto quello che lui ha fatto sinora perde di ogni significato. Non ha più importanza, non ha più senso. È una mera stupidità.
Quante cazzate ha commesso nella sua vita. E l’indagine su Barbara Mori è stata l’ultima.
È arrivato tardi.
Cipriani si avvia verso la sua auto. Non risponde al saluto degli agenti che incontra. È troppo concentrato su quello che farà di lì a poco. Mette in moto l’auto e si avvia verso Torino, verso il suo Commissariato. Quando arriverà, andrà dal suo superiore, consegnerà il distintivo e rassegnerà le dimissioni.
Ha deciso di lasciare la polizia.
36.Torino, 24 ottobre 2007 – ore 8.30
È ato un mese esatto dall’epilogo della sua agghiacciante avventura. Barbara, dopo essere stata sottoposta alle cure in ospedale e osservato un periodo di riposo assoluto trascorso a casa della sua amica Ludovica, è tornata al lavoro.
Ha cambiato casa. Non avrebbe più potuto vivere in quella di viale Thovez. È stata teatro di troppi eventi drammatici. È andata a vivere con una collega in collina, in un luogo tranquillo e lontano dai rumori e dagli stress cittadini. Lo ha fatto anche per stare in compagnia. Nonostante l’aiuto di un’intensa terapia psicologica, i fantasmi del ato recente continuano a tormentarla, soprattutto di notte. Non riuscirebbe più a vivere da sola. Ha bisogno di qualcuno che le stia vicino, che la sostenga nel momento del bisogno. E quei momenti sono ancora frequenti.
Le ferite del corpo sono guarite, ma quelle della mente non guariranno mai.
Si porterà per sempre dietro il fardello dei ricordi di quello che le è accaduto. In questo senso il “Persecutore” ha indubbiamente raggiunto il suo scopo.
C’è aria di festa questa mattina nel reparto di Cardiologia delle Molinette. I colleghi e gli infermieri accolgono Barbara con grande gioia. Il primario Cesare Aimone legge un breve discorso di benvenuto. Tutti applaudono. Barbara stringe molte mani, bacia numerosi volti e sente dentro di sé una sensazione che non provava da diversi anni. Una sensazione che quasi la mette a disagio.
Si sente amata. Sente un sincero affetto che la circonda.
Spera che questa sensazione non duri un giorno, ma che possa protrarsi nel tempo. Ne ha bisogno, un disperato bisogno.
Adesso si sente come una naufraga in mezzo al mare in tempesta. È lontana dalla riva, non vede alcun porto di approdo verso il quale dirigersi. È inesperta di navigazione, perciò non sa come muoversi, le manca completamente il senso dell’orientamento. Tuttavia non può stare ferma. Deve spostarsi dal centro dell’oceano, altrimenti muore. Ma lei non vuole morire.
Per muoversi, però, deve avere una meta da raggiungere.
Qual è questa meta?
È lei stessa e il mare è il mare della sua vita. È un mare agitato, pieno di angoscia e di sofferenze. Deve trovare la forza per navigare in questo mare, deve tracciare lei la rotta prima che le correnti sottomarine possano trascinarla sempre più lontana dalla meta. E la meta è lei. Vuole riuscire a raggiungersi, a trovare se stessa, a portarsi alla luce, uscendo allo scoperto senza più nascondersi. Solo così potrà finalmente essere libera. E lei vuole essere libera.
Quando avrà raggiunto la sua libertà andrà a donarla a un uomo che sarà lì ad aspettarla, che la accoglierà con un dolce sorriso e uno sguardo tenero, colmo di felicità per la sua libertà.
Questo è l’amore.
Trovando la sua libertà troverà anche l'amore.
Dopo il brindisi Barbara si avvicina al primario e gli dice: «Cesare, ti devo parlare subito, in privato».
«Certo Barbara, andiamo nel mio studio».
Entrano nello studio e il primario chiude la porta alle sue spalle.
«Dimmi tutto, tesoro».
Barbara fa un lungo respiro. Si era mentalmente preparata il discorso. Ma ora è per lei difficile pronunciare quelle parole. «Ho preso un’importante decisione, Cesare. Chiederò un periodo di aspettativa».
Il primario la guarda perplesso. «Un periodo di aspettativa? Ma qui abbiamo bisogno di te, Barbara».
«Lo so, Cesare. Ma io in questo momento non sono in grado di svolgere il mio lavoro serenamente. E nel nostro lavoro non possiamo permetterci il lusso di non essere sereni e concentrati. Ne va della vita di altri esseri umani. E poi c’è dell’altro.
Quello che mi è successo segnerà la mia esistenza per sempre. Non potrò mai dimenticare gli orrori che ho visto e le sofferenze fisiche e psicologiche che ho subito.
Ma soprattutto non potrò scordare il muro di gomma contro il quale sono andata a sbattere quando ho tentato di denunciare le molestie alle quali sono stata sottoposta. Non è possibile che in un paese civile come il nostro, negli anni duemila, non ci sia una legge che tuteli e protegga le donne perseguitate dagli stalker.
Ecco, io intendo battermi perché quello che è accaduto a me non accada ad altre donne. Voglio fondare un’associazione che combatta lo stalking e assista le centinaia di donne che sono molestate e perseguitate tutti i giorni. Voglio che la mia storia non rimanga circoscritta alla cerchia degli amici e colleghi. La voglio rendere di pubblico dominio. Voglio bussare alle porte dei giornali, dei media, dei partiti politici e delle organizzazioni sindacali. Insomma, voglio rompere i coglioni perché si faccia qualcosa e non si aspetti, come al solito, la morta ammazzata di turno per sollevare il polverone e non parlarne più dopo qualche giorno. Lo so, non sarà facile. I pregiudizi sono sempre dietro l’angolo e i problemi di noi donne sono sempre stati trascurati dalla nostra classe politica. Ma io intendo provarci, con tutte le mie forze. Adesso questa diventerà la mia battaglia».
Cesare Aimone ha ascoltato allo stesso tempo sbalordito e ammirato il discorso infervorato di Barbara. Sa che non riuscirà a farle cambiare idea. «Io ti voglio un gran bene, Barbara. Capisco perfettamente le tue ragioni. A questo punto non posso fare altro che augurarti di raggiungere il tuo scopo. Sei una donna forte e testarda. Ce la farai. Ne sono certo».
«Lo spero con tutta me stessa, Cesare. Lo spero soprattutto con il mio cuore».
Barbara, dopo aver abbracciato il primario, esce dal suo studio.
Si toglie il camice e si avvia all’uscita del reparto, senza farsi vedere dagli altri colleghi.
È pronta a sfidare il mondo per portare a compimento la sua nuova missione.
37.Torino, 24 ottobre 2007 – ore 20.15
Cala inesorabile la sera, la pioggia scivola sul suo cappello e sulla sua giacca, scivola come lacrime sugli ultimi eventi. Peccato che le sue siano finite.
eggia in questa triste sera come se si stesse addentrando nel suo umore, il tempo è rigido, in lontananza la luce di una taverna. Un bicchierino non può far altro che scaldarlo.
Si nasconde dalla luce soffusa delle lanterne quando giunge la locandiera. «Desidera?»
Avrebbe solo l’imbarazzo della scelta. «… Una media».
Le lacrime scivolano dai suoi occhi colmi mentre la rossa doppio malto scende nella sua gola che bocconi troppo amari ha già ingoiato e sul fondo intravede i suoi sogni sbiadirsi.
Il tempo scorre. «… Ancora una per favore».
Ancora una per mandare giù l’ipocrisia di chi gli lavora accanto, pronto a tradirlo per due lire… ancora una per disinfettare il cuore dalle ferite di chi gli era accanto… ancora una per l’indifferenza del mondo attorno a lui che lo fa sentire come una zattera in balia della tempesta.
Ancora una… alza gli occhi… i suoi occhi neri impreziosiscono il viso adornato da una chioma brizzolata, il completo nero esalta le sue forme…
«Posso?» una donna si pone davanti al suo tavolo.
Film già vissuto. «Non cerco compagnia. Grazie comunque».
«Dai, offro io». Sedendosi ordina da bere per due. Lui accetta un ultimo bicchiere. Iniziano a discorrere del più e del meno. La dolce voce della donna e la sua presenza riempiono con un senso di pace quello che fino a poco tempo prima era solo un buio angolo pieno di tristezza. Come un Angelo gli raccoglie la sofferenza che scaturisce dalle sue parole. Si sente come salvato da quel muro a cui era appoggiato con i pugni serrati pronto a reagire.
È ora di chiusura, il tempo scorre inesorabile.
«Devo andare» dice la donna. Con un cenno lo saluta mentre lui scopre che il conto è già pagato. Non c’è più, corre fuori: «Ehi, aspetta, non so nemmeno il tuo nome».
Svanendo nel nulla sente solo la parola: «Vita».
Ha smesso di piovere. La notte ora è illuminata dalle stelle, si torna a casa. Domani si ricomincia.
L’uomo è tornato nel suo squallido appartamento di Porta Palazzo. Guarda fuori dalla finestra della cucina mentre beve ancora un bicchiere di Bourbon. Ha giurato a se stesso che sarà l’ultimo della giornata. Finisce di bere e ha uno scatto d’ira. Lancia con forza il bicchiere contro il muro. Si frantuma in mille pezzi di vetro.
Il 24 settembre è ato da un mese ormai. Il 24 settembre.
Il giorno in cui, tanti anni prima, aveva conosciuto Anna, la sua dolce Anna. Un giorno indimenticabile per lui.
Anna è morta.
Invece quella puttana della cardiologa, che l’ha lasciata morire, è ancora viva.
Lui è stato un artista.
L’ha portata alla soglia della follia.
L’ha perseguitata con il telefono, il computer, le fotografie, le riprese con la telecamera, le scritte. Si è introdotto in casa sua, in ospedale. Tutto il bagaglio del moderno stalker.
Ha operato in modo che lei si trovasse da sola, senza alcun aiuto da parte delle autorità di polizia.
Ha commesso un solo ma imperdonabile errore: non doveva affidare l’incarico di ucciderla a quello psicopatico di Vincenzo Amodio, quel serial killer da strapazzo. Aveva impartito delle precise istruzioni ad Amodio, che doveva solo ammazzarla alla data prestabilita, impiccandola. Quel coglione ha invece fatto di testa sua e si è fatto prendere la mano con i suoi schizofrenici rituali. Lui ha preferito non esporsi in prima persona perché lei lo conosce. Ha fatto male. Doveva rischiare.
Cerca di rincuorarsi. Non importa. Ci saranno altri 24 settembre. Se Barbara Mori pensa che il suo incubo sia finito, si sbaglia di grosso. Continuerà, continuerà fino alla sua morte. L’ha giurato sulla tomba di Anna.
Il suo pensiero va alla cardiologa.
“Sei stata fortunata. Hai ucciso una pedina insignificante. Vediamo come te la cavi con i pezzi pregiati della scacchiera. Io sarò il re, il sovrano del terrore. Lascerò una scia infinita di sangue”.
Adesso la mestizia è ata. Si sente rinfrancato. Si avvicina al tavolo dove è appoggiato il computer portatile.
Apre il programma di posta elettronica.
Seleziona il mittente:
[email protected].
Seleziona il destinatario:
[email protected]
Scrive un breve messaggio.
“Ciao Barbara, come stai? Ti ricordi di me? Sono il tuo amato ‘Persecutore’. Volevo solo dirti tre parole: Io ti ucciderò…”
Una piccola freccia bianca lampeggia su “Invia”. L’indice della mano destra sta per premere il tasto del mouse. All’improvviso si ferma, sposta la freccia sulla casella “Salva adesso” e preme il tasto sinistro.
«È ancora presto» sussurra l’uomo, «un anno a in fretta».
Poi spegne il computer e lo schermo, lentamente, diventa nero.
Alla fine rimane soltanto il buio.
38.
La Jaguar nera era parcheggiata alla fine dell’angusto vicolo cieco. In quella zona della città era un mezzo assolutamente fuori luogo e non solo per le sue straordinarie dimensioni.
Luca Bernardi si era defilato il più velocemente possibile, piantando in asso Loredana, l’infermiera che lo aveva voluto incontrare a tutti i costi per comunicargli che suo fratello era appena uscito dalla clinica psichiatrica. Aveva già abbastanza problemi anche senza Lorenzo e voleva allontanarsi da quel luogo desolato. Luca avrebbe voluto incontrarla nel suo ufficio, un luogo in periferia, dove una mescolanza di relitti umani, sull’onda del destino, naufragava ogni giorno davanti alla sua scrivania. Era denominato “Consultorio cittadino per minori”.
Inoltre la temperatura scendeva sempre di più, minuto dopo minuto. Non si ricordava un mese di novembre così freddo da anni.
Stava ripensando con affetto all’incontro avuto la sera prima con una sua cara amica, Barbara Mori. Barbara era una cardiologa affermata e l’aveva conosciuta diversi anni prima, dopo che lei era stata vittima di un cruento caso di stalking. Era stata una vicenda terrificante che aveva segnato molto la donna e l’aveva tenuta lontana dal lavoro per alcuni anni. Si erano conosciuti a un convegno da lei organizzato proprio sul tema dello stalking.
A Luca era capitato che qualche sua giovane paziente fosse vittima di stalking, anche se in modo decisamente più blando. E lui, in questi casi, immancabilmente chiedeva un consiglio all’amica, che non gli negava mai il suo aiuto.
Lo stalker di Barbara, inizialmente creduto morto carbonizzato nelle concitate fasi finali dell’atroce vicenda, in realtà era un altro individuo che, dopo un anno dall’apparente conclusione di quella storia orribile, si era rifatto vivo con le stesse modalità della prima volta. Le aveva nuovamente inviato una mail con l’
[email protected], contenente esplicite minacce di morte. A quel punto però a Barbara fu assegnata una scorta e il suo persecutore svanì. Dopo alcuni mesi, le Forze dell’Ordine ritennero che il pericolo fosse cessato e di conseguenza le tolsero la scorta. Ma Barbara non era tranquilla, viveva nell’ossessione che lo stalker potesse riapparire da un momento all’altro, per cui conduceva un tipo di vita che la potesse esporre il meno possibile al pericolo di un nuovo attacco. Girava armata, con regolare porto d’armi, viveva con un’altra collega in pieno centro cittadino, cambiava continuamente la SIM e il numero di telefono.
Adesso Luca l’aveva vista abbastanza serena, anche se quella esperienza non poteva non averle intaccato in modo irreversibile la sua mente. Era ancora una bella donna, molto affascinante, ma non era pronta per avere finalmente una duratura relazione sentimentale con un uomo.
Luca alzò il bavero della giacca di pelle e si strofinò le orecchie. Erano il suo punto debole e, se non correva al caldo, reagivano al gelo con un dolore crescente che si propagava rapidamente fino alle tempie.
Stava ancora pensando a Barbara, valutando se attraversare la strada per prendere la metropolitana quando, alle spalle, udì lo stridio di grossi pneumatici. L’autista accese i lampeggianti, un paio di volte, brevemente e la luce alogena si rifletté sul lastricato bagnato. Luca continuò a camminare sul marciapiede, aumentando la velocità. Se c’era una cosa che aveva imparato lavorando per la strada, era che in una città gli estranei sono da evitare. Assolutamente.
La macchina lo affiancò scivolando silenziosa a o d’uomo.
L’autista non si curava del fatto che stesse procedendo contromano. La Jaguar era talmente larga che, in ogni caso, nessun veicolo proveniente dal senso opposto sarebbe riuscito a are.
Luca udì il ronzio di un vetro elettrico che si abbassava e una voce femminile, molto rauca, sussurrò il suo nome: «Dottor Bernardi?».
Aveva un tono cordiale e un po’ fioco e Luca arrischiò un rapido sguardo con la coda dell’occhio: fu sorpreso che quella voce femminile appartenesse invece a un anziano signore. Pareva aver superato abbondantemente i sessant’anni, forse anche i settanta. Mentre nella maggior parte dei casi la voce diviene più cavernosa con l’età, nel suo era accaduto il contrario.
Quando vide un uomo con l’abito gessato, Luca accelerò il o.
«Dottor Luca Bernardi, trentadue anni, residente al quarantasei di Via…».
L’anziano sedeva sul sedile di pelle chiara con la schiena rivolta verso la direzione di marcia. Evidentemente l’interno della limousine era così grande che i sedili posteriori erano contrapposti.
«Chi vuole saperlo?» chiese Luca senza guardarlo. Qualcosa gli diceva che lo sconosciuto dai capelli bianchi e dalle sopracciglia folte e ispide, spesse come un dito, non costituisse alcuna minaccia. Ma questo non escludeva che potesse
essere ambasciatore di pessime notizie. E di queste, Dio solo lo sapeva, negli ultimi tempi ne aveva avute abbastanza.
Il vecchio si schiarì la gola e aggiunse, in modo quasi impercettibile: «Lo stesso Luca Bernardi che ha ucciso la moglie incinta?».
Luca rimase atterrito. All’improvviso non poteva più camminare. L’umida aria autunnale si era tramutata in una lastra di ghiaccio impermeabile.
Si girò verso l’auto mentre la portiera posteriore si spalancava lentamente, producendo un leggero suono intermittente, come quando un eggero non allaccia la cintura di sicurezza.
«Che cosa vuole da me?» chiese Luca quando riuscì a ritrovare la voce.
«Da quanto tempo sono morti Livia e il piccolo? Sei settimane?»
Luca sentì le lacrime salire agli occhi. «Per quale motivo mi sta facendo questo?»
«Venga, la prego. Si accomodi».
Il vecchio sorrideva benevolo e tamburellò con le dita sul sedile accanto a sé.
«La porterò in un luogo in cui potrà far sì che tutto questo non sia mai accaduto».
39.
Luca e l’anziano sconosciuto erano seduti su due comode poltrone di pelle nera in un ambulatorio medico. L’uomo si era presentato come il Professor Paolo Borromei, direttore, primario e, soprattutto, proprietario dell’omonima Clinica Privata, specializzata nella cura di malattie mentali.
Era riuscito a convincere Luca ad accettare l’invito a recarsi nella sua Clinica, per fare una breve conversazione in merito ad un esperimento, che Borromei aveva definito “Epocale”.
«Com’è avvenuto l’incidente?» chiese brutalmente il Professore.
Luca rimase attonito: «Come fa a sapere che io ho avuto un incidente?».
«Dottor Bernardi, il suo incidente è stato un evento di dominio pubblico. Ne hanno parlato anche i giornali».
«Già… dimenticavo. Non c’è molto da raccontare. Stavamo rientrando da una festicciola familiare nella villa di mio suocero, quando è accaduto».
Borromei si chinò in avanti: «Qual era l’occasione?».
«Livia aveva ottenuto un grosso contratto per una nuova sceneggiatura. Era
attrice e anche autrice, ma questo lo saprà di certo».
Parlando si agitava inquieto sulla poltrona.
Livia si era sempre presa gioco della sua irrequietudine. Persino al cinema non riusciva a restare seduto tranquillo per più della durata di una scena.
«Doveva essere la sua prima sceneggiatura per un film; gli americani erano pronti a pagare una bella somma e quindi avevamo brindato con suo padre».
«Il professor sco De Sanctis?»
«Il chirurgo, esatto. Lui è…» Luca si fermò. «Era mio suocero. La clinica De Sanctis forse le dice qualcosa».
«La consigliamo a tutti i nostri pazienti per cui riteniamo necessario un intervento chirurgico. Grazie a Dio, non accade spesso».
Prima di continuare, Luca cambiò nuovamente posizione, andosi la mano sulla pelle del mento.
«Stavamo percorrendo una strada di campagna poco battuta, di ritorno dalla tenuta dei De Sanctis. Come sempre guidavo veloce, troppo per una strada così stretta. Livia era arrabbiata e mi sembra che avesse minacciato di scendere. Poi ad un certo punto un’auto ci ha tagliato la strada, sono sbandato, anche a causa
dello scoppio di uno pneumatico e ci siamo schiantati contro un albero».
Luca chiuse per un momento gli occhi e cercò di allontanare da sé le poche immagini dell’incidente, come faceva sempre.
«Che cosa è accaduto dopo?» chiese con aria prudente Borromei. Più abbassava il tono, più la sua voce suonava effeminata.
«Onestamente, non lo so. I ricordi delle ultime ore prima e dopo l’incidente sono molto nebulosi. Più di quello che le ho raccontato, non saprei. Mio suocero dice che si tratta di un’amnesia retroattiva. La festa a casa sua, i discorsi fatti durante il viaggio di ritorno, tutto questo è confuso. Purtroppo solo questo». Luca rise amaramente. «Ma per il resto c’è qui lei».
«Mah…».
Il medico incrociò le braccia sul petto, quasi a sottolineare il tono sospettoso della domanda successiva. «Proprio non ricorda nulla di cosa è accaduto in auto prima dell’incidente?»
«Certo. Qualche frammento, ma solo recentemente. Inoltre non sono sicuro se si tratti solo di un sogno o del ricordo di fatti accaduti realmente».
«Interessante. Che cosa sogna?»
Luca scosse la testa. «Perlopiù la mattina ricordo solo brandelli di discorsi incoerenti. Livia cerca di convincermi e mi supplica di non impedirlo».
«Non hai sempre detto che il fine giustifica i mezzi? Non è il motto della tua vita?»
«Tu sei pazza, Livia. Il fine non giustifica mai la morte».
«Che cosa voleva impedire?»
«Non ne ho idea. Immagino che il mio subconscio voglia giocarmi uno scherzo e che si riferisca all’incidente».
«Perché Livia si è slacciata la cintura?»
Luca deglutì due volte, il grumo nella gola sembrava diventare sempre più grande.
«Non lo so» disse infine. «Si era girata verso il sedile posteriore, forse cercava qualcosa da mangiare. Era al sesto mese di gravidanza e portavamo sempre qualcosa di dolce con noi, nel caso fosse colta dalla sua fame incontenibile. Le accadeva spesso, soprattutto quando era arrabbiata».
«Che cosa è successo dopo?» incalzò nuovamente Borromei.
Ho visto che lei improvvisamente teneva in mano qualcosa. Una fotografia? Me l’ha mostrata, ma era priva di colore e sfocata. Non riuscivo a distinguere nulla. Ma più che altro non sono sicuro di averlo vissuto realmente. Perché lo rivedo solo nei miei sogni, anche se giorno dopo giorno, questi sogni diventano sempre più nitidi.
Fino a quel momento, Luca ne aveva parlato solo con suo suocero e in modo accennato, poiché era consapevole che il sogno poteva essere un effetto collaterale delle cure cui aveva dovuto sottoporsi a causa della scheggia.
«Poi un bastardo mi ha tagliato la strada, è scoppiata la gomma» continuò. «L’auto ha compiuto due testacoda prima di…».
Tentò di sorridere. Per una qualche assurda ragione si sentiva in dovere di sdrammatizzare la tragedia di fronte agli estranei.
«Poi mi sono risvegliato nella clinica De Sanctis e il resto può leggerlo».
Borromei annuì. «Come si sente da allora?»
Luca prese il bicchiere, che ormai era quasi vuoto. Ma gli mancava la forza di versarsi altra acqua.
Come si sente un uomo che ha sulla coscienza la moglie e il figlio morti?
«Sono stanco, spossato. Sento che ogni movimento è pesante. Ho dolore alle articolazioni e alla testa».
«Sono sintomi tipici della depressione». Borromei sollevò il sopracciglio sinistro, suscitando in Luca un ulteriore ricordo della moglie. Le sopracciglia di Livia descrivevano un arco così ampio da conferirle una perenne espressione di sorpresa.
«E i disturbi sono sopraggiunti dopo l’incidente?»
Luca esitò prima di rispondere. In realtà li aveva avuti qualche giorno prima, quando si era sentito a pezzi, assonnato e intontito, sebbene non avesse toccato una goccia d’alcol. Il suocero si era preoccupato molto e gli aveva prescritto, due settimane prima della morte di Livia, una serie completa di esami, compresi quelli del sangue e una risonanza magnetica. Ma non era stato riscontrato nulla di anomalo.
«Diciamo che l’incidente non ha di certo migliorato il mio stato di salute…».
Un crepitio squillante irruppe all’improvviso e Luca impiegò qualche secondo per rendersi conto che l’allarme del suo orologio gli stava ricordando di prendere le pillole. Estrasse due capsule oblunghe da quel pertugio minuscolo che, per insondabili motivi, è nascosto nel mezzo della tasca destra di tutti i jeans. Prima ci teneva le gomme da masticare.
«Prende queste pillole per la ferita al collo?» chiese il professore, mentre Luca le
ingeriva con l’ultimo sorso d’acqua rimasto. Annuì e si toccò istintivamente la benda.
«I medici non vogliono correre rischi con un’operazione chirurgica. La scheggia è piccola, ma si trova molto vicina alla colonna vertebrale cervicale. Queste capsule dovrebbero far sì che il corpo estraneo venga o inglobato dai muscoli senza infettarsi, oppure rigettato dal sistema immunitario. Se non funziona, allora dovranno incidere ed estrarlo, con il rischio che io resti paralizzato dal collo in giù, sempre che mi svegli dall’anestesia».
«Le fa male?»
«No, brucia soltanto».
I dolori veri risiedevano nel profondo. Al contrario di quella ridicola scheggia si erano abbattuti come una scure sulla sua anima.
«Bene…» stava per riprendere Borromei ma Luca lo interruppe.
«No, per nulla bene. Ora basta. Queste pillole m’indeboliscono e spesso mi sento male. Quindi devo andare a distendermi, se non voglio vomitare qui, sul suo parquet. Inoltre ne ho abbastanza. Da quando sono salito con lei in auto, vengo continuamente illuso con belle parole. E invece di ricevere delle risposte, lei continua a sottopormi a un vero e proprio interrogatorio. Quindi lei ora ha due possibilità. O io me ne vado immediatamente da quella porta…».
«… o io le svelo finalmente il nostro piccolo segreto» continuò Borromei, sfoggiando nuovamente il suo smagliante sorriso a cinque stelle. «Bene, allora venga con me».
Il professore si sollevò un po’ goffamente dalla poltrona, senza modificare minimamente l’esposizione dei trentadue denti.
«Mi segua, forse si trova a pochi i dalla sua nuova vita».
40.
«Il nostro è un mondo senza amore e senza pietà, dove non si rispettano né i vivi né i morti. Le sembra un’affermazione inverosimile?»
Luca rimase interdetto. «Francamente non saprei proprio cosa dirle».
«Sappia allora che tipo di esperimenti compiono scienziati-stregoni nel segreto dei loro laboratori» continuò Borromei. «Poco prima della Seconda Guerra Mondiale, notizie su esperimenti orribili arrivarono da tutte le parti del mondo. Corpi di animali senza testa erano tenuti in vita e sole teste condannate continuavano a vivere. Ma le allusioni e i frammenti di notizie non bastarono per allarmare il mondo. Tramite cuori artificiali era pompato il sangue saturo di ossigeno nei cervelli. Si vedevano teste di animali fiutare odori, sentire sapori, muovere gli occhi e respirare, teste il cui cervello funzionava e tutto senza tronco e senza cuore. E nel solo tronco, sul quale era stato impiantato un sistema di tubi, il cuore continuava a battere perché il cervello, che avrebbe dovuto assicurare gli stimoli naturali, era stato sostituito da un motore. Le notizie su macabre operazioni, sulla creazione di esseri con cervelli automatici, stimolati da una distanza di cento metri con impulsi elettrici, continuavano a essere giudicate come nate dalla fantasia.
Ma nel 1970, dopo quasi un secolo di esperimenti falliti, queste storie assunsero improvvisamente una forma concreta: il professore americano Robert White presentò al mondo un sensazionale esperimento. Con i suoi trapianti di teste, egli iniziò una nuova epoca nel campo della chirurgia del cervello. Tutto cominciò con un esperimento riuscito, dove la testa di una scimmia fu trapiantata sul corpo di un’altra».
Luca era letteralmente allibito dal racconto del professore, ma soprattutto non riusciva a capire dove egli volesse andare a parare. Rimase muto, incapace di replicare al racconto di Borromei che era un fiume in piena.
«Questo neurochirurgo che lavorava con un gruppo di esperti nel “Centro Studi sul Cervello” dell’Università di Cleveland, diede il via a una serie di cento esperimenti di questo genere necessari per raggiungere il suo traguardo finale: il trapianto di una testa umana. Risultato peraltro mai raggiunto».
Borromei fece una breve pausa studiando le reazioni di Luca al suo racconto e ne intuì il profondo turbamento.
«Nel 1971 il professor White pubblicò i suoi risultati, ma eravamo solo all’inizio di questi esperimenti da incubo. Orrori di una scienza asservita al Male» sentenziò Borromei.
Vi fu un attimo di pausa, durante il quale il professore si aspettò delle domande da parte di Luca che però non furono formulate. Allora continuò nel suo racconto.
«Che i servizi di Intelligence statunitensi avessero compiuto esperimenti su un gran numero d’ignari americani non è una novità. La stampa europea iniziò a parlarne il 24 gennaio del 1976. Tra i tanti misfatti di cui s’incolpa, in particolare la CIA, vi è anche quello che accusa l’Agenzia di essere ricorsa all’intrusione, nel cervello di un imprecisato numero di persone, di impianti intracerebrali miniaturizzati per controllarne e dirigerne la mente. La cosa non pare essere improbabile come potrebbe sembrare.
Il successivo salto di qualità portò alle microonde e al loro uso per ottenere effetti più marcati di condizionamento della mente umana. Un numero incalcolabile di persone è stato usato come cavia da laboratorio, per una vasta gamma di esperimenti orribili, che includono anche armi batteriologiche. Secondo taluni l’AIDS sarebbe un prodotto della guerra batteriologica. L’esercito USA, nel 1969, ricevette un budget di 10 milioni di dollari, per ricercare un agente batteriologico nuovo, capace di distruggere il sistema immunitario.
Esperimenti come questi, assieme ad altri di identica gravità, furono condotti, per oltre quaranta anni, su una gran quantità di cittadini inermi e inconsapevoli, da parte dei servizi segreti americani e portarono tutti al famigerato programma MK-ULTRA, che consisteva in una serie di tecniche occulte ed esperimenti illegali, condotti anche con vari tipi di droghe e altro ancora e volti al controllo e alla manipolazione del cervello. Il famigerato progetto ebbe origine all’inizio degli anni ’50 e fu poi interrotto negli anni ’60 per il grosso scandalo scoppiato grazie alle rivelazioni pubblicate dalla stampa. L’inchiesta che fu aperta non concluse nulla. A capo della Commissione senatoriale incaricata di indagare vi era Nelson Rockefeller».
Luca era ato dallo stupore a una malcelata insofferenza per il racconto del professore. «Senta, ho ascoltato con estremo interesse la sua lunga prolusione, ma francamente non ho ancora capito dove voglia arrivare. Intende forse procedere con il trapianto della mia testa o con qualche esperimento di laboratorio già compiuto dalla CIA?»
Borromei lo tranquillizzò. «No, Luca, stia sereno. Volevo solo farle sapere che gli esperimenti sul cervello umano e quindi, di riflesso, sulla memoria, sono iniziati da tempo, ma solo noi siamo giunti alla sintesi finale».
«Che cosa vuol dire?»
«Che con il nostro esperimento noi siamo in grado di ottenere gli stessi risultati che si avrebbero con il trapianto di una testa umana. Ovviamente, però, senza il trapianto. Venga, andiamo nel mio studio».
41.
Luca deglutì e si toccò istintivamente il capo.
«Il cervello umano non è un archivio» spiegò Borromei mentre chiudeva dietro di sé la porta rivestita di pelle del suo studio. «Non ci sono cassetti che possano venire chiusi o aperti a piacimento, informazioni da archiviare per poi essere recuperate».
Il professore prese posto dietro a una massiccia scrivania, dovendo prima togliere dalla sedia una catasta di fogli ammucchiati che appoggiò sul pavimento insieme con altre pile di documenti e libri. Luca si accomodò su una sedia di legno laccato bianco e si guardò intorno.
Al contrario degli altri ambienti della clinica, quasi asettici, quella stanza era persino sciatta. Alcune tazze di caffè sporche e un sandwich smangiucchiato erano buttati sulla scrivania con saggi e cartelle cliniche, tutti ammucchiati alla rinfusa. Nella luce impietosa del faretto alogeno, Luca scoprì una macchia di grasso sulla cravatta del professore, che nella semioscurità della limousine e dell’ambulatorio gli era sfuggita.
«In ato si riteneva che per ogni ricordo ci fosse un particolare scomparto del cervello. Naturalmente non è così. Quando un’esperienza diventa un ricordo, va a depositarsi fra milioni e milioni di fasci nervosi».
«Le sinapsi».
«Esattamente. Ogni ricordo è memorizzato in innumerevoli collegamenti trasversali. Il rumore di un motore, persone che litigano, un odore, una certa canzone che forse suonava alla radio, il panorama sull’acqua, il frusciare delle foglie nel bosco… la sua memoria può riattivare tutto questo, richiamando così anche gli spaventosi ricordi dell’incidente».
«E lei come pensa di cancellarlo dal mio cervello?» chiese Luca.
«Non si può. In ogni caso non separatamente. Purtroppo noi possiamo eliminare solo tutti i suoi ricordi».
«Un momento». Luca si schiarì la gola. «Ho capito bene? Vorrebbe cancellare tutti i miei ricordi?»
«Sì. E’ l’unica possibilità: l’induzione forzata di un’amnesia totale. Su questo vertono i nostri esperimenti. La perdita della memoria in teoria è sostanzialmente azionata tramite tre fattori» continuò. «Attraverso esperienze traumatiche molto forti che l’animo umano vuole dimenticare, attraverso danni al cervello a seguito di un incidente, attraverso sostanze chimiche, come gli anestetici, oppure…».
«Oppure?»
Il professor Borromei guardò dritto negli occhi Luca. «Oppure utilizzando il nostro esperimento che consiste nel collegare, tramite dei macchinari specifici da noi creati, il suo cervello a quello di un’altra persona morta, ma della quale siamo in grado di far proseguire l’attività cerebrale».
Ma è mostruoso!
Luca era sbalordito e allo stesso tempo spaventato. «Mi faccia capire. Lei quindi trasferirebbe nella mia testa la memoria di un’altra persona?»
«Una cosa del genere. Naturalmente un po’ più complessa, ma in linea generale sì, si tratta di questo».
«E se dovessi avere dei ricordi della persona morta?»
Borromei scosse la testa. «Impossibile. Un morto non ha ricordi».
«Sempre per pura curiosità… e dopo cosa succede?»
«Vuole dire dopo che abbiamo eseguito il trasferimento?»
«Sì».
«Molto semplice. Lei sarà un’altra persona con una memoria vergine».
«Prego?»
«Il trasferimento della mente o mind ing, in lingua inglese, letteralmente “caricamento della mente” o emulazione del cervello, è l’ipotetico processo del trasferimento o della copia di una mente cosciente da un cervello a un substrato non biologico. Il processo prevede la scansione e la mappatura dettagliata del cervello biologico e la copia del suo stato in un sistema informatico o altro dispositivo di calcolo. Il computer eseguirebbe una simulazione del modello così fedele all’originale che la mente simulata si comporterebbe, in sostanza, allo stesso modo del cervello originale, o per tutti gli scopi pratici, in maniera indistinguibile. La mente simulata sarebbe considerata parte della realtà virtuale del mondo simulato e potrebbe essere ata da un modello anatomico tridimensionale che simula il corpo. In alternativa, la mente simulata potrebbe risiedere in un computer o connessa a esso innestato all'interno di un robot umanoide o di un corpo biologico sostituendone il cervello. Noi siamo in grado di farlo su un essere umano».
«E cosa ne sarebbe del mio mondo?» chiese Luca. «I miei amici, i conoscenti, mio suocero? Appena lo incontrerò vorrà parlarmi della morte di sua figlia».
«No, se non li vedrà mai più».
«Come?»
Borromei rotolò indietro con la sedia e rise. Era nel suo elemento e sembrava più giovane di parecchi anni rispetto a quando lo aveva incontrato in limousine. Anche la sua voce era più potente. «Proprio per questo lei è il candidato ideale. Lei è impiegato nel settore sociale, ma non ha una vita sociale. I suoi genitori sono morti giovani e con suo fratello non ha più contatti. In ufficio lavora con collaboratori che cambiano continuamente e con i suoi clienti ha perlopiù solo un legame temporaneo».
«I miei amici mi cercheranno».
«Quelli che lavorano nei grandi uffici legali e si dimenticherebbero del suo compleanno se non lo avessero salvato in qualche agenda elettronica?»
«Ma io non vivo in un vuoto, cosa crede? Secondo lei dovrei andarmene da questa città?»
Con sorpresa di Luca il professore annuì. «Naturalmente potremmo occuparci noi della sua nuova vita. Anche questo fa parte dell’esperimento. La porteremo in un’altra regione, le troveremo un nuovo lavoro, la integreremo con il vicinato fornendole un ato accettabile. Ci faremo carico perfino di tutti i costi della trasferta. Vede, noi collaboriamo anche con il sistema di protezione dei testimoni».
«Lei è pazzo!» esclamò Luca con il tono perentorio di una sentenza più che quello di una domanda.
«Sicuramente noi percorriamo vie estreme, ma chi persegue strade già battute non potrà mai scoprire nuovi mondi».
Il professore inarcò nuovamente il sopracciglio sinistro. «Pensi che opportunità, Luca. Essere uno dei primi uomini di questo pianeta che può iniziare psichicamente una nuova vita. Libero da ogni peso dell’anima, spensierato come un neonato. Non parlo solo dell’incidente. Noi le faremo dimenticare tutto ciò che l’ha ferita».
«Una specie di riprogrammazione? Un reset?» chiese Luca.
«Sta a lei decidere».
Borromei tirò il cassetto della sua scrivania e ne estrasse un piccolo foglio fittamente stampato.
«Deve solo firmare questo modulo e potremo iniziare subito. Inoltre adesso la faccio incontrare con una persona che lei conosce bene e che ha già accettato di sottoporsi al nostro programma».
Luca rimase interdetto. «Di chi si tratta? Chi è?»
La porta si aprì ed entrò Barbara Mori.
«Barbara!» urlò Luca. «Perché?»
«Perché tu conosci bene la mia storia, sei al corrente di quello che mi è successo. Io non riesco più a sostenere il peso di quei ricordi. Voglio rimuoverli. Definitivamente. Voglio una nuova vita senza mostri. Questa è un’opportunità unica. Non voglio lasciarmela scappare. Segui il mio esempio, Luca, non te ne pentirai».
42.
Luca si rivolse al tassista della Mercedes sui cui era appena salito comunicandogli l’indirizzo del suo ufficio.
Dopo l’incidente non aveva più usato l’auto, non si sentiva ancora pronto per rimettersi al volante.
Luca era sconvolto. Non era riuscito a entrare nel suo appartamento perché qualcuno aveva cambiato il cilindro della serratura.
Chi e perché l’aveva fatto?
Inoltre aveva perso il cellulare, probabilmente dimenticato nella clinica di Borromei.
Fu scagliato sullo schienale di plastica dall’incredibile velocità con cui la macchina correva, pur essendo un diesel. Cercò la cintura di sicurezza, ma era scivolata dietro allo schienale ribaltabile.
«Cerca qualcosa?» chiese l’autista pelato, fissandolo con diffidenza dallo specchietto, da cui ciondolavano due dadi di feltro. Contemporaneamente sollevò il braccio sformato dagli anabolizzanti sul poggiatesta del sedile a fianco.
«No, tutto a posto» rispose Luca. Avrebbe voluto are nel sedile a fianco, ma all’autista non sarebbe piaciuto troppo avere un eggero dietro la schiena. Così rimase dov’era, senza cintura, guardando fuori dal finestrino.
Non si era mai sentito così solo come allora, neppure nei momenti peggiori del lutto.
Non aveva mai pensato che la perdita del suo telefono avrebbe rappresentato un disastro così sconvolgente.
Negli ultimi anni non aveva mai, neppure una volta, digitato un numero per telefonare a qualcuno, ma lo aveva sempre selezionato sulla rubrica digitale. Per chiamare Livia, sco, la collega Rosa, l’amico di studi Ludovico e gli altri contatti più stretti, doveva solo scegliere premendo un tasto. L’unico numero che ricordava a memoria era quello che ora gli serviva di meno: il suo. Tutti gli altri li aveva memorizzati, chissà quando, sotto il nome del loro proprietario e poi dimenticati.
Al momento, se c’era qualcuno che poteva aiutarlo, quello era suo suocero. Se da un lato era come lui distrutto e sofferente per Livia, dall’altro era un medico. Se Luca si trovava davvero in uno stato di confusione mentale, sco avrebbe saputo cosa fare.
Luca si domandò cosa gli fosse accaduto negli ultimi anni, durante i quali aveva completamente smesso di curare le proprie amicizie. In effetti, c’era solo una persona nella sua vita e questa, sei settimane prima, aveva donato il suo corpo alla ricerca scientifica.
Livia.
Non si era sentito pronto per recarsi in patologia, dove il suo cadavere veniva sezionato dagli studenti di medicina. Infatti, fino a quel momento non era stata fissata alcuna data per la sepoltura ufficiale.
«Che cosa fanno stasera?» gridò il tassista verso di lui. Non gli ò neppure per la testa di abbassare la radio.
«In che senso?» chiese Luca confuso.
«Ma sì, al Rocky Bar. Chi suona stasera?»
Ho l’aria di uno che sta andando a un concerto rock?
«Non ne ho idea. Io sto correndo in ufficio».
L’autista diede un’occhiata allo specchietto retrovisore, tirò ancora su col naso e fece una faccia da cui si capiva chiaramente cosa ne pensasse del tipo di lavoro che uno poteva svolgere in quella zona.
«Io sono un amante di musica indiana» affermò il tassista soddisfatto. Evidentemente si aspettava un apprezzamento per il fatto che uno, anche se palestrato, avesse dei gusti musicali fuori dal comune. Luca cercò di ignorarlo. Gli occorreva tutta la sua concentrazione per mettere in fila le domande cui la
ragione non trovava risposta: Perché non riesco a entrare in casa mia?
«Che cosa fa di lavoro?» insistette l’autista. Ora doveva urlare per superare non solo la radio, ma anche l’incomprensibile gracchiare della centrale di trasmissione.
Non c’è da stupirsi se non riesco a mettere insieme un ragionamento.
Di primo acchito, aveva pensato di andare da sco. Poi, però, aveva deciso si andare in ufficio dove c’era un altro cellulare e nel suo computer aveva salvato un back-up completo della rubrica. Inoltre le poche monete rimaste in tasca non bastavano per il lungo viaggio fino alla villa della famiglia e nemmeno per la clinica privata del suocero.
Okay, una cosa alla volta. Adesso vai in ufficio, prendi il cellulare, carichi la memoria del telefono, prendi del denaro e poi ti riappropri della tua vita. Della tua identità.
Il tassametro segnò dodici euro e trenta e nel cervello di Luca si fece strada un sospetto. Inizialmente cercò di ignorarlo, ma capì subito che, se davvero voleva sapere cosa stava accadendo intorno a lui, doveva verificarlo.
«Mi scusi? Può farmi un favore?»
L’autista tolse di colpo il piede dal gas e accostò a destra, sebbene mancassero duecento metri alla destinazione.
«Non può pagare, per caso?» chiese minaccioso, voltandosi. «No, no. Penso di aver perso il telefono. Può provare a chiamarmi?»
Luca indicò il telefono dell’autista, che era appeso vicino al tassametro in un sostegno di plastica. Fungeva anche da navigatore.
«Lei è gay?» chiese.
«Ma come le viene in mente?»
«Eh sì, è un vecchio trucco. Io chiamo così lei ha il mio numero. Io non sono uno di quelli. Anche se porto della roba di pelle, non vuol dire che…».
«No, stia tranquillo. Io voglio veramente sapere se ho perso il mio telefono di lavoro o se è rimasto dalla mia ragazza».
L’autista aggiunse: «Comunque il mio numero è nascosto».
«Vede allora, che problema c’è?»
L’uomo allungò il bicipite, sbuffò scocciato, strappò quasi con forza il telefono dal sostegno e digitò il numero che Luca gli dettava.
«Suona» disse dopo poco e allontanò il telefono dall’orecchio. «Non aveva detto che l’aveva lasciato dalla sua ragazza?» il tassista interruppe i suoi pensieri.
«Sì».
«Qua però c’è un uomo».
«Cosa?»
L’autista gli allungò il telefono.
«Pronto?» ripeteva una voce profonda dall’altro capo, mentre lo portava all’orecchio.
«Scusi, di sicuro ho sbagliato».
«Non c’è problema. Chi cercava?»
Luca disse il suo nome e stava per chiudere, quando l’altra voce rise cordialmente. «Allora non ha sbagliato, cosa desidera?»
«Come prego?»
Il telefono minacciava di scivolargli dalle dita sudate e il suo battito sembrava accelerato il doppio.
«Luca Bernardi sono io» disse l’estraneo dall’altra parte del telefono».
«E abita per caso in via Lazzari 46?»
L’altro ridacchiò. «Certo! Mi scusi un attimo, torno subito».
Si sentì un fruscio e la voce attutita dell’uomo: «Che cosa c’è tesoro?».
Poi a Luca cadde di mano il telefono. Subito dopo aver sentito la risata di una donna in sottofondo. Una risata inconfondibile.
Livia.
43.
«Ehi, il suo resto!» gli urlò dietro il tassista ma Luca non si voltò. Doveva uscire immediatamente dall’auto. Fuori, all’aria aperta, anche se sapeva che i conati di vomito non sarebbero cessati. Di solito la nausea lo attaccava subito dopo aver preso le sue medicine. Ora però era stata causata dalla telefonata a quell’uomo.
Uno sconosciuto che si chiama come me? Che vive la mia vita?
Il taxi si era fermato dalla parte sbagliata. Nonostante la stanchezza Luca cercò di correre gli ultimi cento metri verso l’incrocio che doveva attraversare per arrivare al suo ufficio, ma dopo pochi i ebbe le fitte. Una volta poteva correre dieci chilometri senza problemi. Dall’incidente le sue condizioni sembravano quelle di un malato di cancro. E ora, dopo gli ultimi avvenimenti della giornata, non c’era neppure da meravigliarsene.
sco sosteneva che il suo stato complessivo di debolezza non dipendesse soltanto dagli effetti collaterali dell’immunosoppressore che serviva a impedire che la scheggia nella sua testa si spostasse. «E’ la tua anima che, pur essendo fuori allenamento, vuole affrontare ora una specie di maratona» gli aveva spiegato, per convincerlo a sottoporsi a cure mediche.
Luca si premette la mano sul fianco e cercò di respirare come gli aveva insegnato suo fratello. Molto tempo prima, quando erano ancora piccoli e dovevano regolarmente scappare dal controllore della metropolitana, molto prima che tra loro due si radicasse l’odio.
«Sto impazzendo» affermò. Come sempre c’erano pochi anti per la strada e né il giornalaio né la coppietta di studenti o la famiglia straniera e numerosa si stupirono vedendo uno che mormorava tra sé scuotendo la testa.
Non in quel quartiere.
«O sono impazzito o alla clinica mi hanno fatto qualcosa» si disse.
Poco dopo l’incrocio arrivò davanti a una farmacia le cui serrande erano abbassate, ma dentro s’intravedeva ancora una luce. Guardò l’ora. 21.57. Era di turno fino alle 22.00. Per la prima volta in quel giorno sembrava che almeno una piccola cosa andasse per il verso giusto.
Gli restavano tre minuti per prendere le medicine. Luca suonò.
Il farmacista lesse incredulo il nome del farmaco scritto sulla scatola vuota, come se Luca avesse chiesto dell’eroina. «Ha una ricetta?»
Luca scosse la testa. Fino a quel momento l’aveva avuto sempre dalla farmacia della clinica, quando andava a medicarsi.
«Mai sentita» disse il farmacista e barcollò sui sandali sanitari verso il bancone. Luca sentì che diversi cassetti di un armadio metallico venivano aperti e richiusi.
«E vorrei anche dell’aspirina e un medicinale per la nausea e la gastrite» gli
gridò.
Il farmacista aveva terminato la sua ricerca e tornò verso Luca con una piccola busta in mano.
«Ho guardato. Non lo abbiamo. Se vuole tornare domani, potrei ordinarglielo».
Maledizione. Non posso aspettare fino a domani.
Il farmacista depose la bustina con le altre medicine nella piattaforma dello spioncino e prese la carta di credito di Luca. Si era portato appresso l’apparecchio per risparmiarsi della strada.
«Ne ha un’altra?» gli stava domandando il farmacista, per cui si voltò di nuovo verso lo sportello.
«Come dice?»
Il farmacista mostrò il display del suo lettore.
CARTA NON VALIDA.
«Non può essere, è nuova di zecca». Luca gli allungò l’American Express, ma
l’apparecchio rifiutava anche quella e il farmacista cominciava a spazientirsi.
«Oppure può pagare in contanti, dottor Bernardi. Quattordici euro e novantacinque».
Luca non sentì neanche le parole del farmacista. Perché in quel momento vide nel riflesso del vetro che dalla parte opposta della strada si era accesa una luce in un locale.
Nel suo ufficio!
«Torno subito» disse e afferrò la busta dei medicinali.
«Ehi!» urlò il farmacista allibito.
«Non si preoccupi, lavoro lì. Vado a prendere il denaro, okay?»
Non poteva stare a discutere. Doveva entrare nel suo ufficio, andare alla sua scrivania. Lì aveva tutto quello che gli serviva per ritrovare la sua vita: cellulare, denaro in contanti nel cassetto chiuso e i numeri di telefono nel computer.
Quindi corse su per la via, che nonostante l’ora tarda era ancora trafficata come le strade principali di una piccola città.
«Ehi!» gridò in mezzo alla strada. Un’auto sportiva ò su una pozzanghera e spruzzò volutamente i suoi jeans all’altezza delle cosce, ma non se ne accorse nemmeno e gridò una seconda volta all’uomo che proprio davanti alla porta del suo ufficio s’inginocchiava e stava per mettere un lucchetto alla saracinesca calata.
Il tizio indossava una felpa nera con il cappuccio tirato sulla testa come quello di un monaco, pertanto, anche dalla breve distanza, non riusciva a distinguere il suo viso.
«Ehi, aspetti!» gridò Luca quando finalmente gli fu davanti. «Chi è lei?»
«Ah, chiamava me?» l’uomo lo guardò.
Era circa sulla trentina, piuttosto alto e indossava jeans sbiaditi e scarpe da tennis in cui i piedi di Luca sarebbero potuti entrare anche per orizzontale. Per evitare le gocce di pioggia, si schermò il volto con la mano aperta.
«Che cosa succede?» chiese abbastanza amichevolmente e si alzò, superando Luca almeno di due teste.
«Lei chi è?»
«E chi vuole saperlo?»
«Il responsabile dell’ufficio che stava per chiudere proprio ora e siccome non la conosco, mi chiedo che cosa ci faccia qua. Chi le ha dato la chiave?»
L’uomo si guardò intorno, come per cercare testimoni, poi sogghignò strafottente verso Luca.
«Che giorno è oggi?»
«Il 12 novembre. Cosa c’entra con la mia domanda?»
«Ah, pensavo che fosse il primo d’aprile».
Luca guardò irritato l’estraneo mentre afferrava una cartella e poi cercava di allontanarsi.
«Vuole prendermi in giro?»
L’uomo guardò brevemente sopra le spalle. «Ha cominciato lei».
Si allontanava sempre di più e Luca faticava a tenere il o.
«Aspetti. Si fermi. O chiamo la polizia!» gridò e si sentì abbastanza ridicolo nel farlo.
«E per fare cosa?»
«Per denunciare un’intrusione nel mio ufficio».
«Nel suo ufficio?»
«Sì».
Il gigante si fermò.
«Come può accadermi tutto questo in un unico giorno?» si chiese e guardò in alto, nel cielo buio. Le gocce di pioggia che cadevano sul suo volto non rasato ora sembravano non disturbarlo più.
Luca provò la strana sensazione di avere già visto quel tipo.
«Buon uomo, io sono il responsabile di questo ufficio. E non ho nessuna idea, invece, di chi sia lei».
«Ma è ridicolo» gridò Luca e tirò fuori il suo mazzo di chiavi.
Poi corse i dieci i indietro verso l’ufficio, mentre lo sconosciuto scuoteva la testa, rimanendo sotto la pioggia.
«Mi chiamo Luca Bernardi e io…»
Si bloccò e fissò incredulo il lucchetto della serranda: era stato cambiato. Non possedeva alcuna chiave per quel grosso cilindro. Tuttavia provò una chiave dietro l’altra, finché udì una voce direttamente dietro di lui.
«Luca Bernardi?»
Annuì.
«Mai sentito».
Luca si alzò.
«Va bene. Allora chiami Rosa».
«Rosa?»
«La mia assistente. Smista le pratiche burocratiche qui».
«No, lei si sbaglia. Qui non lavora né un Luca Bernardi né una…».
«Adesso ne ho abbastanza» lo interruppe Luca brusco. «Io pretendo che lei chiami subito Rosa Diamanti».
«Okay, okay». L’uomo alzò le mani per tranquillizzarlo e prese il telefono. Era evidente che stava cercando di andare incontro alle richieste più facilmente evadibili del suo imprevedibile interlocutore.
«Mi dica il numero di questa Rosa».
Luca si toccò la testa e strinse gli occhi.
Il numero. Maledizione. Non sono nemmeno sicuro del mio.
«Non lo so». Seguì una lunga pausa in cui anche la pioggia rallentò. Tutto parve diventare silenzioso e fermo. Il tempo, il traffico, il vento. Solo il suo dolore interno scorreva veloce.
«Le è successo qualcosa?» Da una grande distanza gli giunse la voce dell’uomo. Per la prima volta sembrava seriamente preoccupato.
«Io… non lo so».
«Lei ha l’aria di non stare per niente bene. I suoi occhi… Si è fatto vedere?»
«No, sono gli effetti collaterali…»
«Sta assumendo degli psicofarmaci?»
Un alito di comione velò la voce dell’estraneo.
Luca cercò di inficiare l’ingannevole convinzione che ora doveva avere quell’uomo. «Sì, ma non è questo il punto».
Non sono uno psicopatico. Almeno stamattina non lo ero.
Trasalì quando sentì la mano sul suo avambraccio.
Il colosso sembrava un giocatore di basket. Di certo era un fumatore, perché standogli vicino Luca respirava l’odore della nicotina che gli aveva intriso i vestiti.
«Senta», continuò con voce affabile il sedicente responsabile dell’ufficio. «Il mio lavoro consiste proprio nell’occuparmi dei problemi degli altri. Posso almeno provare ad aiutarla? Che ne direbbe se la accompagnassi a casa?»
A casa.
Luca rise sarcastico, ma l’estraneo non mollò la presa.
«C’è qualcuno che potremmo contattare?»
Lo sguardo dell’uomo si posò sulla fede di Luca. «Lei è sposato?» La risata di Luca divenne ancora più disperata. Cessò di ridere di colpo e indicò la porta dietro di sé.
«No, non voglio andare da nessuna parte. Devo entrare là dentro».
Il sorriso dell’uomo scomparve.
«Mi dispiace ma non posso. E’ proibito l’ingresso agli estranei fuori dall’orario di apertura. Le propongo un’altra cosa. Andiamo in ospedale…»
No. Niente ospedale.
«… dove potranno aiutarla e…»
No, non voglio tornare… anche se…
«… la visiteranno…»
Perché no? La clinica.
Luca si voltò di lato e vide che, dall’altra parte della strada, il farmacista era davanti alla porta e gridava qualcosa di incomprensibile nella sua direzione, probabilmente che voleva i suoi soldi. Più tardi sarebbe andato a scusarsi e in ogni caso il farmacista aveva trattenuto la sua carta di credito. Lo avrebbe pagato l’indomani, in tasca gli restavano soltanto quindici euro, che forse bastavano a malapena per togliersi da quell’incubo.
Maledizione, perché non mi sono segnato il numero di telefono dell’infermiera di Lorenzo? Non l’aveva neppure ascoltata quando lei glielo aveva comunicato e adesso non si capacitava di come avesse potuto sbarazzarsi dell’unica persona che potesse confermare la sua identità.
«Va bene, allora venga con me» disse Luca all’uomo e lo prese sottobraccio.
«Cosa? Ma dove?» Il giocatore di basket cercò di scuotersi da Luca, che però si era avvinghiato alla sua giacca.
«Andiamo alla polizia».
«Non se ne parla proprio!»
«Oh, sì invece, se ne parla eccome. Dopo vediamo chi di noi due ha bisogno di cure».
«Ho detto di no. Non ci torno di nuovo laggiù».
Lo stupore improvviso spinse Luca a lasciare la presa.
«Di nuovo?» ripeté.
«Ho trascorso tutta la giornata alla stazione di polizia e sono ben felice di essere uscito».
«Cosa le è accaduto?» chiese Luca.
«Ho avuto un incidente stradale con mia moglie. Mi sono schiantato contro un albero. Ho distrutto la macchina».
L’uomo risollevò il cappuccio sulla testa e, con l’andatura tipica delle persone troppo alte, si diresse verso la metropolitana.
Luca restò pietrificato ed ebbe la sensazione che quell’uomo, andandosene, si
stesse portando via un altro stralcio della sua vita.
«Cosa le è successo?» gli urlò dietro. «Me lo dica: cosa è successo a sua moglie?»
L’uomo si voltò un’ultima volta e lo guardò con occhi stanchi che esprimevano un dolore profondo, occhi che Luca aveva visto poche volte prima.
«Fortunatamente è viva. Si è salvata per miracolo. Il suo airbag non ha funzionato» disse e mollò un calcio contro le ruote di un auto. La sua voce venne quasi del tutto inghiottita dal rumore del traffico alle sue spalle.
44.
Un altro taxi, un’altra autista. E ancora sempre lo stesso incubo. Luca abbassò il finestrino per assaporare un po’ di aria fresca, ma dovette richiuderlo subito perché la donna all’altro capo del telefono che gli era stato gentilmente prestato dalla tassista, non riusciva più a sentirlo.
«Mi dispiace, ma non sono autorizzata».
«Ma sono il genero».
«Cosa che però, al telefono, non sono in grado di appurare, dottor Bernardi».
Luca sbuffò furioso e posò lo sguardo assente sull’auto che si era appena affiancata al semaforo. Due bambini gli stavano facendo la linguaccia dal sedile posteriore e risero quando lui li guardò.
«Allora lo chiami, per favore» la supplicò.
«Non è possibile, mi spiace, il professore sta operando. Gliel’ho appena detto, se permette».
Non può essere vero.
Quell’infermiera dell’accettazione la conosceva, soprattutto da quando andava a farsi medicare la ferita. Sapeva che aveva un cane, che si laccava le unghie della mano destra con colori diversi fra loro e che, mentre era al telefono, colorava le lettere sul registro dell’accettazione. E sapeva che lei lo conosceva bene. Ma al telefono lo stava trattando come un estraneo. Gentile ma distaccata. E più lui si faceva insistente, più dalla voce di lei svaniva anche quella parvenza di gentilezza.
«Va bene, allora potrebbe almeno dirgli che dovrebbe chiamarmi non appena esce dalla sala operatoria? Si tratta di un’urgenza».
Luca stava per chiudere quando si ricordò di aver perso il telefono.
Cazzo. Di sicuro con il mio solito numero sco non riuscirà a chiamarmi.
«La faccio chiamare il prima possibile». L’infermiera non fece nulla per celare il cinismo nella sua voce.
«Sì, certamente».
Luca chiuse la comunicazione, posò la fronte sul poggiatesta del sedile davanti e si massaggiò le tempie. La fredda pelle sintetica e la lieve pressione dei pollici alleviarono un po’ il mal di testa. Perché accidenti aveva comprato l’aspirina effervescente?
«Tutto bene là dietro?»
Luca ridacchiò sommessamente.
Tutto bene?
Sì, se uno non tiene conto che sua moglie, che poco tempo prima giaceva all’obitorio, non era morta e viveva con un altro uomo. A parte questo, tutto bene.
«Ha presente quei giorni in cui il mondo gira alla rovescia?» chiese, osservando per la prima volta l’autista. In un annuncio per cuori solitari, avrebbe probabilmente descritto se stessa come “femminile, con tutte le curve al posto giusto”. In effetti, le sue curve riempivano tutto il sedile su cui si trovava, dalla portiera al cambio.
«Sì, quei giorni in cui si dice “Fermate il mondo, voglio scendere!”» rise lei.
La sua risata era simpatica e si adattava bene al tessuto vivace e colorato in cui aveva avviluppato le carni generose. Considerando le treccine rasta che le penzolavano dalla testa, Luca avrebbe scommesso che quella specie di abito in cui si era infagottata fosse moda afro.
«Oh, certo che lo so di cosa sta parlando, amico».
Sì, figurati se lo sai.
L’auto frenò bruscamente quando una coppietta piombò davanti al taxi nel tentativo di raggiungere l’autobus dall’altra parte della strada.
«Solo ieri avevo qui in macchina un nonno, poveretto. Secondo me avrà avuto più di settant’anni. Improvvisamente, durante la corsa, non si ricordava più dove voleva andare».
Okay, allora forse hai una vaga idea di cosa sto dicendo.
«Anzi, peggio. Non sapeva nemmeno più perché era seduto in un taxi. Addirittura credeva che lo avessi rapito o roba simile».
«E allora cosa ha fatto?» chiese Luca e guardò nuovamente dal finestrino. Davanti a loro sfilò la pubblicità luminosa di un’agenzia di noleggio auto.
«Ragazzi, se c’è qualcosa che ho imparato nella vita, è questo: se quelli intorno a te diventano matti, tu devi rimanere normale».
Suonò il clacson un paio di volte, salutando un collega che aveva appena svoltato.
«Mi sono limitata a non dare retta alle lamentele del nonno e l’ho portato dove mi aveva chiesto quando è salito. Come se niente fosse. Per fortuna là lo
aspettava sua figlia. Alzheimer. Non si finisce mai di conoscere la gente, non è vero?»
Rise soddisfatta, come se avesse appena escogitato una battuta straordinaria. Poi guardò fuori dal finestrino e si fece circospetta. «Non mi aveva detto il numero civico 211?»
L’auto sussultò indietreggiando, quando lei si voltò verso Luca.
«Sì, perché?»
«Be’, spero si sia portato il casco antinfortunistico».
Ricominciò a ridere e prese il blocco delle ricevute. Luca si limitò ad annuire e le consegnò gli ultimi soldi che aveva. Poi scese per appurare se quello che aveva solo intravisto dall’interno del taxi, che sembrava così incredibilmente assurdo, fosse un effetto ottico.
Un enorme cratere.
Più si avvicinava alla siepe, più i suoi i diventavano lenti. Alla fine furono così incerti che sembrava camminasse su uno strapiombo. E in qualche modo era effettivamente così.
Raffiche di vento e di pioggia lo sferzavano in viso, offuscandogli la vista.
Nonostante questo riuscì a leggere il numero civico dei fabbricati che si ergevano a fianco.
A sinistra il 209. A destra il 213.
Impossibile.
Avanzò di un altro o e arrivò quasi a toccare con la punta del naso il cartello che proibiva l’ingresso al cantiere.
Esaminò ancora il numero 209, verso sinistra, che era la sede dell’ufficio delle finanze. E poi di nuovo a destra, dove si stagliava l’edificio di una banca. Infine contemplò di nuovo il cratere profondo almeno sette metri: era proprio lì, davanti a lui, dove solo poche ore prima si ergeva il numero 211, la clinica Borromei. Ora si era semplicemente volatilizzata, dissolta nel nulla come gli ultimi resti di normalità della sua vita.
45.
Luca respirò profondamente e, come un maratoneta esausto, si abbandonò appoggiandosi alla rete metallica che proteggeva il cantiere. Pensò che forse si trattasse soltanto di un incubo. Luca Bernardi non era l’uomo che credeva di essere: non si era mai sposato, non era mai stato in procinto di diventare papà e non era mai stato neppure nella clinica Borromei. E, forse, la voce che gli sembrava di udire in quell’istante alle sue spalle era un altro scherzo del suo cervello…
«Mi scusi?»
La voce femminile suonava incerta, come quella di una mendicante che è stata troppo spesso cacciata via per poter ancora sperare in una misera elemosina. Si voltò e comprese alla prima occhiata che l’impressione non si addiceva per niente a quella piccola figura grassa. La donna si ò la lingua sulle labbra, agitando nervosamente le dita graffiate.
«Che cosa vuole?» chiese bruscamente. Non era certo nella condizione ideale per aiutare una senzatetto.
La donna indietreggiò, aggrappandosi alla rete metallica. Nella penombra il suo grado di indigenza era poco riconoscibile. I capelli neri e lunghi fino alle spalle potevano essere sporchi, oppure bagnati. Lo stesso si poteva dire del piumino bianco trapuntato che indossava.
«Posso farle una domanda?» mormorò, come se temesse la risposta. Entrò nel
cono di luce di uno dei lampioni appesi sulla rete a distanza di due metri l’uno dall’altro, per rendere visibili gli scavi. Ora si vedeva chiaramente che il volto gonfio e le mani ferite erano da attribuire alla disperazione.
Quella donna con il doppio mento e gli occhiali dalla montatura color sabbia era sotto l’effetto di forti medicinali, o al contrario, ne aveva urgente bisogno.
«Meglio di no». Luca guardò verso l’alto, come se dovesse esaminare il braccio della gru. Nella cabina di comando vuota, c’era ancora la luce. Solo a fissare quel punto gli sarebbe venuta la nausea, se non l’avesse già avuta da prima.
«Anche lei fa parte del programma?» chiese la voce tremante accanto a lui.
Come dice?
Solo quando la udì ripetere la frase si voltò verso di lei. La donna si tolse gli occhiali e, a mani nude, cercò maldestramente di pulire le lenti appannate.
«Il programma!» ripeté e lo guardò per la prima volta in viso. I piccoli occhi scuri conferivano a quel volto rotondo qualcosa di infantile. Probabilmente aveva meno anni di lui, anche se sembrava più vecchia. Luca sapeva fin troppo bene come ci si riduceva per strada. Con diffidenza si guardò intorno. La strada era vuota. I negozi e gli uffici avevano chiuso da ore, ormai.
«Di cosa sta parlando?»
«La prova. L’esperimento».
L’istinto di sopravvivenza di Luca era stato messo in crisi dall’incidente ed era molto provato dalle recenti ore; tuttavia possedeva ancora un’ultima riserva che lo stava mettendo in guardia. Tutto era già piuttosto sconcertante: essere agganciato a quel modo da una mendicante, mentre nella pioggia cupa fissava lo scavo di uno squallido cantiere. Ma ciò di cui ora la donna voleva parlare rendeva la situazione assolutamente surreale.
«Lei chi è?» le chiese.
«Viola» rispose la donna e allungò prontamente la mano. «Mi chiamo Viola Orsi e…».
La sua espressione dolce gli ricordò quella di sua madre, che in cucina riusciva a regalargli uno sguardo amorevole e un po’ malinconico anche al termine di una lunga, difficile giornata.
Luca stava per darle la mano, quando le ultime parole lo fecero ritrarre istintivamente.
«… e la stavo aspettando da giorni».
Un’auto dietro di loro ò a grande velocità su una pozzanghera.
«Mi aspettava?»
Deglutì. Una grossa goccia cadde sulla sua testa pelata e Luca la scosse via prima che gli scivolasse, gelida, sul collo. Non riusciva più a ricordare quando si fosse rasato l’ultima volta e avvertire la cute ispida sotto le dita lo rese ancora più infelice. Livia adorava quando i suoi capelli erano lunghi come una barba di tre giorni.
«Lei deve avermi confuso con qualcun altro» reagì alla fine e lasciò la presa della rete metallica. In quel breve lasso di tempo i jeans gli si erano inzuppati completamente.
«No, aspetti. Perché è tornato qui, in questo cantiere?»
Luca indietreggiò leggermente. A ogni parola che questa strana donna pronunciava, cresceva la sensazione di una minaccia latente. «Che cosa vorrebbe dire?»
«Io credo di poterla aiutare».
Luca scosse la testa. «Cosa le fa pensare che io abbia bisogno di aiuto?»
La sua risposta lo lasciò senza fiato e atterrito.
«Perché anch’io sono una paziente».
Anche? Che significa “anche”?
«Facevo parte del programma di Borromei, proprio come lei».
No. Io non ho mai firmato il modulo.
«A un certo punto mi sono ritirata, ma torno qui ogni volta che posso». Indicò il cantiere e si infilò nuovamente gli occhiali. «Davanti a questo vuoto. E tengo d’occhio le persone che non riescono a capacitarsi di dove sia finito il numero duecentoundici».
Luca si voltò. Voleva solo scappare, ma senza avere idea di come avrebbe potuto farlo: nel mezzo della notte, senz’auto, senza medicine e senza denaro.
«Persone come lei».
Voleva andare da suo suocero o dal suo amico Ludovico, forse persino da Rosa, che almeno era un viso conosciuto, anche se non erano mai usciti insieme. Alla fine non si mosse. Non perché quella donna, che diceva di chiamarsi Viola Orsi, gli offrisse aiuto o perché volesse mostrargli un documento che potesse interessarlo.
«La prego Signor Bernardi, venga con me. E’ troppo pericoloso se ci vedono qui insieme».
Luca la seguì, ma solo perché quella donna, se davvero esisteva, conosceva il suo nome ed era convinta, come lui, che lì ci fosse stata una clinica. Quindi rappresentava una minuscola possibilità che lui non avesse perso la ragione, o che almeno non fosse l’unico.
46.
Era una situazione paradossale. Si trovava davanti a una sconosciuta che aveva i tratti tipici di una paranoica: si era fissata con l’idea di un complotto e credeva di essere perseguitata da agenti invisibili, per cui era costretta a nascondersi. E tuttavia quella donna pareva essere l’unica che ancora credesse alla sua identità.
«Lei sa chi sono?»
«Sì. Mi segua».
Viola sollevò il cappuccio bianco sui capelli bagnati e si avviò. Soltanto ora Luca notò gli stivali alti e molto curati. Inoltre aveva un aspetto sano. Luca cercò di compiere qualche o, cosa che gli costò un grande sforzo.
«Ci conosciamo?» le chiese. Viola teneva la testa abbassata, sembrava un pugile che si dirige verso il ring. «Voglio dire, ci siamo già incontrati?» ripeté Luca, quasi senza fiato. Si sentiva stanco e sfinito più che mai, probabilmente per la mancanza dei medicinali. Solo la nausea si era un po’ attenuata dopo che, sul taxi, aveva preso le gocce del medicinale che gli aveva dato il farmacista.
«No, non ci siamo mai incontrati».
La risposta di Viola lo tranquillizzò e lo sconvolse al contempo. Da un lato confermava che la sua memoria aveva ragione e che davvero non l’aveva mai vista prima. Dall’altro lato, però, si chiedeva come fosse possibile che lo
conoscesse.
Le afferrò il braccio, costringendola a fermarsi.
«Che cosa sa di me?»
«La prego, possiamo parlarne camminando?»
«Verso dove?»
Un’auto ò davanti a loro, molto lentamente. Viola si volse verso una vetrina in cui erano esposte delle scarpe che costavano quanto un pc portatile, sebbene a caratteri cubitali fosse pubblicizzato uno sconto del trenta per cento.
«Stanno solo cercando un parcheggio» disse Luca e la donna perse immediatamente interesse per un paio di sandali italiani col cinturino.
«Svelto, svelto».
Attraversò frettolosamente la strada ed estrasse un mazzo di chiavi dalla tasca della giacca. Quando Luca vide dove si stava dirigendo, capì che il suo sospetto iniziale era sicuramente errato. Se Viola possedeva un maggiolino con il mitico lunotto posteriore a due vetri, non poteva essere una mendicante.
Luca però non aveva il minimo interesse a fare un giro in auto con quella singolare signora. Voleva finalmente delle risposte.
«Aspetti, si fermi».
Anche se non riusciva a urlare, il suo tono doveva essere stato abbastanza minaccioso.
Lei tornò indietro, con le mani tese in avanti. Luca riconobbe nei suoi occhi il panico e la disperazione. Li aveva visti anche troppo spesso negli occhi dei suoi ragazzi di strada, quando comunicava loro che i genitori si trovavano in sala d’aspetto.
«Lei ha un fratello che si chiama Lorenzo, vero?»
Come fa a saperlo?
«Che cos’altro sa di me?»
Viola inspirò profondamente.
«Lei è il dottor Luca Bernardi, avvocato e assistente sociale, trentadue anni, vive in periferia. Vedovo di Livia De Sanctis, trentun anni, morta in un incidente stradale. E…».
Luca sentì di nuovo quel brivido gelido che strisciava su dalle scarpe da tennis fradice fino alle tempie martellanti. Si massaggiò le orecchie, che ormai erano diventate insensibili come le dita.
Aprì la portiera dalla parte dell’autista, salì e abbassò il finestrino. Gli occhi di Viola sembravano tremolare dietro alle lenti umide bagnate dalla pioggia.
Luca la fissò. «Chi diavolo è lei?»
La donna gli lanciò uno sguardo triste e accese il motore, che rimbombò, ma non abbastanza forte da coprire una risposta sconvolgente: «Non riesco a ricordarmelo».
Viola uscì dal parcheggio, girò l’auto e si diresse verso di lui con la portiera del eggero aperta.
«La prego, dottor Bernardi, salga. Siamo in grave pericolo».
47.
E’ facile riconoscere un errore con il senno di poi.
Ma finché non si è al centro dell’occhio del ciclone, finché ci si trova ancora ai margini della spirale di follia, si viene inesorabilmente risucchiati. E mentre i pezzi della propria vita volano per aria, viene meno la visione d’insieme e si commette un errore dietro l’altro. Nel momento stesso in cui saliva sull’auto di Viola, Luca intuì che stava per commettere uno sbaglio. E che esso sarebbe stato ancora più irreparabile quando, dopo poco, la seguì nel piccolo motel vicino all’aeroporto.
Se avesse potuto assistere al film della sua vita, avrebbe gridato verso lo schermo, esortando quel disgraziato a scelte più razionali: Chiama la polizia. Vai alla clinica, da sco. Chiedi aiuto a qualcuno che sia neutrale, ma non seguire per nessun motivo quella donna! Soprattutto non in quell’albergo fatiscente.
In quel momento, però, non si trovava comodamente rilassato sulla poltrona di un cinema, bensì seduto sull’angolo di un materasso sfasciato e le condizioni anomale in cui si trovava il suo cervello non gli consentivano di fare scelte razionali. In poche ore aveva perso tutto ciò in cui fino a quel momento aveva creduto: la fiducia nella veridicità dei suoi ricordi e in se stesso.
Durante il viaggio Viola, senza proferire parola, gli aveva messo in mano un foglio, evidentemente strappato in fretta da qualcosa - dalla cartellina dell’accettazione, per essere precisi - e ora, osservandolo meglio nella luce fioca della stanza, quel pezzo di carta si rivelò essere la prima delle tre pagine di un modulo che sembrava demolire del tutto l’idea che Viola fosse una mendicante.
Pareva che fosse nata a Milano e si fosse trasferita a Roma con i genitori, per poi studiare medicina alla Cattolica e poi tedesco, spagnolo e se. Inizialmente era stata assunta come traduttrice simultanea alle Nazioni Unite, nel settore dell’industria farmaceutica grazie agli studi, non terminati, di medicina.
«Allora, cosa c’è di tanto importante che debba assolutamente mostrarmi?» Luca cercò di rompere il silenzio. Durante il viaggio la loro conversazione si era limitata al minimo indispensabile. Senza proferire parola, Viola fece un cenno, che significava che doveva pazientare ancora un po’.
Luca, che l’aveva osservata fino a quel momento mentre vuotava una borsa da viaggio e tirava fuori vecchi ritagli di giornale, lasciò vagare lo sguardo nella camera.
La stanza ricordava il volto dell’uomo che aveva dato loro la chiave alla reception: quadrata, trascurata e sporca. Anche l’aria, surriscaldata e stagnante, puzzava probabilmente come le ascelle di quel portiere. Viola aveva appeso alla porta, forse da giorni, il cartello SI PREGA DI NON DISTURBARE. Durante il suo soggiorno aveva trasformato la camera nella singolare combinazione tra uno sgabuzzino e una libreria dell’usato.
Metà del letto matrimoniale era invasa da articoli ritagliati dai giornali, foglietti di block-notes scritti da entrambe le parti, libri di medicina impilati persino sul minuscolo tavolo vicino alla televisione. Viola si era tolta gli stivali e il piumino bianco, gettandoli distrattamente sulla moquette sdrucita. Ora indossava un vestito di lana informe che le arrivava alla caviglia.
Luca si chiedeva quanto avrebbe ancora dovuto attendere prima che la ricerca
terminasse. La sedia di legno traballante scricchiolò quando Viola vi si appollaiò sopra e, poggiando il piede sinistro sulla massiccia coscia destra, lo massaggiò.
Luca si alzò, avvicinandosi alla finestra.
«No, potrebbero vederci».
«Chi?» chiese lui e lasciò ricadere la persiana.
«Gli uomini di Borromei».
Armeggiò nervosamente con gli occhiali e alla fine li tolse per mordere una delle stanghette.
«Borromei?» chiese Luca.
«Sì».
«Allora la clinica esiste veramente?»
E’ fantastico! Stai cercando delle conferme da una paranoica!
Socchiuse la finestra, senza alzare le persiane.
«Ovviamente».
Viola dovette alzare un po’ la voce a causa della pioggia scrosciante, le cui gocce martellavano incessantemente sul davanzale. Ogni tanto, qualche raffica di vento si infilava nella camera. «E’ chiaro che la clinica esiste. Io stessa sono stata ricoverata lì dentro».
Spinse gli occhiali sopra la fronte a mo’ di cerchietto per capelli, continuando a are nervosamente la lingua sul labbro superiore. Poi si alzò bruscamente, come se avesse ricordato qualcosa all’improvviso e si diresse a o di marcia verso l’armadio.
«E allora dove è finito l’edificio della clinica?» chiese Luca.
Viola digitò un codice a sei numeri su una cassaforte delle dimensioni di una scatola da scarpe, incassata in un angolo dell’armadio.
«Non è scomparsa. Semplicemente non l’ha vista, Luca».
«Ah ah» rise sarcastico. «Apra bene le orecchie. Ho avuto una giornata maledettamente spaventosa. La mia attuale capacità ricettiva è paragonabile a quella di un paziente appena risvegliato da un’anestesia totale. Potrebbe, per favore e in via del tutto eccezionale, spiegarsi almeno una volta in modo esaustivo?»
Viola prese una cartellina scura che era stata piegata a metà perché potesse entrare nella cassaforte. Le sue mani tozze tremolavano.
«Fa parte del piano. Vogliono disorientarci, confonderci, traumatizzarci».
Luca la fissò attentamente, cercando sul suo volto i tratti di una follia schizofrenica. Ma non poté notare altro che i segni di una bellezza sfiorita da tempo.
Luca, infatti, si accorse che Viola doveva essere stata molto attraente una volta, finché a un certo punto le era accaduto qualcosa che l’aveva distrutta nell’anima e nel corpo. I lineamenti del viso lasciavano intuire di essere stati molto armoniosi, forse prima di fare uso dei medicinali che l’avevano tanto deformata. I cortisonici o gli psicofarmaci, per esempio, possono portare a un rigonfiamento del volto. O sostanze peggiori.
Droghe?
«Bene, mi lasci cercare un’altra cosa».
Luca sedette di nuovo sul bordo del letto. «Oggi pomeriggio un piccolo ometto attempato mi ha convinto a salire sulla sua costosa auto e si è offerto di rimuovere per sempre i miei brutti ricordi».
«L’esperimento sull’amnesia».
«Al quale ha partecipato anche lei?»
«Fino a quando, una settimana fa, l’ho interrotto».
«Ah sì?» Luca corrugò la fronte. «Okay, sia come sia. In ogni caso il mio problema è che, come dire? Al momento sto vivendo cose per cui un amante dell’esoterismo impazzirebbe di felicità, ma che non possono avere nulla a che fare con la clinica Borromei».
«E perché no?»
«Perché il loro programma prevedeva di cancellare i miei ricordi. Invece ci sono ancora». Luca si picchiettò le tempie. «Invariati. Solo che non corrispondono più alla realtà. E ammettiamo pure che il professore e il suo staff siano una banda di pazzi scatenati. In così poco tempo, come avrebbero potuto farmi un lavaggio del cervello totale, senza che potessi rendermene conto?»
«Come sarebbe, in poco tempo?» Viola lo guardò stupita.
«Oggi sono rimasto alla clinica per sei ore al massimo. Non ho ingerito pillole e nessuno mi ha iniettato nulla. Mi sono limitato a bere qualche sorso d’acqua».
«Lei si sbaglia».
«Comincia anche lei, adesso, a mettere in dubbio i miei ricordi?»
«No, volevo solo specificare che non è solo da oggi che lei fa parte dell’esperimento».
«Cioè?»
«Per questo le ho chiesto di seguirmi. Perché volevo mostrarle questo».
Batté sulla cartellina e ne estrasse un documento di due pagine che Luca aveva già visto. Poche ore prima. Alla clinica.
«Vede questo?»
Gli sporse il modulo. Con l’indice picchiettò sul punto compilato a mano, a destra in alto.
«Ma questo è…»
…impossibile.
Luca afferrò il foglio.
Non può essere.
«Capisce ora perché è così importante che ne parliamo fra noi?»
Luca annuì senza riuscire a togliere lo sguardo dal modulo dell’accettazione, interamente compilato. La cosa, però, che lo sconvolgeva e disorientava di più era la data dell’accettazione.
Il primo ottobre. Il giorno dell’incidente.
48.
Visto di sfuggita, il documento sembrava autentico ma, prima ancora che potesse esaminarlo con calma, bussarono alla porta. Tre colpi brevi, due lunghi, come un segnale concordato. Ma Viola sembrava non aspettare nessuno. Spaventata, guardò prima la porta e poi Luca. In un lampo gli strappò il modulo dalle mani.
«Chi è?» chiese, quasi afona. L’angolo destro della sua bocca fremette.
Luca si strinse interrogativamente nelle spalle. Fino a un quarto d’ora prima, non aveva mai sentito parlare di quell’hotel. Come poteva sapere chi fosse a cercarli a quell’ora così tarda?
Dovevano aprire per sapere chi si trovava dietro a quella porta. Di sicuro non era qualcuno del personale; in quel posto equivoco non c’erano né il servizio in camera né un minibar da rifornire.
«Guardo chi è» sussurrò Luca quando bussarono nuovamente. Lo stesso segnale, lo stesso picchiettio di nocche contro il laminato della porta.
«No!» Viola scosse energicamente la testa e lo tirò indietro. Era così vicina che il suo naso gli sfiorava l’orecchio.
«Ma non capisce cosa vogliono?»
«No» Luca cercò di allontanarsi da lei.
«Ci stanno cercando».
«Chi? Borromei?»
I capelli di Viola sfiorarono le guance di Luca quando lei scosse nuovamente la testa. «No. Lui non si sporca le mani di persona. Per questo usa i suoi uomini».
Le sue palpebre cominciarono a vacillare, il seno giunonico sussultava a ogni respiro. «Per questo ho bisogno di lei» sussurrò con voce flebile. «Mi serve un testimone che confermi quello che ci hanno fatto…».
Posò il dito sulle labbra di Luca, che inavvertitamente ne toccò la punta con la lingua. Lei sembrò non notare l’involontario gesto di intimità.
«Mi sembra un’idiozia…» bisbigliò Luca.
«… un testimone che possa comprovare le conseguenze dell’esperimento. A me, da sola, non crederebbe nessuno».
Luca scrollò la testa energicamente e sgusciò via dall’assedio di Viola, dirigendosi con o svelto verso la porta.
Infine tolse la catenella e aprì.
Troppo tardi.
49.
Nel corridoio, inondato da una luce accecante, non c’era nessuno. A eccezione di un carrello di biancheria sporca abbandonato in un angolo e un distributore automatico di bevande, era vuoto.
Quando Luca rientrò, temette per un attimo che anche Viola fosse scomparsa dalla stanza.
Poi udì la sua voce.
«Dobbiamo andarcene».
Stava trascinando, da sotto il letto, una valigia che non aveva l’aria di essere abbastanza capiente da contenere tutti i documenti disseminati in giro.
«Adesso cerchi di calmarsi, una buona volta!»
«No, non posso!» strepitò. «Lei non capisce proprio in che guaio siamo finiti».
«Infatti. Non ci capisco niente, ma di certo lei non mi sta aiutando».
Viola scaraventò il trolley sulla parte libera del letto e con il braccio si asciugò un sottile strato di sudore dalla fronte. Poi guardò l’orologio. «Okay. Allora, questa è la versione abbreviata: lei fa parte del programma perché deve dimenticare qualcosa».
«Questo lo so».
Luca cominciò a raccontarle dell’incidente in cui aveva perso non solo la moglie, ma anche il bambino che aveva in grembo. Viola però lo interruppe quasi subito.
«No, non può essere questo».
«Perché no?»
«Non avrebbero montato tutto questo se si trattasse solo di pene d’amore».
Pene d’amore?
«Ehi, ma non stiamo mica parlando di un litigio tra innamorati. Mia moglie e mio figlio sono morti ed è colpa mia!»
«Mi dispiace, non volevo ferirla. Ma loro non si occupano di tragedie private, mai».
«E per quale motivo?»
Tirò la cerniera della valigia che si era incastrata. Luca la aiutò.
«Ha idea di quanto costi tutta la trafila dell’esperimento? La realizzazione, l’assistenza e il processo successivo? Compresa la nuova identità, si sfiora il milione. No, è fuori discussione».
«Allora perché hanno cercato proprio me?»
«Perché evidentemente lei deve dimenticare qualcosa che altri non vogliono assolutamente che lei ricordi. Mi dispiace, ma penso che sia in serio pericolo».
Luca si appoggiò alla parete ed ebbe la sensazione che la stanza gli scivolasse via da sotto i piedi.
«E per lei com’è stato?» le chiese con gli occhi chiusi. «Qual è la ragione per cui l’hanno inserita nell’esperimento?»
Lei si schiarì la voce. «E’ stato un anno fa. Avevo ricevuto una strana offerta di lavoro, che non era ata attraverso la solita agenzia. Mi offrivano un bel po’ di soldi. Soldi in contanti, che ora sto usando per la fuga».
«Qual era il suo compito?» Luca riaprì gli occhi.
«Semplice routine. Dovevo lavorare come traduttrice simultanea su un volo privato in cui si incontravano uomini d’affari dell’industria farmaceutica».
«E su quel volo sono state dette delle cose che lei non avrebbe dovuto sentire?»
«Esatto».
«E di cosa si trattava?»
«Non ne ho idea. Proprio questo è il problema. Ho interrotto troppo tardi l’esperimento. Non lo so più».
Si ò la mano tremante tra i capelli.
«Riesco a ricordare solo alcuni frammenti della mia identità e della mia vita. Molto di ciò che so, l’ho scoperto dai documenti che ho rubato dall’archivio prima della fuga».
Quindi il modulo l’ha preso lì. Dalla clinica.
«Perché ha deciso di scappare?»
«Per causa sua».
«Mia?»
«Di sicuro, all’inizio, le avranno spiegato i vari stadi dell’esperimento. Nella prima fase vengono cancellati tutti i ricordi con il trasferimento della nuova memoria e dopo si assume una nuova identità».
«Sì, io mi ricordo di questo» rise amaramente Luca. «E lei, come fa a ricordarlo se la sua memoria è stata azzerata?»
Viola si toccò la gola e tossicchiò. «Dopo la fuga ho fatto qualche ricerca su Internet, ci sono diversi blog che parlano dell’esperimento sull’amnesia». Luca alzò le sopracciglia poco convinto, ma lei continuò decisa: «Ero arrivata all’inizio della fase due, quando ho colto una conversazione fra il professor Borromei e un altro uomo».
«Di cosa parlavano?»
«Di lei».
Luca indicò se stesso con i pollici, incredulo e la donna annuì.
«Borromei discuteva ad alta voce con il suo interlocutore. Parlavano di un certo Luca Bernardi, che doveva essere preso in cura, cosa che il professore si rifiutava fermamente di fare».
Borromei non voleva accettarmi? E allora perché mi ha pedinato con la limousine?
«Chi era l’altro uomo?»
«Non ne ho idea. Si trovavano dietro a una porta smerigliata, che dava sull’ambulatorio in cui mi trovavo io. Un inserviente mi aveva evidentemente portata là in anticipo e loro non immaginavano che io fossi nella stanza accanto».
«Che cosa hanno detto ancora?»
«Parlavano dell’incidente e della sua momentanea amnesia».
«E poi?»
«Hanno detto: “Deve assolutamente funzionare”»
Come? Che cosa avrebbe dovuto funzionare? Perché?
Viola interruppe il filo dei pensieri di Luca e continuò: «Borromei si è spaventato a morte quando mi ha visto. Si è messo immediatamente davanti all’uomo, in modo che non avessi la possibilità di guardarlo in viso. E così ho realizzato che stava succedendo qualcosa di losco».
«E’ stato allora che è scappata?»
«Si è presentata l’occasione il giorno successivo. Ho arraffato un camice degli inservienti per le pulizie».
Viola gettò un’occhiata sprezzante al proprio corpo. «Senza dubbio sono più convincente come donna delle pulizie che come interprete. E’ stato un gioco da ragazzi».
«E prima di fuggire ha prelevato i documenti che la riguardano?»
Viola annuì. «Sì, dall’archivio. Per un caso fortunato i nostri cognomi erano vicini. Nella mia cartella c’erano ancora un paio di tessere per il parcheggio e le chiavi della mia auto. Nella sua, invece, non c’era altro che questo documento dell’accettazione».
Indicò il modulo, che prima aveva ripreso e ora giaceva in fondo al letto, vicino a un libro tascabile di neuropsichiatria. Luca si strinse il collo con le mani. «Ma perché? Continuo a non capire. Che cosa ha a che fare tutto ciò con i miei ricordi? Perché qualcuno vuole farmi perdere la ragione?»
Gli occhi di Viola si allargarono speranzosi, come quelli di un professore che interroga lo studente e si aspetta finalmente una risposta giusta. «Questo lo chiedo io a lei. Quale segreto mortale si porta dentro, di cui non ha più memoria?»
«Mortale?»
Lei inspirò profondamente. «Certo. Perché pensa che io stia fuggendo? Siamo in grave pericolo. Portiamo dentro di noi un segreto che qualcuno vuole farci dimenticare. Qualcuno che è infinitamente più potente di noi. Ma forse insieme possiamo farcela».
«A fare cosa?»
«A scoprire cosa stanno sperimentando o hanno sperimentato su di noi. Ci documentiamo e poi pubblichiamo tutto su Internet. Faremo emergere la verità».
Luca guardò il suo orologio e si chiese, non per la prima volta quel giorno, se a un certo punto sarebbe suonata la sveglia che lo avrebbe liberato da quell’incubo. «Si rende conto di quanto suoni folle quello che sta dicendo?»
«Di sicuro non folle come l’uomo che ha parlato con Borromei».
«Perché?» Sentì l’acidità riempirgli lo stomaco. «Cos’altro ha detto?»
Le mani di Viola cominciarono a tremare quando le portò sulla bocca, come se volesse attutire l’impatto delle sue parole. «Ha detto: “Luca Bernardi non deve ricordare, a ogni costo!”».
50.
Il rubinetto dell’acqua non funzionava. Al contrario, da quello della vasca eruppe un getto che faceva pensare a una pompa di rifornimento diesel per i camion e l’acqua era talmente gelida che l’aspirina effervescente, gettata nel bicchiere di plastica, non voleva sciogliersi. Il bagno era un ambiente privo di finestre, separato dal resto della stanza da sottili pareti in laminato che proteggevano la sfera privata dal punto di vista visivo, ma non molto da quello acustico.
Si sentiva chiaramente Viola che buttava altri documenti nella valigia.
Quale segreto mortale si porta dentro?
Si domandò se fosse il caso di raccontarle degli ultimi minuti prima dell’incidente. Del momento in cui Livia si era slacciata la cintura per prendere qualcosa dal sedile posteriore.
L’immagine, priva di colore e sfocata, della quale non sono riuscito a distinguere nulla.
Che cosa poteva avere a che fare quella sequenza, che gli sembrava più un sogno che un ricordo reale, con il maremoto in cui si stava dimenando? Chi poteva avere interesse a sottoporlo al lavaggio del cervello? Riusciva a malapena a ricordare gli ultimi minuti prima dell’urto. Non era necessario azzerare la sua memoria; essa si era già dissolta da sola nella nebbia dell’antidolorifico che gli avevano iniettato sul luogo del disastro.
Luca aprì l’armadietto per cercare una limetta o un altro oggetto oblungo con cui mescolare l’aspirina, ma il set di cortesia dell’hotel consisteva soltanto in una confezione doppia di preservativi scaduti.
Richiuse lo sportello e l’immagine che vide nello specchio lo fece trasalire. Sembrava fosse stato colpito da un sisma: ogni singola parte del suo volto era letteralmente franata. Gli occhi erano infossati, le occhiaie cadevano pesanti e persino la piega della bocca sembrava curvare verso il basso.
La luce del lampadario sporco rafforzava l’impressione di malattia. Il colore dei suoi occhi e della pelle ricordava quello di un itterico.
Mise i polsi sotto il getto di acqua gelata. Il freddo lo aiutò a rimettere in ordine i pensieri. Se davvero la clinica Borromei e l’esperimento sull’amnesia esistevano, lui non era pazzo, bensì la vittima di un complotto.
E già questa non era una buona notizia, ma il peggio era che sua moglie, se non era morta, poteva avere avuto un ruolo attivo in questa storia.
Perché? A quale scopo?
Perché Livia voleva farlo soffrire in un modo così tremendo? Perché simulare la morte per poi risorgere e traumatizzarlo ulteriormente? Sua moglie poteva essere capace di un simile orrore?
Certo, lei era un’attrice! Le riusciva facile far credere agli altri ciò che voleva. Luca si ricordava fin troppo bene la loro prima uscita in pubblico in occasione di una rappresentazione alla scuola di teatro. Livia lo aveva presentato agli altri attori come se fosse suo fratello e poco dopo, tra lo stupore generale, lo aveva baciato apionatamente sulla bocca. Da quel momento gareggiavano fra loro nel mettersi a vicenda in difficoltà in situazioni pubbliche. Per vendicarsi di quel bacio incestuoso, al primo spettacolo di Livia lui si era mescolato al pubblico balzando in piedi in continuazione e battendo le mani così freneticamente da farla scoppiare a ridere e perdere le battute. Erano abituati a scambiarsi la parte, ma senza farsi del male. La capacità drammatica di Livia e la sua ironia li avevano sempre uniti e mai divisi. E in ogni caso lei non avrebbe avuto nessun motivo per voler distruggere ciò che avevano costruito.
Luca girò con l’indice la pastiglia, che si era sciolta solo per un terzo. Bevve un sorso, sebbene l’aspirina stesse ancora frizzando. In una scala cromatica dal bianco al rosso inferno, il suo mal di testa poteva raggiungere la fosforescenza.
Il sottile bicchiere monouso gli si frantumò in mano quando fu folgorato da un sospetto improvviso.
Non sono io l’oggetto dell’esperimento di Borromei ma Livia!
Gettò a terra il bicchiere, spinse la porta per uscire e infilarsi nell’angusto spazio tra il bagno e l’armadio che conduceva nella zona letto. Forse Viola sapeva qualcosa di sua moglie. Magari aveva captato qualche frase che confermava l’ipotesi che fosse stata inserita nel programma. In caso affermativo sarebbe sorto un milione di nuove domande, ma almeno questo avrebbe spiegato dove era stata nelle ultime settimane.
La camera era così stretta che l’anta aperta dell’armadio gli impediva di are.
Stava per spingerla quando sentì Viola che pronunciava il suo nome e rimase paralizzato.
«Luca Bernardi. L’ho trovato» sussurrò Viola. «Sono all’hotel di fronte all’aeroporto».
Luca trattenne il respiro e si appiattì nel piccolo spazio fra l’anta aperta dell’armadio e la parete del bagno.
Adesso cosa succede, maledizione?
Non c’erano dubbi. Viola stava telefonando.
«Sono esattamente le 23.39 e non so se potrò convincerlo a seguirmi».
Lui arretrò di un o. Il mormorio di Viola si fece ancora più basso quando disse: «Sarà difficile conquistare la sua fiducia. E’ molto diffidente».
Le ultime parole furono come una via. Senza riflettere oltre su ciò che poteva aver dimenticato nella camera, aprì piano la porta e scivolò fuori dalla stanza.
La luce abbagliante era sparita. Il corridoio era immerso nel buio e Luca doveva orientarsi con i sottili fasci di luce che filtravano da sotto le porte di alcune camere.
Con chi stava parlando Viola? Che ruolo aveva in quel manicomio?
Solo quando raggiunse le scale, osò correre. Facendo due gradini alla volta raggiunse il piano terra, rischiando di scivolare quando svoltò l’angolo della reception.
«Ah, è qui…» gli gridò dietro il portiere notturno.
Luca si voltò, continuando a procedere verso l’ingresso in retromarcia. «Ha bussato lei, poco fa?»
«Sì. Abbiamo dei problemi con l’acqua calda e volevo avvisarvi…».
Non sentì le ultime parole: rimasero dietro la porta girevole che lo spinse fuori dall’hotel, in strada.
E ora? Dove vado adesso?
Nel frattempo il traffico era diminuito e, a parte un tizio che portava a eggio un Cocker Spaniel di nome Gassi, non si vedeva nessuno.
Dove vado ora? Senza soldi, senza auto, senza casa… senza ricordi?
Restò sul marciapiede, osservando come un bambino indeciso prima a destra e poi a sinistra verso il lampione di un cantiere. Alle sue spalle balenavano le tre stelle dell’insegna al neon dell’hotel, illudendo i potenziali clienti.
Il suo orologio gracchiò per ricordargli ancora una volta le cure di importanza vitale, di cui ora però era sprovvisto: le pastiglie per la scheggia nel collo.
L’uomo con il Cocker lo raggiunse. Era troppo impegnato in una conversazione telefonica per accorgersi che il cane cercava già da un po’ di fare i suoi bisogni.
Luca guardò verso l’alto, al terzo piano, dove le sottili lame di luce filtravano dalle persiane chiuse, dietro le quali, probabilmente, c’era Viola.
Decise di dirigersi verso destra: laggiù si intravedeva un incrocio più animato e forse c’era una stazione della metropolitana.
Improvvisamente sentì un colpo di clacson alle sue spalle. Si girò e rimase esterrefatto. La macchina di suo suocero si era materializzata dal nulla.
51.
«Come hai fatto a trovarmi?» chiese Luca e si guardò intorno.
Il suocero non rispose alla domanda. «Stai bene?» chiese sco con il tono preoccupato di un uomo che non si aspetta una risposta positiva. Come il solito indossava un completo scuro con un fazzolettino bianco nel taschino. E come sempre non mostrava le dodici ore di sala operatoria che di sicuro aveva alle spalle.
«Come mi hai trovato?» tornò a chiedere Luca. Non riusciva minimamente a capire come suo suocero avesse potuto rintracciarlo.
«Perché me lo chiedi? Eri registrato sulla segreteria telefonica».
Come dici?
«Non è possibile, non ho più il tuo numero».
«Stai scherzando? Ci siamo sentiti anche ieri!»
«Sì, ma io ho perso il telefono, non conosco il tuo numero a memoria e l’infermiera alla clinica non me lo ha voluto dare».
«Sei per caso nei guai?» Le suole di cuoio di sco scricchiolarono quando fece un o verso di lui. Luca si grattò involontariamente con gli indici la pelle rovinata intorno alle unghie dei pollici.
«Nei guai? Oggi ho sentito Livia!»
Luca girò la schiena controvento. La pioggia gli martellava pesantemente sulla nuca. L’acconciatura crespa di sco non sembrava risentirne affatto.
«Lo so. Anch’io la sento continuamente».
sco rimase sul marciapiede e si asciugò alcune gocce che erano rimaste intrappolate fra le sue folte sopracciglia.
«Ultimamente ho persino rincorso una donna, al parco, perché da dietro sembrava lei».
Con le dita si toccò lo sporgente pomo d’Adamo e si massaggiò il collo. La sua voce cominciò a tremare.
«E ieri stavo per scoppiare a piangere quando al lavoro mi sono trovato seduto davanti ad una ragazza che, pur non somigliandole affatto, mentre parlava si osservava le unghie proprio come faceva Livia quando era nervosa».
Luca scosse la testa e si allontanò da sco.
«No, tu non capisci. Era lei!»
Si spostò sulla strada e sentì la chiusura centralizzata che si richiudeva perché era trascorso troppo tempo senza che nessuno salisse. Si avvicinò alla berlina, appoggiò le braccia sulla capote e chiuse gli occhi.
«Il lutto sta facendo impazzire anche me, Luca. Ma non possiamo continuare così».
Luca non rispose e non lo guardò neppure quando sentì il suo braccio sulla spalla.
«Probabilmente stai vivendo uno shock post traumatico. Vieni con me alla clinica, ti do qualcosa».
Una pesante goccia rimbalzò sulla fronte di Luca.
«Sono sicuro di quello che ho sentito» mormorò, più che altro rivolto a se stesso.
Le mani di Luca cominciarono a tremare e di colpo si sentì ipoglicemico, come se l’enorme fatica che aveva dovuto affrontare non fosse soltanto interiore.
«Andiamo alla clinica» lo pregò sco e riaprì nuovamente le portiere dell’auto.
Ma allora perché al mio numero ha risposto uno sconosciuto?
«Va bene» sbottò Luca alla fine. «Andiamo, ma non alla clinica».
«Che cosa vuoi dire?»
«Voglio sapere se sono veramente impazzito. E mi serve il tuo aiuto».
52.
Lo stesso tappetino, la stessa vecchia scala con gli stessi odori stagnanti di cibo sui pianerottoli, la stessa usurata atoia sui gradini consumati e la cassetta stracolma di posta all’ingresso. L’unica cosa che era mutata nelle ultime ore era lo stato di Luca. Le sue condizioni fisiche e quelle psicologiche erano sempre più omogenee e rasentavano il livello più basso.
Mentre con il suocero saliva i gradini per arrivare al suo appartamento, si chiese se le sofferenze fisiche non fossero altro che un atroce fenomeno complementare della pazzia. Oppure se si trattasse dell’esatto contrario e i dolori sempre più insopportabili alla testa e alle giunture fossero la ragione delle allucinazioni.
«Era proprio indispensabile che venissi a vivere qui?» chiese sco, cui la salita non creava alcuna difficoltà. Si allenava ogni due giorni per un’ora e mezza nella cantina della sua villa, l’unico luogo della tenuta non climatizzato, perché il chirurgo era dell’idea che lo sport fosse vero sport solo se si sudava.
«Naturalmente capisco che non potessi più vivere in casa vostra, dopo che…» disse pensieroso.
Dopo che…
Luca si voltò verso sco, che in quel momento stava considerando con aria sprezzante un eggino lasciato davanti a una porta.
«Perché qui?» sco scosse la testa. Persino la sua domestica viveva in un luogo più elegante.
Luca si premette la mano contro il ventre, per contrastare le fitte che lo colpivano all’improvviso al fianco. «C’è anche di peggio» rispose senza fiato e proseguì. «Perché sei qui?» domandò Luca stanco, continuando a salire.
sco sospirò alle sue spalle. «Non ci siamo già chiariti? Mi hai chiamato e sono venuto …».
«No, non intendo questo. Mi chiedo come mai mi rivolgi ancora la parola».
«Ah, in quel senso». Suo suocero era un uomo troppo intelligente perché Luca dovesse aggiungere altro.
Dalla morte di suo padre, sco De Sanctis era diventato una delle persone più importanti della sua vita, un mentore che gli aveva insegnato a non sprecare la vita e a sfruttare il proprio talento. Ma non per la ricchezza. Tutto ciò che sco aveva fatto, era stato metterlo in contatto con persone che avevano realizzato qualcosa nella loro vita. Il loro rapporto, però, non era stato così all’inizio.
«Tu pensi che dovrei avercela con te? Che dovrei buttarti fuori dalla mia vita?» chiese sco affiancandolo.
«Hai già cercato di farlo, una volta».
Suo suocero si accigliò e Luca si scusò subito per il colpo basso. Circa sei mesi dopo il loro primo incontro nella tenuta dei De Sanctis, lo aveva preso da parte guidandolo verso la stanza del camino, mentre Livia era rimasta in cucina con la madre. Luca aveva pensato che finalmente il ghiaccio fosse rotto, visto che sco per la prima volta si mostrava cordiale. Sorrise persino, allungandogli la busta con le banconote da 500.000 lire nuove di zecca. In euro sarebbero stati circa ventimila. Livia gli aveva raccontato dei problemi finanziari di suo padre, il cui ufficio legale navigava in cattive acque. In un solo colpo la famiglia Bernardi si sarebbe liberata dai debiti.
«I soldi sono tuoi, se lasci mia figlia».
Luca era rimasto imibile, ringraziando educatamente per la sostanziosa offerta. Poi si era avvicinato al camino e senza esitare aveva lanciato la busta fra le fiamme che divampavano.
«Pensavo che alla fine mi avessi perdonato per quel test».
«Sì, l’ho fatto» rispose Luca e si appoggiò al corrimano.
Allora, quando si era accorto del sorriso sulle labbra di sco, gli fu chiaro che era stato messo alla prova. Luca l’aveva superata con successo, anche se sco non aveva previsto la reazione impulsiva del futuro genero. Da quel momento la famiglia De Sanctis era più povera di ventimila euro, ma aveva guadagnato un nuovo membro.
«Temevi che lo fi per i tuoi soldi».
«Peggio. Pensavo che avresti fatto a pezzi il cuore di Livia».
Luca annuì. «E alla fine sono riuscito persino a ucciderla».
Nel frattempo avevano raggiunto il terzo piano, mancavano ancora pochi i da quello che, fino a poche ore prima, considerava il suo appartamento.
«Dimmi una cosa, stai ancora prendendo le pastiglie?» chiese sco preoccupato, quando vide Luca che si premeva nervosamente la testa.
«Gli immunosoppressori?» Luca scosse la testa e lo sguardo di sco si fece ancora più turbato.
«Ti avevo fornito una scorta sufficiente e il prossimo controllo è solo tra una settimana».
«Lo so, ma la scorta è qui dentro».
Luca indicò la porta dell’appartamento. La lampada sulle loro teste, dentro la quale prima volava una falena, ora era del tutto spenta.
«Bene, allora prendiamo le tue pillole. Poi ti porto subito alla clinica per una visita».
«Lo farei volentieri, ma…»
«Che problema c’è?»
Luca estrasse la chiave con la doppia dentatura dalla tasca. La sua mano stava già tremando, ancora prima di inserirla nella serratura.
«Faccio io?» chiese premuroso sco.
«No, no. Nessun problema» rispose Luca, quasi sgarbato. E poi, con suo grande stupore, non ci fu nessun intoppo. La chiave stridette leggermente quando scivolò nel cilindro. E si lasciò girare senza opporre resistenza, con il solo uso del pollice e indice, come se la serratura fosse stata appena oliata.
Schioccò, poi la porta si aprì e sco non poté credere ai suoi occhi.
53.
«Santo Dio…».
Entrando sco inspirò rumorosamente, come se si aspettasse che un simile disordine dovesse anche esalare un olezzo disgustoso. Invece sapeva solo di legno lucido, di imbiancatura alle pareti e di altri tipici odori di ristrutturazione, che erano nell’aria dal trasloco di Luca.
«Che cosa è successo qua dentro?» chiese e non osò addentrarsi dentro correndo il rischio di calpestare uno dei numerosi oggetti sparsi dappertutto nel piccolo ingresso.
«Niente». Luca spinse di lato con il piede un mucchio di cd. «Mi è caduto uno scatolone».
«Solo uno?»
Fra telecomandi, raccoglitori con ricevute delle imposte, due prese multiple, una lampada rovesciata, tre album fotografici e numerosi libri, c’erano dei vasi rovesciati sul pavimento. Le piante erano tutte secche, persino i cactus.
Luca calpestò lo scatolone da trasloco il cui contenuto era sparso nell’ingresso e che aveva lasciato troppo tempo sotto la pioggia. Il fondo si era così inzuppato che non aveva retto al peso degli oggetti buttati dentro alla rinfusa. Si trattava dell’ultima scatola, quella che aveva conservato per i rifiuti ingombranti. Si era
tanto arrabbiato con se stesso che aveva finito per lanciare lo scatolone con le piante contro la porta d’ingresso.
Una nuova qualità che lo scalpello del lutto aveva fatto affiorare in lui.
Luca nel frattempo era entrato nel soggiorno per accendere una lampada a stelo che fungeva anche da porta-dvd.
Quell’ambiente, il più ampio del trilocale, aveva un aspetto migliore benché, sparsi sul pavimento, vi giero diversi cartoni del trasloco ancora chiusi. Poiché non c’erano armadi o scaffali in cui riporre le sue poche cose, viveva come un commesso viaggiatore, con la valigia pronta. Prelevava direttamente dagli scatoloni ciò che man mano gli serviva.
Si lasciò scivolare lentamente su un divano di pelle nera che i facchini avevano piazzato nel mezzo della stanza con la vista rivolta verso la finestra. Le grosse gocce di pioggia che il vento aveva disposto in forme irregolari sui vetri producevano un’atmosfera accogliente, del tutto inopportuna nella luce soffusa di quel salotto surriscaldato.
«Non c’è nessuno qui».
Si voltò verso sco che era riuscito a entrare in soggiorno silenziosamente.
«Non c’è nulla in camera e neppure in bagno o in cucina. Ho guardato anche sotto il letto. Qui non c’è nessuno oltre a noi due».
54.
«Non può essere» esplose Luca sfinito, sebbene sapesse che suo suocero non stava mentendo. Lo aveva capito nel momento in cui la porta si era aperta senza problemi. E nel soggiorno tutto appariva come lo aveva lasciato quello stesso pomeriggio. Livia non era mai stata troppo ordinata e, come lui, aveva il dono di trasformare in un lampo una stanza ordinata in un campo di battaglia. Ma amava le piante più di tutto e non avrebbe mai lasciato giacere il suo amato bonsai sradicato vicino al terriccio. E questo portava a una sola conclusione…
Livia non era qui. Non c’era mai stata.
Luca sentì che sco si era seduto accanto a lui, ma senza sfiorarlo.
«Sto perdendo la ragione» sussurrò a occhi chiusi.
«No, non è così».
«Sì, invece». Luca si frizionò le tempie e nonostante il sollievo del massaggio sentì che la nausea continuava ad assalirlo.
«Tieni, prendi questo».
Luca aprì gli occhi. Suo suocero gli stava porgendo un bicchiere di plastica che
aveva preso in cucina. Si era versato per sé un goccio di whisky in un bicchiere di vetro molato il cui bordo era leggermente sbeccato. «Bevi, è solo acqua. Se sei sotto shock, hai bisogno di liquidi».
Le scanalature bianche del bicchiere sottile scricchiolarono quando Luca lo afferrò. Nella penombra, l’acqua ondeggiava come la superficie scura di un lago e Luca si fermò all’improvviso. «Solo acqua?»
«Per chi mi prendi?»
sco appoggiò il suo bicchiere sul tavolino del salotto. Poi prese quello di Luca e lo vuotò in un sol sorso.
«Contento ora?»
Si alzò è guardò Luca con preoccupazione paterna.
«Mi dispiace».
sco annuì e riprese il suo bicchiere. Sul tavolino era rimasto l’alone. «Dovrei darti davvero un tranquillante. Mi stai facendo preoccupare, Luca».
«Anch’io».
Mi sento come una persona che ha ingoiato un magnete che invece di attrarre il metallo attira su di sé la follia. E ho come l’impressione che diventi più potente ogni minuto che a.
«Vieni, si sta facendo tardi. Andiamo alla clinica». sco appoggiò il bicchiere esattamente sull’impronta umida e gli tese la mano ma Luca chiuse di nuovo gli occhi. Già da piccolo aveva imparato che poteva riflettere meglio senza attivare tutti i sensi. Quando riaprì gli occhi, suo suocero si trovava davanti alla finestra.
sco si voltò e all’improvviso apparve infinitamente vecchio. «L’incidente ha evitato per te un dolore forse ancora più atroce».
Luca lo guardò. «In che senso?»
«Tu hai detto che quel giorno aveva distrutto molte cose. Naturalmente è vero. Ma anche se può suonare cinico, la sfortuna ha evitato la rottura del vostro rapporto».
«Non riesco a capire».
«Livia stava per lasciarti, Luca».
«Come dici?» Luca si sentì raggelare il sangue e s’irrigidì come chi teme di ricevere un cubetto di ghiaccio giù per la schiena.
«Pochi giorni prima dell’incidente mi disse che voleva parlarmi». sco respirava affannosamente. «Aveva chiamato dicendo che si trattava della vostra relazione e di un altro uomo che aveva incontrato da poco».
«Non può essere» disse Luca, sebbene avesse tutte le ragioni per credergli. Vecchi ricordi pressanti stavano combattendo in un unico punto delle retrovie della sua coscienza. Allora aveva voluto nascondere i propri sospetti e aveva ritenuto il comportamento di Livia una conseguenza del cambiamento ormonale della gravidanza. Inizialmente era diventata assente e silenziosa; poi si era rifugiata sempre più in se stessa. Finché il suo umore meditabondo era sembrato sfociare in una depressione. Luca avrebbe voluto annullare tutti gli impegni e restare in casa con lei fino al parto ma Livia non aveva voluto. Al contrario eggiava per ore da sola, anche in posti che normalmente avrebbe evitato. Un giorno Luca, che aveva appena visitato i genitori di un ragazzo, l’aveva vista uscire da uno squallido caffè sulla strada e salire su un taxi con l’aria assente. Quando la sera le aveva parlato della cosa, lei si era adirata e gli aveva gridato in faccia che si rifiutava di deporre, “avvocato”.
«Chi era l’altro?» chiese Luca.
sco si strinse nelle spalle. «Non lo so davvero. Non mi ha più raccontato nulla perché, perché… non ne ha avuto il tempo».
Luca fu preso da un crampo al polpaccio e si alzò dolorante. Gli venne in mente proprio una vecchia battuta di uno degli assistenti universitari, secondo la quale si capisce che un uomo ha superato la cinquantina da come si lamenta nel momento in cui si siede o si alza. Se così fosse stato, quel giorno Luca sarebbe sembrato più vecchio di almeno diciotto anni.
«Perché mi hai raccontato questa storia proprio ora?» chiese afferrando il
bicchiere di plastica vuoto che poco prima sco aveva posato sul tavolino. Doveva andare in bagno e mettere la testa sotto l’acqua e poi finalmente prendere le medicine.
sco rispose solo quando Luca ebbe chiuso dietro di sé la porta del bagno: «Perché poco fa, mi hai chiesto come mai continuo a considerarti come un figlio. A volte una tragedia ha la forza incredibile di unire ancora di più le persone che si amano».
«Ah, fantastico. Allora avvisami se ti capiterà di non sopportarmi più, magari uccido qualcuno e…».
Mentre si sosteneva appoggiando le mani al lavandino, Luca fissò il punto della parete in cui avrebbe dovuto montare uno specchio. Era felice di non averlo ancora fatto, così poteva risparmiarsi di vedere com’era conciato.
«Smettila di nasconderti dietro alle tue battute. Non è altro che autocommiserazione» disse sco cupamente.
«Una frase simile mi sembra di averla già sentita» mormorò Luca e prese il miscelatore per sollevarlo al massimo e far scorrere l’acqua gelata sui suoi polsi, quando lo sguardo gli cadde sullo spazio fra il tappo e lo scarico.
Che accidenti…?
Si chinò e tolse dallo scarico il tappo cromato, che fece un leggero schiocco.
Questa è da non credere.
Appeso alla guarnizione nera, c’era un capello. Era lungo circa quindici centimetri e la punta si arricciava come la corda di un violino. Involontariamente Luca si toccò la nuca che non rasava da ormai quattro giorni.
«sco!» Si schiarì la gola e poi ripeté il nome più forte, visto che non era arrivata alcuna risposta.
Allora è vero.
Fissava ipnotizzato il capello biondo che teneva fra le dita e che non poteva certo essere suo. Gli tremavano le mani quando lo portò al naso, ma naturalmente non sentì alcun profumo. Però ne era certo.
Livia.
Aveva ristrutturato tutto l’appartamento, il lavandino era nuovo di zecca e non aveva avuto mai ospiti o visite.
Questa è la prova. E’ stata qui.
Luca chiuse gli occhi, fermò la mano tremante con l’altra e respirò a pieni
polmoni. Poi strinse nel palmo quell’unico capello e si lanciò fuori dal bagno.
«sco, ho la prova. Non sono diventato pazzo…» gridò mentre tornava in soggiorno, sbattendo il ginocchio contro uno sgabello di metallo che spuntava da un cartone mezzo aperto. Il dolore lancinante si trasformò in puro terrore quando zoppicò nel soggiorno e vide che la finestra era stata improvvisamente spalancata.
Il salotto in cui poco prima era seduto con il suocero era vuoto. sco era scomparso. E con lui il bicchiere di whisky e l’alone sul tavolino.
55.
«Ehi?»
Luca aveva perso ogni senso del tempo. Non sapeva per quanto fosse rimasto a fissare la pioggia buia della notte. Lì al terzo piano non c’era la scala antincendio o un balcone o un’impalcatura o un carrello attraverso cui lasciare l’appartamento.
«sco?»
Suo suocero si era dissolto nell’aria.
Chiuse la finestra e barcollò verso l’ingresso per accendere la luce, ma l’interruttore non funzionava. Solo alla seconda occhiata si accorse che la lampadina non c’era più.
«Ehi, ma dove ti sei nascosto?»
La sua voce rimbombava nel soggiorno con le pareti nude.
Ti prego, fa’ che mi svegli. Fa’ che sia stato soltanto un incubo.
Luca si voltò verso la porta d’ingresso dell’appartamento e rimase di stucco quando vide che la catenella era chiusa dall’interno.
«Dove sei?» sussurrò ancora, ma più che altro a se stesso, presagendo già cosa avrebbe trovato in camera e anche in cucina: nulla.
Nulla se non un materasso matrimoniale e un altro cartone sul quale era appoggiato un abat-jour di poco valore, che lasciava accesa ogni mattina in modo da non dover cercare il cavo con il piccolo interruttore la sera tardi nella camera completamente buia.
Ma Luca si sbagliava. E quell’errore gli fece dubitare definitivamente della sua ragione. Perché la lampada era sparita.
Come sco. Come Livia. Come la sua vita.
Eppure non era buio, perché una debole luce azzurrognola filtrava tra le fessure del cartone.
Non è possibile.
Luca si diresse verso il materasso e provò un insopportabile desiderio di lasciarsi cadere, tirarsi la coperta umida sulla testa e sprofondare in un sonno eterno e senza sogni, ma la luce fioca lo attirava come sotto ipnosi, riportandogli alla memoria un discorso che aveva fatto Livia anni prima.
«Ehi, che succede? Perché mi guardi così, adesso?»
«Giurami che…»
«Che cosa?»
«Giurami che lascerai sempre una luce accesa».
Aprì il cartone, piegò con mani tremanti i lati… e trovò la conferma della sua surreale visione.
«Come ti sembra?»
«Mah, la trovo un po’… originale».
«Terribilmente brutta direi, mi sembra più adeguato».
Chiuse gli occhi ma i ricordi rimasero vividi.
«Che hai ora… piangi?»
«Ascolta, lo so che può sembrare assurdo, ma noi dobbiamo farci una promessa».
«Va bene, quale?»
«Se uno di noi dovesse morire - aspetta lasciami finire, ti prego - deve mandare un segno all’altro».
Quando riaprì gli occhi, la lampada a forma di delfino celeste, orrendamente grottesca, era ancora nel cartone.
E brillava per la prima volta nella sua vita.
56.
Il rumore angosciante che lo turbò ancora più della lampada a forma di delfino accesa, riecheggiava come il minaccioso ronzio di un calabrone che, rimasto prigioniero tra una persiana e una finestra, tenti disperatamente di liberarsi diventando sempre più aggressivo. Eppure proveniva dal corridoio, dove non c’erano finestre ed era troppo ritmato perché si trattasse di un insetto impegnato in una lotta senza controllo.
Luca si voltò verso la porta della stanza da letto e il ronzio nelle sue orecchie cessò. Tutt’a un tratto l’appartamento era immerso in un silenzio tale che riusciva a sentire gli scatti del contatore della corrente e il brusio del riscaldamento.
«C’è qualcuno?» gridò con la bocca impastata. Ma nel momento in cui varcò la soglia del corridoio buio dell’appartamento, trasalì dal terrore.
Il calabrone era tornato e adesso era ancora più aggressivo. Ancora più rabbioso.
Il cuore di Luca accelerò mentre avanzava trascinandosi nel corridoio, alla ricerca di un oggetto con cui difendersi. Poi, poco prima che il rumore divenisse un ronzio costante, Luca si rese conto di quanto fosse ridicolo il proprio comportamento. Guardò una piccola scatola grigia, a destra della porta, sopra il montante.
«Maledizione, ho avuto paura del mio camlo» sussurrò. Tentò ancora di ridere di sé, ma gli sforzi di dominare in questo modo la paura caddero nel
vuoto.
Come un calabrone. Sembra un calabrone imprigionato e furioso.
Fatta eccezione per gli addetti all’imballaggio dei mobili della ditta di traslochi e Rosa, nessuno sapeva quale fosse il suo nuovo indirizzo.
Chi altro può essere?
Lo sguardo di Luca cadde nuovamente sulla catena della porta d’ingresso che qualcuno doveva aver tirato dall’interno dopo che suo suocero era scomparso. Rabbrividì.
«sco?»
Avvicinò l’occhio sinistro allo spioncino e scrutò fuori. Sentì tutto il corpo percorso dai brividi ed emise un gemito: sebbene il ronzio costante si fosse trasformato in uno staccato ritmico, non riusciva ancora a vedere chi ci fosse là fuori col dito premuto sul camlo.
Che cosa sta succedendo? Forse è tutto soltanto nella mia testa? Forse non esistono, nessun camlo, nessuna porta, nessun appartamento e nessuna Livia.
Ora rise per davvero, anche se con una sfumatura isterica.
Forse non esisto neppure io?
In uno slancio di fatalismo staccò la catena e aprì la porta dell’appartamento.
Niente.
Né davanti alla porta e neppure in corridoio. Né sco né il vicino e neppure uno sconosciuto. Luca era solo, proprio come si sentiva mentre richiudeva lentamente la porta appoggiandovi la fronte contro.
Il brusio infuriato del camlo si placò per un istante, poi riprese con un altro ritmo.
Tre volte breve, tre volte lungo. Poi ancora tre volte breve.
SOS?
Portò la mano al cerotto sul collo pregno di sudore, l’unico posto del suo corpo che non era stato avvolto dalla morsa di gelo che lo stringeva sempre più.
Un camlo fantasma che si esprime in codice Morse. Però bisogna ammettere che persino le mie allucinazioni hanno il senso dell’umorismo.
Procedendo a ritroso tornò in soggiorno, senza perdere di vista la scatola ronzante sopra la porta, dalla quale partiva un cavo che ava dall’intonaco al pavimento, prima di dividersi all’altezza della maniglia della porta; una parte del filo scendeva verso il basso in direzione del battiscopa, l’altra correva parallela al pavimento e scompariva dietro al cappotto invernale, appeso a un gancio del guardaroba, che Luca aveva trovato lì già prima del trasloco.
Tre volte breve. Tre volte lungo.
Ma certo!
Sono così sfinito che non riesco neanche più a pensare lucidamente.
Tirò da un lato il cappotto e si ricordò delle lodi entusiastiche dell’agente immobiliare, tali da rendere un semplice citofono l’ultima conquista della ricerca spaziale, a giustificazione di quell’affitto spropositato.
Quando la sollevò dal ricevitore, la cornetta fischiò. Il calabrone smise subito di ronzare.
«Sì?» gracchiò nel microfono e si sentì quasi sollevato nel ricevere una risposta, nonostante la voce appartenesse a una persona dalla quale era scappato poco prima.
«Può parlare?»
Viola.
Il suo tono sottomesso e timido era inconfondibile.
Luca rimase a fissare la scatola del citofono priva di monitor, incapace di rispondere.
«Ehi? E’ ancora lì?»
La linea crepitò e infine Luca ritrovò la voce.
«Come fa a sapere dove vivo?»
«L’ho seguita» rispose Viola e tossì.
«Seguito?» ripeté Luca inebetito.
«Sì. L’ho vista andare via con lui».
«sco?»
«Non so come si chiama, so soltanto che sta con loro».
Loro?
«Ora scenda prima che sia troppo tardi».
Luca scosse la testa, come se Viola dalla strada potesse vederlo. «Così che possa di nuovo cadere nella sua trappola?»
«Quale trappola? Di che cosa sta parlando? Sono io quella cui danno la caccia».
Caccia?
«Mi ascolti…» La voce di Luca tremava. «Non so chi siano i suoi mandanti, ma…»
«Quali mandanti, Santo Cielo? Anch’io sto fuggendo come lei, da sola. Contando solo sulle mie forze».
«Ah sì? E con chi stava parlando di me al telefono, poco fa in albergo?»
Viola sospirò. «Ah, quello. Glielo spiego più tardi».
«No, adesso. A chi ha telefonato?»
La linea crepitò di nuovo e il sibilo crebbe.
«Alla mia casella vocale».
«Come scusi?»
Lei esitò. «Ogni ora mi chiamo da sola e parlo con la mia casella vocale. Dico dove sono, con chi mi incontro e cosa sto per fare. Una mera misura di sicurezza qualora mi accada qualcosa o mi fosse cancellata di nuovo la memoria».
«E dovrei crederle?»
«Perché dovrei mentirle? Anch’io ho bisogno di aiuto, sebbene al momento lei si trovi in maggior pericolo. Allora, si decide a scendere o no?» La sua voce cambiò e si alzò di tono.
«Qui nel mio appartamento sono di certo molto più al sicuro che là sotto con lei».
«Sciocchezze, aspetto da mezz’ora e non ho visto nessuno uscire dalla casa. Ciò significa che lui è ancora lì e cioè che lei…».
«Sono da solo» la interruppe Luca.
«… che lei è in grave pericolo, perché il programma è ancora in corso».
«Non faccio parte di alcun programma!» gridò Luca nella cornetta.
«Sì invece e glielo dimostrerò».
«Come?» chiese Luca e sentì sul collo un alito di vento come se dietro di lui si fosse mosso qualcuno. Si voltò e sgranò gli occhi per la paura.
«E’ ancora viva» sentì sussurrare Viola. «Venga giù e glielo proverò». La sua voce gli giunse appena.
Non può essere. Non può essere vero.
Non si accorse che aveva espresso i suoi pensieri ad alta voce, ma sentì il proprio respiro. Il freddo che lo circondava non era immaginario; fluiva per l’appartamento come azoto liquido attraverso la finestra aperta del soggiorno. La finestra che aveva appena chiuso saldamente.
57.
Luca chiuse la porta a chiave dall’esterno, ma sapeva che non sarebbe stato sufficiente per sfuggire a quella minaccia invisibile. Ciò che lo seguiva senza posa non poteva essere trattenuto dalle barriere fisiche. La follia era come una nebbia che si faceva strada attraverso le fenditure della normalità della sua vita a pezzi e a lui non rimaneva altro che la fuga per non perdere ancora di più l’orientamento in quei fumi.
Quando raggiunse la strada, si sentiva ancora solo e quasi si spaventò quando si trovò davanti allo sguardo di Viola, che lo aspettava in auto. Il suo vecchio maggiolino era parcheggiato in seconda fila.
«Venga presto» lo chiamò guardando nello specchietto retrovisore. Il motore, che fino a quel momento aveva scoppiettato sommesso, cominciò a sferragliare mentre la donna manifestava la sua impazienza schiacciando l’acceleratore. Come in trance girò intorno al maggiolino di Viola fissandolo incredulo, come se non avesse mai visto un’automobile in vita sua.
«Che c’è?» il motore sferragliò di nuovo.
«Un attimo!» gridò lui indeciso sul da farsi.
«Dannazione!» urlò Viola furibonda e spense il motore. Luca sentì i cardini dello sportello cigolare quando la donna scese alle sue spalle.
«Allora, che cosa sta facendo? Dobbiamo andarcene».
«Dove?»
«Non lo so, il più lontano possibile da questo luogo» gli rispose più scortese di quanto volesse, ma ebbe l’effetto desiderato: Luca entrò all’interno del maggiolino.
Mentre si sporgeva sul sedile, Luca la sentì entrare in auto e accendere il motore senza dire una parola. Dapprima pensò che Viola si fosse offesa; si preoccupò perché dopotutto gli aveva promesso di rivelargli degli indizi sull’esistenza di sua moglie.
Ma non appena sollevò la testa e vide la strada illuminata da lampi di luce stroboscopica, non poté credere ai suoi occhi. Viola aveva ragione. Si sarebbe dovuto dare una mossa prima. Allora facevano davvero parte del programma.
58.
Spesso le persone che sopravvivono a disastri aerei, esplosioni di bombe, incidenti automobilistici o avvenimenti in cui la loro vita è stata in pericolo, affermano che al momento della catastrofe hanno percepito una sorta di rallentamento. Come se lo schianto, l’esplosione delle fiamme o lo scontro avessero aperto uno squarcio temporale o addirittura avessero portato un istante di sospensione. In quell’attimo Luca comprese la causa di questo fenomeno percettivo: il cervello dell’uomo, nel momento in cui si manifesta una minaccia di morte, non è più in grado di percepire tutti gli influssi provenienti dall’esterno, tanto meno riesce a mettere in relazione in modo sensato il ritmo degli avvenimenti.
Luca vide l’ambulanza illuminata, i fanali accesi, la sirena sul tetto che vorticava silenziosa e le porte aperte sul vano posteriore. Notò l’infermiere con la barba e il camice bianco che teneva qualcosa nella mano sinistra, mentre cercava di tirar fuori Viola dal maggiolino. Si accorse addirittura di particolari insignificanti, come le bande riflettenti sui lati del furgone o la catena simile a un rosario appesa allo specchietto retrovisore che dondolava a tempo con la luce intermittente della sirena. Luca sentì anche il borbottio del motore diesel che si univa a quello del maggiolino e fece in tempo a chiedersi perché Viola non avesse ancora emesso alcun suono, prima che la donna iniziasse finalmente a urlare chiedendo aiuto. Con ogni probabilità il tutto accadde sfalsato di una frazione di secondo, dopo che l’uomo con la barba ebbe mollato un ceffone a Viola, facendole volare gli occhiali sull’asfalto.
A quel punto, all’interno della scena, apparve anche una terza persona che in un primo tempo Luca scambiò per una donna, vista la corporatura gracile e i capelli raccolti in una coda di cavallo, ma che poi si rivelò essere un uomo.
«Ehi!» gridò Luca uscendo all’indietro dalla sua auto. «Lasciatela andare».
Le suole delle sue scarpe da ginnastica slittarono su un mucchietto di foglie nel tentativo di intervenire in aiuto di Viola. Intanto l’uomo con la barba era riuscito a sollevare dal sedile del guidatore l’ingombrante corpo della donna, che ora barcollava inebetita accanto all’automobile. Neanche il tempo di battere ciglio e l’infermiere l’aveva già trascinata per un braccio e la schiacciava contro l’ambulanza.
«Dai, muoviti» sbraitò l’aggressore al tipo con i capelli lunghi che sembrava indeciso nella scelta di chi occuparsi per primo. Poi il rapitore di Viola gridò di nuovo, ancora più forte e con la testa fece un cenno verso il basso.
L’oggetto che aveva tenuto in mano fino a quel momento durante la lotta gli era caduto a terra. Era chiaro che gli serviva per tenere sotto controllo Viola, che poco a poco ritornò lucida e si voltò furibonda. Nonostante la corporatura imponente, l’uomo dovette impiegare tutte le sue forze per tenerla a bada.
«Che cosa volete da lei?» urlò Luca e con la coda dell’occhio notò che al terzo piano del suo condominio si era accesa una luce. Il rumore del motore, la luce lampeggiante della sirena e il baccano prima o poi avrebbero spinto qualcuno dei vicini a chiamare la polizia. Ma probabilmente ci sarebbe voluto del tempo, dato che gli alterchi notturni non erano niente di straordinario in quel quartiere e quasi tutti confidavano nel fatto che i contrasti si appianassero senza l’intervento delle forze dell’ordine. Inoltre, l’ambulanza era sicuramente letta come un elemento rassicurante.
«Per favore, no» gemette Viola.
L’individuo con i capelli lunghi aveva già raccolto da terra un oggetto lungo
dalla forma affusolata come un sigaro, porgendolo al suo complice. «E ora a noi» disse e fece un o verso Luca, dopo essersi accertato che l’uomo con la barba avesse di nuovo la situazione in pugno, trattenendo i polsi di Viola dietro la schiena all’altezza delle scapole. Il suo grido di dolore si trasformò in un lungo ululato.
Luca avrebbe preferito gettarsi subito contro quell’uomo che ora tentava di mettere l’oggetto affusolato in posizione tale da poterlo premere contro l’avambraccio della donna.
Per raggiungerlo però, avrebbe dovuto liberarsi dell’altro uomo che, a prima vista, sembrava molto più debole del suo compagno. Ma poteva trarre in inganno. Luca conosceva quei tipi emaciati e sapeva quanto fossero pericolosi, perché apparendo loro stessi come delle vittime, si tendeva a sottovalutarli.
«Non agitarti» disse l’infermiere e si avvicinò pestando gli occhiali di Viola e mandandoli in frantumi.
«Chi rimane a terra muore. Chi sta in piedi, se ne va». Così gli avevano spiegato la regola più importante della strada. Una legge che già anni addietro aveva caratterizzato la vita di Luca e di suo fratello, molto prima che le loro strade si dividessero. E ora si trovava di nuovo a un o dal verificare se, dopo tanto tempo, quella legge era ancora valida.
59.
L’attacco fu rapido e con altrettanta rapidità finì. L’uomo con i capelli lunghi spalancò gli occhi incredulo. D’altronde Luca si stupì quasi più del suo avversario quando questi crollò a terra. In effetti, non l’aveva nemmeno sfiorato… era stata Viola. Ancora prima che Luca riuscisse a chiedersi come avesse fatto a liberarsi dalla presa del suo assalitore, lei gli stava già lanciando le chiavi della macchina.
«Presto, deve guidare lei».
Ancora lievemente intontita dall’attacco dell’infermiere, barcollò verso il lato del eggero e si lasciò cadere sul sedile del maggiolino. «Senza occhiali non vedo niente».
Luca fissò sbalordito i due infermieri immobili ai suoi piedi.
Questa volta non perse tempo e pochi attimi dopo stava già svoltando in una via completamente deserta, guardando nervosamente nello specchietto retrovisore della vecchia auto per controllare oltre l’incrocio che portava in periferia.
Per un lungo momento nessuno parlò, poi non poté più trattenersi. «Che cosa volevano quei due da lei?»
Viola afferrò la cintura come in trance e rispose solo dopo che le sue mani tremanti riuscirono ad allacciarla.
«Borromei» rispose concitata, asciugandosi un filo di saliva dal labbro superiore. «Erano gli uomini di Borromei. Vogliono riportarmi alla clinica per cancellare il resto dei miei ricordi».
Alla clinica? Non esiste più. Adesso al 211 della strada c’è solo un enorme cratere.
Viola si premette la radice del naso, boccheggiò e continuò a parlare affannata, facendo una lunga pausa dopo ogni frase per riempire rumorosamente i polmoni d’aria. «Vogliono la stessa cosa anche da lei. Mi crede ora? Siamo nello stesso programma. Da soli non abbiamo alcuna possibilità ma insieme possiamo sfuggirgli». Luca si voltò verso la donna: il suo sguardo era stanco, ma sembrava lucida. Anche se quello che diceva suonava come il delirio di una psicopatica.
Perché sta accadendo tutto ciò?
Ammettendo che il programma esistesse veramente, che ricordi avrebbero dovuto cancellare dalla sua memoria?
O cosa avevano già cancellato?
Il tentativo stesso di voler rispondere a queste domande dissennate sconfinava nella follia, quindi cambiò discorso.
«Come ha fatto?»
«Cosa?»
«Quegli uomini. Come ci è riuscita?»
I denti di Viola brillarono bianchi come la neve. «L’ho morsicato». Rise, forse anche per allentare la tensione. «E così gli ho fatto cadere quel coso… come si chiama?» Gli porse il cilindro affusolato con cui l’aveva minacciata l’uomo con la barba. «E’ una pistola per vaccini?»
Luca gettò una rapida occhiata, superò un semaforo giallo e annuì.
Narcotico.
Aveva annientato l’assalitore con la sua stessa arma.
«Spero che respirino ancora» disse lei a bassa voce e tutto d’un tratto sembrò insicura, quasi avesse voluto sentirsi dire da Luca che aveva agito correttamente. «Mi sono soltanto difesa».
Luca annuì.
Il fine giustifica i mezzi. A volte bisogna fare la cosa sbagliata per ottenere quella giusta.
Rallentò nella curva presso l’Hotel Splendid, entrando in una zona con il limite dei trenta; non sapeva dove lo avrebbe condotto quel viaggio o chi fosse quella donna che lo accompagnava contro la sua volontà e che ora non gli appariva più soltanto misteriosa, ma sempre più inquietante.
«Chi è lei?» chiese.
Viola lo guardò, esitò un istante e riabbassò lo sguardo mentre rispondeva. «Le ho già detto tutto quello che ancora ricordo di me. Il resto della memoria me lo hanno portato via».
«Stronzate».
Trasalì quando Luca colpì il volante del maggiolino. «Non è certo un caso che ci siamo incontrati proprio oggi».
Viola fece un respiro profondo. «No, non è un caso. L’ho aspettata al cantiere, l’ha dimenticato? Non gliel’ho nascosto». Viola guardava fuori dal finestrino, arrabbiata. «Sono dalla sua parte, come glielo devo ancora dimostrare? Mi devo far ammazzare dagli uomini di Borromei?»
Dopo che Luca ebbe attraversato una rotonda, Viola aprì la cerniera del suo piumino e tirò fuori un cellulare dalla tasca interna.
«Chi vuole chiamare ora?» chiese Luca e infilò il sottoaggio dello zoo. Una
X rossa segnalava di cambiare corsia.
«Nessuno».
Con una mano Viola si strofinò la tempia, con l’altra continuò a schiacciare sempre lo stesso tasto del cellulare fino a quando non trovò quello che stava cercando.
«Ecco».
Accese la luce vecchia e sporca sopra le loro teste e porse il display a Luca, il quale riuscì soltanto a dare un’occhiata di sfuggita, visto che stava superando un mezzo per la pulizia delle strade.
«Che cos’è?»
«Le avevo promesso un indizio. Guardi lei stesso: è viva».
«Livia?»
Si avventò fulmineo sui freni e il maggiolino slittò. Sussultò due volte e gli assi scricchiolarono minacciosi mentre superava la linea di demarcazione, fermandosi davanti a un’uscita di sicurezza in mezzo al tunnel.
«E’ impazzito?» esclamò Viola, alla quale era caduto il cellulare di mano. Prima di arlo nuovamente a Luca dovette ripulirlo dalla sporcizia raccolta sul fondo dell’abitacolo.
«Dove l’ha scattata?» domandò Luca di rimando.
«Ieri sera ho seguito suo suocero e l’ho scattata in pieno centro».
«Livia era in centro?»
Luca teneva il telefono inclinato dal momento che la luce si rifletteva sul display impedendogli di vedere bene, eppure ancora non riusciva a distinguere i dettagli. La Volvo gialla davanti alla quale si trovava sco, chinato verso il lato dell’autista, poteva essere stata fotografata ovunque e in una qualsiasi sera. Non vi era nulla di più semplice che manomettere il calendario elettronico di un cellulare.
«E’ lei, no?» chiese Viola indicando il display da cui Luca non riusciva a distogliere lo sguardo. Il profilo, i capelli biondi, le dita magre che indicavano qualcosa fuori dall’inquadratura della foto: gli pareva tutto così familiare. Al tempo stesso la foto era così confusa e poco illuminata dai lampioni, da non poter essere sicuro di ciò che vedeva.
«Sono arrivata troppo tardi, proprio nel momento in cui suo suocero si stava congedando da sua moglie».
Che motivo avrebbero dovuto avere padre e figlia per giocargli uno scherzo così crudele? In una soap opera da quattro soldi si sarebbe rivelato tutto un complotto con lo scopo di interdirlo, mettendo lui e il suo patrimonio sotto tutela.
In questo caso il poveraccio sono io. E’ Livia l’ereditiera.
Un brivido gelato gli corse lungo la schiena e la mascella iniziò a tremare debolmente.
Vendetta, pensò e rabbrividì ancora di più. Se mi vuole annientare così, il motivo potrebbe essere soltanto la vendetta.
Che cosa poteva averle fatto? Quale azione, di cui lui aveva smarrito il ricordo, avrebbe potuto giustificare l’incredibile incubo in cui lo aveva scaraventato?
Ho fatto qualcosa di così tremendo da spingere Livia a farmi piombare nella follia? Qualcosa per cui avrebbe voluto lasciarmi?
Stava per mettere di nuovo in moto, quando gli venne in mente un’altra domanda non meno inquietante. Luca si chinò verso Viola, la afferrò per una spalla e la guardò fisso negli occhi. «Nei documenti che lei ha trovato su di me alla clinica…».
«Sì?»
«C’era anche la foto di mia moglie?»
«No».
«Era anche lei nel programma di Borromei?»
«Per quanto ne sappia, no».
«Ah si? E come fa a conoscerla allora?» Luca le strinse la spalla ancora più forte.
«Mi fa male».
Lui annuì soltanto. «Perché è così sicura che quella nella foto sia Livia?»
Viola si contorse sotto la presa di Luca. «Mi ha raccontato di lei e quell’uomo la chiamava in continuazione con quel nome».
«sco?»
«Se si chiama così, sì».
Posò la propria mano, piacevolmente calda, su quella di Luca. Lui lasciò subito la presa.
«Che cosa hanno detto?»
«I due hanno litigato, per questo ho pensato di fotografare la scena. Non riuscivo a capire quello che stesse dicendo sua moglie perché non è scesa e ha lasciato il motore ».
Non è da lei. Livia era così attenta all’ambiente, spegneva il motore addirittura al semaforo, pensò Luca e gli sfuggì un sorriso malinconico… perché l’aveva spesso presa in giro quando le auto dietro di lei suonavano impazienti e perché fu colto dalla consapevolezza che si stava facendo domande sul comportamento di una morta.
«E mio suocero?»
«Come ho già detto, ha ripetuto più volte la stessa frase».
«Quale?»
Viola si portò nervosamente le mani al viso. La pelle intorno all’occhio era più scura. «Ha detto qualcosa tipo: “Calmati, Livia. Tra poche ore sarà tutto finito”».
Tutto?
Una moto sfrecciò accanto a loro, seguita a ruota da una seconda; gareggiavano nel tunnel deserto. Luca cercò sul volto di Viola un indizio delle sue menzogne; riconobbe la tensione nel tremito delle palpebre, eppure non trovò alcun segno di falsità.
«Ha detto così. Poi lei è sfrecciata via furiosa».
Non ci credo. Non ha alcun senso tutto ciò. Perché Livia e sco hanno un piano comune? Perché litigano? E che cosa finirà presto?
Più Viola parlava, più il puzzle della sua vita si disfaceva e non riusciva più a comprendere se fosse lui a soffrire di gravi fissazioni psicotiche o le persone che lo circondavano.
Diede ancora un’occhiata alla fotografia di sua moglie e sco. «Che coincidenza che il numero di targa non si veda».
«Sì, nella fretta non ci ho prestato attenzione».
«Certo che no». Rise amaro e accese il motore.
«Ma…» Viola frugò ancora nella tasca interna del cappotto e questa volta tirò fuori un piccolo blocco per gli appunti da cui sporgevano resti di vecchi fogli strappati. «… forse questo la potrebbe aiutare».
Girò il blocco e indicò la serie di numeri annotata sul cartoncino sul retro: BQ137-TS.
«Ho preferito annotarla».
60.
BQ-137-TS.
Conosceva soltanto un uomo che potesse scovare il proprietario di una macchina se non si poteva accedere a un computer della polizia o ai registri della motorizzazione. Tuttavia Luca presumeva che, per motivi comprensibili, quell’uomo non sarebbe stato particolarmente incline ad aiutarlo e ancora meno a quell’ora. Eppure non aveva alternativa, visto che andare alla polizia, per di più con una tale richiesta, avrebbe alimentato il sospetto di un suo disturbo psichico.
«Ehilà?»
Luca si mosse con lentezza nella luce che proveniva dalla porta del bagno accostata e che illuminava debolmente il piccolo ingresso. A ogni o aumentava quella sensazione di déjà-vu che non gli consentiva di pensare al motivo reale per cui era lì.
Era stato così anche durante la sua ultima visita non annunciata: aveva percorso lo stesso corridoio e, pochi attimi dopo, aveva trovato il fratello inerte nella vasca da bagno. La porta di ingresso, però, quella volta era spalancata.
«Lorenzo?» chiamò e subito dopo fu sollevato nello scorgere un segno di vita. Dietro la lastra di vetro bianca vide comparire un’ombra. Era diventato più alto.
Per Luca non si schiuse soltanto la porta del bagno in quel momento. Si sentiva
come se una mano invisibile avesse sfogliato le pagine fragili di un vecchio album di fotografie. Il volto che osservava gli era familiare eppure sconosciuto, come una fotografia che si pensava dimenticata da tempo e che coincideva soltanto a tratti con il ricordo trasfigurato del ato. Durante la sua dichiarazione davanti alla commissione di analisi, era riuscito a evitare un incontro con Lorenzo; ora guardava suo fratello minore in viso per la prima volta dopo anni.
«Ciao, piccolo» disse Luca con un tono nuovo anche per se stesso. Incerto e agitato, Lorenzo non rispose, tentando di calmarsi.
Lorenzo allungò una mano dietro di sé senza guardare e richiuse la porta del bagno tenendo lo sguardo incollato negli occhi del fratello. Non alzò la mano per salutarlo, non scostò i capelli scuri e sudati che gli cadevano sulla fronte, quei capelli che da giovane Luca gli aveva invidiato.
Invece Lorenzo Bernardi infilò i pugni nelle tasche di una giacca da pilota verde metallizzato e rimase a studiarlo con uno sguardo difficile da interpretare.
Disperazione? Preoccupazione? Rabbia?
All’improvviso lo sfiorò un pensiero terribile che lasciò nel suo intimo una traccia rossa incandescente, come ortica sulla pelle nuda.
E se non mi riconoscesse?
E se non esistesse nulla di tutto ciò? Se fossero soltanto ricordi: mio fratello, il corridoio, il bagno alle sue spalle?
Luca si ritrovò a pensare a un racconto su una rivista di psicologia, che aveva cominciato a leggere nella sala d’aspetto del dentista. Parlava di un paziente che consultava uno psichiatra che egli stesso riteneva un prodotto della sua fantasia malata. Era fortemente convinto di essere l’unico sopravvissuto a un’epidemia virale, l’ultimo uomo sulla Terra, rifugiatosi in un mondo fantastico per non morire di solitudine. Lo psichiatra si trovava davanti a un compito quasi insolubile: come convincere un paziente che non soffriva di allucinazioni, ma che credeva di averle, mentre tutto quello che vedeva e sentiva era reale e non soltanto frutto del mondo fantastico che si era creato.
Luca era stato chiamato prima di terminare la lettura. Mai prima di allora si era così pentito di non essere riuscito a conoscere il finale di una storia.
“Sai chi sono?” avrebbe voluto chiedergli, ma Lorenzo lo precedette.
«Non è un buon momento, Luca».
Il fatto che lo chiamasse per nome, con quel tono familiare che si usa con coloro dai quali non ci si deve difendere e quel leggero sollevarsi del sopracciglio - un gesto con cui una volta si salutavano sempre - tutto questo dissipò le paure di Luca. Non era un estraneo.
«Mi conosce!» esclamò senza rendersi conto di quanto assurdo potesse suonare. Eppure Lorenzo sembrava ancora più esausto di lui, sebbene fisicamente avesse un aspetto migliore di un tempo: più alto e più forte, come uno sportivo al quale
l’allenamento muscolare ha dato un certo portamento. Però sembrava sfinito, pervaso da una stanchezza malinconica che non aveva nulla a che fare con l’annebbiamento trasognato di chi è stato buttato giù dal letto in piena notte. Sembrava che sulle sue spalle gravasse un peso invisibile che non gli permettesse di muovere neanche un o verso il fratello.
«Ho bisogno del tuo aiuto» disse Luca.
«Non posso aiutarti».
Aveva immaginato una risposta di quel genere, ma fu sorpreso. Anche se essa era breve, concisa e negativa, la voce di suo fratello era molto più dolce di quello che si sarebbe aspettato. Dopotutto Luca era stato responsabile del suo internamento all’istituto psichiatrico, eppure nulla in Lorenzo era ostile, anzi, lui stesso sembrava avere urgente bisogno di aiuto.
«Purtroppo devi andartene subito, perché…» Si interruppe. La porta era ancora aperta e da qualche parte, per le scale, vi era stato un forte scricchiolio, come se la suola in cuoio di un paio di scarpe da uomo avesse schiacciato il guscio di una noce.
Lorenzo si irrigidì.
«Ascolta, sono qui con…» cominciò Luca per spiegare che non era arrivato da solo ma Lorenzo gli fece cenno di stare zitto. Ci fu un altro cigolio e Luca sentì la tensione crescere in suo fratello, sebbene questa volta il rumore sembrasse soltanto il debole gemere della travatura di una casa vecchia.
«Ti ha seguito qualcuno?» chiese Lorenzo sussurrando.
«No».
In quel momento la porta si spalancò e Lorenzo estrasse dalla tasca della giacca un oggetto che Luca non aveva mai visto prima tra le mani del fratello: una pistola automatica, carica.
61.
Pochi minuti dopo che Viola aveva rischiato di essere uccisa da Lorenzo perché non era voluta rimanere fuori dalla porta, i tre si erano seduti, un po’ più calmi, nel soggiorno vicino a un tavolo allungabile in legno di quercia, su cui si trovava un portafrutta stracolmo di banane, mele e uva. Luca non riuscì a scorgere il minimo segno di polvere o alone di bicchieri sulla superficie pulita. Loredana, l’infermiera, aveva detto la verità. Lorenzo era cambiato. Il suo fratellino, eternamente squattrinato, che prima aveva sempre amato vivere tra cartoni di pizza e lattine vuote di Red Bull, sembrava essere ato a un’alimentazione consapevole e ricca di vitamine e aver assunto una donna delle pulizie. O forse aveva una ragazza, cosa ancora più improbabile. L’unico dettaglio che ricordava le sue precedenti abitudini comportamentali era l’aria stagnante in tutta la mansarda. Uno strano odore, leggermente dolciastro, faceva pensare che l’ambiente non fosse arieggiato da tempo o che il pattume dovesse essere urgentemente portato via.
Nel frattempo Lorenzo aveva riposto la pistola e guardava nervosamente l’orologio. «Che cosa volete?» chiese con aria incerta. I suoi occhi saettavano come se gli avessero buttato della sabbia in faccia. Le palpebre erano gonfie e tutto in lui sembrava affannato.
«Ho bisogno di un’informazione, Lorenzo».
«Di che tipo?»
«Dovresti cercarmi il proprietario di una targa».
Il fratello sbuffò incredulo e rise artificiosamente.
«Nel mezzo della notte? Sei completamente impazzito?»
Luca annuì. «Che tu ci creda o no, sono davvero qui per questo».
Afferrò una mela. Sebbene non avesse mangiato per tutto il giorno, si accorse di non avere il minimo appetito e la ripose.
«Dunque…» Lorenzo guardò verso la finestra. «Se vuoi che ti dica il mio sincero parere: la tua amica grassona là non è normale, questo è sicuro».
Viola si era leggermente appartata e camminava accanto alla finestra. Nel contempo accarezzava la pesante tenda di lino con la mano, quasi volesse valutare la qualità del tessuto; nell’altra mano aveva il telefono, in cui sussurrava qualcosa di cui i due fratelli afferravano solo alcuni stralci.
«… ora mi trovo… appartamento di Lorenzo Bernardi… vicino all’ospedale… quinto piano…».
«Che cavolo sta facendo quella?»
«Sta parlando con la sua segreteria telefonica».
«Eh?»
«Lascia perdere, non è importante ora».
Luca cercò di riassumergli l’accaduto delle ultime ore, chiedendosi se suo fratello avesse saputo dell’incidente e vide che alzò sbadatamente le spalle. Per la prima volta la stizza affiorò in lui, anche se in qualche modo sembrava che gli costasse un certo sforzo imprimere alla voce una nota di sdegno. «Scusa, come forse saprai, fino a pochi giorni fa ero in una clinica per malattie nervose e laggiù non si sa molto del mondo esterno».
Tirò una sedia verso di sé. Alla frase successiva il suo tono rancoroso era già sfumato. «Ascoltami, mi dispiace davvero molto per Livia, ma non so nulla della sua morte. Non sapevo neppure che fosse incinta. Ma per quanto la tua situazione possa essere spaventosa, Luca, in questo momento ho veramente degli altri problemi».
«Bello» sentirono Viola mormorare e si voltarono verso di lei.
Nel frattempo si era scostata dalla finestra e stava osservando un dipinto privo di cornice appeso alla parete sopra al divano.
«Vorrei trovarmi lì…» Fece ancora un o avanti, con le braccia dietro la schiena come la visitatrice di un museo.
Vorrei trovarmi lì?
L’immagine era un’unica distesa bianca attraverso la quale, in singoli punti, s’intravedeva il grezzo lino chiaro della tela. Da lontano sembrava spruzzato di una pioggerellina nebbiosa di schiuma lattea.
«Lascia che ti racconti brevemente quello che mi è accaduto oggi…» riattaccò Luca. Poi fu nuovamente interrotto da Viola: «Lo ha fatto lei?».
Con infinito stupore di Luca sembrava che Viola, con quelle poche parole, avesse catturato la completa attenzione di suo fratello. Lorenzo andò verso di lei e rispose con aria stanca: «Sì».
Sì? Lui sapeva bene della ione per l’arte di Lorenzo; una volta si era persino arrischiato a comporre la grafica di copertina per un loro demo.
«E’ meraviglioso. Quella casetta, quel bosco…». Indicò l’immagine pallida.
Casetta? Bosco? pensò Luca. Effettivamente sembrava che ci fosse qualcosa nascosto sullo sfondo. L’immagine aveva un secondo piano, tuttavia non riusciva a distinguere alcuna casetta o alcun bosco, al massimo un deserto di neve ghiacciata o un paesaggio nuvoloso e anche questo solo con un grande sforzo della fantasia.
«Lorenzo, vuoi ascoltarmi un momento, per favore?» cercò di riallacciarsi al discorso precedente. Suo fratello annuì, sebbene sembrasse essersi completamente perso nell’immagine, come Viola. Così Luca riprese con la rappresentazione dei drammatici avvenimenti delle ultime ore, senza avere la
certezza che qualcuno in quella stanza lo stesse ascoltando. E fu ancora più stupito dal fatto che suo fratello, una volta che si fu allontanato dal suo capolavoro, avesse sentito tutto correttamente.
«Quindi, se ho capito bene, le cose stanno così: dopo che mi hai fatto rinchiudere in quel manicomio, vieni da me e mi dici che Livia è morta con il bambino in un incidente. Poi qualcuno ha cancellato i tuoi ricordi, nel frattempo tua moglie è risorta, ma di ciò non hai altra prova che la fotografia sbiadita di una bionda seduta in una Volvo gialla e ora vorresti rintracciarla con un numero di targa?»
«BQ-137-TS» annuì Luca.
Lorenzo stava per rispondere quando udirono un ronzio ritmico che a Luca ricordava vagamente il suono del suo camlo. Suo fratello estrasse il cellulare dalla tasca, controllò l’SMS arrivato e s’incupì, come se avesse ingoiato un sasso insieme alla gomma da masticare.
«Cosa c’è?»
Sconcertato, osservò Lorenzo che si dirigeva verso la televisione che si trovava sul mobile porta tv. Aprì gli sportelli laccati e ne estrasse una borsa sportiva nuova, leggermente aperta. Luca non ne era certo, ma gli pareva di aver intravisto un rotolo di banconote, prima che suo fratello chiudesse la cerniera.
«Chi ti manda un messaggio a quest’ora?»
Lorenzo lo fissò privo di espressione e mise il borsone in spalla.
«Dobbiamo andarcene» disse, poi s’interruppe. «Dov’è?» chiese a Luca, che non capì subito di chi parlasse. Poi si accorse che Viola non era più davanti al quadro.
E non era più nella stanza!
«Non lo so» rispose e guardò verso la porta del salotto.
Anche prima era accostata?
Seppe la risposta ancora prima che Viola cominciasse a gridare dal corridoio.
62.
«Via, dobbiamo andarcene».
In preda al panico Viola si precipitò verso l’uscita che Lorenzo aveva sprangato prima che entrassero nel soggiorno. Qualcosa doveva averla scossa talmente tanto che non vide neppure la chiave inserita nel catenaccio, il cui massiccio perno correva obliquo sulla porta.
«Che cosa succede?» chiese Luca.
«Via!» urlò stridula. Mentre grosse lacrime le rotolavano sulle gote infuocate, cominciò a prendere a calci la porta.
«Ehi, calmati». Luca cercò di tranquillizzarla ma, quando le sfiorò le spalle, lei si ritrasse con un moto inaspettato e d’istinto lo colpì sulla mandibola con il palmo della mano.
«Diavolo, ma cos’ha?» ruggì Luca urlando come Viola, alla quale andò di traverso la saliva e cominciò a tossire violentemente.
«Lei è…» Ansimò fra un respiro strozzato e l’altro. «… morta».
Lei è morta?
«Chi? A chi si riferisce?»
Luca si voltò verso Lorenzo, che si strinse nelle spalle restando un paio di metri dietro di lui nel corridoio, all’altezza del bagno. Poi si girò nuovamente verso Viola, che era sconquassata da un altro attacco di tosse. Cominciò a rantolare e Luca tentò inutilmente di aprirle il piumino, ma lei scivolò lentamente a terra con la schiena appoggiata alla parete e rimase rannicchiata come un cane bastonato.
«Non toccarmi!» piagnucolò. Le sue mani respingevano colpi immaginari e cominciò a entrare in iperventilazione.
«Morta» ripeté ancora una volta. Ora il respiro sembrava quello di chi è appena riemerso da alcuni minuti di apnea. Ogni volta che inspirava, il suo enorme seno si alzava vistosamente, nonostante i polmoni sembrassero non ricevere ancora sufficiente ossigeno. Dopo un ultimo disperato rantolo, rovesciò gli occhi e si accasciò completamente su se stessa.
«Merda, ma questa è scappata dal manicomio».
«Infatti, è così» confermò Luca e tastò il battito di Viola, sebbene con quel doppio mento non fosse semplice trovare la carotide.
«E’ solo svenuta».
Luca guardò Lorenzo indeciso. «E ora?»
«Non ne ho idea, ma qui non ci può stare di sicuro».
Con un gesto rapido aprì il catenaccio, come Viola aveva cercato di fare poco prima e spalancò la porta. Poi premette un interruttore e le scale si illuminarono di una soffusa luce gialla a risparmio energetico.
«Andiamo, dobbiamo portarla al pronto soccorso».
La trascinarono fuori, tenendo ciascuno un braccio di Viola sulla spalla.
Luca riusciva a malapena a sopportarne il peso. Le ultime ore avevano senz’altro indebolito ulteriormente il suo fisico già provato e si chiese se fosse una buona idea trascinare una persona sovrappeso per cinque piani considerando la scheggia nella sua testa. sco gli aveva persino proibito di portare gli scatoloni del trasloco.
«Ti do una mano solo fino all’auto, poi devi arrangiarti» gli comunicò Lorenzo quando furono al terzo piano.
«Dove devi andare a quest’ora?» ansimò Luca, che avrebbe fatto volentieri una pausa, ma Lorenzo sembrava avere fretta e accelerò persino.
«Mi dispiace, non posso dirtelo».
«Sentimi bene, non puoi andartene così. In fondo hai un debito con me».
A quel punto furono costretti a fermarsi perché i piedi di Viola si erano incastrati nella ringhiera del pianerottolo al secondo piano. Gemette leggermente, ma parve non rendersi conto del trambusto che avveniva intorno a lei.
«Che cosa vorresti dire?» chiese Lorenzo.
«Ti ho salvato la vita».
«Un motivo in più per starti lontano».
«So che mi odi, ma pensi che sarei venuto da te se avessi avuto un’altra scelta?»
Finalmente raggiunsero la pesante porta di ferro battuto e Luca dovette sorreggere Viola da solo. Quando suo fratello aprì il portone, una corrente di aria fredda percorse il vano di aggio. Poi Lorenzo tornò indietro e trascinarono Viola fuori insieme per i pochi restanti metri.
«Ti prego, fammi un ultimo piacere, Lorenzo. Chiama i tuoi amici, so che hai le tue fonti. Controllami quella targa e procurami l’indirizzo del proprietario. Poi sparirò per sempre dalla tua vita».
«No».
Appoggiarono Viola su un muretto pieno di graffiti vicino all’ingresso. Luca si assicurò che fosse addossata alla parete, poi sbarrò la strada a suo fratello, che già era sulla soglia e cercava le chiavi dell’auto nella giacca.
«Maledetto stronzo, perché no?» Il suo respiro produceva fitte nuvole quando gli si parò davanti.
L’abitazione di Lorenzo si trovava in una strada acciottolata, in cui i parcheggi erano messi in modo da rallentare il traffico. Le numerose vetrine che illuminavano la zona rappresentavano l’emblema del quartiere. Chi si trasferiva in quel luogo era alla moda, ecologista, amante dei bambini e di buona cultura.
«Ehi, sto parlando con te. Per quale motivo non vuoi farmi un ultimo piacere, prima che sparisca per sempre?»
«Perché la targa non ti porterebbe da nessuna parte».
Lorenzo sollevò le sopracciglia e fissò oltre le spalle del fratello, verso la strada. Luca subodorò un trucco e represse la voglia di voltarsi a guardare.
«E come fai a saperlo?»
«Perché l’ho appena verificata».
«E come? Non hai fatto nessuna telefonata».
O sì? Forse senza che io lo notassi ha mandato un messaggio e adesso ha ricevuto la risposta? Luca non ne era certo, quel giorno erano accadute davvero troppe cose che non poteva spiegarsi.
«No, non è stato necessario chiamare nessuno» disse Lorenzo e indicò il lato opposto della strada. Luca si voltò e il suo cuore ebbe un blocco.
L’ambulanza era lì, in una rientranza vicino a un caffè. Come a un segnale l’autista accese il motore e lentamente si mise in strada.
Questa volta, attraverso i vetri oscurati del parabrezza, i eggeri non erano riconoscibili. Ma la targa illuminata sì.
BQ-137-TS.
«Che accidenti significa?» chiese Luca e si voltò di scatto. Il muretto era vuoto e Viola non era più là, ma si trovava proprio dietro di lui e gli puntava la canna della pistola di Lorenzo direttamente alla testa.
63.
«Allora è vero!» Luca si sentiva quasi sollevato dal fatto che finalmente per una volta non si fosse sbagliato. Viola era veramente una doppiogiochista. Non stava dalla sua stessa parte del precipizio o, se sì, era solo per buttarlo di sotto.
Solo una manovra per ingannarmi. Il documento in albergo, la foto di Livia, lo svenimento che le ha permesso di prendere l’arma di Lorenzo mentre la trascinavamo per le scale.
«Dobbiamo tagliare la corda» ansimò Viola con voce rauca. Sembrava senza forze e il viso tondo era ancora gonfio e sudato e le guance infiammate. Gli occhi sbattevano affaticati, tuttavia aveva abbastanza forza da puntare la pistola alternativamente verso di lui e suo fratello. Al contempo lanciava sguardi furiosi all’ambulanza, che ora avanzava verso di loro a o d’uomo, probabilmente perché l’autista aveva notato l’arma nelle mani di Viola e preferiva evitare un altro scontro.
«Che cosa devo fare?» chiese Luca calmo. Il suo stato di coscienza si era tramutato automaticamente in una condizione di estraniamento, una strategia che aveva adottato nei numerosi anni di conflitti con i ragazzi di strada.
«Salga sulla mia auto!» Viola indicò il maggiolino che si trovava in una piazzola di sosta a venti i da loro, con una ruota sul marciapiede di pietra.
«Va bene, vengo con lei» rispose Luca. «Ma prima deve consegnarmi quell’arma».
«No». La voce di Viola lo interruppe. «Allora non capisce! Siamo in pericolo. Svelto!» E urlò le ultime parole: «Dobbiamo fuggire».
«Dove vuole andare?»
«Per prima cosa via di qui. Ma senza di lui» disse e indicò Lorenzo, che si strinse nelle spalle.
«Per me va benissimo».
«Okay, adesso ne parliamo» la pregò Luca, più dolce che poteva. «Prima, però, deve darmi la pistola».
Viola scosse la testa. «No, non posso. Andiamo!» La donna divenne di nuovo isterica e vomitò disperatamente le ultime parole. «Altrimenti ammazza anche noi».
Luca gettò uno sguardo sconvolto verso Lorenzo e poi verso Viola. «Ammazza?»
«Sì, è cattivo».
Nonostante la scelta del termine un po’ infantile, la sua voce non aveva nulla di
amabile.
«Cattivo? Che cosa intende dire?»
«Non ha sentito l’odore?» urlò Viola e il cane, che era tornato dentro con il suo padrone, emise un guaito.
«Che odore?»
«Eppure si sentiva benissimo. La puzza nel suo appartamento».
«E con questo?»
La confusione di Luca cresceva insieme al suo mal di testa. Doveva prendere un’altra pastiglia, il prima possibile.
Viola spalancò la portiera. «L’ha ammazzata. La ragazza nel bagno. Ho seguito l’odore e l’ho vista».
«La vecchia è paranoica» disse Lorenzo interpretando ciò che Luca stava pensando.
«E adesso salga, per favore» lo pregò Viola un po’ più piano. «Solo lei, Luca.
Senza suo fratello. Deve fidarsi di me».
«Fidarmi?» Luca faticò a controllarsi. L’unica cosa che gli impedì di picchiarla fu la pistola che gli stava puntando dritto in faccia.
«Sì, posso spiegarle tutto».
«Allora cominci per prima cosa con la targa dell’auto. Perché ha mentito?»
Viola cominciò a tremare ancora più forte. «Non mi era venuto in mente niente di meglio».
Lorenzo stava per intervenire ma Luca lo interruppe. «Quindi fa parte di loro, vero? L’hanno assoldata per farmi impazzire?»
«No».
«E perché? Chi ha interesse a distruggermi?»
«La domanda è giusta, ma io non posso risponderle, Luca». Poi ripeté: «La prego, deve fidarsi di me».
«Detto da una che suppone di fiutare i cadaveri e ci punta in faccia una pistola
rubata…». Lorenzo scoppiò a ridere in modo sarcastico.
Luca annuì, sebbene qualcosa nella voce di Viola lo avesse turbato. O era un’attrice maledettamente abile o era davvero convinta di poter spiegare il suo comportamento.
«Mi ascolti, Luca. Sapevo che non mi aveva creduto quando le ho detto di aver visto sua moglie. Non è stata sufficiente nemmeno la foto che le ho mostrato».
Viola estrasse con la mano sinistra il telefono dalla giacca, attivò il display e lo porse a Luca. «Lei era così diffidente prima ed io non volevo essere di nuovo abbandonata. Allora ho tirato fuori velocemente una targa. La prima che mi è venuta in mente. Quella dell’ambulanza che mi ha seguito per tutto il tempo da quando sono fuggita dalla clinica».
«Questa è di sicuro un’altra maledetta…».
… bugia. Luca avrebbe voluto concludere la frase prima di essere bloccato da suo fratello che gli prese il telefono di mano.
«Un momento» disse Lorenzo e rivolse il display verso Viola. «Questa l’ha scattata lei?»
«Sì, perché?». Viola lo fissò diffidente.
«Una Volvo gialla?»
«Sì».
«Con un’ammaccatura da un lato».
Viola annuì con veemenza, sebbene sembrasse non avere idea di dove li avrebbe portati quell’interrogatorio.
«A destra o a sinistra?»
«L’ammaccatura? Non lo so, credo fosse dietro a sinistra».
Tossì ancora e adesso il sudore le colava per le guance.
«Che cosa c’è? Per caso riconosci questa macchina?» intervenne Luca. Strinse le braccia al petto, senza capire se stava gelando per il freddo o per la paura, probabilmente per entrambi.
Lorenzo schioccò la lingua. «Sì, ci ho viaggiato da non molto tempo».
«Davvero? Allora sai di chi è?»
Con la coda dell’occhio Luca si accorse che un ciclista dall’altro lato della strada era sceso dalla bicicletta e li guardava con interesse.
«Purtroppo sì».
«Dobbiamo andare via» disse Viola quando vide il ciclista, ma Luca non la ascoltava più.
«Come “purtroppo”? Diavolo, di chi è?»
«Oh, merda, non vorresti saperlo». Lorenzo sospirò e sollevò le spalle.
«Perché no?» chiese Luca e stava per afferrargli il braccio quando Lorenzo fece un balzo indietro.
Il primo sparo che dilaniò la notte fece scappare il ciclista a gambe levate. Al secondo sparo non si voltò più, nemmeno quando le urla di dolore alle sue spalle divennero sempre più forti.
64.
In un lampo Lorenzo aveva afferrato la mano di Viola, sollevandole il braccio con la pistola verso l’alto e premendo il grilletto. Il secondo colpo lo aveva diretto verso la tempia della donna. Il dolore lancinante la paralizzò subito.
Viola lasciò l’arma, cadendo in ginocchio vicino alla macchina e con entrambe le mani si premette l’orecchio sinistro, al quale l’onda d’urto aveva lacerato la membrana del timpano.
«Che cosa hai fatto?» gridò Luca che non riusciva a credere a ciò che era appena accaduto davanti ai suoi occhi. Vedeva solo il liquido scuro che scorreva fra le dita di Viola colorando il suo cappotto bianco. All’inizio pensò che Lorenzo, il suo fratellino che non aveva mai fatto male a una mosca, le avesse davvero sparato in testa. Poi lei fece per alzarsi e, sebbene riuscisse a emettere solo suoni gutturali, Luca capì che non era stata ferita a morte.
«Che cosa hai fatto?» Questa volta lo chiese un po’ più piano e rivolto sia a Viola sia a Lorenzo, il quale aveva ripreso la sua arma.
«Me ne vado».
«Non puoi farlo».
Luca si chinò vicino a Viola e non sapeva davvero cosa fare. Il suo orecchio sanguinava sempre di più e i capelli vicini alla tempia erano tutti appiccicati.
Con un gesto istintivo le sentì la fronte come fa una madre per provare la febbre al suo bambino. E, in effetti, Viola scottava.
«Deve andare all’ospedale. Per favore, Lorenzo, devi portarci là, devi…». Afferrò scioccato la mano di Viola, che improvvisamente era crollata a terra, perdendo i sensi. «Almeno aiutami a caricarla in auto. Lorenzo?»
Guardò verso l’alto in attesa di un altro rifiuto, ma non arrivò perché suo fratello era sparito.
«Merda, merda, merda…». Luca cominciò a sudare nonostante il freddo. Era infinitamente stanco, il dolore alla testa gli s’infilava fino alle spalle e perciò ebbe paura di non avere la forza necessaria per sollevare Viola nella sua auto.
Maledizione.
Luca cercò il telefono di Viola nel piumino, ma poi si ricordò che Lorenzo lo aveva avuto per ultimo e probabilmente se lo era tenuto.
Si alzò appoggiando la schiena alla carrozzeria e guardò verso l’altro lato della strada. Per quanto potesse vedere, non c’era nessuno alla finestra o sul balcone e l’ambulanza era sparita.
Com’è possibile che nessuno chiami la polizia? Qualcuno dovrebbe aver sentito lo sparo.
Stava per chinarsi nuovamente verso Viola quando una voce alle sue spalle lo fece trasalire.
«Ehi, amico».
Luca guardò un vecchio sul marciapiede, col cane al guinzaglio.
«Che cosa vuole?»
Il barbone dava l’impressione di curare il suo abbigliamento, per quanto la vita da senzatetto potesse permettergli. Il che, a prima vista, rendeva meno evidente la sua condizione; solo chi si avvicinava poteva distinguere la sporcizia che si era sedimentata sul cappotto di lana, un tempo costoso e le toppe grezze sotto le quali s’intravedeva una giacca troppo ampia. Infine emetteva quell’odore rancido e dolciastro di corpo umano poco pulito e che indicava la mancanza di un’abitazione vera e propria.
«Non si preoccupi, non ho visto nulla, amico» disse l’uomo con un sorriso privo di denti.
«Okay e veramente non è come potrebbe sembrare. Sto portando questa donna all’ospedale».
Luca afferrò Viola sotto le braccia e con le ultime forze la sollevò. Il suo respiro era diventato breve e rapido.
Il barbone annuì e lo guardò con aria indifferente mentre armeggiava con quel peso. Solo quando finalmente riuscì a trascinare Viola fino all’auto, ad aprire la portiera e piazzarla sul sedile, il vecchio cominciò a ridere sommessamente.
«Mamma mia, ragazzi, che nottata, eh?»
Luca si voltò verso di lui asciugandosi il sudore dalla fronte. «Senta, se per caso vuole dei soldi, mi dispiace, ma sono al verde anch’io».
Si assicurò che la testa di Viola non cadesse in avanti e chiuse la portiera.
«Lo so».
Luca, che stava per salire al posto di guida, si fermò.
«Come, lo sa?»
«Mi dispiace, ho dato un’occhiatina, ma non c’era nulla dentro. Tenga».
Il barbone allungò verso Luca la sua mano sporca. Di quattro dita, uno solo aveva ancora l’unghia. Il pollice mancava del tutto, ma non fu questo a sorprendere Luca. Fissava incredulo il portafoglio, poi si tastò in tasca per controllare che quello che il barbone gli stava restituendo fosse davvero il suo.
«Lo ha trovato Coral. Gli piace arraffare le cose che trova per terra. Non è vero, piccolo?»
L’uomo accarezzò il muso del cane, che si rovesciò subito sulla schiena nella speranza di ottenere altre coccole.
«Grazie» rispose Luca confuso.
«Si figuri. Io sono una persona onesta, andiamo piccolo».
Tirò dolcemente il guinzaglio e il randagio si alzò di nuovo.
«La prossima volta faccia meno baccano» rise l’uomo battendosi la fronte e si allontanò.
«Sì, certo» rispose insensatamente Luca, poi osservò il portafogli fra le mani e lo infilò in tasca. Alle sue spalle Viola cominciò a piagnucolare. Evidentemente aveva ripreso conoscenza.
Luca salì sul maggiolino, inserì la marcia e accese il motore. Prima di partire fu assalito da un dubbio e tirò fuori nuovamente il portafoglio. Lo aprì per verificare che almeno la patente fosse ancora là, uno dei pochi testimoni rimasti della sua identità. Per fortuna era al suo posto, Luca la estrasse per rivedere la sua vecchia fototessera, in cui appariva infinitamente più giovane e sano rispetto a quel momento. Poi tastò una specie di rigonfiamento e, quando tirò fuori del tutto il documento, un foglietto piegato scivolò sul suo grembo.
Ma che diavolo…
Dispiegò il pezzo di carta e non poté credere ai propri occhi.
Cos’è questo?
Era sicuro di non aver mai visto prima quel foglio e anche meno di averlo avuto nel suo portafoglio.
Luca spense il motore slacciandosi freneticamente la cintura e balzò fuori dall’auto.
«Ehi!» gridò verso il buio pesto dell’entrata in cui era appena sparito quell’uomo. «Torni fuori!»
Poi cominciò a correre, sebbene fosse ormai senza forze, ma era già sicuro di quello che avrebbe trovato alla fine di quel corridoio: niente.
Sia il randagio sia il barbone, che gli aveva appena consegnato un messaggio scritto a mano dalla moglie morta, erano scomparsi.
65.
Scese dalla macchina e lasciò Viola al volante del maggiolino. La donna si era rifiutata di farsi portare al pronto soccorso, anche se l’ospedale era lungo la strada. Le ferite ai timpani di solito guariscono da sole, come aveva imparato Luca sulla propria pelle per via di una vecchia infiammazione all’orecchio. Inoltre Luca pensò che avrebbe potuto aver bisogno dell’auto sia come mezzo di trasporto, sia, chi poteva mai dirlo, come via di fuga. Pur nell’ipotesi che Viola soffrisse di turbe mentali, tanto da sospettare suo fratello di omicidio senza prove tangibili, lei restava l’unica persona che conoscesse in grado di comprendere fino in fondo la follia in cui era precipitato. Inoltre, Luca non riusciva davvero più a distinguere gli amici dai nemici, motivo per cui preferiva tenere i nemici sotto stretta sorveglianza, sempre che lei rientrasse nella categoria.
Luca aprì la porticina che conduceva nel giardino prospiciente la casa. La piccola casetta a due piani sembrava ancora piena di vita. A differenza delle altre case lì nei pressi, in perfette condizioni e dotate di steccati per proteggere i giardinetti curati fin nei minimi dettagli, il civico numero sette aveva un’aria trascurata e al contempo, forse per questa ragione, sembrava una camera dei ragazzi lasciata nel caos.
Luca lanciò ancora un’occhiata al bigliettino che aveva trovato nel suo portafoglio.
“CI VEDIAMO A VILLA SIROLO. SBRIGATI”
Semplice com’era, quel messaggio non dava adito a equivoci. Ovviamente non era una prova che lei fosse ancora viva.
La grafia inconfondibile era, però, un chiaro indizio che Livia fosse l’autrice del bigliettino. Un ulteriore segnale era il luogo dell’appuntamento. La loro casetta a schiera era tutto fuorché una villa, ma si trattava ancora una volta di un loro gioco.
Luca ripose il foglietto e prese il mazzo di chiavi. La porta di casa era incastrata, ma lo era già da qualche mese.
Una volta dentro non avvertì l’odore stantio che si era aspettato. Faceva freddo, il riscaldamento era tenuto al minimo in modo che le tubature non gelassero d’inverno, ma mancava il tipico olezzo degli edifici lasciati vuoti a lungo. Pareva che qualcuno l’avesse areato di recente e, nel farlo, avesse anche spazzato per terra. Le scie nere che il divano aveva lasciato sul parquet durante lo sgombero erano scomparse.
«C’è qualcuno?» La sua voce impastata rimbalzò contro le pareti delle scale provocando un’eco metallica. Luca mise un piede davanti all’altro con attenzione, come se stesse camminando su un sottile strato di ghiaccio e non sul pavimento del salotto. Non sapeva se lo spaventasse di più l’idea di essere solo in casa o di incontrare davvero sua moglie.
«C’è qualcuno?» ripeté, anche se avrebbe preferito di gran lunga chiamare il nome di Livia. Ma gli mancava il coraggio. Accanto al salotto c’era una limonaia costruita in un secondo momento. Luca osservò il giardino pieno di erbacce attraverso le vetrate di quel piccolo ambiente. Aveva l’illuminazione esterna e i faretti alogeni sortivano l’effetto di un filtro diffusore. Ogni cosa pareva sfumata, immersa in una luce dorata: gli alberi, i frutti marci sul prato e il laghetto delle rane che ormai era diventato una palude, con più pantano che acqua.
Mugghiando, il vento strappava le foglie della betulla che si ergeva davanti alla veranda. Luca era allergico, ma non se l’era mai sentita di abbattere quella pianta. La scrutò in tutta la sua imponenza e vide una cornacchia spiccare il volo dai rami più alti. Gli occhi gli bruciarono come se la betulla fosse in fiamme.
Le lacrime parevano accentuare l’effetto della luce diffusa, tant’è che l’albero aveva preso di colpo una colorazione molto più accesa.
Luca si strofinò gli occhi senza successo: l’allucinazione persisteva.
Che cosa sta succedendo?
Tirò indietro la testa e cercò di analizzare meglio quella strana lucentezza che interessava solo una piccola parte del fogliame. Quando il vento fischiò tra la chioma, lo capì.
L’albero non era illuminato dalle lanterne del giardino, bensì da un’altra fonte di luce artificiale che si trovava circa due metri e mezzo sopra la sua testa. Al primo piano.
In casa!
Poi tutto successe molto in fretta. Luca uscì di corsa dal soggiorno, salì le scale tre gradini alla volta e pochi secondi dopo aprì come una furia la porta della stanza da letto.
Era vero.
Anche se aveva staccato tutte le prese e svitato tutte le lampadine, la stanza era illuminata a giorno.
Entrò, spalancò la bocca e le lacrime tornarono a solcargli il viso. Non poté credere, né capire, cosa vide mentre barcollava nella stanza.
Non può essere. Livia, come mai? Perché tutto questo?
I mobili li aveva buttati via tutti: il letto matrimoniale, l’armadio a muro dalle ante a persiana, la toeletta con lo specchio grande. Era stato un polacco a portar via tutto, insieme al figlio. Li aveva visti con i propri occhi mentre trasportavano giù il mobilio e lo portavano via con un rimorchio. E ora, tre settimane dopo, era tutto come prima. Il letto, l’armadio, il tavolinetto, ogni cosa era di nuovo al suo posto. Anzi c’era qualcosa in più. Una presenza fastidiosa azzurro chiaro, con un baldacchino bianco come la neve, che se ne stava nel bel mezzo della stanza. Un lettino nuovo di zecca, con le lenzuola e le federe fresche di bucato.
Per un attimo, un attimo da incubo, Luca pensò che avrebbe cominciato a dondolare spinto da una mano invisibile al ritmo di una ninna nanna stonata, ma il letto non si mosse di un millimetro. In compenso fece qualcosa di ancora più orrendo: prese a parlare.
66.
«Aiuto. Per favore mi aiuti».
Luca arretrò di due i dalla culla. La voce divenne più forte. «Non se ne vada. Non mi lasci solo».
Aveva lanciato un unico sguardo fugace scostando appena la tenda, eppure era sicuro di aver visto solo un piccolo cuscino nel lettino. Forse aveva intravisto un pigiama, un giocattolo, una copertina, ma di sicuro nessun essere vivente, tanto meno uno grande abbastanza da parlare con una voce maschile così profonda.
«Chi c’è?» domandò nella certezza di rivolgersi a un registratore.
Lo stupore aumentò ulteriormente quando ricevette risposta.
«Grazie al Cielo è arrivato, Luca».
Sa come mi chiamo. Come fa a saperlo?
Il cuore cominciò a battergli più forte. «Chi è lei?» chiese allungando la mano verso il baldacchino, con circospezione. Era ancora a un metro di distanza dal letto quando non se la sentì e fece un o indietro.
«Io sono quello che sta cercando» disse l’uomo, la cui voce roca e distorta gli era del tutto ignota.
Tirò la tenda. Per prima cosa vide il cuscino bianco, poi dei numeri ricamati di traverso sulla federa con del filo rosso.
13/11
Nel medesimo istante in cui Luca si rese conto che era la data odierna, vide anche la ricetrasmittente. La prese in mano, fissò incredulo il microfono e stava per lasciarla cadere per terra quando l’uomo gli rivolse di nuovo la parola. «Venga da me, la prego».
Solo in quel momento colse l’eco metallica, anche se la qualità del suono di quel piccolo strumento digitale era nettamente migliore rispetto a un normale telefono.
Si portò il dispositivo alla bocca e parlò nel microfono: «Cos’è questa storia?»
«Io… sono un conoscente…».
Prima ci fu un sibilo, poi un’interferenza guastò la comunicazione.
«… un conoscente di sua moglie. Per favore, mi aiuti».
«Dove devo venire? Dove si trova?»
Ci fu di nuovo un sibilo e l’uomo rispose piano: «Qua sotto. Sono in cantina».
67.
Per scendere nell’oscurità gli ci volle tre volte il tempo che aveva impiegato per correre al piano di sopra.
Luca aveva sempre evitato di trattenersi in cantina più a lungo del necessario. Non per via di una paura infantile, non perché temesse la presenza di qualche mostro senza volto nascosto dietro la caldaia, ma piuttosto perché era convinto che gli esseri umani non fossero nati per vivere negli sgabuzzini senza finestre, così come non erano nati per sfrecciare in aereo a diecimila metri d’altezza.
La cantina di una casa, per lui, era come il fondo tenebroso di un lago artificiale. E’ bello mantenersi sul pelo dell’acqua, mentre difficilmente viene voglia di sapere che cosa si muove sotto i nostri piedi. I più coraggiosi trattengono il fiato e si immergono per un paio di metri, ma fino in fondo, dove la melma cela i segreti del lago, ci si spinge solo con un motivo valido, ad esempio se si è perso qualcosa di valore: dei soldi o una chiave.
O la propria moglie.
La porta di legno, oltre la quale scendeva la scala di pietra grezza, era sbarrata dall’esterno. Chi lo stava aspettando era stato rinchiuso laggiù. Luca non era certo di voler davvero scoprire da chi.
Scostò il chiavistello, aprì la porta e si allungò verso l’interruttore a muro, un vecchio pulsante nero a farfalla. Sembrava un dado ad alette troppo grosso. Lo ruotò due volte in senso antiorario, poi nell’altra direzione. Restò tutto buio.
«C’è qualcuno?» chiamò verso il fondo della scala. Nessuna risposta. Il diodo luminoso della ricetrasmittente, che era appena baluginato, si spense di colpo. Gli venne in mente che la ricezione di alcune reti peggiorava quando si scendeva in cantina, d’altro canto aveva in mano un walkie-talkie che avrebbe dovuto funzionare a prescindere dalla rete mobile.
«C’è qualcuno là sotto?»
Scese di un gradino e il suo stomaco brontolò. Quel senso costante di malessere gli stava rimescolando le budella. Ancora una volta ignorò il grido di aiuto proveniente dal proprio corpo che lo supplicava di mettersi una buona volta sotto le coperte, trangugiare le pillole e dormire due giorni di fila. E invece trovò a tastoni una fune che l’ex proprietario aveva montato al posto della ringhiera e scese lentamente. Il precedente padrone di casa era uno psichiatra e aveva trasformato la cantina in base alle proprie necessità, rivestendo di legno le pareti e il pavimento con una moquette grigia di poco conto. Il minimo necessario per poter ricevere i pazienti. Livia e Luca si erano sempre chiesti chi avrebbe mai potuto trovare piacevole scendere in quella cantina per confidare a un estraneo i propri dolori più intimi. Inoltre, la vecchia casa emetteva spesso rumori indefinibili, tant’è che lì sotto era spaventoso anche solo stendere i panni.
«La vecchia signora respira» aveva sempre scherzato Luca, quando sentivano forte e chiaro quegli scricchiolii, quei gemiti, quei lamenti. La casa risaliva agli anni Venti e cominciava a soffrire di artrite.
In quel momento però non scricchiolava e anche i tubi del riscaldamento erano freddi e muti.
Luca raggiunse l’ultimo gradino e aprì alla cieca il quadro di distribuzione che si trovava in un angolo. ò le dita sugli interruttori fino ad afferrare l’accendino che aveva lasciato lì in caso di emergenza.
L’aura giallo zolfo della fiammella creò un’atmosfera quasi accogliente. Luca non capiva come mai la luce elettrica non funzionasse. Tutti gli interruttori erano intatti. Del resto, in quella notte senza fine c’erano altre cose, d’importanza vitale, che non capiva…
«Dove si trova?» chiese alzando la voce, anche per coprire quel ronzio nelle orecchie che stava diventando un’ossessione. Più il silenzio era assoluto, più i rumori del suo corpo uscivano alla ribalta.
Con l’accendino in una mano e la ricetrasmittente nell’altra imboccò il aggio che collegava la caldaia al vecchio ambulatorio. Avevano tolto quella brutta porta scorrevole a listelli e, nonostante la scarsa illuminazione, Luca vide che la piccola stanza era spoglia e completamente vuota.
Resta solo un posto.
Salì su un cavo arrotolato privo di alcuna funzione e tenne il braccio con l’accendino davanti a sé, come un tedoforo. La sua ombra si proiettava pochi metri dietro di lui.
Poco prima della porta tagliafuoco grigia fece una pausa e la concesse anche al suo pollice affaticato. L’oscurità lo avvolse come un manto non appena la fiammella si spense. Appoggiò a terra la ricetrasmittente ormai inutile, fece ruotare ancora una volta la scocca e protesse l’accendino con le mani a coppa
quando la fiamma cominciò a tremolare.
Poi, sebbene ogni particella del suo corpo gli si rivoltasse contro, spinse la pesante porta di ghisa ed entrò nel locale della caldaia. Lo spavento fu tale che dovette urlare.
68.
«Cazzo, ma lei chi è?» domandò dopo essersi ripreso quel tanto che bastava per reprimere l’impulso di correre via. Le fatiche fisiche delle ultime ore lo avevano reso ipersensibile e ancora di più incline al panico. Gli ci voleva sempre di più per tornare tranquillo.
L’uomo, che era terrorizzato almeno quanto lui, giaceva in mezzo al locale, disteso nel telaio di un letto da camping senza materasso.
«Grazie al Cielo!» si lamentò debolmente.
Alzò il capo. Non poteva muovere nient’altro, poiché mani e piedi erano ammanettati alla struttura metallica. La fiamma dell’accendino si rifletteva nel boiler accanto a lui e, per quel poco che Luca poteva distinguere con un’illuminazione così fioca, l’uomo aveva una giacca e una cravatta annodata fino al mento. Difficile dargli un’età. Le persone molto alte tendono a sembrare più vecchie di quanto non siano.
«Cosa diavolo ci fa quaggiù?» domandò Luca avanzando di un o.
«Acqua».
Lo sconosciuto strattonò le manette. I suoi capelli biondi erano in pieno scompiglio: sembrava la versione in carne e ossa di un personaggio dei fumetti che aveva appena preso la scossa.
«Per favore, mi porti dell’acqua». Nel pronunciare l’ultima parola gli mancò la voce.
«Non prima di sapere com’è finito qui».
Un odore di urina gli arrivò alle narici. Evidentemente l’uomo se l’era fatta addosso. Dalla paura o perché lo tenevano prigioniero lì dentro già da parecchie ore.
Ma chi?
Per un attimo Luca si domandò se non gli convenisse tornare fuori e chiamare Viola. Non sapeva ancora se fidarsi di lei e poi dubitava fortemente che la donna, nelle condizioni in cui era, potesse essergli di grande aiuto.
«Chi è lei?» ripeté Luca.
«Io…». L’uomo fece una pausa per umettarsi il labbro protruso con la lingua. «Io sono qui per metterla in guardia».
«Da che cosa?»
L’uomo ammanettato girò la testa e guardò verso l’altra estremità del locale
immersa nel buio, là dove a suo tempo c’era stato un mangano per il bucato.
«Dal libro».
«Che libro?»
L’uomo lo guardò di nuovo negli occhi. Senza rendersene conto, Luca si trascinò indietro di un o.
«Mi chiamo Roberto Anselmi» disse il prigioniero e la sua voce suonò d’improvviso monocorde, come se stesse recitando un testo imparato a memoria. «Sono l’avvocato di sua moglie».
Sciocchezze.
«Lei mente». Luca parlò a voce così alta che la fiamma tremolò di nuovo. «Mi sono sempre occupato personalmente delle sue faccende legali».
«No, lei non mi sta ascoltando. Non ero né il vostro avvocato né l’avvocato di famiglia, ma solo quello di sua moglie».
L’uomo lasciò cadere il capo sulle molle e la branda scricchiolò.
L’avvocato di Livia? E perché mai avrebbe dovuto far gestire le sue cose a un estraneo?
«Prima dell’incidente è venuta da me» sussurrò l’uomo.
«E per quale motivo?»
«Per cambiare il testamento».
Per cambiarlo? Fino a quel momento Luca non sapeva nemmeno che ne esistesse uno.
«Suppongo abbia agito sotto pressione del padre» aggiunse il prigioniero.
«Io non ci sto capendo niente. Che cos’ha cambiato? E cosa c’entra sco?»
L’avvocato lanciò di nuovo uno sguardo di sbieco verso l’angolo buio alla sua destra. «Si ricorderà di sicuro della sceneggiatura che sua moglie aveva il compito di scrivere».
«Sì».
Volevamo festeggiare proprio per quella ragione, il giorno dell’incidente.
«Sa per quale prezzo l’agente di Livia l’ha venduta alla casa di produzione americana?»
«No».
«Un milione e duecentomila dollari».
Luca rise, scettico. «Lei mente».
«Ne è proprio sicuro?» tossì l’avvocato.
«Nessuno paga così tanto per un’opera prima. E poi Livia me l’avrebbe detto. Non c’erano segreti tra noi».
«Ne è sicuro?»
No, non lo sono. Da oggi nella mia vita non ci sono più certezze.
«Io l’ho letta» disse l’uomo con voce rotta. «Ecco perché sono qui. Chiami questo numero. E’ contenuto nella sceneggiatura. 348-6825498».
«Era ora, grazie al Cielo!»
Il destro di un pugile professionista non avrebbe potuto colpirlo più forte di così. Era Livia, quella era indiscutibilmente la sua voce. Aveva risposto già dopo il secondo squillo. La sua voce suonava un po’ insicura e un po’ triste, ma restava inconfondibile come un’impronta digitale.
«Era ora che mi chiamassi».
Quel timbro lievemente roco, quasi un perenne sintomo di stanchezza che si sentiva soprattutto la mattina al risveglio, gli era mancato come il suo tocco, come il biascichio che faceva con la bocca quando sognava o la risata che lo aveva sempre contagiato anche nei momenti tristi.
«Livia» rise tra le lacrime. «Dove sei?»
Per un attimo, che bastò a fargli scendere nuove lacrime lungo il viso, dimenticò tutte quelle assurdità.
L’incidente. Il suo ritorno. Il senzatetto. L’avvocato che mi sta alle spalle e continua a elemosinare un goccio d’acqua.
La gioia di sentirla era incontenibile.
«Mi dispiace tanto, ti giuro che tutto tornerà come prima».
«Cosa? Di cosa stai parlando?» strillò Luca, come se avesse potuto costringere l’interlocutore a dare una spiegazione solo urlando forte.
«Prima o poi ti spiegherò tutto. Presto, molto presto. Devi solo resistere qualche ora».
Qualche ora? E poi cosa succederà?
Si trovò a pensare al cuscino ricamato a mano nel lettino al piano di sopra, alla data sulla federa, il 13 novembre.
Oggi mancano dieci giorni alla data che il ginecologo aveva indicato come possibile giorno del parto.
«Non ti preoccupare, tesoro, davvero. Si chiarirà tutto!»
Preoccuparmi! Io sto perdendo il senno.
«Ascoltami: se sei ancora in cantina, vattene. Vattene subito».
Avvertì una fredda corrente d’aria, così forte da rischiare di spegnere la candela. Solo all’ultimo momento la fiamma si riprese.
«Perché ti sei dimenticato una cosa».
«Che cosa?» chiese di nuovo alla ricetrasmittente.
«Roberto Anselmi».
Dietro di lui si mosse un’ombra scura.
«Non gli hai controllato le manette».
Luca si voltò di scatto, lasciò cadere il cellulare e alzò le mani davanti al viso in segno di difesa, ma era troppo tardi. Dopo una fitta di dolore acutissima, la sua coscienza soffocò nel buio più nero. La luce della candela si smorzò ancor prima che il colpo lo fe crollare a terra.
69.
All’inizio pensò di stare sognando. Eppure gli sembrava di trovarsi in un negozio di anticaglie il cui proprietario brizzolato l’aveva sistemato su un divano che puzzava di tabacco e di camino e i cui cuscini erano così imbottiti che avrebbero potuto benissimo soffocare qualcuno. Voleva sollevare un po’ il capo, incastrato com’era contro un poggiatesta, ma la cosa si rivelò ben presto un’impresa impossibile, a patto di non rotolare su uno dei tanti tappeti che coprivano il pavimento.
«Dove sono?» domandò e pensò subito all’avvocato cui aveva negato l’acqua.
Si toccò la testa che gli girava e si rese conto che la sua manica destra era stata tirata su. Nella piega del braccio vide il classico cerotto da prelievo.
Luca batté gli occhi in preda allo stupore e anche questo gli fece male. Una secrezione lattea gli teneva incollate le palpebre.
«Non si preoccupi, è tra amici» disse l’antiquario. Dopo essersi spazzato via quello strano umore dagli occhi, Luca poté percepire meglio ciò che lo circondava. Oltre al sofà, c’era una poltrona a orecchioni talmente alta che chi ci si fosse seduto sopra avrebbe potuto vedere in un colpo solo il caminetto, il divano e pure fuori dalla finestra. Quell’oggetto era anche l’unico ad avere un senso. Il resto del mobilio - scaffali, comò, sedie, un secrétaire e persino un servo muto - sembrava messo alla rinfusa e non concordava per stile e colore. Il disordine gli ricordava quello di casa sua, mancavano solo i cartoni del trasloco. In compenso c’erano libri e riviste specialistiche di medicina in ogni angolo.
«Tra amici?» Luca si girò verso il caminetto.
Da un lato della stanza c’erano Viola e suo fratello accanto al vecchio sconosciuto. Mentre Lorenzo aveva il medesimo aspetto del loro ultimo incontro - spossato, barba lunga, pantaloni pesanti e bomber - Viola sembrava essersi un po’ ripresa e aveva una fasciatura bianca sopra l’orecchio destro. Qualcuno doveva essersi preso cura della sua ferita e Luca, quando osservò meglio i diplomi in medicina sopra il camino, capì chi poteva essere stato.
«Lei chi è?» chiese all’uomo che evidentemente non era un semplice antiquario.
«Sono il professor Franzo Bessone» rispose il vecchio sorridendo.
«E come sono arrivato qua?»
«Deve ringraziare suo fratello. Ci ha pensato lui a portarla da me».
Luca si girò verso Lorenzo e solo in quel momento si accorse che alcuni dei sintomi erano scomparsi. Stava ancora male e nella sua testa c’era un baccano da fiera, ma a parte questo non si sentiva più a pezzi come nelle ultime ore. Si domandò cosa gli avesse dato il professore.
«Vi ho seguito» spiegò Lorenzo senza che gli fosse stato chiesto.
«E perché mai?»
«Lo sai perché».
Luca annuì e avvertì una fitta alla nuca. Si augurò che dopo la caduta in cantina la scheggia non si fosse avvicinata ulteriormente alla colonna vertebrale e che avesse toccato un nervo.
Sì, lo so perché. Per lo stesso motivo che mi aveva portato da te.
«Mi hai chiesto aiuto, idiota e sai benissimo l’effetto che ha su di me una richiesta del genere».
«Però hai tagliato la corda».
«Sì, avevo qualcosa di molto urgente da fare. Poi, in macchina, ho avuto i rimorsi di coscienza. In fin dei conti sei pur sempre mio fratello, poco importa quel che è accaduto tra noi».
«Che caso, non è vero?» lo schernì Viola, che era vicino alla finestra. «Prima ci vuole ammazzare, poi d’improvviso compare dal nulla al posto giusto e al momento giusto».
Luca non raccolse la provocazione. «Come hai fatto a trovarmi?» chiese a suo fratello.
«Credi forse che abbia perso il mio intuito?»
Gli venne da scuotere la testa, poi si ricordò appena in tempo del nervo bloccato.
«Volevi vedere Livia e c’era un solo posto da dove avviare la ricerca. Casa vostra».
Luca racimolò le forze e si sollevò sul grosso cuscino. Per un momento gli parve che la stanza girasse tutta, prima in senso orario, poi in senso antiorario. Si stupì, comunque, della rapidità con cui riacquistò il controllo di sé non appena si fu raddrizzato. Il senso dell’equilibrio gli tornò lentamente e anche quel fastidioso malessere scivolò via.
«Per farla breve, sono venuto alla villa e davanti alla porta ho visto il maggiolino in cui dormiva questa matta». Lorenzo indicò Viola con fare sprezzante. «Allora ho aspettato un po’ e dopo venti minuti, visto che non eri ancora uscito, sono entrato io e ti ho trovato in cantina».
Luca guardò prima Lorenzo, poi Viola e infine fuori dalla finestra, all’altra estremità di quella stanza che il professore, evidentemente, aveva adibito sia a salotto, sia a studio. L’edificio in cui si trovavano non poteva essere più grande della “loro” villa, forse era solo una capanna nel bosco. A o di questa ipotesi, accanto al camino c’era della legna che sembrava raccolta, non acquistata. Inoltre, fuori c’erano solo alberi.
«E l’avvocato?» chiese Luca afferrandosi il retro del cranio. Sentì un bernoccolo circa cinque centimetri sopra la fasciatura.
«Di che avvocato parli? Non c’era nessuno là».
Le budella di Luca si rivoltarono in preda ai crampi. «E la sceneggiatura?»
«Senti un po’, non è che mi sia guardato granché attorno dopo averti trovato sul pavimento privo di sensi. Ti ho trascinato fuori e ti ho portato dal dottore. E con questo siamo pari una volta per tutte».
Incrociò le braccia davanti al petto mentre Viola tirava su col naso come se volesse sputare per terra.
«Non credo a una sola parola».
«Io sì» ribatté Bessone, che aveva seguito lo scambio di battute dalla poltrona. L’anziano lanciò a Lorenzo uno sguardo carico di significato.
Lorenzo sorrise e tirò su la cerniera del bomber. «Tenga pure la sua conferenza, io intanto vado fuori a fumare».
«Venga» disse a Luca, come se Viola non fosse più della compagnia. «Facciamo due i».
70.
Il lago formava una curva a U attorno alla piccola baita. Quando uscirono sul retro, all’aria fresca, un uccello predatore stava disegnando ampi cerchi sopra le acque mosse. Il vecchio cane di Bessone si precipitò sulla riva e saggiò l’acqua con le zampe anteriori, terrorizzando numerose anatre e un cigno. I volatili emisero dei versi gorgoglianti e starnazzarono senza sosta, poi giunsero alla conclusione che i nuovi arrivati non rappresentavano alcun pericolo per loro e si rimisero tranquilli.
«Stai buono, Tarzan» disse Bessone. Fino a pochi minuti prima il cane color sabbia col muso bianco era rimasto così quieto nella sua cesta che Luca si era accorto di lui solo quando si era destato, in preda agli sbadigli, per accompagnare lui e il suo padrone a fare due i.
«Gli uomini fanno sempre l’errore di dar da mangiare alle bestie selvatiche» disse il professore, lo sguardo fisso sull’acqua. Avevano lasciato Viola da sola in soggiorno, cosa che Luca trovò quanto meno bizzarra, dato che il medico non aveva l’aria di uno che si fidasse subito degli estranei. D’altra parte c’era qualcosa nei suoi occhi che tradiva un antico trauma cui era sopravvissuto, infinitamente più spaventoso di quello che ora avrebbe potuto aspettarsi di ricevere da una donna ferita o da un suo ex paziente.
«In questo modo interferiamo con la catena alimentare, li abituiamo alla nostra presenza. E questo è sbagliato» proseguì Bessone.
«Gli uomini lo fanno per amore degli animali» disse Luca, che con Livia aveva spesso gettato vecchi crostini di pane ai cigni di un laghetto non lontano dalla loro “villa”.
«Sì, ma è comunque un errore». Bessone tirò ancora più su la cerniera del giaccone di lana. «E una cosa sbagliata non può mai essere giusta».
Continuarono a camminare lungo la riva e Luca si chiese se si stessero davvero riferendo agli animali selvatici. In vita sua, fino all’inizio di quella vicenda, aveva sempre sposato il motto che il fine giustifica i mezzi. Di sicuro Bessone era al corrente della falsa testimonianza che alla fine aveva condotto Lorenzo in manicomio.
«Sembra piuttosto disorientato» disse Bessone arrivando al punto.
Un grande canneto si frapponeva tra il lago e il sentiero che saliva dolcemente lungo la riva.
«Sì». Luca inspirò l’aria insaporita dall’umidità del bosco che si estendeva a destra del sentiero. «Non mi fido più dei miei ricordi».
Luca fece una sintesi di ciò in cui era incappato fino a quel momento, concludendo con quanto era accaduto nella cantina della vecchia casa. «Cosa ne pensa? Ho perso il senno?»
Bessone si fermò e guardò Tarzan che cercava continuamente di farsi strada tra le canne fino al lago. Ogni volta che i gambi gli pizzicavano il muso, era costretto a fermarsi.
«Lei è il primo a mettersi in discussione. Non è una cosa comune tra i malati mentali, che anzi fanno di tutto per giustificare la loro condizione con teorie zoppicanti. Come Viola, ad esempio».
Luca lo guardò dritto negli occhi. Le nuvolette dei loro fiati s’incrociarono.
«Ritiene che sia malata?»
«Solo un ciarlatano lo diagnosticherebbe così in fretta. Tuttavia, resta il fatto che, al contrario di lei, la signora Viola non si pone la domanda decisiva».
«Sono impazzita?»
Bessone annuì. «Mentre lei dormiva, ho parlato a lungo con Viola, aveva l’aria inquieta, nervosa, distratta e non faceva altro che cercare prove a sostegno della sua teoria del complotto».
«Crede quindi che sia paranoica?»
«Lei no?»
Arrivarono a una panchina che aveva visto tempi migliori. Lo schienale era in condizioni pietose e anche i braccioli parevano non essere più in grado di sopportare una pressione superiore alla norma. Bessone ci appoggiò sopra un piede e rimosse una foglia che si era incollata alla suola.
«Quindi proviamo a ipotizzare che lei sia in salute, Luca, sorvolando sulle sue ferite e su quegli occhi appannati che mi danno molto da pensare, ma almeno non dovrebbe avere nessun disturbo psicosomatico. La casa, il lago, il bosco, tutto è reale e noi due siamo davvero impegnati in questa conversazione. Come si spiega quanto accaduto finora?»
Tarzan trotterellò da loro. Solo in quel momento Luca si rese conto che l’anziano cane evitava di spostare il peso su una delle zampe posteriori.
«E’ possibile che mi abbiano già cancellato la memoria?» azzardò. «Forse la prima volta non ha funzionato, così alcuni eventi della mia vita ata mi tornano in mente d’improvviso».
«Possibile». Bessone alzò gli angoli della bocca, dubbioso. «O forse è accaduto proprio il contrario».
Si girò e lanciò un bastoncino nella direzione da cui erano venuti. Tarzan lo andò a recuperare con un’andatura un po’ fiacca.
«Cosa intende?»
«Non ne parlo volentieri, ma anch’io per un breve periodo ho sofferto di un’amnesia quasi totale. Una perdita di memoria scatenata da un trauma che volevo sopprimere a tutti i costi». Il professore si massaggiò nuovamente il polso. «La strada che ho dovuto percorrere per recuperare la memoria è stata orribile, ma mi ha insegnato una cosa».
«Cosa?»
«Che la verità è spesso il contrario di quel che crediamo».
Si allontanò da lui e seguì il cane, che aveva imboccato la via del ritorno. Luca tentennò per un attimo, poi si dovette dare una mossa per stare al o di Bessone.
«Lei teme che la sua memoria sia stata manipolata. Cancellata. Forse addirittura una seconda volta» disse Bessone senza guardarlo. «Che cosa succederebbe se fosse cancellata proprio adesso, in questo preciso momento?»
Luca raggelò. «E come potrebbe succedere?»
«Dunque, io non sono sicuro di come la clinica Borromei possa provocare un’amnesia artificiale ai pazienti. Finora la perdita di ricordi è stata sempre un effetto collaterale involontario. Potrei supporre che utilizzino sui volontari una terapia basata sullo shock. E in fondo non è quello che è accaduto a lei? Un fatto traumatico che allontana quello che lo precede».
«Perché mai dovrebbero fare una cosa del genere?»
Erano quasi arrivati alla baita. Dietro la veranda si udivano delle voci, con tutta probabilità quelle di Viola e Lorenzo intenti a conversare.
«Affinché lei dimentichi qualcosa. Il punto è cosa».
Luca chiuse gli occhi e ripescò una sequenza di un sogno fatto poc’anzi.
«Vorrei che non fossi venuto a saperlo. Non così presto, almeno».
«Non lo so» disse in tutta franchezza.
«E allora faccia uno sforzo, lo riporti alla memoria». Il professore si fermò e lo squadrò con fare penetrante. «Si ricordi ciò che vuole dimenticare!»
«Ma come, come faccio a…?»
L’orologio al polso di Luca gracchiò. Egli frugò nella tasca del giaccone, poi si diede una manata sulla fronte.
«Che cosa c’è adesso?» chiese Bessone. Anche il cane pareva guardarlo con curiosità.
«Devo prendere le pillole, ma le ho dimenticate in macchina».
«Che pillole?»
Luca si toccò la fasciatura.
«Ah sì». Bessone si mosse di un o attorno a lui. «Mi fa piacere che ne parli».
«Eh?»
«Prima, mentre controllavo la testa in cerca di ferite o lividi, mi sono permesso di cambiarle la fasciatura. Perché la porta?»
«Ho una scheggia nel collo».
Il professore inarcò le sopracciglia, incredulo.
«Ne è proprio sicuro?»
«Certo. Ehi, cosa sta facendo?»
Luca non riuscì a reagire abbastanza in fretta da impedire al vecchio di togliere con un sol gesto i cerotti color salmone che assicuravano la benda al collo.
«Ovviamente non può vedere, ma si tocchi il collo senza paura».
E perché mai dovrei? sco mi ha detto che deve rimanere sterile.
«Su, coraggio». Bessone gli guidò la mano e Luca ebbe un sussulto. Non di dolore, ma perché non sentì nulla. Nulla, se non pelle nuda e sana.
«Lei non ha alcuna ferita» disse Bessone a conferma dei suoi peggiori presentimenti.
Nessuna scheggia.
«E non sembra nemmeno che ce ne sia mai stata una».
71.
La neve arrivò senza preavviso. La sua consistenza era ancora troppo fine e ariosa per attecchire, eppure, quando si congedarono, Bessone gli consigliò di abbandonare il bosco prima possibile. L’automobile a noleggio, con la quale Lorenzo li aveva accompagnati fino a lì, sarebbe rimasta impantanata nella stradina forestale se la neve fosse scesa più fitta. E ciò era probabile, considerando che il professore si sfregava i polsi ancor più nervosamente di quanto avesse fatto dall’inizio della loro conversazione.
Luca non riusciva a spiegarsi questa preoccupazione riguardo al tempo, ma effettivamente Lorenzo dovette accendere gli abbaglianti dopo pochi metri e azionare il funzionamento rapido del tergicristallo. Dieci minuti dopo si aveva l’impressione che la macchina non stesse più viaggiando sul suolo ricoperto di foglie, ma in una densa nube sopra la città.
«Di cosa avete parlato tu e il professore così a lungo?» chiese Lorenzo e tamburellò nervosamente con le dita sul volante. La sua voce suonava preoccupata e un po’ diffidente.
«Stai tranquillo. Non mi ha detto nulla su di te che già non sapessi».
Poi raccontò a suo fratello del nuovo mistero svelato durante la eggiata.
«Nessuna scheggia?» chiese Lorenzo.
«Nessuna scheggia» confermò Luca e si girò in maniera tale che Lorenzo potesse vedere la sua nuca.
«Inoltre mi ha spiegato che per una scheggia del genere non si prescrivono farmaci immunosoppressori. Piuttosto degli antibiotici per combattere l’infezione».
Lorenzo scosse stupefatto la testa.
Percorsero un sentiero pieno di buche e Luca non riusciva a rendersi conto di dove fossero. Solo quando imboccarono una strada abbandonata ma asfaltata, la visibilità migliorò e lui intuì in quale parte della città si trovassero.
Ci era venuto una volta con suo fratello. Anni prima. Quando l’odio tra loro era solo un presagio oscuro. Lì vicino doveva esserci la cava di ghiaia abbandonata in cui avevano affondato la macchina del padre.
«L’una meno un quarto del 13 novembre. Ci stiamo dirigendo verso la parte settentrionale della città» sentì dettare Viola al suo cellulare. «Nonostante tutti gli avvertimenti, Luca Bernardi vuole raggiungere la villa di suo suocero, il professor sco De Sanctis».
sco.
Chiudendo gli occhi Luca riuscì a isolarsi dalla voce di Viola. Pensò all’uomo di cui si era fidato più che di se stesso, con cui aveva condiviso gli innumerevoli
stati della sua coscienza emozionale: gioia, lutto, rabbia, ansia, euforia e depressione abissale.
Aveva ammirato sco, una persona integra, un uomo con cui condivideva l’impostazione politica conservatrice, ma che rispettava per i suoi principi e per l’amore che dimostrava a chiunque la sua unica figlia fosse affezionata. Un amico, un confidente e un mentore. E ora sembrava essere l’artefice di un piano che avrebbe dovuto farlo impazzire.
Luca si volse verso Lorenzo e si rese conto per la prima volta che la benda dietro al collo non gli dava più fastidio. Era una sensazione gradevole e allo stesso tempo spaventosa.
Oltrearono un segnale che indicava la SS113. Dall’altro lato della strada, un capannello di persone si era riparato sotto una fermata coperta dell’autobus per proteggersi dalle intemperie, ma il vento soffiava la neve quasi orizzontalmente lungo le strade e i marciapiedi e risparmiava solo quelli che si trovavano più all’interno del gruppo.
Nonostante il riscaldamento dei sedili al massimo e il regolatore dell’aria calda che soffiava direttamente sul petto, Luca si sentì indifeso come quei anti, ma il freddo cui era esposto era di altra natura. Arrivava da dentro.
sco.
Due volte la settimana era andato a cambiare il bendaggio. Due volte la settimana il suocero si era occupato personalmente di lui, invece di affidare il compito alle infermiere e Luca si era sentito beneficiario di un trattamento di
favore. Aveva temuto la paraplegia, gli era stato consigliato di evitare movimenti bruschi, non doveva né fare sport né toccare la ferita, neppure bagnarla, per cui persino fare una normalissima doccia diventava un atto di equilibrismo.
Erano tutte menzogne con un unico scopo.
Nessuna scheggia. Nessuna ferita. Nessun motivo per dover prendere a cadenza regolare le pillole.
Ecco perché i medicinali non erano disponibili presso il farmacista. Sicuramente non erano immunosoppressori quelli che doveva ingerire ogni giorno ma pillole che probabilmente servivano a confonderlo, a paralizzarlo o addirittura ad alterarlo.
Luca tirò fuori dalla tasca della sua giacca la bustina di plastica con i farmaci non pagati e prese un’aspirina. Anche se si sentiva meglio di alcune ore prima, la sintomatologia di base, ossia le vertigini, la nausea e la pesantezza plumbea negli arti, non era sparita.
«Che cosa mi ha dato Bessone?» domandò a Lorenzo e si chiese come avrebbe reagito il suo stomaco se avesse mandato giù le pillole senz’acqua.
«Niente».
Improvvisamente suo fratello svoltò a destra e prese l’imbocco per l’autostrada. I tergicristalli lottavano incessantemente contro i fiocchi di neve, che pur non
rimanendo attaccati al parabrezza peggioravano lo stesso la visibilità.
«Il caro professore non aveva niente di utile nella sua capanna» spiegò guardando la bustina nelle mani di Luca. «L’ultima aspirina l’abbiamo data alla tua amica lì dietro».
E il cerotto allora? La puntura sul mio braccio? voleva chiedere Luca, ma poi si ricordò del prelievo di sangue alla clinica Borromei. I test per l’esperimento di amnesia cui non aveva mai partecipato, ma nel quale sembrava trovarsi coinvolto.
Forse mi sento meglio perché l’effetto delle pillole sta svanendo. Da quando non le prendo più, la vista sembra migliorata. Probabilmente ho avuto solo una breve crisi di astinenza e ora mi sto riprendendo.
Viaggiavano sull’autostrada deserta in direzione nord. Contrariamente alla pioggia che regolarmente intasava le vie della città, la prima neve aveva sempre un effetto depurativo. Le strade si svuotavano e, se si era coraggiosi o si guidava una macchina sicura, si riusciva ad avanzare più velocemente del solito. Adesso anche le luci delle altre macchine erano così distanti che si distinguevano a malapena.
La visibilità esterna era nebulosa quanto lo sguardo interiore di Luca. Ancora non aveva la minima idea di quale ruolo giocasse Livia nella messinscena folle di quest’assurdo copione, di cui lei doveva essere l’autrice. Un copione che sembrava prevedere in anticipo tutti i traumi che lui si trovava a vivere. Com’era possibile? Perché c’era una culla nella loro camera? E perché Livia aveva voluto cambiare il testamento, come aveva affermato l’avvocato misterioso? Per di più, quest’ultimo esisteva veramente? O esisteva come la clinica Borromei che si era volatilizzata davanti ai suoi occhi?
E anche questo indizio invisibile mi riporta a sco, concluse Luca sovrappensiero.
Doveva dimenticare.
Ma cosa?
Che cosa dovrà accadere oggi, il 13 novembre?
La voce del professor Bessone risuonò nella sua testa:
«Si ricordi ciò che vuole dimenticare!»
Come doveva fare?
Il cellulare di Lorenzo squillò e lo svegliò dai suoi pensieri.
«Che cosa c’è?» chiese quando vide oscurarsi il viso di suo fratello dopo aver letto il messaggio e riposto il telefono nella console tra i sedili anteriori.
«Niente, solo un cambiamento di programma».
«Che cosa significa?»
«Non ti posso accompagnare ancora per molto, Luca. Ho già perso troppo tempo».
«Tempo per cosa?»
Lorenzo sorrise tristemente. «Non ti deve interessare. Ho chiesto un prestito alle persone sbagliate e…».
All’improvviso Viola lanciò un urlo. Contemporaneamente Luca fu trattenuto dalla cintura di sicurezza e gli volarono per aria le braccia.
«Maledizione, ma che razza di pazzo è quello?» urlò Lorenzo e suonò il clacson furioso. Troppo tardi per carpire anche solo delle scuse al conducente che gli aveva appena tagliato la strada.
Luca rimase agghiacciato.
La macchina che aveva improvvisamente cambiato corsia davanti a loro e che ora stava sfrecciando verso l’uscita dell’autostrada, era una station wagon come ce n’erano migliaia in giro.
La targa era illuminata ma non si riusciva a decifrare per via della sporcizia e della fanghiglia. Ciò nonostante Luca non aveva dubbi sull’identità di chi li aveva appena sorati: si trattava della Volvo gialla che Viola aveva fotografato. E con una probabilità che sconfinava nella certezza, seduta nel sedile del eggero, c’era una donna bionda che si era voltata verso di loro.
72.
«Seguili!» strillò Luca e, prima che Lorenzo potesse protestare, afferrò il volante. La macchina virò a destra. L’impatto con cui furono scaraventati in avanti aveva la violenza di un tamponamento e a Lorenzo non restò che frenare immediatamente per riprendere il controllo della vettura.
«Che cosa fai?» urlarono quasi contemporaneamente Lorenzo e Viola, che fortunatamente dietro aveva la cintura di sicurezza.
«Livia» fu tutto quello che Luca riuscì a dire, indicando dinanzi a loro.
«Dove?» Lorenzo fu costretto a immettersi nell’uscita dell’autostrada.
«Là, nella Volvo».
«Sei matto?»
«Per favore!» Luca sentì la disperazione nella propria voce. «Fammi questo favore».
Suo fratello scosse la testa come se si stesse chiedendo perché si lasciava sempre convincere, ma accelerò.
Schizzarono lungo la strada, superando l’aeroporto in disuso.
«Potrebbe aver ragione!» confermò anche Viola, che si aggrappava alla maniglia sopra la portiera. Davanti a loro la Volvo sorò una corriera che occupava due delle tre corsie. Inoltre, a una distanza di cento metri, la carreggiata si restringeva per via di un camion in panne. Al momento, la Volvo non si vedeva più e non c’era nessuna possibilità di sorare, ma Lorenzo continuava a correre alla stessa velocità verso la coda che si era formata.
«Frena!» urlò Luca preparandosi al peggio, ma suo fratello invece di rallentare girò di scatto il volante in direzione del marciapiede. Viola riprese a strillare e l’unica cosa che impedì a Luca di fare lo stesso fu il suo sbigottimento. Pochi secondi prima aveva dovuto spronarlo e adesso sembrava che volesse ammazzarli tutti. Solo quando furono all’altezza dell’uscita per l’aeroporto, Luca riuscì a parlare. «Smettila, non ne vale la pena».
Lorenzo guardò nello specchietto retrovisore, poi di nuovo davanti a sé.
«Solo per vostra informazione, questo non è un inseguimento».
«Ma?»
«Una fuga».
Luca si girò.
Cazzo, ma cos’è quello?
Il motociclista era proprio dietro di loro e, come Lorenzo, se ne fregava del codice della strada. Invece di un casco, portava una maschera da sci nera con un foulard blu scuro davanti alla bocca. L’uomo guidava una moto da cross con una mano sola, mentre con l’altra si stringeva qualcosa all’orecchio.
«Chi diavolo è quello?»
Lorenzo prese in mano il suo cellulare, su cui sembrava aver ricevuto un altro messaggio e tornò sulla carreggiata sfrecciando in mezzo a un parcheggio vuoto. L’inseguitore senza volto li seguì.
«Un uomo di Tommy» spiegò Lorenzo e ripose nuovamente il suo cellulare dopo aver gettato un breve sguardo al display.
«Tommy? Lavori ancora per quello psicopatico?»
Proprio in quel momento, una luce lampeggiò di lato. Luca capì cos’era quando si accorse che Lorenzo aveva appena oltreato un semaforo rosso a cento chilometri orari e anche il motociclista dietro di loro aveva ignorato lo scatto dell’autovelox.
«Là, davanti a noi!» gridò Viola e indicò la Volvo gialla che era finalmente riapparsa.
Viaggiavano ora lungo un viale trafficato e l’unica cosa che li costrinse a rallentare furono i numerosi furgoni parcheggiati in seconda fila.
Venti secondi dopo, soltanto una Smart li separava dalla station wagon gialla e la moto sembrava sparita, cosa di cui Luca si rese conto solo quando non sentì più il rombo alle loro spalle.
«Lo abbiamo seminato?» chiese dopo che Lorenzo aveva di nuovo ignorato un semaforo rosso, questa volta per girare a destra. Nel frattempo aveva smesso di nevicare.
«No» rispose Lorenzo e Viola gridò ancora perché la motocicletta comparve all’improvviso dall’uscita di un cortile alla loro destra e l’uomo con la maschera da sci si trovò vicino al suo finestrino.
«Ha un’arma» urlò lei e si chinò. Lorenzo inchiodò prima che l’uomo potesse premere il grilletto e questa volta l’impatto fu talmente forte che li scaraventò in avanti. Un grosso fuoristrada dietro di loro non era riuscito a frenare in tempo e ora li stava spingendo di traverso con tutto il suo peso.
«Porca puttana!» gridò Luca, ma era troppo tardi. Nella frazione di un secondo, mentre la macchina ancora girava su se stessa, si sentì catapultato negli ultimi attimi dell’incidente con Livia: lo scoppio della gomma, il volante fuori controllo e gli alberi che si lanciavano su di loro. E quella foto sgranata e indecifrabile che lei gli aveva mostrato poco prima.
Poi udì uno schianto, non nei ricordi, ma nel presente. Avevano investito la moto e l’uomo con la maschera da sci sparì lateralmente sotto il radiatore. Dopo lo stridio di uno scivolamento lunghissimo, la vettura finalmente si arrestò.
Lorenzo fu il primo a spalancare la portiera dopo un attimo di shock, mentre Viola, illesa, rimase seduta sul sedile posteriore tremando come una foglia. «Dov’è finito?»
Lorenzo e Luca si guardarono perplessi.
La moto si era incastrata sotto il cofano, ma il motociclista era sparito.
Immediatamente un gruppo di curiosi accorse intorno a loro e il traffico si fermò su entrambe le corsie, mentre i clacson presero a suonare.
Luca andò a verificare che l’uomo non fosse stato scaraventato sotto l’altra macchina.
«Siete impazziti, idioti che non siete altro?» strepitò il conducente del fuoristrada che stava controllando la griglia cromata ammaccata. L’uomo era sulla cinquantina e indossava solo dei pantaloni della tuta e una maglietta. Portava ai piedi degli stivali di gomma verde militare. «Che cazzo vi dice il cervello?»
Luca lo ignorò e non si abbassò nemmeno per cercare il motociclista scomparso. Era troppo esterrefatto alla vista del contenuto del baule della macchina di Lorenzo, il cui portellone era stato sbalzato in alto dall’urto.
Che roba è?
Accanto a un borsone da vela si trovavano numerose armi: due coltelli, una pistola, un fucile a pompa; Luca credette di intravedere anche delle cesoie da giardinaggio che giacevano sopra una busta di plastica in cui stagnava un liquido rosso.
Prima di riuscire ad allungare la mano, fu afferrato di colpo da qualcuno.
«Lascia stare!» lo aggredì Lorenzo.
«Ma cosa significa?»
Luca indicò il bagagliaio che suo fratello stava cercando di chiudere spingendo giù il portellone con ambo le mani.
«Sì, che cazzo significa? Perché avete inchiodato, brutti stronzi?» ruggì il tipo in tuta dietro di loro. «Guardate cosa cazzo avete combinato, porca puttana!»
Dal fondo del viale sentirono avvicinarsi le sirene della polizia.
«Vattene, qui ci penso io» disse Lorenzo e sbatté violentemente il cofano.
Luca fissò incredulo la parte posteriore devastata della berlina.
«Te lo spiegherò più tardi, giuro. Adesso non c’è tempo».
Lorenzo guardò l’incrocio dove, poco prima che l’incidente avesse bloccato il traffico, la Volvo era sparita.
«Questo viale è sempre intasato. Forse riesci ancora a beccarla».
Suo fratello dovette ripeterglielo nuovamente perché Luca riuscisse a riacquistare il controllo di sé e a riprendere l’inseguimento a piedi.
73.
La sua corsa non durò a lungo. Ed ecco che la rivide.
Livia.
L’autista della Volvo la fece scendere e proseguì per un isolato entrando in un autosilo la cui insegna luminosa, posta sopra l’entrata, annunciava trecento diciassette posti liberi nel garage sotterraneo. Livia aspettava a un semaforo. Portava un cappotto color crema con collo in pelliccia finta e puntò le mani sui fianchi come se avesse dolore alla schiena.
O come se la sua pancia fosse troppo pesante.
Luca la stava raggiungendo e aveva appena superato mezzo isolato quando l’insegna luminosa del parcheggio cambiò, annunciando trecento sedici posti liberi.
Che cosa fa qui? E chi l’ha accompagnata? sco forse?
Il semaforo per i pedoni divenne verde e Livia si avviò. Non sembrava avere fretta, mentre camminava, cercava qualcosa nella borsa troppo grande.
I capelli dorati le ondeggiavano a ogni o e Luca credette di percepire il
profumo del suo shampoo tanto si sentiva vicino a lei, nonostante i cinquanta metri che ancora li separavano.
«Livia» la chiamò. Solo alcuni giovani che stavano uscendo con o strascicato da un negozio di telefonia mobile si girarono verso di lui, canzonandolo. Si premette la mano contro l’inguine e respirò profondamente per farsi are le fitte al fianco, che però divennero insopportabili. Fu costretto a fermarsi, ma capì la meta di Livia.
Va a fare spese. Ma certo. Ormai è ora.
La vetrina del negozio di abbigliamento per bambini sulla strada antistante era già allestita per la stagione invernale. Un cannone spara-neve faceva vorticare i grossi fiocchi artificiali sopra i box e le carrozzine esposte davanti all’ingresso. Un enorme pupazzo di neve vestito con una tutina rosa invitava la clientela a entrare.
Livia rallentò il o e ora era a portata di mano. Lui allungò il braccio e avrebbe voluto accarezzarle i capelli, scivolare dalla piccola nuca verso la collottola, che aveva sempre massaggiato quando lei soffriva di mal di testa. Avrebbe voluto tirarla a sé e fissarla negli occhi, per avere così le risposte a tutti i suoi dubbi. Alla fine ebbe solo il coraggio di picchiettarle sulla spalla e pronunciare il suo nome in modo stridulo, con una voce che gli era estranea.
«Livia!»
La donna si girò. Dapprima non si scompose, riflettendo se fosse opportuno sorridere o salutare cordialmente. Poi la paura ebbe il sopravvento e gli angoli
della sua bocca iniziarono a tremare. Luca fu in grado di leggerle nel pensiero.
Che cosa vuole questo tipo da me?
Lei indietreggiò e aprì la bocca, ma fu Luca a parlare per primo: «Mi dispiace, mi scusi».
Alzò la mano.
La donna, che in viso assomigliava molto a Livia, scuoteva solo la testa spaventata.
«No, non voglio…» balbettò Luca indicando la borsetta che la bionda signora stringeva a sé con le nocche bianchissime.
«L’ho scambiata per un’altra, mi dispiace».
Poi rimase fermo.
Lei si scostò indietreggiando e si voltò solo quando fu a una distanza sufficiente dallo sconosciuto. Ripetendo le sue scuse, Luca la guardò allontanarsi e la vide girarsi e lanciargli un’ultima occhiata, come si fa con randagi e barboni. Lasciò il negozio di abbigliamento per bambini dietro di sé e si amalgamò con un gruppo di turisti giapponesi che stavano scendendo da un pullman.
«Mi dispiace tanto» sussurrò ancora Luca verso il punto in cui la sconosciuta era svanita come svanisce un nome di cui non ci si ricorda più.
Mi dispiace tanto.
Fissò per terra e si accorse che era in una pozzanghera di neve sciolta, allora si guardò le dita bagnate e tremanti che non riusciva più a tenere sotto controllo.
Luca percepì un calo di zuccheri, ma non aveva fame. Era stanco morto e allo stesso tempo eccitato come dopo aver consumato una brocca di caffè a stomaco vuoto. E voleva piangere. Per sua moglie, per la sua vita, per se stesso, ma la valvola non si aprì.
Sto impazzendo
Per la prima volta formulò quel pensiero come constatazione e non come domanda. Chiuse gli occhi, affondò il viso nelle mani fregandosene completamente di quello che potevano pensare i anti cui stava intralciando il cammino.
Forse non esistevano neanche. Probabilmente non stava nemmeno a occhi chiusi in mezzo al marciapiede e non udiva neppure la cacofonia della città.
Forse sono ricoverato nel letto di una clinica. Accanto a me non c’è un parchimetro, ma una flebo; non porto un paio di jeans ma un catetere e il brusio
del traffico è il rumore dell’apparecchio per la respirazione artificiale.
Luca aveva paura ad aprire gli occhi. Temeva il peggio, ossia guardare in faccia una realtà che avrebbe rivelato che la sua vita era una menzogna. Quando aprì finalmente gli occhi, buttò indietro la testa come un bambino che cerca di catturare un fiocco di neve con la lingua. In questo modo lo shock non fu così grande, perché le nuvole del cielo grigio asfalto sopra di lui, lo distrassero per un momento. Il tendone che il vento spingeva verso l’interno dell’edificio fluttuò.
E’ impossibile.
La detonazione della scoperta gli causò un terremoto interno.
Luca traballò, nonostante non si muovesse.
Piano, come se avesse ancora la scheggia nel collo, si girò una volta su se stesso.
Scannerizzò i dintorni come una telecamera tridimensionale, memorizzando informazioni che accrebbero enormemente il suo smarrimento. Vide il negozio di abbigliamento per bambini, il noleggio autovetture, la libreria di testi specialistici di medicina, l’ingresso dell’autosilo vicino al quale la mascotte gonfiabile del negozio di telefonia mobile ondeggiava al vento. Si ricordò che aveva già osservato tutti questi dettagli da un’altra prospettiva il giorno prima.
Dal bagno del sesto piano, dove si era recato dopo aver effettuato tutti gli esami clinici.
Quando la ricognizione visiva fu completata e lui tornò alla sua posizione iniziale - intanto Viola gli aveva prudenzialmente appoggiato la mano sulla spalla - trovò l’ultima prova. Scoprì la targhetta di ottone con il riferimento discreto alla struttura psichiatrica che si trovava all’interno dell’edificio.
Clinica Borromei
Era di nuovo là.
E lui si trovava proprio davanti all’elegante ingresso.
74.
Viola realizzò la cosa contemporaneamente a Luca, ma reagì prima. Egli si sentì che la mano, che aveva appena percepito sulla sua spalla, era scivolata giù pesantemente. La cosa che vide subito dopo fu la schiena di Viola che si dirigeva verso la porta girevole della clinica. La donna appoggiava attentamente un piede dopo l’altro come se fosse ipnotizzata e seguisse un ordine.
“Viola, no!” voleva gridare Luca, ma era troppo tardi. Due uomini con le sigarette e l’accendino in mano stavano uscendo da una porta laterale di vetro a fianco di quella girevole. Viola li superò per spingersi attraverso lo spiraglio prima che la porta potesse chiudersi nuovamente.
Luca non aveva scelta. Doveva seguirla.
Come la prima volta che era arrivato nell’atrio della clinica, ebbe la sensazione di trovarsi nella zona check-in di un aeroporto. Un tappeto rosso conduceva a un bancone di alluminio, dietro al quale una giovane donna in divisa accoglieva i visitatori. Stava conversando con un uomo canuto che, in piedi davanti al bancone, stringeva una tazza di caffè. Un brano di musica classica provvedeva a creare un piacevole effetto di sottofondo.
«Lasci fare a me, professore» Luca sentì dire alla giovane donna e intanto cercò di raggiungere lentamente Viola, che si era fermata a metà strada, a circa dieci metri dalla reception e guardava verso l’alto.
Come la clinica, anche la hall era un esempio di spreco di spazio ed energia.
L’atrio arrivava fino al terzo piano e soltanto lì iniziavano gli uffici. Le pareti di vetro creavano l’effetto di trovarsi all’interno di un acquario gigante da cui avevano svuotato l’acqua. Ogni o riecheggiava tra le pareti come in una chiesa.
«Quest’affare dà i numeri di tanto in tanto, ieri non siamo nemmeno riusciti a collegarci a Internet» spiegava la receptionist con voce suadente e indicò il monitor del computer. Né lei né il suo interlocutore si erano finora accorti di loro.
«Dobbiamo andarcene da qui» sussurrò Luca e prese la mano di Viola. Era fredda e umida.
«Te l’avevo detto che era qui. La clinica non è sparita».
Viola era troppo agitata per abbassare la voce.
«Ti avevano dato un indirizzo sbagliato, Luca. Ti volevano attirare al cantiere. Ecco di cosa discutevano quando li ho sentiti». Alzò sempre più la voce attirando infine l’attenzione della bionda dietro il banco.
«Posso fare qualcosa per lei?» trillò. Anche il signore dai capelli bianchi si girò. Nel suo sguardo si leggeva un leggero fastidio nell’essere stato interrotto mentre flirtava con la bionda, che sembrava avere quarant’anni meno di lui. L’indignazione durò poco e la tazza di caffè gli cadde dalle mani frantumandosi sul pavimento di marmo.
«Grazie a Dio» gridò affannato, con aria stupita e sollevata al contempo. Poi afferrò il cellulare.
«La signora Orsi è tornata. Ripeto, la signora Orsi è…».
Luca adesso tirò con veemenza la mano di Viola, ma lei sembrava essersi fusa con il pavimento. Non riuscì a spostarla neanche di un millimetro verso di sé.
Dobbiamo tornare verso l’uscita. Andar via da qui. Fuori dalla clinica.
Mentre Luca stava perdendo secondi preziosi, il signore dai capelli bianchi si stava dirigendo verso di loro. Ansimava, come se il breve scatto di partenza dal bancone avesse già consumato le sue riserve di energia. Per tranquillizzarli alzò le braccia.
«Sta bene?» chiese.
Gli occhi di Viola si riempirono di lacrime.
«Lei si ricorda?» chiese lei impaurita.
L’uomo distava ora solo due i da loro e Luca le aveva mollato la mano per retrocedere da solo, in caso d’emergenza.
«Ma certo» rispose il vecchio. «L’abbiamo cercata dappertutto».
E poi il resto accadde in un battibaleno. Dall’ascensore dietro di loro irruppero tre infermieri, ancor prima che le porte di alluminio si fossero aperte del tutto. Questa volta Viola era troppo perplessa per opporre resistenza. Nel giro di pochi secondi, l’avevano buttata a terra e le avevano bloccato le mani dietro la schiena. Un secondo più tardi l’avevano già immobilizzata con un’iniezione.
Luca non aveva nessuna possibilità di aiutarla e si chiese perché sinora lo avessero risparmiato tollerandolo come osservatore silenzioso nella hall della clinica, quando invece avrebbe dovuto condividere la sua sorte.
Sussultò quando apparve un’ombra accanto a lui. Era l’uomo dai capelli bianchi, che fece una cosa alla quale il suo cervello programmato alla fuga non era preparato. L’uomo gli tese la mano e lo ringraziò.
«Ci ha aiutato molto e ci ha risparmiato tante rogne. E’ una vera benedizione che lei l’abbia riportata».
«Riportata?»
Luca vide gli infermieri portare via Viola su una sedia a rotelle e spingerla dentro l’ascensore.
«Spero che non le abbia creato troppi problemi».
«Problemi?» ripeté Luca.
Sentì fuori una macchina suonare il clacson, ma gli parve un segnale proveniente da un altro universo.
«Soltanto ieri ha ferito gravemente due dei nostri assistenti che stavano cercando di afferrarla in mezzo alla strada. Si dimostra incline alla violenza ogni volta che ha una crisi paranoica. Dove ha trovato la nostra paziente, signor…?»
L’uomo canuto ritirò un po’ deluso la mano che Luca non aveva ancora stretto.
«Bernardi» balbettò istintivamente. «Luca Bernardi». Si toccò il collo. Un altro automatismo, anche se ora mancava la fasciatura.
«Ah sì, ora mi ricordo. Non è stato in cura da me una volta?»
«Mi conosce?» Luca pronunciò ogni sillaba con la stessa intensità.
«Sì, certo. Quando è stato il suo incidente? Sei settimane fa?»
Luca iniziò ad avere le vertigini.
«Chi è lei?» domandò all’uomo che non aveva mai visto in vita sua. Né il suo
sorriso che metteva in mostra la corona dentale, né la fronte alta, né il suo neo a forma di stella sul collo riuscirono a rievocare anche solo un minimo ricordo.
«Mi scusi» disse l’uomo. «Pensavo che lei sapesse dove si trovava».
Il sorriso era sparito dal suo viso. «Sono il professor Paolo Borromei».
75.
Nessuno lo ostacolò. Nessuna sagoma imponente gli si parò davanti, nessuna mano si allungò per fermarlo, nessun braccio lo cinse in una morsa come fanno i pugili professionisti. E dire che avrebbero avuto vita facile con lui. Era così debole da non riuscire a opporre alcuna resistenza. I pensieri di Luca si accavallavano senza sosta.
Se questo era davvero il direttore della clinica, chi aveva incontrato il giorno prima? Chi lo aveva prelevato in strada per poi sottoporlo a ore e ore di visite e controlli?
La porta girevole lo risputò nel mondo esterno, tuttavia Luca si sentì come se la sua anima fosse rimasta nell’atrio della clinica Borromei accanto a quell’uomo canuto, in attesa che il suo corpo tornasse dentro.
Si voltò e alzò lo sguardo. Il giorno prima era stato proprio lì, eppure in quel momento non era sul corso dove credeva si trovasse la clinica, bensì in una strada parallela a qualche isolato di distanza.
Mi vogliono distruggere. Qualcuno vuole che io perda la memoria e per farlo si esibisce in questi trucchi penosi.
Il giorno precedente la Jaguar era ata per quel corso e aveva svoltato nel parcheggio sotterraneo, che evidentemente era collegato alla clinica che occupava quel lato della strada.
Luca si lasciò andare a una risata isterica. Non aveva mai visto la vera clinica Borromei dall’esterno e i teloni dell’impalcatura, davanti alle finestre, avevano nascosto la sciarada. Le finestre del bagno erano le uniche prive di barriere, ma mostravano solo uno scorcio dell’incrocio, sufficiente per non destare in lui alcun sospetto.
E adesso? Che cosa faccio ora?
Luca si trascinava senza meta lungo il marciapiede. Stava lottando contro un nemico invisibile, non riusciva a distinguere il bene dal male e non capiva nemmeno il motivo di quel pasticcio incomprensibile.
Possibile che ci fosse Livia dietro tutto questo? Forse un esperto di pubbliche relazioni le aveva consigliato questo intrigo affinché il film riscuotesse un successo ancora maggiore perché basato su fatti realmente accaduti.
L’unico problema è che la sceneggiatura ha anticipato la realtà!
Frammisto ai rumori che si riversavano su di lui dalla strada, fu di nuovo un clacson a strapparlo dai suoi pensieri. Lo aveva già udito nella hall della clinica, ma ora era molto più vicino.
Si guardò di lato e riconobbe suo fratello al volante.
«Sali!» Lorenzo si fermò accanto a lui e lo chiamò dal finestrino abbassato di
un’utilitaria sporca come poche. «Andiamo, non c’è tempo da perdere!»
76.
Sembrava che l’auto appartenesse a una ragazza o a una famiglia con un bambino piccolo. Numerosi animaletti di pezza premevano le loro ventose contro i finestrini posteriori e nel portacassette dell’autoradio c’era una favola della Disney.
«L’ho solo presa in prestito» spiegò Lorenzo senza che Luca gli avesse chiesto nulla. Erano rimasti in silenzio per un quarto d’ora, poi suo fratello divenne sempre più loquace a ogni secondo che ava. «Giuro che la riporto al parcheggio, dico sul serio. Quando sono arrivati gli sbirri, non potevo più stare con le mani in mano, quindi me la sono squagliata e ho preso questa carretta per noi».
Luca annuì in silenzio, incapace di concentrarsi dato che la voce di Lorenzo non era l’unica nell’abitacolo. Un’altra voce stava cantando, in inglese, di un posto dove andare in dolce compagnia, noto solo a uno dei due. Gli ci volle un po’ per capire che la voce proveniva dalla radio. Luca la spense e afferrò la maniglia della portiera.
«Fermo!» disse a voce bassa.
Lorenzo si appoggiò un dito alla tempia. «Col cazzo che mi fermo!»
«Non voglio avere niente a che fare con un assassino».
«Cominci anche tu a comportarti come quella pazza? Io non ho ammazzato nessuno».
Imboccarono a velocità moderata una rotonda molto ampia. Lorenzo respirò a pieni polmoni. Nella Polo c’era un misto di puzzo di vomito e profumo a buon mercato. Molto probabilmente qualcuno aveva tentato di coprire il primo col secondo, senza successo.
«E allora come mai avevi nel baule un sacco d’immondizia insanguinato e un mezzo arsenale?»
«Le armi non sono mie».
«Di chi allora?»
«Tommy».
«Che cos’hai combinato?»
«Niente, ho solo preso un po’ di soldi in prestito».
«Per cosa?»
«Un affare sicuro, ma non importa. Avevo chiesto a Tommy di versare i soldi sul conto del mio socio in affari, poi il tutto è andato in fumo e mi hanno fregato».
«E che soldi ci sarebbero in quella borsa da ginnastica?»
Lorenzo lanciò uno sguardo furtivo al sedile posteriore, dove la borsa in questione stava distesa per lungo.
«Me ne sono tenuto una parte, quella che mi ha dato Tommy in clinica, sottobanco. Però mi manca l’altra metà per restituire tutto».
Suo fratello teneva il volante con una mano sola. Con l’altra si massaggiava la gamba con cui premeva l’acceleratore.
«E adesso hai i suoi scagnozzi alle calcagna?»
«Diciamo di sì. Tommy aveva intenzione di cancellare il debito una volta che avessi sistemato un affare per lui».
Cambiarono corsia e superarono uno studente che stava cercando parcheggio. L’Università e la rotonda successiva erano a meno di un semaforo di distanza.
«Che affare?»
«Un giornalista, Alessandro Pomelli, ha condotto delle ricerche su Tommy. Avrei dovuto prima ucciderlo, poi mozzargli le dita. O il contrario. E infine avrei dovuto lasciare la città». Guardò nello specchietto retrovisore.
«Maledizione, avrei dovuto essere ad Amsterdam già da qualche ora. Sono fottuto».
«Perché mai?»
Lorenzo sospirò. «Perché ho bleffato, naturalmente. Ieri sera sono stato da Pomelli e l’ho messo in guardia. Poi ho pensato di fare il giro degli addii. Sai, per salutare tutti quelli cui dovevo dire grazie: amici, conoscenti e gente che mi ha aiutato quando me la sono vista brutta. Come il professore».
Lorenzo infilò la mano in una tasca laterale del bomber e gli porse un foglietto spiegazzato. C’era la lista di dieci nomi, i primi tre depennati a cominciare da quello di Bessone. Luca si rese conto che mancava il suo.
«Ecco il motivo per cui vi ho portato là. Mentre eggiavi con Bessone gli ho lasciato un po’ dei soldi di Tommy sul tavolo della cucina. E’ stato uno dei pochi che si sono davvero presi cura di me. Se lo merita, il dottore. Pensavo di poter tagliare la corda prima che Tommy li volesse indietro, ma poi ha anticipato l’ultimatum».
«Cosa c’era nel sacco macchiato di sangue?» domandò Luca sempre più sospettoso.
«Una testa di porco. Il mio regalo d’addio per Tommy. Volevo che lo trovasse aprendo il bagagliaio, dopo che avevo oltreato il confine».
Il semaforo diventò verde e in qualche modo parve rompersi anche la diga che fino a quel momento aveva trattenuto Lorenzo dal parlare a ruota libera. Le parole cominciarono a uscirgli come un fiume in piena e gli raccontò del posto di blocco della sera prima in cui per un pelo non avevano scoperto nel bagagliaio le armi che in teoria avrebbero dovuto servire per far fuori il giornalista. Finì pure per raccontare a Luca della ragazza uccisa nel suo appartamento per fotterlo. La stessa ragazza vista da Viola
«E poi sei apparso tu con quella pazza scatenata e non me ne sono potuto andare come da programma. Risultato: la cricca di Tommy mi sta col fiato sul collo».
Lorenzo girò a destra all’ultimo momento e imboccò l’uscita di una rotonda.
«Come mai non ti sei mai rivolto a me, con un problema di soldi del genere?»
Luca si tastò la giacca alla ricerca delle pillole e dovette concludere di averle perse nella macchina incidentata. Poteva solo sperare che quel senso di malessere non aumentasse.
«Ti sei mai accorto che ultimamente ci siamo tenuti alla larga l’uno dall’altro?» Lorenzo gli lanciò uno sguardo rapidissimo e rise. «E poi tu non hai novantamila euro».
Santo Cielo. Così tanti? «Come mai tanta grana, accidenti?»
«Meglio che tu non lo sappia».
Luca fece di tutto per trattenersi e non alzare la voce. Litigare con suo fratello non era mai servito a niente. Più lo si metteva alle strette, più si chiudeva a riccio. «Ma perché proprio Tommy? Conosco un sacco di gente che non ti gambizza se resti indietro di una rata» disse mantenendo una voce pacata.
«Ah sì? Se intendi tuo suocero, allora mi viene proprio da ridere».
«Come mai?»
«E’ in bolletta».
«Cosa?»
Il semaforo che li attendeva divenne rosso, ma per Lorenzo fu solo l’occasione per accelerare mentre tutte le altre vetture accanto a lui frenavano.
«Che cosa stai dicendo?» chiese Luca, sbalordito.
«E’ al verde, fallito, col culo per terra. Devo trovare un altro sinonimo?»
Lorenzo lanciò un occhio allo specchietto retrovisore come per paura che qualcuno lo stesse nuovamente inseguendo. Quando Luca si girò, non vide nessuno di sospetto.
«La sua clinica è stata rilevata. Non li leggi i giornali?»
No. Nelle ultime settimane non mi sono affatto interessato del mondo esterno.
«Inoltre uno dei suoi chirurghi ha impiantato delle valvole cardiache difettose o roba del genere. Non è colpa di sco, ma lui è comunque uno degli imputati al processo. Direi che la villa verso cui ci stiamo dirigendo non gli appartiene più». Lorenzo guardò Luca di sottecchi. «Vuoi ancora andarci, o che?»
77.
Il cervello umano è in grado di rimuovere verità indiscutibili che ognuno di noi è destinato a toccare con mano, prima o poi: la vecchiaia, la malattia, il decadimento, la morte. Sono tutte cose della vita, eppure ci appaiono irreali. Qualcun altro mischia le carte che ci troviamo in mano e tanto siamo disposti a disperarci, quanto, alla fin fine, siamo anche grati a questo meccanismo cerebrale e alla cecità che ci concede. Del resto chi troverebbe il coraggio di andare avanti se potesse vedere il futuro?
Luca si stava ponendo questa domanda quando si trovò davanti alla villa del suocero. Lorenzo era rimasto in macchina, promettendo di attenderlo all’entrata, sebbene non fosse convintissimo del piano che li aveva condotti fin lì.
«Che cosa cerchi?» gli aveva chiesto mentre scendeva dal veicolo.
«La verità» aveva replicato Luca.
Possibile che sco volesse condurlo alla follia per via dei suoi debiti? Che volesse privarlo della capacità di intendere e di volere in modo da poter attingere ai ricavi della vendita della sceneggiatura in qualità di suo tutore? Luca voleva una cosa sola: la propria vita, anche se era quella di un vedovo. E sapeva che tra lui e la verità c’era sco. Doveva parlargli in modo da mettere la parola fine a quella pazzia. In un modo o nell’altro.
Bussò violentemente alla porta d’ingresso. Anni addietro sco teneva sempre nascosta una seconda chiave nella rimessa per le barche, nel caso in cui
qualcuno fosse rimasto chiuso fuori. Quei tempi erano finiti da un pezzo. Dopo un furto subito tre anni prima, era stato chiamato un esperto di sicurezza a installare un sistema di videosorveglianza che segnalava la presenza di visitatori inattesi all’interno della casa mediante una sobria sirena d’allarme. E invece della chiave bisognava esibire un’impronta digitale riconosciuta dal sistema.
Eppure quel giorno Luca non dovette premere la falange dell’indice contro la fredda superficie del lettore digitale. La porta era già aperta. Si era spalancata mentre bussava.
«C’è qualcuno?»
Luca entrò nell’anticamera e avvertì subito che qualcosa era cambiato, anche se tutto sembrava essere al proprio posto: il tavolinetto vicino all’entrata dove si potevano lasciare il cellulare e le chiavi, le grandi sfere di marmo in fondo al corrimano delle scale e l’enorme specchio con cornice d’argento in cui gli ospiti sembravano sempre più alti e più snelli di quel che erano. Di solito, chi entrava in quella casa riceveva un’impressione positiva, ma quel giorno Luca non riuscì davvero a provare nulla di simile. Non solo perché il suocero non aveva mai e poi mai lasciato la porta aperta prima di allora.
Salì i gradini che a suo tempo aveva calpestato a domeniche alterne con Livia.
sco aveva l’abitudine di invitare la famiglia per il tè due volte il mese. Dopo la morte prematura di sua moglie avevano tutti preso in considerazione l’ipotesi che quella tradizione fosse interrotta e invece no. Avevano continuato ad andare da lui per conversare amabilmente degli ultimi avvenimenti in biblioteca, davanti a uno dei tre camini della casa. Ogni due settimane. Fino all’incidente.
«sco?» chiamò con voce rauca. Erano ore che non ingeriva liquidi e la lingua gli sembrava un corpo estraneo.
Il corridoio davanti a lui si estendeva in entrambe le direzioni. A sinistra c’erano le camere degli ospiti, a destra lo studio con annessa biblioteca.
Luca trattenne il respiro, abbassò la pesante maniglia, aprì la porta e restò di stucco.
Lo studio, era devastato. La piantana stava di traverso su di un divano di pelle ormai ridotto in mille pezzi. Il tappeto persiano era come un fazzoletto di dimensioni gigantesche appallottolato e buttato davanti a una libreria vuota. Tutti i volumi, i quadri, le foto incorniciate e le opere d’arte, che avevano sempre occupato quello spazio, erano sparpagliati sul pavimento.
Il televisore giaceva capovolto dietro quel che restava di un acquario. Era un miracolo che il vecchio elettrodomestico funzionasse ancora e non si fosse spento, morto come i tanti pesciolini sparsi su tutto il parquet.
L’immagine sfarfallava ogni due secondi e c’era puzza di plastica fusa. Il cavo del televisore era danneggiato e reagiva in quel modo all’acqua salata in cui avevano nuotato i pesci.
Luca pensò bene di lasciare tutto com’era e lanciò uno sguardo alla scrivania, l’unico punto scampato alla devastazione. Immutabile, giaceva davanti alla vetrata che dava sul lago.
Luca calpestò svariati bicchieri rotti e calciò via un globo che a suo tempo era usato come minibar. Intanto pensò al da farsi.
Era impossibile setacciare un edificio che contava sei stanze da letto in cerca di eventuali intrusi. Se qualcuno si trovava ancora in casa, poteva essere nascosto ovunque. D’altra parte non aveva più alcun motivo per restare. In quel caos non si riusciva nemmeno a trovare il telecomando che gli avrebbe consentito di zittire la tv, figurarsi le risposte che avrebbero dovuto gettar luce sulla sua psiche.
Luca voleva già andarsene quando l’occhio gli cadde su un cassetto della scrivania che giaceva a terra. Di primo acchito sembrava esattamente come gli altri, ma guardandolo meglio emerse una differenza preoccupante.
Luca s’inginocchiò e toccò i numeri che qualcuno aveva scarabocchiato sul fondo del cassetto con una grafia infantile.
23.11
La presunta data di nascita di suo figlio.
Luca girò il cassetto. Dentro c’era rimasto un solo documento. Tremante, afferrò l’estratto conto grigio-verde della banca di sco.
Negli ultimi giorni erano state prelevate cifre sempre più considerevoli. Il conto
era in rosso e l’ultima riga recava l’annotazione BLOCCATO.
Luca guardò il televisore.
In quel momento non vi fu alcuna differenza tra la sua devastazione interiore e quella della stanza in cui era inginocchiato. Anche dentro di lui sembrava che qualcuno avesse estratto e buttato alla rinfusa tutti i cassetti del suo comprendonio. Non riusciva più a mettere in ordine un pensiero dopo l’altro. Ogni cosa era accatastata e confusa: Livia, sco, il bambino. E nulla aveva senso. Né i debiti di sco né lo studio distrutto, tanto meno la voce di sua moglie, che aveva appena pronunciato chiaro e forte il suo nome.
78.
Luca fissò incredulo lo schermo che mostrava Livia in primo piano, i capelli scompigliati e troppo lunghi, gli occhi rossi e gonfi. Sembrava disperata, spossata. Anche se non l’aveva mai vista in quelle condizioni, non vi erano dubbi: era lei.
Ci fu un taglio netto di montaggio e l’immagine successiva fu quella di un reporter dinoccolato, un po’ troppo giovane per un servizio televisivo di cronaca nera. Ma ciò che mancava al suo aspetto era compensato da una voce profonda e affascinante.
«Fino ad oggi, la clinica Borromei aveva una seria reputazione di ospedale privato specializzato in disturbi psicosomatici, ma di recente un esperimento fuori dal comune ha scosso gli animi di tutti noi. Un esperimento che ha avuto luogo nell’edificio dietro di me, a quanto pare senza permessi ufficiali».
La telecamera si soffermò prima sulle ben note impalcature che si ergevano davanti alla clinica, poi mostrò la targhetta di ottone all’entrata. La voce fuori campo del giornalista continuò a commentare. «L’esperimento prevede la cancellazione della memoria dei partecipanti, che a quanto pare desiderano rimuovere i ricordi più orrendi della loro vita. Un’idea senz’alcun dubbio invitante. Incidenti stradali, pene d’amore, tragedie: cosa succederebbe se potessimo dimenticare per sempre tutto ciò che ci ha sconvolto?»
Il reporter venne di nuovo inquadrato e prese a camminare avanti e indietro sulla strada di fronte alla clinica. I anti si giravano a guardarlo, curiosi. «Che cosa succederebbe se qualcosa andasse storto? Com’è successo a un paziente di cui ci è pervenuta la cartella clinica».
Luca ebbe un sussulto. La televisione mostrò un documento parzialmente oscurato. I nomi dei medici curanti erano stati resi illeggibili, ma in compenso il suo nome, Luca Bernardi, appariva quasi in ogni riga e anche la sua foto, in alto a destra, era inconfondibile.
«Sì, questa è la cartella clinica di mio marito». Livia, la voce ancora più disperata di prima, confermò l’inimmaginabile. «Sia gentile: prenda nota del suo nome e renda pubblica la foto, forse in questo modo lui potrà recuperare la memoria».
L’obiettivo si concentrò non solo sul volto di Livia, ma su tutto il suo corpo. Era stesa su un letto d’ospedale, la pancia ancora più grossa di quanto lui ricordasse. Luca cominciò a piangere in silenzio.
«Non so come mai, ma si trovava là per un trattamento. E ora mio marito non si ricorda più di me». Un altro stacco brusco e una telecamera a spalla ballonzolante prese a muoversi verso la reception della clinica Borromei, davanti alla quale Viola era stata catturata. D’improvviso una mano coprì l’obiettivo, seguita da una colluttazione e da un’immagine dell’atrio preso da un’angolatura sbilenca.
«Purtroppo il direttore della clinica non ha voluto dichiarare nulla in merito a tali accuse. La nostra troupe è stata sbattuta fuori».
Il reportage terminò con un’altra immagine di Livia nella clinica. «Non si ricorda più di nulla» ripeté. «Nemmeno di me. Nemmeno del nostro bambino». Le lacrime le rigavano le guance. «Santo Dio, non sa nemmeno che ci sono state delle complicazioni».
Complicazioni?
Ora sua moglie prese a parlare direttamente nell’obiettivo. «Luca, se stai sentendo tutto questo, vieni da me» singhiozzò Livia. «Per favore, vieni da me. Il nostro bambino non sta bene. Devono farlo nascere prima del tempo».
Quella fu l’ultima immagine, poi ripresero le chiacchiere demenziali della coppia di i. Sorridevano beoti come se avessero appena assistito a un collegamento in diretta da qualche sagra.
Luca si alzo, si tappò le orecchie e cercò di mettere a tacere i presentatori con le proprie urla, per non dover più sopportare quella follia.
In quel momento partì un colpo di arma da fuoco all’entrata della villa.
79.
Quando arrivò di sotto, vide suo fratello che sbatteva con la testa contro il palo di una lanterna da giardino. In un modo o nell’altro era riuscito a uscire dalla macchina e a strappare il fucile dalle mani dell’aggressore. L’arma giaceva per terra a mezzo metro da lui, accanto ad un arbusto ornamentale. Il proprietario stava prendendo la rincorsa per tirare un calcio nelle reni di Lorenzo.
Luca non sapeva se fosse il motociclista dell’altra volta o uno sgherro mai visto prima, mandato da Tommy. L’uomo non indossava più la maschera da sci, ma in compenso la sua stazza era troppo imponente per essere quella di un motociclista da cross.
Lorenzo riuscì a rialzarsi in tempo e cercò di trascinarsi via da lì a quattro zampe. Invano. L’aggressore lo colpì da dietro in mezzo alle gambe e Lorenzo scattò come un coltellino a serramanico. Poi il malvivente si piegò su di lui.
Nel frattempo Luca aveva aggirato silenziosamente la macchina. Il cristallo anteriore non c’era più. Gli mancavano ancora due metri per mettere le mani sul fucile con cui l’aggressore doveva aver polverizzato il parabrezza. Quando tentò di accorciare la distanza, l’uomo si voltò verso di lui col sorriso stampato in faccia.
«Ho l’aria di una puttana che si fa fottere?» gli chiese.
Luca alzò le mani.
Ora che poteva vederlo in faccia, riconobbe l’uomo che voleva uccidere suo fratello.
«Ciao, Tommy!»
Era ancora più grasso di quanto si ricordasse.
«Guarda chi c’è, il mio caro assistente sociale. Ora siamo di nuovo al completo».
Tommy ghignò con aria tracotante e controllò il caricatore della pistola. Al contrario del fucile a pompa accanto alla siepe, che andava ricaricato dopo ogni colpo, l’arma di Lorenzo era carica a sufficienza.
«Un vero peccato che tu te ne sia andato per via di quella troia».
«Da quando in qua ti sporchi le mani in prima persona?» domandò Luca. Il fiato gli disegnava nuvolette davanti al volto, eppure non sentiva né il freddo né il vento che soffiava dal lago. La paura lo riscaldava dalla testa ai piedi.
«Da quando tuo fratello ha provato a fottere chi fotte» rispose Tommy, tirando calci in faccia a Lorenzo ogni volta che pronunciava un composto di “fottere”. Molto stranamente, suo fratello cercava di proteggersi lo stomaco e non il volto.
Sanguinava copiosamente dal naso e dalla bocca.
Tommy si lasciò andare a un sorriso sghembo, poi abbassò lo sguardo verso il mucchietto umano ai suoi piedi. «E sei finito in manicomio per questo sfigato?»
«’Fanculo!» farfugliò Lorenzo, perdendo un incisivo.
In lontananza si udì la sirena di una chiatta che navigava verso un ponte distante alcune centinaia di metri. Luca si guardò attorno. Gli appezzamenti di terreno da quelle parti erano così grandi che dai cancelli non si riuscivano a vedere le case. Nessuno sarebbe accorso in suo aiuto. E il fucile a pompa non era altro che un inutile bastone di metallo. Tommy distava da lui circa sei, sette metri. Prima di aver coperto anche solo metà della distanza, si sarebbe trovato l’intero caricatore in pieno petto. Luca lo sapeva esattamente, come Tommy, che non si prendeva neanche la briga di puntargli la pistola addosso. S’inginocchiò, la punta metallica del suo stivale da cowboy a un millimetro dall’occhio destro di Lorenzo. Poi lo acciuffò per i capelli e lo sollevò dal vialetto ghiaioso fino ad avere la bocca insanguinata di Lorenzo davanti alle labbra.
«Okay, Lorenzo, sei pronto a morire?» domandò con voce melliflua piazzandogli la canna della pistola sotto il mento.
Non parlava più come un malavitoso, ma come lo psicopatico che era.
A Luca gelò il sangue quando suo fratello annuì esausto, quasi rassegnato al proprio destino.
Intanto Tommy gli sussurrò qualcosa, così piano che le parole si persero nel vento e nello stormire delle foglie. Dal mento gli gocciolava una bava sanguinolenta e per qualche strano motivo si leggeva quasi una profonda gratitudine negli occhi di Lorenzo, prima che li chiudesse.
«E allora va all’inferno, pazzo furioso!» disse Tommy.
Appena prima che Luca decidesse di buttarsi tra le braccia di una morte certa, invece di star fermo a non fare nulla, Tommy agì in modo completamente illogico.
Accarezzò con tenerezza il volto di Lorenzo, poi si alzò, buttò la pistola nell’erba alta e imboccò il vialetto verso l’uscita senza girarsi nemmeno una volta.
Dietro un paio di alti faggi era nascosta la sua auto, invisibile agli occhi di Luca e Lorenzo: una Volvo gialla.
80.
«Perché l’ha fatto?» Luca dovette urlare contro il vento che gli stava soffiando in faccia con la forza di un tornado. Era al volante della macchina. Tommy aveva centrato il parabrezza e, per fortuna, solo il sedile vuoto accanto al guidatore, dopo che Lorenzo si era accucciato all’ultimo momento.
«Perché mai Tommy se n’è andato così?» Luca si girò verso il sedile posteriore, dove suo fratello stava lungo disteso con le gambe incrociate, pulendosi la bocca con la maglietta.
«Che ne so io? Sarà il mio giorno fortunato».
Lorenzo tossì, poi si girò di lato e si lasciò andare sul sedile. Ci volle un po’ prima che potesse ricominciare a parlare. «Credo che non volesse sporcarsi le mani. I suoi scagnozzi mi troveranno comunque». Gemette per il dolore. «E’ tutto finito».
Luca scosse il capo, senza parole. «Ci siamo quasi» strillò contro il vento.
In aggiunta, aveva ripreso a scendere quel misto di pioggia e neve che per poco non lo privò della visibilità necessaria per guidare. Le auto, i anti, i cartelli e le case ai bordi della strada: tutto divenne un’ombra indistinta.
«Dove andiamo?» Lorenzo cercò di alzare la testa.
«Alla clinica De Sanctis».
Dietro di loro un camioncino cominciò a lampeggiare, ma anche volendo Luca non sarebbe potuto andare più forte di così.
Tolse le dita intirizzite dal volante, ci alitò sopra e tastò la tasca interna della giacca alla ricerca della pistola che aveva recuperato in una pozzanghera. Era ancora carica.
«Maledizione, dove siamo?» Lorenzo cercò di appoggiarsi sui gomiti ma poi gli mancarono le forze e crollò di nuovo. Non c’era da stupirsi che le poche persone che incrociavano fissassero l’auto semidistrutta come un’astronave proveniente dallo spazio.
Luca lasciò un attimo il volante e si asciugò la faccia fradicia. La quantità di neve mista a pioggia aumentò considerevolmente e dovette rallentare ancora di più.
«Ti devo dire una cosa» aggiunse Lorenzo con un filo di voce. Luca guardò nello specchietto retrovisore.
«Quando sei uscito dal gruppo e ho ingoiato le pillole…».
«E’ stata una porcata da parte mia, fratellino. Avrei dovuto prendermi maggior cura di te».
«No, non volevo dire questo». Lorenzo tossì. «Non è stato per colpa tua».
«Ma?»
«Di Livia».
Quelle parole colpirono Luca in faccia ancor più del nevischio. Livia?
«Tu non eri il solo a essersi innamorato di lei, Luca».
Luca si girò.
«Non ti preoccupare» si difese subito Lorenzo. «Non ho mai fatto niente con lei, anche se all’inizio era indecisa».
Luca s’irrigidì, strinse ancora di più il volante e tentò di fare ordine nella ridda di pensieri che gli affollavano la testa.
Allora era stato questo il motivo.
Ecco perché Livia, a suo tempo, lo aveva tenuto tanto sulle spine. Aveva dovuto
decidere tra lui e suo fratello.
«Perché me lo racconti?»
Lorenzo rispose in maniera un po’ confusa. «Così che tu non ti faccia più dei problemi con me. La verità è che Livia s’innamorò quasi subito di te. Io fui solo un incidente di percorso. Il fratellino minore bisognoso d’aiuto che era riuscito a confonderla per un breve periodo. Ci siamo visti tre volte, poi lei capì che eri tu quello giusto. Io ho accettato la sua scelta, ma poi non ho più sopportato l’idea di starvi vicino».
Vuole forse dire che…
I tasselli del puzzle cominciarono a prendere posto nel suo cervello.
Il primo tentativo di suicidio di Lorenzo era stato per questioni amorose?
«Non mi hai mai lasciato nella merda, Luca. Sono stato io a voler tagliare tutti i ponti, finché…».
Rimase a bocca aperta e Luca lo incalzò: «Finché…?».
«Cazzo, finché un bel giorno ho incontrato Livia per puro caso. Era il periodo in cui era incinta».
Luca faceva fatica a respirare.
E’ stato Lorenzo, quindi il motivo di quel suo strano comportamento? Possibile che Livia abbia incontrato Lorenzo in quel caffè?
«Difficile a credersi, ma allora stavo ancora peggio di adesso» disse Lorenzo sputando altro sangue. «Lei vide subito che avevo perso il controllo della situazione e si sentì in colpa per la mia rovina. Pensava che la sua decisione di amarti ne fosse stata la causa». Gli scappò una risata gutturale. «Scemenze. Ero io l’unico responsabile».
La sua voce divenne sempre più flebile, quasi sognante e pian piano Luca cominciò a capire.
Dannazione, la ama ancora. Dopo tutto questo tempo.
«Nei confronti degli altri siete molto simili, Luca. Voleva aiutarmi a tutti i costi e correggere quel suo presunto errore. Temo che abbia addirittura messo in dubbio la vostra storia chiedendosi se avesse preso la decisione giusta. Cazzo, Livia era un fascio di ormoni impazziti durante la gravidanza, devi avere vissuto anche tu, sulla tua pelle, i suoi bruschi cambiamenti d’umore».
«Non riesco ancora a capire cosa tu mi voglia dire veramente».
«Non è per niente facile. Livia ed io ci siamo visti varie volte in quel periodo e
dopo ogni incontro lei stava sempre peggio. Non poteva parlarne con te. Ne andava della vostra relazione e poi sapeva quanto il rapporto tra noi sia sempre stato difficile. Motivo per cui alla fine si è rivolta a suo padre. Gli chiese di aiutarmi in qualche modo, col suo denaro e le sue conoscenze».
Luca si girò nuovamente, di sfuggita. Poche volte aveva visto suo fratello così triste.
«Capisci adesso?» chiese Lorenzo con voce rotta.
Luca si accorse di aver trattenuto il respiro troppo a lungo e risucchiò l’aria avidamente. Poi tossì e nel farlo liberò una parte della tensione accumulatasi negli ultimi minuti.
«Fa niente». Luca tolse qualche scheggia di vetro del parabrezza dal sedile di fianco al guidatore, poi vi appoggiò la pistola di Lorenzo, nel caso in cui avessero dovuto affrontare una nuova aggressione. «Non hai colpe».
«E invece sì».
«No. E’ stato un puro caso. Uno scherzo del destino. Al limite abbiamo fallito entrambi».
Dopo qualche minuto di silenzio, in cui Luca ripensò alla confessione di suo fratello, si fermarono a un semaforo. Il vento aveva cambiato direzione e Luca ne approfittò per arsi un fazzoletto sul viso.
«A suo tempo abbiamo sbagliato tutto, vero?»
Lorenzo gemette in segno affermativo.
«E oggi?» Guardò nello specchietto retrovisore. «Oggi riusciremo a fare qualcosa di buono?»
Suo fratello tenne gli occhi chiusi e si strinse nelle spalle, desolato. Le ferite sul suo volto rigonfio facevano intuire benissimo quali dolori dovesse sopportare.
Luca decelerò ancora sul ghiaccio, anche se ogni molecola del suo corpo voleva raggiungere la clinica il più in fretta possibile. Là dove avrebbero curato Lorenzo.
E dove Livia stava forse mettendo al mondo suo figlio.
Luca si asciugò il viso con la manica. La pelle, le labbra e anche la lingua sembravano non volersi più muovere. Ma ce l’aveva quasi fatta. S’intravedeva già il contorno del grattacielo nella bufera.
La clinica De Sanctis marcava il confine tra due quartieri. Molti degli edifici del complesso non superavano i due, tre piani e si vedevano appena. Solo la parte nuova della clinica, alta quattordici piani, in cui vi era anche un hotel per i parenti dei ricoverati e gli ospiti, svettava e fungeva da punto di riferimento per gli automobilisti. Era qui che bisognava voltare se si andava a un concerto nel
parco.
Lasciarono la strada principale e ne imboccarono una privata. I cartelli li mettevano in guardia dall’eccedere con la velocità. I lampioni erano già accesi. La strada si fece sempre più stretta. arono accanto a un parcheggio.
Luca udì lo squillo di un cellulare sotto di sé, dove stavano i pedali.
«Ehi, fratellino, qualcuno ti vuole».
Si piegò a raccogliere il Nokia col display lampeggiante.
Una busta chiusa segnalava l’arrivo di un messaggio.
«Mi è caduto prima» disse Lorenzo.
Luca ebbe un sussulto, poi tutti i suoi muscoli si contrassero.
«Che cosa c’è?» chiese suo fratello, quando vide Luca paralizzato col telefonino in mano.
Non può essere vero. Anche questo, no…
Lorenzo aveva attivato la funzione anteprima, così Luca poté visualizzare mittente e contenuto dell’SMS per un paio di secondi.
“Dove siete? Sbrigati, Lorenzo, ci siamo quasi. Senza Luca non possiamo cominciare! sco.”
Luca fissò lo specchietto retrovisore senza parole, in attesa del prossimo shock. Prima vide il braccio di suo fratello protendersi verso la maniglia per tirarsi su, poi la faccia di Lorenzo entrò nel suo campo visivo.
Suo fratello si buttò in avanti e fece leva sul poggiatesta distrutto per annaspare sul sedile anteriore ma Luca fu più svelto. Schiacciò il freno e la pistola scivolò giù dal sedile. L’auto ruotò di novanta gradi, slittò ancora per mezzo metro e si fermò accanto a un cartello di divieto di sosta.
Poi Luca si accucciò, afferrò la pistola e premette la canna contro la fronte insanguinata di suo fratello.
81.
«Non osare avvicinarti» strillò Luca. Quando uscì dalla macchina, le suole di gomma delle sue scarpe da ginnastica faticavano a far presa sul terreno scivoloso. «Resta dove sei, traditore schifoso!»
C’era puzza di benzina, il sistema di raffreddamento dell’utilitaria ronzava come un aspirapolvere strapieno e Luca incespicava.
Rinunciò a tenere suo fratello sotto mira e si mise a correre su per la stradina più velocemente possibile.
La strada asfaltata terminava davanti a un semplice edificio col tetto piatto, sotto al quale erano parcheggiate due ambulanze. Qui, al contrario della clinica Borromei, i soldi dei privati non si vedevano né nell’architettura esterna né nel design dell’interno. sco li aveva utilizzati per acquistare dispositivi modernissimi e assumere personale specializzato. A una prima occhiata l’entrata non era molto diversa da quella di un ospedale pubblico: un bancone per l’accettazione, rivestito di alluminio, l’edicola con i consueti espositori girevoli per libri e riviste, una parete piena di cartelli e indicazioni accanto agli ascensori e un’altra nel corridoio che conduceva alla caffetteria.
E adesso dove vado?
Luca si girò e andò a sbattere contro una sedia a rotelle vuota che un giovane infermiere aveva momentaneamente abbandonato mentre parlava col portiere. Se non si fosse aggrappato al bancone, sarebbe caduto per terra.
«Dov’è?» urlò Luca sfoderando la pistola. L’infermiere sbiancò in volto e retrocedette con la cartellina in mano. Dietro a Luca si scatenò un putiferio, si udirono voci che si chiamavano l’un l’altra, i concitati, urla, porte che sbattevano e facevano entrare zaffate d’aria fredda, ma era come se tutto stesse accadendo in un altro mondo, non in quello di Luca.
«sco De Sanctis. Dove si è cacciato?»
Il portiere, un uomo tozzo con occhi iniettati di sangue e doppio mento, alzò le braccia e spinse indietro la sedia girevole come se avesse potuto attutire la violenza della pistola solo aumentando la distanza tra sé e il pazzo armato. Tremava e spalancò la bocca, senza tuttavia emettere alcun suono. Era muto come il filmato pubblicitario della clinica che ava ininterrottamente su uno schermo piatto appeso al muro sopra le loro teste.
«Dov’è?»
«In sala operatoria» balbettò il portiere, che subito dopo si asciugò la fronte madida di sudore col tessuto della sua uniforme azzurrina.
«Sala operatoria numero tre, terzo piano».
«Okay, ora chiama la polizia, chiaro? Prima che arrivi non voglio che… diamine, cos’è questa roba?»
Luca si era interrotto e aveva alzato gli occhi. Verso sco. Il filmato stava mostrando suo suocero intento a condurre un drappello di pazienti dall’aria interessata tra i corridoi della clinica. Una famiglia felice che agli occhi degli spettatori avrebbe dovuto rappresentare alla perfezione i vantaggi di un trattamento esclusivo.
Luca sbatté le palpebre in segno di nervosismo.
La giovane donna e il bambino non li aveva mai visti, ma in compenso gli attori nei panni del padre e del nonno li conosceva. Il vecchio, che in quel momento osservava soddisfatto una sala operatoria, gli si era presentato come professor Borromei, mentre l’altro aveva dimostrato una netta predilezione per le brande da camping, meglio se piazzate nella cantina della sua vecchia casa. Nel video apparve d’improvviso un massiccio infermiere che spingeva un uomo brizzolato in carrozzella nella caffetteria e anche quei due erano volti familiari. Il paziente era il barbone che gli aveva allungato un messaggio da parte di sua moglie, mentre la faccia dell’infermiere l’aveva vista il giorno prima: era l’uomo che non l’aveva fatto entrare nel suo ufficio. Probabile che lo avesse visto anche in altre pubblicità.
«Non è come pensi».
Luca si voltò alla svelta e guardò suo fratello negli occhi. Lorenzo si avvicinò con fare cauto, cercando di non appoggiare il peso del corpo sulla gamba destra.
«Vattene!» Luca diresse la pistola contro di lui.
«Abbassa il giocattolo e lascia che ti spieghi».
«No, sparisci!»
Ora erano soli nell’atrio mentre una turba di volti spaventati li fissava da fuori attraverso i vetri e decine di bocche parlavano a raffica nei telefoni cellulari.
«Per favore, smettila. Ti porto da Livia». Lorenzo zoppicò da lui e allungò le braccia.
«Per favore» supplicò ancora, ormai senza voce.
Luca singhiozzò e si ò la mano sul volto. Le gambe cominciarono a tremargli e si sentì male. Era talmente esausto da non riuscire a tenere in mano la pistola.
«Tu menti» disse tra le lacrime.
«No» disse Lorenzo. «Vieni, siamo ancora in tempo».
82.
Microchirurgia non invasiva, gastroenterologia, oncologia… Negli ultimi anni, sco aveva significativamente ampliato lo spettro dei trattamenti offerti dalla clinica. Pensata in origine per interventi chirurgici d’emergenza, ora la clinica ospitava anche un reparto di reumatologia, un centro di chirurgia plastica e un reparto ostetrico, dove lo stava portando suo fratello.
Ci volle un po’ prima che arrivassero al terzo piano. Lorenzo sembrava soffrire gli effetti di una commozione cerebrale e trascinava la gamba. Ciononostante, Luca continuava a tenergli la pistola premuta contro la schiena. Ne aveva abbastanza delle commedie di suo fratello: prima il rifiuto di vederlo, poi la corsa in suo aiuto, la sua amicizia fraterna e ora, chi lo sa, forse anche quelle ferite…
Raggiunsero il piano e aprirono una porta a vetri dietro la quale si estendeva il reparto.
«Dove ci troviamo?» chiese Luca mentre attraversavano il corridoio. Nel centro ostetrico che aveva visitato a suo tempo con Livia, c’erano quadri colorati alle pareti: foto di bambini sorridenti e di genitori ancor più sorridenti che stringevano le mani a medici e infermiere. Per quanto possibile, avevano tentato di addolcire i tratti caratteristici di un ospedale con le pareti dipinte di arancione, con i cartelli abbelliti da personaggi della Disney e con la musica classica a basso volume irradiata nei corridoi.
“Una nascita non è una malattia” amava dire sco. Eppure, sembrava che quella massima non ce l’avesse fatta a spingersi fin lì.
«Questa non è la sala parto» spiegò Lorenzo.
«Ah no?»
«Qua ci sono i casi critici».
«Quali casi critici?»
Luca non ottenne risposta poiché in quello stesso momento una porta gli si spalancò davanti e ne uscì un largo letto d’ospedale in cui giaceva sua moglie.
83.
Livia.
Era bianca come un cadavere, le palpebre socchiuse, le mani incrociate sul pancione come in preghiera. Dalle braccia si dipartivano tubicini attaccati a flebo e ad altri macchinari appesi alla struttura metallica del letto che un’infermiera stava spingendo lungo il corridoio.
«Ferma!» urlò Luca e si avvicinò al letto per sincerarsi ancora una volta. Non era un’illusione, era proprio lei, la donna della sua vita.
Riconobbe le labbra che aveva baciato tante volte, le sopracciglia arcuate che aveva accarezzato senza sosta, per ore e ore. E ore.
«Chi è lei?» domandò l’infermiera in preda al panico, afferrando il cercapersone non appena vide l’arma nelle sue mani.
«Sono io, Luca» rispose lui con lo sguardo fisso su Livia.
Sono veramente io? Sono davvero qui, ora, sto fissando o no gli occhi di mia moglie che credevo morta? Oppure non esisto più, se non in una dimensione illusoria dominata dagli incubi?
Luca cominciò a singhiozzare e allungò la mano verso Livia. Le separò le labbra col dito come per aiutarla a parlare, visto che anche solo aprire la bocca, sembrava costarle uno sforzo sovrumano. Alla fine, dopo quella che parve un’eternità, Luca udì le parole salvifiche. «Ti amo, Luca».
Un sollievo senza fine lo pervase.
«Ti amo tanto». Livia parlava con la bocca impastata. Gli occhi ondeggiavano acquosi e sorridevano come per l’effetto di una droga.
Luca scoppiò in lacrime, alzò le braccia e si girò con un gesto impotente verso suo fratello, che li stava osservando senza dire una parola. Poi lasciò cadere la pistola a terra senza badarci e appoggiò le mani sulla ringhiera del letto che l’infermiera aveva ripreso a spingere lentamente in avanti. Non era in grado nemmeno di formulare uno dei milioni di domande che gli stavano affollando la testa.
Perché sei ancora viva? Cosa mi avete fatto? Che ne è di nostro figlio?
«Perché?» fu l’unica cosa che gli uscì dalla bocca.
«Sia gentile, la lasci in pace. E’ già sotto anestesia. Deve andare in sala operatoria».
Luca udì a malapena le parole dell’infermiera, ma smise di trattenerla. Camminò accanto al letto per un po’ e si piegò su Livia, che stava muovendo le labbra in
silenzio.
«Cosa c’è, Livia? Che cosa stai dicendo?»
«Mi spiace».
«Cosa ti spiace?»
Guardò davanti a sé. Mancavano ancora pochi metri alle porte a vetri che li separavano dal reparto sterilizzato.
«Ci siamo spinti troppo oltre».
«In che senso? Che cosa avete fatto?»
La voce di Livia tremò. Il narcotico la stava derubando di ogni residuo di coscienza. Riuscì solo a bisbigliare: «Ma non avevamo altra scelta, capisci? Non potevamo lasciarti ricordare».
Con le ultime forze rimastegli Livia tentò di tirarsi su, ma l’infermiera la spinse dolcemente contro la testiera del letto. Luca avvertì una pressione sulle spalle, poi vide una mano che lo tratteneva mentre sua moglie se ne andava. Il letto ò nel reparto successivo.
«Non potevamo lasciarti ricordare» ripeté Livia, disperata, prima di scomparire.
Per sempre.
Quando le porte a vetri si richio, Luca ebbe l’impressione di averla persa definitivamente.
«Vieni» disse dietro di lui la voce cui apparteneva la mano che gli stringeva il braccio come una morsa. «E’ andata. Ora ti spiego tutto».
Luca si voltò e vide il volto di suo suocero sconvolto dalla stanchezza e dalla preoccupazione. sco De Sanctis non gli era mai sembrato così vecchio.
84.
«E’ viva!»
«Sì».
«Non ha avuto nessun incidente?»
Luca e Lorenzo si trovavano nella vasta sala per la terapia in cui sco li aveva condotti. Rimanevano il più distante possibile l’uno dall’altro, costituendo gli angoli di un invisibile triangolo retto.
«Certo, l’ha avuto, ma non è stato mortale. Livia ha riportato solo ferite lievi. Al contrario il tuo airbag…» respirò pesantemente, premendosi le labbra prima di continuare, «…il tuo airbag non si è aperto. Hai sbattuto la testa contro la carrozzeria laterale perdendo immediatamente i sensi».
Lorenzo tirò a sé una sedia a rotelle e si sedette rivolgendo la schiena verso una porta a vetri, dietro la quale s’intravedeva una grande terrazza che si sviluppava lungo tutta la facciata anteriore del nuovo edificio.
«Ti abbiamo portato qui alla clinica» continuò sco, che come Luca era rimasto in piedi davanti alla scrivania. «Quando ti sei ripreso, non riuscivi a ricordare le ultime ore prima dell’incidente. Quella era l’occasione buona».
«Di che diavolo stai parlando? Che occasione buona?»
Luca sentiva crescere dentro di sé una rabbia gelida e sorda.
«Abbiamo dovuto mettercela tutta per mantenere la tua parziale amnesia fino a oggi. Sapevamo benissimo che il trauma dell’incidente non era stato abbastanza forte perché la tua memoria rimanesse bloccata per lungo tempo. Così abbiamo deciso di tenere impegnato il tuo cervello con un diversivo».
«E avete inscenato la morte di Livia?»
«Credimi, non è stato facile. Più volte abbiamo pensato di sospendere tutto. Soprattutto mia figlia».
Luca si ricordò della foto con la Volvo gialla che Viola aveva scattato.
I due hanno litigato. Per questo ho pensato di fotografare la scena.
«E cosa mi dici della clinica Borromei? Esiste veramente?»
«Sì, Paolo è un mio caro amico. Cura spesso i miei pazienti in ospedale. Ha visitato anche te, dopo che ti sei svegliato. Ci ha spiegato che la tua amnesia parziale non sarebbe durata a lungo. Non voleva accettarti nel suo programma, cosa che comprendo benissimo. D’altronde pratica delle ricerche molto importanti e ciò che avevamo in mente non era certo etico. Almeno ci ha messo
a disposizione uno dei suoi reparti. Anche la tua amica Barbara Mori ci ha dato una mano in tutta la messinscena».
Allora Viola è davvero solo una paziente!
Luca non sapeva se ridere o piangere. La persona più fidata, quella che lo aveva aiutato maggiormente, era una paranoica fuggita da una clinica. Probabilmente aveva davvero ascoltato una conversazione tra sco e il professor Borromei che l’aveva portata a conclusioni sbagliate. Era scappata dalla clinica per avvisarlo e contemporaneamente era entrata in una paranoia psicotica.
«Continuo a non capire il motivo di questa enorme montatura». Luca si premette le mani sulle guance infuocate. Deglutì e le parole gli uscivano a fatica dalla bocca.
«Perché era una questione di vita o di morte, Luca. Credimi, non abbiamo mai voluto farti del male. Il lutto doveva solo rallentare il processo del ritorno della memoria. E le prime settimane ha funzionato tutto bene. Poi hai iniziato a sognare gli ultimi istanti prima dell’incidente e abbiamo capito che era solo questione di tempo prima che tu potessi riappropriarti di tutti i ricordi. In fondo ci serviva solo un altro giorno. Ventiquattro ore in cui non dovevi ancora ricordare. L’operazione non poteva essere eseguita prima, sarebbe stato un grosso rischio far nascere subito il bambino».
Luca indugiò ancora qualche secondo, poi balzò verso la scrivania dietro la quale si trovava suo suocero.
«E cosa avrei dovuto dimenticare?» gli gridò sferrandogli un pugno in viso.
sco barcollò indietro mentre Luca lo afferrava per la gola.
«Dimmelo!» urlò stringendo sempre più forte.
«Luca!» intervenne Lorenzo alle sue spalle. «Lascialo andare».
Gli occhi di sco uscivano dalle orbite, le guance erano rosso fuoco, ma non fece alcun gesto per difendersi.
«In questo modo non lo saprai mai!» aggiunse Lorenzo calmo, quasi indifferente. E forse fu questo strano disinteresse nella sua voce che fece ragionare Luca. Lasciò la presa.
sco cercò di inghiottire aria e si afferrò il collo chiazzato, cominciando a tossire.
«Rispondi alla mia domanda o giuro che ti ammazzo!»
Il suocero abbassò il capo continuando a tossire. Poi lo rialzò, prese una cartellina dalla scrivania e si diresse verso una lavagna luminosa appesa alla parete. Accese la lampada alogena che illuminò lo schermo di vetro bianco e vi appose un’immagine che aveva estratto dalla cartella. «Si tratta di un’ecografia molto ingrandita».
Luca non vide altro che macchie bianche e nere, delle quali non sapeva quali
considerare positive o negative. Tuttavia riconobbe l’immagine.
L’aveva vista l’ultima volta pochi secondi prima dell’incidente nelle mani di Livia.
Per questo si era slacciata la cintura! Per prendere questa dal sedile posteriore. Ma perché?
«Qui possiamo vedere parte dello stomaco e del ventre del tuo bambino. E questo…», sco tossì ancora e batté leggermente su un punto dell’ecografia, «… questo è il suo fegato. Qui si vede molto bene il problema».
Lanciò a Luca un’occhiata piena di apprensione. «A tuo figlio mancano i dotti epatici».
«E cioè?»
«Soffre della stessa malattia per cui è morto tuo padre, ma in modo molto più grave. I liquidi epatici non hanno vie di conduzione. Quindi il neonato nascerebbe con un fegato non funzionante».
«E… e cosa si può fare?»
«Non molto. Senza fegato l’uomo non può vivere».
Luca aveva l’impressione di roteare su se stesso, sebbene fosse immobile. «Stai dicendo che il mio bambino morirà?»
sco annuì.
Tutto questo perché? Per quale ragione, allora farlo nascere dieci giorni prima del termine con il taglio cesareo?
Alla clinica Borromei lo aveva visitato un attore. Gli esami clinici durati ore, quelli del sangue, il test psicologico con quelle domande assurde che aveva dovuto compilare. Tutto per guadagnare tempo, in modo che potessero organizzare tutta la sciarada. Ma perché? In modo che altri attori si preparassero come nuovo direttore del suo ufficio, come avvocato incatenato nella sua cantina o impostore di lui stesso? Il finto copione, la telefonata di Livia, i falsi estratti conto, il film nella villa di sco, che sembrava solo il reportage di un notiziario, ma in verità anche questo era una messinscena. Tutto questo avrebbe dovuto tenere la sua memoria lontana dalla verità e, al contempo, condurlo lì in clinica al momento giusto.
Per quale motivo?
«So quello che stai pensando ora». sco cercò di scuotere Luca, che ora rimaneva come inebetito fissando l’immagine della lavagna luminosa. «Come abbiamo potuto farti questo? Come ho potuto mentirti? Curarti per una scheggia immaginaria, in modo che tu prendessi le pillole che rallentavano il processo di ricomposizione della memoria? Si trattava di vita o di morte, ragazzo mio, lo capisci? In fondo noi non avevamo altra scelta! Santo Cielo, si tratta di tuo figlio! Mio nipote!»
Luca riusciva a cogliere solo frammenti di quel profluvio di parole. I suoi pensieri soverchiavano il chirurgo ogni tre parole.
No. Tutto questo continua a non avere senso. Perché non dovevo ricordare la malattia mortale di mio figlio, se comunque non ci sono possibilità per lui?
A meno che…
La scoperta lo colpì improvvisamente. «Vi serve un donatore!»
sco lo fissò esterrefatto. «Certo, è ovvio. Pensavo che…». Si rivolse a Lorenzo. «Non gli hai ancora spiegato?»
Suo fratello scosse il capo e una profonda tristezza invase il suo sguardo. «I discorsi li lascio a te. Io sono quello che fa il lavoro sporco».
«Quindi vuoi eseguire il trapianto?»
«Sì, ma le possibilità che un neonato sopravviva con il fegato di un donatore sono bassissime».
«Quindi ti serve qualcuno che abbia lo stesso patrimonio genetico di mio figlio?»
sco annuì lentamente. «Basta che sia un donatore con un gruppo sanguigno compatibile».
«Qualcuno di cui si possa ridurre il fegato in modo che si adatti al corpo di un neonato?»
«Esatto!»
Clic. Come in un pallottoliere la prima pallina della verità si era spostata nella sua coscienza. «Entro quanto tempo dopo la nascita deve essere trapiantato?»
«Subito».
«Entro quanto tempo dopo la morte del donatore deve essere trapiantato il fegato?»
sco guardava nervosamente il suo orologio. «Entro poche ore».
Clic. Clic. Altre due palline, altre due verità. Restava ancora una domanda.
«Il donatore può sopravvivere all’espianto?»
«No, se è totale. Sì se è parziale, anche se esiste una bassissima percentuale di mortalità» rispose sco.
Il cercapersone di sco cicalò e lui annuì un’ultima volta, come per confermare la chiusura della discussione.
«Bene, è ora di procedere».
Andò davanti a Lorenzo, gli pose la mano sulla spalla e disse: «Posso fidarmi di te, vero? Un solo colpo in testa. Morte cerebrale, ma il cuore deve continuare a battere. Fa come ti ho mostrato».
Lorenzo annuì ed estrasse la pistola dalla tasca, mentre sco lasciava la stanza chiudendo dietro di sé la porta.
85.
«Non hai sempre detto che il fine giustifica i mezzi? Non è questo il motto della tua vita?».
«Tu sei pazza, Livia. Il fine non giustifica mai la morte».
Il ricordo di quella discussione poco prima dell’incidente copriva il battito del suo cuore, che pompava sempre più veloce. Era quello il loro piano, allora. Non avevano potuto ucciderlo prima perché il suo fegato sarebbe dovuto essere utilizzato subito dopo la nascita del bambino.
Ma perché ucciderlo adesso, se comunque il trapianto parziale tra viventi era possibile senza pregiudicare la salute del donatore?
«Girati» lo pregò Lorenzo. Controllò ancora una volta il caricatore della pistola. Poi abbassò la tenda a lamelle della finestra. La luce del giorno filtrava ora solo attraverso la porta della terrazza.
«Tu sei pazzo». Luca aveva perso il senso del tempo. Fuori nevicava ancora e da lassù la città sembrava ricoperta di zucchero a velo sporco. Tutto appariva impossibile e allo stesso tempo reale.
«Ti prego, voltati. Stanno intervenendo ora con il taglio cesareo e poi devono eseguire subito il trapianto sul piccolo. Non ci resta molto tempo».
«Perché? Era davvero necessario tutto questo? Io posso sopravvivere all’espianto, cazzo!»
Cercò di incrociare lo sguardo del fratello, che abbassò gli occhi. Anche la mano di Lorenzo stava tremando, sebbene lui fosse quello tra i due che, grazie all’arma, aveva il controllo della situazione.
«Avresti cercato di trovare un compromesso e Livia non voleva correre questo rischio» disse Lorenzo. «Vorrei che non fossi venuto a saperlo».
«Davvero, non esisteva altra soluzione?» Luca si prese il viso tra le mani. «Maledizione, Lorenzo, tu mi conosci. Non credi che mi sarei offerto volontariamente?»
«Lo avresti fatto?»
Luca sentiva che le gambe non lo reggevano.
«Mi conosci. Siamo fratelli!»
«Lo so ma non posso fare diversamente». Lorenzo tirò su con il naso. Era nella penombra vicino alla scrivania e Luca non poteva vedere le lacrime che gli rigavano le guance. Anche Luca iniziò a piangere, mentre si voltava lentamente verso la parete. Fissava la lavagna luminosa con l’ecografia di suo figlio. La prima e ultima immagine che avrebbe mai visto del suo bambino. Poi chiuse gli
occhi.
«Perché non si può semplicemente trapiantare una sola parte del mio fegato?» chiese ancora. «Per quale motivo deve per forza morire qualcuno?»
«Lo vedi? Avresti cercato un compromesso. Eri un rischio troppo grande per il nostro piano».
Il torace di Luca si alzava e abbassava come quello di un paziente sotto iperventilazione. Era inzuppato di sudore mentre cercava di pensare a quel figlio che non avrebbe mai preso in braccio o portato a scuola o osservato mentre faceva il bagno in mare o al quale non avrebbe mai prestato i soldi per una serata con la prima fidanzatina. Non avrebbe mai potuto guardarlo mentre dormiva, in piedi vicino al suo letto. La consapevolezza che suo figlio sarebbe potuto sopravvivere solo grazie a lui non toglieva la paura di morire. Non era un eroe. Era solo un uomo debole e completamente sfinito, che tremava davanti alla morte.
«Ma non puoi impedirlo!»
«Oh sì, invece, lo farò, credimi». Si ricordò la conversazione con Livia prima dell’urto.
«Vorrei davvero non doverlo fare, merda» sussurrò suo fratello. «Vorrei che tu non fossi venuto da me e potrei odiarti ancora e per sempre. Mi dispiace così tanto».
Poi i puntini neri davanti agli occhi di Luca smisero di ballare e l’ultimo ricordo di una conversazione con Livia gli toccò l’anima.
«Se uno dovesse morire, aspetta lasciami finire, ti prego, deve mandare un segno all’altro».
«Cioè deve accendere la lampada?»
«In modo che sappiamo che, nonostante tutto, non siamo soli. Che ci pensiamo, anche se non possiamo vederci».
«Lorenzo» disse Luca riaprendo gli occhi.
«Sì?»
«Non devi farlo».
«Devo».
«No, lo farò io stesso».
«Non è possibile».
La risposta suonò strozzata, come se suo fratello tenesse un fazzoletto davanti alla bocca.
Luca si voltò di scatto, ma era troppo tardi.
Suo fratello aveva già premuto il grilletto. Teneva la pistola con entrambe le mani. Infilata direttamente nella propria bocca.
86.
«Noooo!».
Il terrore tendeva tutto il suo corpo, così che credette che l’urlo gli avrebbe lacerato le corde vocali.
Ma non ci fu nessuno scoppio, niente sangue o brandelli di cervello a imbrattare le tende della finestra sul terrazzo. Solo un metallico, insopportabile clac, come quello di una penna a scatto di poco valore. Forse la pallottola era di pessima qualità e la polvere da sparo umida della cartuccia non aveva reagito quando il cane della pistola si era abbassato. O forse non era stato spinto nessun proiettile nella canna perché la sabbia o la sporcizia avevano bloccato la molla di recupero. Può darsi che dipendesse soltanto dalla pozzanghera in cui Tommy aveva gettato l’arma, può darsi che ci fosse un altro motivo per cui il proiettile non aveva traato il cervello di Lorenzo lacerando la sua volta cranica.
Perlomeno non al primo tentativo.
Lorenzo spinse freneticamente il carrello riposizionandolo una seconda volta.
«Noooo!»
Luca si sentì come in uno di quegli incubi in cui si cerca di fuggire dal male senza poter compiere un solo o. Al rallentatore, come trattenuto da cinghie invisibili, si trascinò verso il fratello. Il tempo pareva scorrere all’indietro o
essersi quasi fermato. Non c’era mai voluto così tanto per attraversare una stanza.
In realtà tutto durò meno di mezzo secondo: Luca raggiunse la scrivania, afferrò la pesante lampada in ottone e con il piede di questa colpì lo stinco di Lorenzo.
Lorenzo stramazzò davanti alla finestra, tenendosi la gamba con le mani e urlando di dolore.
«Idiota!» gli urlò. «Maledetto, stupido idiota!»
Luca afferrò la pistola che era scivolata ai suoi piedi. «Perché?» gli urlò con lo stesso tono. «Perché vuoi sacrificarti?»
«Ancora non lo capisci?». Lorenzo dondolava come un autistico avanti e indietro con il busto. Si premette gli occhi pieni di lacrime, urlò nei pugni chiusi. Poi finalmente tutto divenne chiaro: «Ce l’hai anche tu».
«Cosa?»
Lorenzo lo ripeté. Scandì le parole una a una, mentre un filo di saliva gli colava dal mento non rasato, scendendo fino all’altezza del busto.
E’ ovvio.
Ce l’ho anch’io.
87.
Luca guardò la terrazza osservando la sua immagine riflessa nel vetro della finestra, dietro la quale danzavano i fiocchi di neve. Ora che lo sapeva, non sembrava difficile da capire: gli occhi gialli e infossati, la stanchezza, i dolori sempre più insopportabili alla testa e alle articolazioni, il prurito. Tutti i sintomi della cirrosi.
Davanti a lui Lorenzo stava cercando di tirarsi su sulla sedia.
«Il tuo fegato è andato» sbuffò. «Non sei messo male come tuo figlio. A lui mancano i vasi epatici sin da ora. A te resta ancora del tempo, ma non molto, Luca. Capisci?»
No, non capiva. Il suo cervello registrava tutti i fatti, ma la sua ragione si rifiutava di elaborarli.
«Vuoi sacrificarti?» chiese ancora attonito.
«Non abbiamo altra scelta!»
Lorenzo era riuscito a sistemarsi sulla sedia e ora si aggrappava ancora sconvolto allo schienale. «I danni al fegato di vostro figlio erano stati diagnosticati molto prima dell’incidente. Da un’ecografia, durante una serie di esami di routine alla clinica De Sanctis» spiegò rabbioso. «sco era sconvolto. Ma non lo disse né a te né a Livia: prima voleva trovare un donatore».
«Tu!»
«Inizialmente aveva controllato nella banca dati ufficiale e messo il piccolo in lista d’attesa. Ma che probabilità ci sono che muoia un neonato e per di più con lo stesso gruppo sanguigno?»
Zero.
«Allora ha cercato fra i parenti che potessero fungere da donatori».
Luca annuiva. Sebbene tutto in lui si rifiutasse, la sua ragione cominciava lentamente a trovare la strada per costringerlo a capire. Per questo allora sco lo aveva invitato a sottoporsi a quel controllo medico completo, tre settimane prima dell’incidente. La sua stanchezza, la sonnolenza e i dolori alle giunture. sco aveva già un motivo per sospettare la ragione di quello stato, ma lo aveva taciuto.
«Nostro padre ti ha lasciato in eredità un fegato malato e tu lo hai trasmesso a tuo figlio. Io sono l’unico parente cui non è stato ato il calice». Lorenzo rise. «Che ironia del destino che la catena si sia spezzata proprio con me, vero?»
Mentre Lorenzo gli parlava quasi incantato, Luca ricordò le parole della sua infermiera, da lui completamente ignorate durante l’incontro, ma che ora trovavano un senso.
«… ma il comportamento di Lorenzo è cambiato improvvisamente, il giorno dopo aver fatto una risonanza magnetica… Normalmente eseguiamo le radioscopie al cervello in cerca di anomalie, ma a Lorenzo è stata fatta la scansione della parte inferiore del corpo… Ho verificato le lastre… E’ assolutamente sano».
«Vuoi morire per me?» chiese Luca e la domanda stessa suonò impensabile.
Lorenzo si spinse sulla sedia. «Per te e per il bambino. Questo è il piano che sco vi ha esposto il giorno dell’incidente alla villa».
E di cui io non mi dovevo ricordare.
«Davvero non esiste un altro donatore possibile?» chiese Luca perplesso.
Lorenzo lo guardò tristemente. «No. Né per via legale né illegale. Ho cercato dappertutto».
Ecco a cosa ti serviva quel denaro.
Questo pensiero s’illuminò nella testa di Luca. Novantamila euro. Lorenzo si era fatto dare i soldi da Tommy per trovare un organo illegale. Per salvare la vita a Luca e a suo figlio. «Cosa c’entra Tommy in tutto questo?» chiese a Lorenzo.
«Lo abbiamo coinvolto per cercare un organo illegale nell’Europa dell’est. Lui ci
ha prestato il denaro. Sembrava che l’avessimo trovato, ma poi l’affare è andato a monte perché si è rivelato una truffa. E Tommy è andato su tutte le furie. Sai com’è fatto. Rivoleva indietro i suoi soldi».
«La Volvo gialla è sua, vero?»
«Sì, l’ha prestata qualche volta a Livia che era rimasta senza auto. Luca, adesso guardami». Lorenzo si colpì ritmicamente il ventre con il pugno. «Il mio fegato è sano e ho un gruppo sanguigno compatibile. Una cosa del genere non la troveresti abbastanza velocemente. Capisci che significa?»
Annuì. Suo fratello era il donatore ideale. Per questo da un giorno all’altro aveva modificato il suo stile di vita, facendo sport e nutrendosi in modo sano. Tutto in preparazione dell’espianto. E per questo Tommy lo aveva lasciato libero. Lorenzo doveva avergli raccontato tutto all’ultimo minuto. Probabilmente solo quando Tommy lo aveva trascinato fuori dall’auto e picchiato nel giardino della villa di sco. Tommy aveva rinunciato a ucciderlo quando aveva saputo che Lorenzo sarebbe comunque morto. Perché sporcarsi le mani se la vittima si sacrifica volontariamente?
«Livia ti ama» aggiunse Lorenzo sottovoce. «E anche sco. Hanno fatto tutto questo per non perdere ogni cosa, te e il piccolo. Perciò ti prego, ti prego, ora restituiscimi quella pistola» lo supplicò. «Lascia che io porti a termine il mio compito».
Luca arretrò di un o. Anche se il ricordo dell’incontro alla villa di sco non era ancora nitido, ora sapeva bene per cosa avevano litigato in auto, dopo quella visita.
«Ma lo capisci o no che non abbiamo altra scelta?»
Livia, accecata dalla disperazione, aveva accettato il piano omicida che avrebbe salvato suo figlio e suo marito. Luca era stato da subito contrario protestando durante il viaggio di ritorno e se non fosse stato per l’incidente, avrebbe impedito il suicidio di suo fratello.
«Perché avete reso tutto tanto complicato?» chiese esausto.
«Come ti ha già detto Livia: abbiamo perso il controllo della faccenda. Da un lato sco voleva mantenere la tua amnesia in modo che tu non impedissi la mia morte. Dall’altro lato, però, doveva prepararti per l’intervento. Per questo motivo dovevi cambiare così spesso la medicazione».
«Perché non mi ha semplicemente tenuto sotto sedativi o sequestrato?»
«sco?» Lorenzo si raddrizzò sulla sedia. «Tuo suocero è un uomo senza scrupoli, ma non è un criminale, anzi. Voleva salvarti e all’inizio aveva pensato che sarebbe stata sufficiente una sola bugia. Perciò ti rinchiuse in una sorta di prigione mentale dalla quale avresti potuto fuggire molto più difficilmente che da una prigionia fisica, capisci?» Lorenzo tossì. «Naturalmente tutto c’è sfuggito dalle mani e, quando è apparsa Viola, il caos è stato completo. La fuga della pazza non era parte del copione. Nessuno l’aveva previsto. Come nessuno aveva previsto che avresti cercato aiuto proprio da me. Maledizione, Luca, volevo usare le ultime ore della mia vita per accomiatarmi e all’improvviso mi sono ritrovato te, Tommy e quella paranoica alle costole». La sua voce divenne debole. «A un certo punto Livia non voleva più andare avanti e aveva pregato sco di interrompere tutto e informarti. Ma lui non ragionava più. Alla fine erano entrambi sconvolti dal panico e dalla paura».
Lorenzo deglutì. «Paura per te e per il piccolo. Capisci ora?»
Sì. Purtroppo.
Lo avevano traumatizzato, ma non per ucciderlo: tutto era stato fatto per proteggerlo. Aveva dovuto dimenticare per vivere.
«E ora?» chiese Luca ormai alla fine di ogni rimasuglio di forza fisica e psichica. «Esattamente, come si dovrebbe procedere?»
88.
Lorenzo rise malinconico e lanciò una rapida occhiata al proprio orologio.
«Il fegato è l’unico organo umano che può essere diviso» disse dopo una breve pausa. «Tuo figlio avrà la parte sinistra e tu quella più grande, mi ha spiegato sco. Funzionerà, ma bisogna fare presto! Quindi ti prego…».
Allungò la mano verso l’arma. «Su, vieni qui. In fondo ho già cercato di farlo. Almeno il mio suicidio avrebbe un senso».
«Non posso permetterlo».
«E’ tutto pronto. Tuo figlio attende in sala operatoria. Se io non muoio, lui non potrà vivere. E neppure tu».
«Può essere» rispose Luca e poi citò un uomo anziano che aveva conosciuto solo poche ore prima. L’unico che con lui era stato sempre onesto: «Una cosa sbagliata non può mai essere giusta».
Lorenzo lo guardò sbalordito. «Uno muore, due vivono. Cosa c’è di sbagliato?»
«La morte non regge paragoni matematici!» urlò Luca.
Lorenzo rivolse gli occhi verso l’alto. «Allora non capisci, vero? Vuoi una ragione? Bene, guarda. Te ne regalo una».
Lorenzo si tirò indietro i capelli sudati e sporchi di sangue.
«Livia ed io abbiamo scopato e anche più di una volta».
«Cosa?»
«Sì! Lo abbiamo fatto. Lei si sentiva in colpa per la mia situazione psichica e voleva farsi perdonare in quel modo». Gli occhi di Lorenzo erano velati dalle lacrime.
«Dopo, però, mi sono sentito una merda. Avevo approfittato della debolezza di Livia in quel periodo. Ci ho provato, ma non potevo più vivere dopo quello che avevo fatto. Per questo mi ero tagliato le vene».
Per un attimo Luca non sentì più il pavimento sotto i piedi. Aveva sventato il tentativo di suicidio di un uomo che si dichiarava colpevole di aver fatto sesso con sua moglie. Fu investito da un’ondata di dolore e rabbia.
Allora Bessone ha torto? Può una cosa sbagliata essere giusta?
Pensò al suo lavoro con i ragazzi e capì che il principio secondo il quale aveva sempre condotto la sua vita era applicato persino alla più spaventosa delle situazioni.
Il fine giustifica dunque tutti i mezzi?
«Avevo confessato subito a Livia il mio rimorso» continuò Lorenzo. «Ma lei ha preferito tenerlo nascosto, soprattutto a te» deglutì. «Tu non avresti mai dovuto sapere delle vere cause dei suoi dubbi. Inoltre sapeva che il mio dolore sarebbe stato la punizione peggiore».
«Per favore, dammi la possibilità di riparare. Per te, per il bambino. Per Livia».
Le labbra di Luca tremavano, mentre rifletteva sulle conseguenze della decisione che stava per prendere.
Se avesse salvato Lorenzo dal suicidio, avrebbe rischiato la propria vita e determinato con certezza la morte di suo figlio.
Impugnò la pistola, controllò la sicura e spinse indietro il calcio per armare un nuovo proiettile. Aveva deciso.
Lorenzo strinse i denti e ignorando il dolore bruciante appoggiò la gamba ferita. Poi balzò in avanti per prendere a Luca la pistola, ma questi scartò a destra, verso la finestra della terrazza. Quasi non riuscì ad afferrare la maniglia perché Lorenzo lo teneva per la manica della giacca. Arrancando spalancò la porta e
lanciò fuori dalla balaustra l’arma, che disegnò un ampio arco, mentre Lorenzo gli si aggrappava alle spalle.
Caddero a terra e per un momento si fissarono: increduli, sfiniti, feriti.
Luca cercò di allontanarsi, ma non vi riuscì. Era pervaso da un sentimento mai provato prima che lo divideva in due. Un misto fra il bisogno di vendetta paterno e l’amore fraterno. Infine guardò Lorenzo nei profondi occhi scuri e pieni di lacrime senza sapere cosa dire. Ma non ebbe nessuna possibilità di pensarci, perché questa volta non era preparato. Tutto accadde troppo velocemente.
Lorenzo lo colpì in viso con il gomito, balzò in piedi e zoppicò fino alla porta spalancata. Trascinandosi dietro la gamba ferita e gemendo per il dolore arrivò sulle piastrelle scivolose della terrazza. E tuttavia Luca non ebbe la possibilità di prenderlo. Suo fratello, che si stava preparando al salto dalla balaustra, era ormai lontano da lui.
89.
Era inevitabile. Lorenzo afferrò la ringhiera come un ostacolista esausto, la gamba destra davanti. Alzò le braccia, come per salutare lo spoglio salice piangente nel parco.
Spinse avanti il petto, inarcò la schiena e per un attimo rimase a guardare nel vuoto, come un paracadutista poco prima che il paracadute si apra. Poi il suo piede sinistro si bloccò sulla ringhiera.
I rami ghiacciati e spogli tremavano. Mentre saltava, sembrava che Lorenzo volesse rigirarsi, con il braccio destro arrancava indietro e questo confermò l’impressione di Luca: non era stato involontario. Lorenzo aveva frenato all’ultimo minuto il salto, voleva evitare la caduta e aggrapparsi alla ringhiera.
Ma perché?
Quando Luca uscì dall’edificio vacillando nel nevischio, davanti ai suoi occhi balenavano delle luci.
La mano di Lorenzo era scivolata dall’angolo ma era riuscita ad afferrare un ramo. Ora era appeso con un braccio dietro la protezione, le sue gambe penzolavano nel vuoto. Cercò di trovare un appiglio anche con l’altro braccio, ma i sostegni di metallo erano così ghiacciati che le sue mani continuavano a scivolare.
Vuole tirarsi di nuovo su. Ha cambiato idea.
Luca si affrettò ad aiutarlo e slittò un poco quando avanzò con le suole di gomma. Intanto le dita di Lorenzo erano scivolate del tutto dai rami e si aggrappava ora con entrambe le mani a un sottile muretto ornamentale.
Quando finalmente Luca lo raggiunse, era aggrappato solo con la parte finale delle dita.
Luca si piegò sulla ringhiera, guardò perpendicolarmente di sotto e capì perché Lorenzo, nel mezzo del salto, aveva cambiato idea.
Era troppo alto.
Aveva scelto la parte sbagliata per saltare.
«Morte cerebrale, ma il cuore deve continuare a battere. Fa come ti ho mostrato».
Già dal terzo piano era difficile dire se gli organi potessero reggere l’impatto senza danni. Ma da qui era molto più alto, perché sco aveva fatto scavare un’enorme buca davanti alla facciata orientale. Per una struttura, forse un garage sotterraneo o una piscina per i pazienti. Da quassù non si capiva bene, ma era chiaro l’effetto che un salto da quest’altezza avrebbe prodotto.
Lorenzo si sarebbe sfracellato là sotto.
Per prima cosa le fondamenta dello scavo erano coperte di sbarre di acciaio. Nessun cespuglio, nessuna radura erbosa, niente terra. Non c’era nulla là sotto che potesse attutire l’impatto.
«Merda» sbuffò Lorenzo. Rimaneva immobile per non scivolare ulteriormente. Le sue dita gelate erano esangui, ormai non poteva più reggersi.
«Ti aiuto» disse Luca. Da dove si trovava, non poteva tirarlo su. Salì sulla ringhiera e cercò di restare in equilibrio sul piccolo muretto sporgente cui Lorenzo si teneva. Le suole di gomma scivolavano sulla pietra bagnata.
«Okay» disse afferrando le braccia di suo fratello.
Con l’altra mano si teneva stretto ai rami.
«Ti tengo» mentì. Era stanco, debole e tutto il suo corpo era dolorante. Luca poteva sostenere a malapena se stesso, men che meno poteva tirare su suo fratello e issarlo sulla balaustra.
«Cazzo, sono sfigato persino nella morte!» inveì Lorenzo.
Luca gli lanciò un sorriso doloroso e mentì di nuovo. «Ti ho preso!»
«Lasciami andare».
«Col cavolo!»
«Lasciami o precipitiamo tutti e due!»
Le dita di Luca scivolarono sul tessuto liscio della giacca a vento bagnata, ma poi riuscì ad afferrarla di nuovo. Per ora.
Guardava sotto in cerca di aiuto, ma i dintorni della clinica sembravano morti con quel tempo. Un’ambulanza con una croce rossa sul tetto bianco parcheggiò inutilmente a cinquanta metri di distanza.
«Mi dispiace» disse Lorenzo, mentre Luca continuava a fissare il tetto dell’ambulanza. Improvvisamente non sembrava più un uomo appeso per un pelo che lotta per la vita. Sebbene il suo intero corpo fosse teso in un unico spasmodico sforzo, sembrava calmo. Era finita.
«Lasciami» lo pregò per l’ultima volta.
Luca annuì.
Poi raccolse tutte le sue forze e afferrò suo fratello con entrambe le braccia,
anche se in questo modo lui stesso non aveva più sostegno. Gli bastavano solo pochi centimetri per tirare su Lorenzo almeno un po’. Non riuscì tanto quanto avrebbe voluto, ma di più non poteva. Non aveva più forza ormai.
Non era l’ideale e rimaneva ancora un rischio. Ma negli ultimi minuti una voce dentro di lui gli diceva che avrebbe funzionato, così scese dal muretto e si lanciò nel vuoto insieme a Lorenzo.
90.
La luce cadeva da una strana angolazione dalle finestre rinforzate, le cui inferriate lanciavano una lunga ombra a graticola sul pavimento. Sebbene la camera del paziente fosse pulita e arieggiata regolarmente, piccole particelle di polvere volteggiavano nell’aria e conferivano la forma di un riflettore al cono che i raggi del sole creavano.
«Non può parlare» disse asciutto il primario, mentre tra i suoi denti sottili brillò per un attimo l’ombra di un confetto alla menta. Un misero tentativo di nascondere l’odore di nicotina del suo alito.
«Da quanto tempo è in queste condizioni?» chiese Lorenzo Bernardi e appoggiò ai piedi di quel letto lo scomodo tubo di cartone che aveva dovuto trascinare da solo per quel lungo viaggio fino là.
«Da una settimana».
Il medico si spostò di lato e controllò la fleboclisi con cui l’uomo veniva nutrito. Il contenitore era ancora colmo.
Il paziente sembrava non rendersi conto di ciò che accadeva intorno a lui. Dormiva a occhi aperti, respirando solo attraverso la bocca.
Lorenzo ripensò alle parole del medico, mentre fissava intensamente il viso consumato di suo fratello.
Quando erano caduti nel vuoto e si erano schiantati sull’asfalto, il corpo di Luca aveva in parte attutito il suo impatto. Lui si era salvato miracolosamente e avevano potuto asportargli parte del fegato per il trapianto al bimbo appena nato. L’intervento era riuscito perfettamente e la vita del piccolo sco era stata salvata.
Per Luca invece non c’era nulla da fare. Le sue condizioni erano gravissime, nessun intervento era praticabile, la sua vita continuava ad essere appesa a un filo.
Lorenzo si avvicinò al letto.
Il medico si schiarì la voce. «Non voglio intromettermi ma non riesco a immaginare come possa arrivare a lui. Non percepisce la realtà esterna».
«Sono suo fratello, mi riconoscerà» rispose Lorenzo e aprì il coperchio del tubo di cartone. «Luca, puoi sentirmi?»
Si voltò verso l’uomo, mentre rovesciava il tubo per estrarne cautamente il contenuto.
Nessuna reazione.
«E questo cosa dovrebbe essere?» chiese il dottore dopo che Lorenzo aveva terminato i preparativi. Andò di fronte alla parete e allungò la mano verso la tela
che il visitatore aveva appeso provvisoriamente.
«E’ una mia opera» rispose Lorenzo e da quel momento si concentrò sul paziente.
«Luca, guardalo».
Si fece da parte, in modo che lo sguardo vuoto dell’uomo potesse cadere di fronte al letto. «Ti ho portato qualcosa».
«La casetta nel bosco?» lesse il medico nella minuscola scritta sotto il quadro. Si voltò. «Io riesco a vedere soltanto una distesa bianca».
Lorenzo Bernardi non gli diede retta. Ora si trovava alla testa del letto, di fianco a suo fratello, che, nonostante le sue gravi condizioni, non aveva perso l’aria dolce nell’espressione del suo viso.
«Ti è sempre piaciuto molto questo quadro» sussurrò piano in modo tale che il medico non potesse sentire. «L’ho dipinto dopo che la mamma è morta. Tu sei stato l'unico che ne aveva capito il significato, quando l’hai visto nel mio appartamento. Riesci a ricordare? E' la casetta dei nostri sogni, per la nostra famiglia, o di quella che avremmo voluto avere. E' la casetta dove avremmo voluto vivere tutti insieme, senza la malattia di papà, con la mamma serena e spensierata. Riesci a ricordare i nostri sogni da bambini?»
Nessun cambiamento. Ancora nessuna reazione.
«Lo vede, amico mio!» Il medico sembrava quasi trionfante.
Lorenzo Bernardi annuì con aria assente.
«Lo lascio qui per te» gli sussurrò all’orecchio. «Ed io tornerò. Il prossimo fine settimana. Magari avrai voglia di parlare con me».
Lorenzo continuava a sussurrare, sebbene il volto di Luca non mostrasse il minimo segno di comprensione.
Gli accarezzò la guancia e si fece da parte. Lo spirito di Luca non sembrava essere affatto nella stessa stanza in cui si trovavano. I lineamenti del suo viso restavano fissi e privi di espressione, mentre fissava inerte la tela grezza, enorme e bianca.
«Può lasciarci da soli un attimo?» chiese Lorenzo al medico.
«Certamente, non c’è nessun problema».
Quando il medico si chiuse la porta della stanza alle spalle, Lorenzo prese il cellulare è chiamò un numero criptato. Dopo alcuni squilli qualcuno rispose.
«Buongiorno, Monsignore. Mi scusi se la disturbo, ma sono nella camera
d’ospedale di mio fratello. Non ci sono più speranze ormai. Credo che sia giusto farlo, per il suo bene, per non vederlo più soffrire. Osservo i suoi occhi che me lo stanno chiedendo quasi pietosi. Se lei me lo consente, praticherò il Sacro Rito e porrò fine alla sua agonia per affidarlo alla pietà del nostro Signore Satana».
Lorenzo ricevette l’autorizzazione.
«Grazie, Eminenza» disse Lorenzo senza manifestare alcun segno di gioia.
Lorenzo era diventato un Satanista.
Già ai tempi in cui frequentava Tommy, più volte gli era stato chiesto di entrare a far parte di qualche setta satanica. Ma lui aveva sempre rifiutato. Non tanto perché fosse un fervido credente, anzi tutt’altro, ma perché aveva per curiosità partecipato ad alcune messe nere e gli erano sembrate soltanto un’accozzaglia di stronzate praticate da cocainomani idioti.
Poi però le tragedie familiari dell’ultimo periodo lo avevano segnato. In particolare il fatto che lui si fosse salvato da una morte quasi certa, lo aveva spinto a credere in qualcosa, a cercare un rifugio spirituale. In quel periodo aveva conosciuto un uomo di Chiesa, che lo aveva assistito con molto affetto e gli aveva restituito un po’ di serenità. Solo col tempo, però, Lorenzo capì che si era venduto a Satana. All’inizio gli parve come un tradimento, come se il prelato gli avesse offerto un aiuto spirituale unicamente per arruolarlo nelle fila della setta religiosa cui apparteneva. Poi però si era ricreduto, aveva incominciato a condividere le sue tesi e alla fine aveva accettato di entrare a far parte di questa setta, una setta satanica veramente potente: La Setta del Pàntaclo.
Lorenzo prese dalla sua giacca una siringa monouso e un flaconcino contenente un liquido trasparente. Riempì la siringa, si avvicinò al fratello e lo guardò con dolcezza. «Addio fratellino, mi mancherai. Stai tranquillo, baderò io a Livia e al piccolo sco».
A quel punto recitò una formula in latino inginocchiandosi e alzando le braccia al cielo. Dopo un paio di minuti si rialzò, scoprì il braccio destro di Luca e, con la mano tremante, praticò l’iniezione fatale. La morte sarebbe sopraggiunta in pochi secondi.
Fu un attimo. Il cuore di Lorenzo cominciò a battere tumultuosamente. Sul viso di Luca era apparso un piccolo abbozzo di sorriso.
Due lacrime uscirono nitidamente dai suoi occhi e gli rigarono il volto.
La morte aveva provocato un piccolo, ma allo stesso tempo enorme, accenno di vita.
91.
L’aria all’interno della villa era molto viziata. Un odore pregnante di fumo era diffuso un po’ ovunque nelle stanze.
Le due ragazze si avviarono verso il salone, dove erano presenti gli invitati a quella festa.
«Che vita di merda che fai, Cecilia!» disse una delle due ragazze.
«Stai calma, Betta! Hai deciso di fare la puttana d’alto borgo? Allora devi saper accettare anche quello che vedrai questa notte. Credi che a me faccia piacere farmi sbattere da questi luridi maiali che poi la domenica vanno in chiesa a predicare la Parola di Dio? Ma pagano bene, molto bene! Con quello che guadagnerai stasera, avresti dovuto lavorare un mese da commessa in un atelier d’alta moda. Devi fartene una ragione».
Betta guardò una bambina con i boccoli biondi che suonava il pianoforte e chiese con disgusto: «Cecilia, ma ci sono anche delle bambine?».
L’amica sviò la domanda: «Francamente non lo so e non lo voglio sapere».
Gli invitati accolsero con entusiasmo l’arrivo delle due ragazze. Erano tutti uomini di Chiesa, mediamente anziani e, a giudicare dai loro abiti talari, anche di un certo rango. Betta fu però colpita in particolare da un giovane prete, alto e con gli occhi azzurri, di bell’aspetto, che pareva del tutto disinteressato alla festa
e la cui presenza stonava completamente con gli altri prelati. Sembrava quasi un bodyguard, addetto alla sicurezza dei presenti. Quasi tutti fumavano, enormi sigari, normali sigarette ed alcuni anche canne di marijuana.
In particolare c’erano un Cardinale e un Vescovo che confabulavano in un angolo, lontano da sguardi indiscreti.
«Allora, Monsignore, è tutto pronto per dare inizio alla Sacra Profezia?»
«Certamente, Eminenza. Domani sarà il 25 ottobre 2014. Entro breve tempo il nostro Dio dominerà sul mondo intero».
«Benissimo, allora andiamo un po’ a divertirci».
92.
«Argo! Torna qui subito! Aspettiamo Pietro e Fox». Camminando con circospezione in mezzo alla sterpaglia Giuseppe cercava di stare dietro al suo fidato cane da caccia, senza però perdere contatto con il suo compagno di squadra che si era attardato in un pianoro sottostante. Il cane, un affettuoso e intelligente beagle-harrier, con un morbido manto nei tre tipici colori, bianco, nero e marrone, instancabile ed energico, stava annusando l’aria in cerca di una pista.
Tutto intorno era un tripudio di colori, mille tonalità di giallo, di rosso e di marrone con qualche residua sfumatura di un pallido verde, contribuivano ad annunciare la ormai prossima fine dell’autunno e l’arrivo del gelo invernale. Il sole faceva capolino in mezzo ai rami e alle ultime foglie ancora appese e, con i suoi raggi tiepidi, rendeva l’atmosfera accogliente e vivace.
Era un ambiente ideale per caprioli, cinghiali, volpi e tantissimi uccelli che rallegravano il bosco con il loro gioioso cinguettio.
Ad ogni o si sentiva il crepitio delle foglie e dei rami secchi sotto le scarpe del cacciatore, che cercava comunque di fare attenzione a non provocare troppo rumore per non allertare l’eventuale selvaggina. Il cane procedeva imperterrito ai richiami del padrone, quasi fosse attratto da una calamita. Giuseppe lo conosceva bene: aveva fiutato una preda. Come in altre battute di caccia stette ad aspettare che Argo gli indicasse la posizione esatta dell’animale quando, all’improvviso, il cane si mise a correre velocemente, scartando con agilità alberi ed arbusti e allungando rapidamente il distacco dal cacciatore che, accanito fumatore, stava facendo una notevole fatica a mantenere la stessa andatura dell’animale, essendo impacciato anche da una corporatura per nulla esile.
Ad un tratto, raggiunta una piccola radura, il cane si fermò ed iniziò a latrare nervosamente. Di fronte a loro c’era una piccola chiesetta sconsacrata, ormai poco più di un rudere. Il tetto era crollato ma le pareti erano ancora in parte integre. Si potevano notare i resti di un intonaco colorato ed alcuni segni sacri su quella che era la porta, di cui restavano poche assi marce vicino all’ingresso. Si intravedevano anche i resti di un antico affresco che ricordava la peste del 1630, probabilmente il ricordo di un voto fatto dai parrocchiani per l’ottenuta guarigione.
Il cane continuava ad abbaiare sempre più forte e sembrava quasi invitare il suo padrone ad entrare nella chiesetta. Il cacciatore imbracciò il fucile e facendo attenzione ai calcinacci e ai pezzi di legno dei banchi e delle travi del soffitto entrò nel piccolo locale. Dentro c’era poca luce in quanto gli alberi intorno si erano riappropriati dello spazio, allungando i loro rami sopra il rudere, ormai in parte ricoperto anche da rovi e sterpi, che avevano creato una sorta di tetto e protetto l’interno dalle precipitazioni atmosferiche. Appena i suoi occhi si adattarono alla penombra il cacciatore rimase pietrificato, una scena terribile si presentava davanti ai suoi occhi. Riuscì solo a dire: «Oh, Cristo Santo…».
Su quello che era l’altare, ormai niente di più che un polveroso pezzo di marmo, disadorno e rovinato dalle incurie del tempo, giaceva il corpo completamente nudo di una ragazza, con un pugnale conficcato nel petto, in corrispondenza del cuore. Dalla ferita scendevano fiotti di sangue ormai raggrumato e inscurito. Creavano un macabro contrasto con la pelle livida del corpo inerme, che in alcuni punti dava già segni di decomposizione. Anche l’altare e il pavimento vicino ad esso erano sporchi di sangue, segno che l’impatto del pugnale con il corpo della vittima doveva essere stato molto cruento.
L’uomo, preso dal terrore, inciampò e cadde per terra. L’impatto fece partire inavvertitamente un colpo dal fucile che frantumò un pezzo di parete dalla parte opposta.
La battuta di caccia aveva dato i suoi frutti, ma non erano quelli che il cacciatore si aspettava.
93.
Dopo essersi ripreso dallo spavento e aver cercato di calmare il cane che stava ancora mugolando, agitato com’era dall’odore di tutto quel sangue, il cacciatore, con il cellulare, chiamò le forze dell’ordine. Cercò di dare indicazioni precise sul luogo del ritrovamento utilizzando i riferimenti tipici, significativi per i frequentatori abituali, per localizzare il luogo: la frazione, i ruscelli, i sentieri, i pianori, le rive, tutti con nomi particolari che in alcuni casi richiamavano qualche avvenimento entrato nella leggenda o molto più spesso qualche santo o qualche presunto miracolo.
Il cacciatore si trovava, infatti, sulle colline prospicienti la cittadina di Cairo Montenotte, uno dei più importanti e popolati comuni dell’entroterra savonese, adagiato nella piana di fondovalle della Bormida di Spigno, lungo la riva sinistra, in Val Bormida. Questo territorio collinare era coperto per la maggior parte da boschi di castagno, all’interno dei quali era presente una rete di sentieri che permetteva ai cercatori di funghi, ai cacciatori, ai raccoglitori di castagne o semplicemente agli apionati di mountain-bike, di addentrarsi con facilità.
I primi ad arrivare sul posto furono proprio i Carabinieri della vicina Stazione di Cairo, che rimasero attoniti di fronte alla scena. Vista la gravità del caso ritennero necessario informare il Comando Provinciale: mai nella loro carriera si erano trovati di fronte a tanta crudeltà ma soprattutto era necessario il dispiego di mezzi e uomini idonei per non alterare la scena del crimine e ottenere tutti gli indizi e i riscontri del caso.
Mentre l’atmosfera si stava rapidamente rinfrescando e la luce diventava via via più grigia, il bosco si stava preparando alla sera, aumentando nei presenti un senso di sconforto e di pietà per quella povera ragazza finita in un modo atroce.
Nell’attesa dell’arrivo dei superiori, i due carabinieri di pattuglia avevano richiesto informazioni ai colleghi della Stazione su eventuali denunce di scomparsa, senza ottenere risultati utili.
Finalmente, annunciati dai latrati di Argo e Fox, arrivarono i carabinieri del Comando Provinciale.
La squadra era comandata dal Capitano Johnny Mancuso, nato in America da immigrati italiani che però, in giovane età, aveva lasciato la famiglia oltreoceano ed era ritornato nel paese di origine per il grandissimo desiderio di entrare a far parte dell’Arma dei Carabinieri, come suo nonno paterno, di cui andava fiero e di cui ricordava, quasi come un mito, tutti i racconti delle azioni in difesa della legalità. A trentotto anni era soddisfatto della sua scelta, nonostante ci fosse stato in ato un evento che aveva condizionato negativamente la sua carriera. Era comunque diventato Comandante ed era benvoluto da tutti i suoi sottoposti per la sua lealtà, la sua abnegazione e il suo coraggio. Aveva maturato una grande esperienza nell’analisi di omicidi seriali, terrorismo e lotta alla criminalità organizzata, anche grazie a numerosi corsi di affiancamento svolti negli Stati Uniti presso la FBI e la NSA.
«Buongiorno, Maresciallo. Mi faccia strada».
«Venga, Capitano. E’ qui dentro. E’ una scena orribile. L’ha ritrovata un cacciatore grazie al suo cane che ha fiutato l’odore del sangue».
I due carabinieri entrarono nel rudere e l’impressione fu davvero forte, anche per un soldato come Mancuso.
Il volto della ragazza aveva mantenuto, pur nella brutalità dell’evento, un’espressione serena, segno che prima di morire non aveva sofferto.
Conosceva forse l’assassino? Era stata uccisa in altro modo e poi denudata e trafitta col pugnale?
Domande alle quali era impossibile rispondere così su due piedi. Il Capitano uscì seguito dal Maresciallo per lasciare il posto ai colleghi per i primi rilevamenti.
Si avvicinò ai due cacciatori che erano stati fatti sedere su un cumulo di legname ai bordi della radura.
«Chi di voi ha ritrovato il cadavere?»
«Io, Capitano» disse Giuseppe.
«Mi racconti com’è andata, per favore» disse il Capitano cercando di mitigare il tono della sua voce, perché capì che il povero cacciatore era ancora sconvolto.
«Stavo seguendo Argo, il mio cane. Aveva fiutato una preda, poi all’improvviso si è messo a correre e si è fermato davanti alla chiesetta latrando come un disperato. Non aveva mai fatto così. Mi sono spaventato. Poi sono entrato e ho visto quella scena orribile. Ho subito telefonato ai Carabinieri… non so dirvi altro». Si prese la testa fra le mani e continuò: «Nella mia vita non ho mai visto una cosa così orribile. Chi ha potuto farlo?».
«Stia tranquillo, adesso ci siamo noi e cercheremo di risolvere il caso. Lei non ha toccato nulla? Neanche il suo cane? Avete notato altri particolari? Brandelli di vestiti, segni di colluttazione nelle aree qui intorno, resti di oggetti, qualsiasi cosa».
«No, mi spiace. Anche i cani non hanno fiutato altro. E’ davvero strano».
«Sì, davvero. Non può certo essere piovuta dal cielo. La conoscete oppure avete avuto notizia in paese della scomparsa di qualche ragazza della sua età?»
«No, mi dispiace. Sa, in paese si viene a sapere sempre tutto di tutti, ma questa volta non abbiamo sentito dire niente, neanche dai paesi vicini e lei non l’avevamo mai vista prima».
«Comunque state tranquilli, i miei uomini faranno i controlli necessari. Per ora grazie, potete andare. I colleghi di Cairo vi riaccompagneranno alle vostre auto. Lasciate ovviamente i vostri dati. In caso di necessità vi richiameremo».
«Grazie. Arrivederci e buon lavoro. Argo, andiamo, svelto!»
I due cacciatori preceduti dai cani e dai carabinieri ripresero il sentiero del ritorno mentre Mancuso rientrò nella chiesetta per cercare di trovare qualche particolare utile alle indagini.
Mettendosi un fazzoletto sul naso, il Capitano si avvicinò al cadavere. La scena era raccapricciante ma la cosa che più sconvolgeva era l’apparente espressione
serena del volto della ragazza, la mancanza di segni di sofferenza, quasi un sorriso estatico che strideva non poco con lo squarcio del pugnale e tutte le macchie di sangue che ricoprivano il petto, l’altare e il pavimento. Sul resto del corpo non c’erano apparenti segni di sevizie né ferite né altro che fero pensare che il corpo fosse stato trascinato lì in mezzo al bosco. Davvero un angelo caduto dal cielo. Sì, un angelo. Il suo viso aveva mantenuto, anche nella morte, un aspetto disteso, i lineamenti delicati e il pallore della morte sottolineavano un sorriso di due labbra appena serrate che avevano però un terribile colore violaceo, ricordo della morte.
Il corpo di giovane ragazza era abbandonato con un braccio penzolante dall’altare, le gambe leggermente ripiegate e su tutto spiccavano quel maledetto pugnale e quel sangue.
Nonostante i suoi trascorsi, Mancuso era impressionato da quella scena. Facendosi forza cercò di recuperare la sua freddezza e continuò ad esaminare il cadavere mentre intorno a lui i suoi colleghi lavoravano alacremente.
Lo colpì in particolare il pugnale: nella parte di lama non conficcata nel corpo, erano visibili dei piccoli incavi disposti regolarmente come a formare un fiore e sull’impugnatura, molto particolare perché presentava una specie di foglia a protezione della mano, era incisa, in piccoli caratteri, una frase in latino, “Mors purificatio tua erit”, con sotto un pentacolo con la punta rivolta verso il basso.
Mors purificatio tua erit
Il Capitano rimase un attimo a fissare tutto ciò poi, come stordito, uscì e si sedette sui tronchi aspettando che i colleghi finissero i loro rilevamenti e cercando di riordinare i pensieri ed annullare l’effetto emotivo che aveva avuto su di lui la vista del cadavere di quella povera ragazza. Era un militare e doveva ragionare freddamente sull’accaduto cercando rapidamente la soluzione: questo era richiesto nel suo lavoro.
Mentre era assorto nei suoi pensieri, fu disturbato da rumori di i e voci. Il Procuratore della Repubblica era appena arrivato e si stava dirigendo verso di lui.
«Buonasera, Mancuso. Che succede?»
Mancuso si avvicinò e fece un resoconto dello stato dei fatti: «Buonasera, Procuratore. Un cacciatore ha ritrovato il cadavere di una ragazza, uccisa presumibilmente da una pugnalata al cuore. Non ci sono indizi significativi, almeno per ora, tranne il pugnale, molto particolare. Abbiamo delimitato la zona e fatto i primi rilievi necessari ma la giovane sembra essere piovuta qui dal nulla».
Intanto il Procuratore aveva dato un’occhiata all’interno della chiesetta ed era rimasto colpito da ciò che aveva visto. Con voce roca disse: «E’ impressionante! Dobbiamo farci aiutare dal RIS, è necessario svolgere controlli e rilevamenti accurati, cerchiamo di non inquinare la scena del crimine. Mi raccomando, Mancuso, conto su di lei e sulla sua professionalità. Questo caso ci farà puntare
addosso tutti i fari dei mass media nazionali».
«Non si preoccupi, farò il possibile. Intanto avverto subito il RIS di Parma. Nel frattempo lascerò due militari di guardia per la notte».
«Va bene. Mi tenga informato».
Mancuso prese il cellulare per telefonare immediatamente ai colleghi di Parma. Il Procuratore era preoccupato dai mass media, ma lui non riusciva a cancellare dal suo cervello l’immagine di quella giovane così barbaramente uccisa.
94.
Ritornati al Comando di Cairo, il Maresciallo Guarneri si diede subito da fare per mettere a disposizione del Capitano tutte le forze della Stazione per lo svolgimento delle indagini, in attesa dell’arrivo dei colleghi di Parma. Dovevano verificare tutte le denunce di scomparsa presentate in zona, anche nei paesi vicini e dovevano cercare informazioni sul pugnale, davvero particolare.
«Capitano Mancuso, venga, possiamo adattarle questa stanza come ufficio temporaneo».
«Grazie, Maresciallo, qui va benissimo. Faccia controllare tutte le denunce di sparizione che sono state fatte in zona di eventuali ragazze di età compresa tra i venti e venticinque anni. Se non troviamo niente di utile al nostro caso, allarghiamo pian piano il raggio di ricerca. Dovrà pure saltar fuori qualcosa!»
«Subito, Capitano» disse il Maresciallo uscendo dalla stanza e chiamando a raccolta i propri sottoposti.
L’attività nella Stazione si fece frenetica, le poche forze a disposizione si concentrarono tutte sul caso di omicidio più anomalo ed efferato avvenuto negli ultimi anni nella piccola cittadina.
La ricerca però non diede risultati positivi: dal database dei Carabinieri purtroppo non saltò fuori nessuna denuncia di scomparsa compatibile con le caratteristiche della ragazza ritrovata nel bosco.
Mancuso aveva incominciato anche a cercare informazioni sull’arma del delitto: il pugnale conficcato nel cuore della vittima era molto particolare, non era certo venduto in una comune armeria e a un primo esame sembrava antico, forse rubato in qualche collezione privata o in qualche negozio di antiquariato.
Setacciando il web, in un sito che riportava il glossario delle armi bianche, riuscì a scoprire il nome del pugnale. Si chiamava Paternoster e i piccoli incavi che aveva potuto parzialmente scorgere sulla lama, avevano la funzione delle palline di un rosario presso i soldati che lo portavano.
Macabra scoperta: uno strumento di morte utilizzato per la preghiera!
Rinvigorito dal buon esito della ricerca, chiamò il Maresciallo: «Per favore, trovatemi chi possa avere o aver avuto un pugnale del genere» disse Mancuso volgendo lo schermo del proprio portatile verso Guarneri e annotando il nome del pugnale su un foglio. «Se non trovate nessun venditore o collezionista di armi antiche in zona, estendete il raggio di ricerca ed eventualmente cercate su internet, potrebbe essere stato acquistato su qualche sito specializzato nel traffico illegale di armi» aggiunse porgendo l’appunto al Maresciallo.
«Va bene, Capitano» disse Guarneri e si allontanò dalla stanza.
Erano trascorse diverse ore dal ritrovamento del cadavere, Mancuso, rimasto solo, cercò di analizzare i pochi indizi raccolti, quando fu avvisato dell’arrivo dei colleghi di Parma.
«Presto ragazzi, accompagniamo i colleghi sul luogo del delitto. Prendete il necessario per illuminare adeguatamente la zona, dobbiamo riuscire a trovare altre tracce, altrimenti non riusciremo a capirci nulla» disse uscendo.
Nel piazzale antistante alla Stazione ebbe finalmente il primo piacere della giornata, la squadra di Parma era diretta dal tenente Valentina Cortesi.
«Buonasera, Cortesi. Sono contento che sia stata incaricata tu delle indagini, la tua fama ti precede».
«Ciao, Mancuso. Purtroppo la circostanza che mi ha portato qui non è delle migliori, ma è il nostro lavoro! Raccontami del delitto».
«Sì, intanto partiamo, dobbiamo raggiungere il luogo dell’omicidio e c’è un po’ da camminare per i boschi. A quest’ora non è impresa tanto facile».
«Abbiamo tutto nel furgone. Salgo in macchina con te, loro ci seguiranno» disse facendo cenno ai colleghi venuti con lei da Parma.
«Allora, ti farò un breve riassunto, anche perché finora non abbiamo scoperto molto» disse Mancuso accendendo il motore. «Un cacciatore con il suo cane ha ritrovato il cadavere di una giovane donna sull’altare di una chiesetta diroccata in mezzo al bosco, completamente nuda, con un pugnale infilato nel costato all’altezza del cuore. Intorno, nessun indizio significativo, al momento non abbiamo rintracciato nessuna denuncia di scomparsa dalle nostre parti. Sembra che la ragazza sia piovuta dal cielo perché nel prato e nel bosco intorno alla chiesa non abbiamo finora trovato nessuna traccia. E’ per questo che vi abbiamo chiamato, abbiamo bisogno della vostra esperienza e della vostra competenza»
disse tutto d’un fiato, quasi avesse voluto liberarsi di un grosso peso dallo stomaco, stomaco che in verità era stato messo a dura prova dopo la vista della povera ragazza e continuava ad esserlo ogni volta che la sua immagine gli tornava alla mente.
«Accidenti! Un bel racconto di benvenuto» disse la donna. «Andiamo a vedere, forza, si sta facendo tardi».
Dopo aver percorso il tratto di strada a piedi, per nulla agevole dovendo portare tutta la strumentazione necessaria, gli specialisti iniziarono a eseguire i necessari rilievi setacciando minuziosamente la scena del crimine, utilizzando anche il Luminol e le lampade a raggi ultravioletti.
Sotto le luci di potenti fari strobo, la piccola chiesa aveva un aspetto ancora più inquietante e la povera ragazza sembrava davvero un personaggio tratto da un film dell’horror.
Nonostante i mezzi ultramoderni dispiegati dai tecnici del RIS, non fu rilevata nessuna impronta significativa, nessun brandello degli indumenti, nessun documento, nessun cellulare, né nella chiesa né nel prato né nel bosco intorno ad essa.
Nessun indizio.
Non era stata trascinata in quel luogo da morta, doveva essere morta lì.
Ma chi può morire sorridendo, nudo come un verme, sopra un altare di una chiesetta semidiroccata in mezzo a un bosco e con una coltellata nel cuore?
E se ci fosse stato il contributo di qualcun altro?
Come aveva fatto a volatilizzarsi senza lasciare alcuna traccia?
Davvero inspiegabile.
Dopo aver coscienziosamente e minuziosamente adempiuto il proprio compito il tenente Cortesi si rivolse a Mancuso e con tono sconsolato disse: «Per ora basta così. Stasera non riusciamo a fare altro. Dall’autopsia ricaveremo, si spera, risultati utili. Per ora non c’è proprio nulla di significativo da segnalare, mi dispiace».
«Ok, ho appena parlato col Sostituto Procuratore che mi ha già dato l’autorizzazione per rimuovere il cadavere non appena aveste finito i rilievi» disse Mancuso e rivolto ai colleghi aggiunse: «Procedete pure, rimuovete il cadavere e portatelo ai laboratori di medicina legale di Savona, il Sostituto Procuratore sta firmando l’ordine per l’esecuzione dell’autopsia. Segnalate che è urgentissimo avere i risultati. Qui perimetrate adeguatamente la zona. Torneremo domani, se necessario. Buonanotte a tutti, noi andiamo a Cairo per fare il punto della situazione».
Sulla via del ritorno i due colleghi continuavano a rimuginare sull’accaduto senza trovare uno spunto risolutivo.
«L’unico indizio che abbiamo è il pugnale» disse Mancuso. «Il suo nome particolare, la presenza degli incavi per la recita del rosario e il luogo del ritrovamento del cadavere ci portano verso una pista satanica, ma non dobbiamo precluderci altre soluzioni».
«Hai ragione. Adesso che arriviamo al comando vediamo se hanno scoperto qualcosa in più sul pugnale» rispose il tenente Cortesi. «Che cosa dice il Sostituto Procuratore? Ti ha dato qualche spunto utile?»
«In verità, no. E’ davvero un ritrovamento molto strano e con risvolti inquietanti. Pensa sia meglio attendere i risultati dell’autopsia e del DNA della vittima».
«Anche secondo me è meglio, poi imposteremo il seguito delle indagini». Il tenente Cortesi, un po’ stanca per il viaggio da Parma e sicuramente impressionata da quanto visto nella chiesetta, si prese un momento di pausa cercando, per quanto possibile, di rilassarsi durante il breve tragitto di ritorno alla Stazione di Cairo. Era sicuramente una donna forte ma quanto aveva visto era davvero scioccante, anche per lei che, nonostante la giovane età, aveva già un bel curriculum alle spalle. Si era, infatti, laureata a pieni voti in Chimica presso la Facoltà di Torino, aveva vinto il Concorso per entrare nel RIS nella sezione indagini scientifiche e, grazie alla sua bravura e al suo intuito, aveva fatto ben presto carriera. Tutto ciò l’avrebbe sicuramente aiutata anche in questa circostanza che non si annunciava di facile risoluzione.
Non le era mai capitato di trovare una scena del crimine così immacolata.
95.
«Bene, Maresciallo. Se non avete niente in contrario, stabiliremo il nostro quartier generale in questa stanza che mi ha messo a disposizione, almeno per i primi giorni, poi vedremo. Adesso dica ai suoi uomini di ritornare ai normali turni. Anche lei, prosegua pure nel suo lavoro. Se abbiamo bisogno di qualcosa o del o di qualcuno dei suoi sottoposti, ve lo faremo sapere. Per ora grazie della disponibilità».
«A vostra disposizione. Faccio portare due brandine. Gli altri che sono venuti da Savona possono sistemarsi in camerata. Domattina, se ci sarà bisogno, saranno già qui per eseguire eventuali nuovi rilievi sul luogo del delitto, anche in funzione dei risultati dell’autopsia. Buonanotte».
«Grazie, anche se temo, non avremo né tempo né voglia di dormire. Sono troppi i dubbi che mi arrovellano la mente e ho un paio di cose da controllare».
Mentre il Maresciallo abbandonava la stanza, Mancuso sistemò il suo portatile sulla scrivania e invitò il tenente Cortesi ad accomodarsi nell’attesa di ricevere i risultati da parte del medico legale che aveva assicurato di darsi subito da fare.
Il capitano Mancuso e il tenente Cortesi si erano già conosciuti in ato ma non avevano ancora lavorato gomito a gomito su uno stesso caso. In realtà non sapevano granché uno dell’altra e questa era sicuramente l’occasione buona per sciogliere un po’ il ghiaccio e rendere più familiare un rapporto che fino allora era stato molto formale, benché si dessero del tu. Johnny preferiva lavorare in un ambiente amichevole, riteneva che se ciascuno dei suoi collaboratori si fosse potuto sentire a proprio agio avrebbe condiviso più volentieri le proprie capacità e le avrebbe potute utilizzare al meglio nella risoluzione del caso. Per questo
abbandonò per un attimo il ruolo di Capitano e cercò di rilassarsi facendo un po’ di conversazione. Allentare un po’ la tensione avrebbe fatto meglio a entrambi e ragionare a mente fresca avrebbe contribuito a valutare con maggiore distacco e ragionevolezza i pochi indizi.
«Temo che questa notte sarà lunga, mia cara Valentina. E’ un vero rebus questo caso» disse porgendole un sacchetto di tramezzini e una bibita che il carabiniere di guardia aveva portato loro.
«Non so davvero cosa pensare, non mi era mai capitato nulla di simile nella mia carriera. E a te? Sei esperto di casi del genere? Sai che non conosco il tuo curriculum?»
«Se per questo neanche io il tuo! Va beh, comincio io. Mentre ci ingolliamo questa lauta cenetta, ti racconterò la mia storia». Johnny si accomodò nella poltroncina dietro la scrivania e iniziò il suo racconto.
«Sai che la mia famiglia è di origini siciliane? Beh, sicuramente il cognome te lo poteva far supporre! Infatti, i miei genitori, con le rispettive famiglie, erano emigrati negli Stati Uniti all’inizio degli anni sessanta. Mio nonno paterno aveva avviato una trattoria a Boston che, con grandi sacrifici, era diventata nel corso degli anni uno dei migliori e più conosciuti ristoranti italiani della città, si chiamava Terra del sole per ricordare a tutti le nostre origini. Quando ero piccolo e mio nonno era già morto, mio papà spesso mi raccontava di tutte le loro peripezie e in particolare di questo nonno che era stato un Maresciallo dei Carabinieri e che, durante la Resistenza, era entrato nei Partigiani, per difendere la libertà, come amava spesso ricordare. Per me era un mito di cui seguire l’esempio e così mi nacque il desiderio di sapere qualcosa in più su di lui e di conoscere questa patria lontana e tanto mitizzata. Nell’estate in cui compii dodici anni, facemmo un viaggio in Italia; mio padre voleva farmi conoscere la mia terra d’origine, i parenti rimasti che anche lui ricordava poco ma, soprattutto, volevamo ritrovare i ricordi del nonno che erano rimasti nella vecchia casa al
paese, ricostruire almeno in parte la sua storia. Rivedere, anzi vedere dal vivo quelle divise che conoscevo soltanto dalle poche foto che il nonno aveva portato con sé in America, fu una grande emozione e mi fece innamorare di un lavoro, quasi una missione, che adesso è diventato mio. Quando tornai in America decisi di frequentare una scuola superiore a indirizzo militare, il cui titolo era riconosciuto anche in Italia e dalla quale uscii con il massimo dei voti. Così appena ottenuto il diploma, a diciotto anni, mi trasferii in Italia. Non ebbi nessun problema burocratico poiché ero nato da genitori italiani, così potei partecipare e vincere il concorso pubblico per frequentare l’Accademia Militare di Modena. Alla fine, dopo una formazione intensa durata anni, riuscii a coronare il mio sogno: ero finalmente Ufficiale dei Carabinieri, come mio nonno. Che orgoglio!»
Alla fine della narrazione Johnny rimase un attimo assorto, come se il racconto di tutti quei ricordi li avesse in qualche modo resi vivi, reali.
Valentina aveva ascoltato in silenzio il suo collega, che, pur essendo un suo superiore, le parlava come se fosse un’amica. Era rimasta molto ammirata e suggestionata dall’intensità delle parole del Capitano.
Presero il caffè e dopo una pausa, quando Valentina si stava apprestando a raccontare a sua volta la propria storia, squillò il telefono del capitano. Era il medico legale.
«Capitano, buonasera. Ho finito l’autopsia sul cadavere ritrovato oggi pomeriggio».
«Benissimo! Attenda un attimo, la metto in viva-voce così la può ascoltare anche il tenente del RIS Valentina Cortesi che è qui con me e ha analizzato la scena del crimine poche ore fa».
«Va bene».
Non appena sentì il saluto del tenente, il medico incominciò la sua disamina. «Allora veniamo ai risultati. La ragazza doveva avere all’incirca venticinque anni. E’ morta sul colpo a seguito della pugnalata al cuore. Poverina, almeno non ha sofferto. Dall’esame autoptico ritengo che la morte risalga a quarantotto ore prima del ritrovamento del cadavere. Non ho riscontrato nessun segno di colluttazione o di violenza subita prima del colpo mortale. Nessuna traccia nel sangue di droghe o altre sostanze nocive. Soltanto una cosa mi ha un po’ sorpreso, considerata anche l’età della ragazza, era vergine. Può non voler significare nulla ovviamente, ma mi sembrava corretto segnalarvelo».
Fece una pausa, come aspettando una reazione da parte dei suoi interlocutori che prontamente avvenne.
«Mah, in effetti, è strano» disse Mancuso. «A parte l’età della ragazza, di solito, in questi casi, la violenza carnale è un movente o comunque uno sfogo o un oltraggio alla vittima. Certi pazzi lo fanno addirittura dopo la morte della malcapitata… che schifo!» Mancuso cancellò rapidamente quel pensiero dalla mente e concluse: «Comunque, c’è altro dottore?».
«Nient’altro di rilevante. Vi saluto e buon lavoro».
«Grazie dottore, buonanotte».
Anche Valentina salutò il dottore e poi aggiunse: «Hai ragione, è davvero un
comportamento insolito. A mio parere dovremmo lavorare sulla pista dell’omicidio a sfondo satanico ma, prima di tutto, bisognerebbe avere qualche informazione sull’identità della ragazza».
«E’ vero, senza l’identificazione siamo in un vicolo cieco» disse Johnny.
Nel frattempo i due carabinieri che avevano accompagnato Valentina da Parma si erano presentati per salutare i loro superiori: sarebbero tornati immediatamente al loro laboratorio per far eseguire le analisi dei campioni e ottenere così il DNA della vittima, il tutto con estrema urgenza.
«Bene» disse Mancuso. «Nell’attesa occupiamoci del pugnale» e sollevando il telefono chiamò il Maresciallo.
«Avete avuto riscontri sul pugnale?» chiese.
«Sì, Capitano. Non è in vendita in nessuna armeria né su internet. Abbiamo però trovato un esperto di armi, lingue e simboli antichi, tale dottor Anselmi, di Milano. Lo abbiamo contattato: attualmente è in vacanza in Riviera, a Santa Margherita Ligure, è ormai anziano. Ci ha dato la sua disponibilità per un colloquio domani nella mattinata».
«Perfetto, mi prendo l’appunto dell’indirizzo, domattina faremo una capatina al mare!» disse ammiccando alla sua collega che lo stava guardando con aria interrogativa.
96.
La mattina dopo, di buonora, i due colleghi presero l’auto di Mancuso per recarsi dallo studioso, nella speranza di avere chiarimenti utili a continuare le indagini. Dopo aver percorso l’autostrada A12 fino a Rapallo, si avventurarono per le vie della cittadina fino ad arrivare alla strada costiera che li avrebbe condotti a Santa Margherita e che avrebbe offerto loro suggestive vedute. Infatti, in mezzo ad una rigogliosa vegetazione, ancora verdeggiante, nonostante l’autunno inoltrato, si scorgevano splendide viste del mare, calmo quella mattina, con degli spettacolari riflessi argentei causati dal sole mattutino. Fra la vegetazione mediterranea si intravedevano parti di ville stupende, immerse in giardini e parchi altrettanto favolosi, affacciati su questo tratto di mare chiamato Costa dei Delfini. Finalmente dopo una serie di curve ecco apparire l’insenatura di Santa Margherita con il suo grazioso porticciolo turistico nel quale erano ormeggiate, accanto ai pescherecci usati dagli ultimi pescatori del luogo, lussuose imbarcazioni dei turisti.
Dopo aver faticosamente trovato un parcheggio accanto alla eggiata a mare, i due Carabinieri si presero un momento di relax respirando a pieni polmoni l’aria frizzante del mare e godendosi un ottimo caffè accompagnato da un pezzo di focaccia, tipica ligure, in un chiosco in mezzo ai giardini. Dopo aver chiesto informazioni al cameriere del bar su come raggiungere la via in cui abitava il dottor Anselmi, si avventurarono per i caruggi che attraversavano l’abitato, ammirando gli splendidi palazzi d’epoca e facendosi rapire dalle decine di negozi con le loro vetrine accattivanti. In giro c’erano già molte persone, anche se era mattina presto, gran parte delle quali erano turisti a caccia dell’ultima prelibatezza gastronomica oppure alla ricerca dell’approdo delle barche per una gita in mare nella splendida baia di Portofino. I bar erano già tutti aperti, pronti a distribuire colazioni, spuntini, aperitivi mentre nei tanti ristorantini e pizzerie gli inservienti stavano riordinando e preparando per il pranzo. Come sottofondo a tutto questo brulichio si sentivano musiche soft, ben più leggere e carezzevoli rispetto a quelle che rallegravano i clienti di sera e di notte. L’atmosfera della cittadina era così vacanziera che, in cuor loro, i due Carabinieri non osavano ricordare il motivo della loro venuta.
Dopo un breve tragitto finalmente arrivarono a destinazione.
«Buongiorno» dissero alla badante che venne alla porta. «Siamo i Carabinieri di Cairo, abbiamo contattato ieri sera il dottor Anselmi per una consulenza».
«Prego entrate, vado ad annunciarvi. Attendete qui» disse, facendoli entrare in un salottino accanto all’ingresso.
Dopo alcuni minuti comparve il dottor Anselmi, con o malfermo, appoggiandosi al bastone. «Buongiorno signori. State pure comodi. Che cosa posso fare per voi?» disse sedendosi in una delle poltroncine rimaste vuote.
«Buongiorno» disse Johnny. «Io sono il Capitano Mancuso e questa è la mia collega, il Tenente Cortesi del RIS di Parma».
«Buongiorno» disse a sua volta Valentina.
«Verrò subito al dunque, per non farle perdere tempo e soprattutto perché abbiamo bisogno urgente di trovare informazioni utili. Ieri è stato ritrovato il cadavere di una ragazza in una piccola chiesetta sconsacrata nei boschi sopra Cairo Montenotte. E’ stata ritrovata nuda, coricata sul piccolo altare, con un pugnale infilato nel torace all’altezza del cuore. Nessun indizio tranne questo pugnale» disse mentre mostrava al suo interlocutore le foto dell’arma.
«Cercando su internet abbiamo scoperto che si chiama Paternoster ma vorremmo
saperne di più, anche perché non abbiamo rintracciato nessun venditore specializzato che commerci oggetti del genere né tantomeno estimatori che ne posseggano uno. Abbiamo trovato soltanto lei con la sua esperienza e conoscenza in materia di armi bianche antiche. Può aiutarci?»
Il dottor Anselmi analizzò con cura ed interesse le fotografie che il carabiniere gli aveva dato e disse: «Questo pugnale non è mai stato in commercio, è molto antico e purtroppo non ne esistono più. Risale ai tempi delle Crociate, la maggior parte di essi andò perduto nei tempi durante le numerose battaglie, soltanto un esemplare era ancora presente a metà del novecento in un piccolo museo, se così si può definire, attiguo a un monastero, museo che però fu distrutto in seguito ad un bombardamento durante la seconda guerra mondiale. Tutti i pochi reperti in esso contenuti sono andati persi o distrutti, tra i quali anche il vostro pugnale. Trovo davvero strano che possa esserne stato trovato uno originale, forse è una copia… Dovreste farlo analizzare per ottenere una datazione certa».
«Dove si trovava questo museo?»
«Era in Toscana, attiguo al Monastero di Casteldelfino, in Provincia di Arezzo. Attualmente è presente soltanto il Monastero, la vecchia chiesa ed il piccolo museo come ho detto, sono andati distrutti, insieme a tutto quello che contenevano, o almeno così dissero i monaci e le monache che vi vivevano».
«Che strano, monaci e monache insieme?»
«Sì, ne esistono ormai soltanto alcuni di questi monasteri. Sono i cosiddetti Monasteri Doppi, in cui c’è un’area adibita ad alloggio per le monache e un’altra per i frati».
Il Capitano a quel punto entrò maggiormente nel dettaglio: «Dottore, che lei sappia, sull’impugnatura di questi pugnali, erano incise lettere o simboli?».
Anselmi lo guardò perplesso. «Non mi risulta, nei testi che citano quest’arma, non viene fatto alcun cenno a iscrizioni o altro. Ma perché mi fa questa domanda?»
«Perché sull’impugnatura di quello che ha ucciso la ragazza, era incisa la frase “Mors purificatio tua erit” e un piccolo pentacolo con la punta rivolta verso il basso».
Il dottor Anselmi cambiò espressione, il suo sguardo divenne più cupo. «La frase non mi dice assolutamente nulla, dovrebbe essere inserita in un contesto per avere un senso, ma il pentacolo sì. Ora vi spiego» si voltò fissando i due Ufficiali. «Il pentacolo, o pàntaclo, è un simbolo che ha le sue origini in tempi molto antichi. Generalmente rappresentato come una stella a cinque punte inscritta in un cerchio, era un simbolo sacro nella maggior parte dei culti pagani, spesso e volentieri associato alla dea Venere. Nei riti occulti simboleggia, perlopiù, il collegamento tra mondo umano e mondo spirituale.
Nello specifico, il pentacolo rappresenta i cinque elementi su cui si basano le leggi dell'universo: aria, acqua, fuoco, terra e spirito; quindi altro non è che l'unione del microcosmo e del macrocosmo. Rappresenta cioè l'insieme dei processi su cui si basa il cosmo. Nell'accezione pagana, nella grande maggioranza dei casi, la punta simboleggiante lo spirito, ovvero l'energia divina, cioè quella forza donataci dalla divinità, è rivolta verso l'alto, come a sottolineare la naturale propensione che l'uomo ha di rivolgersi verso la divinità. Il pentacolo rovesciato, tipico simbolo associato al satanismo, invece, con la punta dello spirito rivolta verso il basso e le punte del fuoco e della terra poste in alto, simboleggia la rivalutazione dei valori terreni a discapito quindi dello spirito; metaforicamente, si può parlare del rifiuto dell'uomo di sottomettersi alla divinità».
Valentina ascoltò con molta attenzione le parole dell’esperto. Decise allora di porre la domanda che aleggiava ormai nell’aria. «Dottore, ci sta dicendo allora che l’omicidio della ragazza potrebbe essere stato a sfondo satanico?»
«Potrebbe. Il fatto stesso che l’omicidio sia avvenuto in una chiesa sconsacrata fortifica questa ipotesi. Ma ditemi, la ragazza ha subito delle sevizie o torture prima di essere uccisa?»
Questa volta fu Mancuso a rispondere: «No, l’autopsia non ha fatto emergere alcun tipo di violenza sul corpo».
Il dottore era confuso. «Questo è molto strano, di solito gli omicidi satanici sono molto violenti, in particolare se compiuti da coloro che si riconoscono nel Satanismo Acido, la derivazione più cruenta di questo credo. Mi dispiace, signori ma non sono in grado di dirvi altro e sono molto stanco».
I due Ufficiali si alzarono immediatamente, ringraziarono lo studioso e si avviarono verso la loro auto.
Le informazioni ricevute invece che essere state d’aiuto per le indagini, avevano ulteriormente accresciuto la confusione.
97.
Stavano percorrendo un tratto autostradale ed entrambi erano silenziosi. Valentina poteva cogliere nello sguardo di Mancuso gli stessi dubbi, le stesse perplessità che stavano assillando il suo cervello.
Come era possibile che una ragazza fosse uccisa da un pugnale che non doveva più esistere?
Come mai su quel pugnale era inciso un simbolo apparentemente satanico?
Ma se si fosse trattato effettivamente di un omicidio a sfondo satanico, per quale motivo non erano stati compiuti i rituali comunemente previsti per tali omicidi?
Che cosa significava realmente la frase: “Mors purificatio tua erit”?
Era un omicidio davvero anomalo, a meno che…
«Ascolta, Johnny» gli disse svegliandolo dal suo torpore, «e se fosse tutta una montatura?».
«Che cosa intendi dire?»
«Intendo dire che il pugnale, la frase, il simbolo, il ritrovamento in un luogo particolare, potrebbero essere tutta una geniale messinscena per farci credere che si tratti di un omicidio satanico e invece magari si tratta di un volgarissimo omicidio ionale messo in atto da qualcuno che ha avuto un raptus e che poi lucidamente, per sviare le indagini, ha creato tutto questo teatrino. Magari la ragazza non voleva concedersi al suo spasimante e questo, accecato dalla rabbia, l’ha uccisa».
Mancuso si girò verso Valentina e la guardò ammirato.
«C’è un motivo se hai fatto carriera così velocemente. Effettivamente non ci avevo pensato. Potresti avere ragione, potrebbe…».
In quel momento suonò il cellulare di Valentina. La donna rispose, ascoltò con attenzione quello che le veniva detto, mentre l’espressione del suo viso con il are dei secondi, si rabbuiava sempre di più. Alla fine disse semplicemente: «Va bene, grazie dell’ottimo lavoro».
Mancuso la osservò preoccupato: «Valentina, cosa è successo?».
Il Tenente girò lentamente il suo viso verso il collega, lo guardò e disse con un tono gelido: «Johnny, non si è trattato di una messinscena. Ho appena avuto dai miei uomini i risultati dell’esame sul DNA. La ragazza uccisa si chiamava Angela Tommasi. E’ scomparsa cinque anni fa dal Monastero di Casteldelfino. Angela Tommasi era una monaca».
98.
Mancuso arrestò di colpo l’autovettura in una piazzola di sosta. Era sconvolto dalla notizia appena ricevuta. «Cazzo Valentina, ma ti rendi conto di quello che mi hai appena detto? Una monaca? Ma questo cambia tutto! Cosa ci faceva il cadavere di una monaca, che viveva in un monastero vicino ad Arezzo, in una chiesetta sconsacrata nei boschi di Cairo Montenotte? E, guarda caso, è lo stesso monastero dove era esposto, perlomeno fino alla seconda guerra mondiale, l’ultimo esemplare del pugnale che l’ha uccisa. Ho come la sensazione che siamo in presenza di qualcosa di molto più complesso di un semplice omicidio satanico. Ci deve essere una logica che lega questi vari elementi e noi dobbiamo scoprirla».
Valentina annuì. «A questo punto direi che è inutile ritornare a Cairo, dobbiamo andare al Monastero e capire chi era Angela Tommasi».
«Hai ragione, comunica ai colleghi il cambio della nostra destinazione».
Arrivarono al Monastero di Casteldelfino nel pomeriggio, dopo tre ore abbondanti di viaggio.
Il Monastero di Casteldelfino era un complesso monastico situato a tre chilometri dal Comune di Poppi in Provincia di Arezzo. Sorgeva a 818 metri sul livello del mare ed era situato presso le rive di uno dei rami del fiume Archiano. Il complesso architettonico originario era composto da un piccolo museo, dalla chiesa e dal monastero. Fu edificato a partire dal 1046, quando nei pressi della chiesa i monaci costruirono anche un piccolo ospedale, poi abbandonato. Nel XVI secolo furono eseguiti lavori di ampliamento del monastero, del chiostro, del museo, che si conclo nel 1611. L'edificio era raccolto intorno al chiostro
centrale che presentava sul lato sud e sul lato ovest, i lati esposti al sole, una serie di archi a tutto sesto poggianti su colonne con capitelli ionici. Sul lato nord e sul lato est, quelli battuti da venti gelidi, erano presenti solo alcune finestre anch'esse ad arco. Al piano superiore del chiostro erano presenti dei corridoi con volta a botte e nel più lungo, sulla botte di copertura, vi era una decorazione costituita da una serie di velette con fregi di vario genere. Su questi corridoi si aprivano le celle dei monaci.
Arrivati al Monastero, i due Ufficiali si qualificarono e chiesero di incontrare l’Abate. All’interno del Monastero ferveva un’intensa attività. Alla vista di tutti quei monaci, Valentina ebbe un senso di disagio, come sempre le capitava quando entrava in una qualsiasi chiesa.
Lei odiava i preti ed aveva i suoi buoni motivi. Quando era ragazzina, aveva subito degli abusi sessuali da parte di un giovane sacerdote incontrato nella sua parrocchia e non lo aveva mai confessato a nessuno. Era stato il suo segreto personale e se lo sarebbe portato dentro di sé per tutta la sua esistenza.
Superata la fase adolescenziale e raggiunta la maturità, era riuscita, con grande forza di volontà, a elaborare il tragico fatto e a trovare la forza di interessarsi al problema della pedofilia e degli abusi sessuali su minori da parte degli appartenenti al clero. Per lei, pian piano, era diventata come una missione e, anche per combattere questa piaga, aveva deciso di entrare nei Carabinieri. Da anni doveva convivere con gli alti e bassi del suo umore e anche questo le aveva, sino allora, impedito di costruire un serio e continuativo rapporto sentimentale con un uomo. Ogni tanto rivivevano in lei i ricordi delle violenze subite, incancellabili dalla sua memoria.
La sua storia iniziò quando aveva dodici anni, a Udine. A dodici anni, perché allora aveva incominciato a frequentare la parrocchia che si trovava a due isolati dalla caserma comandata dal padre, dove abitava con la sua famiglia.
Pensava di avere una specie di vocazione, voleva approfondire la questione, fare un cammino di discernimento. Partecipò ad una serie di incontri organizzati dai catechisti per ragazzi e ragazze della sua età alla ricerca di risposte sulla fede. E fu lì che conobbe don Riccardo, da poco nominato curato in aiuto all’anziano parroco. Una persona cui inizialmente lei si legò fortemente perché sembrava affettuosa, molto spirituale, un nuovo amico che la circondava di mille attenzioni.
Avvenne tutto in un pomeriggio di dicembre, un pomeriggio di pioggia, perché solitamente quando il tempo era bello, giocava con i compagni nel cortile della parrocchia. Quel maledetto pomeriggio lui la chiamò, le disse di seguirlo in camera, le disse che doveva farle vedere un antico testo sacro. E quel pomeriggio, dopo averla spogliata, dopo averla baciata, abusò di lei.
Lo fece ancora, in tanti altri pomeriggi, più e più volte, cercando di eludere la sorveglianza del vecchio parroco.
Lui le diceva che la loro era un’amicizia particolare, che non avrebbe dovuto raccontare nulla a nessuno perché gli altri non avrebbero capito, sarebbero stati delusi, invidiosi di questo loro rapporto. Del resto lei era convinta che fosse un’amicizia divina. Per lei era un uomo di Dio; era la persona con cui pregava, con cui animava la messa, quindi si era fidata di lui ciecamente.
Con il tempo i loro rapporti si fecero ancora più forti perché lui diventò il parroco della sua chiesa e, senza più controlli di alcuno, poteva andare a trovarlo liberamente.
Accadeva spesso che, in sacrestia o piuttosto nel suo appartamento, lui
approfittasse di lei.
Fu un periodo difficile perché sin dal primo episodio, dal primo abuso, ebbe un attacco di gastrite. Iniziò ad avere incubi notturni, a soffrire di insonnia, senza però che le persone che le stavano vicino riuscissero a intuire il perché.
I medici cercarono di trovare le cause del suo malessere, ma non capirono, o non vollero capire, i reali motivi che la facevano stare così male.
Poi suo padre fu trasferito a Genova e gli abusi cessarono.
Soltanto con il are degli anni lei capì realmente cosa le era accaduto, ma non volle mai parlarne né confidarsi con alcuno.
I suoi cupi pensieri furono interrotti dall’arrivo dell’Abate, un uomo molto anziano che camminava con il bastone.
99.
I due ufficiali videro l’Abate che si dirigeva verso di loro. Era un uomo anziano che, facendo fatica a camminare, si aiutava con un bastone. Il suo volto, però, era illuminato da due occhi di un azzurro intenso e rivelava una persona vivida e lucida.
«Buongiorno, signori» disse rivolto agli Ufficiali. «Come posso esservi di aiuto?»
Dopo un attimo di imbarazzo, fu Mancuso a parlare. «Buongiorno Padre, siamo qui purtroppo per darle una cattiva notizia. Abbiamo ritrovato il corpo di Angela Tommasi. E’ stata uccisa nei pressi di Cairo Montenotte, un comune in provincia di Savona».
L’Abate guardò attonito i due militari e scoppiò a piangere. «Mio Dio, no, non può essere! Chi può aver ucciso una monaca dal cuore d’oro come Angela? Era una ragazza meravigliosa, sempre pronta ad aiutare chi era in difficoltà, le volevamo tutti un gran bene».
A questo punto, pur capendo lo stato d’animo del sacerdote, Mancuso, dovendo fare il suo mestiere, arrivò subito al dunque. «Padre, mi racconti qualcosa della monaca e di come sia scomparsa».
L’Abate si asciugò le lacrime con la manica dell’abito talare e rispose: «Angela arrivò da noi quando aveva diciotto anni. L’età minima per entrare nel monastero sarebbe vent’anni, ma quella ragazza ci manifestò una tale maturità, che
facemmo un’eccezione. Era figlia unica di una famiglia benestante di Arezzo. Dovete sapere che il nostro monastero, sin dalla sua nascita, è sempre stato un Monastero Doppio, in altre parole ospitava sia monaci sia monache benedettine. Oggi, ormai, questi monasteri non esistono più, ma proprio per il nostro ato e per il desiderio espresso con gran calore da parte di Angela, accettammo di accoglierla tra di noi, riservandole tutta l’ala del monastero, un tempo occupato dalle monache. Dopo un anno di noviziato, accertata la fermezza della sua fede verso Dio, emise i tre voti religiosi, povertà, obbedienza, castità, in forma solenne, diventando una monaca a tutti gli effetti.
ò un altro anno, nel quale lei visse serenamente e con gioia la sua vita monastica, quando un giorno, il 25 ottobre di cinque anni fa, scomparve. Di lei non abbiamo più avuto notizie, almeno sino a oggi».
Mancuso ebbe un sussulto: «Ma il 25 ottobre è anche la data della sua presunta morte. Io non credo alle coincidenze».
A questo punto intervenne Valentina: «Ascolti Padre, ha idea del perché Angela sia scomparsa?».
L’Abate allargò le braccia. «Assolutamente no. Angela era una monaca un po’ introversa, parlava poco, trascorreva il suo tempo a pregare o ad aiutare gli altri monaci nelle normali attività quotidiane, ma tutti le volevamo un gran bene».
«E come mai non è stato lei a sporgere denuncia della sua scomparsa ma, diversi giorni dopo, i suoi genitori?»
«Per il semplice motivo che, per noi, la permanenza nel Monastero non deve
essere un atto di costrizione. Ciascuno è libero di rimanere o di andare via. Abbiamo semplicemente pensato che Angela avesse cambiato idea e che non volesse più protrarre la sua vita nel nostro Monastero. Soltanto diversi giorni dopo la sua scomparsa, per scrupolo, ho telefonato ai suoi genitori per sapere dove fosse andata la loro figlia. Il padre cadde dalle nuvole, ne sapeva quanto noi ed allora andò dai Carabinieri per denunciarne la scomparsa».
«E dove possiamo trovare i genitori?»
«Purtroppo sono morti in un incidente stradale, poco tempo dopo la denuncia».
Mancuso era un po’ perplesso e fece ancora una domanda: «Padre, a lei dice qualcosa la frase: “La morte sarà la tua purificazione”? E cosa sa sul simbolo del pentacolo?».
L’Abate rimase apparentemente interdetto. «Mah, la frase non mi dice nulla, non mi richiama nessun o della Bibbia o di altre letture evangeliche. Per quanto riguarda il pentacolo, le mie conoscenze sono quelle comuni. Il pentacolo è un simbolo magico, generalmente iscritto in un cerchio, che è presente in molte culture e luoghi; nella civiltà occidentale ha carattere soprattutto esoterico, è spesso descritto come un talismano di protezione magica. Null’altro».
«Un’ultima domanda. Corrisponde al vero che un esemplare dell’antico pugnale Paternoster era custodito nel vostro museo ed è andato distrutto durante la seconda guerra mondiale?»
L’Abate fece un cenno affermativo. «Purtroppo sì, era l’ultimo esemplare esistente al mondo. Da un punto di vista storico culturale, è stata una perdita
gravissima».
«Padre, possiamo parlare con qualche monaco, magari qualcuno di loro è a conoscenza di qualche notizia a lei ignota».
L’Abate fu perentorio. «No, mi dispiace, hanno tutti fatto il voto del silenzio nei confronti degli estranei, non vi diranno una sola parola nemmeno sotto tortura».
«Bene» disse Mancuso. «La ringraziamo per la sua disponibilità e se dovesse venirle in mente qualcosa d’importante per le nostre indagini, la prego di chiamarmi». Gli diede un suo biglietto da visita.
Si accomiatarono e si diressero verso l’uscita.
«Secondo te, Johnny, l’Abate ci ha detto tutto ciò che sapeva?»
«No» fu la risposta secca di Mancuso.
«Anche secondo me. Perché non gli hai fatto cenno del pentacolo rovesciato e del pugnale che ha ucciso la monaca?»
«Perché erano esattamente le domande che lui si aspettava. Non ho voluto fargliele di proposito. Non so, ho seguito il mio istinto».
Mancuso prese il cellulare e chiamò il Maresciallo Guarneri. «Buongiorno Maresciallo, voglio che verifichi se l’Abate del Monastero di Casteldelfino è titolare di un’utenza telefonica. In caso affermativo, la faccia mettere immediatamente sotto controllo. Stia tranquillo, al Procuratore parlerò io, mi assumo tutte le responsabilità».
Poi ripensò alla data: il 25 ottobre. Un giorno maledetto.
100.
L’Abate, con lo sguardo torvo e il cuore che batteva all’impazzata, fece ritorno al suo alloggio. La stanza d’ingresso era immersa nel buio, ma l’Abate intuì la presenza di un uomo.
«Buongiorno, Abate» disse una voce roca proveniente dalla stanza da letto.
L’Abate sobbalzò. «Monsignore! Lei, qui! E’ rischioso, sono appena andati via due Carabinieri!»
«Lo so, stia tranquillo, nessuno mi ha visto entrare. Cosa gli ha detto?» chiese con tono inquisitorio.
«Nulla di rilevante, sono rimasto molto sul vago, hanno ancora le idee molto confuse e non mi hanno fatto alcun cenno al pentacolo rovesciato o al pugnale».
«Bene, meglio così. La Sacra Profezia ci espone a dei rischi, ma noi dobbiamo seguirne esattamente i dettami. Purtroppo la prima vittima, Il Primo Sacrificio, è stata trovata troppo presto. Dobbiamo sperare che le prossime vittime rimangano occultate per un tempo più lungo».
L’Abate era scosso da un accentuato tremolio. «Monsignore, io ho paura, non so se riuscirò a essere all’altezza…».
Dall’angolo buio la voce roca cercò di tranquillizzare il prelato. «Abate, deve stare tranquillo. Il destino ha deciso che lei dovesse avere un ruolo essenziale nel disegno divino. E’ stato lei a trovare, alla fine della guerra, tra le rovine del museo, Il Sacro Scrigno ancora intatto contenente La Sacra Profezia e i cinque pugnali Paternoster. Chi poteva immaginare che fosse nascosto da decenni proprio in questo Monastero? Oggi gli storici e gli studiosi sono convinti che l’ultimo esemplare del pugnale sia andato distrutto durante i bombardamenti. Certo, il ritrovamento del cadavere della monaca ha svelato l’esistenza di almeno un altro esemplare, ma non dovranno mai sapere dell’esistenza degli altri. Quando trovò Il Sacro Scrigno, lei ha fatto la cosa più sensata rivolgendosi a me e, per sdebitarmi della sua fiducia, l’ho fatta entrare nella Setta del Pàntaclo, che da tempo immemore era alla ricerca di quello Scrigno e inoltre le ho dato da custodire La Mappa. Abbiamo atteso tanto tempo, ma il momento è arrivato. Ci siamo, dobbiamo gioire e pregare per l’imminente arrivo dell’Anticristo…».
«Sì, Monsignore…» disse l’Abate. «Le chiedo scusa se ho avuto un attimo di debolezza».
Ma non ci fu più nessuna risposta. L’uomo era sparito.
Quando fu all’esterno del Monastero, dopo aver percorso il aggio segreto che solo lui conosceva, l’uomo si diresse verso una Mercedes che lo attendeva. Prima di salire a bordo, compose un numero sul suo cellulare. Qualcuno dall’altra parte rispose e l’uomo disse: «Mi scusi, Eminenza, se la disturbo sulla linea protetta, ma forse abbiamo un problema. L’Abate incomincia a dare segnali di cedimento».
Dopo la risposta dell’interlocutore, l’uomo interruppe la comunicazione pronunciando due sole parole: «Sarà fatto».
101.
Era ormai pomeriggio inoltrato, i due Ufficiali viaggiavano sulla loro Alfa Giulietta, diretti verso l’imbocco autostradale. Erano entrambi in silenzio. Stavano elaborando le poche informazioni ottenute al Monastero e l’atteggiamento quanto mai ambiguo dell’Abate.
Mancuso si era già posto diverse domande che, al momento, non avevano risposte.
Dove era stata, negli ultimi cinque anni, la monaca? A Cairo non la conoscevano, perché allora era stata uccisa in quel luogo? Come mai non si era fatta viva neanche alla morte dei suoi genitori? E quella stessa morte, era stata il frutto di un tragico destino che si era abbattuto sulla famiglia Tommasi, oppure…
Quel pensiero gli fece prendere una decisione immediata. Con una manovra azzardata, fece dietrofront e lanciò l’auto sulla Strada Statale.
Valentina, presa alla sprovvista e sbalzata sul sedile, guardò incredula il collega. «Capitano, ma cosa stai facendo?»
«Voglio tornare ad Arezzo e avere qualche informazione in più sulla morte dei genitori di Angela».
«Pensi che non si sia trattato di un incidente casuale?»
«In questo momento non so neanche io cosa pensare. Questa morte improvvisa dopo la scomparsa della figlia, mi suscita qualche perplessità».
Dopo circa mezz’ora arrivarono al Comando Provinciale e si fecero annunciare dal piantone. Dopo pochi minuti arrivò un Tenente che si presentò: «Comandi, Signor Capitano. Sono il Tenente Rinaldi, in cosa posso esservi di aiuto?».
Mancuso presentò Valentina ed espresse subito le sue richieste: «Abbiamo bisogno di avere tutte le informazioni in vostro possesso circa la morte, in un incidente stradale, di due coniugi, i Signori Tommasi di Arezzo, avvenuta cinque anni fa».
Il Tenente fece un cenno di assenso con il capo e disse: «Seguitemi, andiamo nel mio ufficio, dove potremo consultare il nostro database e verificare i dati in nostro possesso».
Quando furono tutti seduti, il Tenente iniziò la ricerca sul computer. «Allora, vediamo un po’…. ah ecco, Vittorio e Maria Tommasi. Ci sono due files a nome dei due coniugi. Uno relativo alla denuncia della scomparsa della figlia e uno relativo all’incidente stradale nel quale sono deceduti».
Mancuso mise fretta al collega. «Mi parli dell’incidente».
«L’incidente è avvenuto sulla strada provinciale 221, direzione Arezzo. L’auto, una Renault Clio, è uscita di strada quando procedeva a velocità sostenuta, presumibilmente a causa di un malore del conducente, andando a schiantarsi
contro un albero. I eggeri sono morti sul colpo».
Mancuso attese qualche secondo, poi chiese: «Che cosa significa “presumibilmente a causa di un malore del conducente?”».
Il Tenente lo guardò sconsolato: «Purtroppo il rapporto redatto dalla Polizia Stradale è molto stringato. Ci sono soltanto queste poche righe, alcune fotografie e i rilievi di routine. Null’altro. Forse non hanno trovato tracce di frenata sull’asfalto e quindi hanno optato per il malore».
Mancuso incominciava a perdere la pazienza. «Presumibilmente, forse, ma qualche dato del cazzo certo lo abbiamo su questa coppia?»
«In effetti, si tratta di una famiglia alquanto anomala» replicò il Tenente. «Non risulta esserci alcun parente in vita. Abitavano in una villetta isolata fuori città. Non si è presentato nessuno dopo l’incidente. Non è stato neanche possibile procedere al riconoscimento ufficiale delle vittime».
A quel punto fu Valentina a intervenire, cercando di alleviare la tensione: «Tenente, quando è avvenuto l’incidente?».
«Il 25 novembre 2009».
Valentina ebbe un sussulto. «L’Abate ci ha detto che Angela è scomparsa il 25 ottobre 2009, i genitori sono morti esattamente un mese dopo, Angela aveva venticinque anni… Capitano ci sono troppe stranezze e coincidenze in questa
storia. Dovremmo farci autorizzare…».
«A fare cosa?» domandò Mancuso interrompendola.
«A far riesumare i corpi dei genitori di Angela».
102.
Dopo aver intonato i Vespri, i monaci si stavano recando nel refettorio per consumare la loro frugale cena. L’Abate, invece, si allontanò ed entrò nel suo alloggio. Andò in camera da letto e si diresse verso la parte a destra della sua branda. Alla parete era appeso un quadro raffigurante un’immagine di San sco. Lo tolse e svelò la presenza di una piccola porticina metallica. Era l’apertura di una cassaforte di modeste dimensioni. L’Abate digitò un codice su una tastiera posta al centro della porticina. La cassaforte si aprì e l’Abate introdusse la mano destra all’interno frugando con delicatezza fino a trovare quello che cercava. La mano gli tremava quando estrasse una piccola pergamena sulla quale erano scritte delle parole in ebraico antico. Quelle parole racchiudevano il contenuto della Profezia che l’Abate, prima di consegnare il Sacro Scrigno al Monsignore, aveva fedelmente ricopiato sulla pergamena. L’Abate era conscio dei rischi che correva. Lui era soltanto un Soldato della Setta e ai Soldati non era concesso conoscere il contenuto della Sacra Profezia. Se gli Alti Prelati della Setta del Pàntaclo fossero venuti a conoscenza dell’esistenza di quella pergamena, lui avrebbe pagato con la morte la sua curiosità.
Ma era troppo forte il desiderio dell’Abate di conoscere il significato di quello scritto.
Ovviamente nel Monastero non erano presenti computer o altri strumenti informatici e quindi in tutti quegli anni lui non era stato in grado di capire il significato di quel testo. Soltanto alcuni mesi prima era riuscito, con grande fatica, a tradurre solo poche parole della Profezia, consultando alcuni volumi arcaici rinvenuti casualmente nella ricchissima biblioteca del Monastero.
L’Abate, sudato ed eccitato, come ogni volta che prendeva in mano quella pergamena, lesse nuovamente ciò che aveva tradotto: “Quando l’anno sarà il
numero sette…, i sette peccati originali si sveglieranno dal loro… al suo unico vero Dio… gli dirà “La morte sarà la tua purificazione” ”.
Quelle frasi sconnesse erano ancora troppo poco per dare un senso compiuto all’intera Profezia. Certo il numero sette, ripetuto due volte, aveva un preciso significato esoterico e simbologico, ma l’Abate non era ancora in grado di capire il contesto nel quale era stato inserito. Il Capitano dei Carabinieri gli aveva involontariamente dato una mano quando gli aveva chiesto se conoscesse il significato della frase: “La morte sarà la tua purificazione”. Quella frase era senz’altro connessa all’uccisione di Angela e quest’ultima quindi doveva essere legata al contenuto della Profezia. D’altra parte lo stesso Monsignore aveva parlato di Primo Sacrificio, quindi…
A quel punto però, come se si fosse improvvisamente risvegliato da un brutto sogno, l’Abate ansimando alzò lo sguardo dalla pergamena fissando il vuoto davanti a sé.
“Dio mio cosa ho fatto…” pensò.
Aveva permesso a loro di prendere Angela, senza minimamente pensare a quello che le avrebbero fatto.
Forse avrebbe dovuto confessare ai Carabinieri la verità. Prima, però, voleva tradurre per intero la Profezia. Purtroppo poteva dedicare solo parte della notte alla traduzione. Era ormai vecchio e si stancava molto facilmente, inoltre doveva svolgere tutte le incombenze derivanti dalla sua autorità di Abate.
Una sua perdurante assenza durante il giorno non sarebbe ata inosservata e
avrebbe potuto alimentare ogni tipo di diceria all’interno del Monastero.
In preda ai suoi pensieri, il monaco si accorse solo all’ultimo momento della presenza di un uomo alle sue spalle. Era completamente vestito di nero e aveva in testa un amontagna dello stesso colore.
Fece appena in tempo a dire: «Ma cosa…» che due braccia robuste lo afferrarono da dietro bloccandogli il busto. L’intruso con la mano destra schiacciò un fazzoletto sulla faccia dell’Abate che dopo pochi secondi si accasciò, inerte, sul pavimento.
Il cloroformio aveva fatto effetto in pochi istanti. L’Abate ora era immerso nel più profondo buio.
103.
Mancuso e Valentina avevano deciso di fermarsi ad Arezzo per la notte, era ormai troppo tardi per andare in Procura per ottenere l’autorizzazione alla riesumazione dei corpi dei coniugi Tommasi. Erano stanchi e affamati, dopo una giornata piuttosto impegnativa. Avevano ottenuto presso il Comando due stanze e delle divise pulite, visto che non si erano portati dietro alcun cambio, non immaginando di dover pernottare in un’altra località.
Si fecero entrambi una tonificante doccia e si diedero appuntamento alle venti all’ingresso dell’edificio, davanti al piantone.
Mancuso arrivò in perfetto orario, Valentina tardò qualche minuto.
Si avviarono verso il centro di Arezzo, alla ricerca di un ristorante che li ispirasse. Avevano però troppa fame per fare gli schizzinosi, quindi praticamente entrarono nella prima trattoria che incontrarono.
La scelta, puramente casuale, si rivelò azzeccatissima. Il locale era veramente carino e prometteva ogni genere di prelibatezze.
Dopo aver consultato il menù, Mancuso optò per una zuppa etrusca e una bistecca alla Fiorentina, mentre Valentina si limitò ad ordinare un piatto di pappardelle con sugo di lepre. Il tutto innaffiato da una bottiglia di Chianti Lo Sterpo.
Valentina ridacchiò e chiese al collega: «Ma sei sicuro che l’Arma ci rimborsi questa cena? Io ho ancora in sospeso il pagamento di alcuni panini…».
Mancuso sorrise a sua volta: «Stai tranquilla, al limite offro io. Sono pur sempre un Capitano dei Carabinieri, Maremma maiala!».
Entrambi scoppiarono in una fragorosa risata, che attirò l’attenzione di alcuni vicini di tavolo.
Si resero conto di aver un po’ esagerato e cercarono di ridarsi un contegno consono alla divisa che indossavano.
Valentina osservò per alcuni secondi il Capitano. Era un bell’uomo, niente da dire, attraente il giusto senza essere volgare - esattamente l’opposto di Gabriel Garko, tanto per intenderci -Molto preparato e intelligente, era sin troppo manifesta la sua propensione al comando. Lo si notava anche quando parlava con il cameriere. Non gli chiedeva per favore di portargli una bottiglia di acqua frizzante, glielo ordinava. Sicuramente non se ne rendeva conto e magari il suo modo di fare poteva sembrare agli estranei anche sgradevole. Ma lui continuava ad essere un soldato anche nella vita privata e questo, forse, gli aveva nuociuto da un punto di vista sentimentale.
Valentina si sentiva sempre a disagio quando era sola con un uomo, non poteva dimenticare i soprusi sessuali subiti quando era ancora una ragazzina. Con Mancuso, però, era diverso. Con lui si sentiva al sicuro e non solo per il fatto che portasse una divisa ma perché sentiva dentro di sé che era un uomo buono, che non avrebbe mai fatto uso della violenza se non fosse stato costretto dagli eventi.
«Perché mi stai osservando?» chiese a Valentina. Da buon investigatore, non gli era sfuggito lo sguardo prolungato della collega.
Valentina, un po’ imbarazzata, trovò comunque il modo di giustificare la sua attenzione. «Non ti offendere Johnny, anzi prendilo come un complimento. Cosa ci fa un Ufficiale come te, voglio dire con le tue capacità e la tua esperienza in un Comando come quello di Savona?»
Mancuso forse si aspettava quella domanda e non ebbe nessuna difficoltà a rispondere. «In ato ho fatto una cazzata».
Valentina non voleva rovinare la serata. «Ascolta, non mi interessa, se non vuoi parlarne, per me non ci sono problemi».
«No, Valentina, anzi. Mi fa piacere ogni tanto ricordare il mio ato e poi sono sicuro che tu non sia il tipo che va subito a sputtanarmi in giro».
«Come vuoi tu».
«E’ accaduto diversi anni fa. Ero nei ROS e stavamo dando la caccia a Matteo Messina Denaro. Grazie ad alcuni pentiti e dopo indagini investigative durate mesi, riuscimmo a localizzare il luogo dove presumibilmente si nascondeva il boss. Era una masseria a pochi chilometri da Palermo. Io ero al comando della squadra che doveva procedere all’irruzione nel casolare e arrestare i mafiosi. Dalle immagini satellitari, eravamo sicuri che Messina Denaro fosse all’interno della masseria. Aspettavamo soltanto l’ordine di agire. Ma quell’ordine non arrivava, non riuscivamo a capire il perché. Ad un certo punto, dopo ore di attesa e dopo aver chiesto più volte inutilmente l’autorizzazione a intervenire, presi la
decisione. Ordinai ai miei uomini di attaccare la masseria, ci fu un violento conflitto a fuoco con alcuni mafiosi. Un mio uomo fu ferito mortalmente. Setacciammo il casolare ma di Messina Denaro non c’era alcuna traccia. Scoprimmo un aggio segreto nella stalla della masseria che portava in aperta campagna ben oltre le nostre linee. C’era ato sotto il naso, senza che noi ce ne rendessimo conto. La più grande umiliazione della mia vita professionale. Tornai al Comando infuriato. Chiesi come mai non ci fosse stato autorizzato l’attacco. Come poteva sapere Messina Denaro della nostra presenza così da potersi mettere in salvo? C’era forse una talpa al nostro interno? Tutte domande che rimasero senza risposta».
Valentina rimase sconcertata da quel racconto. «Johnny, chi aveva il comando dell’intera operazione?»
«Ovviamente i vertici del ROS di concerto con la Procura di Palermo. Dopo un po’ di tempo venni a sapere, da un mio amico Ufficiale, che c’erano state delle pressioni da parte del Ministero degli Interni per ritardare l’operazione».
«Gran brutta storia. E poi cos’è successo?»
«E’ successo ovviamente che io sono stato massacrato per aver compiuto un’operazione non autorizzata che aveva causato la morte di un Carabiniere. Mi fecero fuori dal ROS e mi dissero di scegliermi un Comando Provinciale al Nord. Fine della storia. Non volli indagare oltre su come andarono realmente le cose. Io non mi sentivo in colpa per la morte di un mio caro collega. Avevamo fatto semplicemente il nostro dovere. Evidentemente però all’epoca c’erano delle strane connessioni tra mafia e politica che quell’evento portò senz’altro alla luce, ovviamente all’epoca senza alcun clamore. Ti sembra possibile che Riina e Provenzano, ricercati per anni in tutto il mondo, si trovassero uno a Palermo e l’altro a Corleone? Li abbiamo presi, perché loro hanno deciso che li prendessimo. Soltanto ora ci sono a Palermo dei coraggiosi magistrati che stanno indagando sui rapporti Stato-mafia, ma sarà difficilissimo che giungano a delle
conclusioni. Hanno tutto il sistema politico, di destra, di centro e di sinistra contro».
«Johnny ti rendi conto di quello che stai dicendo?» Valentina era scossa dal racconto del collega. «Come fai a portare ancora la divisa dopo quello che mi hai raccontato?»
«Mah, forse perché sono un incurabile idealista che crede ancora che alla fine il bene possa prevalere sul male. E poi non è l’Arma dei Carabinieri ad essere marcia ma la politica. Però adesso finiamola di parlare di me. Raccontami la tua storia».
Nel frattempo il cameriere aveva servito i primi piatti.
Valentina a questo punto prese la parola. «Sono nata in una famiglia di militari. Mio nonno era un Generale degli Alpini e mio padre è un Tenente Colonnello della Guardia di Finanza. Siamo stati sempre in viaggio a causa dei diversi incarichi ricoperti da mio padre. E’ stata molto difficile la mia infanzia, sballottata da una località all’altra senza riuscire a costruirmi amicizie durature o relazioni sentimentali. E’ stato quasi un obbligo per me, figlia unica, quello di intraprendere la carriera militare anche perché ero spinta dalle continue pressioni della mia famiglia. Alla fine ho accettato però ad una condizione: volevo entrare nei Carabinieri ed in particolare nel RIS. Per raggiungere questo obiettivo, mi sono laureata in Chimica a Torino e poi ho sostenuto il concorso per entrare nel RIS aggiudicandomi uno dei dieci posti disponibili per le investigazioni scientifiche. Poi in realtà, volevo entrare nei Carabinieri anche per un altro motivo…».
Stava quasi, inconsapevolmente, per confessare il suo segreto, quando squillò il cellulare di Mancuso.
Il Capitano rispose, ascoltò e alla fine chiuse la comunicazione dicendo: «Veniamo subito». L’espressione del suo volto non prometteva nulla di buono.
Valentina cercò subito di capire cos’era successo. Mancuso la guardò negli occhi e le disse: «L’Abate è stato trovato nel suo alloggio impiccato».
104.
I due Ufficiali arrivarono al Monastero quando sul posto erano già presenti numerosi uomini delle Forze dell’Ordine. C’era anche Moncalvo, il Sostituto Procuratore di Arezzo.
Venne loro incontro il Tenente Rinaldi. «Buonasera, ho ritenuto opportuno informarvi, dopo il colloquio che abbiamo avuto ieri pomeriggio. Venite, vi faccio strada».
Arrivarono davanti all’alloggio dell’Abate. All’interno, diversi uomini della Polizia Scientifica stavano effettuando i rilievi del caso. Il corpo senza vita del sacerdote era stato adagiato sulla branda. Da una trave del sottotetto al centro del soggiorno, penzolava un cappio lungo alcuni metri. A terra c’era uno sgabello rovesciato.
Il Procuratore Moncalvo si avvicinò a Mancuso e Valentina e li salutò. «La Procura di Savona mi ha segnalato la vostra presenza per le indagini sulla ragazza uccisa a Cairo Montenotte. Cosa ne pensate? Il tenente Rinaldi mi ha detto che avevate incontrato l’Abate ieri ».
Valentina, per rispettare la scala gerarchica, attese che fosse il Capitano a rispondere al magistrato. «Sì, lo abbiamo visto ieri pomeriggio, per avere notizie sulla monaca uccisa. A dire il vero, non ci è stato di grande aiuto, anzi ci è sembrato un po’ reticente. Una cosa però è certa. Non abbiamo assolutamente avuto l’impressione che stessimo interrogando un sacerdote che da lì a poche ore si sarebbe impiccato».
Il Procuratore soppesò a una a una le parole del Capitano. «Mi sta forse dicendo che si è trattato di un omicidio camuffato?»
«Dottore, mi ascolti bene. Come può un uomo anziano e, per giunta, claudicante, aver sistemato da solo la corda sopra la trave, salire sul piccolo sgabello ed essersi messo il cappio al collo? A me francamente non sembra possibile».
«E perché mai avrebbero dovuto ucciderlo?»
«Forse perché era a conoscenza di alcuni retroscena della scomparsa di Angela Tommasi, forse perché sapeva dove ha vissuto in questi cinque anni dopo la scomparsa, forse perché lui stesso era complice degli assassini».
Il Procuratore però continuava a essere scettico. «Poniamo che lei abbia ragione. Queste ipotesi, però, tutte da verificare, continuano a non giustificare l’omicidio».
Valentina lo guardò e intervenne per la prima volta. «Io invece credo di sì. Probabilmente l’Abate dopo la nostra visita, aveva deciso di collaborare. Ecco il movente dell’assassino!»
In quel momento arrivò il Tenente Rinaldi. Rivolto al Procuratore disse: «All’interno dell’alloggio non abbiamo trovato nulla di rilevante ai fini dell’indagine. Non aveva nemmeno un cellulare. In camera da letto, dietro a un quadro, abbiamo trovato una piccola cassaforte. L’abbiamo forzata, ma non c’era nulla d’importante. Solo alcuni libri molto antichi scritti in una lingua incomprensibile».
«Posso averli?» chiese Mancuso. «Non credo interessino ai fini dell’indagine».
Il Procuratore però non era uno sprovveduto, lo guardò di sbieco e disse ironicamente: «Capitano, io dubito che in lei sia nato improvvisamente un grande interesse per la semantica. Mi raccomando, io so chi è lei, non prenda iniziative personali. Posso consentirle, anche se è al di fuori dalla zona di sua competenza, di collaborare all’indagine con i suoi colleghi di Arezzo, ma mi tenga costantemente informato su tutto ciò che dovesse eventualmente scoprire. E questo vale anche per lei» disse rivolgendosi a Valentina.
«Devo chiederle ancora un’autorizzazione» disse Mancuso.
«Di cosa si tratta?»
«Dobbiamo riesumare i corpi dei genitori di Angela Tommasi. Voglio chiarire definitivamente la causa del loro decesso. Abbiamo appurato che sono morti in un incidente stradale esattamente un mese dopo la scomparsa della loro figlia. Ci sono delle strane coincidenze…».
Il Procuratore ci pensò un attimo e poi sentenziò: «Va bene. Rinaldi mi prepari l’autorizzazione da firmare e mandi subito una squadra al cimitero per l’esumazione dei coniugi Tommasi. Domani mattina voglio avere i risultati delle autopsie dei tre cadaveri».
Mancuso e Valentina ringraziarono, salutarono e si avviarono verso la propria auto. Ad un tratto, a pochi metri dall’Alfa, il Tenente si fermò e si rivolse al
collega: «Johnny, facciamo un giochino!».
«Non mi sembra il momento adatto per fare giochini».
«Zitto e ascolta. Quanti anni aveva Angela quando è entrata nel Monastero?»
«Tu sei impazzita! 18 o sbaglio?»
«No, non sbagli. A questo punto dimmi: cosa fa 8 meno 1?»
«Non so dove vuoi arrivare. Fa 7 ».
«Perfetto, tienilo a mente. Adesso dimmi quanti anni aveva Angela Tommasi quando è morta?»
«Aveva 25 anni e… Cazzo! 2 più 5 fa di nuovo 7 !»
«Caro Johnny, non so ancora in quale misura, ma di due cose sono certa. In primo luogo, in tutta questa losca faccenda, i numeri stanno giocando un ruolo primario e spetta a noi capirne il significato. In secondo luogo, temo proprio che abbiamo a che fare con dei rituali satanici».
105.
Erano quasi le 11.00. Nell’ufficio del Procuratore, Mancuso, Valentina e il Tenente Rinaldi attendevano con trepidazione l’arrivo del medico legale. Nessuno aveva voglia di parlare, tutti stavano elaborando le loro teorie in attesa che fossero confermate o meno dagli esami autoptici.
Alla fine, verso le 11.30, finalmente arrivò il medico, completamente stravolto per aver lavorato tutta la notte e parte della mattinata.
Moncalvo, senza troppa diplomazia, gli chiese conto del suo operato.
Il medico si lasciò andare, sprofondando in una poltrona di pelle e cominciò la sua dissertazione. «Diciamo subito che non ho buone notizie. Ho tardato un po’ proprio per verificare i miei riscontri, in modo da non avere alcun tipo di dubbio. Per quanto riguarda l’Abate, è morto di asfissia meccanica per impiccamento. Anzi, per essere precisi, nella morte per impiccagione entrano in gioco due meccanismi: il primo, quello che tutti pensano faccia morire, è appunto l’asfissia, la costrizione meccanica delle vie aeree, che avviene con l’ostruzione del collo. Invece, quello che uccide prima, è l’ostruzione dei vasi arteriosi e venosi del collo stesso, vale a dire carotide e giugulare. Direi che la morte risale a un paio di ore prima del suo ritrovamento. Ma c’è un ma! Pur essendo stato ripulito accuratamente, ho rinvenuto all’interno della bocca alcune tracce di cloroformio. Ciò, a mio parere, può voler dire una cosa sola. Visto che l’anziano sacerdote non può essersi cloroformizzato da solo per poi impiccarsi, qualcuno deve avergli fatto perdere i sensi e poi gli ha messo il cappio al collo e ha simulato il suicidio.
Senza ombra di dubbio, quindi, a mio parere si tratta di un omicidio.
Per quanto riguarda i coniugi Tommasi, ovviamente, essendo trascorsi cinque anni dalla loro morte l’esame autoptico è stato molto più complesso. I tessuti erano inoltre in pessime condizioni a causa della decomposizione.
Devo dire però che, anche nel loro caso, sono giunto a delle conclusioni piuttosto inquietanti. Ho analizzato attentamente lo stato della composizione ossea dei due corpi, confrontandola scrupolosamente anche con la dinamica dell’incidente stradale.
Considerando l’andatura sostenuta, così come è trascritto nel verbale redatto dalla Polizia Stradale, l’impatto con l’albero è stato molto violento e ha fatto regolarmente scoppiare gli airbag. I due eggeri avevano inoltre le cinture di sicurezza, come testimoniato dalle fotografie che ho visionato. Però, nonostante l’entità dell’urto, i due corpi presentano soltanto alcune fratture importanti agli arti inferiori, non protetti, e alcune vertebre schiacciate per il contraccolpo. Nulla più.
In estrema sintesi, quello che voglio dire è che l’incidente non è stato così violento da causare la morte dei coniugi Tommasi. Purtroppo non sono stato in grado di verificare se all’interno degli organi, ormai totalmente putrefatti, vi fossero tracce di sostanze sospette. Mi lascia molto perplesso il fatto che la Polizia Stradale sia giunta a delle conclusioni definitive in modo così frettoloso e scarsamente professionale. Cari signori, a voi le deduzioni del caso. Io non ho altro da dirvi».
Il medico se ne andò e lasciò i presenti a elaborare e metabolizzare le informazioni che avevano appena ricevuto.
Il Procuratore prese l’iniziativa. «Bene. Direi che la situazione è alquanto complessa. Abbiamo due omicidi sicuri, la giovane monaca e l’Abate del Monastero e due morti sospette, i genitori di Angela. Tenente Cortesi, in base alla sua esperienza, si sente di escludere che l’assassino possa essere un omicida seriale?»
Valentina guardò Mancuso che le fece un cenno di assenso. «Direi assolutamente di sì. I serial killer operano in modo del tutto diverso. In primo luogo uccidono per categorie di vittime omogenee. Ad esempio le prostitute o le ragazze bionde. Nel nostro caso le vittime sono totalmente disomogenee.
In secondo luogo l’omicida seriale è fondamentalmente un narcisista. Lascia sempre un marchio ben preciso sulle sue vittime e vuole che siano ritrovate per avere la sua porzione di celebrità. Ciò non coincide assolutamente, ad esempio, con l’uccisione di Angela Tommasi, avvenuta in una chiesetta sperduta nel bosco e ritrovata casualmente da un cacciatore».
«Per quale motivo dovrebbero essere stati uccisi i genitori di Angela?»
«Forse perché gli assassini volevano cancellare ogni traccia di quella famiglia, non essendoci alcun altro esponente in vita. E poi i genitori non si sarebbero rassegnati. Avrebbero cercato la loro figlia, avrebbero fatto clamore. Meglio eliminarli».
«Allora, in quale direzione dovremmo muoverci?»
A quel punto intervenne Mancuso. «Abbiamo degli elementi in nostro possesso che ci spingono a ipotizzare che questi omicidi siano il frutto di un qualche
rituale satanico. Stiamo cercando dei riscontri per delineare meglio i contorni dell’indagine».
«Va bene allora. Io mi terrò in contatto con la Procura di Savona, visto che l’inchiesta è sostanzialmente un filone unico. Lei, Tenente Rinaldi, utilizzi i suoi uomini per verificare se nel territorio di nostra competenza esistano delle sette legate al satanismo. Se dovessero ripetersi altri episodi di violenza, a quel punto saremo costretti a inviare un’informativa al Ministero degli Interni. Il caso potrebbe estendersi a livello nazionale. E non dimentichiamoci che abbiamo l’attenzione dell’opinione pubblica e della stampa addosso. Ha già suscitato un notevole clamore, l’omicidio della ragazza a Cairo. Vi ordino il massimo riserbo. Evitiamo di far accenno per ora alla pista satanica. Non voglio turbare ulteriormente la sensibilità della gente».
Gli Ufficiali fecero il saluto militare e uscirono dall’ufficio.
Mancuso e Valentina raggiunsero nel parcheggio la loro auto.
«Che intenzioni hai e perché ti sei portato dietro quei volumi?» chiese Valentina.
Mancuso la guardò sorridendo: «Facciamo un giochino…».
«Ancora con i numeri?»
«No. Tu, nella tua cassaforte, cosa ci metti dentro?»
«Io non ho una cassaforte».
«Allora facciamo finta che tu ce l’abbia. Cosa ci metteresti dentro?»
«Capitano, non lo so, non possiedo nulla che meriti di essere custodito in una cassaforte. Se ce li avessi, penso che ci metterei degli oggetti di valore, dei gioielli, dei ricordi ai quali fossi molto legata…».
«Brava Valentina, hai colto nel segno. Degli oggetti di valore, non necessariamente da un punto di vista monetario».
«Non ti seguo» disse Valentina confusa ma allo stesso tempo incuriosita dal ragionamento del collega.
«Allora la domanda è: cosa ci facevano questi volumi scritti in una lingua indecifrabile nella cassaforte dell’Abate? Sì, senz’altro potrebbero avere un valore pecuniario per i collezionisti, ma non per lui. Se li teneva in cassaforte, era perché li riteneva importanti se non addirittura indispensabili ai fini di qualche suo studio, magari legato alla scomparsa di Angela. Quindi adesso torniamo dal dottor Anselmi a Santa Margherita e speriamo che possa esserci d’aiuto».
106.
Arrivarono a Santa Margherita nel tardo pomeriggio. Speravano che il dottor Anselmi potesse riceverli anche senza appuntamento. Furono fortunati. L’esperto era in casa, anche perché le sue condizioni fisiche precarie non gli consentivano di stare per molto tempo fuori. Li ricevette quasi con gioia. Poveretto, probabilmente non aveva molte occasioni per scambiare due parole con altre persone, all’infuori della sua badante. Forse non aveva neanche una famiglia, vista la totale assenza nel suo lussuoso appartamento, di fotografie esposte sui mobili.
Appena li vide, li fece accomodare nel salotto notando subito i volumi in mano a Mancuso.
«Scommetto, Capitano, che è venuto a trovarmi per quelli» disse indicando i libri.
Mancuso e Valentina rimasero impressionati dalla lucidità dell’anziano esperto.
Il Capitano annuì. «Sì, dottore. Siamo venuti per questi. Li abbiamo rinvenuti nella cassaforte dell’Abate del Monastero di Casteldelfino».
«Oh, poveretto, ho appreso dalla televisione della sua morte. Che tragedia! Mi faccia vedere i volumi».
Mancuso consegnò i libri ad Anselmi. Quest’ultimo li guardò con attenzione,
sfogliò con delicatezza numerose pagine stando ben attento a non rovinarle e alla fine, dopo quasi mezzora, sentenziò: «Si tratta di testi molto datati scritti in ebraico antico. Si stima che circa 2000 anni fa l'ebraico fosse già in disuso come lingua parlata, venendo sostituita dall'aramaico. La lingua Ebraica nacque ufficialmente nel 1300 a.C. nel periodo dei Giudici, quando essi erano già stanziati a Canaan. Quando Israele entrò e poi uscì dall'Egitto, parlava la lingua Fenicia; di fatto le tavole date da Dio a Mosè erano scritte in Fenicio. Secondo alcuni studiosi invece l'ebraico risulterebbe la lingua pura cioè senza nessuna contaminazione, sarebbe una lingua di origine spirituale».
«Ha per caso trovato qualche parola o qualche frase che possa esserci utile per le indagini?» chiese Valentina.
«Eh signorina, non è così semplice e poi sono tantissimi anni che non vedo più un testo in ebraico antico. Però ho notato che c’è una parola che l’Abate ha sottolineato. Se non erro, significa Profezia. Di più, così su due piedi, non sono in grado di aiutarvi».
«Lei è stato sin troppo gentile, dottore» disse Mancuso alzandosi dalla poltroncina.
Quando uscirono dall’abitazione, erano entrambi pensierosi. Satanismo, Paternoster, Profezia. Mancavano soltanto I Cavalieri della Tavola Rotonda e Mago Merlino, poi il quadro sarebbe stato completo.
Mancuso improvvisamente si bloccò e guardando la collega le disse: «Vale, ma in che cazzo di indagine siamo finiti?»
107.
Carcare, in Provincia di Savona, era una cittadina di probabile origine romana con una storia travagliata costellata da alterne dominazioni, dalla signoria dei Del Carretto alla dominazione spagnola, dalla Repubblica di Genova alla Repubblica Ligure, dal dominio napoleonico al Regno di Casa Savoia e quindi al Regno d’Italia.
Nel novecento, grazie alla posizione geografica, divenne un centro di riferimento della Val Bormida dal punto di vista culturale e dei servizi, con la nascita di attività commerciali, artigianali e piccole aziende, contribuendo così all’incremento dell’economia locale.
Grazie ad un clima mite e piacevolmente ventilato d’estate, Carcare divenne una rinomata meta di villeggiatura e alcuni signori fecero costruire qui le loro lussuose ville con ampi parchi immersi in una natura incontaminata, ricca di boschi e di sentieri che si perdevano sulle colline tutto intorno alla cittadina.
Proprio tra quelle colline, a notte inoltrata, in una chiesetta completamente disadorna e abbandonata da anni, lontana dalle strade trafficate che conducevano ai paesi limitrofi, frequentata soltanto saltuariamente da qualche ragazzino per fumarsi uno spinello, si stava svolgendo un rituale antico e crudele.
Una giovane ragazza, completamente nuda, era sdraiata su un piccolo altare di marmo ormai ingiallito.
Erano trascorsi cinque giorni dal Primo Sacrificio ma ora La Sacra Profezia ne
pretendeva un altro.
Sara non era legata o incatenata sull’altare. Non poteva né voleva scappare pur conoscendo il suo destino.
Cinque anni prima era stata prelevata da alcuni uomini che indossavano degli strani abiti talari. Dietro un lauto compenso, avevano ottenuto il benestare dalla responsabile della Comunità Religiosa nella quale Sara viveva sin dalla sua infanzia, dopo la morte dei suoi genitori avvenuta in un incidente stradale. Lei non aveva altri parenti in vita e quella Comunità era stata la sua casa, la sua famiglia, il suo nido, dove aveva vissuto un’adolescenza quasi normale. La mancanza dei genitori era stata compensata dall’affetto sincero delle altre ragazze della Comunità e dalle volontarie che le educavano a una vita gioiosa e onesta. Ma quella sera di cinque anni prima tutto era cambiato. Non aveva potuto opporsi ai sacerdoti che erano venuti a prenderla.
Fu condotta in una località a lei ignota e aveva trascorso tutto quel tempo segregata, in totale isolamento, senza nessun contatto con il mondo esterno. Sostanzialmente era come se fosse incarcerata, anche se il trattamento era di tutto riguardo. Il cibo era buono e periodicamente le portavano biancheria e vestiti puliti. Aveva anche un bagno con la doccia.
Le uniche persone che vedeva, erano questi sacerdoti vestiti con un abito talare color rosso porpora, con un grande pentacolo rovesciato impresso sul davanti e il cappuccio calato sul viso per non farsi riconoscere. Le portavano da mangiare e non le dicevano una sola parola.
Quando un giorno aveva tentato un approccio, chiedendo a uno di loro se le potessero portare una Bibbia per pregare, quello che si presentò per il pasto successivo, tirò fuori dalla tasca dell’abito una piccola copia delle Sacre
Scritture, gliela fece vedere e poi con un accendino le diede fuoco buttandola ai suoi piedi. Le disse soltanto: «Non saranno le falsità contenute in questo stupido libro a salvarti dalla tua purificazione».
Lei era rimasta scioccata da quell’episodio e intuì che era soltanto una questione di tempo: prima o poi l’avrebbero uccisa. Ciò che voleva soltanto sapere era: Perché?
Quella sera erano entrati nella sua stanza, le avevano coperto il volto con un cappuccio e l’avevano portata in auto in un luogo che puzzava di stantio e di urina. Aveva capito che era arrivato il momento e, in cuor suo, era persino contenta. Sarebbe finalmente finito il suo incubo e nessuno avrebbe pianto per la sua morte.
Le tolsero il cappuccio, la denudarono e la fecero sdraiare su una tavola di marmo che a lei parve essere una specie di altare. Riconobbe le sembianze di quella che un tempo doveva essere una piccola chiesa. Sara tremava, non tanto per la paura quanto per il freddo umido di cui quel luogo era impregnato. C’erano numerosi sacerdoti con quegli abiti rossi, sembrava pregassero in una lingua incomprensibile.
Ad un tratto, quello che sembrava essere il loro Capo, anche perché indossava un abito molto più sgargiante degli altri, le si avvicinò. Gli altri adepti si schierarono intorno all’altare. Stringeva nella mano destra un pugnale stranissimo. Sembrava antico. Immobile sopra di lei, alzò le braccia al cielo, in segno di preghiera e, come previsto dall’antico rituale, incominciò a declamare La Sacra Profezia:
«L’Era dell’Anticristo inizierà nell’anno numero 7, quando il Grande Impostore sarà 2 volte 7 e 2 volte settimo. Ma prima di rivelarsi, l’Anticristo
farà in modo che lo stupido Uomo pensi di essere al sicuro. Trascorsa sarà ormai la mendace Profezia della fine del mondo trasmessa per volere del Divino dalla bocca di coloro che in Sanscrito significano “Illusione”, come illuso sarà l’Uomo della sua salvezza. I Gentili si risveglieranno dall’incantesimo Ebraico e dalle menzogne del Cristianesimo. Ma proprio da quel fallace oracolo comincerà l’Era del Pàntaclo. Tutto sarà dominato dai numeri 5 e 7.
5 come le punte del Pentacolo e 7 da 666 il numero magniloquente vergato nel menzognero Libro.
Quando l’anno sarà il numero 7, cinque vergini verranno scelte dagli Eletti per l’estremo sacrificio.
Dopo il fallace inganno, quando il tempo sarà due volte 5, il Regno della menzogna avrà un Monarca debole e l’Anticristo comincerà a radunare le sue truppe e preparare il suo Avvento.
Quando l’anno sarà di nuovo il numero 7 e il Grande Impostore sarà il suo doppio, i 7 peccati originali si sveglieranno dal loro torpore e l’Uomo, in preda al terrore, si sottometterà al suo Unico vero Dio che dalle tenebre apparirà e gli dirà: “La morte sarà la tua purificazione”.
In quel tempo saranno ati 5 anni dalla loro predilezione. Le 5 vergini, che avranno raggiunto i 7 anni, saranno sacrificate ogni 5 giorni a partire dal settimo giorno del mese due volte 5…».
Sara smise di ascoltare quel pazzo, non aveva capito una sola parola di quello
che aveva detto. Sapeva soltanto che da lì a pochi istanti sarebbe morta per mano di un manipolo di miscredenti che avevano scelto lei come vittima sacrificale.
Fu allora che tornò indietro negli anni, quando era bambina, quando era felice. Giocava con mamma, papà e Dusky, il suo adorato pastore tedesco.
I suoi ricordi erano un po’ confusi, ma alcuni li riviveva come nitide fotografie. Le sue bambole, il budino al cioccolato, la sua stanza, le sue amichette, il popcorn al cinema, la mamma che le raccontava le favole a letto…
La voce più intensa del Capo la ridestò dai suoi pensieri. Fece in tempo a sentire: «…Tutto finirà e la morte si abbatterà sugli infedeli peccatori. Il Sette, l’Anticristo, sarà il Padrone dell’Universo».
Fu un istante. Un colpo di una violenza inaudita fu inferto con il pugnale sul petto di Sara. Il sangue schizzò da tutte le parti, imbrattando anche l’abito talare dell’assassino.
Sara non ebbe il tempo di mettere a fuoco l’immagine del suo carnefice che la stava per colpire. Sentì un dolore fortissimo e poi… il nulla. Nonostante la brutale esecuzione, sul volto della ragazza sembrava che ci fosse un sorriso abbozzato.
Sara era finalmente di nuovo libera.
108.
Mancuso e Valentina erano rientrati alla Stazione di Cairo. Erano stanchi, avendo dormito ben poco durante le ultime notti, ma soprattutto si sentivano impotenti di fronte ad un’indagine dai contorni ancora assolutamente nebulosi.
Mancuso aveva in mano uno dei libri dell’Abate e lo sfogliava sperando che, grazie ad un improvviso incantesimo, tutti quei caratteri incomprensibili potessero svelare il loro reale significato. Gli era rimasta impressa l’unica parola tradotta dal dottor Anselmi: profezia. Quale significato poteva avere questa ipotetica profezia al punto di causare la morte del sacerdote?
Mancuso prese una decisione. «Valentina, dobbiamo tornare al Monastero e interrogare gli altri monaci. Qualcuno sicuramente avrà visto o sentito qualcosa che possa esserci utile per le indagini. E’ una comunità chiusa, non sono in molti, non deve essere facile mantenere troppo a lungo un segreto, ammesso che l’Abate ne avesse qualcuno. E poi, magari, qualche monaco è a conoscenza dei motivi della scomparsa di Angela».
Valentina era d’accordo, però oppose subito un’obiezione: «Non dimenticarti che sono obbligati al silenzio nei confronti degli estranei. Sarà molto difficile persuaderli a parlare».
«Me ne fotto del loro voto! Li guarderò in faccia uno per uno e capirò immediatamente chi eventualmente fosse a conoscenza di qualche notizia utile. Se non collaboreranno, li sbatto in galera!»
Partirono soltanto nel tardo pomeriggio e arrivarono che era già notte.
Scesi dall’auto erano incerti sul da farsi. I monaci erano sicuramente già tutti a letto.
Mancuso non ci pensò due volte. Prese una torcia dall’auto, la mano di Valentina e si diresse verso il muro di cinta del Monastero. Era alto meno di tre metri.
«Johnny, che diavolo vuoi fare?» chiese allibita Valentina.
«Una cosa molto semplice, mia cara. Saltare dall’altra parte».
«Non possiamo farlo, siamo Ufficiali dei…».
«Stai zitta e seguimi».
Mancuso prima aiutò Valentina a issarsi sul muro. C’erano numerose sporgenze e la scalata fu più facile del previsto. Quando lei planò sul prato dall’altra parte, toccò al Capitano che in pochi secondi si ritrovò di nuovo vicino alla sua compagna.
«E adesso che facciamo?» domandò Valentina che però conosceva già la risposta. «Ok, andiamo pure nell’alloggio dell’Abate, tanto abbiamo già commesso una bella serie di reati…».
Nel buio più assoluto, giunsero rapidamente davanti alla porta dell’alloggio che dava sul chiostro centrale a piano terra, mentre le celle degli altri monaci erano situate al primo piano. C’erano ancora i sigilli di sequestro del luogo che era stato la scena del crimine.
Mancuso chiese a Valentina se gli poteva dare una forcina per i capelli. Lei gliela diede e il Capitano, dopo aver armeggiato per un po’ con la serratura, alla fine riuscì ad aprire la porta.
Entrarono nel piccolo appartamento, composto di un soggiorno e di una camera da letto.
Mancuso cercò di illuminare il più possibile le stanze roteando la torcia, ma la visibilità era davvero pessima.
Valentina non sapeva bene cosa cercare in quelle condizioni davvero proibitive: «Johnny, non vedo nulla. Poi l’appartamento è già stato ripulito dalla Polizia Scientifica. Che cosa pensi di trovare? Mi stai cacciando in un bel casino…».
«Vale, cazzo! Tu sei un ufficiale del RIS! Voi quelli della Polizia Scientifica ve li mangiate a colazione! Fatti venire in mente qualcosa, che ne so un particolare che nella tua esperienza ata avete considerato insignificante e che poi invece si è rivelato risolutivo».
Valentina, punta nel suo orgoglio di Carabiniere, si concentrò. Poi ebbe un’intuizione: «La cassaforte è stata trovata aperta. Ciò significa che o era già
aperta quando è arrivato l’assassino o lui conosceva la combinazione. Andiamo un po’ a vedere».
Si diressero verso la parete a destra della camera da letto e Mancuso illuminò il dipinto dietro al quale c’era la porticina della cassaforte. Valentina si avvicinò, tolse il quadro, si girò per appoggiarlo da qualche parte quando, senza accorgersene, con il piede sinistro inciampò nella gamba metallica del letto e cadde per terra con il prezioso dipinto.
«Cristo Santo, ti sei fatta male?» chiese preoccupato Mancuso.
«No, no tutto bene. Speriamo che il quadro non si sia danneggiato» rispose Valentina.
Mancuso illuminò la tela e controllarono attentamente. Sembrava intatto, con loro grande sollievo. Soltanto l’occhio addestrato di Valentina notò una cosa strana. «Johnny, guarda lì in alto a destra della figura di San sco. Purtroppo è venuta via un po’ di pittura, ma sotto non c’è la tela, sembra che ci sia un altro disegno».
«Accidenti è vero, te lo dicevo, Tenente, che sei la migliore! Mi sa che dobbiamo farlo…».
«No Johnny…, non vorrai proprio…».
«E’ la cosa giusta Vale. San sco ci perdonerà. Prendi una bella moneta e
fai finta di grattare un biglietto della lotteria».
Si misero entrambi a grattare con frenesia, spinti dalla curiosità e dall’eccitazione per la scoperta. La pittura veniva via facilmente, segno della poca accuratezza con la quale era stato dipinto quel quadro di presunto valore e che era invece soltanto servito a coprire un’altra immagine. Quando ebbero finito, pulirono per bene il nuovo disegno e Mancuso subito lo illuminò.
Rimasero entrambi senza parole.
La tela raffigurava una mappa con un pentacolo inciso sopra.
109.
Era notte inoltrata, ormai. Betta non riusciva ad addormentarsi, come ormai le capitava tutti i giorni dopo aver partecipato a quel festino maledetto.
Cecilia l’aveva ripetutamente chiamata, ma lei non aveva risposto. Non aveva nessuna voglia di parlare con colei che l’aveva trascinata in quel luogo laido.
Il cellulare riprese a suonare. Era di nuovo la sua amica. Questa volta Betta decise di rispondere per mandarla al diavolo una volta per tutte. «Pronto?» disse in maniera chiaramente seccata.
Cecilia era letteralmente infuriata. «Betta, cazzo, sei proprio una grandissima stronza! Sono giorni che ti sto cercando! Mi hai messo in un bel casino!»
«Per quale motivo» replicò Betta senza ribattere agli insulti.
«Per quale motivo? Ma allora sei proprio stupida! I nostri amici ti hanno messo gli occhi addosso! Mi stanno ripetutamente chiedendo di riportarti alle loro feste. Io ho raccontato un sacco di balle per coprirti, ma adesso non so più cosa inventarmi. Domani sera ci hanno invitate addirittura ad un party in una villa privata in Città del Vaticano. Ci saranno tutti i boss. Ci porteremo a casa almeno 3.000 euro a testa».
«Mi dispiace Cecilia, ma io non vengo. Non intendo venire più a quelle luride feste dove portano anche le bambine».
«Che cosa dici? Che cosa c’entrano le bambine? Io non ne ho mai viste».
«Non le hai viste perché hai fatto finta di non vederle. Io ne ho vista una con i miei occhi uscire dalla stanza di uno di quei depravati che frequenti. Mi fai schifo!»
«Va bene Betta, continua a fare la puttanella da 50 euro a sera. Però ti dico soltanto una cosa e non te la dico per metterti paura. Quando entri in quel giro, anche una volta sola, non sei tu a decidere se e quando uscirne. Non te lo permetteranno. E ti assicuro che è gente che non va tanto per il sottile. Stai attenta, guardati le spalle, anzi è meglio se ti trasferisci da qualche altra parte. Io, mi dispiace, non ti copro più. Domani sera a loro dovrò dire la verità e non la prenderanno bene. Buona fortuna, Betta».
La ragazza buttò il cellulare sul letto e si mise a piangere. Trasferirsi da qualche altra parte? E dove? Senza amici, senza soldi, sola al mondo.
Che venissero pure, non aveva paura.
Anzi, si diede della stupida per non averci pensato prima.
Sarebbe andata dai Carabinieri.
Quei luridi maiali dovevano finire in galera.
110.
Mancuso e Valentina stavano velocemente rientrando al Comando di Cairo. Mancuso era al settimo cielo. «Accidenti Vale, abbiamo avuto un bel colpo di fortuna, ovviamente meritato grazie al tuo intuito».
«Non mi adulare, Johnny, abbiamo semplicemente avuto culo».
Mancuso però sembrava che non la ascoltasse. «Quella mappa potrebbe dare una svolta alle nostre indagini. Il pentacolo indica cinque località, Cairo, Carcare, Dego, Cadibona e Pontinvrea che in origine si chiamava Astoraria. Dobbiamo capire cosa lega queste cinque località e perché sono segnate sulla mappa».
Valentina si fece seria. «Ascolta Capitano, io penso che prima di tutto dovremmo informare il Procuratore di questo ritrovamento. Ci farà il mazzo per come lo abbiamo recuperato, ma penso che l’importanza del reperto lo farà essere indulgente nei nostri confronti. A quel punto io potrei giustificare la mia prolungata presenza a Cairo, nonostante il mio capo mi abbia già più volte ordinato di rientrare a Parma. Anzi potremmo far venire nuovamente una squadra attrezzata per l’analisi del quadro».
Mancuso la guardò con un’espressione severa. «Non se ne parla nemmeno. Questa mappa deve rimanere un segreto tra me e te. La studieremo noi e poi tu, se non erro, sei un’esperta analista o sbaglio?»
Il tono con cui le aveva risposto, indispettì Valentina. «Capitano, ti ricordo quali sono i tuoi doveri da Ufficiale dei Carabinieri. Il Procuratore ti ha detto
esplicitamente di metterlo al corrente di ogni novità. E questo quadro è una novità. Non ripetere la cazzata di Palermo. Ti avverto che non ci sono altri Comandi a nord di Savona, secondo la logica che i tuoi superiori hanno applicato all’epoca».
Mancuso, che si era reso conto di essere stato irritante, accostò l’auto in una piazzola di sosta. «Valentina, ascoltami. Non voglio fare nessuna cazzata, ma proprio dopo quello che mi è capitato a Palermo, sono diventato diffidente verso tutti. Non mi fido più di nessuno al di fuori di te. In questa vicenda, dai contorni ancora molto incerti, potrebbero essere coinvolte persone molto importanti. Queste sette sataniche o massoniche che siano, sono sempre composte di adepti al di fuori di ogni sospetto. Dobbiamo volare bassi e indagare con molta discrezione, altrimenti saremo sicuramente travolti. Io questa volta, ho deciso non solo di giocarmi la carriera, ma anche la mia stessa appartenenza all’Arma. Io ho bisogno di te, sei una professionista di altissimo livello e mi garantiresti un aiuto determinante. Però non voglio costringerti, non lo farei mai. Decidi tu. In ogni caso sarai per me la migliore collega con cui ho mai lavorato».
Valentina scosse la testa, lo guardò e pose fine alla discussione. «Mancuso, sei proprio un vero stronzo. Come posso abbandonarti proprio adesso! Dai, muoviti, andiamo al Comando. Abbiamo una mappa da decifrare».
111.
Betta era ormai ossessionata dal ricordo di quella serata maledetta trascorsa in un’enorme villa situata appena fuori Roma.
Aveva deciso di andare dai Carabinieri, ma prima voleva accertarsi di essere in grado di provare le sue accuse. In fondo era la parola di una puttana contro quella di Alti Prelati, che sicuramente godevano di conoscenze altolocate.
Giunse nei pressi della villa e parcheggiò l’auto a un centinaio di metri di distanza. Si avvicinò molto lentamente, cercando di camminare radente al muro di cinta, per non essere inquadrata dalle telecamere di sorveglianza. Il cancello era ovviamente chiuso e Betta, in corrispondenza di un folto cespuglio di là dal muro, si apprestò a scavalcarlo. Aveva fatto bene a mettersi jeans e scarpe da ginnastica. Le ci vollero pochi secondi per ritrovarsi all’interno del piccolo parco attiguo alla villa. Temeva che ci fossero dei cani da guardia liberi, ma fortunatamente non sentì alcun latrato. Protetta dalle piante, superò una fontana e arrivò velocemente al portone che era spalancato. Evidentemente c’era qualcuno, probabilmente il personale di servizio. Doveva fare molta attenzione.
Entrò nella villa ed ebbe una strana sensazione. La totale assenza di anima viva, le faceva sembrare quelle stanze molto più grandi di quanto ricordasse. Ma la villa era quella, ne era certa.
Riconobbe la scalinata che portava al piano superiore, dove c’erano le camere da letto utilizzate da quei sozzi preti per i loro giochetti sessuali.
Con molta circospezione, avanzò lungo il corridoio cercando di ricordarsi la stanza dalla quale aveva visto uscire il Prelato con la bambina.
Ma l’assordante silenzio fu rotto da un rumore improvviso. Betta si nascose nella risega di una parete e ascoltò con attenzione. Sembrava un pianto, sì, un pianto infantile, proveniente da una stanza situata dalla parte opposta. Betta, in preda all’emozione, pregò che non si trattasse di bambine.
Con la mano tremante aprì la porta della stanza e il mondo le crollò addosso.
La stanza era piena. Una camerata lunga ed enorme.
Sedute per terra o sui letti, c’erano bambine, tante bambine. Le più grandi dimostravano di avere non più di 12/13 anni. Erano truccate in maniera disgustosa e indossavano camice da notte trasparenti.
A Betta salì un conato di vomito ma prima di arrivarle alla gola si dilatò e diventò una sensazione ripugnante.
Non c’era paura in loro.
Silenzio. Tutte le bambine la osservavano. Adesso nessuna piangeva più.
Betta era sconvolta. Tutti quei visi infantili rivolti verso di lei, la facevano sentire come se fosse stata una Winx caduta dal cielo.
Si fece forza e cercò di ritornare razionale. Fece segno alle bambine di stare in silenzio, prese il cellulare e compose il 112.
Una mano.
Una mano improvvisamente le si posò sulla spalla.
Betta si girò di scatto. Era il giovane prete che aveva notato alla festa. Le prese il telefono dalla mano e guardò il display. Aveva un aspetto teutonico, capelli biondi e occhi azzurrissimi. Sembrava un Angelo.
«Che sorpresa! Ciao Betta, come stai?» intanto spense il cellulare e se lo mise in tasca.
Uscirono dalla stanza, il prete chiuse la porta e si fermarono in corridoio.
«Eravamo in pensiero, Cecilia ci ha detto che non stavi bene, ma adesso mi sembri in forma. Cercavi qualcuno?»
Betta non capiva se il prete parlasse sul serio o la stesse prendendo per il culo. Cercò di mantenere la calma: «Sono venuta qua perché sto cercando proprio Cecilia. Non riesco a trovarla, pensavo che magari fosse tornata in questa villa».
«Mi dispiace, non è qui ma la potrai sicuramente vedere questa sera. Ti ha parlato della festa che abbiamo preparato?»
«Sì, sì me ne ha parlato… che sciocca, al limite la vedrò stasera…».
«Va bene allora Betta, ci vediamo stasera».
«Sicuramente, a stasera».
Betta si volto e si avviò verso la scalinata, era tentata dal mettersi a correre e scappare, ma rimase fredda senza voltare lo sguardo verso il prete.
Dal viso di quest’ultimo scomparve il falso sorriso sostituito da uno sguardo glaciale.
Con estrema calma prese dalla tasca dell’abito talare una Beretta PX4 Storm Full, avvitò il silenziatore, prese la mira e poco prima che Betta scendesse le scale, fece fuoco.
Un solo colpo centrò in pieno la nuca della ragazza che stramazzò giù dalla scalinata.
L’Angelo in realtà era un Demonio
112.
Era ancora presto quando arrivarono alla Stazione dei Carabinieri di Cairo. Si erano fermati per strada, stravolti dalla stanchezza, per riposare un po’. Adesso avevano bisogno soltanto di un buon caffè, anche se quello della macchinetta della Stazione poteva definirsi tutto tranne che buono.
Il Maresciallo Guarneri era già al lavoro. Quando li vide, esclamò: «Capitano, Tenente, ma che fine avete fatto? E da ieri pomeriggio che non vi vediamo né vi sentiamo». Poi si rivolse a Mancuso: «Il Procuratore l’ha cercata ripetutamente ieri sera. L’ha forse chiamata sul cellulare?».
«Grazie Maresciallo, ma non è successo nulla. Siamo solo stati in giro per le indagini. Purtroppo il cellulare si è scaricato e non avevo il caricabatteria in macchina. Il Procuratore lo chiamerò più tardi».
Dopo quel breve scambio di battute, Mancuso e Valentina entrarono in quello che era diventato il loro ufficio. Per dare meno nell’occhio avevano tolto la mappa dalla cornice e l’avevano arrotolata.
Mancuso la prese dalle mani di Valentina e la srotolò sulla scrivania.
Studiarono con attenzione i dettagli. Il dato più evidente era che le cinque punte del pentacolo indicavano altrettante località ben definite: Cairo, Carcare, Dego, Cadibona e Pontinvrea.
Il cervello allenato di Valentina stava elaborando tutta una serie di ipotesi. «Allora, prima di tutto dovremmo stabilire la datazione di questa mappa. Purtroppo la datazione dei documenti è sempre molto approssimativa e non è possibile esprimere mai un parere di certezza tecnica per tutta una serie di motivi. Uno di questi, ad esempio, è la mutazione degli inchiostri oppure l’esposizione del documento a fonti di calore, raggi solari, caldo, freddo, fonti di luce, agenti atmosferici, eccetera. Se, ad esempio, un documento manoscritto con penna a sfera viene esposto ai raggi solari, potrebbe sembrare che sia stato scritto anche cinquant'anni prima, mentre in realtà potrebbe essere stato redatto solo da alcuni giorni. In sostanza si tratta di rilevamenti molto delicati e complessi che è possibile fare con il o di strumentazioni idonee disponibili nei nostri laboratori di Parma, ma non qui».
Mancuso abbozzò un piccolo applauso ironico. «Complimenti Dottoressa! Una bella lezione che però si potrebbe sintetizzare dicendo che in queste condizioni non siamo in grado di dare una cazzo di data a questa mappa».
Ancora una volta Valentina perse la pazienza. «Ascolta Capitano, io aiuto te in questa indagine, tu, però non devi rompere i coglioni a me. Sono stata abbastanza sintetica?»
«Scusa, Vale. Siamo stanchi e stressati tutti e due, avremmo bisogno di dormire ma non possiamo. Forse, in una di quelle località, si sta consumando un altro omicidio».
«Ecco, bravo. Allora cerchiamo di evitarlo questo possibile omicidio. Allora cosa ci dice questa mappa?»
Mancuso era tornato serio. «Ci dice che la punta a sinistra indica Cairo, dove è avvenuto l’omicidio di Angela. Perché, secondo te, il pentacolo è raffigurato in
quel modo?»
Valentina osservò attentamente la mappa, sembrava stesse cercando di recuperare delle reminiscenze scolastiche. «Forse ho capito. Quando sono andata in gita a Roma, un secolo fa, all’interno della Cappella Sistina, la guida ci disse che vi erano molteplici rappresentazioni del Giudizio Universale dove si trovava sistematicamente raffigurato L’Eterno con la mano destra verso l’alto, per chiamare a sé gli eletti, mentre con la sinistra respingeva i dannati verso l’inferno. E’ la sinistra il verso negativo. Per questo motivo il pentacolo sulla mappa ha la punta rivolta a sinistra e, secondo questa logica, dobbiamo proseguire nello stesso senso. A sinistra di Cairo c’è Carcare. Se il rituale satanico è ancora in corso e quindi prevede un’altra vittima, la prossima sarà o, purtroppo è già stata, a Carcare.
Mancuso ebbe un moto di approvazione: «Benissimo, allora dobbiamo cercare una chiesa sconsacrata da quelle parti».
Fecero subito una ricerca su internet. Alla fine trovarono il risultato che cercavano. C’era una piccola chiesa dedicata a San Giovanni, ormai abbandonata da anni, situata nella frazione Fornace Vecchia, una delle tante che costituivano il Comune di Carcare.
Presero il portatile e si precipitarono fuori dalla Stazione sotto gli occhi allibiti del Maresciallo che non fece in tempo neppure per chiedere dove stessero andando.
Salirono sull’Alfa e in meno di quindici minuti arrivarono sul posto.
Abbandonarono l’auto sul ciglio della strada. La chiesa era situata in cima a una collinetta, a un paio di chilometri dalla strada provinciale per Cosseria. Percorsero a o sostenuto una stradina sterrata che correva tra campi incolti e boschetti abbandonati pieni di rovi e sterpaglie, quando Mancuso sentì una vibrazione nella parte destra della sua giacca. Era il cellulare che segnalava l’arrivo di un messaggio. Mancuso lo prese e lesse il messaggio. Il mittente era anonimo e il messaggio recitava poche parole: “Il Paternoster è autentico”.
Il Capitano rimase un po’ turbato. Avevano affidato l’esame del pugnale agli esperti, ma si attendeva una risposta un po’ più formale ed esaustiva.
La chiesa era di piccole dimensioni e in condizioni veramente pessime, anche se a differenza della prima, che si poteva definire, a tutti gli effetti, un rudere, questa almeno aveva le mura perimetrali e il tetto ancora intatti.
Mancuso e Valentina entrarono con circospezione impugnando entrambi la Beretta 92 FS in loro dotazione.
Nella chiesa non c’era anima viva. Mancuso illuminò con la torcia l’interno per migliorare la visibilità piuttosto scarsa.
Fu in quel preciso istante che la videro.
Sull’altare di marmo ingiallito giaceva il corpo di una giovane ragazza con i capelli corti tendenti al rossiccio. Un pugnale Paternoster con la frase “Mors purificatio tua erit” incisa sull’impugnatura insieme a un piccolo pentacolo con la punta rivolta verso il basso, era profondamente conficcato nel petto della ragazza.
Il sangue imbrattava, oltre al corpo della ragazza, l’altare e il pavimento. Le mani erano giunte sul ventre e, con grande sorpresa dei due ufficiali, stringevano un biglietto di carta.
Mancuso si avvicinò e vide che si trattava di una piccola busta bianca. La prese ed estrasse un bigliettino sul quale c’era scritto qualcosa.
Valentina vide l’espressione di Mancuso cambiare rapidamente e diventare crudele, quasi folle. Si avvicinò spaventata e lesse il messaggio che il collega, in una posizione quasi statuaria, teneva in mano. C’era scritto:
Mi dispiace Capitano, ma sei arrivato troppo tardi!
Valentina fu colta da un conato di vomito. Mancuso, se ne accorse e, come per incanto, tornò razionale e sorresse la sua collega. «Tranquilla, Vale, tranquilla» le disse abbracciandola. Lei affondò il suo viso nel petto del Capitano. «Com’è possibile Johnny, com’è possibile?»
«E’ come a Palermo. Anche in questa sporca faccenda abbiamo un Giuda, un infame che sta dalla loro parte e gli a le informazioni. Forse in questo momento stesso ci stanno anche osservando. Ho appena ricevuto uno strano messaggio sul cellulare. Questo non fa altro che confermare i miei sospetti: c’è gente importante dietro a questi omicidi, personaggi di spicco al di sopra di ogni sospetto con enormi poteri. Non possiamo più permetterci un’indagine tradizionale».
Si staccò da Valentina e stracciò il biglietto. Poi dalla tasca della giacca estrasse il cellulare, lo spense e lo lanciò nel bosco a decine di metri di distanza. «Io da adesso lavoro in incognito. Messina Denaro mi è sfuggito grazie a un traditore, ma questi li voglio prendere a tutti i costi. Tu Valentina, non sei obbligata a seguirmi. Devi decidere in tutta coscienza, tenendo ben presenti i rischi che corriamo, prima di tutti quello di radiazione dall’Arma».
Valentina assunse un’espressione risoluta dopo il breve momento di debolezza. Imitò Mancuso, prese il cellulare e lo lanciò anche lei nel bosco. Guardò il Capitano fissandolo negli occhi. «Io sono con te. Non m’importa dei rischi che corriamo. Non potrei più fare l’Ufficiale dei Carabinieri, sapendo che il mio lavoro sarebbe inutile per la presenza di qualche bastardo in combutta con gli assassini».
«Bene» disse Mancuso, felice per la decisione presa dalla collega. «Adesso andiamo a casa mia a Savona, prendiamo quello che ci serve e poi ci troviamo un residence, dove stabilire la nostra base. Tra l’altro nel mio guardaroba ci sono anche abiti femminili. Sono di mia sorella che ogni tanto viene a trovarmi dagli Stati Uniti. Siete più o meno della stessa taglia, dovrebbero andarti bene. Preleviamo del denaro contante per non dover usare le carte di credito. Da questo momento è come se fossimo due agenti sotto copertura».
Valentina fece una riflessione: «Non siamo in grado, senza l’aiuto del medico legale, di stabilire la data precisa di uccisione della seconda ragazza. Mi pare, però, che lo stato del cadavere sia molto simile a quello di Angela. Possiamo quindi azzardare che l’omicidio sia avvenuto più o meno quattro o cinque giorni dopo il primo. Se il rituale conserva questi intervalli di tempo, il prossimo dovrebbe avvenire tra due o tre giorni. Abbiamo poco tempo, ma a questo punto sappiamo dove sarà commesso: la località a sinistra di Carcare è Cadibona».
113.
Cecilia stava facendo la doccia nel lussuoso bagno del suo prestigioso appartamento ai Parioli.
Ad un tratto sentì suonare alla porta. Non aspettava nessuno, ma l’attività che conduceva era spesso contraddistinta da visite inattese e cambiamenti dell’ultimo minuto. Lei, come un medico di fama internazionale, doveva essere sempre disponibile.
Uscì dalla doccia, si mise un accappatoio sul corpo bagnato e andò ad aprire la porta.
Era il prete biondo con gli occhi azzurri.
Cecilia rimase un attimo interdetta. “Che cazzo vuole questo adesso?” pensò.
Lui, senza fare una piega esclamò: «Ciao Cecilia, non mi fai neanche entrare?»
«Oh sì, scusa… stavo soltanto facendo la doccia e non mi aspettavo una tua visita».
«Perché ora dobbiamo anche avvertirti quando veniamo a trovarti? Non mi pare che le regole siano cambiate per le puttane. O sbaglio?»
Il tono usato da quello stronzo in tonaca, stava innervosendo Cecilia, che però cercò di controllare le sue emozioni e di rimanere calma. «No, no… scusa, ho detto una stupidaggine…».
«Brava, Cecilia, brava. A proposito come sta quella tua amica Betta? Non l’abbiamo più vista».
Cecilia immaginava che il prete le avrebbe fatto quella domanda, ma non se la sentì ancora di tradirla. «Povera Betta! Si è beccata una mezza polmonite ed è stata veramente male. Fortunatamente si sta riprendendo. Anzi mi ha chiesto di dirvi che non appena starà un po’ meglio, verrà di nuovo molto volentieri alle feste. E’ rimasta entusiasta quella sera».
Il prete si avvicinò lentamente e con un gesto improvviso afferrò con la mano sinistra a tenaglia il collo di Cecilia. Con la destra prese la pistola dall’abito talare e la puntò alla testa della ragazza. «Stammi bene a sentire, troia! Non devi, ripeto non devi prenderci per il culo, hai capito? Se ci porti altre ficcanaso come quella lì, farai la stessa fine».
Cecilia, con il volto paonazzo, riuscì appena a dire con un fil di voce: «Perché, cosa le avete fatto?».
«Diciamo che l’abbiamo licenziata, definitivamente».
Il prete mollò la presa e ripose la pistola nell’abito.
«Siete dei bastardi…» disse Cecilia tra le lacrime.
«Sì siamo dei bastardi ma bastardi che pagano bene, molto bene. Quest’appartamento come te lo sei comprato? Te lo dico io, con i soldi guadagnati a succhiare cazzi a Cardinali, Vescovi, Alti Prelati e altri appartenenti al Clero, di tutto il mondo. Ormai ci sei dentro fino al collo, Cecilia. Non te lo scordare. Mai! Tu sei un oggetto che appartiene soltanto a noi».
Il prete, dopo le ultime parole, se ne andò.
Cecilia aveva smesso di piangere. Adesso aveva uno sguardo vitreo e inespressivo. Si avviò come un automa verso il balcone del soggiorno. Uscì fuori e, come se fosse teleguidata, con gesti meccanici, rapidi e decisi, scavalcò la ringhiera. Restò per qualche secondo in bilico e abbozzò un piccolo sorriso.
Poi si lanciò nel vuoto.
114.
Mancuso e Valentina erano in un bilocale di un residence sulla Riviera Ligure, vicino a Noli.
Avevano recuperato tutto il necessario nell’abitazione savonese del Capitano e avevano acquistato un telefonino con una nuova SIM.
Stavano decidendo il da farsi soprattutto in considerazione del nuovo scenario investigativo.
Mancuso cercò di fare una sintesi. «Allora, l’unica cosa certa che sappiamo è che questo rituale è tuttora in corso e non si fermerà, nonostante ritenga che loro sappiano che noi abbiamo la mappa. Il prossimo omicidio dovrebbe essere consumato a Cadibona tra pochissimi giorni. Dobbiamo cercare il possibile luogo dove sarà perpetrato il delitto, probabilmente un’altra chiesa sconsacrata. Mi sembra, però, tutto troppo semplice, sicuramente mi sta sfuggendo qualcosa».
Valentina annuì. «Sono anch’io della tua opinione. Se sanno che noi siamo in possesso della mappa e che abbiamo interpretato il loro rituale, potrebbero cambiarlo in corso d’opera. A questo punto Cadibona potrebbe non essere più il prossimo luogo del delitto. Ci sono ancora tre località e tu ed io, da soli, non possiamo controllarle contemporaneamente. O rischiamo e puntiamo su Cadibona, o francamente non so che fare».
Mancuso ebbe un’idea. «Ascolta, ho sentito parlare di uno scrittore che si chiama Aldo Spinelli che vive a Genova. E’ un esperto di numerologia e ha
scritto diversi libri in particolare sulla Profezia dei Maya. Potremmo andare a trovarlo e chiedergli un aiuto nell’interpretazione di questo rituale che ha rivelato la presenza di alcuni numeri ricorrenti».
«Mi sembra un’ottima idea» disse Valentina. «Il problema però è: come lo contattiamo?»
Mancuso aveva la soluzione. «Ho un collega attualmente nei ROS di cui mi posso fidare e che ci può essere d’aiuto per il contatto. Quando ero nei ROS, avevamo un numero d’emergenza protetto da utilizzare in caso di necessità per rintracciare ogni singolo uomo. Dopo un prefisso uguale per tutti c’erano tre numeri che identificavano ciascuno di noi. Il suo me lo ricordo perché era immediatamente successivo al mio. Spero soltanto che questa procedura sia ancora attiva. Compose quindi il numero con una certa ansia e attese. Dopo una decina di squilli a vuoto, finalmente l’amico rispose. Lo salutò con grande stupore per essere stato contattato tramite quel numero. Mancuso raccontò solo in parte i motivi che lo avevano costretto ad utilizzare quella procedura d’emergenza e poi venne al dunque chiedendogli di rintracciare indirizzo e numero telefonico dello scrittore di Genova. In meno di cinque minuti ebbe le informazioni.
Dopo aver ringraziato il collega, Mancuso chiamò subito Spinelli, il quale si dimostrò molto interessato ai motivi che stavano spingendo i Carabinieri a chiedere la sua consulenza. Si diedero appuntamento per la sera presso l’abitazione genovese dello scrittore.
Intorno alle 19.00, arrivarono a destinazione.
Quando lo scrittore li accolse e li fece entrare nel suo appartamento, Mancuso e Valentina si diedero un’occhiata come per dirsi “Ma questo da dove è venuto
fuori?”.
Spinelli, in effetti, aveva un aspetto terribile. Capelli grigi tutti arruffati, barba incolta da giorni, vestiario abominevole e soprattutto gli occhiali, sorretti da una sola stanghetta, con le lenti completamente luride. Mancuso si chiese come cavolo fe a vederci.
Esauriti i convenevoli, il Capitano giunse subito al dunque. «Allora professore…».
Spinelli lo interruppe subito dicendogli: «No, Capitano, non mi chiami professore, anche perché non lo sono, mi chiami semplicemente Aldo».
«Va bene, Aldo… le stavo dicendo che stiamo indagando su alcuni omicidi che paiono seguire un rituale, a nostro giudizio, a sfondo satanico. Abbiamo ravvisato anche delle strane connessioni numerologiche ed è per questo motivo che l’abbiamo contattata».
Spinelli sembrava molto interessato. «Si spieghi meglio, quali sarebbero queste connessioni?»
«La prima vittima era una ragazza che all’età di 18 anni è entrata in un Monastero. 8 meno 1 è uguale a 7. Dopo 7 anni viene uccisa all’età di 25 anni. 2 più 5 è di nuovo uguale a 7… vorremmo capire se si tratta di banali coincidenze oppure di numeri che giocano un ruolo essenziale in questo rituale».
Spinelli rimase un attimo in silenzio, come se stesse elaborando le parole di Mancuso. Poi d’improvviso, disse: «Voi conoscete il significato del numero 7 ?».
Fu Valentina a rispondere: «Assolutamente no».
«Ve lo spiegherò io, almeno per quella che è l’interpretazione tradizionale di questo numero. Il numero Sette esprime la globalità, l’universalità, l’equilibrio perfetto e rappresenta un ciclo compiuto e dinamico. Considerato fin dall’antichità un simbolo magico e religioso della perfezione, perché era legato al compiersi del ciclo lunare. Gli antichi riconobbero nel Sette il valore identico della monade in quanto increato, poiché non prodotto di alcun numero contenuto tra 1 e 10. Presso i babilonesi erano ritenuti festivi, e consacrati al culto, i giorni di ogni mese multipli di Sette. Tale numero fu considerato simbolo di santità dai Pitagorici. I Greci lo chiamarono venerabile, Platone anima mundi. Presso gli Egizi simboleggiava la vita. Insomma un numero altamente positivo».
Valentina colse lo scetticismo dello scrittore. «Mi pare, però, di capire che lei non la pensa allo stesso modo…».
«Esattamente, Tenente. Io ritengo che il 7 sia un numero altamente negativo. Voi conoscerete sicuramente almeno il numero al quale viene associato il Diavolo o la Bestia nel Nuovo Testamento, Apocalisse di Giovanni?»
I due Ufficiali risposero all’unisono «Il 666!»
«Esatto signori! Tre volte il numero 6. Ma se noi moltiplichiamo 3 per 6 otteniamo 18, guarda caso il numero da lei citato poco fa. E giustamente 8 meno 1 è uguale a 7. In poche parole per me il numero del Diavolo o di Satana, come
dir si voglia, è proprio il 7. Quello, Capitano, che mi ha raccontato, non è altro che una conferma della mia tesi. I suoi omicidi sono senz’altro a sfondo satanico perché sono guidati dal numero 7. In che giorno è morta la ragazza e di quale anno?»
Mancuso e Valentina si guardarono goffamente. Poi alla fine fu Mancuso a rispondere: «Il 25 ottobre 2014…».
Lo scrittore trionfante disse: «Traete voi le conclusioni».
2 + 5 = 7
2 + 0 +1 +4 = 7
Mancuso fece i conti e poi disse: «Ok, mi tornano il giorno e l’anno ma ottobre è uguale a 10. Cosa c’entra con il 7 ?».
Lo scrittore abbozzò un sorriso. «Fermatevi a cena. Se avete tempo, dopo, vi parlerò anche del numero 5 e dei suoi multipli».
Prima di andare in cucina però prese un foglio di carta e vi scrisse sopra velocemente delle parole e dei numeri. Poi lo diede a Valentina. «Mentre io preparo la cena, ragionate su quello che c’è scritto su questo foglio».
I due Ufficiali lessero:
Profezia dei Maya 21+12+2012 = 2045
4 + 5 - 2 = 7
Eclissi solare del 13/11/2012
13 + 11 + 2012 = 2036
3 + 6 - 2 = 7
Due eventi negativi consecutivi? Poco probabile…
La reale fine del mondo sarà nel 2018?
Dopo aver letto quanto c’era scritto, più confusi che mai, Mancuso e Valentina si guardarono negli occhi e si chiesero in silenzio: Che cosa dobbiamo aspettarci dal numero 5 ?
Fu in quel momento che il cellulare di Mancuso suonò.
Mancuso e Valentina si guardarono nuovamente turbati.
Chi poteva conoscere il numero del cellulare appena acquistato?
Il Capitano guardò il display e lesse: Numero privato.
Si fece forza e rispose: «Pronto, chi parla?».
Una voce esile disse: «Buonasera, Capitano».
«Chi cazzo sei? Come fai ad avere il mio numero?»
«Loro sanno tutto».
«Loro chi?»
«Capitano, lei non può immaginare neanche lontanamente con quali persone sta avendo a che fare».
«Dimmelo tu allora. Perché mi stai rivelando queste cose? Non ho ancora capito a quale gioco stai giocando».
«Io sono un prete che ha tradito il suo voto. Non potrò mai aspirare al perdono di
Nostro Signore. Sono uno che conta poco ma che sa molto. Posso fermare questa mattanza».
«In quale modo? Chi mi dice che non sia una trappola?»
«Capitano, deve fidarsi. Non posso darle altre garanzie».
«Mettiamo che io mi fidi, come puoi aiutarci?»
«Operando dall’esterno, non avete nessuna possibilità di arrivare a loro, sono troppo potenti e godono di una protezione pressoché assoluta. Ma dall’interno, forse, il modo c’è».
«E quale sarebbe?»
Il prete ebbe un attimo di esitazione.
«Allora?» disse Mancuso che stava per spazientirsi.
«Loro organizzano spesso delle feste con ragazze escort e…».
«… e?»
«… bambine».
Mancuso ebbe un moto di repulsione. «Maledetti bastardi! Dimmi cosa devo fare per prenderli e ti prometto che tu potrai godere di tutte le attenuanti possibili».
«Io posso far entrare la sua collega nel giro delle escort. Poi deciderete voi come agire. Tenga conto che alle feste partecipano tutti».
Mancuso rimase in silenzio. Si trattava di un’operazione di infiltrazione con un altissimo tasso di rischio e poi Valentina non aveva alcuna esperienza in materia… ma forse era davvero l’unica opportunità. «Va bene, ne parlo con la mia collega. Come procediamo?»
«La prossima festa sarà a Roma domani sera. Andate all’Hotel Cairoli. La chiamerò io nel pomeriggio e le darò tutte le istruzioni».
«Siamo a Genova adesso, non abbiamo molto tempo» disse Mancuso.
«Vi prenoto due biglietti sul Frecciabianca di domani mattina alle 7.05 e a mezzogiorno sarete a Roma».
“Ancora quel numero del cazzo” pensò Mancuso. «Va bene» disse. «Aspetto una tua telefonata. Stai attento però, se mi stai prendendo per il culo o se dovesse succedere qualcosa alla mia collega, ti ammazzo con le mie mani, ma molto lentamente. Conosco delle tecniche di tortura colombiane che ti faranno
rimpiangere di essere venuto al mondo».
«Stia tranquillo, Capitano, il Signore è stato pietoso nei miei confronti e mi ha fatto ritrovare il giusto cammino. Sarà Lui a proteggervi contro il Male, abbiate fede. Io sono solo una piccola pedina, ma tutto quello che potrò fare per aiutarvi, lo farò».
Dopo queste ultime parole, il prete terminò la telefonata.
Sul volto di don Riccardo apparve un sorriso malefico.
Il suo cervello era ormai tormentato da una sola persona. Valentina.
115.
L’aria all’interno della villa era molto viziata. Un odore pregnante di fumo era diffuso un po’ ovunque nelle stanze.
Le due ragazze si avviarono verso il salone, dove erano presenti gli invitati a quella festa.
La terza, Livia, entrò per ultima. Cecilia le aveva detto che una volta dentro, doveva muoversi con discrezione, senza dare troppo nell’occhio. Era una regola non scritta in quelle feste di far capire agli astanti che lei non era stata invitata per andare a letto con chiunque, ma con qualcuno in particolare, di solito un prelato di elevato rango. Era l’unico modo per stanare uno dei capi e sperare di avere qualche informazione sulla sua cara amica Rebecca.
«Che vita di merda che fai, Cecilia!» disse una delle due ragazze entrate prima di Livia.
«Stai calma, Betta! Hai deciso di fare la puttana d’alto borgo? Allora devi saper accettare anche quello che vedrai questa notte. Credi che a me faccia piacere scopare con questi luridi maiali che poi la domenica vanno in chiesa a predicare la Parola di Dio? Ma pagano bene, molto bene! Con quello che guadagnerai stasera, avresti dovuto lavorare un mese da commessa in un atelier d’alta moda. Devi fartene una ragione».
Betta guardò una bambina con i boccoli biondi che suonava il pianoforte e chiese con disgusto: «Cecilia, ma ci sono anche delle bambine?».
L’amica sviò la domanda: «Francamente non lo so e non lo voglio sapere».
Gli invitati accolsero con entusiasmo l’arrivo delle due ragazze. Erano tutti uomini di Chiesa, mediamente anziani e, a giudicare dai loro abiti talari, anche di un certo rango. Betta fu però colpita in particolare da un giovane prete, alto e con gli occhi azzurri, di bell’aspetto, che pareva del tutto disinteressato alla festa e la cui presenza stonava completamente con gli altri prelati. Sembrava quasi un bodyguard, addetto alla sicurezza dei presenti. Quasi tutti fumavano, enormi sigari, normali sigarette e alcuni anche canne di marijuana.
In particolare c’erano un Cardinale e un Vescovo che confabulavano in un angolo, lontano da sguardi indiscreti.
«Allora, Monsignore, è tutto pronto per dare inizio alla Sacra Profezia?»
«Certamente, Eminenza. Domani sarà il 25 ottobre 2014. Entro breve tempo il nostro Dio dominerà sul mondo intero».
«Benissimo, allora andiamo un po’ a divertirci».
Proprio in quell’istante ò davanti a loro Livia. Il Cardinale la notò e le fece segno di avvicinarsi. «Mi sembri un po’ spaesata. E’ la prima volta che vieni? Non mi pare di averti mai vista prima».
«Effettivamente è la prima volta, Monsignore…» disse con un certo impaccio
Livia.
«Eminenza» precisò il Cardinale sorridendo divertito. «Stai tranquilla, mi sembri un po’ spaventata, qui nessuno ti farà del male. Come ti chiami e chi ti ha portato a questa festa?»
«Il mio nome è Livia e sono venuta con Cecilia».
«Ah… Cecilia! Non si smentisce mai, ha un grande fiuto nello scegliere le nuove ospiti. Che bel nome che hai, Livia… Non sei più una ragazzina ma porti benissimo i tuoi anni. Mi piacciono da morire le donne mature… Ti piacerebbe are con me la serata?»
Livia non aveva scelta. Ormai era in gioco e doveva giocare. «Certamente, Eminenza, sarebbe un onore per me».
Il Cardinale si voltò verso il Vescovo e gli disse perentoriamente: «Mi prepari per favore una busta con cinquemila euro e me la faccia portare nella camera degli arazzi».
Il Vescovo non se lo fece ripetere due volte: «Sarà fatto, Eminenza».
Cinquemila euro! Pensò Livia. Aveva ragione Cecilia quando le aveva detto che nel giro di pochi giorni avrebbe trovato il modo di rimediare cinquantamila euro.
Il Cardinale prese per mano Livia e insieme salirono al piano di sopra. C’era un lungo corridoio con numerose porte sia a destra sia a sinistra, le stanze da letto. Il prelato si fermò davanti alla quarta porta sulla destra, aprì e fece entrare Livia.
La donna capì subito perché era chiamata la camera degli arazzi: le pareti erano ornate da numerosi arazzi rinascimentali, bellissimi e perfettamente conservati.
Il Cardinale si sedette su una poltrona in noce dell’ottocento e guardò in silenzio Livia. Lei, imbarazzatissima non sapendo bene cosa doveva fare, incominciò a sbottonarsi la camicetta.
«No, fermati, non ti spogliare» disse il Cardinale. «Siediti qui sul tappeto, vicino a me».
Livia ubbidì, non riusciva a capire il significato di quello strano atteggiamento. Faceva parte dei preliminari per metterla a suo agio, prima della richiesta di prestazioni sessuali del genere più disparato? Pensò.
In quel momento qualcuno bussò alla porta. Entrò il giovane prete con una busta in mano. Senza dire una sola parola, la poggiò sul letto e se ne andò chiudendo la porta alle sue spalle.
«Ascolta, Livia» disse il Cardinale, «io ho ormai da tempo tradito il giuramento fatto quando ho indossato la tonaca. Ho smesso di seguire la Parola del Signore e ho fatto una scelta irreversibile. Mi sono convertito a una vita dissoluta e peccaminosa ma con un preciso fine: un nuovo Mondo e un nuovo Dio. La mia mente è obnubilata ma so ancora discernere il bene dal male. Tu non sei una prostituta, si capisce dal tuo volto innocente e pulito anche se ti sei vestita e
truccata in quel modo. Ma, allora, chi sei? E cosa ci fai tu in questo posto?»
Livia era stata smascherata fin troppo facilmente e adesso non sapeva che pesci pigliare. Se avesse dichiarato la verità, il suo accordo con Cecilia sarebbe saltato, non avrebbe partecipato ad altre feste e non sarebbe stata in grado di racimolare i cinquantamila euro. Al diavolo Cecilia, pensò Livia, forse quel prelato poteva esserle d’aiuto più di quella troia. «Ha ragione Eminenza, io non sono una prostituta. Sono venuta qua perché sto cercando una mia carissima amica, si chiama Rebecca. Cecilia mi ha detto che è entrata in questo giro e che è in grave pericolo. Mi ha detto anche che soltanto venendo a queste feste avrei potuto sapere dove si trova adesso, scoprire qualche indizio, conoscere qualcuno che l’ha vista. Per portarmi qui mi ha chiesto cinquantamila euro! Soltanto facendo la puttana potrò guadagnarli velocemente».
Il viso del Cardinale si accigliò. «E’ perché la tua amica dovrebbe essere in pericolo?»
«Cecilia mi ha detto che è una prescelta per un rituale satanico. E’ in pericolo di vita!»
«Livia» disse con rabbia il Cardinale, «in pericolo in questo momento ci sei solo tu! Quello che mi hai appena detto sarebbe più che sufficiente per eliminarti dalla faccia del pianeta. Una troia in meno, chi se ne accorgerebbe? Te lo dico io: nessuno! Adesso alzati e vattene immediatamente, non ti voglio più vedere. Alla tua amica Cecilia ci penseremo a tempo debito. Sparisci!»
Livia, terrorizzata, si rimise in sesto, uscì dalla stanza e corse.
Corse via, via, via.
Corse più velocemente possibile, per allontanarsi in fretta da quel luogo infetto che emanava soltanto un nauseante olezzo di putrido.
Quando fu uscita, il prelato fece una breve chiamata con il cellulare. Dopo pochi minuti entrò nella stanza il giovane prete. Il Cardinale gli ordinò: «Tieni d’occhio Cecilia e la puttana che ha portato stasera. Se c’è necessità di intervenire, sai cosa devi fare. Per quanto riguarda l’amica della prescelta, eliminala. Tutto chiaro?».
«Naturalmente, Eminenza».
116.
Erano trascorsi diversi giorni dal festino a Villa Testaccio e Livia era rimasta chiusa in una squallida stanza di uno squallido Hotel situato vicino alla Stazione Termini. Aveva pochi soldi con sé, ormai in via di esaurimento, ma non riusciva a prendere una decisione su cosa fare. Tornare da Cecilia era impensabile. Il loro accordo si era sgretolato dopo il colloquio che lei aveva avuto con il Cardinale. Anzi, si sentiva anche un po’ in colpa perché con il suo racconto, molto probabilmente aveva messo nei guai la ragazza. Senza Cecilia, però, non aveva più alcuna possibilità di accesso agli incontri serali organizzati da quei luridi maiali che, invece, avrebbero forse potuto condurla al luogo dove ora si trovava Rebecca. Aveva anche pensato di chiamare Lorenzo, di chiedergli di andarle in soccorso. Sapeva perfettamente che lui non avrebbe esitato un attimo a partire per Roma. Ma anche Lorenzo: che cosa poteva fare, oltre che rincuorarla per aver perso ogni speranza di ritrovare Rebecca?
Ancora le risuonavano nella mente le parole che suo cognato le aveva detto soltanto qualche giorno prima.
«Cosa ti ha fatto quella troia, Livia?»
«No, niente, stai tranquillo. E’ soltanto che senza i soldi non mi darà più alcuna informazione».
«Livia, dove cazzo li trovi cinquantamila euro?»
«Le ho detto che li avrei trovati, non che lo farò. Sicuramente ho guadagnato
tempo».
«Tempo per cosa?»
«Per riflettere».
«Su cosa? Su una comunissima truffa?»
«Non lo so, Lorenzo. Non mi fido di quella donna, ma è la mia unica ancora di salvezza, sento che può realmente aiutarmi a ritrovare Rebecca. Insomma, se ci pensi, c’è gente che fa investimenti più stupidi di questo e poi… cinquantamila euro sono tanti soldi, ma non è una cifra introvabile».
«Sì che lo è per te!»
«Mi ha fatto una proposta per rimediare i cinquantamila».
Lorenzo cambiò espressione. La conosceva troppo bene per non allarmarsi nel sentire quell’affermazione. «Che tipo di proposta?»
«Mi ha chiesto di andare con lei a Roma, lì riuscirei a racimolare la cifra».
«Facendo cosa, Livia? In che modo riusciresti a racimolare cinquantamila
euro?»
«Niente di particolare, la aiuterei per le sfilate, sai, lei è una modella…».
«Livia, ma pensi che io sia un coglione? Ma quali sfilate! Quale modella! Quella lì è soltanto una troia! E come ti farebbe guadagnare cinquantamila euro? Dai, dimmelo tu, pronuncia quella paroletta di merda, Livia…».
«La puttana! Dovrei fare la puttana d’alto borgo, l’escort, come si usa dire adesso. Ecco, l’ho detta la parolina, sei contento?»
«Mi auguro, prego il cielo che tu non abbia accettato o… sbaglio?».
«Non ho ancora accettato, ma ho deciso di farlo. Tra qualche ora partiamo per Roma. Se per ritrovare Rebecca devo fare la puttana, allora la farò».
Lorenzo aveva uno sguardo paragonabile a quello che ha un sub quando si ritrova a faccia a faccia con uno squalo. «Tu sei impazzita, Livia. Non ti riconosco più. Non posso credere che tu sia disposta a vendere il tuo corpo, nella speranza che quello che ti ha detto quella donna sia vero. Come puoi fidarti di quella lurida troia cocainomane? Ti porta a Roma, ti fa conoscere dei preti pervertiti, che tra un bambino e l’altro, magari si scopano anche una maggiorenne e poi? Come un volgarissimo magnaccia ti sfila dal portafoglio quello che hai onestamente guadagnato. Per cosa, poi? Per dirti un sacco di fregnacce e alimentare una speranza che non esiste? Svegliati, Livia! Ti prego torna in te, non commettere un errore che potrebbe segnarti la vita per sempre. Ti prego Livia…pensa a tuo figlio sco. Cosa penserebbe di sua madre se sapesse che è andata a Roma a fare la puttana? ».
Silenzio assoluto.
Lorenzo si dovette rassegnare. La decisione era già stata presa.
«Va bene, ho capito. Però, se tu vai a Roma, ci devo venire anch’io».
«No, Lorenzo, no. Saprò badare a me stessa e poi Cecilia ha tutto l’interesse a proteggermi perché io per lei rappresento un bel gruzzoletto di denaro».
«Livia, pensaci ancora, non buttare via così la tua vita e, detto francamente, non è poi così sicuro che, se anche tu dovessi trovare Rebecca, la gioia possa essere in grado di sopraffare lo schifo subito per ritrovarla».
«Mi spiace Lorenzo, ma è l’unica cosa da fare. Ti prego prenditi tu cura di sco. Digli che sono partita per un lavoro e che mi assenterò per qualche giorno».
«Sì, stai tranquilla…».
In realtà c’era ancora una terza ipotesi, l’ultima spiaggia: andare dai Carabinieri e denunciare quello che aveva visto. Anche in questo caso, però, non aveva certezze. Che cosa avrebbe raccontato ai Carabinieri? Che lei, una sceneggiatrice da strapazzo, che viveva a Torino, era venuta a Roma con una escort, la quale asseriva di aver incontrato ad una festa la sua amica scomparsa cinque anni prima? E che per aiutarla a ritrovare la sua amica le aveva chiesto cinquantamila
euro che lei non aveva e che poteva guadagnarsi soltanto facendo la puttana durante le feste organizzate da prelati rispettabilissimi e molto potenti? Con quali prove? Se avesse coinvolto Cecilia, lei sicuramente avrebbe negato tutto affermando di non conoscerla neppure. Di nuovo impensabile, non era quella la strada da percorrere o, almeno, non senza prove. Fu allora che le venne in mente l’unica soluzione possibile per rendere le sue dichiarazioni attendibili: tornare a Villa Testaccio e sperare di trovare qualche traccia, anche piccola, di quello che era avvenuto alcuni giorni prima.
Uscì dall’Hotel. Erano tre giorni che non mangiava. Si sentiva piuttosto debole e le girava la testa. Guardò nel borsellino: aveva ancora cinquanta euro. Bastavano giusto per un’abbondante colazione e per il taxi. Per il dopo ci avrebbe pensato a tempo debito.
Dopo aver ingurgitato due cappuccini e due maritozzi, rinfrancata, prese il taxi per andare alla villa. Chiese al conducente di fermarsi a duecento metri dall’ingresso. Scese dall’auto e cautamente si avvicinò al cancello. D’improvviso si fermò perché vide un’altra donna che, rasentando i muri di cinta, si stava dirigendo verso l’entrata. A un tratto la donna si fermò e si apprestò a scavalcare il muro. Era distante una cinquantina di metri da lei, ma Livia la riconobbe subito: era Betta, l’amica di Cecilia. Cosa ci faceva in quel posto? E perché stava entrando di nascosto?
Livia decise di aspettare, forse anche Betta aveva avuto, per motivi diversi, la sua stessa idea.
L’attesa non fu lunga, ma lo spettacolo che si presentò dinanzi agli occhi di Livia fu raggelante. Dall’ingresso principale uscì il giovane prete. Sorreggeva sulla spalla sinistra, senza apparente difficoltà, un lungo sacco nero, come quelli che si vedono nei film polizieschi. Aprì con il telecomando elettronico una Mercedes parcheggiata davanti al cancello, alzò il baule e posò al suo interno il sacco con il suo contenuto.
Non vi era alcun dubbio. Quel sacco conteneva un corpo.
E quel corpo non poteva che essere quello di Betta.
117.
Livia era terrorizzata. Dopo aver visto la scena del giovane prete che sistemava il sacco contenente, ne era sicura, il corpo di Betta nel baule della Mercedes, era più che consapevole che anche la sua vita era gravemente in pericolo. Come del resto quella di Cecilia. Provò chiaramente il desiderio di non trovarsi lì a Roma, invischiata in un intrico più grande di lei, di non avere nessun altro posto dove nascondersi di una camera di un Hotel d’infima categoria, che non sapeva neanche come pagare, visto che aveva esaurito tutti i soldi. Immaginava un killer entrare agevolmente dalla finestra e scagliarsi contro di lei per ammazzarla senza pietà.
Avrebbe voluto essere a casa sua, nella sua camera, con il suo sco e Lorenzo che le raccontava qualcuna delle sue esilaranti barzellette. Si sorprese nel sentire tanta voglia di quella casa, da lei mai amata veramente.
Dopo la morte di Luca, suo padre era stato arrestato e condannato ad una pena esemplare per omicidio colposo. I debiti accumulati nel tempo si erano divorati prima la clinica e poi la villa. Non era rimasto più nulla. Di suo padre non aveva più notizie. Non era mai andata a trovarlo in carcere. Aveva distrutto la famiglia, non meritava alcuna pietà. Era andata ad abitare con sco in un piccolo appartamento a Torino e tirava a campare con modeste sceneggiature commissionate da case produttrici di infimo ordine. Fortunatamente c’era Lorenzo che non li abbandonava mai e che li aiutava anche finanziariamente.
Era stato Lorenzo a presentarle Rebecca, una sera di agosto al Parco del Valentino. Avevano subito legato, anche se Rebecca era molto più giovane di lei. Rebecca era orfana e faceva la comparsa. Anche lei senza mai un euro nelle tasche. Era letteralmente “innamorata” di sco. Gli voleva un bene dell’anima e ogni occasione era buona per vedersi e are qualche ora in armonia.
La serenità fu però di breve durata. Rebecca scomparve cinque anni prima. Una scomparsa inspiegabile agli occhi delle Forze dell’Ordine. Rebecca aveva vent’anni, era una ragazza per bene senza grilli per la testa e legatissima a Livia, che per lei era come una sorella maggiore. Un giorno, poco prima che sparisse, le aveva confidato di essere ancora vergine nonostante l’età e l’attrazione che esercitava nei confronti dei suoi amici. In fondo era pur sempre una bella ragazza con un fisico da invidiare.
Le indagini per il suo ritrovamento furono di breve durata. La polizia, non avendo alcun indizio per le mani, archiviò velocemente il caso etichettando la scomparsa di Rebecca come un allontanamento volontario, presumibilmente in compagnia di un ragazzo, nonostante che in quel periodo a Torino non risultasse alcuna sparizione di cittadini di sesso maschile.
Girando per la città, si poteva ancora trovare qualche piccolo manifesto, ormai sgualcito dal tempo, con la foto di Rebecca e le indicazioni, per chi avesse ritenuto di averla vista, di come mettersi in contatto con le Forze dell’Ordine.
E poi, come un pugno nello stomaco, era entrata nella sua vita Cecilia e le sue rivelazioni.
In quel momento, a spezzare i suoi pensieri tristi, squillò il cellulare. Livia non aveva più credito ma poteva ancora ricevere le telefonate. Guardò il display, il numero era nascosto. Rispose d’impulso: «Pronto?».
«Ciao, Livia» disse una voce roca.
Livia trasalì. «Chi sei? Che cosa vuoi da me?»
«Voglio essere tuo amico, Livia».
«Io ho un solo amico e non sei tu».
«Allora mettiamola così: voglio aiutarti a ritrovare Rebecca».
Livia scoppiò in una risata sarcastica. «Anche tu! Ormai la voce si è sparsa e c’è la coda di persone che vogliono aiutarmi a ritrovare Rebecca. E tu quanto vuoi? Un milione di euro?»
L’uomo mantenne la calma. «Se ti riferisci a Cecilia, lei non può più esserti d’aiuto».
«E perché mai, ha forse vinto alla lotteria?»
«No, Livia. Cecilia è morta».
Ci fu un momento di assoluto silenzio. Livia ci mise un po’ per metabolizzare quella tragica notizia. Il tono della sua voce cambiò. «Mio Dio, com’è morta? L’hanno uccisa?»
«No, si è gettata dal balcone di casa sua. Era molto sotto pressione, anche a causa tua. Sicuramente non si sarebbe mai suicidata se loro non l’avessero, in un certo modo, istigata».
Livia si sentiva tremendamente in colpa. Prima Betta, poi Cecilia. «Chi sono loro e soprattutto chi sei tu?»
«Alla prima domanda non posso risponderti. Alla seconda, mi limiterò a dirti che sono un sacerdote fervidamente credente nella Parola di Dio e che quello che sta accadendo in questi giorni è blasfemo e contrario a tutti gli insegnamenti che Nostro Signore ci ha tramandato con le Sacre Scritture».
Livia era ancora dubbiosa. «Se quello che mi dici è vero, come mai sei a conoscenza, come dici tu, di quello che sta accadendo e perché non corri dalla polizia per fermarli?»
Il sacerdote replicò: «Non posso dirti molto, per non mettere a rischio la mia vita. Andare dalla polizia non servirebbe a nulla. Non ci sono prove e si tratterebbe di tirare in ballo personaggi ecclesiastici di primissimo piano. C’è, però, una possibilità. All’Hotel Cairoli, stanza numero 515, ci sono due Ufficiali dei Carabinieri che stanno indagando in incognito. Mettiti in contatto con loro. Li hanno fatti venire a Roma ma si tratta di una trappola. Fai molta attenzione, perché sei sotto osservazione. Quello che ti ha detto Cecilia è vero. Rebecca è una prescelta e due ragazze sono già state sacrificate. Non so quando toccherà a lei, ma la sua vita è veramente appesa a un filo. La Sacra Profezia è in pieno svolgimento e noi dobbiamo fermarli».
Livia era totalmente in stato confusionale. «Come faccio a contattare questi due Carabinieri? Non ho neanche i soldi per comprare un biglietto dell’autobus. Non ho più credito nel cellulare e non posso uscire da questa stanza perché non sono
in grado di pagare il conto dell’Hotel. Sono nella merda più completa!».
«Stai tranquilla, Livia. Nell’arco di mezzora verrà da te una persona fidata che ti porterà del denaro, uno Stealth Phone con una SIM anonima e un saio da suora. Utilizza il travestimento per uscire dall’Hotel e muoverti con maggiore sicurezza nella città. In fondo ci troviamo a Roma, la Casa del Santo Padre. Per adesso non posso dirti altro. Buona fortuna».
«Aspetta! Come faccio a contattarti e con quale nome?»
«Sarò io a chiamarti e il mio nome sarà Gabriele».
«Come l’Arcangelo» sussurrò Livia. Ma la comunicazione era già stata interrotta.
La donna rimase per diversi secondi come in trance. Poi improvvisamente ebbe un sussulto. Ora sapeva che cosa doveva fare.
118.
Mancuso e Valentina arrivarono puntuali a Roma e si recarono all’Hotel Cairoli. Quando il portiere li vide, fece loro un gran sorriso. «Buongiorno, benvenuti nel nostro Hotel. Ritengo siate il signore e la signora Mancini. Vi ho riservato una delle nostre camere matrimoniali migliori, all’ultimo piano, con una bellissima vista su Roma. In camera troverete i vostri bagagli, sono arrivati questa mattina».
Mancuso e Valentina si guardarono con aria interrogativa. Il Capitano cercò subito di nascondere lo stupore per quell’inaspettata accoglienza. «Mi scusi, come ha fatto a riconoscerci? Non siamo certo due star!» chiese rivolto al portiere.
«Questa mattina mi è arrivato un fax con le vostre fotografie. Le persone che vi hanno invitato sono sempre molto precise e meticolose quando accolgono i loro ospiti a Roma. E noi siamo orgogliosi che si servano del nostro Hotel. Se avete delle necessità particolari, non esitate a chiedere. Non è previsto alcun tetto di spesa».
Mancuso preferì non porre altre domande per evitare di insospettire il portiere.
Quando entrarono nella camera, Mancuso sogghignò quando vide lo sguardo un po’ impacciato di Valentina.
«Questi signori saranno anche molto ben informati, ma forse hanno travisato il nostro rapporto di coppia…» disse sorridendo il Capitano.
«Già» fu la laconica risposta di Valentina.
C’erano due grosse valigie accanto al letto. Mancuso prese la prima, la appoggiò sul copriletto e la aprì. All’interno erano accuratamente piegati abiti maschili di vario genere: pantaloni in tessuto pregiato quali l’Escorial e lo Scabal, camicie in cotone Pima e blazer in fresco lana firmati Armani e Zegna. In due scatole c’erano due paia di scarpe Hogan. Infine biancheria intima e nécessaire da toeletta.
«Non hanno badato a spese» disse Mancuso. «Ora sono curioso di vedere cosa c’è nella tua…».
Presero la seconda valigia, la appoggiarono sul letto e, come due bambini che non vedono l’ora di scartare i regali di Natale, la aprirono. Rimasero stupefatti scoprendo, fra articoli di lingerie in seta e pizzo pregiato, un biglietto su cui c’era scritto: “Aprire l’armadio alla vostra sinistra”. Valentina subito si diresse verso di esso e aprendolo le scappò un’esclamazione di sorpresa. Appesi alle grucce c’erano abiti da giorno e da sera griffati dagli stilisti italiani più in voga, sicuramente capi unici vista la tipologia delle stoffe e delle rifiniture. In particolare gli abiti da sera erano incantevoli anche se decisamente provocanti. Come se non bastasse, per ognuno di essi, erano a disposizione scarpe o sandali abbinati e relative pochette per la sera e borsette per il giorno, ovviamente tutte griffate. Per concludere, in un piccolo scrigno appoggiato su un ripiano dell’armadio, c’erano collane, orecchini e braccialetti più alla moda in acciaio e argento con pietre non preziose ma di sicuro impatto visivo per chi li avesse indossati, soprattutto se si trattava di una donna attraente come Valentina. Infine un beauty-case fornito di ogni novità in fatto di trucchi e smalti.
Mancuso e Valentina si guardarono e scoppiarono in una fragorosa risata. Johnny esclamò: «Senti, Vale, ma dopo che ti sei bardata con questi straccetti, ti posso
chiamare Valentina Rubacuori? Ah, ah, ah».
«Hai poco da fare lo spiritoso. Con i tuoi vestiti sembrerai un perfetto finocchio riccastro in cerca di ragazzini disposti a tutto per venti euro».
Il momento di relax fu di breve durata. Dopo essersi rinfrescati, si misero immediatamente al lavoro.
Valentina fece subito una considerazione molto realistica. «I nostri capi e i magistrati saranno incazzati neri. E’ da ieri che siamo spariti e risultiamo irrintracciabili. Chissà se hanno trovato il secondo corpo. Ho dato un’occhiata ai giornali di questa mattina, ma non ne fanno cenno».
«Loro non hanno la Mappa e comunque non sarebbero in grado di interpretarla. L’unico modo per trovare la seconda ragazza uccisa, a meno di un evento casuale come è accaduto per il primo omicidio, può essere soltanto legato a noi».
«In che senso Johnny?» chiese Valentina piuttosto sorpresa da quell’affermazione.
«Nel senso che se decidessero di cercarci, l’ultimo posto nel quale siamo stati con i nostri cellulari accesi è stato quello. Basta agganciare le celle e lo trovano. Tutto però dipende dal grado di gravità che attribuiranno alla nostra scomparsa. Se decideranno di effettuare quella ricerca, il grado di gravità attribuito sarà molto elevato e allora saranno tutti cazzi nostri».
«Hai ragione, Capitano. Se non facciamo in fretta a trovare qualche elemento utile per le indagini, possiamo anche incominciare a cercarci un altro lavoro».
Mancuso cercò di fare il punto della situazione: «Allora il prelato, o presunto tale, che mi ha telefonato ha affermato che soltanto dall’interno dell’organizzazione possiamo cercare di identificare gli autori e i mandanti dei due omicidi e soprattutto capire con chi abbiamo a che fare, per tentare di evitare ulteriori vittime. Probabilmente siamo alla presenza di una Setta Satanica composta di irreprensibili e apparentemente devoti uomini di Chiesa che sta attuando un rituale che prevede il sacrificio di cinque ragazze, come cinque sono le punte del pentacolo. Due sono già state uccise. Ne rimangono tre. E poi? Qui nascono innumerevoli interrogativi. Qual è il fine ultimo di questo ipotetico rituale? Sicuramente non si limiterà a richiedere il sacrificio di cinque ragazze e null’altro. Che origini ha questo rituale? Il dottor Anselmi, quando gli abbiamo fatto vedere i libri antichi trovati nella cassaforte dell’Abate, ha detto che erano scritti in ebraico antico e ha tradotto una parola: Profezia. Questa parola mi è rimasta impressa nel cervello».
Valentina cercò di proseguire il ragionamento del collega. «Hai ragione, Johnny. Potrebbe trattarsi di un rituale molto antico, che, per qualche motivo a noi attualmente sconosciuto, ha avuto inizio soltanto ora legato a una qualche Profezia Satanica. Ti ricordi cosa ci ha detto sui numeri lo scrittore a Genova?»
In quel momento squillò il telefono appoggiato sul tavolino.
Mancuso rispose trafelato: «Pronto?».
«Mi scusi, dottor Mancini, sono il portiere dalla reception. C’è qui una suora che cerca di lei, si chiama Suor Livia».
Mancuso rimase sorpreso. «Una suora? Forse c’è un errore, io non aspettavo nessuna…».
«Mi scusi se insisto. La suora ha detto che deve assolutamente parlarle. Mi ha detto di comunicarle una parola: Profezia».
Mancuso non ebbe più dubbi. «La faccia subito salire, grazie».
In strada, a una cinquantina di metri dall’ingresso dell’Hotel, il giovane prete con gli occhi azzurri prese il cellulare dalla tasca interna dell’abito talare e compose un numero criptato. «Mi scusi, Eminenza, la donna è entrata in questo momento vestita da suora nell’Hotel dove si trovano i due Carabinieri».
Dall’altra parte del telefono, il giovane prete sentì forte e chiara un’imprecazione urlata dal suo interlocutore.
«Non ho idea di come sia riuscita a venire in possesso del saio per il travestimento e da chi sia stata informata dell’attuale dimora dei due ufficiali. Temo che abbiamo qualche problema al nostro interno».
Il giovane prete restò in ascolto per alcuni minuti e poi terminò la comunicazione senza dire una parola.
Immediatamente il suo innato istinto di ex-Comsubin si mise in moto. In una frazione di secondo fece una rapida carrellata degli edifici contigui all’Hotel e
identificò quello che faceva al caso suo. A quel punto si mise a correre verso la sua Mercedes parcheggiata a una cinquantina di metri di distanza. Doveva prendere un borsone. Il piano iniziale, ideato per i due militari, aveva subito una modifica. Ma per lui era pura routine, nulla di cui preoccuparsi. In Angola, Nigeria e Sierra Leone si era trovato in situazioni ben più critiche. Questa era un’operazione da dilettanti.
119.
Mancuso, con la pistola impugnata nella mano destra nascosta dietro la schiena, protetto da Valentina che, a sua volta, accucciata dietro a un divano, teneva sotto mira l’ingresso della stanza, attese che la suora bussasse alla porta.
L’attesa fu breve. Due colpi secchi sul legno massiccio segnalarono l’arrivo dell’inaspettata ospite. Mancuso aprì molto lentamente la porta e si trovò di fronte una donna vestita da suora. Ma era evidente che quell’abbigliamento stonasse vistosamente con l’aspetto esteriore dell’ospite.
«Chi sei?» chiese Mancuso, sempre pronto a reagire ad un eventuale attacco.
«Lasciami entrare» disse Livia. «Stiamo dalla stessa parte».
«E quale sarebbe la tua parte?» replicò il Capitano che non arretrò la sua posizione di un centimetro.
«Io so che tu e la tua collega» disse rivolgendo lo sguardo verso Valentina che nel frattempo si era alzata in piedi, sempre puntando la sua pistola contro la finta suora, «state indagando sugli omicidi di due ragazze avvenuti nei giorni scorsi. Erano due prescelte di un rituale satanico tuttora in corso. Ebbene una delle altre prescelte è una mia carissima amica, Rebecca, che è scomparsa misteriosamente cinque anni fa. Io sto cercando di ritrovarla e di salvarle la vita».
Mancuso ripose l’arma nei pantaloni dietro la schiena, si scostò di un paio di
metri e fece cenno alla donna di entrare.
Anche Valentina rimise la pistola nella fondina cosciale.
Livia, una volta all’interno della camera, si tolse l’ingombrante saio e svelò un abbigliamento più confortevole: gonna di jeans appena sopra le ginocchia e camicetta di cotone bianca.
Mancuso la osservò a lungo. Era una donna sui trentotto anni, dai lineamenti somatici tipicamente nordici. Era bella, straordinariamente bella, Mancuso ne rimase subito ammaliato. Valentina, che si era accorta di quella reazione del collega alla vista della donna, ruppe immediatamente il silenzio rivolgendosi a Livia con modi spicci. «Chi sei? Per quale motivo sei venuta da noi e soprattutto chi ti ha mandato?»
Livia prese fiato e si sedette sul divano. Iniziò il suo racconto: «Mi chiamo Livia De Sanctis. Vivo a Torino, dove faccio la sceneggiatrice o presunta tale. Cinque anni fa la mia amica Rebecca è scomparsa senza lasciare alcuna traccia. Le indagini della polizia non hanno condotto ad alcun risultato. Alla fine Rebecca è andata a fare compagnia a tutte quelle centinaia di persone che scompaiono ogni anno e delle quali non si sa più nulla.
Mi ero ormai rassegnata, quando è comparsa a casa mia una escort di nome Cecilia che affermava di avere conosciuto a Roma Rebecca ad una festa organizzata da alti prelati, Vescovi e Cardinali. Mi ha detto che Rebecca era una prescelta per un rituale satanico e che era in grave pericolo di vita. Lei mi avrebbe aiutato a ritrovarla ma in cambio mi ha chiesto cinquantamila euro».
Mancuso rimase molto colpito da quelle affermazioni. «Cristo! Cinquantamila euro per aiutarti a trovarla? E come?»
«Facendomi partecipare a questi festini che si svolgono frequentemente in ville isolate».
«E come ti saresti guadagnata questi cinquantamila euro?» la incalzò Mancuso, conoscendo già la risposta alla sua domanda.
Livia rimase un attimo in silenzio. Le ripugnava rispondere, ma non esitò. «Facendo la puttana. Non avevo scelta, capite? Mi hanno messo con le spalle al muro! Rebecca è per me una sorella minore!». A quel punto incominciò a singhiozzare e si mise la testa tra le mani.
Valentina e Mancuso si guardarono negli occhi e nei loro sguardi si poteva leggere una sincera ammirazione per quella donna disposta a vendersi pur di salvare una sua cara amica.
Valentina a quel punto chiese a Livia: «Quanti anni ha la tua amica?»
«Venticinque» fu la risposta.
«Tombola!» disse Mancuso
«E poi cosa è successo?» domandò Valentina.
Livia prese un fazzoletto dalla tasca della gonna e si asciugò le lacrime. «E’ successo che sono andata a una di queste feste a Villa Testaccio con Cecilia e una sua amica, Betta. Sembrava che la fortuna mi potesse dare una mano, perché sono stata notata da un Cardinale, credo, comunque un prelato che sembrava molto importante. Mi ha scelta per are la serata con lui. Ma non voleva fare sesso, mi ha parlato con delicatezza, mi è parsa una persona estranea da quel contesto ed io, come una stupida, credendo di poter contare sul suo aiuto, gli ho raccontato tutta la storia di Rebecca. Dopo avermi ascoltata, il suo comportamento è cambiato radicalmente. Mi ha insultata e minacciata ed io sono scappata via. Ho avuto paura. Era ripugnante quel luogo. Mi faceva schifo».
«E le altre due ragazze le hai più viste?» chiese Mancuso.
Livia abbassò il capo e quasi sussurrò: «Le altre due ragazze sono morte».
Mancuso allertò immediatamente i suoi sensi allenati da agente operativo. «Come sono morte?» domandò, senza però guardare Livia in volto ma osservando attentamente prima l’ampia camera e poi l’esterno dalla finestra.
«Betta è stata uccisa da un giovane prete alto e con gli occhi azzurri che era presente anche alla festa. Cecilia, mi è stato detto, si è suicidata lanciandosi dal balcone di casa sua».
Mancuso era chiaramente preoccupato. «Livia, chi cazzo ti ha detto di venire da noi, chi ti ha dato quel saio da suora, insomma cosa ci fai qui?»
Livia non capiva quello stato di eccitazione da parte del Carabiniere. «Ho ricevuto una telefonata da parte di un prete che mi ha detto che quest’organizzazione sta attuando un rituale. Mi ha parlato di una Sacra Profezia e mi ha detto di venire da voi, che state indagando in incognito. Anzi dovete stare molto attenti perché vi hanno fatto venire qua a Roma, ma è una…».
In quel momento si udì un rumore sordo e, dopo una frazione di secondo, il vetro della finestra andò in frantumi. La reazione di Mancuso fu immediata. Si gettò addosso a Valentina e la fece volare per terra. «Cazzo, cazzo, cazzo, Livia sei stata seguita! State accucciate dietro il divano! Da dove cazzo stanno sparando?»
Intanto i proiettili continuavano a piovere nella camera. Mancuso si era rialzato ed era schiacciato contro la parete alla sinistra della finestra, ma non poteva sporgersi per reagire perché altrimenti sarebbe stato un facile bersaglio. Era, infatti, chiaro che chi stava sparando stava utilizzando un fucile di precisione.
Dopo circa cinque minuti il fuoco cessò. Ha finito il caricatore da dieci colpi. Non armerà di nuovo il fucile pensò Mancuso.
A circa 150 metri in linea d’aria, sul terrazzo di un edificio di sei piani, il giovane prete abbandonò la postazione dalla quale aveva sparato con un Modular Sniper Rifle, utilizzando proiettili calibro .338 Lapua Magnum. Imprecando per la rabbia, svitò il silenziatore, sganciò il mirino telescopico, ripiegò il calcio del fucile e infilò il tutto nel borsone che aveva preso nell’auto.
La missione era in parte fallita. Aveva sottovalutato il Capitano. Un errore gravissimo nel suo mestiere. Sperò ardentemente che gli venisse data un’altra opportunità.
120.
Quando capì che l’attacco era terminato, Mancuso si staccò dalla parete e corse verso Valentina e Livia. «Vale, come stai?»
Silenzio.
«Rispondi perdio!»
Guardò dietro il divano e vide Valentina che osservava con le lacrime agli occhi il corpo inerme di Livia. Un proiettile le aveva traato il cranio, maciullandole parte della testa.
Mancuso imprecò: «Cazzo! Sono dei bastardi! Adesso ci togliamo i guanti e faremo a modo mio. Vieni, Valentina, dobbiamo andare via. Subito!».
Valentina si alzò e diede un cellulare a Mancuso. «Le è caduto questo dalla tasca della gonna».
Il Capitano lo osservò attentamente. «E’ un cellulare non rintracciabile. Sicuramente avrà anche una SIM anonima. Glielo devono aver dato insieme al resto. Ci potrebbe essere utile, se dovesse chiamare il suo contatto. Adesso dobbiamo sparire. Tra non molto qui sarà pieno di poliziotti».
Valentina, ancora stordita per quello che era successo, disse quasi rassegnata: «Dobbiamo scappare come se fossimo dei delinquenti. Non è giusto».
Mancuso tentò di rincuorarla. «Lo so che non è giusto, Vale. In questa schifosa storia non possiamo, però, più fidarci di nessuno. Abbiamo preso una decisione irreversibile. I nostri nemici sono potenti, molto potenti. Soltanto agendo fuori dagli schemi ordinari, potremo tentare di fermarli. A questo punto, non ci rimane che scegliere: o andiamo avanti, rischiando la radiazione se non addirittura il carcere o rinunciamo e le donne sinora morte non avranno sicuramente giustizia».
Valentina non sembrava del tutto convinta, ma ritrovò la sua naturale sicurezza. Disse: «Va bene, Johnny, andiamo avanti».
Mancuso le si avvicinò e la baciò sulla fronte. «Grazie» disse. Era il primo gesto tenero nei confronti della collega da quando si erano incontrati a Cairo Montenotte.
Il professionista riprese però subito il sopravvento. Mancuso notò che i proiettili sparati con il silenziatore, a parte quello che aveva colpito mortalmente Livia, erano conficcati tutti nei pressi del suo nascondiglio.
Il Capitano rifletté un attimo: Che cosa stava a significare?
Che il killer, oltre a Livia, aveva soltanto un altro bersaglio: lui.
Valentina, nascosta dietro il divano, era stata risparmiata. Perché?
Non aveva tempo per trovare una risposta anche a quella domanda. Dovevano scomparire immediatamente. Prima, però, Johnny voleva interrogare una persona.
Uscirono nel corridoio. Tutto era tranquillo. Il conflitto a fuoco non pareva aver suscitato alcuna reazione. D’altronde, i rumori della strada avevano sicuramente coperto quelli causati dall’attacco del cecchino. Scesero le scale e si diressero verso la reception. La hall era deserta, segno che non c’erano molti clienti nell’albergo. Dietro il bancone, c’era lo stesso portiere che li aveva ricevuti al loro arrivo. Li accolse con un sorriso un po’ forzato. Aveva letto nei loro sguardi la tensione e il dolore.
«Buongiorno, signori Mancini. E’ forse successo qualcosa?»
Mancuso, senza proferire parola, saltò dall’altra parte del bancone, prese per il bavero il portiere allibito e lo sbatté con violenza contro l’armadietto, contenente le card magnetiche, posto alle sue spalle. «Ascoltami, stronzo e non farmelo ripetere due volte. Chi ha prenotato per noi la stanza nel vostro albergo?»
Il portiere era terrorizzato. «Non lo so dottore… non li conosco…».
Mancuso estrasse la pistola e la infilò nella bocca dell’uomo.
Valentina era spaventata dalla foga del suo collega, temeva che commettesse
qualche stupidaggine: «Johnny! Che cosa stai facendo? Non puoi…».
Mancuso non le fece finire la frase. «Vale, stai tranquilla, so perfettamente cosa devo fare». Poi, rivolto nuovamente al portiere disse: «Forse non mi sono spiegato e non mi chiamare dottore, perché mi fa diventare ancora più nervoso. Te lo ripeto per l’ultima volta, poi incomincio a spararti a una gamba. Ti lascio scegliere quale delle due. Chi cazzo ha prenotato la nostra stanza?».
Il portiere si pisciò addosso e sussurrò: «Un prete».
«Che cosa hai detto? Non ho sentito!»
«Un prete!» urlò il portiere.
«E come si chiama questo prete?»
«Non lo so, glielo giuro, veramente…».
«E’ alto e con gli occhi azzurri?»
Il portiere rispose come se fosse una liberazione: «Sì, sì, sì, è proprio lui!».
Mancuso lasciò la presa. «Va bene, basta così. Adesso vatti a cambiare che fai
schifo e puzzi come una latrina».
Valentina era furibonda. «Mancuso, noi due dobbiamo parlare».
«Non ora. Allontaniamoci da questo posto il più rapidamente possibile».
121.
Cadibona, o o Colle di Valico, situato a 436 metri s.l.m., era una frazione del Comune di Quiliano. Comunemente assunto quale limite fra le Alpi e l’Appennino, collegava il litorale savonese con la valle della Bormida.
Per raggiungere la località chiamata Le Meugge, si doveva camminare lungamente su una strada asfaltata con scarso traffico, in mezzo a colline ondulate che offrivano ampi panorami ai confini della Riserva naturalistica dell’Adelasia, caratterizzata da splendidi boschi di faggi, castagni e querce, popolati da numerosi caprioli.
Proprio in questi luoghi dove, nell’aprile 1796, Napoleone combatté e vinse, contro gli austriaci, la memorabile battaglia di Montenotte, in una grotta all’interno di una fitta boscaglia che la proteggeva da sguardi indiscreti, si stava svolgendo una messa nera. Era presente una ventina di adepti che indossavano un pesante saio nero con il cappuccio calato sulla testa.
La grotta era illuminata da numerose torce appese alle pareti e da una fitta distesa di candeline, sparse un po’ ovunque. Al centro della grotta c’era un altare di legno sul quale era disteso il corpo completamente nudo di una giovane ragazza.
Il Sacerdote con la Bibbia Satanica in mano stava celebrando la sua liturgia. Le sue parole riecheggiavano sinistre in un luogo che richiamava soltanto odio e morte.
«Satanisti, Stregoni, Sacerdoti, Maestri, ascoltate la mia Parola!
Io sono colui che parla in nome del nostro Signore Satana!
Ascoltate e diffondete il nostro Credo!
Date una speranza agli illusi e convincete gli scettici.
Soltanto il Nostro Dio può condurre all’estasi e alla felicità!
Ma siano maledetti coloro che tradiranno la nostra fede!
Non ci sarà pietà per loro, soltanto patimenti e morte!
Io posso calpestare il falso Dio, quel Dio che io ho ucciso.
Io posso celebrare le mie messe con i miei Sacerdoti che ho strappato a Lui. I
preti vestiti come netturbini, camuffati. Così li porto dove voglio io, negli alberghi e nelle case private, in cerca di donne e di omosessuali e faccio commettere tanti sacrilegi e li porto nel mio regno. Quanti, quanti preti mimetizzati sono nel mio regno! E non mi scapperanno più!
I preti e i vescovi iscritti alla massoneria e alla mia setta… oh quanti, oh quanti ne porto col denaro e con le donne… quanti, quanti diventano miei amici fedeli col denaro e con le donne. Ne prendo quanti ne voglio, li porto nel mio regno.
Le gonne corte, con le quali accalappio uomini e donne e riempio il mio regno.
Che felicità… che gioia, che gioia!
La televisione… uh, la televisione è il mio strumento, l’ho inventato io, per distruggere le singole anime e le famiglie. Le separo, le disgrego con programmi miei, sottilissimi e penetranti… uh, la televisione è il centro di attrazione, dove attiro anche tanti preti, frati e suore, specialmente nelle ore piccole e poi non li faccio più pregare. In un attimo mi presento in tutto il mondo, mi ascoltano e mi vedono tutti.
Mi aiutano assai bene i miei fedeli servi, i maghi, le streghe, le cartomanti, le chiromanti, gli astrologi.
Le discoteche. Che bello! Sono i miei palazzi d’oro, dove attiro le migliori speranze della società, che io faccio mie, distruggendo le loro anime e i loro corpi. Quante migliaia e migliaia ne porto con me con l’alcool, con la droga e col sesso… oh, che continua mietitura. Le ho affidate a tanti politici, i miei fedeli servi.
Io sono il vero re del mondo e non già il vostro Dio, che io ho crocifisso.
Il divorzio, la separazione degli sposi, sono stati inventati da me, ne rivendico la proprietà. E’ una delle mie più intelligenti scoperte. Così distraggo la famiglia e distruggo la società, dove io sono adorato come vero re del mondo.
Il sesso… il sesso… non ascoltate quell’uomo impiccato in croce che non vi dà niente, il vero piacere… il vero piacere ve lo do soltanto col sesso libero, il mio regno è soprattutto libertà del piacere sessuale, con cui regno sulla terra.
L’aborto, l’uccisione degli innocenti. È stata la mia trovata più bella e più gustosa! Ammazzare gli innocenti invece dei colpevoli e degli omicidi della mafia! Distruggo l’umanità e così finiscono, prima di nascere, gli adoratori del vostro falso Dio.
La droga è il cibo più gustoso che io faccio mangiare ai giovani per renderli pazzi e così ne faccio quello che voglio. Ladri, assassini, lussuriosi, feroci come me, dominatori del mondo. I miei ministri.
Ma soprattutto mi piacciono e mi rallegrano quegli ecclesiastici che negano la mia esistenza e la mia opera nel mondo e sono tantissimi… oh, che gioia, che gioia per me. Lavoro tranquillo e sicuro. Persino i teologi oggi non credono nella mia esistenza… che bello… che gioia… e così negano anche quel loro Dio che era venuto per distruggermi. Invece l’ho vinto, l’ho inchiodato io sulla Croce!
Bravi questi preti, bravissimi questi vescovi, bravissimi questi teologi sono tutti i
miei fedeli servi. Ne faccio quello che voglio! Ormai sono miei, li porto dove voglio, vestiti da beccamorti con la sigaretta sempre in bocca, profumati come gagà, in cerca di donnicciole facili con auto di ultima moda, pieni di danaro. Si ribellano ai dogmi del loro falso Dio e della falsa Chiesa di quel Crocifisso, mia vittima. Sono i miei soldati più sicuri del mio regno. Con essi metto confusione e smarrimento nel popolo, che allontano sempre più dal falso Dio e porto nel mio regno di odio e di disperazione eterna per sempre con me.
Quanti di essi ho fatto iscrivere alla mia setta, allettati dalla mia carriera e dal mio denaro! Li compro con facilità perché finalmente sono riuscito a non far amare più quel loro falso Dio.
Anche i politici uso a mio favore, quei politici che si dichiarano cristiani, ma che cristiani non sono, perché sono miei e a mio servizio. Presentandosi però come cristiani, ingannano tante persone che li seguono dove io astutamente li porto. Vengono con me a rubare allegramente il denaro del popolo, denaro che costa sudore e lacrime di lavoro sofferto; denaro strappato alle famiglie povere con tasse inique, imposte da questi politici che ingrassano, sciupano, spendono e spandono senza limiti. Eppure faccio fare loro delle dichiarazioni di rettitudine, di bontà, di ossequio, di lealtà di sincerità cristiana, da far cadere anche i preti e i vescovi con loro. Il denaro è la mia arma più efficace; preti e vescovi chiudono gli occhi su questi politici, miei servi e schiavi. Basta che loro trovino i soldi per costruire o restaurare chiese, asili, case parrocchiali belle e comode, patronati. Sono i miei sacrestani più fedeli, per mezzo dei quali posso penetrare nelle case del clero, obbediente al mio denaro. Del resto, non sono stati questi politici che hanno firmato l’adulterio con il divorzio e l’aborto? Ma il clero fa loro la propaganda che io desidero.
I politici che si fanno chiamare laici sono avanguardisti del mio regno. Le menzogne studiate ad arte, i soprusi diligentemente realizzati, i latrocini mafiosamente perpetrati, gli intrallazzi diplomaticamente eseguiti, il malcostume capillarmente diffuso con tutti i mezzi di stampa e di mass media, gli omicidi, i rapimenti organizzati a mano armata, la diffusione delle varie droghe mediante il
servizio rigidissimo dell’omertà politicamente organizzata e tanti altri delitti e disordini sociali, sono tutte opere che io realizzo mediante l’opera di questi politici, miei seguaci e untorelli fedelissimi. Hanno da me il mandato preciso di usare tutti i mezzi e i modi più infernali per distruggere la società, purtroppo ancora legata a quel Crocifisso che io ho impiccato sull’infame legno.
Questi politici sono i miei discepoli e seguaci prediletti perché obbedientissimi al mio solo cenno, senza che neppure se ne accorgano. Sono essi che mi organizzano in tutte le città e paesi le logge massoniche più attive e subdole, più scaltre e di punta; sempre donando denaro, carriera e piaceri sessuali. Sono essi che ricevono i miei precisi comandi di penetrare e distruggere dall’interno la Chiesa. Quanti ecclesiastici hanno ceduto e continuano a cedere alle proposte e agli allettamenti di denaro e di carriera. Distruggere la Chiesa è il mio primo e ideale progetto.
Con questi miei fedelissimi politici ho già da tempo iniziato a distruggere la società in ogni settore e grado e in tutti gli ambienti, destabilizzando gli ordini di pubblica sicurezza, di economia, di diplomazia, di relazioni sociali, naturalmente sempre con le mie armi di ambizione, carriera, denaro, donne, piaceri.
Che gioia! Che vittoria!
Mi piacciono poi in maniera particolarissima quei giudici e magistrati che hanno, dietro le loro spalle, il motto tradizionale “La giustizia è uguale per tutti”, eccetto ormai che per loro!
Che bravi, che fedeli, questi miei schiavetti della giustizia!
Finalmente sono riuscito a politicizzare anche i giudici!
Finalmente sono riuscito a farli vendere con il denaro e le bustarelle!
Quante persone innocenti faccio condannare in carcere per anni e anni mentre faccio uscire e assolvere i miei seguaci, considerati dal popolo come assassini e mascalzoni, li faccio uscire dal carcere perché devono continuare a dilatare il mio regno di disordine, con omicidi, ladrocini, spaccio di droga, sequestro di persone e di bambini!
Che meraviglia questi miei giudici politicizzati, partitizzati, venduti. Li ho ridotti a non conoscere più ciò che è giusto, da ciò che è ingiusto!
Sono oggi il mio corpo specializzato di assalto contro la giustizia!
Che meraviglia liberare dalle carceri i grandi brigatisti e mafiosi e lasciare dentro i poveri derelitti più o meno innocenti!
Che bello lasciare liberi i falsi pentiti, con i quali io agisco con maggiore sicurezza!
Che bello mandare agli arresti domiciliari coloro con i quali posso più liberamente organizzare il disfacimento della società!
Bravi, bravissimi giudici venduti!
E quanti, quanti ne ano ogni giorno sempre di più nel mio regno, allettati dal denaro, dalla carriera e dall’orgoglio, le mie armi da loro amate e desiderate!
E quei giudici che non si vogliono allineare con me, li faccio scomparire.
E che cosa è la lotta intorno a loro, che aumenta sempre di più tra questi magistrati, se non il frutto della mia presenza e della mia costante e insistente opera?
E che cosa è la continua lotta tra i magistrati, i politici e le Forze dell’Ordine, se non effetto del veleno che io riesco ad iniettare costantemente tra di loro?
È finita…è finita la pseudo pace che ha promesso quel buffone del vostro Dio che io ho vinto e crocifisso!
E’ finita, il mondo intero è con me, sono io ormai il re del mondo. Sono io!».¹
Dopo che ebbe finito la sua omelia, il Gran Sacerdote sollevò un’effige in ceramica. Raffigurava un pentacolo con la punta rivolta verso il basso, circoscritto da due circonferenze concentriche. Nello spazio insito tra le due circonferenze erano presenti cinque lettere ebraiche, ognuna in corrispondenza di una punta del pentacolo.
Il Gran Sacerdote riprese: «Adoriamo il nostro vero Dio, il Pàntaclo! Belial, Leviathan, Lucifero, Satana, ovvero Terra, Acqua, Aria, Fuoco; più la punta
verso il basso che rappresenta l’Uomo!»
«Il tempo del Pàntaclo è finalmente arrivato. Ma il Pàntaclo deve essere nutrito, nutrito di vergini per raggiungere il suo massimo potere. Sono ati cinque giorni dal secondo sacrificio. La Sacra Profezia è inviolabile. Oggi daremo corso al suo volere. Questa giovane vergine distesa sul Sacro Altare soddisferà la fame del nostro Dio».
Il Gran Sacerdote tirò fuori dall’interno del saio un pugnale Paternoster e sentenziò a voce alta: «Mors purificatio tua erit!».
Rebecca, distesa sull’altare, affidò la sua anima al Suo Dio e attese serena la morte.
¹ Fonte: Dialoghi avuti da Padre Pellegrino Ernetti col Demonio - Diosalva.net
122.
Mancuso e Valentina uscirono dall’Hotel Cairoli cercando di non dare nell’occhio. Il portiere aveva già sicuramente chiamato la polizia. Nell’arco di cinque, dieci minuti al massimo sarebbero arrivate le volanti e gli agenti avrebbero scoperto il cadavere di Livia. Erano quasi le cinque del pomeriggio, c’era molta confusione in strada. Quasi nessuno si era accorto di quello che era successo al quinto piano dell’albergo. Soltanto alcuni anziani signori, evidentemente non in preda al frenetico ritmo di vita della metropoli, stazionavano davanti all’ingresso dell’Hotel e indicavano con le braccia levate in alto la finestra della camera dove era stata uccisa Livia. Infatti, alcuni pezzi frantumati del vetro erano caduti sul marciapiede, fortunatamente senza colpire nessuno.
I due Carabinieri, frugando nelle tasche di Livia, avevano trovato mille euro in contanti. Probabilmente le erano stati dati insieme al cellulare e al saio da suora. Li presero, perché ne avevano bisogno, ora più che mai.
Utilizzando i mezzi pubblici, si diressero a San Lorenzo, il quartiere universitario di Roma. Era una scelta strategica: si sarebbero facilmente mescolati alle migliaia di studenti che popolavano quotidianamente il quartiere, vivacizzato da una movida notturna rinomata nel mondo. Inoltre erano a dieci minuti di strada a piedi dalla Stazione Termini, ideale via di fuga in caso di necessità. Optarono per un residence, sicuramente più riservato e sicuro rispetto ad un hotel.
Quando furono all’interno del bilocale affittato, dopo non essersi detti neanche una parola durante il tragitto di trasferimento, finalmente Mancuso e Valentina si affrontarono a muso duro.
Si sedettero sui due letti singoli uno di fronte all’altra.
Fu Johnny a rompere il silenzio: «Allora, sputa il rospo».
Valentina rispose molto sinteticamente: «Non mi piace».
«Non ti piace cosa?»
«Non mi piace il tuo modo di andare avanti nell’indagine, anzi per meglio dire nella ormai tua indagine».
«Scusa Valentina, ma non ti seguo».
«Cazzo, Mancuso! Ma ti rendi conto? Hanno ucciso una donna nella nostra camera e noi siamo scappati! Quante volte devo ancora ricordarti che siamo due Ufficiali dei Carabinieri? E poi hai interrogato quel povero portiere con metodi mafiosi. In Accademia cosa ti hanno insegnato? Di comportarti nello stesso modo dei delinquenti? Adesso il portiere avrà dato la nostra descrizione alla polizia. Rischiamo di diventare due ricercati e i nostri capi si guarderanno bene dal coprirci il culo! Fermiamoci, Johnny. Non ce la possiamo fare da soli. Ho come la sensazione che in questa vicenda tu stia cercando la tua vendetta dopo quello che ti è successo a Palermo. Ti assicuro che non hai bisogno di dimostrare niente a nessuno. Tu sei un ottimo Ufficiale, Johnny. Lo so, detto da me conta poco. Ma ti assicuro che è così, fidati».
Ci fu un attimo di silenzio. Poi Mancuso si alzò dal letto, girovagò un po’ per la
stanza, come se stesse cercando di trovare le parole giuste per replicare o forse per calmarsi e non inveire contro Valentina. Alla fine parlò. «Mi ascolti, Tenente» il suo era diventato un tono formale. «Da questo momento, in qualità di suo superiore, le ordino di non occuparsi più di questa indagine. Si rechi al più vicino Comando dell’Arma e dica ai suoi superiori che ha agito soltanto ed esclusivamente per eseguire i miei ordini. Le chiedo però la massima discrezione sui risultati sinora raggiunti onde evitare di compromettere il proseguimento delle indagini che io continuerò a condurre in incognito. Tra noi due non ci saranno più contatti. Il cellulare che avevamo acquistato lo lascerò in questo residence. D’ora in avanti utilizzerò quello che abbiamo trovato negli abiti di Livia, del quale ovviamente non le darò il numero. Domande?»
Valentina non sapeva se mettersi a ridere o a insultare il collega. Dalle sue labbra uscirono soltanto poche parole: «Sei proprio un coglione…». Detto questo, prese la sua borsa e si avviò verso l’uscita del bilocale. ò accanto a Mancuso, ma i loro sguardi non si incrociarono. Lui aveva un’espressione vitrea in volto: mascelle serrate e occhi glaciali.
Sentì sbattere la porta e gli pervenne alle orecchie un nitido: «Vaffanculo», seppur in parte attutito dal rumore dell’uscio.
D’ora in avanti avrebbe operato da solo. Doveva assolutamente allontanare Valentina da quell’indagine. Il suo intuito lo aveva messo in allarme sin dalla telefonata ricevuta il giorno prima dal “presunto” prete che li aveva fatti venire a Roma e che avrebbe dovuto ricontattarlo quel pomeriggio per fornire le indicazioni della non meglio precisata festa prevista per la sera. Festa alla quale doveva partecipare Valentina come escort, unico modo per poter operare dall’interno dell’organizzazione, come aveva precisato quel lurido verme. Ma era tutto un pretesto.
Erano stati, senza ombra di dubbio, attirati in una trappola, andata però in fumo per colpa della povera Livia. Loro, infatti, sicuramente non si aspettavano che la
donna sarebbe andata a trovarli e avevano dovuto cambiare il piano in corso d’opera per evitare che Livia fe troppe rivelazioni. Purtroppo con quella visita, Livia aveva firmato la sua condanna a morte, ma almeno un risultato l’aveva ottenuto: forse c’era davvero una talpa al loro interno e lui adesso aveva il cellulare che poteva permettergli di essere contattato.
Il particolare che però più di tutti aveva inquietato Mancuso era costituito dal fatto che il cecchino aveva deliberatamente evitato di sparare a Valentina. C’era qualcosa che non quadrava. Prima il tentativo di coinvolgerla nel giro delle escort, poi il trattamento speciale durante la sparatoria. Perché tutto questo interesse verso la sua collega? Perché lei doveva restare viva?
Gli era costato tantissimo trattare in quel modo Valentina. Era stato veramente uno stronzo, ma il suo intuito raramente lo aveva tradito. Non potendole assicurare una protezione accettabile, aveva preferito allontanarla. Sperava di poterle chiedere scusa, un giorno.
L’attimo di tristezza ebbe breve durata. Adesso, dopo aver messo in sicurezza Valentina, poteva tornare a cacciare le sue prede.
Prossima destinazione: Villa Testaccio.
123.
Valentina vagava per il centro di Roma. Non si dava pace, ma soprattutto non capiva. Non capiva il perché di quella reazione senza senso di Mancuso. Sì, lo aveva attaccato duramente per il suo modo di agire che lei non condivideva, ma non aveva mai messo in dubbio le sue grandi capacità di investigatore e la sua invidiabile professionalità. Si aspettava un’inevitabile discussione, anche accesa, su quello che era successo all’Hotel, ma non di essere messa alla porta in quel modo, come se fosse stata una recluta o, peggio ancora, un peso per la continuazione delle indagini. Qualcosa le sfuggiva, il comportamento al residence di Mancuso, per quel poco che lo aveva conosciuto in quei giorni, stonava eccessivamente da quello dell’amico collega, pur se di grado superiore, che aveva rischiato con lei la vita soltanto poche ore prima.
Valentina non sapeva cosa fare. Non poteva e non voleva tornare a Parma. Il chiodo fisso di quella rivoltante vicenda, soltanto in parte nota ai mass media e agli stessi inquirenti, non l’avrebbe scacciato facilmente. Solo lei e Mancuso erano a conoscenza dei particolari sino allora venuti alla luce. Solo lei e Mancuso avevano visto il volto angelico privo di vita della seconda ragazza sacrificata. E, ancora, solo lei e Mancuso erano a conoscenza del fatto che molto probabilmente era già stata uccisa la terza ragazza, in una delle tre località indicate sulla Mappa con il pentacolo e che altre due rischiavano di fare la stessa fine in ossequio al rituale satanico che era in corso.
In definitiva, solo lei e Mancuso potevano fermarli.
“No, caro Capitano, non mi farai fuori così facilmente. Se torno al Comando, mi faranno molte domande ed io dovrò dare molte risposte. Io magari mi salverò il culo, ma tu sarai radiato con molto disonore. Io ti servo, hai bisogno di me. Abbiamo iniziato insieme quest’avventura e insieme la porteremo a termine”.
Dopo quello tsunami di pensieri, Valentina tornò sui suoi i e si avviò velocemente in direzione del residence, dove avevano affittato il bilocale. Sperò disperatamente che Mancuso fosse ancora là, altrimenti sarebbe stato pressoché impossibile ritrovarlo.
Fu in quel momento che con la coda dell’occhio sinistro intravide una Mercedes nera che la stava tallonando. Pareva che stesse attendendo il momento e il luogo giusto per affiancarla. Valentina si girò un attimo e lo vide: un uomo biondo con gli occhi azzurri vestito di nero era alla guida dell’autovettura. Valentina estrasse la pistola e incominciò a correre. Mancava ancora circa un chilometro al residence. Il caos di gente e il traffico di San Lorenzo le consentivano di mimetizzarsi tra la folla e di rendere praticamente impossibile un attacco da parte del giovane prete.
Valentina continuò a correre fendendo le persone che incontrava, quasi tutti studenti e turisti troppo impegnati a discutere o a scoprire angoli pittoreschi del quartiere per accorgersi di una donna con la pistola in pugno che stava scappando.
L’autista della Mercedes, consapevole della situazione nettamente a suo sfavore, corse ai ripari. Mise sul tetto dell’autovettura un lampeggiante azzurro, accese la sirena e tirò fuori dal finestrino il braccio sinistro con in mano una paletta, del tutto uguale a quelle usate dalle Forze dell’Ordine. Quella mossa gli aprì un varco in mezzo alle auto e gli consentì di raggiungere velocemente Valentina. Solo allora qualcuno incominciò ad accorgersi di quello che stava accadendo. La situazione a quel punto divenne surreale. Valentina che correva con la pistola in mano inseguita da un’auto apparentemente della polizia invertì i ruoli. La donna fu considerata la cattiva e alcuni individui tentarono di bloccarla.
A quel punto Valentina agì d’istinto. Sparò in aria alcuni colpi di pistola che
ebbero l’immediato effetto di far fuggire la gente attorno a lei. Mancava poco al residence, poteva ancora farcela, ma quella cazzo di Mercedes era di nuovo vicino a lei, pronta a bloccarle la via di fuga.
D’improvviso si sentirono alcuni spari provenienti dalla strada davanti a loro. I proiettili erano indirizzati contro l’autovettura, ma scheggiarono soltanto la carrozzeria e il parabrezza blindati. L’azione di fuoco improvvisa, però colse del tutto impreparato il giovane prete, il quale fece una rapida manovra di inversione e si allontanò rapidamente.
Valentina, senza più fiato, tirò fuori il distintivo mostrandolo a coloro che si avvicinavano del tutto attoniti.
Un uomo corse verso di lei e quando le fu vicina, le diede una mano e disse: «Andiamo, Vale, ci sono io, non aver paura».
Valentina tirò un sospiro di sollievo. «Sì, andiamo. Grazie, Capitano».
124.
Erano nuovamente seduti sui letti, nel residence.
Si guardarono lungamente, ciascuno dei due stava metabolizzando quello che era successo nelle ore precedenti per rompere il silenzio e dire qualcosa di non banale. Alla fine si sorrisero. «Sono stato proprio uno stronzo…» disse Mancuso.
«Beh, neanch’io ho scherzato» rispose Valentina.
Johnny si alzò dal letto, prese per le mani la collega, la tirò su e la abbracciò. Lei, all’inizio un po’ impacciata, nel giro di pochi istanti si lasciò completamente andare in quell’abbraccio di cui aveva un disperato bisogno. Affondò il suo capo nel petto accogliente di Mancuso e non oppose nessuna resistenza alle sue carezze e al contatto delle sue labbra sui suoi capelli.
Soltanto in quel momento, Johnny si rese conto di quanto lei fosse bella e del perché volesse a tutti i costi proteggerla. A livello inconscio si era innamorato di Valentina, ma gli eventi accaduti negli ultimi giorni avevano come accecato quel suo sincero sentimento, il lato peggiore del suo carattere aveva prevalso sospinto dalla sua presunzione e dalla rabbia d’impotenza nei confronti dei suoi nemici. Ora, finalmente, in un attimo d’intimità, il sentimento si era fatto prepotentemente strada nei meandri contorti del suo cervello. Lui, che nella sua vita recente aveva soltanto provato odio, un odio feroce verso i suoi avversari e verso i suoi colleghi, falsi amici, ora finalmente sentiva sgorgare dal suo cuore un sentimento ormai sepolto dal tempo, ma non per questo annientato e cancellato. Come un prezioso monile che attende soltanto che qualcuno scavi per essere riportato alla luce, così Valentina aveva scavato nel suo cuore e aveva
riportato alla luce il suo amore verso una donna.
Johnny la staccò dolcemente dal suo corpo e la guardò negli occhi bagnati da alcune lacrime. «Perché stai piangendo?»
«Perché sono felice di stare qui con te».
Lui non disse altro. La prese a sé e la baciò intensamente sulle labbra, sul collo, sul viso. Si lasciarono completamente andare, travolti dall’onda dei sentimenti. Entrambi avevano un disperato bisogno di amare, amare, amare, per scacciare incubi infantili, per scacciare una vita dedicata soltanto a cercare di non farsi ammazzare per poi ricevere una medaglia al valore che nessuna moglie o nessun marito avrebbe potuto ritirare.
Si tolsero gli abiti freneticamente, si abbandonarono nel letto a piazza singola e fecero l’amore con una ione che nessuno dei due aveva mai provato prima.
125.
Si coccolavano reciprocamente, nudi nel piccolo letto che li costringeva a stare accartocciati l’uno addosso all’altra. Era, però, una costrizione assai piacevole.
«Perché mi hai mandato via in quel modo?» chiese Valentina con una voce distorta dal contatto delle sue labbra con il petto di Mancuso.
«Perché volevo proteggerti» fu la laconica risposta.
«Proteggermi da cosa? Dai rischi che stiamo correndo in quest’indagine?»
«Non solo. Non ti sembra strano che ci abbiano attirato qui a Roma con un escamotage e che abbiano esplicitamente fatto cenno alla festa alla quale tu avresti dovuto partecipare sostanzialmente senza protezione? Non ti pare strano che il killer, dopo aver ucciso Livia, abbia destinato i restanti nove proiettili del caricatore soltanto a me? Tu eri nascosta dietro al divano, ma non una sola cartuccia .338 Lapua Magnum lo ha scalfito. E ancora, proprio oggi, perché il giovane prete non ti ha ucciso? Avrebbe potuto tranquillamente farlo protetto nella sua autovettura blindata».
«C’era un sacco di gente, rischiava di colpire degli innocenti».
«Ti assicuro che quando un killer deve portare a termine una missione, lo fa senza curarsi affatto dei possibili effetti collaterali. E poi mi è sembrato che non avesse alcuna arma in mano. E allora qual era il motivo per il quale ti stava
seguendo? Voleva comunicarti qualcosa? Voleva attirarti in una nuova trappola? Ho un chiodo fisso, Vale, ho delle sensazioni che non mi piacciono. Per questo ho voluto allontanarti, volevo che fossi al sicuro in mezzo ai tuoi uomini. Ma mi ero dimenticato che sei una donna testarda e che avresti fatto esattamente il contrario di quello che io ti avevo ordinato di fare».
«Che cosa fa ora signor Capitano? Mi manda di fronte ad una Corte Marziale che mi strappi i gradi dalla divisa?»
«Stupida… » disse Mancuso baciandola sulla fronte.
«Non so, Johnny, francamente non mi sono resa conto di quello che mi stai dicendo e non ho la più pallida idea di cosa volesse da me il giovane prete. Io l’ho percepito come una minaccia e ho agito di conseguenza. Il problema però è che io sono prevenuta verso chi indossa un abito talare. Non ho un buon rapporto con i sacerdoti e un giorno, spero presto, troverò il coraggio di spiegarti il perché».
Mancuso rifletté a lungo su quelle parole che lo avevano in parte turbato, poi disse: «Stai tranquilla, Vale. Avremo tempo per parlare e approfondire le nostre vite private. Comunque adesso dobbiamo andare. Hanno localizzato anche questo nascondiglio. Forse il telefono che abbiamo preso a Livia non è sufficientemente sicuro, ma non possiamo farne a meno. E’ l’unico canale che ci possa permettere di entrare in contatto con questa ipotetica talpa. Dobbiamo rischiare. Dopo che sei uscita, sono andato all’Internet Point del residence e ho fatto qualche ricerca. Ho trovato alcuni articoli interessanti che potrai leggere in macchina. Ora rimettiamoci in sesto e togliamo le tende».
«Che cosa intendi fare adesso, Johnny?»
«La povera Livia, prima di morire, ha avuto il tempo per comunicarci un’informazione davvero importante. E questo, i nostri nemici, non possono saperlo».
Valentina annuì. Era assolutamente vero. «Villa Testaccio, il luogo dove si è svolta la festa!»
«Esatto! E da lì che voglio incominciare. Dobbiamo capire se si tratta di un luogo saltuario oppure ricorrente, utilizzato per fare divertire questi luridi maiali. Spero, se siamo fortunati, di trovare qualche indizio, qualsiasi cosa che possa confermare la loro presenza».
Pagarono il conto e salirono sulla Giulietta che Mancuso aveva noleggiato. Il Capitano impostò sul navigatore l’indirizzo della villa. Il tempo previsto per raggiungerla era di circa un’ora.
Valentina si mise comoda sul confortevole sedile e scorse rapidamente i due articoli stampati da Mancuso. Il primo era di un giornalista, un certo Camoirano, il secondo non aveva firma, ma entrambi parlavano di messe nere e satanismo.
«Incredibile! Dove li hai trovati?» disse Valentina. «Me li riassumi, per favore, sono davvero stanca e non riesco a concentrarmi». «E’ presto detto, mia cara» disse Mancuso accostando a destra in una piazzola e prendendo i due fogli. «In uno è riportata la notizia dell’ENPA² sul ritrovamento di un gattino nero che sarà dato in adozione sorvegliando però che non sia più utilizzato per messe nere e riti esoterici che si praticherebbero in Val Bormida. Poi cita l’allarme dell’Aidaa³ sulla sparizione, proprio a Cairo, di gatti neri che sarebbero stati sacrificati durante riti satanici. Pensa che si parla anche di un pentacolo satanista che ha
come una delle punte Cairo e comprende poi altre città e paesi come Cuneo, Golasecca, Lazise e Mirandola. Dice che la Val Bormida è sempre stata sede di pratiche esoteriche: a Saliceto esiste una Chiesa esoterica. All’interno di una chiesetta di Cengio Alto è stata scoperta una grotta mentre nel monastero di Millesimo il marchese Scotto organizzava, negli anni 30, famose sedute spiritiche. Negli anni 80-90 in una frazione di Cengio venivano organizzate sedute durante le quali avvenivano strani fenomeni grazie ad uno specchio misterioso rubato in una casa abbandonata in località Pastoni. Quello è un luogo ricorrente perché altre persone hanno raccontato di aver visto ombre nei boschi, torce accese, strani fuochi, macchine parcheggiate per tutta la notte. I nostri colleghi hanno pensato a traffici illeciti o a scambi di coppia, ma alla fine l’ipotesi più attendibile rimane quella delle messe nere. A Millesimo nel 2006, per completare questo quadro molto inquietante, erano state rubate dalla chiesa parrocchiale le ostie consacrate: sono state ritrovate dopo poco grazie alla segnalazione dei Frati Cappuccini di Pietra Ligure che, in confessione, avevano avuto la segnalazione del luogo ove erano state nascoste. Invece nel secondo articolo si parla del fatto che l’Aidaa ha denunciato dodici gruppi esotericosatanisti per aver maltrattato e ucciso piccoli animali nelle regioni del centro e del nord Italia, in particolare gatti. Pensa, sono spariti addirittura trecento gatti neri, rapiti e uccisi nel corso di riti e sacrifici a Satana e di altri animali rubati e macellati clandestinamente e poi utilizzati nei medesimi riti. Robe da matti. Non ne avevo mai sentito parlare».
Valentina si congratulò con Mancuso: «Bravo, Capitano! Questa potrebbe essere la risposta al quesito principale di tutta questa oscura faccenda che sinora ci siamo posti solo marginalmente: per quale motivo il rituale satanico si stia svolgendo nelle località indicate nella Mappa».
«Sì, è vero. Considerata l’elevata concentrazione nella zona di Cairo Montenotte di pratiche sataniche, è giustificabile che il rituale sia iniziato proprio da quella zona. Soltanto che coloro con i quali stiamo lottando hanno fatto un evidente salto di qualità: non sacrificano gattini neri ma esseri umani. Senza alcuna pietà. Quello che voglio dire è che la stragrande maggioranza di questi presunti adepti a sette sataniche, sono degli imbecilli cialtroni plagiati da pochi veri individui devoti al demonio.
I nostri nemici invece sono di un rango nettamente superiore e stanno attuando un rituale ben definito, con le sue regole. Regole che devono essere eseguite alla lettera, pena, io ritengo, il mancato accadimento di qualcosa che al momento ci è oscuro. In estrema sintesi il contenuto di quei due articoli non mi convince pienamente sul motivo per il quale sia stata scelta in particolare la Val Bormida per mettere in atto il rituale. Sarebbe troppo semplicistico. Secondo me c’è un’altra ragione, che è molto più difficile da comprendere senza la conoscenza completa del rituale stesso».
Mentre riflettevano su queste ultime affermazioni di Mancuso, squillò il cellulare di Livia.
Numero privato, lesse sul display il Capitano. «Ci siamo, finalmente» disse. Accostò nuovamente l’auto sul ciglio della strada e rispose.
«Pronto?»
Una voce roca lo salutò: «Buongiorno, Capitano».
«Buongiorno. Speravo in una sua chiamata. Chi è lei? E perché ha aiutato Livia?»
«Al telefono è meglio parlare il meno possibile. Loro sono infiltrati anche in ambienti militari e ora, con le moderne tecnologie, nessuna comunicazione è più sicura al cento per cento. Credo che abbiano rilevato il telefono che ho dato alla povera Livia. Per questo vi hanno scoperto al residence».
«Noto che anche lei è molto ben informato. Perché dovrei fidarmi? Mi convinca che lei è veramente dalla nostra parte».
«Ripeto, al telefono non le dirò nulla. Deve fidarsi, seguire il suo istinto e il suo cuore. Nel baule della vostra auto c’è una piantina con un luogo cerchiato in rosso. Ci vediamo lì tra un’ora».
«Veramente avevamo altri programmi. Comunque va bene. Come faccio a riconoscerla? Lei è un prete?»
«Sì, sono un prete. Non si preoccupi, la avvicinerò io. Adesso spenga il cellulare e se ne liberi. A presto».
Mancuso fece un resoconto della telefonata a Valentina, scese dall’auto e aprì il baule. Qualcuno, mentre loro erano all’interno del residence, lo aveva forzato senza difficoltà e aveva lasciato al suo interno una piantina, esattamente come gli aveva detto il prete al telefono. La aprirono, distendendola sul cofano dell’auto e videro il luogo cerchiato in rosso. Mancuso e Valentina rimasero attoniti. La piantina era quella dei Musei Vaticani, minuziosamente dettagliati. Il luogo cerchiato in rosso era la Cappella Sistina.
² ENPA: Ente Nazionale Protezione Animali
³ Aidaa: Associazione italiana difesa animali e ambiente
126.
Un uomo vestito da prete era in attesa all’interno della Cappella Sistina. Una fiumana multietnica di visitatori osservava ammirata e incantata le bellezze di una delle mete turistiche più conosciute al mondo. Erano gentilmente pregati dalle guide di soffermarsi il minor tempo possibile per evitare ingorghi e rallentamenti. Pochi secondi a disposizione che bastavano a malapena per osservare rapidamente i capolavori contenuti all’interno della Cappella.
A un tratto l’uomo intravide le due persone che stava aspettando. Fece un cenno con il capo a un addetto alla sicurezza che, prima, controllò una fotografia che aveva in mano, poi le localizzò e si diresse rapidamente verso di loro.
Ci fu un breve dialogo, l’addetto indicò ai due visitatori con l’indice destro l’uomo in attesa e poi si allontanò.
Mancuso e Valentina in pochi secondi raggiunsero l’uomo indicato, il quale li salutò: «Buongiorno, Capitano e anche a lei, Tenente. Seguitemi, andiamo in una sala chiusa al pubblico all’esterno della Cappella».
Il terzetto camminando frettolosamente imboccò l’uscita e voltò a sinistra. Dopo una decina di minuti entrarono in una sala senza indicazioni turistiche, ma non per questo meno splendida delle altre.
Mancuso osservò attentamente l’uomo che aveva di fronte vestito con gli abiti da prete. Era alto, massiccio fisicamente, ma soprattutto aveva un’espressione sul volto che Johnny conosceva molto bene, perché del tutto simile a quella che lui
aveva visto quotidianamente sui volti dei suoi uomini, quando operava nei ROS.
«Lei non è un prete» disse Mancuso. «Allora chi è?»
«Capitano, lei è un uomo molto attento. Ma questo lo sapevo già. Sì, non sono un prete. Sono un Ufficiale dei Servizi Segreti del Vaticano».
I due Carabinieri si guardarono perplessi.
Mancuso era a conoscenza dell’esistenza di un gruppo di 007 a servizio della Santa Chiesa, uomini ben addestrati che nel corso dei secoli non avevano mai smesso di raccogliere informazioni, costruire dossier e mantenere contatti con i potenti della terra, ben protetti all’ombra della Cupola di San Pietro, ma non era mai entrato personalmente in contatto con nessuno di loro.
Il finto prete sorrise: «Capisco il vostro stupore. Non tutti sono a conoscenza del fatto che anche la Città del Vaticano abbia una sua Intelligence, ma a noi sta bene così. Non siamo alla ricerca di notorietà, preferiamo agire nell’ombra. Nelle nostre file abbiamo reclutato personale altamente specializzato nell’uso delle moderne tecnologie, abilissimo nel monitorare, ripulire e manipolare i dati reperibili sul web, oscurando, in tempo reale, le informazioni scomode o errate sulla Santa Sede. Già nel millecinquecento esisteva un gruppo di cavalieri che erano legati dal motto “Per la croce e con la spada”. Erano stati creati dall’inquisitore Pio V per proteggere la cristianità dagli scismi e detronizzare gli oppositori. Col are dei secoli si sono ramificati in vari circoli e fazioni, fino al loro formale scioglimento avvenuto nel 1921 ad opera di Benedetto XV. In realtà, questo nucleo originario, è via via diventato una potente struttura paravaticana che, in silenzio e nell’ombra, ordendo trame e depistaggi, ha sventato complotti sfuggiti alla Cia e al Mossad e dopo l’11 settembre, ha preservato la città eterna da Al Qaeda. Da sempre ed in particolare dopo quell’attentato,
dobbiamo però operare con standard di sicurezza elevatissimi. Per questo ho scelto questo luogo, affollato e gremito di uomini di Chiesa. E’ da più di un anno che mi sono infiltrato nella Setta del Pàntaclo, la più antica e potente setta satanica. Siamo venuti a conoscenza del ritrovamento del Sacro Scrigno contenente la Sacra Profezia e i pugnali Paternoster da utilizzare nei sacrifici umani. Non sapevamo di preciso quando avrebbe avuto inizio il rituale previsto nella Profezia. Ho atteso con pazienza, cercando di conquistare la loro fiducia anche con atti totalmente contrari alla mia natura. Poi quando abbiamo appreso del vostro ritrovamento del cadavere della ragazza a Cairo Montenotte, abbiamo capito. Il rituale era iniziato».
Mancuso era in totale confusione mentale. Continuava a guardare Valentina come se stesse cercando un aiuto, una sponda, ma anche la sua espressione era quella di chi non ha completamente compreso ciò che gli è stato appena detto.
«Mi scusi… come devo chiamarla?» chiese Mancuso.
«Mi chiami Gabriele, è lo stesso nome che avevo dato a Livia».
«Gabriele, mi ascolti bene. Ritengo che, se ha voluto incontraci, l’abbia fatto per unire le nostre forze per combattere il comune nemico. Per poterlo fare, però, noi dobbiamo essere a conoscenza di tutti i dettagli di questa storia pazzesca. Insomma, non mi basta che lei mi spari quattro cazzate come La Sacra Profezia, Il Sacro Scrigno o la Sacra Minchia per pensare che io e la mia collega ci mettiamo in azione con uno schiocco di dita. Degli affari vostri interni, a me non frega un cazzo. Noi stiamo indagando sulla morte di due giovani ragazze uccise in Italia e sul probabile omicidio di altre tre, in ossequio a un rituale satanico attualmente in corso. In più c’è stata anche l’uccisione di Livia. Il nostro obiettivo è di salvare il maggior numero di ragazze. Se poi le due indagini collimano e si sovrappongono, allora il nostro sodalizio non solo sarà utile ma necessario».
Gabriele accusò il colpo e replicò: «Ha ragione, Capitano. Dobbiamo partire dall’inizio, per rendervi il quadro della situazione più chiaro e comprensibile.
Un paio di secoli fa, su iniziativa di alcuni sacerdoti scomunicati ed esponenti laici di svariata provenienza, fu fondata in Val Bormida la Setta del Pàntaclo, un’organizzazione blasfema e apertamente devota e adoratrice del demonio. Perché in Val Bormida? Perché tra i satanisti correva voce che quando avrebbe avuto inizio la Sacra Profezia, ci sarebbe stato un Pontefice straniero, acerrimo nemico del demonio, ma con delle discendenze in quella località. Infatti, la nonna paterna di Papa sco, Rosa, era originaria del Comune di Piana Crixia in provincia di Savona e situato proprio in quella valle.
La scelta di quel luogo doveva quindi essere un vero e proprio oltraggio nei confronti del futuro Papa.
Le messe nere pare si tenessero nelle località indicate nella Mappa che, unite, formavano un perfetto pentacolo satanico. Questo avete avuto modo di appurarlo voi stessi, essendo entrati in possesso di quella mappa.
Ma il vero motivo per il quale nacque la setta, era una leggenda che si tramandava già da diverso tempo, riguardo all’esistenza di un Sacro Scrigno contenente una Sacra Profezia, scritta dallo stesso Satana in ebraico antico, che, se si fosse avverata, avrebbe portato al totale sovvertimento del Credo Religioso. Tutte le religioni esistenti sarebbero state annientate e ne sarebbe rimasta soltanto una: quella adoratrice di Satana, che sarebbe diventato l’unico vero Dio in tutto il mondo. Il Male avrebbe distrutto il Bene e soltanto gli adepti di Satana avrebbero avuto gloria, denaro e onore. Tutti gli altri uomini e donne sarebbero stati ridotti allo stato della schiavitù.
Con il ar del tempo le fila degli adepti di questa setta si sono ingrossate, senza però attirare attenzione e operando nella massima segretezza. A loro non interessava la notorietà compiendo gesti eclatanti che avrebbero scatenato i mass media e compromesso il loro vero e unico obiettivo: ritrovare la Sacra Profezia. Noi abbiamo monitorato sin dal dopoguerra l’attività segreta di questa cellula satanica. Abbiamo avuto modo di appurare l’ingresso nella setta di personaggi via via più influenti: esponenti di spicco del clero, ufficiali di grado elevato delle Forze Armate italiane, politici di varia provenienza, magistrati e altri ancora. Tutti devoti a Satana e tutti in attesa che si avverasse il miracolo: il ritrovamento del sacro documento».
Mancuso e Valentina stavano ascoltando con molto interesse il racconto dell’Ufficiale, seppur sul loro volto si potesse leggere facilmente un malcelato scetticismo.
Gabriele se ne accorse subito. «Capisco la vostra incredulità. D’altra parte c’era la stessa incredulità intorno al Terzo Segreto di Fatima, che dopo decenni di leggende sul suo contenuto, fu poi svelato nel 2000 per volere di Papa Giovanni Paolo II. Noi non crediamo alle favole, ma eravamo fortemente preoccupati del fenomeno che si stava diffondendo all’interno della setta. Gli adepti crescevano a dismisura, la loro rete cominciava ad allargarsi pericolosamente andando a occupare posizioni di rilievo sia all’interno della Chiesa sia al suo esterno. Avevamo il sospetto che alcuni Cardinali avessero incominciato a farne parte e noi eravamo terrorizzati dall’idea che, dopo la rinuncia di Papa Benedetto XVI, potessero addirittura eleggere un loro Pontefice. Fortunatamente ciò non è avvenuto, ma non potevamo più aspettare. Da alcune fonti attendibili, abbiamo avuto la conferma che il Sacro Scrigno era stato ritrovato già da molto tempo e allora abbiamo dato il via all’Operazione Gomorra. Io mi sono infiltrato nella setta e tuttora sto cercando di scalare la rigida gerarchia che vige al loro interno per arrivare ai vertici ed eliminarli. Purtroppo però l’organizzazione è costituita a compartimenti stagni. Ogni adepto conosce solo alcuni degli altri satanisti e con loro partecipa alle messe nere. Il risultato è che un adepto possa frequentarne un altro senza essere a conoscenza della sua appartenenza alla setta».
Gabriele prese fiato e si preparò al fuoco di fila di domande dei due Carabinieri.
Cominciò Valentina: «Quando è stato scoperto lo scrigno e dove?»
«So che vi stupirò con la mia risposta. Il Sacro Scrigno è stato ritrovato dopo la seconda guerra mondiale presso il Monastero di Casteldelfino. A ritrovarlo fu l’Abate del Monastero, tra le rovine del museo. Lo consegnò alla setta che per ricompensa gli affidò la custodia della Mappa».
Le parole di Gabriele effettivamente sortirono l’effetto previsto. Valentina continuò: «Dunque l’Abate era un appartenente alla setta e fu complice del rapimento della monaca uccisa a Cairo?».
«E’ proprio così, ma commise un errore imperdonabile. Incominciò a farsi venire dei sensi di colpa e per questo è stato eliminato».
«Signor Gabriele, o come cazzo si chiama» Valentina incominciò a intravedere una realtà atroce. «Lei sa molte cose, forse troppe. Ho come la sensazione che voi siate perfettamente a conoscenza, grazie alla sua infiltrazione nella setta, del rituale satanico scatenato dal ritrovamento della Sacra Profezia. In estrema sintesi io temo che voi conosciate quali siano le cinque ragazze da sacrificare. Mi dica per favore che non è così».
L’Ufficiale dei Servizi Segreti rimase in silenzio.
«Cazzo!» inveì Mancuso. «Ma che merde siete? Avete lasciato uccidere due ragazze più Livia senza muovere un dito?»
«Signori, voi non capite! Non possiamo interrompere il rituale perché non abbiamo sufficienti informazioni per arrivare alla testa della piovra! Se lo interrompessimo ora, arresteremmo soltanto dei pesci piccoli, ma quelli grossi rimarrebbero fuori dalla rete. Ho bisogno ancora di tempo, devo lavorare senza dare nell’occhio, altrimenti la mia copertura rischia di saltare. E se salto io, non saremo più in grado di controllare gli eventi. Lo so, moralmente è deplorevole non fermare la mano degli assassini, pur potendolo fare, ma non abbiamo scelta. La sicurezza del Santo Padre e della Chiesa Cattolica viene prima di tutto. Dobbiamo essere in grado di distinguere il bene dal male e le erbacce vanno estirpate. Dobbiamo capire chi è a capo di questa setta e quali siano gli esponenti a lui vicini. Magari in questo momento sono i più fedeli collaboratori del Pontefice. Questo non possiamo permetterlo».
Intervenne Mancuso che chiese quasi con rassegnazione: «Quante ragazze sono state uccise sinora?»
«Tre» rispose Gabriele. «Angela, Sara, una ragazza orfana rapita da una comunità religiosa e Rebecca, l’amica di Livia. I sacrifici avvengono ogni cinque giorni a partire dal 25 ottobre 2014, il giorno dell’uccisione di Angela».
«Credo sia perfettamente inutile che io le chieda i nomi delle altre due ragazze che saranno sacrificate e i luoghi dove avverranno le uccisioni».
«Sì, Capitano, mi dispiace, sono informazioni che non posso darle».
A Valentina quasi tremava la voce: «Lei ha assistito a uno o più di questi sacrifici?».
L’Ufficiale non rispose.
«Il suo silenzio lo interpreto come un’affermazione. Francamente non riesco a capacitarmi di come possa un uomo, servitore del proprio Stato, rendersi complice di una serie di omicidi commessi per giunta con l’aggravante della crudeltà. C’è una cosa però che non capisco. Perché ci ha mandato Livia?»
«Livia ho cercato realmente di salvarla. Come avete appurato anche voi, la setta non lascia in vita i parenti e gli amici intimi delle prescelte. E’ accaduto per Angela, non ce n’è stato bisogno per Sara. Nel caso di Rebecca, in effetti, sono rimasto un po’ stupito del fatto che la sua cara amica sia stata risparmiata per tutto questo tempo. Poi lei si è fatta plagiare da una escort che l’ha fatta partecipare alla festa di Villa Testaccio e lì ha firmato la sua condanna a morte definitiva. L’ho mandata da voi con la speranza che potesse finire in un qualche programma di protezione, ma purtroppo è stato inutile. Temevo che fosse sorvegliata, l’hanno seguita ed eliminata».
A questo punto intervenne Mancuso: «Chi è il giovane prete con gli occhi azzurri che ha ucciso Livia?».
«Noi, in codice, lo chiamiamo Lucifero. Neanche lui è un prete, ma un exmilitare. Ha militato per diversi anni nei reparti speciali italiani, partecipando a numerose missioni segrete in Iraq e Afghanistan, poi è diventato un mercenario. E’ un vero professionista, lo potremmo definire il braccio armato della setta. E’ un uomo spietato, completamente asservito alla causa, ma è pur sempre un mercenario. Non abbiamo ancora cercato di eliminarlo perché vogliamo tentare di strapparlo alla setta, ovviamente con una lauta ricompensa. Se lui asse
dalla nostra parte, sarebbe in grado di fornirci informazioni preziosissime. Siamo sicuri che conosca alcuni esponenti del vertice della setta».
Valentina era disgustata: «I vostri metodi di gestione di questo schifo mi fanno veramente rabbrividire. Lasciate che delle ragazze innocenti siano uccise, non fermate un killer che ammazza senza pietà. Quanto tempo ancora dovrà durare questo vostro attendismo?».
«Gliel’ho detto, Tenente. Fino a quando io non riuscirò a dare un nome e cognome ai Gran Sacerdoti della setta. Mi creda, io non provo alcun piacere nello svolgere questa missione.
Da quando lavoro nei Servizi Segreti, questa è sicuramente l’operazione più odiosa che io abbia mai svolto, ma è anche la più pericolosa e temibile mai ordita per l’esistenza stessa della Chiesa Cattolica».
«Quanti potrebbero essere questi Gran Sacerdoti?»
«Purtroppo non lo so. Nessuna lo sa, anche all’interno della setta. La loro identità è top secret. Si mescolano con gli altri adepti senza rivelarsi. Potrebbero essere chiunque. Mi è giunta voce che uno di loro abbia partecipato al sacrificio di Sara, dove avrebbe addirittura declamato la Sacra Profezia. Ma sono appunto voci, nessuno si espone più di tanto ed io non posso fare troppe domande per non attirare l’attenzione e creare sospetti».
Mancuso prese la parola: «Il Papa è a conoscenza dell’esistenza di questa setta?».
«Assolutamente sì. Dopo aver avuto la conferma del ritrovamento della Sacra Profezia, il Pontefice è stato immediatamente informato. E’ lo stesso Papa che ha autorizzato l’Operazione».
Ancora qualche domanda, disse Valentina: «Come mai dopo Angela, gli altri corpi non sono stati ritrovati? Sara noi l’abbiamo vista con i nostri occhi, ma non è uscita alcuna notizia sui mass media. Perché vengono usati i pugnali Paternoster per i sacrifici e cosa significa la frase “Mors purificatio tua erit”?».
«Avete trovato il primo cadavere perché la sorte ha voluto che quel cacciatore si trovasse del tutto casualmente sul luogo del sacrificio. Gli altri due li abbiamo rimossi noi».
«Voi? E per quale motivo?»
«Già il ritrovamento del primo cadavere aveva suscitato molto clamore sui mass media, figuratevi cosa sarebbe successo se ne fossero stati trovati altri».
«E cosa hanno pensato quelli della setta? Magari il loro obiettivo era proprio quello di avere le prime pagine dei giornali».
«Non credo proprio. I luoghi dove sono avvenute le uccisioni sono molto isolati e, ripeto, soltanto il caso avrebbe potuto condurre qualcuno al ritrovamento dei corpi. Comunque, non si sono minimamente preoccupati degli altri due cadaveri. Li hanno abbandonati dopo il rituale. Forse non sanno neppure che sono stati rimossi».
«E per quanto riguarda il pugnale?»
«In questo caso la risposta è molto semplice. Stanno usando quei pugnali in spregio alla cristianità. Il loro nome, infatti, Paternoster, è identico a quello della più conosciuta e diffusa preghiera dei credenti: il Padre Nostro. Quello che per tutti i cristiani è il simbolo della loro fede, la preghiera che fu insegnata da Gesù ai suoi apostoli, per loro invece è uno strumento di odio e di morte. L’ultimo esemplare esistente è realmente andato distrutto durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale, ma cinque erano stati segretamente nascosti nel Sacro Scrigno per essere usati durante i sacrifici. Sono stato io, Capitano, ad inviarle sul cellulare il messaggio relativo all’autenticità dei pugnali. Volevo agevolarla nell’indagine, perché i vostri esperti avrebbero impiegato sicuramente un bel po’ di tempo a datare il reperto conficcato nel corpo di Angela. Tra l’altro un reperto mai visto prima.
Per quanto riguarda la frase “Mors purificatio tua erit” incisa sui pugnali e pronunciata solennemente durante il sacrificio, fa parte del rituale ed è ispirata dalla Bibbia Satanica. Per la setta tutti i non credenti potranno ottenere la purificazione della loro anima soltanto con la morte. Infine avrete sicuramente notato che sull’impugnatura del pugnale è rappresentato un simbolo: il pentacolo con la punta rivolta verso il basso. Un chiaro e inequivocabile richiamo alla cultura e al simbolismo satanista».
Mancuso aveva un’ultima domanda da porre: «Chi ha lasciato il messaggio a me rivolto nelle mani della seconda vittima?».
«Speravo che non mi fe questa domanda. Per me è molto difficile risponderle, perché di certo riaprirò una ferita probabilmente mai rimarginata. A lasciarlo è stato il Generale Franco Maria De Agostini, Comandante del ROS, colui che ha deciso il suo trasferimento dopo aver sabotato l’operazione di
cattura di Messina Denaro.
Il Generale è un sacerdote della setta». ⁴
⁴ NdA: La gerarchia satanista prevede i seguenti gradi: Primo grado - satanista Secondo grado - stregone/strega Terzo grado - sacerdote/sacerdotessa Quarto grado - maestro/maestra Quinto grado - mago/maga Capo della Chiesa - gran sacerdote/gran sacerdotessa
127.
Mancuso era sconvolto dalla notizia appena ricevuta, ma una domanda aleggiava ancora nell’aria. Ci pensò Valentina a porla: «Lei ha partecipato alle feste?».
«Sì» rispose Gabriele senza esitazioni.
«Come ha potuto, Cristo Santo?»
«Ho dovuto».
«Lei mi fa schifo».
«Mi dispiace, Tenente. Mi permetta però di farle presente che lei non ha mai partecipato a delle missioni sotto copertura. Se vuoi risultare credibile, devi agire e comportarti come loro. Ripeto, è del tutto insignificante che ti piaccia o no. Devi farlo e basta».
Mancuso era rimasto a lungo in silenzio, come se il suo cervello stesse elaborando attentamente il contenuto di quella lunga conversazione. Alla fine trasse le sue conclusioni: «Ascolta, amico. Ti siamo grati per tutte le informazioni che ci hai fornito, che però sostanzialmente non ci servono a un cazzo per identificare gli assassini delle ragazze. Hai voluto incontrarci, ma ho come l’impressione che il reale motivo tu non l’abbia ancora detto. Ad esempio sul contenuto della Profezia o sul significato dei numeri non hai proferito una sola parola. Sbaglio, forse?».
«Lei, Capitano è esattamente come me lo aspettavo. Bada al sodo. Sì, è vero non vi ho detto nulla sulla Profezia perché non sono autorizzato a parlarvene e tanto meno sui numeri, che sono alla base della Profezia stessa. Mi dispiace, queste sono informazioni riservate. Il motivo per il quale ho voluto incontrarvi è molto semplice. Fintanto è stato possibile, vi abbiamo anche aiutato. Ora vi chiediamo cortesemente di farvi da parte. Questa è una faccenda interna della Città del Vaticano, i vostri superiori sono stati informati e hanno convenuto con noi che d’ora in avanti le indagini sulla setta sono solo ed esclusivamente di nostra competenza. Quindi grazie del vostro contributo, ma è ora che torniate a casa». Le ultime parole furono dette a muso duro.
Mancuso non fece una piega. «Sentimi, stronzo. Gli omicidi sono avvenuti in territorio italiano e quindi noi siamo competenti, eccome. Se pensate di tagliarci fuori adesso, vi sbagliate di grosso. Inoltre, di quello che hanno convenuto i nostri superiori, non me ne frega un cazzo. In soldoni, noi andiamo avanti, con o senza la vostra benedizione. E’ chiaro il concetto?»
L’Ufficiale assunse un’espressione glaciale. «Come volete voi. Sappiate però, che non godrete da parte nostra di nessun o né protezione. E se doveste essere un ostacolo…» lasciò la frase in sospeso.
«Il tuo linguaggio mafioso lo conosco bene. Non mi ha intimorito quando ero a Palermo, non mi intimorisce ora. Bene, direi che l’incontro è finito. Andiamo, Tenente».
Gabriele, rimasto solo, fissò per alcuni secondi la porta della stanza chiusa.
Poi sentì un leggero rumore alle sue spalle. Da un nascondiglio segreto uscì il
giovane prete con gli occhi azzurri.
«Che cosa vuole che faccia?» chiese.
«Per ora nulla. Ammazzare due Ufficiali dei Carabinieri solleverebbe un polverone di cui non abbiamo bisogno ora. E poi abbiamo delle comode alternative. Mi basta fare un paio di telefonate».
«Perché gli ha fatto il nome del Generale?»
«Perché voglio il Capitano Mancuso cattivo, pieno di rancore e di odio. Se si agisce d’impulso, si commettono sicuramente degli errori, anche se sei un militare molto ben addestrato. Il nostro Carabiniere ci risparmierà del lavoro, tanto il Generale non potrebbe essere di alcun aiuto per arrivare alla Cupola della setta.
«E se mi chiedessero loro di uccidere i due Ufficiali?»
«Dovrai ubbidire. Tu ufficialmente sei ancora un loro uomo. Adesso, però, che sei ato dalla nostra parte dovrai stare molto attento. Loro hanno occhi e orecchie dappertutto, non scordartelo».
«Quando mi trasferirete i cinque milioni di euro pattuiti?»
«Stai tranquillo. Dobbiamo attingere il denaro da un conto segreto presso lo
IOR. Entro un paio di giorni sarà versato in contanti sul tuo conto alle Cayman. Toglimi soltanto una curiosità. Chi ti ha ordinato di non fare del male alla Cortesi?»
«Il giovane Cardinale che è il mio contatto all’interno della setta e che mi fa partecipare alle feste».
«Come si chiama?»
«Conosco solo il suo nome di battesimo: Riccardo».
128.
Johnny e Valentina si erano rapidamente allontanati dal Vaticano. Alla loro uscita erano stati colti da un temporale improvviso, nonostante fosse autunno inoltrato. La pioggia cadde fitta soltanto per pochi minuti, sufficienti, però, per creare disagio alla circolazione e per provocare innumerevoli pozze e pantani sia sulle strade sia sui marciapiedi.
Si tenevano per mano in silenzio e eggiavano lentamente per le vie del centro città. Valentina capì che, per la prima volta da quando l’aveva conosciuto, Jonny era in difficoltà. Lui, sempre sicuro e pronto a prendere qualsiasi decisione in un lampo, adesso non sapeva cosa fare. E forse era proprio lei la causa di quell’insicurezza. Si sedettero sugli scalini di una chiesa.
«Cosa ti piace di me?» chiese lei, senza distogliere lo sguardo da una pozzanghera che si allargava vicino alle punte delle loro scarpe, lucida e ferma come uno specchio poiché aveva appena smesso di piovere.
«Quanto tempo ho?» sorrise lui guardandola con la coda dell’occhio, mentre le loro spalle si sfioravano.
Non sapevano bene in quale punto della città si trovassero in quel momento. Intorno a loro c’erano edifici vetusti e austeri, resi ancora più scuri dal grigiore del cielo che accennava appena a schiarirsi dopo il temporale. Davanti a loro le nubi si riflettevano in una pozza d’acqua e la luce radente all’ora del tramonto, dava alla superficie di quel piccolo laghetto urbano un aspetto quasi romantico.
«Mi piace il suono della tua voce, mi piacciono i tuoi silenzi, mi piace quando mi capisci senza bisogno che io parli…».
Visibilmente imbarazzato, lui parlava senza guardarla negli occhi, ma con lo sguardo rivolto verso il basso.
Apparentemente soddisfatta dalla risposta, lei gli si fece più vicina, quasi a cercare un contatto col calore del suo corpo. Entrambi erano bagnati dalla recente pioggia e ogni tanto un brivido le attraversava la pelle come una scossa elettrica.
Mentre fissavano la superficie della pozzanghera, assorti ognuno nelle proprie riflessioni, lei si scosse ed eccitata disse: «Guarda!».
Lui, riportato a terra dal suono della sua voce, non capì subito dove guardare, ma seguendo i suoi occhi alla fine lo vide: un bellissimo arcobaleno si rifletteva nell’acqua, un tocco di colore in mezzo al grigio dell’asfalto bagnato che sembrava un piccolo miracolo, messo lì apposta per loro. Non pensarono nemmeno ad alzare lo sguardo per vedere l’originale di quel magnifico riflesso, in quel momento quello era il loro lago in miniatura e il piccolo arcobaleno che vi campeggiava brillante era lì solo per loro e per nessun altro.
Dopo averlo fissato per un po’, come ad un tacito segnale, entrambi girarono il capo e si guardarono negli occhi, vedendovi riflessi multicolori e nella luce ormai scarsa del crepuscolo si abbandonarono l’una sulle labbra dell’altro, in un abbraccio senza fine.
Dopo alcuni minuti Valentina si staccò e guardò intensamente Johnny negli
occhi. «Io so che cosa ti tormenta» disse.
Lui rispose: «Che cosa mi tormenta?».
«Non fare lo scemo, sto parlando seriamente. Tu hai paura per me, per la mia sicurezza, ma devi ricordarti che sono anch’io un Ufficiale dei Carabinieri. Non sono un’operativa, non vado tutti i giorni al poligono di tiro e non pratico nessuna arte marziale, ma sono pur sempre una servitrice dello Stato. Il pericolo fa parte del mio lavoro esattamente come lo fa per il tuo. Dimmi soltanto che cosa devo fare, come devo agire ed io lo farò».
Johnny era ammirato dalle parole della sua Valentina. «Vieni qua» le disse. La abbracciò nuovamente con forza, facendole quasi male. «Sì, hai ragione. Ho paura per te e per la tua incolumità. Abbiamo tutti contro. La setta satanica che ci ha sguinzagliato contro un killer assetato di sangue, i Servizi Segreti del Vaticano, la nostra stessa Arma, che ci ha tradito e abbandonato al nostro destino. Abbiamo pochi soldi in contanti, non abbiamo cambi, abbiamo solo le nostre pistole d’ordinanza con poche munizioni, ma soprattutto non abbiamo tracce, non abbiamo indizi, non abbiamo un cazzo di niente! Che cosa possiamo fare noi due da soli in queste condizioni? Niente! Tanto vale arrendersi e lasciar perdere. Forse, almeno, riusciremmo a salvare il nostro posto di lavoro».
Valentina lo scrollò vigorosamente. «Ehi, Capitano! Queste parole non possono uscire dalla stessa bocca di quel Johnny Mancuso che ho imparato a conoscere in questi giorni. Noi due siamo una squadra, abbiamo una missione ben precisa e dobbiamo tentare di portarla a termine. Non è vero che non abbiamo nulla. Ti ricordo che dobbiamo ancora andare a Villa Testaccio. Non ti sembra strano che Gabriele ci abbia chiamato proprio mentre stavamo andando in quel luogo, facendoci cambiare tragitto? E poi ora abbiamo anche il nome del tuo Generale. Ti pare poco? Adesso ci organizziamo per bene. Andiamo a prelevare un bel po’ di denaro dalle nostre banche. Lasceremo delle tracce, ma tanto tutti sanno che siamo a Roma. Rubiamo, sì hai capito bene, rubiamo un’auto, perché quella che
hai noleggiato potrebbe avere il GPS. Poi andiamo ad acquistarci tutto quello che ci serve e ci troviamo un posticino tranquillo, dove pianificare le nostre mosse. Ti pare accettabile come piano?»
Mancuso sorrise e la baciò teneramente sulle labbra. «Come ho fatto a vivere tutta la mia vita senza di te! Sei una donna speciale, dolce ma allo stesso tempo decisa e determinata. E non hai paura di niente. Saresti stata un’ottima Ufficiale nei ROS, invece di trastullarti tra provette e microscopi. Hai ragione. Il mio è stato un momento di debolezza. Cerca di capirmi, io sono sempre stato un lupo solitario, qui in Italia non ho nessuno, nessuna donna mi ha mai atteso in piedi alle tre o alle quattro di mattina per accertarsi che tornassi vivo da una missione. Questa situazione per certi versi mi faceva lavorare sereno al contrario di molti miei colleghi che invece temevano eventuali vendette della mafia ai danni dei loro familiari più intimi. Devo ammettere che un po’ li invidiavo. Avevano una vita al di fuori del lavoro, io no. Per questo motivo, quando c’era da compiere qualche missione più rischiosa, io mi offrivo sempre volontario. Volevo evitare che una famiglia potesse spezzarsi. E la morte del mio collega avvenuta a seguito di un mio ordine di attacco, me la porterò sulla coscienza finché campo. Insomma, Valentina, non sono abituato a compiere delle operazioni speciali dovendo pensare anche alla vita della donna che amo, che tra l’altro è anche l’unica componente della mia squadra. Dio, che casino…».
«E’ dal primo momento che ti ho visto, che ho capito che dietro alla scorza di uomo duro e tutto d’un pezzo, si celava un animo dolce e tenero. Tu hai una smisurata voglia di amare che è dentro di te e che fa fatica ad emergere come se fosse compressa inconsciamente da mani invisibili. Lasciati andare, Johnny, lasciati andare! Ama, Johnny, ama con tutta la forza che c’è dentro il tuo cuore! Forse io non sarò la donna della tua vita, ma tu hai un disperato bisogno di amare e di essere amato, come ce l’ho anch’io. E io ti amo, Johnny, cazzo se ti amo! E non permetterò a nessuno di farti del male, non permetterò a nessuno di farti soffrire come ho sofferto io quando ero una bambina e sono stata stuprata da un prete pedofilo bastardo che ha ripetutamente abusato di me, del mio corpo, del mio animo, del mio essere. In tutti questi anni ho avuto una grande difficoltà a relazionarmi con un uomo, la ferita del mio ato non si è mai rimarginata. Finalmente adesso ho incontrato te, il destino ci ha fatto incontrare ed io sento
che di te mi posso fidare, che sei l’uomo giusto capace di cancellare i miei ricordi e di farmi iniziare una seconda vita. Amami, Johnny, amami come ti amo io e nulla potrà fermarci».
Johnny, commosso da quelle parole, asciugò dolcemente con le mani le lacrime che scendevano sul viso di Valentina, le diede ripetuti baci sulla fronte e disse: «Mi dispiace da morire per quello che ti è successo. Quando ne avrai voglia, vorrei che me ne parlassi, credo ti farebbe bene. Ora stai tranquilla: nessuno ti farà più del male, amore mio, nessuno».
129.
Mancuso e Valentina avevano trovato una sistemazione tranquilla a Trastevere. Un’anziana signora affittava un paio di camere all’interno del suo grazioso e ampio appartamento. Loro avevano preso una matrimoniale, arredata con cura con dei mobili vetusti, ma perfettamente restaurati.
Avevano fatto un’abbondante colazione ed erano usciti per schiarirsi le idee e decidere il da farsi. Nonostante fosse novembre, il sole splendeva e la temperatura era mite. Stavano eggiando in Piazza di Spagna, quando una Alfa 156 dei Carabinieri transitò lentamente. Dopo pochi metri si fermò e fece retromarcia arrestandosi proprio davanti a loro. Il Carabiniere seduto accanto al posto di guida scese dall’auto con una fotografia in mano. Fece il saluto militare e disse: «Appuntato Stirano! Signor Capitano, Signor Tenente, dovreste venire con noi al Comando Generale dell’Arma».
Mancuso rimase un attimo stordito da quella richiesta. «Al Comando Generale? E per quale motivo?»
L’Appuntato, visibilmente imbarazzato, rispose: «Mi spiace, Signor Capitano, ma non siamo al corrente delle motivazioni che hanno indotto il Comando Generale a diramare questa direttiva. Ci hanno soltanto trasmesso le vostre fotografie per il riconoscimento, null’altro».
Mancuso e Valentina salirono sui sedili posteriori della Gazzella senza fare altre domande. L’auto ripartì sgommando, dirigendosi a sirene spiegate verso la Caserma Hazon, sede del Comando Generale.
Una volta giunti, si presentarono all’Ufficiale di Guardia che li condusse immediatamente in una saletta al primo piano, li salutò e si congedò senza proferire una sola parola. La stanza era piuttosto disadorna. Aveva un tavolo e delle sedie di metallo ed era illuminata da una grossa lampada al neon. L’unico tocco di colore era rappresentato dai calendari ufficiali dell’Arma, appesi alle pareti in ordine di anno. Se ci fosse stato uno specchio spia, quella stanza sarebbe potuta tranquillamente essere considerata una sala per gli interrogatori.
«Dove cazzo ci hanno portati?» esclamò Mancuso, la cui pazienza cominciava ad esaurirsi. La sensazione di essere trattato come un criminale qualunque, lo stava mandando in bestia. Valentina se ne accorse e cercò di tranquillizzarlo: «Non ti agitare Johnny, stai calmo. Forse vogliono soltanto “farcela pagare” per come abbiamo agito negli ultimi giorni. Non siamo dei delinquenti, se i nostri superiori ci ritenessero tali, non esiterei un solo attimo a restituire il distintivo».
Finalmente, dopo oltre mezzora, la porta si aprì ed entrò nella stanza un alto ufficiale dell’Arma. Il suo approccio iniziale fu molto gentile. Al saluto militare di Mancuso e Valentina, rispose: «Comodi, comodi, signori». Si sedette ed invitò i due ufficiali a far la stessa cosa. Il primo da una parte e gli altri due di fronte, proprio come in un interrogatorio.
Il Colonnello posò sul tavolo un corposo dossier contenuto in un faldone.
Con la coda dell’occhio, Mancuso si accorse della presenza, nell’angolo in alto alla loro destra, di una piccola telecamera a circuito chiuso. Forse qualcuno li stava osservando.
«Buongiorno» disse il nuovo entrato. «Sono il Colonnello Claudio de La Tour». Non specificò nulla sulle sue attribuzioni e sulla sua appartenenza nell’ambito dell’Arma e continuò: «Abbiamo voluto incontrarvi e, per inciso, non è stato per
niente facile rintracciarvi, per capire le motivazioni del vostro comportamento nell’ultimo periodo. Per quanto ne sappiamo, tutto è cominciato a seguito del ritrovamento del cadavere di una ragazza uccisa nel Comune di Cairo Montenotte. Lei, Capitano, è stato coinvolto perché tale località è inclusa nella zona di competenza del suo Comando, mentre lei, Tenente, è intervenuta con la sua squadra, in quanto è stato richiesto l’intervento del RIS di Parma. Bene, da quel momento il vostro comportamento è risultato, come dire, anomalo. Avete ancora fatto delle apparizioni, prima al Monastero di Casteldelfino, dove è stato ucciso l’Abate, poi ad Arezzo, dove avete fatto riesumare i corpi dei genitori della ragazza uccisa e poi alla Stazione di Cairo. Dopodiché siete sostanzialmente scomparsi, non avete più dato informazioni sul vostro operato né ai vostri superiori né tantomeno ai magistrati che stanno seguendo le indagini su queste morti.
Ma questo è nulla, possiamo ancora comprenderlo, probabilmente la vostra attività investigativa vi ha costretto alla più totale riservatezza. Quello però che è inconcepibile è che voi siate venuti a Roma, non si sa per quale motivo e abbiate soggiornato in una stanza dell’Hotel Cairoli, dove è stata ammazzata una donna. Non vi accuso certo dell’omicidio di quella poveretta, anche perché la perizia balistica ha appurato che il proiettile mortale è stato sparato da un edificio distante centocinquanta metri in linea d’aria dalla vostra stanza, ma voi siete scappati. Scappati!» sottolineò a voce alta. «Come avete potuto? Due ufficiali dei Carabinieri che si allontanano volontariamente dalla scena di un crimine, senza avvisare i propri colleghi e senza minimamente seguire le procedure previste in questi casi. E’ un’offesa alla divisa che portate e al grado che vi è stato riconosciuto. E poi, cosa ci facevano nella vostra stanza due valigie e un armadio colmi di abiti costosissimi? A cosa vi servivano? Chi ve li ha procurati e con quali soldi? Cosa poi avete fatto negli ultimi giorni? A che punto sono le vostre indagini, ammesso che il motivo della vostra scomparsa sia legato ad esse? Lei, Capitano, sa bene che già in ato ha subito un provvedimento disciplinare, a seguito della sua deplorevole condotta durante una missione di contrasto alla mafia. Un altro provvedimento per lei significherebbe la radiazione. Ne è consapevole?» Poi si rivolse a Valentina. «E lei, Tenente, cosa ci fa qui a Roma? Sarebbe dovuta rientrare a Parma già da un pezzo. Chi l’ha autorizzata a svolgere delle indagini che non hanno assolutamente nulla a che vedere con la sua appartenenza al RIS? Il suo Comandante? Direi proprio di no, visto che è a dir poco infuriato nei suoi confronti. L’ha obbligata il Capitano
Mancuso o lo ha fatto di sua spontanea volontà? Coraggio, sono pronto ad ascoltarvi».
Mancuso e Valentina rimasero in totale silenzio durante la requisitoria del Colonnello. Valentina era preoccupata dalla possibile reazione di Johnny, che immaginava furibondo per il trattamento subito da parte di quello che sembrava, a tutti gli effetti, un tribunale dell’Inquisizione. Invece rimase stupita dalla freddezza e dalla sicurezza, se non addirittura spavalderia, che caratterizzarono l’intervento del Capitano. «Signor Colonnello, mi assumo completamente tutta la responsabilità del nostro operato. Il Tenente Cortesi sta partecipando a queste indagini solo ed esclusivamente a seguito di un mio preciso ordine. Sono inoltre stato io a impedirle di contattare il suo Reparto, anche perché, per svolgere le nostre indagini con standard di sicurezza accettabili, ci siamo liberati dei nostri cellulari e abbiamo evitato ogni forma di comunicazione di qualsiasi genere. La sua presenza mi è indispensabile, perché le indagini che stiamo effettuando sono di importanza vitale per la Nazione e il Tenente è un Ufficiale con comprovate capacità investigative che vanno ben aldilà della sua appartenenza al RIS».
Il Colonnello era rimasto sconcertato dalle parole di Mancuso e, soprattutto, dal tono della sua risposta. Si aspettava una reazione del tutto diversa dopo le sue velate minacce, la reazione di un uomo, prima che di un Ufficiale, che accettasse ivamente gli addebiti e si pentisse pubblicamente. Soltanto ora capiva il reale significato di una frase che aveva letto sul dossier del Capitano: “Il Capitano Mancuso è uno degli uomini migliori all’interno del ROS. Non esiteremmo un solo attimo a metterlo al comando del CRIMOR - Unità militare combattente, se non fosse perché tende a isolarsi e ad agire troppo istintivamente”.
«Capitano» disse, «è possibile conoscere i dettagli e i risultati sinora da voi raggiunti in queste indagini di interesse nazionale, come le ha definite lei?»
«Signor Colonnello, le posso soltanto dire che la morte della giovane ragazza a
Cairo Montenotte, dell’Abate del Monastero di Casteldelfino e della donna all’interno della nostra stanza a Roma, sono collegate. Abbiamo scoperto che all’origine di queste uccisioni c’è un rituale satanico tuttora in corso per opera di una potentissima setta che ormai si è infiltrata all’interno sia della Curia Romana sia di importanti apparati civili e militari dello Stato Italiano. Purtroppo anche all’interno della nostra Arma. Noi stiamo cercando, con la massima discrezione, di scoprire chi c’è al vertice di quest’organizzazione. Purtroppo altre due ragazze sono state sacrificate. Di loro non troveremo mai i cadaveri e altre due rischiano di fare la stessa fine. Se la sente di fermare il nostro tentativo di salvarle e di scoprire i vertici di questa setta?»
Il Colonnello aveva un’espressione simile a quella di un bambino al quale i genitori hanno appena sequestrato per punizione la playstation. «E’ pazzesco quello che mi ha appena raccontato, Capitano. Se fosse vero, come potete, voi due da soli, portare a compimento la missione? Vi servono altri uomini esperti di Intelligence, materiale tecnologico, o tattico e logistico…».
Mancuso non gli fece finire la frase. «Ascolti, Colonnello. Questa storia meno è conosciuta, meglio è. Come lei stesso ha ricordato prima, io ho subito un provvedimento disciplinare per quella che, sempre lei, ha definito una deplorevole condotta durante un’operazione finalizzata alla cattura del numero uno della Cupola di Cosa Nostra. In realtà, l’operazione è fallita perché al nostro interno c’era un giuda bastardo che si era venduto alla mafia. Ed io so chi è, perché anche lui fa parte della setta. Io ho già pagato, ora tocca a lui e la mia vendetta sarà decuplicata rispetto al danno che ho subito io.
Bene, adesso, Colonello, lei ha due opzioni. O ci ferma, ci rispedisce a casa, ci toglie il distintivo, ci incrimina per tutti i reati che lei crede, oppure ci lascia andare avanti, senza fare alcuna parola di ciò che le ho detto neanche ai suoi superiori. Lascio alla sua fantasia inventarsi una storia credibile che tranquillizzi i nostri e i suoi superiori e ci consenta di lavorare in pace. Mi dia dieci giorni, dieci giorni di tempo per finire questo schifo di missione. Se non dovessimo farcela, tornerò da lei e accetterò qualsiasi vostra decisione».
Il Colonnello rimase assorto nei suoi pensieri per diversi secondi. Poi si rivolse a Valentina: «Tenente, lei conferma quanto detto dal Capitano Mancuso?».
«Assolutamente sì, Signor Colonnello. Ci tengo però a precisare un aspetto per me molto importante. Il Capitano Mancuso si è assunto tutte le responsabilità. In realtà lui non mi ha ordinato un bel nulla, sono stata io, volontariamente, a decidere di affiancarlo nelle indagini. Pertanto anch’io sono pronta ad accettare qualsiasi decisione venga presa dal mio Reparto».
L’Alto Ufficiale vagliò attentamente anche le parole di Valentina. Poi decise. «Di cosa avete bisogno?»
Mancuso rimase imibile. «Abbiamo bisogno di denaro. Potete attingerlo dai conti segreti che sono utilizzati per finanziare le operazioni speciali. Poi ci servono: armi, due pistole a testa non in dotazione ordinaria all’Arma, un fucile d’assalto Steyr AUG con adeguato munizionamento, giubbotti antiproiettile e un’auto civile senza GPS; infine un cellulare sicuro. Soprattutto, però, abbiamo bisogno del vostro totale silenzio. Interrompete questa ricerca nei nostri confronti, fate sparire le fotografie fornite alle pattuglie. Noi dobbiamo scomparire.
«Va bene» disse il Colonnello. Una domanda lo tormentava, però, già da diversi minuti: «Capitano, chi ha tradito a Palermo?».
«Non glielo posso dire».
«Perché? Potrei ordinarglielo».
«Colonnello, è meglio che non lo faccia. Conoscere quel nome metterebbe a rischio la sua stessa vita».
Il Colonnello guardò negli occhi Mancuso. «Io sono già in pericolo, perché ho ricevuto l’ordine tassativo di fermarvi. Se vi lascio andare, dovrò adeguatamente motivare la mia decisione e, se come dice lei, questa setta si è infiltrata anche nella nostra Arma, qualcuno non la prenderà bene. Comunque non insisto. Cercate solo di non farvi ammazzare, siete due ottimi Ufficiali. Vi faccio subito preparare quello che ha richiesto, Capitano. Si ricordi, dieci giorni».
Mancuso rispose: «Certo, dieci giorni».
130.
Il Gran Sacerdote della Setta del Pàntaclo era in compagnia di un giovane Cardinale, il suo fidato braccio destro, l’unico che conoscesse il suo sommo grado. Si trovavano all’interno della Cappella Paolina, in Vaticano.
«Il male esiste da sempre, è inutile negarlo, mio caro amico» disse. «E’ presente in ogni luogo e si fa largo dove esiste corruzione, terra fertile, persone che consapevolmente o inconsapevolmente si vendono l’anima al diavolo con le proprie azioni. E’ presente nella chiesa stessa, ma non dobbiamo meravigliarci perché nessun luogo è esente. In un celebre esorcismo Satana stesso affermò: “Se tutti i demoni fossero visibili, sarebbero così tanti da oscurare il sole.”».
Il giovane Cardinale ascoltava ammirato le parole del Sommo e chiese: «Cosa ci attende ora, Eminenza?».
«Il rituale dei sacrifici terminerà il 14 novembre 2014. Come recita la Sacra Profezia, tutto dovrà essere governato dai numeri 5, come le punte del pentacolo e soprattutto dal numero 7 il magniloquente numero: 1+4+1+1+2+0+1+4=14:2=7.
Questa data segnerà un punto di non ritorno ed io, quando sarà il tempo, porrò termine in questa Cappella al regno del falso Dio e segnerò l’inizio dell’avvento dell’Anticristo».
Il giovane Cardinale non riuscì a trattenere la propria gioia ma chiese ancora: «Perché, mio Signore, dovrà avvenire in questa Cappella?».
«Perché questa Cappella ha per noi un altissimo valore simbolico. Nel giugno dell’anno 2009, che la Sacra Profezia cita come anno numero 7, perché 9-2=7, fu riaperta al pubblico, dopo anni di restauri. L’altare fu tolto e poi ricollocato. In quei giorni circolò l’ipotesi che l’intera Cappella fosse stata riconsacrata. Perché? Per riparare a un rito satanico celebrato in gran segreto nel 1963 con il quale sarebbe stata inaugurata l’Era di Satana. Uno studio di esperti inglesi cita un episodio che sarebbe avvenuto appunto il 29 giugno 1963 e reso noto da un vaticanista ed ex gesuita, Malachi Martin. Riesce a interpretare il significato di quella data?»
Il giovane Cardinale rimase in silenzio per alcuni secondi, ma il suo interlocutore non gli diede il tempo per elaborare una risposta.
«Glielo svelo io. Il giorno 29, 9-2=7. Il mese e l’anno, giugno 1963, 6+1+9+6+3=25, 2+5=7. Capisce l’importanza di questo luogo per noi? Due volte 7 !»
«E’ incredibile…» replicò sbalordito il giovane Cardinale.
«Malachi Martin scrisse un libro dal titolo “La casa spazzata dal vento”, pubblicato nel 1996 e mai tradotto in italiano. La tesi di Martin, secondo il quale nella Cappella Paolina in Vaticano sarebbe stato celebrato un rito satanico, era stata già ripresa e approfondita da altri studiosi.
Secondo il romanzo il 29 giugno del 1963 in Vaticano e per la precisione nella Cappella Paolina fu officiato un rito satanico cui parteciparono alti prelati, vescovi, clero semplice e laici. Stando a Martin si trattava di adempiere ad una profezia del satanismo moderno che annunciava l’avvio dell’Era di Satana nel
momento in cui un Papa avesse assunto il nome di Paolo. L’ultimo Papa Paolo fu Camillo Borghese, morto nel 1621.
1+6+2+1=10
10:2=5
Il 21 giugno 1963 fu invece eletto papa il cardinal Montini che assunse il nome di Paolo VI.
2+1+6+1+9+6+3=28
2+8=10
10:2=5
Martin quindi racconta che la notte fra il 28 e il 29 giugno del 1963, a una settimana dall’elezione di Paolo VI, fu organizzato questo rituale satanico in Vaticano, con lo scopo di intronizzare Satana nel cuore della Cristianità. I satanisti non potevano però organizzare un rituale completo: come avrebbero potuto portare la vittima e l’animale sacrificale nel Palazzo Apostolico? Decisero pertanto di combinare due riti da officiare contemporaneamente: uno incruento in Vaticano, nella Cappella Paolina ed un altro, cruento, da officiare negli USA. I riti sarebbero avvenuti contemporaneamente, sincronizzandoli telefonicamente. Chi officiò in Vaticano? Martin non lo dice. Parla solo di prelati, sacerdoti e laici. Quanto al rito parallelo è più chiaro e racconta che avvenne in una chiesa
parrocchiale del South Carolina e ad officiarlo fu un prelato di nome Bishop Leo.
Secondo quanto si legge nel romanzo di Martin, il rituale sarebbe stato compiuto in South Carolina attraverso la violenza sessuale ai danni di una bambina, prima narcotizzata e poi abusata. Nella Cappella Paolina sarebbe stato invece officiato il rituale principale incruento, concluso dalla lettura di una sorta di consacrazione a Satana del Vaticano.
La Cappella sarebbe stata riconsacrata dal Papa proprio a causa del rito satanico che vi sarebbe stato celebrato. Paolo VI nel 1972 parlò del fumo di Satana entrato nel tempio di Dio.
La prova provata dell’avvenimento oscuro e sacrilego sarebbe stata la riconsacrazione officiata da Papa Ratzinger, ovviamente mai confermata ufficialmente dal Vaticano.
Le fonti vicine al Pontefice hanno sempre smentito che Benedetto XVI abbia riconsacrato la Cappella Paolina. Hanno sempre affermato che c’era stata una funzione per la ripresa della celebrazione del culto dopo i restauri e la realizzazione di un nuovo altare, ma non una nuova consacrazione.
Gli scettici inoltre teorizzano un altro motivo che fa dubitare della fondatezza dell’episodio descritto da Martin nella sua ricostruzione romanzata. Perché mai Paolo VI, che credeva, eccome, all’esistenza di Satana, non ha riconsacrato subito la Cappella Paolina non appena venne a conoscenza del presunto rito satanico? Perché avrebbe atteso, lasciando scritto al successore ciò che era avvenuto? E perché non l’avrebbe fatto lungo i 27 anni di pontificato il suo secondo successore, Giovanni Paolo II, che pure aveva celebrato degli esorcismi in Vaticano e anch’egli avrebbe parlato più volte della presenza del diavolo?
L’unico Pontefice che realmente tentò di fare piena luce su quello che accadde nel 1963 fu Papa Luciani. Non gli fu però concesso il tempo per appurare la verità: fu eletto il 26 agosto 1978 e morì, dopo 33 giorni, il 29 settembre 1978.⁵
26+33+29=88
8+8=16
1+6=7.
Il Gran Sacerdote prese fiato e continuò: «Abbiamo atteso tanto tempo prima di dare inizio alla Sacra Profezia, ma il nostro Dio ha già manifestato compiutamente la sua potenza. Vuole qualche esempio?
L’attentato alle Torri Gemelle: 11 settembre 2001, una data difficile da dimenticare per noi satanisti.
1+1+9+2+0+0+1=14
14:2=7
Un vero tripudio!
Gli attentati a Madrid: 11 marzo 2004.
3+2+0+0+4-1-1=7
Una vera gioia!
E poi l’apoteosi. Gli attentati a Londra: 7 luglio 2005!
Giorno 7, Mese 7 Anno 2005.
2+0+0+5=7
Non è straordinario?» concluse euforico.
Il giovane Cardinale aveva ascoltato in religioso silenzio il racconto del Gran Sacerdote, rimanendo quasi ipnotizzato da quell’effluvio di parole e numeri. Alla fine non riuscì a trattenersi e fece la domanda: «Eminenza, ma il rito all’interno della Cappella Paolina si è svolto realmente?».
Il massimo esponente della Setta del Pàntaclo si aspettava quella domanda. Rispose con il sorriso sulle labbra: «Certo che si è svolto, non esiste alcun dubbio in merito».
«E come fa a dirlo con tanta sicurezza?»
«In quel periodo la Setta del Pàntaclo si stava espandendo rapidamente sia all’interno del clero sia al di fuori di esso. Fu deciso allora di celebrare un rito di ringraziamento a Satana. Doveva essere un rito eclatante, del quale si sarebbe dovuto parlare nei decenni successivi. Fu allora scelta la Cappella Paolina, uno dei luoghi di culto più conosciuti al mondo. Le fonti del Vaticano hanno sempre smentito che si sia svolto quel rito, ma allora per quale motivo attualmente la Cappella è chiusa al pubblico ed è al di fuori del percorso dei Musei Vaticani? Sì, amico mio le posso confermare che il rito è stato officiato. Perché? Perché c’ero anch’io».
⁵ Liberamente tratto dalla Fonte: La Stampa.it del 5/02/2011 Andrea Tornielli
131.
Mancuso e Valentina stavano finalmente viaggiando verso Villa Testaccio. Tutto il materiale richiesto dal Capitano era stato consegnato: armi, munizioni, denaro contante, una carta di credito tramite la quale era possibile accedere ad un conto anonimo senza lasciare alcuna traccia informatica. Avevano dovuto prendere una decisione molto sofferta. Dopo che Gabriele aveva dato loro la conferma che le vittime del rituale venivano sacrificate nei luoghi indicati dalla Mappa, erano stati tentati di ritornare in quelle località. Ne rimanevano solo due, Dego e Pontinvrea e forse, con un po’ di fortuna, avrebbero potuto interrompere il macabro rituale e salvare almeno una ragazza. Quale sarebbe stato il risultato investigativo? Del tutto modesto, perché la testa della piovra non sarebbe stata intaccata dal loro intervento, anzi avrebbe indotto i Capi della setta ad operare ancora di più sottotraccia per evitare di essere individuati. I due Ufficiali volevano tentare di salvare la vita alle ultime due prescelte, attaccando direttamente i burattinai di quell’ignobile commedia, i registi di quel film dell’orrore interrompendo una volta per tutte il “ciak si gira”. E questo potevano tentare di farlo soltanto seguendo le piste che in quel momento avevano a loro disposizione: Villa Testaccio, appunto e il Comandante del ROS. A tal proposito, Valentina fece una considerazione: «Johnny, non ti sembra strano che il nostro amico dei Servizi Segreti del Vaticano ci abbia raccontato una bella storia ma volutamente piena di omissis? Voglio dire, le informazioni più importanti, come ad esempio il contenuto della Sacra Profezia o i nomi delle prescelte, non ha voluto comunicarceli, poi ci serve su un piatto d’argento il nome del tuo ex Comandante. Non ti pare che ci sia qualcosa che stoni?».
Mancuso rifletté un attimo. «Hai ragione, Vale. Hai colto nel segno. In effetti, è molto strano che ci abbia dato quell’informazione, a meno che…».
«… a meno che» continuò Valentina, «non abbiano deciso di eliminarlo senza sporcarsi le mani di sangue. Conoscendo la tua voglia di rivalsa nei confronti del traditore dell’operazione di Palermo, hanno lasciato a te l’onore di ucciderlo. La tua vendetta sarebbe stata compiuta e loro si sarebbero liberati di un elemento di
peso all’interno della setta. Fine delle trasmissioni».
«Quello che dici non fa una piega, Valentina, ma quello stronzo forse non sa, o, preferisce ignorare, che un Ufficiale dei Carabinieri, per quanto possa essere mosso dall’odio nei confronti di un criminale, non uccide per vendetta. Noi, quando lo riterremo opportuno, andremo dal Generale Franco Maria De Agostini e gli chiederemo conto del suo tradimento nei confronti dei suoi uomini e della Nazione, che ha giurato di difendere a costo della sua vita».
Viaggiarono ancora una decina di minuti, prima di arrivare nei pressi della villa. Mancuso parcheggiò l’Alfa a un centinaio di metri di distanza dal loro obiettivo. Si avvicinarono velocemente, fiancheggiando il muro di cinta senza curarsi delle telecamere installate all’esterno della villa. Avevano indossato i giubbotti antiproiettile e si erano dotati di due pistole ciascuno con diversi caricatori. Giunti davanti all’ingresso, trovarono, come del resto si aspettavano, il cancello automatico chiuso. Sulla destra c’era un citofono con la targhetta metallica con sopra scritto Custode. All’interno della villa non c’era alcuna traccia di custodi. Il cancello era troppo alto, quindi retrocedettero di una decina di metri e decisero di scavalcare il muro di cinta. Mancuso dimostrò, nonostante non fosse più da tempo un appartenente alle Forze Speciali, una disarmante facilità nel are dall’altra parte del muro. Valentina ci mise un po’ più di tempo, ma, anche grazie all’aiuto del collega, si ritrovò in pochi secondi sul prato del parco adiacente alla villa. Mancuso a quel punto disse a Valentina: «Vale, mi raccomando. Adesso stammi vicina e fai tutto quello che ti dico io. Ok?».
«Ok, Johnny, ok» rispose con un po’ di fiatone.
I due si diressero verso l’ingresso della villa con le pistole spianate. Non c’era nessuna auto parcheggiata, le luci erano tutte spente, nessun segno di vita. Salirono i gradini di porfido che conducevano al portone che trovarono stranamente aperto.
Mancuso allertò ulteriormente i suoi sensi, facendo segno a Valentina di stargli dietro. Entrarono e trovarono le stanze avvolte dal buio. Illuminarono con le torce il salone alla loro destra, dove molto probabilmente si radunavano gli invitati per chiacchierare e prepararsi agli incontri sessuali notturni. L’enorme stanza era completamente vuota. Non c’era alcun arredo, né mobili, né segni di una recente presenza di invitati a una festa. Mancuso, allora, tornò indietro e illuminò la scala che portava al piano superiore. «Andiamo sopra» disse a Valentina, che annuì con il capo. Salirono rapidamente le scale e illuminarono la zona davanti a loro: avevano di fronte un lungo corridoio con numerose porte sia a destra sia a sinistra. Probabilmente erano le stanze da letto. «Cerchiamo di capire se queste stanze servivano soltanto a quei luridi maiali per fare sesso, oppure anche per ospitare le ragazze e le… non ho il coraggio di nominarle, Vale» disse Mancuso.
«Stai tranquillo, Johnny, ho capito perfettamente» rispose la compagna.
Incominciarono, con molta cautela ad aprire le porte delle stanze. Mancuso a destra e Valentina a sinistra. Erano tutte completamente vuote. Non c’era nessun segno di presenza umana né recente né tantomeno ata.
Mancuso era visibilmente perplesso. «Come cazzo hanno fatto a svuotare la villa in così poco tempo? Dove sono finiti tutti i mobili e gli arredi?»
Improvvisamente in fondo al corridoio si accese una luce. Una stanza sulla destra era stata illuminata. I due Ufficiali si diressero verso quella stanza con le pistole impugnate con entrambe le mani in posizione di tiro. Quando giunsero davanti alla camera, videro che la porta era socchiusa e che la luce usciva dalla fessura aperta. Jonny fece segno con un gesto della mano destra a Valentina di stare dietro di lui.
Contò mentalmente fino a tre e poi assestò un potente calcio alla porta che si aprì completamente andando a sbattere violentemente contro la parete.
Mancuso e Valentina rimasero allibiti entrando nella stanza.
Ad una scrivania, davanti ad un computer con uno schermo da ventisette pollici, era seduto il giovane prete biondo con gli occhi azzurri. La scrivania era a forma di U e il monitor era sistemato sul lato di sinistra. Lucifero quindi dava loro le spalle. «Buongiorno, signori, vi stavo aspettando» disse con noncuranza, senza neanche voltarsi.
Mancuso cercò di riprendersi subito dalla sorpresa. Quell’uomo era dannatamente pericoloso e lui lo doveva affrontare con la massima concentrazione. «Ascolta, stronzo, adesso ti alzi lentamente, tenendo bene in vista le mani dietro la testa. Se fai un qualsiasi movimento diverso da quello che io ti ordino, ti faccio saltare la tua testa di cazzo. Mi hai compreso?»
Il finto prete non fece una piega, continuò a digitare sulla tastiera del computer come se Mancuso non avesse aperto bocca. Poi disse: «Avete visto quel bel peluche che c’è sulla scrivania?».
Mancuso e Valentina notarono, in mezzo alle scartoffie, il peluche di un orsetto marrone.
«Me l’ha regalato una bambina. Rumena o forse polacca, boh, non mi ricordo. Sapete, io vado molto d’accordo con le bambine».
Mancuso si sentiva montare il sangue alla testa. L’indice della mano destra tremava sul grilletto della pistola. Aveva un desiderio feroce di sparare e uccidere quell’essere insulso.
Valentina se ne accorse e, nonostante anche lei fosse disgustata da quel finto uomo di Chiesa, cercò di placare l’animo del collega: «Jonny, ricordati chi sei. Ora chiamiamo i colleghi e lo facciamo arrestare. Dietro le sbarre probabilmente farà meno lo spiritoso».
Mancuso la pensava diversamente. «Hai sentito la mia collega, stronzo?» disse con disprezzo. «Lei ti vuole fare arrestare, ma io sono di parere diverso. Noi siamo qui in incognito. I nostri superiori non hanno la più pallida idea di dove ci troviamo in questo momento. Ti potrei tranquillamente ammazzare come un cane e sparire da questo posto. Nessuno sarebbe assolutamente in grado di risalire a noi. Se tu avessi la compiacenza di girarti, vedresti che sto impugnando una Glock 17, una pistola che è attualmente in dotazione soltanto ai GIS ed io non faccio parte dei GIS. Tu sei un lurido mercenario. Il tuo omicidio non susciterà particolare clamore, ma erà alla storia come una resa dei conti tra killer prezzolati. Quindi te lo ripeto per l’ultima volta: alzati in piedi con le mani dietro la testa».
Il finto prete, che dava sempre le spalle ai due Ufficiali, non si mosse dalla sua poltrona di pelle nera sulla quale era comodamente seduto. «Capitano, lo sappiamo bene tutti e due che tu non mi spareresti mai a sangue freddo. Non fa parte del tuo DNA e d’altra parte io sono pacificamente seduto a una scrivania davanti a un computer . Non rappresento per voi una minaccia, non ho armi in mano. Comunque, Capitano tu mi piaci, mi piace molto il tuo odio rancoroso nei miei confronti che stai cercando disperatamente di combattere per non schiacciare quel grilletto e ammazzarmi. Un uomo normale avrebbe già fatto fuoco… ma tu non sei un uomo normale. Hai dentro di te una formidabile capacità di autocontrollo, che soltanto un militare professionista e ben addestrato può vantare. In fondo tu ed io siamo uguali. Io uccido per denaro, tu per i tuoi
ideali di giustizia.
Qui viene il bello, però, tra noi c’è soltanto una piccola, banalissima differenza. Io ho diversi conti correnti nei paradisi fiscali con un patrimonio di svariati milioni di euro, tu quanto guadagni? Arrivi a tremila euro al mese con gli straordinari e le trasferte? Forse ti converrebbe fare il mio mestiere, mio caro Capitano».
Valentina si accorse che l’espressione di Mancuso era cambiata, sembrava quasi fosse rimasto ammaliato dalle parole del mercenario. Doveva intervenire subito per evitare che il suo compagno avesse un rischioso calo di tensione con un inevitabile abbassamento della sua soglia di attenzione. Il finto prete non era pericoloso solo con le armi, ma anche con le parole. Valentina prese la mira e fece fuoco due volte, distruggendo completamente il monitor del computer.
Anche questa volta il mercenario non fece una piega. «Complimenti, Tenente! Un’ottima mira! Da quanto tempo non sparava un colpo di pistola? Il suo lavoro si svolge in laboratorio, tra un esame del DNA e una ricerca accurata su un’impronta digitale, non al poligono di tiro. Comunque lei è molto fortunata. Ha un santo in paradiso nella setta che non vuole le sia fatto alcun male».
«Perché?» chiesero all’unisono Valentina e Mancuso, ritornato immediatamente in se stesso.
«Signori, non ne ho la più pallida idea. Questo tipo di informazioni non m’interessa, né fa parte del contratto in base al quale sono pagato».
«Bene, Lucifero» disse Johnny con disprezzo. «Adesso il tuo giocattolo si è rotto
e non c’è più alcun motivo per il quale tu non possa alzarti e venire via con noi. Non vedo l’ora di uscire da questo posto che olezza soltanto di merda».
Il finto prete si mise a ridere. «Scusami, Capitano. Lucifero ahahahahah…».
«Cosa cazzo hai da ridere?»
«No, è che chi vi ha detto questo nome in codice è in fondo al Tevere, più o meno nei pressi del Ponte Sisto, che ridere… ahahahahah».
«L’hai ammazzato! Avete scoperto che era un infiltrato!»
«Sì, l’ho eliminato, ma dopo essere ato dalla sua parte, mamma mia mi sto scompisciando dalle risate…».
Mancuso era esausto e disgustato. Quell’uomo stava mettendo a dura prova i suoi nervi e la sua capacità di autocontrollo. «Tu, stronzo, per chi cazzo lavori?»
Il finto prete tornò serio. «Capitano, l’hai detto anche tu. L’unico mio datore di lavoro sono io stesso. Un mercenario lavora per chi paga di più. E nel mio lavoro non esistono la fedeltà, il tradimento o cazzate di questo genere. I Servizi Segreti del Vaticano mi hanno dato cinque milioni di euro per are dalla loro parte ed io ho accettato. La setta, però, me ne ha offerto il doppio per tornare da loro ed io, ovviamente, ho di nuovo accettato. Il povero Gabriele quindi ha fatto male a fidarsi di me, la sua copertura è saltata e ho dovuto eliminarlo. Questo non significa che io non sia sul mercato. Pare che anche la mafia si stia interessando
a questa Sacra Profezia, chissà…».
Mancuso voleva porre termine a quella sceneggiata. «Ascolta, ora mi sono veramente rotto i coglioni. Basta parole, abbiamo discusso anche per troppo tempo. Conto fino a tre. Se non ti alzi con le mani bene in vista sopra la testa, giuro su Dio che incomincio a sparare e tu lo sai che non sto barando».
La tensione all’interno della stanza era palpabile. Valentina stringeva con forza la pistola, ma aveva le mani sudate e il cuore che batteva all’impazzata. Il mercenario continuava a rimanere fermo e imibile.
Mancuso incominciò la conta: «Uno…».
Nessun movimento.
«Due…».
Ancora nulla.
«Tre!»
Prima che Johnny pronunciasse completamente il numero, il finto prete si girò di scatto. In una frazione di secondo si materializzò, come per magia, una pistola con il silenziatore nella sua mano destra. Evidentemente l’aveva tenuta per tutto quel tempo in grembo nascosta tra le gambe. Esplose in rapida successione due
colpi, uno diretto a Mancuso l’altro alla lampada che illuminava la stanza. Il buio riavvolse immediatamente la camera. Avevano commesso l’errore di spegnere le torce e ora Valentina, per non perdere tempo prezioso, incominciò a far fuoco alla cieca nella direzione dove, fino a quel momento, era seduto il mercenario. Usò entrambe le pistole che aveva portato con sé. Alla fine, esauriti i caricatori, tornò il silenzio assoluto.
Valentina era sconvolta. Non tanto dalla sparatoria, quanto dal fatto che i colpi erano stati esplosi da una sola pistola: la sua.
Perché Johnny non aveva sparato? Era ferito? O peggio…
Accese la torcia e illuminò l’ambiente intorno a lei. Chiamò Mancuso più volte, inutilmente. Poi alla fine lo vide: era disteso per terra, immobile, davanti a lei, come se l’avesse voluta proteggere. Valentina urlò dal dolore: «Johnny, Johnny… nooooo!». Si precipitò accanto a lui e illuminò il suo corpo. Dal collo usciva un abbondante fiotto di sangue. Era ancora vivo, ma la ferita era gravissima. Il proiettile aveva probabilmente colpito un’arteria e rischiava di provocare un’emorragia. Valentina cercò di tamponare l’uscita del sangue premendo con forza la mano destra sul collo ferito e con la sinistra prese il cellulare e chiamò i colleghi e l’ambulanza.
Era in lacrime, disperata. Johnny aveva gli occhi aperti e la guardava. Cercò di pronunciare qualche parola, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono.
«Ti prego Johnny, non morire, ti prego! Adesso che sei qui con me, che ho finalmente trovato l’amore che ho rincorso per tanti anni, non lasciarmi di nuovo sola. Ti devo ancora raccontare tante cose della mia vita e anche tu ne devi raccontare a me. Abbiamo avuto pochi minuti di tempo per noi due in questi giorni, ma sono stati per me dei momenti straordinari. Non andartene proprio
adesso, ora che ho ritrovato la mia fiducia in un uomo. Dopo gli abusi e le violenze subite da don Riccardo, pensavo che non sarei mai stata capace di amare un uomo nella mia vita. Finalmente ora il miracolo è avvenuto ed è tutto merito tuo. Ti prego Johnny, non morire…».
Mancuso continuò a fissarla e un abbozzo di sorriso comparve sul suo volto.
132.
Un mese dopo
Alcara li Fusi era un piccolo Comune in Provincia di Messina, abitato da poco più di duemila anime, in costante diminuzione a partire dagli anni ’50, a causa della cronica mancanza di attività e posti di lavoro. Proprio da quello sperduto paesello, era partita anche la famiglia Mancuso alla volta dell’America per cercare fortuna. Su un punto, però, tutti gli appartenenti alla famiglia erano stati chiari: dopo la morte, i loro corpi dovevano essere sepolti nella terra natia, nella tomba di famiglia che avevano fatto allestire nel piccolo cimitero del paese.
Valentina era appena entrata nel camposanto e si stava dirigendo con o svelto verso la tomba della famiglia Mancuso. Arrivata a destinazione, entrò nella cappella che conteneva le salme. Si fece il segno della croce e rivolse subito la sua attenzione a una lapide alla sua sinistra. Era stata sistemata da poco tempo ed era ancora un po’ sporca di terriccio. Valentina prese uno straccio e la pulì accuratamente, in particolare lucidò l’immagine del defunto. La cappella strabordava di fiori, di fotografie e di biglietti appesi un po’ ovunque. Vale si rese conto che dall’ultima volta che era entrata in quel luogo, i biglietti e le foto erano praticamente raddoppiati. C’era una foto che troneggiava rispetto alle altre. Valentina la guardò con attenzione. Sembrava ritrarre un’aula di scuola con tanti banchi sui quali erano ritti in piedi un numero imprecisato di Carabinieri in alta uniforme che facevano il saluto militare. La didascalia recitava: “Il ROS ti rende onore, Capitano, mio Capitano”. Valentina si asciugò le lacrime che rigavano il suo stanco volto. Si era emozionata per quella versione speciale della famosa scena del film “L’attimo fuggente”.
Poi si sedette su una seggiola all’interno della cappella e iniziò a parlare: «Ciao, Johnny, ciao amore mio. Scusami se è ato un po’ di tempo dalla mia ultima
visita, ma non sono stata molto bene. No, stai tranquillo, nulla di grave. Anzi, i miei disturbi sono dovuti ad una causa bellissima. Johnny, aspetto un bimbo! Sì hai capito benissimo. Un bimbo, il nostro bimbo! Non mi hai lasciato completamente. Hai lasciato un meraviglioso ricordo di te nel mio corpo. Grazie, amore. Non voglio sapere se sarà maschio o femmina, decidi tu lì dall’alto. Crescerà nella memoria di suo padre. Non erà un attimo, un solo attimo senza che io gli racconti del tuo valore, del tuo coraggio, del tuo amore per la giustizia che ti ha reso un uomo unico, ma che ti è costato la vita. Purtroppo il tuo sacrificio non è servito a nulla. Nessuno mi ha creduta quando mi hanno interrogata su quello che era successo. Il tuo è ato come un qualunque omicidio, opera di un ladro che era entrato nella villa per ripulirla. La nostra inchiesta non esiste più. La Setta del Pàntaclo ha la più totale libertà di manovra. Nessuno sta più cercando di contrastarla. Neanche io, Johnny. Ho lasciato l’Arma. Non potevo continuare a lavorare per conto di uno Stato che non è in grado o, forse meglio, non ha alcun interesse a difendere l’onore e il valore dei propri servitori.
Adesso vivo con i miei genitori a Milano. Sono tenerissimi con me, mi coccolano continuamente e, pur senza averti mai conosciuto, ti vogliono lo stesso un gran bene. Ho raccontato tutto di te, tutto quello che sono riuscita a carpirti nei pochi giorni che abbiamo convissuto insieme».
Mentre Valentina si soffermava all’interno della cappella, fuori dal cimitero, in una Mercedes nera alla cui guida c’era il finto prete biondo, il Gran Sacerdote e il suo fedele giovane Cardinale, confabulavano a voce bassa.
«E’ proprio sicuro della scelta?» chiese il primo.
«Assolutamente, Eminenza».
«La Sacra Profezia recita che: “Dopo 7 mesi dalla conclusione dei sacrifici, nascerà colui che sarà scelto dagli Eletti per condurre le nostre legioni alla vittoria finale. Colui che diventerà l’Anticristo”. Perché proprio lui?»
«Perché, Eminenza, sua madre ha già ricevuto da me il sacro seme, quando era in giovane età. Ora il seme è germogliato ed il frutto che sta maturando nel suo corpo non appartiene al padre umano, ma al suo padre divino: l’Onnipotente Satana. Lei ora è sola, il padre umano è come se non fosse mai esistito. Lei sarà la nostra Madonna!»
«E’ straordinario, mio caro amico! La Sacra Profezia si sta avverando! “Tutto finirà e la morte si abbatterà sugli infedeli peccatori. Il Sette, l’Anticristo, sarà il Padrone dell’Universo”».
In quel momento Valentina uscì dal cimitero, senza badare alla Mercedes ferma dietro ad alcuni cipressi. Aveva lo sguardo perso nel vuoto e si stava dirigendo verso la sua auto.
Il Gran Sacerdote disse: «Da adesso quella donna sarà in tutto e per tutto sotto la sua protezione. Mi raccomando, lei in questo momento gode della mia più totale fiducia».
«Stia tranquillo, Eminenza. Non la deluderò» rispose il giovane Cardinale che, tanto tempo prima, in un’altra vita, era conosciuto come don Riccardo.
133.
L’aria all’interno della villa era molto viziata. Un odore pregnante di fumo era diffuso un po’ ovunque nelle stanze. Alcune ragazze si avviarono verso il salone, dove erano presenti gli invitati.
Era una regola non scritta in quelle feste di far capire agli astanti che alcune di loro, molto più appariscenti e riservate, erano state invitate non per andare a letto con chiunque, ma con qualcuno di particolare, di solito un Cardinale.
Gli invitati accolsero con entusiasmo l’arrivo delle ragazze, senza dubbio di origini slave. Erano tutti uomini di Chiesa, mediamente anziani e chiaramente di un certo rango. In mezzo a quei vecchiardi, risaltava la presenza di un giovane prete, alto e con gli occhi azzurri, di bell’aspetto, che pareva del tutto disinteressato alla festa e la cui presenza stonava completamente con gli altri prelati. Sembrava quasi un bodyguard, addetto alla sicurezza dei presenti. Quasi tutti fumavano, enormi sigari, normali sigarette e alcuni anche canne di marijuana.
In particolare c’erano un Cardinale e un Vescovo che confabulavano in un angolo, lontano da sguardi indiscreti.
«Allora, Monsignore, è tutto pronto per la nascita del figlio del nostro Dio?»
«Certamente, Eminenza. Domani sarà il 14 giugno 2015 e saranno trascorsi sette mesi esatti dal quinto e ultimo sacrificio. Entro breve tempo il nostro Dio dominerà sul mondo intero».
«E’ vero: 1+4+0+6+2+0+1+5=19. 1+9=10. 10:2=5. Tutto come previsto dalla Sacra Profezia. Le ultime due ragazze sacrificate chi erano?»
«Due orfane che abbiamo prelevato da due distinti Istituti religiosi con il solito metodo. Nessun familiare vivente, nessuna denuncia di scomparsa. Sarà come se non fossero mai esistite».
«Benissimo, adesso andiamo un po’ a divertirci».
Dall’altra parte del salone, un frate, con indosso un saio scano, stava attentamente scrutando gli invitati presenti a quella festa. Certo, la sua presenza non poteva non are inosservata, il suo abito strideva terribilmente con quelli indossati dagli altri partecipanti, assai più pregiati, anche in considerazione dell’alto rango di chi li portava.
Dopo la morte di suo fratello aveva completamente interrotto la sua attività all’interno della Setta. Aveva anche smesso di partecipare alle messe nere, nonostante i numerosi inviti. Ma aveva avuto come una crisi di rigetto. Il potere della Setta gli aveva conferito l’autorità di decidere se lasciare in vita o meno suo fratello. E lui aveva deciso di porre fine alla sua esistenza. Quell’atto, seppur pietoso, lo aveva però mandato in crisi e gli scrupoli di coscienza non erano tardati ad arrivare.
Inoltre dopo la morte di Livia, non si era dato pace per mesi. Si sentiva responsabile accusando se stesso di non essere stato sufficientemente convincente nell’impedirle di partire per Roma. Non si fidava di quella Cecilia, era soltanto una prostituta professionista alla quale interessavano soldi e potere. Temeva che a Livia potesse succedere qualcosa. Lei non era certo abituata a
frequentare quegli ambienti, dove il sesso, la trasgressione e il denaro la facevano da padrone.
Aveva sperato, in quei mesi, che le Forze dell’Ordine riuscissero a dare un nome e un volto all’assassino, ma le indagini furono presto interrotte. In fondo a nessuno interessava sapere chi avesse ucciso una puttana.
Lui si era sbattuto per far capire agli investigatori che non poteva essere stata uccisa da un serial killer, così come fu ipotizzato. Livia era stata uccisa da un proiettile sparato con un fucile di precisione da centocinquanta metri di distanza! Non riuscì ad ottenere alcuna considerazione, anzi davanti a lui si eresse un muro talmente omertoso da tagliarlo fuori da qualsiasi tipo di informazione sull’omicidio.
Fu allora che decise di indagare in proprio. Si licenziò dalla palestra, dove lavorava come personal trainer. Con i soldi della liquidazione, poteva permettersi di restare un po’ di tempo lontano da Torino, la sua città. Per il dopo, si sarebbe posto il problema a tempo debito.
Il problema era sco, il figlio di Livia. Non aveva ancora avuto il coraggio di dirgli che sua madre era morta, ma ormai lui era il suo unico parente che potesse prendersene cura, come aveva d’altra parte promesso a Livia di fare. Per quei giorni lontano da Torino, riuscì ad affidarlo a una sua cara amica, ma prima o poi doveva affrontare con lui la verità sul conto di sua madre. Ormai era abbastanza grande. Avrebbe capito.
Una volta giunto a Roma, era però necessario entrare in contatto con qualcuno che gli consentisse di imbucarsi in una di queste feste organizzate dai preti, come li chiamava lui genericamente con disprezzo.
Lui però era una piccola insignificante pedina della Setta. Non sarebbe mai stato invitato a quelle feste.
Come avrebbe fatto?
Chi poteva aiutarlo?
In quali luoghi si svolgevano questi festini?
Dopo diversi giorni di inutile permanenza, ebbe un’idea.
Decise di recarsi in una chiesa e scelse, così a casaccio, la Basilica di Sant’Apollinare. Si diresse verso un confessionale e sperò, anzi pregò, lui che non era mai stato un credente, di ottenere qualche indizio.
Si inginocchiò e sentì dall’altra parte della grata la voce del sacerdote. Doveva essere molto anziano, faceva quasi fatica a parlare. Dopo aver fatto il segno della croce, gli chiese: «Dimmi figliolo come ti chiami e di quali peccati ti sei macchiato tanto da dover ricorrere all’aiuto di un vecchio prete, che non ha più neanche la forza di pregare Dio, nostro Signore?».
Lorenzo rimase deluso dal fatto che il suo confessore fosse anziano e quindi, molto probabilmente, all’oscuro di tutto quello che accadeva al di fuori della sua chiesa. Poi pensò che, proprio per il fatto di essere un vecchio prete, probabilmente poteva essere custode di oscuri segreti della chiesa di Roma.
Lorenzo iniziò la sua pseudo confessione. «Padre, mi chiamo Lorenzo e mi sono inginocchiato qui, di fronte a lei, non per confessarle i miei peccati, dei quali ormai ho perso il conto, ma per avere delle informazioni che mi possano permettere di rintracciare gli assassini di mia cognata».
Il prete rimase in silenzio per alcuni secondi e poi, senza tradire la sua apparente calma, chiese: «Caro Lorenzo, figliolo, io sono vecchio, come posso aiutarti a trovare quel che cerchi?».
«Padre, proprio perché lei è un uomo di chiesa da molti anni e probabilmente, portatore di segreti ignoti a molti, io ritengo possa aiutarmi. Lei sicuramente è a conoscenza del fatto che qui a Roma si svolgono delle feste alle quali partecipano molti prelati di status elevato in compagnia di sgualdrine. La mia amica Livia è stata uccisa proprio perché ha partecipato ad una di queste feste, disposta a fare la prostituta, pur di avere delle informazioni sul conto di una sua cara amica, Rebecca, scomparsa più di cinque anni fa. Una puttana le aveva rivelato di aver avuto notizie di Rebecca, che era viva ma in gravissimo pericolo perché era una prescelta di un rituale satanico. Per aiutarla, le ha proposto di entrare nel giro dietro un compenso di cinquantamila euro che Livia si sarebbe dovuta guadagnare partecipando a queste orge.
Purtroppo la sua ricerca è durata poco. Un cecchino l’ha uccisa sparandole in testa mentre si trovava in una camera d’albergo. Io voglio soltanto scoprire chi è stato, padre. Se lei sa qualcosa su queste feste, mi aiuti, la prego. Quei maiali devono finire in galera».
Il sacerdote, non riuscì a non manifestare il proprio disappunto. «Lorenzo, ma ti rendi conto di quello che mi stai dicendo? Sei entrato nella casa di Dio e stai accusando dei Cardinali, uomini di Chiesa, di aver copulato con delle meretrici! E poi addirittura di essere implicati nell’omicidio di una donna! Santo Dio, ma
come ti permetti anche solo di pensare a cose di questo genere? Hai delle prove? Se le hai, non devi venire da un povero vecchio prete nel confessionale, ma devi andare dalla polizia e denunciare i fatti che sono a tua conoscenza. Mi dispiace, ma io non posso esserti d’aiuto. Adesso, ti prego di andartene e di uscire da questo sacro luogo che non merita che al suo interno siano pronunciate le bestemmie appena uscite dalla tua bocca».
Lorenzo uscì dalla chiesa. Era furibondo con se stesso. Solo un coglione poteva pensare che un sacerdote, anche nell’intimità di un confessionale, potesse dargli delle informazioni utili per la sua ricerca. Lui era un perfetto sconosciuto e nessuno poteva fidarsi a tal punto da rivelargli segreti così occulti che probabilmente coinvolgevano prelati intoccabili. Livia ci aveva provato ed era stata uccisa. Lui non voleva diventare un altro bersaglio.
Poi però, dopo aver fatto poche decine di metri, si fermò di colpo. Stava ripensando alle parole pronunciate dal sacerdote. Ad un certo punto aveva detto testualmente “Sei entrato nella casa di Dio e stai accusando dei Cardinali, uomini di Chiesa, di aver copulato con delle meretrici!” Ma lui non aveva accusato nessun Cardinale in particolare, aveva indicato come frequentatori delle feste genericamente degli alti prelati, senza entrare nello specifico. Improvvisamente un lume di speranza si accese. Lorenzo ebbe la sensazione che il sacerdote, pur manifestando apertamente il suo dissenso per quello che aveva udito, gli avesse comunicato tra le righe un messaggio da decifrare. Tutto ruotava, secondo lui, sul significato attribuito alla parola Cardinali. Prese il suo cellulare e andò su un motore di ricerca. Inserì la parola “Cardinali”, ma uscì un numero spropositato di risposte. Doveva affinare la ricerca, altrimenti non sarebbe mai arrivato a nessun risultato utile. Provò diverse combinazioni, ma era come cercare un ago in un pagliaio. Ad un certo punto alzò la testa e vide un cartellone pubblicitario che reclamizzava la vendita di alcune villette a schiera, appena fuori Roma.
E se la parola Cardinali non si riferisse al grado ecclesiastico, ma a qualcosa di diverso, come ad esempio un luogo? Pensò Lorenzo. Provò allora ad inserire
diverse combinazioni nella stringa di ricerca. I risultati furono però infruttuosi e inconcludenti. Stava per rinunciare, quando gli venne in mente la tragica morte di Livia. La sua cara amica era stata uccisa in una camera d’albergo. Inserì allora “albergo cardinale”. Uscirono numerose risposte. Le guardò attentamente, ma ancora non riuscì a trovare quello che stava cercando. Il problema era che neanche lui sapeva bene cosa cercare. Andava un po’ a casaccio, sperando di avere un po’ di fortuna e di risolvere il rebus, ammesso che la sua interpretazione sulle parole del sacerdote fosse corretta. Nonostante si fosse un po’ distratto, notò che nell’ultima ricerca insieme alla parola “albergo” appariva quella di “villa”. Decise di fare un’ultima ricerca: “Villa cardinale”. Guardò le risposte ed ebbe un sussulto: sul web era apparsa la pubblicità della “Villa del Cardinale. Annidata tra le colline dei Castelli Romani, Villa Del Cardinale si affaccia sul Lago Albano, e sorge a 6 km da Castel Gandolfo, sede della residenza estiva del Papa. Vanta alloggi sontuosi, un bar, una terrazza e un parcheggio privato gratuito”.
Ecco la risposta, pensò. Quella doveva essere una delle ville utilizzate per le feste. Decise che quella sera stessa si sarebbe recato in quel luogo.
Arrivò intorno alle 21.00, a bordo di un’auto noleggiata e percorse un viale alberato che conduceva all’ingresso della villa. Vide che, con molta discrezione, stavano entrando numerosi prelati. Era stato fortunato: pareva proprio che quella sera ci sarebbe stata una festa. Scese dall’auto e si avviò all’ingresso. Due uomini della Sicurezza, che sembravano appena usciti da una versione moderna de “Il Padrino”, lo bloccarono all’entrata. «Padre», disse uno dei due, «mi dovrebbe dare l’invito, per favore».
Lorenzo aveva immaginato che per entrare sarebbe servito un invito, che ovviamente lui non possedeva ed allora improvvisò. «Santa Maria Vergine! Questa mattina sono partito da Torino e l’ho scordato come uno stupido! Figlioli vi prego, sono venuto apposta da così lontano, lasciatemi entrare, non sono un terrorista» disse stringendo fra le mani, come in un atto di preghiera, la croce che portava al collo.
Uno dei due gorilla fece un cenno con la testa all’altro, che disse: «Va bene, padre, per questa volta la lasciamo entrare, ma la prossima non lo dimentichi più».
«Dio vi benedica, grazie figlioli!»
Mentre scrutava gli astanti presenti nel salone e, allo stesso tempo, ricostruiva gli eventi che si erano succeduti nell’arco di quella giornata e che lo avevano condotto in quel luogo, Lorenzo vide un giovane prete biondo, con gli occhi di un azzurro intenso, che si stava dirigendo verso di lui.
«Buongiorno padre» disse il prete. «Mi sono permesso di avvicinarmi a lei per fare la sua conoscenza. Non mi pare che lei abbia mai partecipato ad altre feste in ato e poi, detto tra di noi, non avevo ancora visto nessun frate in questi luoghi di perdizione». L’ultima frase fu accompagnata da una risatina sarcastica, ma allo stesso tempo quasi forzata.
Lorenzo si tenne sulla difensiva, doveva utilizzare un linguaggio coerente con il suo abbigliamento, cosa per lui difficilissima, visto che, quando parlava normalmente, le parolacce e le bestemmie si susseguivano senza soluzione di continuità. «Buongiorno, sono frate Lorenzo. Vengo da Torino. Avevo già ricevuto numerosi inviti a partecipare a queste feste» mentì spudoratamente. «Alla fine, questa sera, ho deciso di venire. Questo luogo è davvero incantevole e le ragazze sembrano all’altezza». Detto questo, prese dalla tasca uno spinello e se lo accese. «Ne vuole uno anche lei?» chiese Lorenzo.
«No grazie, non fumo e, se devo dire la verità, qualsiasi ne sia la fonte, sigarette, sigari o spinelli l’odore mi nausea e mi fa venire conati di vomito».
Lorenzo non aveva ancora capito chi fosse quell’individuo. Se lui non era un frate, sicuramente l’altro non era un prete. Aveva una corporatura massiccia, un fisico perfetto, un viso curato anche nei minimi particolari. Alla fine decretò che molto probabilmente era un finocchio. Quasi a farlo apposta, dato che quel tipo non gli piaceva per niente, ogni volta che faceva un tiro con lo spinello, gli soffiava il fumo in faccia.
Poi però il prete gli fece la domanda che Lorenzo non avrebbe voluto sentirsi porre.
«Padre, chi l’ha invitata a questa festa?»
Ci fu un attimo di imbarazzo, poi Lorenzo ebbe un’intuizione: «Amico mio, dovrebbe sapere che queste informazioni sono riservate all’interno della Setta. Diciamo che si tratta di un prelato piuttosto importante, ma di più non posso dirle».
Il giovane prete capì di avere a che fare con un uomo che non era uno sprovveduto, ma il suo fiuto da ex-militare continuava a metterlo in guardia sulla reale identità di quel frate.
«Noto che ha un fisico invidiabile, nonostante sia coperto dal saio. Sulle spalle le sta un po’ stretto, deve avere dei bicipiti di tutto rispetto» disse il giovane prete, che stava cercando di innervosire Lorenzo.
«Beh, anche lei non scherza, un po’ di palestra fa bene al fisico e allo spirito»
disse Lorenzo, tirando fuori dal suo repertorio una delle frasi più stupide che conoscesse.
Il giovane prete non mollò l’osso. Si avvicino a Lorenzo guardandogli il viso. «Per vivere a Torino, ha una discreta abbronzatura. E’ naturale o artificiale?»
Lorenzo incominciava a perdere la pazienza. «Vado spesso in montagna con gli scout, è una mia ione sin da quando ero piccolo. E in montagna il sole picchia, mio caro».
«Ma… sbaglio o ha i buchi nei lobi delle orecchie? Padre, non mi dica che porta gli orecchini…».
A quel punto, Lorenzo non riuscì a trattenere la propria irritazione nei confronti di quel prete frocio. «Ascolta fratello, io sono venuto fin qui per scoparmi qualche troietta, non per are la serata con te che, detto per inciso, mi hai proprio rotto i coglioni. Non so se mi sono spiegato».
«Touché» disse il prete. «Venga con me al piano di sopra dove ci sono le stanze da letto».
Salirono le scale, mentre nel salone c’era un gran vociare di uomini di chiesa che bevevano e mangiavano come dei maiali. Alcuni erano già ubriachi e formavano dei capannelli intrattenendo discussioni anche molto animate. Lorenzo era già schifato per conto suo da quello che stava vedendo, ma non osava immaginare come si fosse sentita Livia in mezzo a quell’arena di falsi sacerdoti, che fuori da quelle ville predicavano nel nome di Dio la santità e la morigeratezza e poi, nel privato, brindavano con un calice di champagne augurandosi a vicenda una
buona scopata.
Quando furono al piano di sopra, il giovane prete chiese a Lorenzo: «Come la preferisce, padre: bianca, nera, asiatica, una ragazza o una bambina, qui abbiamo di tutto».
A Lorenzo venne un crampo allo stomaco. Quell’animale travestito da prete, gli stava chiedendo quale tipo di ragazza preferisse esattamente come un gelataio chiede quali gusti mettere sul cornetto.
«Bianca va bene» disse a bassa voce Lorenzo, che però non aveva ancora elaborato una nuova strategia sul come ottenere delle informazioni sulla morte di Livia. Quel dannato prete gli aveva mandato all’aria il suo piano iniziale, che era quello di studiare attentamente i presenti alla festa ed entrare in contatto con qualche invitato che, a suo giudizio, potesse essere a conoscenza di quello che era accaduto alla sua cara amica.
Il giovane prete allora disse: «La porto nella stanza numero diciannove, dove troverà una sorpresa del tutto inaspettata».
Fecero una ventina di metri nel corridoio e si ritrovarono davanti alla camera. Il giovane prete aprì la porta e fece entrare Lorenzo. Era tutto buio, non si vedeva nulla né si percepiva la presenza di nessun’altra persona.
D’improvviso la luce si accese e Lorenzo vide che si trovava in una stanza completamente vuota. Nessuna prostituta, nessun letto, nessun arredo, nulla di nulla. Si girò di scatto dicendo: «Ma che cazzo di scherzo è questo?» e rimase attonito. Il giovane prete, con un’espressione glaciale in volto, gli stava puntando
alla testa una pistola con il silenziatore.
«Allora, padre Lorenzo o come cazzo ti chiami, cosa ci fai in questo posto vestito come un pagliaccio?»
Lorenzo non sapeva che pesci pigliare. L’unica cosa certa era che di fronte aveva un uomo con una pistola puntata verso di lui che non si sarebbe fatto alcuno scrupolo di ficcargli un proiettile in testa. «Ascolta, non me ne frega un cazzo di quello che fate in queste feste. Se quei vecchi pedofili di merda si vogliono inculare tra di loro, per me facciano pure. A me interessa soltanto sapere chi è stato ad uccidere la mia cognata, che ha partecipato anche lei a una di queste feste putride e sozze».
«E come si chiamava questa tua cognata?»
«Il suo nome era Livia».
Il giovane prete scoppiò in una risata sguaiata, mentre Lorenzo lo guardava ammutolito.
«Potevi chiedermelo subito, non avremmo perso tutto questo tempo inutilmente!»
«Che cosa vuoi dire?» chiese Lorenzo, al quale la pressione stava salendo velocemente e che aspettava soltanto il momento giusto per saltare addosso a quell’individuo insulso.
«Vuol dire, caro Lorenzo, che a uccidere quella troia fallita sono stato io, sparandole un proiettile da centocinquanta metri che le ha fatto saltare quel poco cervello che aveva».
Lorenzo non aspettava altro. Adesso era diventato una bestia feroce che attacca la sua preda. Saltò addosso al giovane prete, che rimase un po’ sorpreso dalla velocità di Lorenzo, e lo colpì duramente sul braccio destro, facendo cadere la pistola. Cercò anche di sferrargli un paio di pugni in faccia, ma l’altro li schivò.
La macchina da guerra racchiusa nel corpo del giovane prete, non tardò a mettersi in moto. Decise di usare il taekwondo, arte marziale della quale era cintura nera, ottenuta direttamente in Corea, patria di quella disciplina. Evitò facilmente alcuni pugni sferrati dal suo avversario e poi lo colpì violentemente prima con un calcio nello stomaco, che fece vomitare Lorenzo piegato in due dal dolore, poi con un altro terribile calcio alla testa.
Lorenzo, privo di sensi era disteso per terra alla totale mercé del suo avversario. Il giovane prete raccolse la pistola e la puntò alla sua testa. Sarebbe bastato soltanto un colpo.
134.
Dopo quasi due ore di attesa fuori dalla sala operatoria del reparto di ginecologia della clinica privata milanese, i genitori videro finalmente aprirsi le porte e uscire la barella sulla quale era distesa Valentina. Era ancora un po’ stordita per l’intervento cesareo che aveva consentito di mettere al mondo la sua creatura.
«Vale, tesoro, come stai?» chiese agitatissima la madre.
«Sto bene, mamma, stai tranquilla. E’ un maschio, mamma, un bel maschietto di due chili e trecento. E’ nato Johnny, il mio piccolo Johnny, mamma. Sono tanto felice».
La mamma di Valentina incominciò a singhiozzare e il padre la strinse a sé, non riuscendo comunque a trattenere anche lui qualche lacrima di gioia.
I genitori accompagnarono la barella fino alla stanza singola, dove era ricoverata Valentina. Dopo che gli infermieri sistemarono la figlia nel lettino, entrarono in camera e la abbracciarono teneramente.
«Quando possiamo vederlo?» chiese il padre.
«Adesso, essendo nato prima del termine, lo terranno qualche giorno nell’incubatrice. Spero che me lo portino in camera presto».
In quel momento entrò nella stanza il primario del reparto di ginecologia. «Buongiorno signori e felicitazioni per la nascita del piccolo Johnny. Ha visto, Valentina, è andato tutto a meraviglia! Lei e il suo bambino state benissimo. Purtroppo, è stato necessario intervenire in anticipo perché il rischio del distacco della placenta era assolutamente reale. Non potevamo aspettare oltre. Adesso lo teniamo un po’ nell’incubatrice e, se tutto va bene, come io penso, fra tre, massimo quattro giorni, potrete tornare a casa. Adesso vi lascio festeggiare, per qualsiasi necessità non esitate a chiamarmi. Arrivederci».
«Grazie dottore, è stato gentilissimo» disse Valentina.
Il primario uscì sorridendo dalla camera. Una volta nel corridoio, però, il suo sorriso scomparve lasciando il posto ad un’espressione glaciale. Entrò nel suo ufficio, prese il cellulare, lo aprì e cambiò la SIM. A quel punto compose un numero, che non sarebbe stato possibile intercettare. Qualcuno rispose e il medico si affrettò a dare la lieta novella al suo interlocutore. «Buongiorno, Eminenza. Tutto come previsto. Il bambino è nato il giorno prestabilito. Sta bene e presto potrà andare a casa sua. Non posso tenerlo più di tanto. Adesso è tutto vostro, fate quello che dovete fare, preferibilmente stanotte. Farò in modo che in nursery tra le due e le tre non ci sia nessuno. Io ho esaurito il mio compito e soprattutto il mio debito nei vostri confronti». Il suo interlocutore chiuse la telefonata senza dire una sola parola.
Nella camera in cui era ricoverata Valentina, intanto, c’era un clima di euforia. I nonni erano al settimo cielo e non vedevano l’ora di spupazzarsi il piccolo. Valentina era felice, ma un velo di tristezza subentrò lentamente nel suo cuore. Era contenta di aver messo al mondo la sua piccola creatura ma, allo stesso tempo, la mancanza di Johnny si faceva sentire più forte che mai.
Immediatamente dopo la tragedia, era stato difficile farsene una ragione, la sua vita era stata distrutta dal dolore per la perdita dell’unico uomo che aveva veramente amato. Poi con il are dei mesi aveva metabolizzato la perdita di
Mancuso, trovando nella maternità un’ancora di salvezza e una sorta di staffetta sentimentale, prima con il padre del piccolo che aveva in grembo e poi col bimbo medesimo. Però, ormai, a trentacinque anni, con quello che aveva ato in gioventù e con il ricordo vivido di Mancuso, per lei appariva praticamente impossibile riuscire a trovare un altro uomo che potesse fare le veci del papà nei confronti del piccolo Johnny.
Nessuno avrebbe retto al paragone con Mancuso.
Nessuno l’avrebbe protetta a costo della propria vita come Mancuso.
Nessuno l’avrebbe fatta sentire donna come Mancuso.
Nessuno l’avrebbe aiutata a scacciare i fantasmi del suo ato come Mancuso.
Nessuno, nessuno, nessuno!
«Cazzo, mi manchi Johnny! Mi manchi da morire!» urlò Valentina sfogando la propria rabbia nella stanza ormai vuota, visto che i genitori erano andati via già da un po’.
Un’infermiera accorse subito entrando nella camera. «Signora Cortesi, cosa è successo? Sta male?».
«No, stia tranquilla Lucia, è stato soltanto un attacco di ansia dopo lo stress
accumulato in questi ultimi mesi».
«Comunque ne parlo con il medico di guardia, magari per tranquillizzarla mi autorizza a darle un blando sedativo».
«Grazie, Lucia, lei è molto gentile e premurosa. Se ho bisogno, non esiterò a chiamarla».
Erano ate da poco le due di notte, quando nel reparto di ostetricia e ginecologia della clinica, entrò senza far rumore il Gran Sacerdote della Setta del Pàntaclo.
Regnava il silenzio più assoluto e il reparto appariva deserto. L’uomo, vestito in abiti laici, si diresse verso la nursery.
Entrò e vide che non c’era nessuno. Probabilmente l’infermiera di turno, dietro lauta ricompensa, si era dissolta nell’ora indicata dal primario.
All’interno dello stanzone, illuminato da una fioca luce bluastra, c’era una decina di lettini e un’incubatrice. Sicuramente era quella nella quale si trovava il bimbo della Cortesi.
Il Gran Sacerdote era visibilmente emozionato e commosso. Si mise in ginocchio e pregò.
«Mio Grande Signore, mio Sacro Satana, ti ringraziamo infinitamente per averci mandato tuo figlio, che incarnerà la tua forza e la tua potenza nei confronti degli uomini ignoranti e stupidi che continuano a credere in quello che dice il bugiardo appeso alla croce. Tu, piccola creatura, adesso riceverai da me, che sono il tuo servo devoto, nel nome del nostro Padre, l’incoronazione che ti consentirà di dominare sul mondo intero».
Prese una pergamena e lesse La Sacra Profezia.
«L’Era dell’Anticristo inizierà nell’anno numero 7, quando il Grande Impostore sarà 2 volte 7 e 2 volte settimo. Ma prima di rivelarsi, l’Anticristo farà in modo che lo stupido Uomo pensi di essere al sicuro. Trascorsa sarà ormai la mendace Profezia della fine del mondo trasmessa per volere del Divino dalla bocca di coloro che in Sanscrito significano “Illusione”, come illuso sarà l’Uomo della sua salvezza. I Gentili si risveglieranno dall’incantesimo Ebraico e dalle menzogne del Cristianesimo. Ma proprio da quel fallace oracolo comincerà l’Era del Pàntaclo. Tutto sarà dominato dai numeri 5 e 7.
5 come le punte del Pentacolo e 7 da 666 il numero magniloquente vergato nel menzognero Libro.
Quando l’anno sarà il numero 7, cinque vergini verranno scelte dagli Eletti per l’estremo sacrificio.
Dopo il fallace inganno, quando il tempo sarà due volte 5, il Regno della menzogna avrà un Monarca debole e l’Anticristo comincerà a radunare le sue truppe e preparare il suo Avvento.
Quando l’anno sarà di nuovo il numero 7 e il Grande Impostore sarà il suo doppio, i 7 peccati originali si sveglieranno dal loro torpore e l’Uomo, in preda al terrore, si sottometterà al suo Unico vero Dio che dalle tenebre apparirà e gli dirà: “La morte sarà la tua purificazione”.
In quel tempo saranno ati 5 anni dalla loro predilezione. Le 5 vergini, che avranno raggiunto i 7 anni, saranno sacrificate ogni 5 giorni a partire dal settimo giorno del mese due volte 5. Dopo 7 mesi dalla conclusione dei sacrifici, nascerà colui che sarà stato scelto dagli Eletti per condurre le nostre legioni alla vittoria finale. Colui che diventerà l’Anticristo. Tutto finirà e la morte si abbatterà sugli infedeli peccatori. Il Sette, l’Anticristo, sarà il Padrone dell’Universo».
Dopo aver enunciato La Sacra Profezia, il Gran Sacerdote introdusse la mano destra nell’apertura rotonda dell’incubatrice e impose sulla fronte del bimbo con il pollice destro impregnato di un unguento trasparente il segno satanico della croce rovesciata.
«Figlio del Sacro Satana, d’ora in poi noi saremo i tuoi servi e la Setta del Pàntaclo sarà al tuo servizio. Indicaci la via e noi obbediremo al tuo volere».
A quel punto il Gran Sacerdote si alzò in piedi e come era entrato, così scomparve nel nulla.
135.
Lorenzo si risvegliò e molto lentamente riprese i sensi. Non sapeva dove si trovasse.
Non sapeva se fuori fosse giorno o notte.
Non sapeva da quanto tempo fosse là, con i piedi e le mani legate da una corda robusta, steso su quel pavimento sudicio e freddo.
L’ultimo suo ricordo era un calcio ricevuto in faccia scagliato dal giovane prete. Soltanto che al posto del piede doveva avere un martello. Era stato talmente violento e doloroso che Lorenzo si stupì di avere la testa ancora al suo posto.
Sicuramente era in quelle condizioni già da un bel po’ di tempo, perché aveva la gola riarsa dalla sete e il sangue, uscito dal capo, ormai raggrumato.
Il calcio nello stomaco gli faceva venire conati di vomito, in bocca sentiva il sapore caldo e metallico del suo sangue.
Una benda gli copriva gli occhi. Nessun raggio di luce la penetrava e questo lasciava presagire che la stanza fosse immersa nell’oscurità più completa.
Il suo persecutore vestito da prete era scomparso.
Perché non l’aveva ancora ucciso?
Perché lo teneva in quelle condizioni disumane?
Voleva farlo soffrire lentamente per rendere ancora più piacevole la sua morte?
Il suo era un atteggiamento incomprensibile. Di solito, per quel poco che Lorenzo ne sapesse, un killer uccide e basta, senza troppi fronzoli, senza inutili perdite di tempo. Nel suo caso, invece, era stato, almeno sino a quel momento, infranto il rigido protocollo.
Perché?
Ora era lì, inerme, allo stremo delle forze, in un posto sconosciuto senza che potesse far nulla. Aveva anche provato a gridare, ma il suono della sua voce era rimbombato come se si fosse trovato in una caverna, o forse, più verosimilmente, in un’enorme cantina.
Improvvisamente sentì un rumore poco distante.
Attese qualche secondo, cercando di capire da dove provenisse. Nulla, il rumore era scomparso.
Forse l’aveva sognato, forse stava ancora dormendo, forse era già morto senza rendersene conto. Era morto e quello era il buio della sua bara.
Poi il rumore si ripeté e pensò che forse fosse ancora vivo.
Sentì dei i in avvicinamento e fu assalito dal terrore.
Riconobbe in quei i quelli del suo aguzzino. Forse non era uno, erano in due. O forse erano in tanti, tantissimi, una legione infernale che era venuta lì per ucciderlo e trasportarlo via, con sé, nel più profondo e disperato degli abissi.
I i risuonarono attorno a lui.
Lorenzo si raggomitolò.
«Che cosa vuoi da me?» chiese, vincendo il dolore al volto. «Liberami e sparirò per sempre».
Si udì una risata.
Qualcosa gli punse il braccio, sentì il liquido di una siringa entrargli nel corpo.
Il buio più completo lo avvolse nuovamente.
Dopo un periodo di tempo indefinibile, aprì gli occhi.
Era di nuovo sveglio, con gli stessi dolori al volto e la stessa nausea allo stomaco di prima.
Con immensa fatica, cercò di sistemarsi in una posizione più comoda. Aveva tutti i muscoli indolenziti, a causa della forzata costrizione. Le mani e i piedi legati erano ormai insensibili, per la carente circolazione del sangue.
Un’altra volta gli tornò il dubbio.
Sono vivo o morto?
Provare dolore, dicevano i vecchi saggi, era l’unico modo per stabilire se si fosse ancora vivi o meno.
E lui il dolore lo provava, eccome! Ne dedusse, quindi, che era ancora vivo.
Iniziò a strisciare e le ossa gli facevano male.
Con grande sforzo, si mise a sedere. Gemette.
Si spostò fino a trovare la parete ruvida, la seguì e dopo una fatica immane trovò quello che cercava: uno spuntone. Comincio a strusciare la corda che gli stringeva le mani.
Strofinò più forte possibile, sino a procurarsi delle abrasioni ai polsi legati. Alla fine la corda si ruppe. Era libero.
Si sciolse la benda che copriva i suoi occhi. Li sbatté più volte cercando di abituarli al buio.
Non si intravedeva assolutamente nulla, si sentiva soltanto un nauseante puzzo di muffa e di piscio. Poteva proprio trattarsi di una grotta, forse nei pressi della Villa del Cardinale. Si sbrigò a sciogliere il nodo della corda che legava i suoi piedi e, vacillando, si alzò.
Fece qualche o e la gioia di sentirsi libero nei movimenti gli fece salire in gola la voglia di urlare, ma si trattenne, per paura che il giovane prete potesse udirlo.
Si guardò intorno, ma era veramente troppo buio per individuare un’eventuale via di fuga. Era un prigioniero, senza alcuna speranza di salvezza. Nessuno l’avrebbe cercato. Nessuno avrebbe notato la sua assenza. Nessuno avrebbe chiamato la Polizia per denunciarne la scomparsa.
Allora la disperazione lo travolse completamente. Quasi senza rendersene conto, come se il suo cervello non fosse più in grado di controllare i movimenti del suo corpo, si lanciò contro la parete, più volte. Voleva auto annientarsi e morire, stava impazzendo, la morte era la soluzione più semplice, l’unica via di uscita,
era l’unica... sì, era l’unica luce in quelle tenebre.
Ad un tratto una risata, forte e chiara.
Lorenzo si fermò di colpo. In quel dannato luogo buio c’era qualcuno insieme con lui. «Chi cazzo sei? Tu riesci a vedermi?» domandò interrompendo la sua auto flagellazione contro il muro.
La voce gelida del giovane prete risuonò beffarda: «Lorenzo, certo che riesco a vederti! Hai mai sentito parlare di occhiali per la visione notturna? E’ già da un po’ che ti stavo osservando e, detto francamente, ho dovuto fare molta fatica per non mettermi a ridere subito. Sei proprio un coglione… Che cosa vuoi fare? Abbattere la parete a spallate?»
«Dove siamo e perché non mi hai ancora ucciso?»
«Non posso rivelarti il luogo in cui ci troviamo adesso. E’ un mio nascondiglio personale, non si sa mai, può sempre servire per chi fa il mio lavoro. Per quanto riguarda la tua seconda domanda, la risposta è più complessa. Ti ho risparmiato perché potresti tornarmi utile. Un killer non è un benefattore e non si lascia mai condizionare dai sentimenti, quali ad esempio ione, amore, pietà, umanità e altre cazzate di questo genere. Ogni gesto o atto messo in pratica da un killer ha sempre una motivazione e un fine ultimo da raggiungere».
«Ed io cosa c’entro in tutto questo bel discorsetto? Ah, dimenticavo! Mi hai messo gli occhi addosso e adesso vorresti divertirti un po’ con il mio culetto?» disse Lorenzo che stava tentando di capire da dove provenisse quella voce. Ma il giovane prete non era uno stupido. Si spostava continuamente, in silenzio,
proprio per mettere in difficoltà il suo avversario.
«Stai tranquillo, Lorenzo. Il tuo culetto lo conserviamo per un’altra volta. Io, invece, volevo farti una proposta. Tu sei venuto fin qui a Roma per scoprire chi ha ucciso la tua cara amica Livia. Ti ho già confessato che sono stato io, ma sono soltanto un killer prezzolato che viene ingaggiato per fare il lavoro sporco. Io ho soltanto eseguito un ordine che mi è stato impartito dal mio attuale datore di lavoro. Non sono io quello che devi cercare ma piuttosto devi scoprire chi ha dato quell’ordine. E’ come se a Livia fosse stata puntata una pistola alla testa. Io ho soltanto premuto il grilletto dell’arma che qualcun altro teneva saldamente in mano».
Lorenzo non riusciva a capire il significato delle parole del giovane prete, soprattutto che cosa intendesse dire con la frase: “Ti ho risparmiato perché potresti tornarmi utile”.
«Ascolta stronzo. Non me ne frega un cazzo se posso o non posso esserti utile. Finora ti è stato facile giocare, perché hai sempre barato. Dammi un paio di occhiali agli infrarossi oppure togliti i tuoi. Non ricorrere alle arti marziali, ma battiti alla pari con me. Allora vedremo come andrà a finire. Tu sei solo un codardo che fa in modo di essere sempre in una posizione di superiorità rispetto al suo avversario. Persino la povera Livia! Neanche lei hai avuto il coraggio di affrontarla a faccia a faccia. Le hai sparato da centocinquanta metri. Una povera donna indifesa che è morta senza neanche saperne il motivo. Tu mi fai schifo, sei una merda e se solo potessi metterti le mani addosso, ti assicuro che ti erebbe la voglia di ridere».
Dopo lo sfogo di Lorenzo, tornò il silenzio più assoluto.
Il giovane prete non aveva replicato. Lorenzo intuì che molto probabilmente si
stava avvicinando a lui o per drogarlo un’altra volta o per ucciderlo. Allertò tutti i sensi, ma il silenzio era angosciante, anche se, per altro verso, aumentava in lui a dismisura l’istinto di sopravvivenza.
All’improvviso, udì un piccolo rumore impercettibile alle sue spalle. Un sassolino frantumato da una scarpa. Lorenzo non aspettava altro. Alla cieca si voltò di scatto e lasciò partire, più o meno all’altezza del suo volto, con tutte le forze che aveva ancora in corpo, un pugno impregnato di odio e rancore.
La fortuna premiò il coraggio di Lorenzo. Il pugno non andò a vuoto, come egli temeva, ma si abbatté con tutta la sua forza sul volto del giovane prete, il quale urlò dal dolore e cadde per terra. Lorenzo era cosciente del fatto che doveva sfruttare al massimo il piccolo vantaggio rappresentato dalla sorpresa della sua azione. Seppur il buio fosse sempre impenetrabile, lui sapeva esattamente dove si trovasse il corpo del suo persecutore.
Gli saltò addosso, gli prese gli occhiali dal viso e gli strappò la pistola dalla mano destra. Lorenzo intuì che molto probabilmente la sua reazione gli aveva salvato la vita.
A questo punto i ruoli si erano invertiti. Lorenzo vedeva al buio ed era armato, il giovane prete invece non vedeva nulla e aveva perso la sua arma.
«E bravo Lorenzo!» disse quest’ultimo. «Hai un bel gancio, non c’è che dire. Adesso però ascoltami, non puoi fermarmi proprio ora, ho una missione da compiere e sono molto vicino al mio obiettivo finale».
Lorenzo vide il volto sanguinante del giovane prete e le sue parole lo colsero del
tutto impreparato. «Che cosa cazzo stai dicendo? Una missione da compiere, un obiettivo finale? Credi che io sia un perfetto coglione? Tu sei soltanto uno sporco assassino e adesso usciamo da questo lurido posto e andiamo alla polizia. Punto».
«Lorenzo, io sono un agente della CIA. Mi sono infiltrato nella Setta del Pàntaclo già da qualche tempo. Sono in grado di smascherare parecchi dei suoi componenti. E’ una setta potentissima, al suo interno ci sono alti prelati, politici, militari e magistrati. In questi giorni si è verificato un evento che loro attendevano da anni e che potrebbe cambiare gli equilibri religiosi planetari attualmente esistenti e faticosamente raggiunti negli ultimi decenni con guerre, stermini, genocidi in tutto il mondo. Ti prego lasciami andare, lasciami portare a termine il mio compito».
Lorenzo rimase stordito da quelle parole, ma non era di certo uno stupido. «Ti è andata male, coglione. Io sono un membro della Setta del Pàntaclo, anche se non conto nulla. Tu un agente della CIA? Davvero pensi che io sia così stupido da credere alla tua storiella? Tu sei solo un assassino! Hai ucciso Livia e Dio solo sa quanti altri essere umani!»
«Lorenzo, non dovrei dirtelo, ma la mia missione coinvolge diverse persone. Per conquistarmi la fiducia della setta, ho dovuto mettere in atto tutta una serie di operazioni convincenti. L’uccisione di Livia è stata una di queste, ma si è trattato soltanto di una messinscena! Livia è viva e sta benissimo! E’ sotto la nostra protezione in una località segreta».
A Lorenzo sembrava di essere stato travolto da uno tsunami. Non riusciva più a connettere. Stava perdendo lucidità e non poteva permetterselo. L’uomo che, nel buio di quel luogo situato chissà dove gli stava di fronte, non avrebbe esitato un solo attimo per cogliere un abbassamento della sua concentrazione e tornare padrone della situazione.
Lorenzo pensò che prima di tutto bisognasse uscire da quella prigione puzzolente e lurida. «Ascolta, adesso mi porti fuori da questa topaia, torniamo alla luce del sole e poi ragioniamo con calma in un luogo pubblico pieno di gente. Hai una torcia?»
«Sì, certo».
«Allora accendila e fammi strada, ma stai attento: una mossa sbagliata e la tua avventura da 007 finisce qui».
Il giovane prete accese una potente torcia che, all’inizio, accecò gli occhi di Lorenzo, ormai abituati al buio. Si trovavano effettivamente in una grotta dalla quale si usciva imboccando uno stretto corridoio. Percorsero un centinaio di metri e trovarono una lunga scalinata di pietra. Salirono lentamente, sempre con Lorenzo che impugnava la pistola contro la schiena del giovane prete. Giunsero in un luogo angusto, chiuso da una porta di legno, dalle cui fessure si intravedeva già un po’ di luce. Il giovane prete aprì la porta e Lorenzo rimase a bocca aperta. Si trovavano ancora in una grotta, a un livello superiore rispetto a quella precedente, ma era illuminata e da essa si diramavano nicchie, corridoi e cappelle laterali.
«Dove cazzo siamo?» esclamò Lorenzo.
«Non lo indovineresti mai, le sorprese non sono finite».
Imboccarono un altro lungo corridoio e in lontananza videro un cartello con
sopra scritto Uscita e una freccia che indicava la sinistra. Lorenzo aveva il fiatone, in parte per l’itinerario appena percorso, in parte per l’ansia di capire dove fossero finiti.
Erano esposte diverse opere d’arte lungo le pareti, segno che dovevano trovarsi all’interno di un grande museo, pensò Lorenzo. Giunsero al termine e videro che, alla loro sinistra, c’era un’altra scalinata a chiocciola, molto stretta. La percorsero e finalmente emersero in superficie.
Lorenzo rimase esterrefatto. Si trovavano all’interno della Basilica di San Pietro.
136.
Valentina era raggiante. Finalmente quel giorno l’avrebbero dimessa dalla clinica con il suo bambino. Erano ati quattro giorni dal parto ma, finora, le avevano impedito di vedere il piccolo Johnny, senza fornirle ulteriori informazioni. Lei si era molto preoccupata, temeva che potesse essere emerso qualche problema di salute al piccolo, ma il primario in persona l’aveva tranquillizzata e le aveva fatto presente che in quella clinica vigeva un rigido protocollo che prevedeva il ricongiungimento della mamma al bimbo nato prematuramente, soltanto dopo il periodo trascorso nell’incubatrice.
Nella stanza dei medici del reparto di ginecologia, c’era un’animata discussione tra due colleghi.
«Ascolta, Giorgio», disse il primo, «il Capo vuole dimetterli oggi, ma io non firmerei la lettera di dimissione».
«In effetti, è una situazione alquanto anomala, devo dire», rispose l’altro, «e anche pericolosa per la possibile reazione della madre che non vede il figlio da quattro giorni. Anch’io sarei molto cauto e approfondirei con il Capo questo caso un po’ particolare».
In quel momento entrò nella stanza il primario, che aveva colto gli ultimi brandelli della conversazione dei colleghi.
«In cosa dovremmo essere più cauti, dottor Gentile?»
Fu l’altro medico a rispondere: «Dottor Gonzaga, è mio convincimento che oggi non dovremmo dimettere il piccolo Johnny».
«E per quale motivo? Sta benissimo, i valori sono tutti nei parametri, l’incubatrice è stata utilizzata soltanto due giorni, poi il bambino ha potuto tranquillamente farne a meno. Adesso dobbiamo soltanto verificare se la madre riuscirà ad allattarlo al seno oppure se Johnny continuerà a preferire il biberon».
«Allora perché non ha fatto portare il bambino dalla madre dopo il secondo giorno di incubatrice? Forse perché anche lei è preoccupato dall’atteggiamento del piccolo?»
«Ascolti Cattaneo, mi rendo perfettamente conto che il piccolo Johnny ha una condotta comportamentale del tutto anomala per un neonato. Ho provato a sentire alcuni colleghi di Roma al Bambin Gesù, ma anche loro non sono stati in grado di dare una spiegazione, così su due piedi, su quello che sta succedendo al bambino. Dovrebbero visitarlo e sottoporlo a tutta una serie di esami. Ovviamente, è necessario il consenso di sua madre. Signori, abbiamo quindi due possibilità: o tratteniamo forzatamente il bambino, spiegando alla madre le ragioni della nostra decisione, anche se, oltre a tenerlo sotto osservazione, non sapremmo bene che cosa fare, oppure li dimettiamo facendo presente alla madre che sarebbe opportuno rivolgersi ad una struttura pubblica che abbia uomini e mezzi per approfondire le indagini sul bambino. Io ho scelto la seconda ipotesi. Ovviamente diremo alla madre che siamo totalmente a sua disposizione per ogni evenienza. Domande?»
Tutti i presenti tacquero.
«Bene, Cattaneo dia disposizioni in nursery perché portino il bambino nella stanza della madre. Io vado subito».
«Va bene» fu la risposta laconica del medico.
Il primario uscì dall’ufficio, prese il cellulare e fece nuovamente il cambio della SIM. Compose il medesimo numero dell’altra volta e rispose la stessa persona. «Buongiorno, Eminenza. Sta avvenendo, è straordinario! Non avevo mai visto nulla di simile. Un neonato… unico! Adesso tornerà a casa dai genitori di Valentina. Il processo è ormai irreversibile. Si sta avverando un miracolo!» La comunicazione fu interrotta.
Valentina, in camera, stava sistemando i suoi abiti nella piccola valigia che si era portata da casa. Sentì bussare alla porta e andò ad aprire. Era il primario, il quale entrò e fu subito attratto dalla piccola culla che giaceva sul letto.
«Buongiorno, dottore. Finalmente riesco a vedere Johnny! Pensavo quasi di essermelo sognato di avere partorito un bambino!»
«No, stia tranquilla Valentina. Il bambino c’è, glielo assicuro. Prima che lo veda, però, reputo sia indispensabile da parte mia che io la prepari all’incontro».
Valentina sbiancò in volto. «Che cosa vuole dire, dottore? Il mio bambino ha qualche problema di salute o di altro genere? Per favore non mi tenga sulle spine».
«No, no signora, stia assolutamente tranquilla! Il piccolo sta benissimo, non c’è alcun problema di salute». Il medico non riusciva a trovare le parole giuste per dire a Valentina la verità. «Soltanto la devo preparare. Lei si aspetta di vedere un neonato di circa due chili e mezzo di peso, bruttino e dormiglione. Invece…».
«… Invece?» disse Valentina che non stava capendo bene quello che il medico voleva dirle.
«Invece suo figlio pesa circa due chili, oltre che per la perdita fisiologica di peso, anche perché rifiuta il biberon. Credo che abbia bisogno al più presto di nutrirsi con il latte materno. Ciò nonostante ha una vivacità, una motilità, un’irrequietezza esagerate, caratterizzate anche da pianto convulsivo continuo, apparentemente senza motivazioni, comportamenti del tutto anomali per un neonato che normalmente, nelle prime ore di vita, dorme in continuazione».
Valentina rimase a bocca aperta. Si sedette sul letto perché ebbe un immediato giramento di testa. «Dottore, lei mi sta dicendo che il mio bambino nato prematuramente, non si sta nutrendo ma si comporta come se fosse un bimbo più grande?»
«Sì, signora questa è la realtà. E’ per questo motivo che abbiamo aspettato a farglielo vedere».
«Com’è possibile?» disse Valentina incredula. «Cosa gli avete dato da mangiare? E se reputavate che fosse necessario nutrirlo con il latte materno, perché non me lo avete portato subito in camera?»
«Lo abbiamo nutrito come tutti i neonati che trascorrono un po’ di tempo
nell’incubatrice. Non glielo abbiamo portato subito in camera per cercare di capire quali fossero i motivi del suo comportamento convulsivo. Lui, però, sta bene, non c’è nessun parametro fuori dalla norma. A questo punto non possiamo fare altro. Ritengo che appena si attaccherà al suo seno, ritroverà la serenità».
«E adesso cosa devo fare?» chiese Valentina scioccata.
«Per quanto ci riguarda, lei sta bene, il bambino sta bene, quindi non ci sarebbe alcun motivo per trattenervi ancora in clinica. La nostra è una clinica privata che si occupa soltanto di far nascere i bambini, non di studiarne eventuali patologie che emergessero dopo il parto. In questi casi, l’unica soluzione sarebbe di portare il bambino in una struttura pubblica, dove ci siano medici più preparati a svolgere questo tipo di analisi e di accertamenti. Ho già parlato con un collega che lavora al Bambin Gesù di Roma. Sono disponibili ad accogliere sin da subito suo figlio, per effettuare delle analisi genetiche e ormonali più accurate che qui non siamo in grado di realizzare. Certo, non è detto che il fenomeno continui nei prossimi giorni, ma non si potrebbe in ogni caso far finta che nulla sia successo, anche per preservare la salute del bambino nei prossimi anni. Io se fossi in lei, lo porterei al Bambin Gesù».
Valentina era turbata. La sua vita negli ultimi otto mesi era stata sconvolta. Prima la morte di Mancuso, poi l’uscita dall’Arma dei Carabinieri, infine la maternità che non poteva essere normale come nella stragrande maggioranza delle donne.
In quel momento si aprì la porta della camera ed entrò l’infermiera con il lettino. «Ecco qua il piccolo Johnny, finalmente con la sua mamma!»
Valentina si avvicinò con cautela, poi il suo istinto di mamma prevalse. Guardò all’interno del lettino e lo vide.
Era bellissimo.
Ricordò bene quando l’aveva visto per la prima volta… era uno scricciolo nudo, tremante e strillava come un matto e lei aveva pianto di gioia. Adesso che erano nuovamente insieme, nella stanza, lui dormiva e Valentina lo guardava incantata.
Per quanto avesse cercato di immaginarlo durante la gravidanza, non avrebbe mai pensato che potesse essere così bello e perfetto. Di lì a poco si sarebbe svegliato e lei lo avrebbe appoggiato sul suo petto… che sensazione dolce, meravigliosa sarebbe stata! E fu in quel momento che Valentina ebbe piena coscienza di quanto grande fosse l’amore, il legame tra un figlio ed una mamma, un amore immenso, infinito, eterno.
«Lo prenda in braccio» disse il primario.
«Ma sta dormendo, non vorrei rompergli le scatole. Ha un viso talmente beato che mi rincresce svegliarlo».
«Come preferisce, signora. Io ora la saluto e, se i sintomi comportamentali dovessero continuare, segua il mio consiglio. Comunque stia serena Valentina. Johnny sta bene, i suoi organi sono tutti perfettamente funzionanti. Dagli esami del sangue non è emersa alcuna anomalia. Valuti però attentamente quello che le ho detto prima. Auguri di cuore».
Valentina stava facendo ritorno a casa a bordo di un taxi. Johnny non si era svegliato durante lo spostamento dal lettino alla culla. Era lì’ che dormiva come
un angioletto, del tutto insensibile al caos e ai rumori del traffico cittadino. Valentina, vedendolo così tranquillo, non riusciva a capacitarsi di quello che le aveva detto poco prima il primario: pianto convulsivo, irrequietezza, movimenti scomposti. In quel momento Johnny era rilassato e sereno. Forse alla clinica avevano sopravvalutato certi suoi comportamenti, che, con l’unione con la madre si erano, come per magia, dissolti.
Quando arrivarono a casa, Valentina fu accolta a braccia aperte da sua madre, mentre il padre le prese la culla e la portò in camera. Johnny stava incominciando a svegliarsi, era quasi ora della pappa.
In casa si tagliava con il coltello un certo imbarazzo da parte dei genitori di Valentina. Quest’ultima, aveva parlato con loro prima di uscire dalla clinica, accennando a quanto le era stato detto dal primario. Se ne accorse e cercò subito di mettere le cose in chiaro. «Ascoltate», disse, «si legge nei vostri occhi la stessa preoccupazione che ho avuto io quando ho visto Johnny poche ore fa. Alla clinica il primario mi ha detto che il bambino sta bene e questo, per ora, mi basta. Nei prossimi giorni vedremo cosa accadrà. Se il fenomeno dovesse perdurare, a quel punto seguirò il consiglio del primario di portarlo a Roma al Bambin Gesù, in modo che lo possano esaminare con cura e darci delle risposte accettabili. Adesso direi di non farci prendere dal panico. Di là c’è un nuovo esponente della famiglia Cortesi. Diamogli il benvenuto».
I genitori si strinsero a Valentina, la madre si fece prendere dalla commozione, quando improvvisamente sentirono il bambino che piangeva. Accorsero tutti e tre in camera e rimasero senza parole: Johnny si dibatteva nella culla in modo del tutto innaturale, come se fosse percorso da scariche elettriche. Strillava come un ossesso e aveva il volto iniettato di sangue.
«Non è possibile…» sussurrò il nonno.
Superato il primo attimo di sgomento, Valentina prese il bambino in braccio e cercò di calmarlo. Lui smise di piangere e incominciò a fare dei versi indecifrabili.
Il sorriso tornò sul viso di tutti.
«Perché non provi ad attaccarlo» disse sua madre.
«Sì mamma, volevo giusto provarci».
Andarono in soggiorno e Valentina si sedette sul divano. Aveva molto male al seno, quindi il latte non doveva farle difetto. Liberò la mammella sinistra e attaccò Johnny. Il piccolo incominciò a succhiare avidamente, con grande gioia dei presenti.
«Aveva ragione il primario» disse Valentina «il piccolo Johnny voleva il latte della mamma e non quelle schifezze che gli davano in clinica. Piano, Johnny, mi fai male!»
I genitori osservavano divertiti la scena. Poi la mamma disse: «Adesso cambia mammella così fai riposare quella sinistra».
Valentina cercò di staccare Johnny, ma non ci riuscì. Anzi più tentava di staccarlo più lui si attaccava al capezzolo.
A un certo punto, Valentina incominciò a sentire un dolore crescente e insopportabile. «Staccati Johnny, ti prego, mi fai male da morire!»
Niente, lui continuava imperterrito. «Ti prego mamma aiutami, non ce la faccio più!»
La madre intervenne subito e prese il corpicino del bambino per staccarlo dalla mammella. Era impossibile, il bambino non si staccava. Valentina incominciò a piangere dal dolore. Iniziarono a intravedersi delle gocce di sangue che scivolavano dal seno al ventre. Valentina e sua madre contemporaneamente tentarono di staccare il bambino, ma lui era attaccato al seno come un cane al proprio osso.
«Staccati!» urlò Valentina che era giunta al limite della sua sopportazione.
A quel punto intervenne il padre che, senza esitazioni, prese con le due mani le labbra del bambino, cercando di aprirgli la bocca e staccarlo dal seno, ma lui aveva una forza inimmaginabile.
Valentina era disperata. «Ti prego papà, ti prego, ti prego! Mi sta staccando il capezzolo!»
Il padre fece leva con le mani più che poté a costo di rompere la bocca del bambino. Era incredibile: tre adulti che non riuscivano a staccare dal seno un bimbo di pochi giorni.
«Vale, se non si stacca, gli provoco del dolore da qualche altra parte, così spero si distragga» disse il padre.
Poi, come per magia, spontaneamente, il bambino si staccò. Aveva il viso sporco di latte misto a sangue. Sembrava appena uscito da un film dell’horror. Lo spettacolo non era però ancora terminato. Dopo alcuni secondi emise un rutto terribile accompagnato da una ventata di odore nauseabondo.
Valentina era sconvolta da quello che era successo. Il capezzolo sinistro le faceva un male tremendo ed era tutto lacerato.
Sua madre andò subito a prendere l’occorrente per la medicazione della ferita.
«Questo bimbo ha un urgente bisogno di un bravo pediatra» disse il nonno che lo teneva in braccio e lo aveva ripulito per bene. Poi lo rimise nella culla. Sembrava tranquillo e sazio.
Fu in quel momento che accadde l’impensabile.
Johnny parlò.
Prima con una vocina da bimbo: «Mamma».
Tutti si voltarono esterrefatti verso di lui.
Poi con una voce rauca e terrificante: «Sei una puttana!».
137.
Dopo aver superato lo shock iniziale per avere scoperto di essere stato prigioniero nelle grotte della Basilica di San Pietro, Lorenzo, si rivolse al giovane prete. «Bene, ora il programma prevede che tu mi porti dritto filato al rifugio dove si trova Livia».
«E’ impossibile» disse sorridendo il giovane prete.
«Per quale motivo?»
«Perché Livia è sotto protezione! Io non ho la più pallida idea di dove l’abbiano portata».
«Chiedi ai tuoi capi, qualcuno saprà pure dove cazzo è questa località».
«Lorenzo, hai le idee un po’ confuse su quello che succede a un individuo quando entra in un programma di protezione. La Livia che hai conosciuto tu, non esiste più. Adesso tua cognata si chiamerà Maria o Mafalda, avrà un altro lavoro, nuove amicizie. Con il ato ha chiuso definitivamente e nessuno, anche al nostro interno, saprà mai dove lei adesso vive. Insomma tu Livia non la vedrai mai più».
«E come faccio, io, a essere sicuro che tu mi stia dicendo la verità?»
«Dovrai fidarti amico, non ci sono alternative».
«Come faccio a fidarmi di te, cazzo! Mi hai quasi ammazzato di botte nella villa e poi mi hai segregato in quel letamaio che tu hai descritto come il tuo “nascondiglio” drogandomi ripetutamente. Quali erano i tuoi progetti sul mio conto?»
«Non avevo ancora deciso. Il contratto che mi lega alla Setta prevede che io elimini coloro che mi vengono espressamente indicati e mi lascia la più totale discrezionalità sulla soppressione di altri individui che io ritenga possano essere dannosi per la loro causa. Tu francamente non mi sembri molto dannoso, già per come ti sei presentato alla festa con quel saio ridicolo».
«Ma tu hai ucciso veramente? E hai utilizzato questa facoltà discrezionale?»
«Sì, ho ucciso. Alcune volte».
«Cioè mi stai dicendo che hai ucciso degli esseri umani soltanto per non far saltare la tua copertura?»
«Sì, è proprio così. Per essere convincenti con questa gente che noi stiamo combattendo, abbiamo dovuto tenere un comportamento eticamente riprovevole ma efficace, perché ora siamo molto vicini alla testa della piovra».
«Mi fate schifo… ma alla fine allora qual è la differenza tra voi e loro? Qui non si tratta di stabilire quale sia il bene e il male, ma quale sia il male minore e il
male peggiore. Non sarò dannoso, ma non sono neppure un idiota caro…a proposito, ce l’hai un nome?»
«Qualcuno che non c’è più mi chiamava Lucifero».
«Un nome che ti calza a pennello… anche alla luce di quello che tu mi hai appena detto, non mi puoi far credere che mi lascerai in vita. Ormai so troppe cose, per te rappresento un pericolo. Appena avrai l’occasione, mi ammazzerai. Adesso, però, io sono armato e tu no, quindi facciamo come dico io. Prendi il cellulare e chiami quello che ti ha dato l’ordine di uccidere Livia. Gli dici che hai urgentemente bisogno di parlargli e così gli facciamo una bella sorpresa».
«Tu sei pazzo! Non funziona così! Non sono io a chiamarli, ma sempre loro! Non ho neanche i loro numeri di telefono… quando c’è una missione da compiere è sempre la stessa persona che mi chiama e mi dà le istruzioni. Non so altro!»
Lorenzo spinse il giovane prete in un angolo dietro un confessionale vuoto. Impugnò la pistola e gliela puntò sotto la gola.
«Ascoltami stronzo. Adesso basta con i giochini. Non è possibile che tu non abbia un numero per le eventuali emergenze. Adesso prendi ‘sto cazzo di telefono e chiami il tuo contatto, altrimenti giuro su Dio che ti faccio saltare le palle!»
«Va bene, va bene, stai calmo… adesso telefono» disse il giovane prete ansimante. Prese dalla tasca interna un cellulare e schiacciò un solo tasto. Evidentemente il numero era memorizzato per la chiamata diretta. Qualcuno
rispose e il giovane prete, con la pistola schiacciata contro la sua gola, disse con voce sommessa: «Buongiorno, Eminenza. Ho assoluto bisogno di vederla. Preferisco parlarle di persona. Ok, ci vediamo tra mezzora al solito posto».
«Quale sarebbe il solito posto?» chiese Lorenzo.
«E’ la camera di un albergo nel centro di Roma».
«Bene, prendiamo un taxi e andiamoci subito».
«Posso sapere qual è il tuo programma?»
«Quando saremo lì, lo capirai».
Presero un taxi e si diressero verso l’Hotel Napoleon, un lussuoso albergo situato nel pieno centro di Roma.
Entrarono nella hall e si diressero verso il bancone della reception. Il portiere di turno riconobbe subito il giovane prete e lo accolse con un sorriso esagerato, per metà dovuto al piacere di rivedere una persona conosciuta e per l’altra metà per porre delle solide basi a una mancia generosa.
«Buongiorno padre e buongiorno anche a lei» disse rivolto a Lorenzo. «Sua Eminenza vi aspetta nella solita stanza».
«Grazie, Vittorio. Mi raccomando la solita discrezione. Nessuno ci deve disturbare nella prossima ora».
«Sarà fatto, stia pure tranquillo padre».
I due si diressero verso gli ascensori e Lorenzo non riuscì a non sorridere: «Il solito posto, la solita stanza, la solita discrezione. C’è qualcosa di insolito nella tua miserevole vita, Lucifero?».
«Non farti trarre in inganno. Queste per me sono cazzate. La mia vita reale è costellata da imprevisti e da situazioni difficilmente preventivabili».
Salirono al terzo piano, uscirono dall’ascensore e il giovane prete, sempre seguito da Lorenzo, che nascondeva la pistola puntata sotto la giacchetta di cotone, camminò nel corridoio fino a fermarsi davanti alla camera 315. Bussò energicamente e qualcuno dall’interno della stanza rispose: «Avanti».
Entrarono nella camera. C’era un’area living e un’area notte. L’arredamento in stile antico, arricchito da tessuti preziosi e ricercati e da colori morbidi ed eleganti, dava alla camera l’atmosfera e il fascino di calda accoglienza delle case di un tempo antico, ugualmente però dotate di tutti i comfort.
Lorenzo cercò di rimanere concentrato, senza farsi distrarre dal lusso nel quale non era abituato a vivere. Nella stanza c’era un uomo che dava loro le spalle e guardava fuori dalla finestra. Era un prelato.
«Buongiorno, Eminenza» disse il giovane prete in tono ossequioso.
Sempre rimanendo di spalle, il prelato disse: «Allora, a cosa devo la vostra visita?»
Lorenzo arrivò subito al sodo, usando come il solito i suoi modi spicci. «Prima di tutto ti comunico che il tuo amichetto dice di essere un infiltrato, un agente della CIA. Poi afferma che sei stato tu a ordinargli di uccidere Livia, mia cognata. E’ vero?»
«Figliolo, se anche ti dicessi che è vero, tu cosa faresti?»
«Chiamerei subito la polizia e ti farei arrestare».
«E con quali prove? Tu sei un povero disperato, io sono un Cardinale della Chiesa Cattolica. A chi crederebbe la polizia?»
«C’è qui il tuo amico prete che mi ha confessato le tue responsabilità. Gliele farò ripetere davanti a un giudice».
«Padre, è vero quello che dice questo signore? Che sei un agente della CIA? Ciò sarebbe molto riprovevole, mi capisci?».
«Eminenza, le giuro che io non ho mai detto nulla del genere. Come potrei tradire la vostra Setta. Io sono un professionista. Se prendo un impegno lo porto a termine, a costo della mia vita stessa».
Lorenzo infuriato capì di essere stato ingannato. «Bastardi! Siete soltanto dei luridi bastardi e lei, Cardinale, è ancora più lurido per il fatto di essere un religioso, un uomo di Dio».
«Hai un solo modo per farti giustizia, figliolo. Mi devi uccidere».
Lorenzo puntò la pistola alla testa del Cardinale. La mano tremava e l’arma gli scivolava per il sudore. Avvicinò l’indice al grilletto, lo mosse leggermente, ma non riuscì a sparare.
Il giovane prete, che aveva assistito alla scena imperturbabile, vide Lorenzo in totale confusione mentale, si avvicinò a un comò, aprì il primo cassetto ed estrasse una pistola con il silenziatore. «Lorenzo, se non riesci a farlo tu, lo farò io».
Puntò anche lui la pistola alla nuca del Cardinale, il quale era sempre rimasto di spalle di fronte alla finestra. «Mi spiace Eminenza, ma devo farlo».
Lorenzo lo guardò come se fosse in trance, incapace di dire o fare qualsiasi cosa. Non ci capiva più nulla. Chi cazzo era Lucifero? Un agente della CIA, un killer della Setta o cos’altro?
Il giovane prete prese la mira e poi all’ultimo microsecondo rivolse l’arma alla testa di Lorenzo. Un solo colpo, un buco in mezzo alla fronte. Lorenzo stramazzò per terra. Un rivolo di sangue gli usciva dalla ferita a morte.
«Chi era?» chiese il Cardinale.
«Soltanto un povero idiota, Eminenza, avevo già deciso di eliminarlo».
«La prossima volta fallo subito, lo sai che il protocollo per le emergenze deve essere utilizzato soltanto in via del tutto eccezionale».
«Le chiedo scusa, ho sbagliato. Le prometto che non accadrà mai più».
«Bene» disse il Cardinale, che finalmente si voltò e guardò in faccia il giovane prete. «Adesso che il figlio di Dio è nato, conosci bene quali siano le disposizione della setta e del Gran Sacerdote. La madre portala da me. Le voglio fare una bella sorpresa».
«Sarà fatto» rispose Lucifero.
Il corpo senza vita di Lorenzo giaceva vicino al letto matrimoniale.
Adesso, finalmente avrebbe ritrovato Livia.
138.
Il camlo alla porta suonò ripetutamente. Il padre di Valentina spense con il telecomando il televisore, si alzò dal divano in soggiorno e andò ad aprire. Di fronte si trovò il loro parroco ed un altro prete, che aveva uno zaino a tracolla.
Li fece entrare in casa salutando: «Buongiorno, don Renzo» disse stringendo la mano anche all’altro sacerdote. Il parroco lo presentò. «Signor Cortesi, le presento don Pietro, un grande esperto della materia, nominato dal nostro Vescovo, che sicuramente potrà esservi utile per la comprensione del caso e, spero, per la sua risoluzione. Come sta Valentina?»
«E’ completamente sconvolta. Quello che è successo le sta provocando una crisi di rigetto nei confronti del bambino. Sta chiusa nella sua camera e non lo vuole vedere. E’ una situazione insostenibile. Un bimbo deve stare con la sua mamma, quello che sta succedendo ora potrà avere degli effetti negativi irreversibili sul loro rapporto. Per questo l’ho chiamata».
«Ci sono stati degli altri episodi anomali in questi ultimi giorni?» chiese don Renzo.
«No, il bambino sembra tranquillo. Adesso mangia regolarmente con il biberon, dorme sereno e sembra quasi non sentire minimamente la mancanza di sua madre».
«E’ cresciuto di peso o comunque ha avuto dei comportamenti non coerenti con la sua età?» Chiese nuovamente il parroco.
«Da quando è arrivato a casa nostra, il peso più o meno ha avuto un incremento, credo, regolare. Siamo intorno ai tre chili. Io però sento che c’è qualcosa di strano in questo bambino. Quando lo prendo in braccio o gioco con lui, mi sento a disagio, percepisco un influsso negativo proveniente dal suo sguardo e soprattutto dai suoi occhi. Non saprei bene come descrivere questa sensazione, ma è reale e nitida».
A quel punto intervenne don Pietro: «Signor Cortesi, da quello che mi ha raccontato don Renzo, è evidente che il bambino mostri delle caratteristiche comportamentali del tutto anomale. Prima di esprimermi, però, su eventuali presenze maligne, devo vederlo e metterlo alla prova. Soltanto dopo, potrò io stesso avere le idee più chiare ed esprimere un giudizio attendibile.
Prima di procedere però, deve esservi ben chiaro quello che è il mio lavoro» disse il sacerdote anche alla mamma di Valentina, che, nel frattempo li aveva raggiunti nel soggiorno. «E’ uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo. Quando il demonio s’insinua nelle pieghe dell’uomo, bisogna chiamare l’esorcista. Nel nostro caso, forse, abbiamo un bambino. Bisogna capire perché un bambino e soprattutto perché quel bambino. Ogni volta che faccio un esorcismo è come se entrassi in battaglia. Prima devo indossare la mia corazza: una stola viola i cui lembi sono più lunghi di quelli che solitamente indossano i preti quando dicono messa. La stola spesso la avvolgo attorno alle spalle del posseduto. È efficace, serve a tranquillizzarlo quando, durante l’esorcismo, va in trance, sbava, urla, acquisisce una forza sovrumana e attacca. Poi ho sempre con me il libro in latino con le formule di esorcismo, dell’acqua benedetta che a volte spruzzo sull’indemoniato e un crocefisso con incastonata la medaglia di San Benedetto. È una medaglia particolare, molto temuta da Satana. La battaglia dura ore e non si conclude quasi mai con la liberazione. Per liberare un posseduto ci vuole tempo. Satana è difficile da sconfiggere. Spesso si nasconde. Si cela. Cerca di non farsi trovare. L’esorcista deve stanarlo. Deve obbligarlo a rivelargli il suo nome. E poi, nel nome di Cristo, deve obbligarlo a uscire.
Satana si difende con tutti i mezzi. L’esorcista si fa aiutare da dei collaboratori incaricati di tenere fermo il posseduto. Nessuno di questi può parlare col posseduto. Se lo fero, Satana ne approfitterebbe per attaccarli. L’unico che può parlare col posseduto è l’esorcista che rivolge degli ordini a Satana. Non deve dialogare con lui, se lo fe, Satana lo confonderebbe fino a sconfiggerlo. Oggi faccio esorcismi su cinque o sei persone al giorno. Fino a qualche mese fa ne facevo molti di più, anche dieci o dodici, in qualsiasi giorno, anche di domenica, anche a Natale. Col are degli anni ho acquisito molta esperienza, ma ciò non significa che il gioco sia più facile. Ogni esorcismo è un caso a sé stante. Le difficoltà che incontro oggi sono le medesime che incontrai la prima volta. Bene, ora direi che è arrivato il momento di andare a vedere il bambino».
Il padrone di casa condusse i due sacerdoti nella stanza del piccolo. Johnny stava dormendo. Il suo sguardo appariva sereno e aveva un’espressione molto dolce in viso.
Don Pietro ordinò ai genitori di Valentina di stare fuori dalla stanza. «Ammettere nel luogo dove si svolge un esorcismo delle persone non preparate, può essere molto pericoloso. Satana, durante un esorcismo, attacca i presenti se inesperti.
Don Pietro aprì lo zaino e prese gli strumenti del mestiere. Indossò la stola, prese in mano il breviario e il crocefisso. A portata di mano tenne l’acqua benedetta.
Appena si avvicinò al lettino di Johnny, il bambino spalancò gli occhi. Le pupille erano iniettate di sangue, ma rimase fermo, immobile.
Don Pietro iniziò a recitare l’esorcismo in latino. «Non ricordarti, Signore, delle colpe nostre o dei nostri genitori e non punirci per i nostri peccati. Padre nostro… E non ci indurre in tentazione ma liberaci dal male».
Il bambino rimase immobile come una statua di sale. Non emise alcun suono labiale, non reagì.
Don Pietro iniziò a recitare il Salmo 53. «Dio, per il tuo nome, salvami, per la tua potenza rendimi giustizia. Dio, ascolta la mia preghiera, porgi l’orecchio alle parole della mia bocca; poiché sono insorti contro di me, gli arroganti e i prepotenti insidiano la mia vita, davanti a sé non pongono Dio.
Ecco, Dio è il mio aiuto, il Signore mi sostiene. Fa ricadere il male sui miei nemici, nella tua fedeltà disperdili.
Di tutto cuore ti offrirò un sacrificio, Signore, loderò il tuo nome perché è buono; da ogni angoscia mi hai liberato e il mio occhio ha sfidato i miei nemici».
Ancora nessuna reazione.
«Salva il tuo servo qui presente, Dio mio, poiché spera in te. Sii per lui, Signore, torre di fortezza. Di fronte al nemico, niente possa il nemico contro di lui. E il figlio dell’iniquità non gli possa nuocere. Manda, Signore, il tuo aiuto dal luogo santo. E da Sion mandagli la difesa. Signore, esaudisci la mia preghiera. E il mio grido giunga a te. Il Signore sia con voi. E con il tuo spirito».
A quel punto, di colpo, il bambino mosse il capo e iniziò a fissare il sacerdote. Nello stesso istante esplose in un urlo rabbioso. Diventò rosso e iniziò a urlare invettive in latino. Sembrava temere don Pietro, ma allo stesso tempo voleva
spaventarlo. «Prete smettila! Zitto, zitto, zitto!» E poi bestemmie, parolacce, minacce.
I nonni e don Renzo rimasero sconvolti nell’udire il bambino che parlava come un adulto con un tono di voce rancoroso e pieno d’odio.
Il bambino continuò a urlare: «Zitto, zitto, stai zitto». Sputò contro don Pietro. Era furioso. Sembrava un leone pronto al grande balzo. Era evidente che la sua preda era don Pietro. Lui capì che doveva andare avanti ed incominciò a recitare la Praecipio tibi. Don Pietro ricordò bene quanto gli era stato insegnato sui trucchi da usare e quella era spesso la preghiera risolutiva perché la più temuta dai demoni e davvero la più efficace.
Il bambino continuò a urlare. Il suo lamento era un ululato che sembrava venire dalle viscere della terra. Don Pietro tornò all’attacco. «Esorcizzo te, immondo spirito, ogni irruzione del nemico, ogni legione diabolica, nel nome del nostro Signore Gesù Cristo, la sradico da questa creatura di Dio». Grida spaventose. L’urlo divenne ululato. E divenne sempre più forte. Sembrò infinito. «Ascolta bene e trema, o Satana, nemico della fede, avversario degli uomini, causa della morte, ladro della vita, avversario della giustizia, radice dei mali, fonte dei vizi, seduttore degli uomini, ingannatore dei popoli, incitatore dell’invidia, origine dell’avarizia, causa della discordia, suscitatore delle sofferenze».
Gli occhi di Johnny andarono all’indietro. La testa si muoveva in maniera spasmodica. L’urlo continuò altissimo e spaventoso.
Satana si stava scatenando. «Perché stai lì e resisti, mentre sai che Cristo Signore ha distrutto i tuoi disegni? Temi colui che è stato immolato nella figura di Isacco, è stato venduto nella persona di Giuseppe, è stato ucciso nella figura dell’agnello, è stato crocefisso come uomo e poi ha trionfato sull’inferno.
Vattene nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo».
Il demonio sembrò non cedere, ma il suo grido si attenuò. Il bambino osservava il religioso. Un po’ di bava gli uscì dalla bocca.
Don Pietro allora lo incalzò. Sapeva che doveva costringerlo a svelarsi, a dirgli il suo nome. Se gli avesse detto il suo nome, la battaglia era vinta. «E ora dimmi, spirito immondo, chi sei? Dimmi il tuo nome! Dimmi, nel nome di Gesù Cristo, il tuo nome!». La risposta fu raggelante. «Ego sum Lucifer» disse il bambino con voce bassa e cadenzando lentamente tutte le sillabe.
Don Pietro non doveva cedere. Non doveva mostrarsi spaventato. Doveva continuare l’esorcismo con autorità. Era lui che conduceva il gioco. «Impongo a te, serpente antico, nel nome del giudice dei vivi e dei morti, del tuo Creatore, del Creatore del mondo, di colui che ha il potere di precipitarti nella Geenna, affinché te ne vada via subito, con paura e insieme al tuo esercito furioso, da questo servo di Dio che ha fatto ricorso alla Chiesa. Lucifero, io ti impongo di nuovo, non in forza della mia debolezza, ma per la forza dello Spirito Santo, di uscire da questo servo di Dio, che Dio onnipotente ha creato a sua immagine. Cedi, dunque, cedi al ministro di Cristo. Te lo impone il potere di colui che ti ha soggiogato con la sua croce. Trema di fronte alla forza di colui che, vinte le sofferenze infernali, ha ricondotto le anime alla luce».
Il bambino tornò a ululare. La testa in continuo movimento. Era già ata più di un’ora. Don Pietro ricordò l’insegnamento: “Finché hai energie e forze vai avanti. Non si deve cedere. Un esorcismo può durare anche un giorno. Cedi solo quando capisci che il tuo fisico non regge”.
Il sacerdote non pensava, prima d’iniziare, che potesse succedere, ma d’un tratto ebbe la netta sensazione della presenza demoniaca davanti a sé. Sentì il demonio
che lo fissava. Lo scrutava. Gli girava intorno. L’aria era diventata fredda. C’era un freddo terribile. Anche di questi sbalzi di temperatura era stato preavvertito durante gli insegnamenti. Cercò di concentrarsi. Chiuse gli occhi e a memoria continuò la sua supplica. «Esci, dunque, ribelle. Esci seduttore, pieno di ogni frode e falsità, nemico della virtù, persecutore degli innocenti. Lascia il posto a Cristo, in cui non c’è niente delle tue opere». A questo punto accadde un fatto inaspettato. Il bambino iniziò a levitare. Si alzò in orizzontale di mezzo metro sopra il lettino. Restò lì, immobile, per parecchi minuti sospeso nell’aria. Don Pietro restò al suo posto. Il crocefisso ben stretto nella mano destra. Il rituale nell’altra. Si ricordò della stola. La prese e lasciò che un lembo toccasse il corpo del posseduto. Lui era ancora immobile. Rigido. Zitto. Don Pietro provò ad affondare un altro colpo. «Mentre puoi ingannare l’uomo, non puoi irriderti di Dio. Ti caccia via lui, ai cui occhi niente è nascosto. Ti espelle lui, alla cui forza tutte le cose sono soggette. Ti esclude lui, che ha preparato per te e per i tuoi angeli il fuoco eterno. Dalla sua bocca esce una spada tagliente: lui che verrà a giudicare i vivi e i morti e i tempi per mezzo del fuoco. Amen». Un tonfo accolse il suo Amen. Il bambino ricadde nel lettino. Farfugliò parole incomprensibili. Poi alla fine disse rivolto a don Pietro: «Io sono il figlio di Dio, come sta scritto nella Sacra Profezia, dominerò il mondo e lo libererò dai miscredenti come te. Preparati a morire, prete. Non uscirò mai da questo corpo. Questo è il mio corpo e lo sarà in eterno. Nessun ministro dell’impostore morto sulla croce potrà impedirmelo. Sono e sarò nei secoli dei secoli l’unico vero Gesù Cristo».
Non appena terminò di parlare, una statuetta di bronzo raffigurante Pinocchio si staccò da una mensola appesa al muro e, in volo ad altezza d’uomo, andò a colpire in pieno viso don Pietro. Questi cadde a terra dopo il violento urto. Il parroco e il padre di Valentina accorsero in suo aiuto, lo sollevarono e lo aiutarono ad andare nel soggiorno per sdraiarsi sul divano. Aveva il volto tumefatto e sanguinante. La mamma di Valentina arrivò subito con acqua ossigenata, cotone, garza e cerotti per medicare la ferita del sacerdote.
Lui, pienamente cosciente, era sconvolto dall’esito dell’esorcismo. «Non mi è mai capitato di dover combattere un maligno così potente. Ho fallito. Il bambino è totalmente nelle sue mani ed io non sono riuscito a scalfirlo. Devo
assolutamente prendere contatti con Roma con l’Associazione Internazionale degli Esorcisti, forse il rituale non è stato da me eseguito correttamente, oppure deve essere integrato con altri artifizi finalizzati alla liberazione da Satana. Questo demonio è veramente potente e sta dilaniando quel povero bambino. Poi ha citato una Sacra Profezia, della quale, francamente, ignoro il significato.
«Padre, glielo posso dire io di cosa si tratta».
Tutti si voltarono e videro sulla soglia del soggiorno una specie di fantasma. Era Valentina, vestita con una camicia da notte bianca. Aveva un aspetto orribile, come se avesse trascorso l’ultimo mese in uno dei tanti reality televisivi di sopravvivenza.
«Che cosa intendi dire, Vale?» chiese suo padre.
«Intendo dire che proprio per combattere chi voleva mettere in pratica quella profezia, Johnny è stato ucciso. Dopodiché io ho lasciato l’Arma, perché quello che avevo da dire non interessava a nessuno e le indagini non hanno avuto alcun seguito. Il demonio ora è così forte proprio perché nessuno lo sta combattendo. E meno è contrastato, più il suo potere cresce. Tutto è dominato da una setta, La Setta del Pàntaclo, che si è introdotta, grazie al denaro, al lusso, alla droga e al sesso, in tutti i centri di potere sia ecclesiastici sia laici. La setta è ovunque. Johnny ed io siamo rimasti soli, alla fine. Ma non si sono accontentati di ammazzare Johnny, hanno scelto il mio bambino come la divinità da loro attesa da decenni. Ora però basta. Non starò ulteriormente a guardare mio figlio che fa volare statuette. Il mio periodo di riposo è finito.
Domani partirò per Roma.
Liberamente tratto da: “Vi racconto il mio primo incontro con Satana” di Dario Ferri – 03/02/2012.
139.
Valentina era seduta sul letto della sua camera in un albergo vicino a Piazza di Spagna a Roma. La parrucchiera aveva fatto un piccolo miracolo sistemandole l’acconciatura di quella che sembrava ormai, a tutti gli effetti, una parrucca. Anche il volto era tornato a essere quello di una umana e non di uno zombie. L’uso massiccio di fondotinta, mascara e altri trucchi vari, aveva ridato lucentezza alla sua espressione e ai suoi occhi.
Ripensò al suo bambino. Era rimasta sulla soglia della sua cameretta per quasi un’ora prima di partire. Lui dormiva sereno, aveva un volto disteso. Ogni volta che cambiava posizione nel lettino, faceva delle smorfie ridicole che la intenerivano ed emetteva dei versi, quasi di compiacimento.
Com’era possibile che quella piccola creatura fosse posseduta dal demonio? Perché la setta aveva scelto proprio lui? Avrebbe mai provato la felicità di sentirsi chiamare “mamma”?
Tutto dipendeva da quella sua missione.
Adesso che era a Roma, doveva preparare una strategia e, francamente, non sapeva da che parte iniziare. Ormai era fuori dall’Arma e non poteva contare sull’aiuto dei suoi ex colleghi. Non conosceva nessuno e non sapeva in che modo potesse nuovamente entrare in contatto con qualcuno della setta. Era sola, come Davide contro Golia, con la differenza che lei non aveva neanche la fionda.
In quel momento suonò il telefono sul comodino. Lei rispose al terzo squillo: «Pronto?»
Era il portiere. «Mi scusi signora, c’è qui nella hall una persona che chiede di lei».
Valentina ebbe un attimo di turbamento. Chi poteva cercarla a Roma e soprattutto chi poteva sapere che lei fosse lì? «Ascolti, le ha detto come si chiama?»
«Sì signora, mi ha detto che si chiama Johnny Mancuso».
Valentina ebbe un conato di vomito e sentì le mutandine bagnarsi di urina. Rimase ferma, immobile, inespressiva.
«Signora, mi ha sentito? Il suo nome è… ».
«Sì, sì, l’ho sentita. Adesso scendo». Valentina si era parzialmente ripresa dallo shock e si precipitò giù dalle scale.
Quando arrivò nella hall, però, non vide nessuno.
Si avvicinò al bancone e chiese al portiere: «Mi scusi, il signore che ha chiesto di me dove è andato?» Valentina aveva le mani sudaticce e gelate, il cuore pompava freneticamente.
«Mi scusi, signora, non capisco» rispose il portiere inebetito.
«No, mi scusi lei. Mi ha chiamato pochi minuti fa per annunciarmi che c’era un signore di nome Johnny Mancuso che mi cercava».
«Signora, sono veramente dispiaciuto, ma ci deve essere stato un equivoco. Nella hall non è entrato nessuno da almeno mezzora ed io non l’ho chiamata nella maniera più assoluta».
A Valentina era di colpo venuta una forte emicrania, a causa delle stranezze che si stavano verificando. Qualcuno le stava facendo uno scherzo di cattivissimo gusto! Ma chi? Il portiere aveva mentito? Perché?
Mentre cercava un’aspirina nella borsa, suonò il suo cellulare.
“Numero privato” comparve sul display. Nuovamente il suo cuore riprese a battere forte. «Pronto?»
Silenzio.
«Pronto, chi parla?» Valentina sentiva che il suo interlocutore non aveva ancora chiuso la conversazione.
«Chi cazzo sei? Che cosa vuoi da me?»
«Valentina…» era una voce che sembrava provenire direttamente da un altro cosmo.
Il respiro cessò. Il battito del cuore s’interruppe. Il tempo si fermò. In quell’istante preciso la sua stessa vita ebbe un attimo di sospensione. Come se tutto quello che esisteva al mondo fosse governato da un orologio. Ecco, le lancette di quell’orologio si erano fermate per un attimo ma a Valentina parve un’eternità.
Di nuovo: «Valentina…».
«Chi sei? Perché mi stai facendo questo? Ti prego lasciami stare» disse Valentina tra le lacrime.
«Vale, sono io. Il tuo Johnny. Non ti farei mai del male, amore mio».
«Non può essere! Johnny Mancuso è morto tra le mie braccia!»
«Infatti, io non sto dicendo di essere vivo».
«Johnny o chi cazzo sei, non prendermi per il culo. Io non credo ai fantasmi come non credo alle reincarnazioni. Non so che cosa tu voglia da me. Vuoi del denaro per lasciarmi in pace?»
«Vale, tu non capisci ed io non posso spiegarmi. Mettimi pure alla prova. Chiedimi qualcosa che sappiamo solo tu ed io».
«Va bene. Se sei Johnny ti dovresti ricordare della nostra cena ad Arezzo. Quali piatti abbiamo ordinato e quale vino abbiamo bevuto?»
«Vale, ma è una domanda facile, facile. Io ho preso una zuppa etrusca e una bistecca alla Fiorentina, mentre tu hai ordinato un piatto di pappardelle con sugo di lepre. Il tutto innaffiato da una bottiglia di Chianti Lo Sterpo. Mi credi adesso?»
Valentina era in un totale stato confusionale. Non riusciva più a discernere la realtà dall’irrealtà, la verità dalla menzogna, la logica dall’irrazionalità.
«… Johnny»
Faceva fatica a pronunciare quel nome al telefono. «Tu ora chi sei? Cosa sei? Come puoi aiutarmi?»
«Vale, cosa sono io adesso non ha alcuna importanza. In questo momento si sta combattendo la più feroce battaglia tra il bene e il male che la storia ricordi. Il maligno ora è fortissimo. Ha attuato La Sacra Profezia e sta solo aspettando che il figlio del loro Dio sia sufficientemente grande per entrare in possesso dei suoi pieni poteri. Noi dobbiamo impedirlo, anche per salvare il nostro bambino».
«Johnny, cosa ne sarà di lui?»
«Dipenderà tutto da noi. Se battiamo il maligno, lui si salverà».
«Che cosa devo fare adesso? Non so da che parte incominciare».
«Qualunque cosa tu farai, io sarò sempre vicino a te. Ti proteggerò e ti metterò in guardia dal maligno».
Valentina non ebbe il tempo di ragionare su quanto le era appena stato detto, quando suonò il telefono sul comodino.
Pareva essere il portiere, ma ormai lei non era più sicura di nulla e di nessuno. Rispose, tenendo il cellulare con la mano sinistra: «Pronto?».
«Signora, questa volta sono proprio io, il portiere. Nella hall c’è quel signore che cercava, Johnny Mancuso».
Valentina, totalmente stordita, rispose come un automa: «Grazie, scendo subito». Poi avvicinò nuovamente il cellulare all’orecchio. Ascoltò quasi distaccata la voce del suo interlocutore. Non riuscì a capire se quello che le stava accadendo fosse reale o solo un terribile incubo.
«Valentina, cosa è successo?»
«Nella hall dell’albergo c’è uno che mi sta aspettando e che ha detto di chiamarsi Johnny Mancuso. Che cosa sta succedendo, Santo Dio? Dimmi che cosa devo fare!»
Nessuna risposta. La telefonata era stata interrotta. Valentina gettò il cellulare sul letto. La sensazione del pericolo imminente, ebbe l’effetto di risvegliarla dallo stato di trance nel quale era caduta. Prese la borsa e uscì dalla stanza. Si avvicinò all’ascensore e vide che era occupato. Allora si catapultò verso le scale e scese fino al piano terreno, rischiando un paio di volte di cadere nella frenesia della corsa. Prima di entrare nella hall, sbirciò, protetta da una parete. Non c’era anima viva. Allora uscì allo scoperto e si diresse correndo versò l’uscita. Si fermò un attimo davanti al bancone. Riverso per terra con un buco nella fronte, c’era il portiere. La testa era immersa in una pozza di sangue.
Valentina si riprese dal disgusto e uscì in strada. Doveva allontanarsi il più velocemente possibile da quel luogo e riordinare le idee. Chi era l’uomo al telefono? Era davvero Johnny? No. Impossibile, anche se lei per un attimo gli aveva creduto. Chi era l’assassino del portiere che aveva chiesto di lei? Il giovane prete? Possibile.
Ripensò a quello che le aveva detto l’uomo al telefono sul conto del loro bambino: “Dipenderà tutto da noi. Se battiamo il maligno, lui si salverà”. Come potevano battere il maligno?
Era troppo potente e aveva ormai ramificazioni in tutti i centri di potere. Che cosa poteva fare lei da sola, con l’aiuto di un defunto che forse era resuscitato?
Le scappò quasi da ridere, nonostante la situazione nella quale era coinvolta
fosse tutt’altro che comica.
Decise allora di ricominciare da dove tutto apparentemente sembrava finito.
Villa Testaccio.
Il giovane prete compose un numero protetto sul suo cellulare. «Buongiorno, Eminenza. La donna è scomparsa e non sono più in grado di rilevare la sua presenza perché ha lasciato nella stanza il cellulare».
Il prelato era furioso. «Com’è possibile? Sei un grandissimo idiota! Com’è potuto avvenire?»
«L’ho sottovalutata. Ho cercato di confonderla, di metterle ansia per facilitare il mio compito e credo di esserci riuscito perfettamente. Qualcosa, però, ha fatto scattare in lei l’istinto della fuga. Ha lasciato qui in camera praticamente tutto il suo bagaglio. Le ricordo, però, che di quest’operazione eravamo informati soltanto io e lei ed io non ne ho fatto parola con nessuno».
«Che cosa vorresti insinuare? Che io l’abbia detto a qualcuno che poi ha tradito?»
«Io non sto insinuando nulla. Sto soltanto facendo delle ipotesi».
«Vista l’attuale situazione, dobbiamo ricorrere a un piano di emergenza. Parti
subito per Milano e vai a prendere il bambino. Così staneremo anche la madre».
Lucifero fu colto alla sprovvista. «Mi scusi, Eminenza. Non credo che il Gran Sacerdote approverebbe questa iniziativa senza il suo esplicito consenso».
«Al Gran Sacerdote ci penso io, tu esegui il mio ordine, possibilmente questa volta senza imprevisti».
«Non fallirò, stia tranquillo». Lucifero incominciò a pensare quanto gli sarebbe piaciuto staccare l’uccello con il suo coltello Pohl Force - Mike One Tactical a quel lurido pedofilo.
140.
Erano quasi le dieci del mattino. Il piccolo Johnny dormiva ancora. Negli ultimi giorni aveva inspiegabilmente iniziato a mangiare molto meno rispetto ai primi tempi. Il suo peso però non era assolutamente diminuito, anzi continuava a crescere, seppur lentamente. In compenso dormiva quasi tutto il giorno. Trascorreva gran parte della giornata nel lettino senza dare retta ai nonni che cercavano di tenerlo sveglio, inventandosi qualche gioco.
Il nonno era seduto sul divano in salotto e stava leggendo un quotidiano. Ormai era prossimo alla pensione e gli era stato imposto dal Comando di esaurire tutte le ferie arretrate. La nonna invece era in cucina e stava preparando una succulenta e variegata insalata di riso.
Sentirono suonare il camlo della porta.
Il padre di Valentina si alzò posando il giornale e andò ad aprire. Si trovò di fronte un prete giovane e di bell’aspetto che aveva due occhi azzurrissimi.
«Buongiorno, padre. In cosa posso esserle utile?»
«Buongiorno, signor Cortesi. Sono don Luca e vengo da parte del parroco».
«Entri pure, non sapevo dell’arrivo di un nuovo sacerdote all’interno della parrocchia. Benvenuto nella nostra comunità!»
«Grazie di cuore. Sono solo venuto a dare una benedizione al piccolo Johnny. So cosa state ando, è un’esperienza terribile».
«Purtroppo è proprio così. Venga, le faccio strada».
Si avviarono lungo il corridoio. Il giovane prete, dietro al padre di Valentina, con tutta calma estrasse la pistola con il silenziatore, la puntò alla testa del nonno e sparò.
Il corpo dell’anziano si afflosciò sul pavimento senza emettere alcun rumore. A quel punto il giovane prete urlò: «Signora, venga presto, suo marito ha avuto un malore!»
La mamma di Valentina si precipitò nel corridoio e vide il corpo di suo marito disteso per terra. «Oh, mio Dio, Santa Vergine!» Si chinò sul corpo e vide il sangue che usciva dalla nuca. «Che cosa è stato? Questo è sangue. E’ come se gli avessero…». Non terminò la frase, alzò il volto e vide solo una pistola puntata contro il suo viso. Durò un attimo, poi la sua testa esplose.
«… sparato» concluse la frase il giovane prete.
Tolse il silenziatore e infilò la pistola nella fondina ascellare.
Superò i cadaveri dei due anziani genitori di Valentina ed entrò nella stanza del bambino. Era sveglio, muoveva in modo frenetico le gambe cicciotte e le
braccine. Sembrava che sorridesse. Sembrava felice.
Il killer prese il cellulare e compose il solito numero. «Buongiorno, Eminenza. Missione compiuta, tutto come previsto. Adesso dove devo portare il bambino? Va bene. Prima di uscire chiamo i Carabinieri così la notizia della morte dei coniugi Cortesi sarà resa pubblica immediatamente e la figlia dovrà rientrare. Ho dei contatti che mi consentiranno di avere in tempo reale notizie sugli arrivi da Roma sia per via aerea sia ferroviaria».
Il giovane prete prese il bambino in braccio, chiamò il 112 denunciando il ritrovamento di due cadaveri e uscì rapidamente dall’appartamento.
141.
Valentina aveva preso un taxi e si trovava di nuovo davanti a Villa Testaccio. Le sembrava fosse ato un secolo da quando si era recata in quel luogo con Johnny. Era stato l’ultimo luogo nel quale lo aveva visto vivo. Cercò di non farsi travolgere dalla fiumana di pensieri che attraversavano in quel momento il suo cervello. I sentimenti dovevano momentaneamente essere messi da parte. Doveva essere concentrata, razionale e fredda. Era consapevole che non sarebbe stato facile, ma il ato doveva essere riposto in un cantuccio. La sua vita ricominciava da quel momento.
Scavalcò per la seconda volta il muro di cinta della villa e corse velocemente verso il suo ingresso. Era di nuovo aperto, seppur non vi fosse alcun segnale di vita sia all’interno sia all’esterno. Non era provvista di una torcia, ma fortunatamente, la bella giornata estiva aveva regalato una lucentezza e luminosità più che sufficienti per riuscire a muoversi all’interno della villa senza alcuna difficoltà.
Valentina salì subito al piano superiore, dove c’erano le camere. Anche in questa occasione, le camere risultarono tutte vuote, spoglie e senza vita. Arrivò in fondo al corridoio, davanti alla camera maledetta. Un vortice di emozioni la colse immediatamente. Le arono nella mente, come in una presentazione al computer, un susseguirsi di immagini sue e di Mancuso. Avevano vissuto poco tempo insieme, ma non aveva così tanti ricordi nitidi e ben scalfiti nel suo cervello, neanche delle persone a lei più care. Johnny aveva rappresentato per lei un’esperienza che non avrebbe mai più potuto condividere con nessun altro. Non solo per il bambino, ma anche perché lui era stato capace di estrarla dal pozzo dell’odio e del rancore nel quale era caduta dopo gli abusi di don Riccardo.
Si fece forza ed entrò nella stanza. Non c’era più la scrivania, sostituita da un piccolo tavolino in cristallo. Nessuna sedia o poltrona. Sul tavolino era posato un
computer portatile.
Valentina si mise in ginocchio e lo aprì.
Di nuovo un conato di vomito le salì su dallo stomaco.
C’era un biglietto con sopra scritto:
name: Valentina : Mancuso
Accese trafelata il computer e inserì le credenziali. Il sistema la reindirizzò direttamente sulla pagina web di un noto quotidiano.
Quello che Valentina lesse in prima pagina era terrificante:
“Duplice omicidio a Milano e rapimento di un bambino”
“Un fatto di cronaca ha sconvolto la città meneghina. Una coppia di coniugi è stata barbaramente assassinata e il loro piccolo nipotino rapito. Gli inquirenti mantengono il più stretto riserbo sulle possibili cause dell’efferato delitto. Ora tutte le indagini sono indirizzate al ritrovamento del bambino. Tra l’altro le Forze dell’Ordine stanno cercando la madre, della quale non si hanno notizie da un paio di giorni”.
Valentina prese il portatile e lo scaraventò contro il muro. Un urlo disumano rivolto al cielo uscì dalla sua bocca.
142.
Nel Comando della “Legione Lombardia” dei Carabinieri a Milano si stava svolgendo un’attività frenetica. Tutti gli uomini in ferie erano stati richiamati per unirsi ai colleghi già in servizio. Si era scatenata una gigantesca caccia all’uomo per assicurare alla giustizia i rapitori del piccolo Johnny e, soprattutto, per ritrovare sano e salvo il bambino.
Nell’ufficio del Comandante, il Generale di Divisione Ernesto Rambaldi, erano presenti il Questore, il Sostituto Procuratore e Valentina.
«Allora, Tenente, mi spiace davvero per quello che è accaduto e lo so che lei è sconvolta, ma ci dia una mano. Ci faccia capire chi e perché possa aver ucciso i suoi genitori e rapito il suo bambino. Vorrei, però, delle tesi basate sui fatti e comprovate, non assurde e prive di ogni fondamento, simili a quelle che ci diede quando fu ucciso il Capitano Mancuso» disse il Generale con un accento di fastidio.
«In primo luogo io non sono più un Tenente…» precisò Valentina.
Il Generale la interruppe. «Questo non le fa onore. Lei dovrebbe sapere che chi entra nell’Arma, ci resta, anche soltanto con il cuore, senza più la divisa, per tutta la sua vita».
«Francamente non mi interessa, per me sono tutte cazzate. Generale, io so che a tutti voi possa sembrare inverosimile o frutto di una mente malata. Vi ripeto che l’omicidio dei miei genitori, il rapimento del mio bambino, l’uccisione del
Capitano Mancuso, sono tutti eventi collegati tra di loro. Io non so più come spiegarvelo. C’è una setta satanica, “La Setta del Pàntaclo” che sta mettendo in pratica un’antica profezia che ha come scopo finale quello di sovvertire ogni credo religioso. Il loro obiettivo conclamato è adorare Satana come unico Dio. All’inizio erano previsti cinque sacrifici di cinque ragazze vergini. Io e il Capitano avevamo trovato i primi due corpi. Degli altri non si è avuta più notizia. Siamo anche entrati in contatto con un agente dei Servizi Segreti del Vaticano che si era infiltrato nella setta. Purtroppo è stato scoperto ed eliminato. La nostra unica colpa è stata quella di avvicinarci troppo alla verità e siamo stati puniti. Il Capitano Mancuso con la propria vita ed io con l’avere un bambino che è stato prescelto dalla setta come il figlio del loro Dio. Johnny ha avuto, già nelle prime ore di vita degli strani comportamenti che sono peggiorati una volta arrivati a casa. Quando l’ho allattato, mi ha quasi staccato un capezzolo! Non è, allo stato attuale, un bambino normale. Lo abbiamo anche sottoposto a un esorcismo, ma il prete è stato sopraffatto dalla potenza malefica che mio figlio emana. Adesso l’hanno rapito perché loro sono convinti che si tratti di una loro creatura.
Io so chi ha ucciso i miei genitori e rapito mio figlio. E’ lo stesso uomo che ha ucciso il Capitano Mancuso».
«E chi sarebbe?» chiese il magistrato.
«E’ un killer prezzolato, una vera macchina da guerra. Si veste da prete, ma non è un prete. Possiamo fare tranquillamente il suo identikit. Il suo volto è scolpito nel mio cervello. E’ lui che dovete cercare in ogni angolo d’Italia. Il problema è che gode di protezioni inimmaginabili. La setta è ovunque, sia negli ambienti ecclesiastici sia laici. Generale, purtroppo devo informarla che anche nell’Arma ci sono degli adepti, anche di rango elevatissimo».
Il Generale rimase basito. «Mi faccia subito i loro nomi».
«No, mi dispiace. Questa informazione me la tengo per me. Dovete guadagnarvela. Prima che sia troppo tardi, bisogna iniziare seriamente a combattere questo nemico potentissimo. E’ necessario, però, utilizzare pochi elementi fidati e, scusate il termine, con le palle».
Tutti i presenti rimasero in silenzio. Si scrutavano a vicenda, ma nessuno sembrava avesse voglia di fare il primo o. Alla fine fu il Sostituto Procuratore a prendere la parola: «Signora Cortesi, l’ho ascoltata con estremo interesse e, devo dirle sinceramente, anche con una certa inquietudine. Deve darci atto che si tratta di una materia delicatissima: sette sataniche, profezie, sacrifici, esorcismi e via dicendo. Sono argomenti non convenzionali e che, devo ammettere, sono visti anche con un po’ di scetticismo da parte delle autorità. Questo è però un caso particolare. C’è di mezzo un bambino, il suo bambino, quindi io credo che quello che ci abbia detto non sia frutto di una mente malata, ma di realtà, per quanto incredibile possa essere. Se la reintegrassimo nei Carabinieri, se la sente di mettersi a capo di un piccolo team per indagare su questa setta, anche e soprattutto per ritrovare il suo bambino?».
Valentina ci pensò un attimo, poi rispose senza esitazioni: «Accetto, Signor Procuratore. Anche da subito. Devo, però, lavorare da sola. Perderei troppo tempo prezioso per spiegare ad altri quello che è successo negli ultimi mesi e soprattutto a convincerli che si tratti di eventi reali e non frutto di una mente distorta. E poi, mi perdoni, non scommetto sull’incorruttibilità di nessuno».
«Bene, facciamo come dice lei. Generale, avvii senza tanto clamore, il reintegro nell’Arma della Signora Cortesi. Quello che è stato detto in questo ufficio oggi non deve trapelare per nessun motivo. Lei, Signora Cortesi, dovrà fare riferimento soltanto a uno di noi. Ha già qualche idea su come procedere?»
«Certamente Dottore, ho ben chiaro nella mia testa quello che devo fare».
Era finalmente venuto il momento di giocare l’asso nella manica: il Generale Franco Maria De Agostini, il Comandante del ROS, colui che Gabriele, l’Ufficiale infiltrato dei Servizi Segreti del Vaticano, aveva indicato, a lei e Mancuso, essere un sacerdote della Setta del Pàntaclo.
143.
Il Gran Sacerdote si trovava nel suo alloggio all’interno della Casa di Santa Marta. Era stato il Papa in persona a chiedergli di condividere con lui quella dimora, dopo averla scelta come residenza ufficiale per il suo papato.
Il Santo Padre non poteva certo immaginare di essersi portato in casa il suo peggior nemico, l’uomo che era a capo della più potente setta satanica mai esistita, il cui fine ultimo era quello di distruggere la chiesa cattolica e il suo massimo esponente, il Papa.
Il Gran Sacerdote tamburellava con le dita contro la finestra dell’elegante salotto del suo appartamento. Sembrava cogitabondo. Poi, d’improvviso, si girò e guardò il suo ospite. «Lei sa o dovrebbe sapere che tutte le decisioni importanti devono essere condivise e approvate da me?»
«Sì, ne sono perfettamente consapevole, Eminenza, ma si è trattato di un inaspettato e fastidioso imprevisto. Il nostro uomo aveva perduto le tracce della donna e allora per stanarla, ho pensato che la cosa più logica fosse quella di rapire il bambino. La donna, infatti, è rientrata a Milano ed è nuovamente sotto il nostro controllo».
«Lei, però, ha messo a rischio l’incolumità del figlio di Dio, un fatto gravissimo che non può essere ignorato. Lei ha agito senza alcuna autorizzazione e ha ordinato al nostro uomo di compiere un’operazione rischiosa che tra l’altro ha avuto un’eco mediatica della quale non avevamo assolutamente bisogno. Che cosa dovrei fare con lei, Eminenza?»
Il giovane Cardinale era terrorizzato, non immaginava che la sua iniziativa potesse suscitare una reazione talmente spropositata da parte del Gran Sacerdote. «Eminenza, mi rimetto totalmente alla sua clemenza. In ogni caso sono pronto ad accettare una sua qualsiasi decisione».
Il Gran Sacerdote mosse il capo in segno di affermazione, prese il cellulare e fece una breve chiamata. Dopo pochi secondi, si sentì bussare alla porta ed entrò il giovane prete.
«Mi dispiace, ma all’interno della nostra setta non possono essere tollerate iniziative personali, a maggior ragione se spinte da motivi altrettanto personali, come nel suo caso».
Il giovane prete tirò fuori la pistola con il silenziatore. La schiacciò contro la testa del giovane Cardinale e guardò il Capo.
Quest’ultimo fece un cenno con la testa. Il giovane Cardinale, tremante, si pisciò addosso e si gettò in ginocchio. «Pietà, pietà, pietà, Eminenza la prego, non lo farò più, mai più, mi dia ancora una possibilità, la prego, la prego, abbia pietà…».
Dalla pistola partì il colpo, un lieve rumore nel silenzio spettrale della stanza. La testa del giovane Cardinale si spostò leggermente sulla sua destra, ma non uscì sangue, né si videro ferite al capo.
Era ancora vivo. Stordito, tremante, stupito per quello che era successo, ma vivo. Guardò allibito il suo presunto carnefice, quasi per chiedergli come mai non lo avesse ucciso.
«Caro il mio don Riccardo, per questa volta è stato fortunato. Il colpo era a salve. Mi auguro che abbia capito la lezione e che d’ora in avanti faccia soltanto e unicamente quello che le sarà chiesto di fare. Adesso vada a cambiarsi, che puzza come una latrina. La chiamerò io, quando avrò bisogno. Per un po’ non intendo vedere la sua faccia piagnucolante da femminuccia».
«Grazie, mio Signore, grazie, grazie, non dimenticherò mai il suo gesto caritatevole nei miei confronti. Saprò nuovamente guadagnarmi la sua fiducia… grazie…».
Dopo una serie infinita di ringraziamenti, il giovane Cardinale uscì dalla stanza. Il Gran Sacerdote restò in compagnia del giovane prete. «Controllalo. Quella donna è diventata per lui un’ossessione. Non voglio altri problemi, proprio adesso che siamo alla vigilia dell’avvento della nuova Era, l’Era del Pàntaclo. Lascio a te ogni potere discrezionale. Se lo ritieni opportuno, eliminalo».
«E della donna cosa devo fare?»
«Ritieni che possa rappresentare un pericolo?»
«Non lo so. Sta di fatto che è rimasta sola, senza più punti di riferimento. E ha perso anche il bambino. Potrebbe diventare una scheggia impazzita. E le schegge impazzite sono, per loro natura, pericolose».
«Controlla i suoi prossimi movimenti. La nostra Madonna, come l’ha denominata il giovane Cardinale, ha esaurito il suo compito con la nascita del
bambino. Per me è indifferente. Decidi tu. E’ ovvio che se dovesse mettere in atto dei comportamenti ostili, non dovrà sopravvivere».
«E’ tutto molto chiaro, Eminenza, come sempre».
«Non mi adulare. Io lo so che tu sei soltanto un mercenario pronto a cambiare bandiera in qualsiasi momento, se dovessi trovare un cliente più generoso. Vorrei, però, che tu ti rendessi conto del ruolo fondamentale che stai avendo nel disegno divino che porterà il nostro Dio a dominare sul mondo».
«Mi permetta, Eminenza, ma io ne sono perfettamente consapevole. E’ vero, lei ha ragione, all’inizio ho lavorato per voi soltanto per denaro ma ora mi sono realmente convertito alla vostra causa, che è diventata a tutti gli effetti anche la mia causa.
Sono pronto a combattere e, se necessario, anche a morire perché si possa avverare il nostro sogno: governare il mondo in ossequio al nostro Signore Satana e abiurare tutti i falsi credi religiosi».
«Le tue parole sono commoventi. Sei un soldato al quale affiderei, senza tentennamenti, la mia stessa vita. Ora, potrei finalmente sapere qual è il tuo nome?»
«Quando ero un militare dell’Esercito Italiano, avevo un nome. Ormai, però, l’ho dimenticato. Da quando sono diventato un mercenario, ho avuto tanti nomi, ma nessuno scelto da me. Ogni volta me ne attribuivano uno diverso ed io ho lasciato fare. Non avere un nome significa non avere un ato, non avere amici o nemici, non avere una dimora, non avere una donna. Tutti sono liberi di
chiamarmi come gli pare e le assicuro che è anche divertente. I Servizi Segreti del Vaticano mi hanno soprannominato Lucifero, quindi, se vuole, può chiamarmi così».
«Bene, Lucifero, allora sei pronto per l’atto finale del prossimo sette di agosto?»
«Assolutamente».
«Non ti fa un certo effetto sapere che in quella data, nella Cappella Paolina, ucciderai il Papa?»
«No. Per me un mendicante o il Papa sono la stessa cosa. Ad entrambi, se sparo a loro in testa una cartuccia 9×19 mm Parabellum, faccio saltare il cervello».
«Incredibile, ma tu hai mai provato un sentimento di qualsiasi tipo?»
«Le ripeto. Da quando ho iniziato la mia nuova vita, per me non conta più nulla se non la prossima missione che devo compiere. Se ho qualche desiderio, lo esaudisco immediatamente, ma non deve rimanere traccia di ciò che ho fatto per esaudirlo. Se ho voglia di scopare, vado con una prostituta da tremila euro a notte, ma poi la uccido. Non deve rimanere il ricordo della mia persona».
Il Gran Sacerdote rimase quasi sconcertato dal cinismo che caratterizzava quell’uomo. Era la creatura perfetta che lui immaginava per popolare il nuovo mondo sotto il dominio del nuovo Dio.
A questo punto fu Lucifero che si rivolse al Gran Sacerdote: «Posso farle io una domanda adesso?».
«Certo, ti ascolto».
«Perché il sette agosto?»
«E’ una domanda pericolosa», rispose sorridendo il Gran Sacerdote, «ma tu ormai sei un uomo di cui mi fido ciecamente e posso anche soddisfare la tua curiosità. Come saprai, la nuova Era sarà dominata dai numeri, in particolare dal numero 7, “il numero magniloquente”.
Ebbene il 7 agosto 1814. 1+8+1+4=14. 14:2=7, Pio VII=7, con la bolla “Sollicitudo omnium Ecclesiarum” ricostituì la Compagnia di Gesù, soppressa dal predecessore, Papa Clemente XIV=14. 14:2=7, nel 1773. 1+7+7+3=18. 81=7, con la breve lettera apostolica Dominus ac Redemptor.
Il 7 agosto 2015, giorno 7 e 8+2+0+1+5=16. 6+1=7, dopo 201 anni 2+0+1=21. 21:3=7, il primo Pontefice nella storia della Chiesa di quell’Ordine Religioso, sarà solennemente ucciso durante la sua preghiera quotidiana nella Cappella Paolina. Come tu vedi tutto sarà dominato dal numero 7, da 666, il numero dell’Anticristo».
«Sono esterrefatto», disse Lucifero, «ma allo stesso tempo eccitato dall’idea che mi possa essere concesso l’onore di prendere parte attivamente all’attuazione di questo miracoloso disegno sacro».
«Siamo tutti eccitati, Lucifero, credimi. Dimmi, il bambino sta bene?»
«Benissimo, è in una piccola nursery privata al Bambin Gesù, dove c’è soltanto lui. Vi hanno accesso unicamente una suora e un medico, persone fidate. E’ in ottime mani».
«Preparati Lucifero, perché il 7 agosto quel bambino diventerà a tutti gli effetti, il figlio del nostro Dio».
144.
Valentina aveva chiesto e ottenuto un incontro con il Generale Franco Maria De Agostini, presso la Caserma Talamo a Roma. Era in attesa di essere ricevuta già da circa un’ora ed in quell’ora si era resa conto di avere riflettuto di più che nei giorni ati tutti messi assieme, di quello che era accaduto alla sua famiglia. La perdita dei suoi amati genitori, il rapimento del piccolo Johnny. Si rese conto di non avere ancora avuto il tempo necessario per elaborare il dolore di quei drammi personali. Sì sentì un po’ in colpa nel provare più dolore per l’uccisione dei genitori rispetto al rapimento di suo figlio, ma era inevitabile. Per lei quel bambino era ancora sostanzialmente un estraneo. Dopo quello che era successo durante la prima tragica poppata, lei aveva avuto come un moto di repulsione nei suoi confronti. Chi era in realtà il piccolo Johnny? Un bambino come tanti altri con dei problemi caratteriali o cosa? Fortunatamente non aveva assistito al tentativo di esorcismo andato in scena alcuni giorni prima del rapimento. Avrebbe sicuramente avuto per lei un effetto devastante dal punto di vista psicologico e l’avrebbe probabilmente allontanata in modo definitivo da quel bambino. Ma perché uccidere i suoi genitori, Santo Dio? Le due persone più mansuete di questo mondo. E dove si trovava Johnny in quel momento? Era nelle mani della Setta del Pàntaclo? Lei era sicura che l’autore di quell’azione omicida fosse stato il finto prete. Finora quell’uomo si era dimostrato pressoché infallibile. Chi lo guidava? Chi era il mandante dei suoi efferati omicidi? Che cosa significava la sua l’affermazione: “Lei ha un santo in paradiso nella setta che non vuole le sia fatto alcun male”. Chi era costui?
Mentre si stava arrovellando nei suoi pensieri, le fu detto che poteva finalmente entrare nell’ufficio del Generale.
Entrò di slancio, senza fare il saluto militare.
Il Generale, un po’ infastidito da quell’atteggiamento privo di qualsiasi
soggezione gerarchica, cercò comunque di essere cortese. «Buongiorno, Tenente, mi scusi se l’ho fatta attendere, ma purtroppo per me è abbastanza difficile prevedere la durata degli incontri e dei briefing durante la giornata. Prego si accomodi. Prima di tutto le faccio le mie più sentite condoglianze per la morte dei suoi genitori. E poi anche il rapimento del suo bambino… un vero dramma. Mi faccia però dire che sono felice che lei abbia deciso di essere reintegrata nell’Arma. Lei è un ottimo ufficiale e lo Stato ha bisogno di servitori efficienti e affidabili. Mi dica, perché ha chiesto di incontrarmi?»
Valentina era già un po’ che fremeva, disgustata dalla falsità delle parole di quell’uomo. «Ha finito, Generale?»
«… In che senso, mi scusi?» rispose l’Ufficiale perplesso.
«Nel senso se ha finito di dire cazzate».
Il Generale era stato preso nettamente in contropiede e non sapeva bene cosa rispondere. «Ma… Tenente, come si permette…».
Valentina si sporse in avanti e appoggiò i gomiti sulla scrivania. Guardò in faccia il Generale che distava da lei non più di un metro. «Mi ascolti, Generale. Non sono venuta qua per farmi prendere per il culo da lei. Mi ha parlato testualmente di “servitori dello Stato efficienti e affidabili”. Credo proprio non si riferisse a se stesso. Lei è un uomo corrotto che da anni sta operando contro lo Stato. Noi sappiamo da fonte certa che lei è un sacerdote della Setta del Pàntaclo».
Il Generale era furibondo. «Chi sei tu, brutta troia, per venire nel mio ufficio e accusarmi di essere un corrotto? Lo sai cosa significa a livello disciplinare quello
che mi hai appena detto?»
«Generale, con me non funziona. Lei, dal momento in cui sono entrata nel suo ufficio, non conta più un cazzo. Io mi ero resa irreperibile, ma il dramma che ha colpito la mia famiglia mi ha costretto a ritornare. Sono assolutamente certa che i suoi amici della Setta del Pàntaclo mi seguano costantemente. E cosa penseranno quando mi hanno visto entrare in questa caserma? Che io sia venuta a salutare il mio fidanzatino? Non credo proprio. Sarà inevitabile che pensino che ci siamo incontrati. Sì, certo, lei potrà sempre sostenere che non mi ha detto nulla, che non mi ha svelato alcun segreto, che nessuna informazione preziosa per le nostre indagini sia uscita da quest’ufficio.
Loro, però, preferiscono non rischiare. Nessuno deve rappresentare un potenziale pericolo per la setta. Mi sa che a breve ci sarà un altro lavoro per Lucifero».
Il Generale era come un pugile costretto nell’angolo e impotente di fronte ai colpi precisi e violenti dell’avversario. «Che cosa vuoi da me e che cosa mi offri?»
«Voglio i nomi, Generale. I nomi degli esponenti di spicco della setta. Voglio sapere qual è il loro fine ultimo, quello previsto dalla Sacra Profezia. Voglio sapere dove si trova il mio bambino. Cosa le offro in cambio? Prima di tutto le offro di recuperare il suo onore. Poi la inseriremo in un programma di protezione di altissimo livello. La sua carriera militare termina qui, ora, in questo momento. Posso ancora farle una domanda? Come ha potuto tradire i suoi uomini nell’operazione per la cattura di Matteo Messina Denaro? Come ha potuto infangare la carriera del Capitano Johnny Mancuso, lui sì un vero servitore dello Stato?»
Il Generale reclinò il capo. Capì che era arrivato ai titoli di coda. «Mi hanno
preso per le palle, Tenente. Ho incominciato a ricevere da persone rispettabilissime, anche di chiesa, degli inviti a delle feste, in alcune ville isolate. Ben presto però ho capito che si trattava di feste a sfondo sessuale. C’erano tante ragazze bellissime e anche bambine. Le bambine andavano soprattutto con alti prelati. Io non ho saputo resistere alla tentazione. Erano ragazze in grado di far perdere la ragione anche agli uomini più timorati di Dio. Poi però hanno incominciato ad arrivarmi fotografie e videocassette che riprendevano integralmente i miei incontri intimi. Da quel momento non sono più stato un uomo libero e ho dovuto assecondare le loro richieste. Per questo motivo non ho dato l’autorizzazione alla cattura di Matteo Messina Denaro, un loro adepto. Ha ragione, Tenente, sono stato un vile. Il Capitano Mancuso ha pagato per evitare che le fotografie delle mie scopate extraconiugali fero il giro dei mass media».
Valentina capì che era arrivato il momento giusto, quindi prese un piccolo registratore e lo avviò.
Il Generale, incurante della registrazione, continuò: «Io sono all’interno della setta da diversi anni e ho anche scalato la gerarchia diventando sacerdote. Purtroppo ciascun adepto conosce soltanto una parte dell’organizzazione e ha un accesso limitato alle informazioni. Comunque al vertice della setta c’è un Gran Sacerdote, del quale, si dice, soltanto un Cardinale conosca l’identità. Si tratta sicuramente di un personaggio ecclesiastico di altissimo rango. E poi, se vuole, le faccio i nomi degli appartenenti alla setta, sia uomini di chiesa sia laici, a me noti. Si renderà presto conto che, una volta resi pubblici, questi nomi provocheranno un vero terremoto sia a livello istituzionale sia religioso». Il Generale iniziò ad elencare i nomi e, con il are dei minuti, l’espressione di Valentina diventava sempre più cupa. Alla fine si mise le mani nei capelli. Era sconvolta. «Generale, ma si rende conto che si tratta di uomini politici di primo piano, di magistrati, di vertici delle Forze Armate, di Vescovi e Cardinali irreprensibili. Questo sarà il più grande scandalo della storia moderna».
«Tenente, non canti vittoria troppo presto. Io le ho rivelato i nomi, ma ora arriva
il difficile: trovare le prove. La sua registrazione non vale nulla ed io non ripeterò mai quei nomi davanti a un giudice».
«Perché non vuole redimersi completamente? Se ha dei figli, sarebbero fieri di lei. Ha sbagliato, ha commesso degli errori che un militare del suo grado non dovrebbe commettere, ma ha la possibilità di mostrare al mondo intero, che il senso di Stato, quello vero, non l’ha perduto completamente. Ci pensi».
Il Generale era avvilito, conscio delle sue colpe. Disse solo: «Ormai è tardi». Aprì il cassetto della scrivania, impugnò la sua pistola d’ordinanza e, prima che Valentina potesse intervenire, se la ficcò in bocca e fece fuoco. La parte posteriore della sua testa si spappolò andando a imbrattare la parete alle sue spalle.
145.
Era sera inoltrata quando Valentina riuscì a mettere piede nella sua stanza d’albergo. Le avevano offerto una sistemazione nella caserma, ma lei aveva rifiutato. Non se la sentiva di restare un minuto in più del dovuto in quel luogo. Essendo stata l’unica testimone del suicidio del Generale, aveva dovuto subire un vero e proprio terzo grado da parte dei vertici dei Carabinieri e dei magistrati. Si trattava del Comandante del ROS, uno degli incarichi più prestigiosi e ambiti all’interno dell’Arma. La notizia era già trapelata da alcune ore, tutti i telegiornali aprivano il loro notiziario con quel tragico annuncio e il giorno dopo tutte le prime pagine dei giornali sarebbero state dedicate alla morte dell’Ufficiale.
Ovviamente la domanda che gli inquirenti le avevano posto in modo assillante sin dall’inizio non poteva che essere per quale motivo il Generale si era suicidato in sua presenza.
Che cosa era successo durante l’incontro? Che cosa aveva spinto l’Ufficiale a compiere quell’atto estremo? Di cosa avevano parlato? Come era stato possibile che un uomo tutto d’un pezzo come il Generale avesse deciso di porre termine tragicamente alla propria esistenza? E perché davanti a lei? Stava forse conducendo delle indagini sul conto del Generale?
Valentina si era trovata in grave difficoltà. Nella sua borsa aveva una piccola bomba nucleare rappresentata dal suo registratore, che però lei non voleva e non poteva ancora consegnare ai magistrati. Doveva riflettere, valutare, approfondire, capire come rendere credibile quella confessione. Prima d’infangare irrimediabilmente la memoria del Generale, aveva assolutamente bisogno di trovare delle prove, dei riscontri. D’altra parte doveva dare in pasto agli inquirenti qualcosa di credibile che potesse giustificare il suicidio. E per far ciò doveva comunque, sebbene in maniera minore, intaccare la reputazione
dell’Ufficiale. Decise allora di raccontare che aveva costretto il Generale a confessare le sue responsabilità in occasione della mancata cattura di Matteo Messina Denaro. Valentina non disse che era corrotto, ma che aveva operato in quel modo unicamente per fini personali perché voleva rovinare a tutti i costi la carriera del Capitano Johnny Mancuso, come in effetti accadde. Alla domanda per quale motivo il Generale fosse in attrito con Mancuso, Valentina disse che lui non sopportava la forte personalità e il carisma del Capitano, che era praticamente diventato il Comandante in pectore del ROS.
Il rimorso però l’aveva tormentato per tutti quegli anni e quando Valentina gli aveva ricordato di essere venuto meno al giuramento prestato come servitore dello Stato, non aveva retto alla vergogna e, senza che lei avesse potuto far qualcosa per evitarlo, aveva impugnato la pistola e si era suicidato.
Valentina si rese conto che la sua versione dei fatti era debole e faceva acqua un po’ da tutte le parti, ma comunque era pur sempre la testimonianza di un Tenente dei Carabinieri. Aveva preso tempo, gli inquirenti sarebbero tornati alla carica, ma per qualche giorno poteva lavorare in pace ed elaborare una strategia.
Si rese conto che quel suicidio avrebbe avuto anche delle altre conseguenze. Lei era convinta, anzi sicura, di essere controllata dalla Setta del Pàntaclo. Che cosa avrebbero pensato quelli della setta dopo il suo incontro con il Generale e il suicidio di quest’ultimo? Semplice e banale: il Generale aveva parlato e, altrettanto semplice e banale, lei era in grave pericolo. Non potevano certo rischiare che fossero rese pubbliche notizie relative alla setta e ancor meno che fossero menzionati i nomi dei seguaci.
Valentina era consapevole che doveva prendere rapidamente una decisione sul da farsi, soprattutto per salvare la propria vita.
Il prossimo obiettivo di Lucifero poteva essere proprio lei.
Il cellulare vibrò.
Numero privato.
Chi poteva essere? Aveva acquistato il nuovo telefono con un nuovo numero soltanto alcuni giorni prima.
Con la mano destra sudata prese il cellulare e rispose: «Pronto?»
Nessuna risposta, solo un forte respiro in sottofondo.
«Pronto, chi parla?»
«Ciao, Valentina».
Il tempo si fermò. Lei incominciò a tornare indietro negli anni, a frugare nei suoi ricordi ati, di quando era una ragazzina che sognava di sposare un principe e avere tanti bambini, di quando andava in vacanza con i suoi genitori a Forte dei Marmi, di quando andava in parrocchia a giocare con le sue amichette. E poi c’era lui, il suo incubo, il suo persecutore, colui che aveva mandato in frantumi tutti i suoi ricordi più belli e che aveva reso la sua infanzia un inferno. Non aveva mai dimenticato quella voce, anche dopo tanti anni, come non aveva mai dimenticato i suoi abusi.
Non poteva crederci.
Don Riccardo.
«Ciao, Valentina. Capisco il tuo silenzio, dopo tanti anni che non ci vediamo. Sono accadute tante cose da allora, ma io non ti ho mai dimenticato. Sei sempre stata nel mio cuore. Piccola Valentina».
Lei era talmente disgustata nel risentire quella voce con quel tono mellifluo, che non riuscì subito ad articolare una risposta. Poi però diventò un fiume in piena. «Sai che sono quasi contenta di risentirti. Sarebbe bello rivederti, così potrei finalmente fare quello che ho sempre sognato in questi anni. Spogliarti nudo e poi incominciare a sparare prima alle tue mani che hanno ripetutamente violato il mio corpo, poi lasciare le ultime pallottole per spararti all’uccello che ha reso per me traumatico quello che invece dovrebbe essere l’atto di amore più bello e indimenticabile tra due ragazzi che si amano.
Tu, pezzo di merda, mi hai rovinato l’esistenza. A distanza di tanti anni provo ancora timore ad avvicinarmi a un uomo e l’unico che è riuscito a superare indenne le mie innaturali difese, me l’hanno ammazzato. Sei a Roma? Vediamoci così regoliamo i conti, ammesso che tu abbia le palle per farti vedere».
«Mi dispiace, Valentina di averti fatto del male. Io non volevo, non volevo. Eri una bambina così graziosa, così tenera, così solare, che non potevi are inosservata. Io in quel periodo ho maledetto il giorno nel quale ho deciso di prendere i voti. L’abito talare era per me come una camicia di forza, ho cercato di resistere ma non ci sono riuscito. Sono sempre stato premuroso nei tuoi
confronti ed ero convinto che anche tu mi amassi, che non potessi stare senza di me».
Valentina si rese conto di quanto fosse malata la mente di quell’uomo. «Tu sei completamente pazzo! Sei soltanto un pervertito pedofilo di merda! Io avevo dodici anni, dodici anni! Giocavo ancora con le bambole! Come hai potuto, anche solo immaginare, che io provassi dei sentimenti nei tuoi confronti? Cosa ne sapevo io dell’amore? A quell’età l’unico sentimento vero assimilabile all’amore si prova per i propri genitori. Mi fai schifo!»
Don Riccardo riprese più che a parlare a cantilenare come se Valentina non avesse detto nulla. «Quando sei andata via, sono come impazzito, la tua mancanza mi ha allontanato progressivamente dalla fede. Ho incolpato Dio, quello stesso Dio nel nome del quale ero diventato sacerdote, del dolore che avevo subito con la tua partenza. La mia vocazione si è dissolta ed è stato allora che ho incominciato ad avvicinarmi ad una setta devota a Satana. Capisci, è colpa del tuo Dio se io ora non seguo più i suoi insegnamenti. Satana invece sa come arrivare al mio cuore, come ripagare la mia fede verso di lui e mi ha dato la possibilità di ritrovarti. Sono stato io a scegliere Johnny come figlio del nostro Dio e lui, presto, dominerà il mondo intero nel nome di suo padre, Satana».
Valentina cercò di interpretare quelle frasi, per lei, senza alcun senso, ma ebbe una strana sensazione. «Che cosa intendi dire affermando che tu “hai scelto Johnny come figlio del tuo Dio?”»
Don Riccardo ormai parlava senza alcuna reticenza, senza rendersi conto dell’assoluta riservatezza delle sue dichiarazioni.
«Devi sapere che La Sacra Profezia recita “Dopo 7 mesi dalla conclusione dei sacrifici, nascerà colui che sarà scelto dagli Eletti per condurre le nostre legioni
alla vittoria finale. Colui che diventerà l’Anticristo”. Ed è Johnny il bambino scelto dagli Eletti. Sono stato io a convincere il Gran Sacerdote che il figlio del nostro Dio era il bambino che portavi in grembo».
Valentina si rese immediatamente conto che quel prete insulso poteva rappresentare il grimaldello per entrare una volta per tutte all’interno della Setta del Pàntaclo. «Perché proprio mio figlio?»
«Perché tu già da piccola avevi ricevuto da me il sacro seme. Esso è rimasto sopito per tutti questi anni e poi è germogliato in ossequio alla Sacra Profezia. Tu sei diventata la nostra Madonna».
«Stai soltanto dicendo un sacco di cazzate. Il padre di Johnny è il Capitano Mancuso. Lui l’ha concepito, non il tuo sacro seme del cazzo del quale ho sempre accuratamente provveduto a ripulirmi dopo i tuoi abusi».
«No, Valentina, non capisci. Johnny Mancuso è stato solo il generatore terreno della tua maternità. Il seme che ha originato il concepimento del tuo bambino è stato quello che avevi in corpo da quando eri piccola. Johnny non ha più un padre naturale, ma ora ha un padre divino: l’Onnipotente Satana».
Valentina, a quel punto ritenne ormai del tutto inutile contraddire quel pazzo, ma doveva prendere una decisione, fondamentale. Ormai aveva appurato che don Riccardo faceva parte della Setta del Pàntaclo ed anche ad altissimo livello. Probabilmente era anche a conoscenza del luogo dove si trovava il suo bambino. Le ripugnava, ma doveva cercare di assecondarlo per ottenere le informazioni che le interessavano. Forse quell’indagine si sarebbe risolta molto tempo prima del previsto. «Ascolta, Riccardo… posso chiamarti così?»
«Certamente, Valentina, tu puoi chiamarmi come ritieni più opportuno».
«Tu sai dove si trova il mio bambino adesso?»
«Sì, lo so».
«E me lo puoi dire?»
Don Riccardo ebbe un momento di lucidità e incominciò a tentennare. «Mi dispiace, Valentina, ma non posso dirtelo. E’ una notizia riservata… anche se…».
«… anche se?»
«Anche se loro si sono comportati molto male con me. Mi hanno terrorizzato facendomi pensare che mi avrebbero ammazzato. Poi hanno riso di me perché si trattava di uno scherzo. Sono stati cattivi, mi hanno umiliato».
Valentina non poteva fallire quel touchdown, ma non voleva neanche mettere troppa fretta al prelato, onde evitare che capisse di essere soltanto usato per ottenere delle informazioni. «Ascolta, Riccardo, non volevo essere troppo crudele nei tuoi confronti. Possiamo incontrarci e chiarire ogni cosa».
«Davvero, Valentina? Stai parlando sul serio? Non mi sembra vero!»
«Sì, hai capito benissimo. Possiamo vederci domani mattina alle 8.30 in Piazza Navona, vicino alla fontana».
«Va benissimo, incomincio già a contare le ore che mancano. A domani».
Valentina incominciava a intravedere uno spiraglio di luce in quell’intricata vicenda. Soprattutto l’idea di poter ritrovare il suo bambino la eccitava. Se l’era goduto così poco fino a quel momento per tutte le complicazioni che c’erano state, ma l’istinto di una madre si faceva sempre più strada nel suo inconscio. Non poteva immaginare come l’avrebbe ritrovato, se sempre posseduto da una forza demoniaca che ne aveva fortemente condizionato i primi giorni della sua vita. Inoltre non capiva com’era stato possibile che don Riccardo fosse asceso così in alto nella gerarchia della setta. Un uomo debole, influenzabile, privo del carattere e del carisma che dovrebbe contraddistinguere un capo. Meglio così, anche la Setta del Pàntaclo poteva aver commesso un errore, un errore che lei sperava l’avrebbe condotta alla verità.
In quello stesso momento però Lucifero posò le cuffie grazie alle quali aveva appena ascoltato la conversazione tra Valentina e il giovane Cardinale. Compose subito il numero sul suo cellulare. «Buongiorno, Eminenza, mi scusi se la disturbo, ma abbiamo un grosso problema».
146.
Ore 8.30. Piazza Navona.
Valentina era in attesa accanto alla Fontana dei Quattro Fiumi di Gian Lorenzo Bernini, situata al centro della piazza.
Era in borghese. Un paio di jeans, scarpe da ginnastica e una camicetta bianca lunga sistemata sopra i pantaloni per nascondere la Beretta che aveva infilato nei jeans dietro la schiena.
Controllò il suo cellulare. C’era una decina di chiamate non risposte del magistrato che stava lavorando all’indagine relativa al suicidio del Generale Franco Maria De Agostini. Evidentemente la sua versione dei fatti, come temeva, aveva retto soltanto per pochi giorni. Sicuramente il Sostituto Procuratore voleva rivederla per chiarire i troppi dubbi che quella versione doveva aver suscitato, ma ora Valentina non aveva né tempo né voglia di parlare con il magistrato. Forse aveva trovato un pertugio nel muro di gomma della setta e non voleva farselo sfuggire. Si guardò attorno e alla fine lo vide.
Don Riccardo, con un abito talare molto semplice, si stava dirigendo verso di lei. Aveva un portamento degno del suo rango e, per essere un Cardinale, sembrava straordinariamente giovane. Quando arrivò di fronte a Valentina, le porse la mano per salutarla, ma lei non contraccambiò. Fu come rapita dal suo volto, un volto che pensava non avrebbe mai più rivisto e che era scolpito nella sua memoria, anche se con le fattezze di parecchi anni prima. Ebbe come dei flash di quello che era accaduto quando era ancora una bambina e la nausea provata nel ripescare quei ricordi fu tale che vomitò dentro la fontana.
Don Riccardo rimase freddo, imibile. «Mi dispiace, Valentina che la mia vista ti provochi tanto disgusto» disse con il suo solito tono mieloso.
Valentina si ripulì la bocca con un fazzoletto di carta, guardò il prelato e sfogò la sua rabbia: «Sei dispiaciuto? Che cosa pensavi? Che sarei corsa ad abbracciarti come quando si rivede un amico dopo tanti anni? Tu per me sei il male assoluto. Ecco, sì, se al male si potesse dare un volto, io non avrei nessuna difficoltà ad associarlo al tuo. Tu mi hai sconvolto la vita, riducendomi ad una donna disadattata che anche da adulta ha avuto grosse difficoltà ad approcciarsi con un uomo. E questo disagio, ormai irreversibile, è destinato a convivere con me finché sarò in vita. Tu non puoi neanche lontanamente immaginare il male che mi hai fatto e che mi sono portata dentro in tutti questi anni, senza poterlo condividere con nessuno. Avrei voluto farlo con Johnny Mancuso, l’unico uomo che è riuscito ad abbattere il muro di pietra che io ogni volta ergevo nei confronti di qualche spasimante. Ma non ne ho avuto il tempo. I tuoi amici della setta me lo hanno ammazzato ed io ora vivo anche con il rimorso di non essere stata capace di trovare il coraggio di parlargli nel breve periodo che siamo stati insieme. No, caro Cardinale, non te la cavi con un generico “mi dispiace”. Tu hai un debito nei miei confronti neppure quantificabile, tanto è immenso. Quindi ora io ti farò delle domande e tu mi risponderai, senza alcuna reticenza. In caso contrario ti porterò al Comando Generale, dove ti farò incriminare per aver commesso almeno una decina di reati».
Don Riccardo sorrise. «Valentina, tu sai benissimo che non hai nessuna prova a sostegno delle tue accuse. Dopo mezzora mi lasceranno andare con tanto di scuse e daranno corso a un provvedimento disciplinare nei tuoi confronti per aver messo in serio imbarazzo lo Stato Italiano nei confronti della Santa Sede. Te lo ripeto, Valentina, mi dispiace. Non riuscirai a rovinare la mia reputazione e non ti darò alcuna informazione, a meno che…».
«… a meno che?» Valentina impallidì.
«Sei diventata una bellissima donna, attraente e sensuale. Devo continuare?»
Valentina ebbe di nuovo un conato di vomito. «Pensi davvero che io sia disposta a venire a letto con te in cambio delle tue informazioni?»
«In cambio delle informazioni non so, ma in cambio di tuo figlio penso di sì».
«Che cosa sai di mio figlio? Dove si trova adesso?»
«Non pago in anticipo i miei debiti, mia cara».
«Mi avevi detto che ti hanno maltrattato, ti hanno umiliato. Che volevi vendicarti. Mi hai mentito!»
«No, non ti ho mentito. Mi hanno realmente trattato in modo indegno ed io ho deciso di aiutarti. Non gratis, però!»
Valentina capì che don Riccardo non era poi così debole e influenzabile come aveva immaginato, ma era un uomo cinico, dalla dubbia fedeltà, che in cambio del soddisfacimento dei propri desideri sessuali, non avrebbe esitato a tradire.
Mentre era immersa nei suoi pensieri, Valentina notò a circa centocinquanta metri di distanza da loro una moto di grossa cilindrata ferma, con un uomo in
sella totalmente vestito di nero come nero era il casco integrale che indossava. Lei non era mai stata un’operativa, ma dopo il periodo trascorso con Mancuso, aveva iniziato ad imparare ad allertare i sensi, soprattutto in presenza di potenziali pericoli. E quell’uomo sulla moto, per lei, rappresentava un potenziale pericolo, in quanto totalmente fuori posto in quel contesto della piazza.
Cercando di mantenere la calma, Valentina chiese a don Riccardo: «La linea dalla quale mi hai chiamato era sicura?».
«Perché?» rispose don Riccardo, che non capiva il senso di quella domanda.
«Perché temo che ci abbiano intercettato. Non ti voltare, ma alle tue spalle, a circa centocinquanta metri di distanza, c’è una moto ferma con in sella un uomo che mi sembra interessato a noi».
Don Riccardo incominciò a farsi prendere dal panico. «Oh, mio Dio, siamo in pericolo! Forse hanno deciso di ucciderci entrambi! Difendimi, Valentina ti prego, ti prego…».
«Calmati idiota! Non deve capire che ci siamo accorti di lui. Adesso, lentamente, attraversiamo la piazza in diagonale e dirigiamoci alla nostra sinistra verso Via di Sant’Agnese. Qui in piazza siamo troppo esposti, in una via, in mezzo alla gente, potremmo cavarcela».
Si mossero e con o lento ma deciso si avviarono verso la via. Valentina estrasse dai jeans la pistola cercando di nasconderla alla vista dei anti.
Il motociclista capì al volo le intenzioni dei due e mise immediatamente in moto la sua Honda CTX 1300 ABS.
Valentina diede un’occhiata e capì a sua volta che l’uomo aveva intuito le loro intenzioni. A quel punto non aveva più senso fingere. Urlò a don Riccardo: «Scappa nella via! Io mi nascondo dietro i cassonetti della spazzatura e cerco di fermarlo!».
Il prelato incominciò a correre terrorizzato e anche i anti iniziarono a percepire la situazione di pericolo. Valentina si gettò dietro ad alcuni bidoni posti all’angolo tra la piazza e la via. La moto lanciata a tutta velocità ci mise un attimo ad arrivare davanti ai bidoni. Il motociclista senza fermarsi, sporse il braccio destro e incominciò a sparare contro Valentina con una pistola con il silenziatore. La donna, bersagliata dai proiettili, non riuscì a sporgersi e a rispondere al fuoco. La moto imboccò la via con i anti che cercavano riparo dove potevano. Raggiunse don Riccardo che continuava a correre con o malfermo. Non ce la faceva più. Alla fine, con il fiatone e gli occhi fuori dalle orbite, cadde per terra. La moto si fermò e il motociclista scese, la sistemò sul cavalletto e si tolse il casco. Sembrava non avere fretta.
«Lucifero!» esclamò don Riccardo.
«Sì, Eminenza sono io, mi dispiace».
«Tu devi fare quello che ti dico io! E’ grazie a me se sei diventato l’uomo di fiducia della setta!»
«No, non più». Impugnò la pistola e mirò alla testa del prelato. In quel momento
però si sentirono due deflagrazioni.
Due colpi sparati da Valentina colpirono la motocicletta. Lucifero sparò, ma distratto dalla reazione del Tenente, la pallottola non colpì la testa di don Riccardo, ma l’addome.
Il killer si nascose dietro la moto. Valentina non si vedeva. Doveva essersi riparata dietro qualche rientranza dei muri delle case.
Improvvisamente s’incominciarono a sentire delle sirene. Stava per arrivare qualche pattuglia della Polizia o dei Carabinieri. Lucifero non poteva attendere ancora. Incominciò a indietreggiare sempre con l’arma pronta a sparare al minimo movimento. Poi si girò di scatto e incominciò a correre in direzione di Via di Santa Maria dell’Anima.
Valentina sbucò fuori dal suo nascondiglio, l’ingresso dell’Ambasciata del Brasile, e si precipitò da don Riccardo.
Perdeva molto sangue, le sue condizioni erano gravissime. Valentina cercò di parlargli: «Ascolta Riccardo, hai l’occasione per emendare i tuoi peccati. Aiutami, ti prego! Dov’è il mio bambino?»
Il prelato faticava a parlare, del sangue gli usciva dalla bocca. «Come sei bella… Valentina… ti chiedo… perdono… il tuo… bambino è… al Bambin Gesù… non so… dove però…».
«Riccardo, chi è il Gran Sacerdote?»
«… Non posso… dirti il nome… ma sappi… che è… molto vicino… al Papa… anche lui è… il numero sette…».
«Che cosa intendi dire? Che cosa vuol dire anche lui è il numero sette?»
«Segui… il numero… vicino al Papa… cerca il numero sette… se lo trovi… trovi lui…perdonami…ti prego…».
«Spiegati meglio, Riccardo! Cazzo, spiegati meglio!»
Nessuna reazione.
Don Riccardo era morto.
Valentina non provò gioia ma una profonda pietà.
147.
Di nuovo al Comando Generale dell’Arma a Roma. A Valentina sembrava di esserci andata il giorno prima con Mancuso, in realtà era ato un secolo.
Aveva chiesto lei ai colleghi che erano giunti sul posto dell’omicidio di don Riccardo, di essere portata in quel luogo. Quando vi era giunta, aveva chiesto esplicitamente di parlare con il Comandante Generale dell’Arma.
All’inizio le avevano chiesto se era impazzita. Il Comandante Generale! Perché, per quale motivo? Alcuni alti Ufficiali l’avevano sottoposta a un vero e proprio interrogatorio, manco fosse una delinquente catturata dopo anni di latitanza. Lei aveva resistito, asserendo che era in possesso di informazioni, anche legate all’omicidio del Cardinale, di interesse nazionale che poteva comunicare soltanto al Comandante.
Alla fine riuscì a convincerli. Il Comandante, fortunatamente, quel giorno si trovava a Roma. Appena possibile, si sarebbe recato alla Caserma Hazon.
Dopo tre ore di attesa nel salottino attiguo all’ufficio del Comandante, un Capitano aprì la porta e le disse che poteva entrare.
Valentina, agitatissima e consapevole delle possibili conseguenze derivanti da quell’incontro, respirò a pieni polmoni, si alzò ed entrò nell’ufficio del Comandante. Si mise sull’attenti e fece il saluto militare. Il Generale di Corpo d’Armata sco Sallier de La Tour la guardò e, senza dire una parola, le fece cenno di accomodarsi. Valentina si sedette su una poltrona di fronte a lui e
rimase in attesa.
Dopo circa mezzora, durante la quale il Comandante parve sbrigare del lavoro amministrativo, ma, a giudizio di Valentina, non stava facendo nulla se non protrarre volutamente la durata dell’attesa, finalmente le parlò: «Allora, Tenente, ho saputo che lei è stata reintegrata nell’Arma dopo l’omicidio dei suoi genitori, per il quale le esprimo da parte mia il più sincero cordoglio e il rapimento del suo bambino, le cui indagini per il ritrovamento, purtroppo, sinora non hanno dato alcun esito. Perché ha chiesto d’incontrarmi?».
Valentina non sapeva bene da dove cominciare. Doveva esporre una sintesi dei fatti, cercando di essere il più credibile possibile. «Signor Generale, ho chiesto di incontrarla perché in questo momento non sono sicura io stessa di chi possa realmente fidarmi. Voglio essere sintetica ma allo stesso tempo voglio riuscire a esporle i fatti in maniera comprensibile in modo che lei possa assumere le decisioni che riterrà più opportune. Nel mese di ottobre dello scorso anno, io e il defunto Capitano Johnny Mancuso abbiamo incominciato a occuparci di alcuni strani omicidi di giovani ragazze, molto similari tra loro. Ben presto abbiamo appurato che si trattasse di rituali satanici compiuti in ossequio ad una profezia arcaica e messi in atto dagli appartenenti alla Setta del Pàntaclo, un’antica e potente setta satanica. Tutti quelli che hanno tentato di contrastare gli eventi previsti dalla profezia, sono stati uccisi. Anche il Capitano Johnny Mancuso ha perso la vita durante lo svolgimento delle indagini per mano di un killer implacabile al servizio della setta, denominato in codice Lucifero dall’Intelligence del Vaticano. Questa setta potentissima, oltre che mettere in pratica quanto contenuto nella profezia, organizza feste orgiastiche in prestigiose ville isolate, alle quali partecipano personaggi di spicco sia del mondo ecclesiastico sia istituzionale. Un aspetto nauseante è che a queste feste partecipano anche delle bambine».
A quel punto, senza che il Generale avesse detto una sola parola, Valentina tirò fuori dalla borsa un piccolo registratore.
«Da fonte certa, abbiamo saputo che anche il Generale Franco Maria De Agostini era un sacerdote della setta. Io sono andata a interrogarlo e lui mi ha fatto un po’ di nomi. Eccoli: Valentina schiacciò play sul registratore. A mano a mano che i nomi venivano snocciolati, l’espressione del Generale cambiava continuamente fino ad apparire quella di chi viene a conoscenza a freddo della morte di una persona cara. «Spenga quel coso, Tenente, la prego» implorò il Generale.
Mancava ovviamente la ciliegina sulla torta. Valentina non diede tempo al Comandante di riprendersi dallo shock. «E’ questo il motivo per il quale si è suicidato. Non ha retto al disonore. L’elenco non finisce qui. Anche il Cardinale Riccardo Costa, assassinato questa mattina, era un appartenente alla setta. Di altissimo livello. Voleva collaborare e l’hanno ucciso. Prima di morire, però, ha fatto in tempo a dirmi che mio figlio si trova al Bambin Gesù».
«Chi c’è a capo di questa setta?»
«Un Gran Sacerdote, conosciuto come tale da pochissimi all’interno della setta».
«Lei sa chi è?» chiese il Generale.
«No. So soltanto che è un uomo di Chiesa molto vicino al Papa».
«E quale sarebbe alla fine lo scopo di questa setta? Che cosa sarebbe previsto dalla profezia?»
«Un vero e proprio terremoto religioso. L’innalzamento di Satana come unico Dio di tutti gli uomini».
«Secondo lei, Tenente, il Santo Padre è in pericolo?»
«Assolutamente sì. L’avverarsi della profezia non può prescindere dall’uccisione del Pontefice».
«Perché hanno rapito suo figlio?»
«Perché è stato scelto come figlio del loro Dio. Quando ero una ragazzina, ho subito degli abusi sessuali dal Cardinale Costa, che all’epoca era un parroco, don Riccardo. Secondo loro io ho conservato nel mio corpo il suo seme che è germogliato a tempo debito. Ora il mio bambino è posseduto dal demonio. Ha subito anche un tentativo di esorcismo non riuscito. Per essere sincera non l’ho mai percepito veramente come mio figlio».
Il Generale si tolse gli occhiali e si strofinò le mani sul viso.
«Secondo lei, Tenente, cosa dovrei fare adesso?»
«Generale, essere Capi, a volte, implica anche l’assunzione di decisioni dolorose ma necessarie. La Setta del Pàntaclo deve essere annientata. In caso contrario le conseguenze sarebbero imprevedibili. Immagini soltanto cosa caebbe nei paesi islamici l’uccisione dei loro Capi religiosi o nell’Europa dell’Est di quelli ortodossi. L’attuale equilibrio religioso mondiale si frantumerebbe con guerre di
religione devastanti. D’altra parte questo è il disegno satanista: la totale anarchia mondiale e il caos che produce soltanto morte e violenza».
Il Generale sembrava sconvolto, incapace di replicare. Durò solo un attimo. Poi aprì il cassetto e tirò fuori una Beretta Stoeger Cougar 8000. La appoggiò sulla scrivania.
Valentina fu colta del tutto impreparata e guardò il Generale con un’espressione interrogativa.
«Vede, Tenente, le cose non appaiono mai come sono in realtà. Lei è venuta da me dicendomi che non sapeva più di chi fidarsi. Il mio ruolo probabilmente le è apparso come protetto da uno scudo impenetrabile in grado di difendermi dalla tentazione di qualsiasi azione eversiva. Mi dispiace. Si è sbagliata. Abbiamo realizzato un piano che rasenta la perfezione. Un falso Gran Sacerdote, uomo di Chiesa, che ha manovrato con saggezza i pochi adepti che conoscevano il suo grado. Il Cardinale Riccardo Costa era il suo braccio destro e questa mattina prima di morire le ha dato un indizio su colui che egli era sicuro fosse il Gran Sacerdote. Cosa le ha detto: “Cerca il numero sette vicino al Papa”. Tenente, chi è il Cardinale più vicino al Papa?»
Valentina esitò. «Il Segretario di Stato Vaticano?»
«Esatto! Complimenti!».
«E cosa c’entra il Segretario di Stato Vaticano con il numero sette?»
«E’ molto semplice. L’attuale Segretario di Stato è il 59-esimo dal 1605 ad oggi. 5+9=14. 14:2=7. La scoperta del secolo! E poi? Chi le avrebbe dato credito, Tenente? Quale magistrato avrebbe aperto un fascicolo sul nulla? Nessuna prova, due potenziali testimoni morti, una confessione registrata senza alcun riscontro. Chi avrebbe osato infangare i nomi di tanti uomini dello Stato e della Chiesa? Nessuno. Quindi le ripeto: che cosa dovrei fare adesso?»
Valentina era annichilita, come in trance, come chi si è appena svegliato da un’anestesia totale e stenta a comprendere dove si trova e perché si trova in un dato posto.
C’era un solo pensiero che le martellava la testa: il suo Comandante, quello che per lei doveva essere un modello da seguire, la sua stella polare, era invece un uomo corrotto che attentava alla sicurezza dello Stato, di quello stesso Stato che aveva giurato di difendere a costo della vita.
Era lui il vero Gran Sacerdote della Setta del Pàntaclo. «Non avrei mai immaginato che il Gran Sacerdote potesse essere un laico» disse sommessamente Valentina.
«E perché mai?» rispose stupito il Generale. «Voi ragionate ancora in modo arcaico, distinguendo tra laici e religiosi. Per la nostra fede, invece, siamo tutti uguali. Ogni appartenente al nostro credo può diventare un sacerdote di Satana, senza distinzioni. Il mio caso direi che è lampante a tal proposito».
Valentina guardò la pistola posata sulla scrivania. «Credo che lei adesso immagini che io prenda quell’arma e che mi spari un colpo in testa. Un altro suicidio di un Ufficiale dei Carabinieri e questa volta addirittura alla presenza del Comandante Generale dell’Arma. Come lo giustificherebbe?»
«Non è un problema, Tenente. Chi le dice che la notizia del suo suicidio possa trapelare all’esterno? Chi la sta aspettando in questo momento? Non ha più nessuno al mondo e ai colleghi di Milano che la stanno cercando, possiamo raccontare un po’ quello che ci pare. Ma io non voglio che lei muoia. Le ho chiesto un paio di volte cosa dovrei fare adesso. Ebbene io la lascio andare via, lei torna a Milano, consegna la pistola e il distintivo e lascia, questa volta per sempre, l’Arma. Poi è libera di fare quello che desidera. Noi non interferiremo. Dimentichi tutta questa storia, la Setta del Pàntaclo, la Sacra Profezia, la simbologia dei numeri, Satana e l’Anticristo. Faccia la sua vita nell’attesa che si manifestino gli eventi ormai irreversibili».
«E del mio bambino che ne sarà?»
«Purtroppo Johnny non è più il suo bambino. In realtà non lo è mai stato. Lei ha avuto il compito divino di portare in grembo il figlio di Dio. Ora lui è nostro. Quando sarà il tempo, diventerà colui che intercederà tra di noi, comuni mortali, e il nostro Dio Onnipotente, Satana».
Valentina ebbe nuovamente dei conati di vomito. La sua vita in quel momento le apparve veramente inutile. Non sapeva dove andare, cosa fare, chi chiamare. Una volta uscita da quella caserma ci sarebbero stati troppi vuoti, impossibili da colmare. Johnny, il bambino, i suoi genitori. Una micro classe di assenti permanenti.
Avevano vinto. Il male aveva trionfato vincendo la guerra senza fare prigionieri.
Purtroppo non erano sul set di Avatar, dove i buoni con le frecce erano riusciti a sconfiggere i cattivi dotati di armi sofisticate.
Tutto era finito.
«Scusi, Generale, posso andare in bagno? Ho bisogno di rinfrescarmi».
«Sì, certo. E’ qui subito sulla destra».
Valentina si alzò e uscì dall’ufficio.
Dopo un paio di minuti, si sentì un colpo di pistola.
Le cinque ragazze vergini sacrificate.
Betta.
Cecilia.
Livia.
Johnny Mancuso.
I genitori di Valentina.
Lorenzo.
Valentina era felice. Non era più sola, ora era di nuovo in compagnia di persone che le volevano veramente bene.
Epilogo (o forse no) La Sacra Profezia
«L’Era dell’Anticristo inizierà nell’anno 2005, quando il Papa sarà Benedetto XVI, due volte 7 (16. 1+6=7 - San Benedetto da Norcia, morto il 21 marzo 543. 2+1+3+5+4+3=18. 8-1=7) e due volte settimo (7-imo sovrano dello Stato della Città del Vaticano – 7-imo pontefice tedesco nella storia della Chiesa cattolica). Ma prima di rivelarsi, l’Anticristo farà in modo che lo stupido Uomo pensi di essere al sicuro. Trascorsa sarà ormai la mendace Profezia della fine del mondo trasmessa per volere del Divino dalla bocca di coloro che in Sanscrito significano “Illusione” (Il significato originario della parola maya è stato quello di “creazione” ma ha successivamente acquisito il significato di “illusione”), come illuso sarà l’Uomo della sua salvezza. I Gentili si risveglieranno dall’incantesimo Ebraico e dalle menzogne del Cristianesimo. Ma proprio da quel fallace oracolo comincerà l’Era del Pàntaclo. Tutto sarà dominato dai numeri 5 e 7.
5 come le punte del Pentacolo e 7 da 666 (6x3=18. 8-1=7) il numero magniloquente vergato nella Bibbia.
Quando l’anno sarà il 2009, cinque vergini verranno scelte dagli Eletti per l’estremo sacrificio.
Dopo il fallace inganno, quando il tempo sarà (l’11 febbraio 2013, 1+1+2+2+0+1+3=10) due volte 5 il Regno della menzogna avrà un Monarca debole (Nel concistoro ordinario dell’11 febbraio 2013 Benedetto XVI annunciò la sua rinuncia) e l’Anticristo comincerà a radunare le sue truppe e preparare il suo Avvento.
Quando l’anno sarà il 2014 e il Papa sarà il suo doppio (Papa sco è il 266esimo papa della Chiesa cattolica e vescovo di Roma. 2+6+6=14), i 7 peccati originali si sveglieranno dal loro torpore e l’Uomo, in preda al terrore, si sottometterà al suo Unico vero Dio che dalle tenebre apparirà e gli dirà: “La morte sarà la tua purificazione”.
In quel tempo saranno ati 5 anni dalla loro predilezione. Le 5 vergini, che avranno raggiunto i 25 anni, saranno sacrificate ogni 5 giorni a partire dal settimo giorno del mese due volte 5 (dal 25 ottobre 2014). Dopo 7 mesi dalla conclusione dei sacrifici, nascerà colui che sarà stato scelto dagli Eletti per condurre le nostre legioni alla vittoria finale. Colui che diventerà l’Anticristo. Tutto finirà e la morte si abbatterà sugli infedeli peccatori. Il Sette, l’Anticristo, sarà il Padrone dell’Universo».
Nota dell’autore
Cari Lettori, ho deciso di svelare il contenuto della Sacra Profezia soltanto alla fine del romanzo per due motivi. Il primo è che mi sembrava giusto rendere noto il significato della scrittura, elemento essenziale nella storia del libro. Il secondo è che nei miei romanzi non ci sono supereroi che sono in grado di interpretare o decifrare dei simboli o caratteri arcaici con una facilità disarmante. Queste facoltà divinatorie le lascio volentieri ad altri autori (magari americani… ).
Qualcuno di voi penserà che sia andato a ricercare volutamente delle date o dei personaggi che esprimessero i numeri a me utili ai fini della storia. Vi assicuro che non è stato così: i personaggi, le date, gli eventi sono prima stati da me selezionati e poi verificati da un punto di vista numerologico. Devo dire che ho trovato delle coincidenze straordinarie e la ricorrenza, soprattutto del numero 7, è stata per me una sorpresa del tutto inaspettata.
E’ chiaro che ciascuno di Voi farà le sue valutazioni e deciderà il tasso di credibilità da attribuire a queste “scoperte”.
Inoltre molti, prima fra tutti mia moglie Rita (che non finirò mai di ringraziare per l’accurato lavoro di correzione delle bozze, editing e grafica), resteranno delusi dal finale. Il bene questa volta non ha avuto la capacità di trionfare.
Ma dove sta scritto che il bene deve sempre prevalere?
Guardiamoci attorno: conflitti etnici in paesi lontani che neanche conosciamo e che causano migliaia di vittime, soprattutto tra donne e bambini; guerre di
religione altrettanto sanguinarie; genocidi; fame nel mondo con milioni di bambini che non hanno di che nutrirsi; povertà dilagante; violenza sulle donne; stragi familiari; bambini che scompaiono nel nulla; pedofilia; razzismo; sfruttamento; centinaia di immigrati morti, dispersi in fondo al mare dei quali non sapremo mai i nomi; stragi impunite dopo 30 anni; disoccupazione e licenziamenti. Vado avanti? No, mi fermo per non infierire.
E il bene? Dov’è?
In questo periodo storico io non riesco a intravederlo, nemmeno da lontano. L’unico mio bene è rappresentato dalla mia famiglia, un enorme bene che mi consente di affrontare giorno dopo giorno le brutture di questa società incancrenita che osserviamo con profonda preoccupazione se pensiamo al futuro dei nostri figli.
E i miei libri non possono che riflettere questo mio stato d’animo.
Pertanto mi scuso anticipatamente con coloro che ritenevano che, alla fine, in questa Trilogia i cattivi sarebbero stati tutti puniti e tra i buoni sarebbe nata una travolgente storia d’amore.
Non so se questa storia avrà un ulteriore seguito, se il bene finalmente trionferà sul male. Forse aspetterò il 7 agosto 2015…
Indice
1.Torino, 10 settembre 2007– ore 5.20
2.Torino, 10 settembre 2007 – ore 9.15
3.Torino, 11 settembre 2007 – ore 6.00
4.Torino, 11 settembre 2007 – ore 11.20
5.Torino, 12 settembre 2007 – ore 20.30
6.Torino, 13 settembre 2007 – ore 7.15
7.Torino, 13 settembre 2007 – ore 13.10
8.Torino, 14 settembre 2007 – ore 19.20
9.Torino, 14 settembre 2007 - ore 23.25
10.Torino, 15 settembre 2007 – ore 6.30
11.Torino, 16 settembre 2007 – ore 7.30
12.Torino, 16 settembre 2007 – ore 20.30
13.Torino, 17 settembre 2007 – ore 7.30
14.Torino, 18 settembre 2007 – ore 8.30
15.Torino, 19 settembre 2007 – ore 3.10
16.Torino, 19 settembre 2007– ore 3.30
17.Torino, 19 settembre 2007 – ore 3.50
18.Torino, 19 settembre 2007 – ore 8.30
19.Torino, 19 settembre 2007 – ore 19.45
20.Torino, 20 settembre 2007 – ore 6.20
21.Torino, 21 settembre 2007 – ore 8.00
22.Torino, 22 settembre 2007 – ore 6.00
23.Torino, 23 settembre 2007 – ore 4.40, vigilia dell’esecuzione
24.Torino, 23 settembre 2007 – ore 6.10, vigilia dell’esecuzione
25.Torino, 23 settembre 2007 – ore 6.45, vigilia dell’esecuzione
26.Torino, 23 settembre 2007 – ore 7.30, vigilia dell’esecuzione
27.Brusson, 23 settembre 2007 – ore 21.05, vigilia dell’esecuzione
28.Brusson, 23 settembre 2007 – ore 23.18, vigilia dell’esecuzione
29.Brusson, 24 settembre 2007 – ore 2.00, giorno dell’esecuzione
30.Brusson, 24 settembre 2007 – ore 2.45, giorno dell’esecuzione
31.Brusson, 24 settembre 2007 – ore 3.15, giorno dell’esecuzione
32.Brusson, 24 settembre 2007 – ore 7.05, giorno dell’esecuzione
33.Brusson, 24 settembre 2007 – ore 8.30, giorno dell’esecuzione
34.Brusson, 24 settembre 2007 – ore 8.50, giorno dell’esecuzione
35.Brusson, 24 settembre 2007 – ore 10.30
36.Torino, 24 ottobre 2007 – ore 8.30
37.Torino, 24 ottobre 2007 – ore 20.15
38.
39.
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70.
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73.
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82.
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147.
Epilogo (o forse no) La Sacra Profezia
Nota dell’autore