© Romano Augusto Fiocchi, 2013 Tutti i diritti riservati www.romanofiocchi.it Prima edizione in e-book: novembre 2013.
© Romano Augusto Fiocchi, 1986 © Edizioni Bignami S.r.l., 1986 Prima edizione cartacea: novembre 1986.
In copertina: Lucilio Fiocchi, Pavia, vicolo Pietro Terenzio.
Questi racconti sono frutto di invenzione. Ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti è puramente casuale.
Romano Augusto Fiocchi
CAPRICCI PAVESI
novelle
Indice
Prefazione di Mino Milani A colloquio con il ato presente Barcé chiama Ponte vecchio La nebbia d’estate I certosini ci osservano Come le foglie Uno scherzo ben riuscito Metamorfosi di un Natale Quella finestra che dà sul San Teodoro La mala lingua del Borgo Una dea narcisista Memorie di un vecchio ponte Delitti in biblioteca La solita vecchia storia Chiuso per restauri Notturno pavese Vicoli Il giardino delle delizie
All’ombra del Ghislieri Professore di eloquenza Due muri Vicolo del senatore La cattedrale sommersa La casa del mistero Sul Naviglio Lo sfratto Le tentazioni di Antonio La gara dei poeti Il party
Prefazione
Questo libro è una dichiarazione; e se aggiungessi «d’amore», direi certo giusto, ma la formula che ne uscirebbe, infine, avrebbe proprio in quanto formula una sua limitazione. Pare non ci sia limite, invece, alla ione pavese di Romano Augusto Fiocchi, che in questi brevi eleganti e allusivi racconti (allusivi, si intende, in senso pavese: sono probabilmente per gli iniziati, per i «felici pochi», anche se auguro ad essi schiere di lettori), in questi racconti compatti e coerenti, cerca bellezze magie ricordi suggestioni in ogni ora, in ogni angolo, in ogni muro, in ogni ombra della città. Le cerca, le trova e le narra; ma non pare possa godere di esse, se non contemplandole con rimpianto. Struggente rimpianto, rammarico senza speranza: impossibile procedere, inutile procedere: tutto è già stato fatto, la perfezione raggiunta, e noi possiamo solo testimoniare del decadimento e della fine. Tutto ciò che ci è dato compiere, in questa Terra desolata, scrive nella premessa, è ormeggiare il presente al ato; e poiché, mi viene da dire, una nave ormeggiata non può salpare, così a Pavia ogni futuro è precluso. Tutto ciò farebbe inorridire gli ottimisti, e chi crede nelle «magnifiche sorti e progressive» dell’umanità e quindi, perché no?, anche di Pavia; e non v’è dubbio che potrebbe destare perplessità anche nel pavese moderato, e in chi (come me, per esempio) ha in sostanza orrore d’una città museo. Ma quella che Romano Augusto Fiocchi vede e vuole, è ormai la Pavia come vorremmo fosse stata, la Pavia che forse non fu mai, quella fatta «della stessa materia con cui sono fatti i sogni». Ragione di più per amarla; e per addentrarsi in essa con queste pagine come guida; andiamo in silenzio nei vicoli pavesi velati di nebbia, lungo il Ticino mormorante, sui ciottoli lucenti delle stradine; andiamo a rendere testimonianza e a fare la nostra visita alla trasognata Pavia; tendiamo le orecchie ai fruscii dei suoi fantasmi e alle voci dei suoi misteri — veri e immortali come tutto ciò che è ideale. MINO MILANI
A colloquio con il ato presente
Pavia è una città ammaliata, un luogo in cui la cultura dominante si fonde con il retroscena di un ato pieno di tradizioni e di fantasie popolari. Parlerei, da quell’azzardato che sono, di mitologia pavese. Mitologia nell’accezione più ampia, cioè intesa come un complesso di miti che schematizza il ato, lo arricchisce e lo incastra nella fissità dei simboli. E i simboli, si sa, non tramontano mai. A questo appiglio si aggrappa il pavese: Pavia (è triste dirlo!) non ha né presente né futuro, perciò si rifà al ato. È una città fantasma che ha perso la sua autonomia economica (basti pensare ai soli pendolari del settore milanese). Gli sfratti, la disoccupazione giovanile, la crisi delle ultime aziende rimaste, tutto concorre ad atrofizzare quello che è stato da sempre un centro di cultura. Fra i superstiti: l’università. È grazie alla sua presenza che sopravvivono alcune iniziative culturali e, di conseguenza, gli sporadici tentativi di aggiornamento e di sprovincializzazione. Ma, anche in questo frangente, l’occhio clinico del sociologo mette in luce una viscosità dei costumi, cioè la motivazione insensata del «si continua a fare oggi perché lo si è sempre fatto ieri». Cinismo a parte, di fronte a noi c’è proprio la «Terra desolata». Come un Eliot che puntella con la classicità le sue rovine, il pavese vuole ormeggiare il presente al ato. E come farlo, se non attraverso la sua stessa rievocazione? Ecco dunque il «Fantasma d’amore» di Mino Milani e la serie di storie pavesi che lo scrittore sforna regolarmente nell’anniversario di San Siro. Chi ha letto qualche sua rievocazione della vecchia Pavia non può certo dimenticarla. Una visione lucida, nostalgica, così tipicamente nostrana e così magica. La stessa magia di «Fantasma d’amore» m’indusse a riportarne un brano nell’introduzione al catalogo 1983 della Libera Associazione dei Pittori Pavesi (L.a.Pi.Pa.). «Qualche o e svoltai l’angolo, e fui nel vicolo, tra alti muri, dove la luce grigioperla della pioggia veniva meno, si perdeva, rapido preludio al buio. Proprio come allora, pensai guardando da sotto l’ombrello. Qualche muro rintonacato, qualche persiana rifatta, niente di più, niente di diverso».
— Proprio come allora — Milani afferra il ato, lo sente vivo e palpabile tra le vecchie mura. Ha bisogno del ato per costruire il presente. Il presente diventa allora recupero del tempo. Ma Milani non è il solo ad effettuare questo genere di rivalutazione: lo conferma una serie eterogenea di pubblicazioni e di ristampe pavesi uscita da un po’ di tempo a questa parte. Cito, a titolo di esempio, «Pavia che fu» di Giacomo Franchi, oppure «Care macchiette pavesi» edito dalla EMI, oppure ancora «La via del pane» di Luca Bossaglia, tutte testimonianze (quest’ultima addirittura fotografica) del persistere di un’ambizione culturale e della necessità della presenza del ato. Sembra un gioco di parole, un circolo vizioso dentro cui ci si perde. Proust, con quella sua specializzazione del rovistare nella memoria, forse ci avrebbe visto chiaro e, con un sorriso sulle labbra, avrebbe riconosciuto la sua città prediletta: la città… alla ricerca del tempo perduto. Avrebbe vagato per Calcinara per stanare il ato, frugato in ogni vicolo, dietro le torri, dentro i barcé, in mezzo alle case del Borgo, sotto le arcate del Ponte Coperto. Avrebbe saputo che la sua realtà può materializzarsi anche nel suono: nei i nervosi di un Faruffini, nella voce esuberante di un Pasquale Massacra, negli accenti pacati di un Monsignor Angelini che si compiace del eggiare per la città vecchia, oppure ancora nei bisbigli di figurette come la Becia Ninìn o Angiòla d’la Stassión. Avrebbe anche difeso a denti stretti ogni vecchia costruzione — monumento nazionale o meno — per il solo fatto che contiene il tempo perduto. Del resto, non è difficile porgere orecchio alla Pavia. che parla. Il ato pavese si tocca con mano. Io stesso, nella mia ingenuità, mi lascio spesso andare, ascolto i suoi racconti e li trascrivo. Mi parla di barcé incantati, di torri dall’aspetto umano, di castelli che si trasformano in giganti, di porte cittadine che stillano voci antiche, di nebbie che dialogano con i anti. Molteplicità dei luoghi e molteplicità delle apparizioni. Una volta mi è sembrato persino d’incontrare proprio lui, il ato pavese in persona. Un vecchio, si penserà, un vecchissimo rudere d’uomo dalla barba bianca. Non è affatto vero: si stenterà a crederlo, ma il ato pavese è una signora ben vestita, con i lunghi capelli neri tirati sulla nuca, il cappellino con la veletta, il collo di volpe e una larghissima mantella nera. Nonostante l’aspetto aristocratico, parla in dialetto. Quando le ho confessato di averla sempre immaginata come un vecchio barbuto, mi ha sorriso: «Végia mi? Ma lü al vurarà mia schersà…?»
Io l’ho guardata in faccia: non aveva il volto, eppure sembrava giovanissima. Il ato pavese, dunque, è più presente del presente. Si è avvolto nella sua mantella nera, un cenno di saluto ed è sparito in via Cardano, quasi fosse stato assorbito dai muri. Misticismo? Superstizione? Sentimentalismo blando e provinciale? Può darsi. Ma io credo che si tratti piuttosto di magia. L’incanto di una città antica. R.A.F.
Barcé chiama Ponte Vecchio
Il barcé scivolava sulla corrente. Dopo due o tre strappi era riuscito a staccare l’ormeggio. Ringraziò il Ticino, che con i suoi residui corrosivi gli aveva rosicchiato la catena. Poi si lanciò all’inseguimento di un pezzo di polistirolo che nuotava a perdifiato in mezzo ai mulinelli. Si divertiva un mondo. Il barcé saltellava qua e là, girava su se stesso, evitava schifiltoso gli spurghi di schiuma, infine si ficcava nel bel mezzo della corrente con la prua in direzione del suo carissimo amico: il Ponte Vecchio. «Farò un salto a trovarlo», pensò fra sé. «E tanto tempo che non ci vediamo». Le rive del fiume gli correvano intorno e lo guardavano inebetite. Il barcé si sentiva sicuro, ironizzava su quegli sguardi e si dondolava tra i gorghi. Avrebbe voluto zufolare una canzonetta, se fosse stato capace. Magari uno di quei motivi che canticchiavano i barcaioli fra una remata e l’altra. C’era un sole scialbo in cielo. Del resto, non lo meravigliava: era il tipico sole delle sue parti, quel sole pallido e smorto che sa buttar fuori solo un po’ di foschia. E quante zanzare! Sul fondo del barcé se n’erano posate almeno un centinaio. Ma non gli davano fastidio, anzi: erano una compagnia, tanto che se le era sempre portate a so volentieri in mezzo ai meandri del Ticino. «Ecco il mio amico», mormorò vedendo spuntare il Ponte Coperto. Questo lo guardava taciturno. Sembrava non averlo riconosciuto. Il barcé se n’era accorto e la cosa lo stupì. Gli fece qualche segnale col remo, ma il ponte non rispose. Lo guardava imibile, con i suoi occhi invecchiati, le sue arcate irrigidite dal tempo, le sue basi ormai insensibili al solletico dei mulinelli. Sembrava stanco di sopportare anche quel via vai di motori che gli correva sulla groppa. Guardava il barcé senza dirgli niente. Anche il barcé l’osservava e si sentiva strano, fuori posto, come se avvertisse solo ora il senso di colpa dovuto alla fuga. I mulinelli e i vortici s’infittivano in prossimità del ponte, crescevano in volume e in potenza, si trasformavano per il barcé in vere e proprie rapide. Ma lui,
distratto, non ci faceva caso e continuava a fissare il Ponte Vecchio in attesa che si svegliasse. La corrente si era ormai impadronita del suo scafo e lo trascinava inevitabilmente contro il granito delle arcate. «Si sposterà», pensò il barcé. «Sposterà una sua base come ha sempre fatto per evitarmi ogni urto». Ma il Ponte Vecchio sembrava ignorarlo. «Ehi», gli gridò il barcé. «Aiutami! Possibile che sei così cambiato?» Era troppo tardi: cozzò contro una base del ponte ed il suo legno, indebolito dalle acque inquinate, andò in frantumi con uno schianto. Fino a un istante prima dell’impatto il barcé continuò a sperare che il suo Ponte Vecchio guarisse dalla sordità, che lo scartasse all’ultimo momento con un abile spostamento della base e ridesse con lui del brutto scherzo che gli aveva tirato. Solo quando sentì disgregarsi l’ultima scheggia del suo legno si rese conto di avere sperato invano. Capì che il ponte doveva aver perso davvero qualcosa e che quel fiume, forse, non era nemmeno più il Ticino.
La nebbia d’estate
Il piccolo Matteo ava davanti al Duomo tutte le mattine per recarsi a scuola. Spesso trotterellava fino ai piedi del Regisole, gli faceva una boccaccia e scappava via sorridendo. Era una monelleria che lo divertiva moltissimo. Oppure gli piaceva scandire i i zufolando e fermarsi di colpo sotto la facciata del Duomo. Alzare lo sguardo lentamente, di soppiatto e poi, come se l’imponenza dell’edificio lo spaventasse, fingere di ignorare ogni cosa e saltare su e giù dai gradini, accompagnato dai tonfi dei libri che rimbalzavano nella cartella di finto cuoio. Il Duomo gli andava a genio davvero, quasi si trattasse di uno dei suoi migliori amici. Matteo sentiva il dovere di salutarlo ogni giorno con una strizzatina d’occhio e talvolta andava a trovarlo appositamente anche di domenica. Il padre era costretto a cedere dietro le sue insistenze e l’accompagnava a messa nonostante l’avversione per l’incenso e per il fumo delle candele. Anche l’estate, per altro, non gli impediva il suo doveroso saluto: Matteo si recava a far la spesa per la mamma e sceglieva di proposito i negozi attorno alla chiesa. Lì si sentiva a suo agio, come se fosse di casa. Una mattina il Duomo sparì. Il piccolo non se ne accorse subito, perché era una di quelle mattine in cui si sfogava con il Regisole. Ma anche la statua non era la solita. Gli nascondeva qualcosa, un non so che di straordinario e di drammatico. In quel suo atteggiamento del braccio alzato indicava il Duomo. Matteo scosse la borsa della spesa e si girò: «Non c’è più!» esclamò sorpreso. Ma dov’era finito? Che il Duomo cercasse di prenderlo per il naso? «Se l’è mangiato la nebbia», gli rispose una vecchietta. «Ma quale nebbia! D’estate la nebbia non c’è», ribatté Matteo. «Sst! non farti sentire», disse la vecchietta abbracciando il bambino con l’intento di proteggerlo. «La nebbia è qui intorno. C’è sempre. Fa parte della città.
D’estate resta nascosta in un vicolo di Calcinara e qualche volta, sebbene molto raramente, esce di notte e combina questi brutti scherzi». «Ma adesso», fece il bambino preoccupato, «come facciamo senza il Duomo?» «Va’ tranquillo a sbrigare le tue compere. Vedrai che al ritorno lo troverai al suo posto. Anch’io sarò qui ad aspettarti. Ma, per ora, devo proprio andare. Devo tornare a casa. Abito qui vicino». La vecchietta gli sorrise. Era un sorriso bonario e al tempo stesso con un pizzico di malizia, quella malizia che hanno i genitori a Natale nel raccontare la storia di Gesù bambino che porta i doni. Matteo osservò la schiena curva e goffa che si allontanava dondolando. Quella vecchietta gli era davvero simpatica. Uno sguardo dolce, familiare, molto familiare, quasi l’avesse conosciuta da sempre. Aveva le mani scarne, piene d’artrite, e le braccia secche come le zampe di un fenicottero. Per lui era una nonna, una vecchia amica pronta a regalargli gelati e dolciumi alla prima richiesta. Ma non era per questo che le voleva bene. «Chissà!» pensò e corse verso il negozio del formaggiaio. La mattinata volò e Matteo sbucò ansioso in piazza Cavagneria. Il Duomo era lì. Era tornato. Lui lo salutò con la strizzatina d’occhio, poi si guardò attorno. La vecchietta non c’era. Proprio ora che aveva una voglia matta di farsi comprare un gelato! Matteo fermò un anziano signore, gliela descrisse, gli raccontò tutto quanto e domandò se l’avesse incontrata. Il signore rise e gli accarezzò i capelli: «Non penso che la troverai. Quella vecchietta è la Nebbia».
I certosini ci osservano
I turisti si riversavano a gruppi nell’interno della Certosa, inconsapevoli degli effetti del caldo estivo e di tutte quelle stranezze che può provocare. Nemmeno la guida presentiva qualcosa. Schiarì la voce e cominciò con l’illustrare la cancellata in bronzo e ferro battuto, i piloni a fascio, le volte a crociera. Le parole gli uscivano di bocca automaticamente, come se fossero . Qualche visitatore ironico espresse il sospetto che si trattasse di un androide, di un robot o qualcosa di simile: «Con il progresso di oggigiorno, non si può mai sapere!». Qualcuno rise. I turisti più curiosi si sparpagliavano a fotografare i particolari, toccavano i marmi, palpavano le statue. Altri se ne stavano accalorati ad ascoltare la guida. Una visita essenzialmente normale. Due monaci, intanto, si guardavano in faccia: «Hai notato il cielo stellato e i motivi geometrici e floreali?» L’altro certosino annuì. Si sistemò il cappuccio bianco, si accarezzò un poco la barba, diede un’occhiata in giro. «Sempre tanti, i turisti», bisbigliò. «Cosa vuoi», fece l’altro, «non è forse la Certosa più bella del mondo?» «Sì, ma c’è anche quella di Parma», ribatté il primo. «Ma che Parma! Se Stendhal fosse venuto da noi avrebbe certamente scritto La Certosa di Pavia». «L’umiltà, l’umiltà», lo rimproverò l’altro monaco agitando la mano. Intanto il gregge di turisti si spostava da una cappella all’altra. La guida abbaiava
intorno per mantenerlo compatto, quindi coordinava ogni singolo movimento attraverso la segnaletica delle braccia. Le teste si voltavano premurose ad ogni indicazione, a destra e a sinistra, ignorando i due frati. «Sembrano marionette», fece uno dei monaci. «Hai ragione: osservano tutto come se lo volessero registrare e non dicono una parola». I due religiosi divennero improvvisamente pallidi. Solo ora si erano accorti di aver rotto il silenzio, una regola fondamentale per l’ordine di San Brunone. Tutt’e due se ne rammaricarono, ma, per altro, si resero subito conto di essere uomini e di aver rispettato quella regola per così tanti anni, addirittura secoli. La necessità di uno scambio sociale li aveva traditi e li aveva spinti a comunicare rivolgendosi la parola. «Ormai è fatta», concluse uno dei due. «Abbiamo interrotto il gioco del silenzio. Ripenso agli zoccoli dei cavalli si quando ci invasero la Certosa e, oltre al silenzio, ci ruppero il pavimento di cotto fino a ridurlo in frantumi. Ma anche i turisti ne fanno di danni! Guarda quel tale con la macchina fotografica al collo: trascina anche lui gli zoccoli peggio di un cavallo sfinito. Oppure quella ragazzina che cerca di strappare una scheggia al coro ligneo. O quell’altro che sta incidendo il suo nome sul lavabo in terracotta del chiostro piccolo. I danni, caro fratello, non si fanno solo in guerra». «Hai perfettamente ragione. Io non sopporto più questi vandalismi, questa frenesia moderna, questa dinamica inesauribile, questa nevrosi da consumismo che si prende ogni cosa. I monaci hanno bisogno di riflessione, di concentrazione, di silenzio. O beata solitudo, sola beatitudo!» «Io non resisto», fece l’altro levandosi il cappuccio. «Ho tenuto duro per tutto questo tempo, ma ora non ce la faccio più. Ce ne andiamo?» «Sì, sì. Dovremmo davvero piantarli in asso». «In alto», proseguiva nel frattempo la guida, «due false bifore di Jacopo De Motti raffiguranti due monaci certosini affacciati». Il suo sguardo si agghiacciò: le finte finestre erano vuote.
Come le foglie
Era uno straniero, piccolo, bruno, un tantino calvo. Di primo acchito non si sarebbe riusciti a riconoscere la sua origine se. Ma il modo di vestire, lo sguardo curioso, il berrettino di tela, la borsa di pelle a tracolla e la sua stessa fisionomia certificavano la provenienza d’oltralpe. Stava frugando nei cortili universitari alla ricerca di qualche rarità scultorea. Una sosta davanti ad ogni busto di bronzo, una sfogliata alla guida e via a curiosare in un altro angolo. La ville aux cent tours, la città dalle cento torri, diceva l’opuscolo. Ma dov’erano finite tutte quelle torri? Il piccolo se si grattava la testa cercando di risolvere l’enigma. Non gli sembrava di trovarsi in una città così vasta da disperdere e rendere introvabili i suoi monumenti. Pavia è piccola, pensò, e forse Jeannette non aveva avuto tutti i torti quando gliene aveva sconsigliato la visita. Sperava quindi di scoprire qualche stranezza o, tutt’al più, qualche curiosità che ricompensasse almeno in parte la sua scelta. Allora riprendeva ad aggirarsi come un fantasma fra i corridoi e i portici dell’università, senza badare alle voci gaie degli studenti che incrociava o ai fischi del vento autunnale che s’intrufolava nei cortili. Sbucò infine in piazza Leonardo. Dico infine perché il piccolo se sbuffò di soddisfazione alla vista delle tre torri. Quella di cinquanta metri sovrastava di gran lunga alberi e palazzi. L’osservava dall’alto con severità per dirgli che era più piccolo di quanto potesse pensare. Gli ippocastani e gli altri alberi si stringevano intorno come se volessero intrecciare i loro rami con quelli ideali delle tre torri, che avevano tutta l’aria di tre grossi tronchi resi spogli dall’autunno. Fin qui, nulla d’eccezionale, concluse il se. Riconobbe la semplicità del romanico, la bellezza dell’apparato murario in cotto, ma niente che sapesse affascinarlo più di una comune torre medioevale. Il vento riprese a fischiare, a strappare le foglie secche e ingiallite degli ippocastani e a scagliarle in faccia alla gente. I rami scricchiolavano in modo insolito. Al rintocco della campana il piccolo se alzò lo sguardo alle cime delle torri. Mon Dieu! I mattoni oscillavano sul bordo del muro, poi si staccavano uno dall’altro e scendevano insieme alle foglie. Alcuni restavano in aria cullati dal vento. Altri scivolavano lentamente fino a terra e si adagiavano
sull’erba, sulle panchine, sui tetti delle macchine. Bastava un leggero soffio e si spostavano più in là col rumore che fanno le foglie secche quando si accartocciano. Le tre torri guardavano il se con tranquillità, compiacenti della sua attenzione. Avevano la sensazione di essere tornate indietro nel tempo, all’epoca in cui fungevano da simbolo di supremazia delle famiglie più potenti della città. Ripensarono all’ammirazione che suscitavano una volta e non poterono fare a meno di avvertire un pizzico di nostalgia. Il se, riavutosi dallo spavento, se ne stava ora a bocca aperta, pieno di meraviglia e di superstizione. Si sfregò gli occhi, si grattò la testa, cercò una spiegazione logica, e nella sua mente e sulla guida. Quindi si allontanò sconcertato. Camminava con o incerto, assente, ripensando alle torri, poi a Jeannette, poi a quei mattoni che galleggiavano sull’aria con piume di piccione. Tese l’orecchio per ascoltare il fischio del vento e, in lontananza, gli sembrò di udire un fruscio di foglie. Era mai possibile che le tre torri avessero assorbito a tal punto le abitudini degli alberi, loro coinquilini? Il se si voltò incredulo: le torri stormivano e ondeggiavano sferzate dal vento.
Uno scherzo ben riuscito
«Devi soltanto sostare un minuto sotto la Porta Nuova», disse uno degli studenti alla matricola. Quest’ultima sorrise con sarcasmo: «E devo controllare che ci sia il fantasma?» «Esattamente», rispose il coro. La Porta Nuova era appena adombrata dal crepuscolo. Gongolava e si scaldava i suoi mattoni arancioni sotto gli ultimi riflessi. Guardò la matricola, poi osservò il sole che s’infilava tra le arcate del Ponte Coperto e andava a bagnarsi nel Ticino. In poco tempo il buio e la nebbia si mangiarono il Borgo, le rive, il ponte, le case circostanti e perfino i fanali delle macchine. Si mangiarono tutto e ne fecero qualcosa di misterioso e di magico, qualcosa di fantasticamente pavese. La Porta Nuova si sentiva a suo agio e seguiva con simpatia la matricola che si era avvicinata alla recinzione studiando l’opportunità di scavalcarla . «In fondo, mormorava il ragazzo tra sé, è la mia prima inaugurazione dell’anno accademico». Gli studenti, lontani, si compiacevano anche loro della nebbia e ridevano sotto i baffi: «Sergio lo farà morire di crepacuore», diceva uno. «Figurati che si è fatto prestare perfino un archibugio da collezione!». «Eppoi, faceva un altro, ha il tono perfetto da guardia dell’epoca, la voce gutturale, il timbro da spettro. Un vero attore, ti dico». La matricola aveva scavalcato la cancellata e si era infilata sotto il portale. La baldanza e la sicurezza non c’erano più. Anche quelle se le era mangiate la nebbia. Il ragazzo scrutò tutt’attorno senza distinguere niente, nemmeno l’atteggiamento dei vecchi muri che si erano raccolti e compressi fino a distillare
un brusio misterioso. La cavità del portale si apriva su di lui come una bocca impressionante, sdentata, di cui gli pareva di riconoscere l’ugola carica di vibrazioni. Un turbinio strano e sommesso di voci cominciò a ronzargli nelle orecchie, sempre più intenso, sempre più distinto. Poi fu un rumore di carri, di grida più o meno gioviali, di frasi in dialetto. Accenti antichi, parole inusitate che sapevano di ato, vicinissime quasi da poterle toccare. La matricola era spaesata, incredula. Sì, lo vedeva, sentiva che era la Porta Nuova che gli parlava. Eppure era incredibilmente assurdo e inconcepibile: una vecchia porta che aveva assorbito suoni e voci di allora come una spugna. Comunque, la verità era che adesso, in quel preciso momento, li spremeva su di lui, sul suo raziocinio cartesiano che aveva l’obbligo di respingerli, ma che non era proprio in grado di farlo. Infine un rumore di i pesanti: una guardia gigantesca gli s’impiantò davanti. «Chi vive!» intimò la voce rimbombando sotto la Porta. La matricola in due balzi fu sulla strada. Al suo viso spaventato gli studenti scoppiarono a ridere. Non sembrava nemmeno vero che lo scherzo fosse riuscito, che Sergio fosse stato così in gamba da terrorizzarlo in quel modo. Ridevano insieme e si ficcavano i gomiti nei fianchi tagliando la nebbia con le braccia. Il divertimento era generale e genuino. Ma la voce di una ragazza appena arrivata troncò l’ilarità: «Sergio è a casa con l’influenza». Il gruppetto tacque. La matricola strizzò gli occhi senza dire nulla ed ebbe un brivido alla schiena. Tutti si domandarono chi poteva aver allestito la messinscena del fantasma sotto la Porta Nuova. Ma chi, pensò qualcuno, se non la stessa Porta Nuova? Gli studenti si girarono verso il vecchio rudere. La nebbia era diradata in maniera inconsueta come se avesse voluto dimostrare che lì non c’era davvero nessuno. La Porta stessa sorrideva maliziosa con quella sua bocca sdentata da cui usciva il fiato del ato.
Metamorfosi di un Natale
«Che bello! Che bello!» grida il bambino mentre i fiocchi di neve formicolano nell’aria. La precipitazione è intensissima, quasi da raffreddare ogni colore con quel suo bianco irregolare. Il cielo non si può guardare perché gli occhi si riempiono di neve, ma s’intravede il suo enorme grigio: una massa di colore punteggiato stesa da un pittore divisionista. I piccioni infreddoliti si stringono uno con l’altro, gonfi da sembrare guantoni per la boxe. Guardano la neve con gli occhi sonnacchiosi sul cornicione del Pertusati. Alcuni sono attratti dal piccolo Corrado e l’osservano posati sui rami. L’allea Cavalieri di Vittorio Veneto è già una lunga sciarpa di lana bianca e così le due bande laterali di viale Matteotti dove a di rado qualche auto lentissima. «Che lumache!» pensa Corrado. Le vede arrivare dal Castello con le mezze luci, le ruote silenziose che galleggiano sull’asfalto bianco. L’imponenza del Castello lontano, cupo come un gigante, è per Corrado una costruzione inutile ed insensata. Nessuna importanza storico-sociale e nessun principio estetico possono giustificargli la presenza di quelle mura, specie in confronto alla validità concreta e palpabile dell’ospizio per vecchietti che gli sta di fronte. I piccolo Corrado s’incupisce. Immagina allora il Castello un gigante cattivo che non condivide la sua simpatia per i vecchietti del Pertusati, per quella gente che era stata una volta la compagnia di suo nonno. Ora che non c’è più il nonno a rallegrarli con le sue battute di spirito (qualche volta anche un tantino volgari), Corrado gironzola spesso da quelle parti con un senso di nostalgia, con l’istinto di trovare qualcuno o qualcosa che sostituisca la sua figura di animatore — dentro di sé e per gli altri. Il Natale è nell’aria, in quella stessa neve che cade, in ogni singolo fiocco. Perfino i gas di scarico delle auto, nella loro prosaicità, sono diversi. Sanno d’invenzione umana, di sacrificio, di lavoro, come se fossero i frutti amari di un
ingegno benevolo. Il Natale c’è e si sente. La frenesia delle compere e dei regali fa frizzare l’ambiente con un po’ di nausea, ma è una cosa eggera. Il consumismo, alla fin fine, è il più delle volte un’esuberanza di generosità, una specie di bontà che fa parte della tradizione e che, nello stesso tempo, testimonia quello spirito natalizio diffuso nell’aria. Il significato religioso scivola spesso in secondo piano, ma non così lontano da non poter instaurare un substrato di bontà cristiana, un tentativo di generosità e di gentilezza d’animo da parte di tutti. I motivi che spingono verso una buona azione si rafforzano quasi inconsciamente, entrano nelle cose che ci stanno intorno, nelle vie, nelle piazze e fanno riflettere. Corrado capta tutte queste considerazioni a livello sensitivo, confuse e contrastanti. Le legge sulle facce della gente che incrocia e sulle impronte che lascia nella neve. Il Castello Visconteo, gigante nero sul cielo biancastro, continua ad osservare, tutto avvolto nella sua imponenza. Il bambino è una pulce ai suoi piedi, un lumicino natalizio che insulta l’oscurità della sua massa. «Se potesse sentire anche lui il Natale, bisbiglia Corrado, farebbe qualcosa per quei vecchietti». Gli occhi del bambino e le finestre del Castello s’incontrano sulla medesima retta. È una sfida. Infine, a costo di sfiorare il patetico, il gigante si alza e si scuote di dosso la sua assurdità. I merli dei torrioni, trasformati in merli veri, volano verso il Pertusati, ciascuno con in bocca un regalo: chi una scatola di speranze, chi una torta di sogni, chi la visita di un parente, chi un sacchetto di briciole di attenzioni, chi un semplice panettone. Un frullo nero di ali riempie il bianco del cielo e lo stormo irreale s’infila nell’ospizio. Corrado gioisce. Nella sua immaginazione di bambino è davvero un bel Natale.
Quella finestra che dà sul San Teodoro
È difficile innamorarsi di un vetro, eppure Leo ci era riuscito. La sua lunga sopravvivenza al di fuori del consorzio umano, segregato in una stanzetta al primo piano di via Pessani, aveva limitato ogni suo rapporto con l’esterno fino a ridurlo alla sola contemplazione della finestra. Gli piaceva in particolare il vetro, quella lastra liscia e fredda che gli filtrava la luce e lo isolava ancor di più dalla realtà di Calcinara. Era l’uomo nella torre d’avorio, un essere che era stato costretto a chiudersi in se stesso per una necessità imperiosa. Del resto, si era ormai abituato così bene ad osservare quel vetro che non l’avrebbe lasciato per nulla al mondo. Gli arti non li poteva muovere da tempo. E forse anche la lingua non funzionava più: si domandava spesso se sarebbe ancora riuscito ad articolare qualche parola. L’unica cosa attiva erano gli occhi. Ci giocava come un esperto di biliardo e li faceva roteare sul vetro. Una volta ebbe la forza (o si deve chiamarla curiosità?) di superare la lastra trasparente e di ficcare lo sguardo giù nel cortile. Il San Teodoro era là. Spuntava appena dai tetti delle case e sembrava che anche lui osservasse il cortile. Gli occhi di Leo rotolarono fra le tegole, rimbalzarono sui camini, seguirono la linea intricata dei tetti e si meravigliarono della sua complessità. L’intreccio delle forme e dei volumi era un ricamo, un lavoro ad uncinetto che gratificava l’occhio e strappava alle labbra qualche esclamazione come che bello! o che grazioso! Era insomma una veduta piacevole, così piacevole da accompagnare lo sguardo fino al cortile sottostante, dove qualche indumento oscillava appeso ai fili. Un’oscillazione lenta ed inerte, da persona morta. Gli venne in mente la Ballata degli impiccati di Villon, e, dietro a quella, tanti altri ricordi scolastici e dell’infanzia: lo spettacolo dei burattini, le partite di calcio, i compiti, le battaglie con i gessetti e col cancellino, eccetera. Il San Teodoro era immobile nel suo romanico, con il piccolo complesso absidale che si incastonava fra i tetti. Era qualcosa di molto più piacevole della semplice lastra trasparente. Plasticità ed effetto tridimensionale battevano di gran lunga la materia piana del vetro. C’erano inoltre i colori, il brunorossiccio dei mattoni e i giochi d’ombra dell’architettura. Se avesse potuto toccarlo!
Leo immaginava allora una mano gigantesca, grossa quanto il cortile, che afferrava con dolcezza la cupola del San Teodoro, la tastava e ne constatava la concretezza. In questo modo Leo si rendeva conto della realtà dell’edificio, poteva toccarlo, accarezzarlo, farselo amico. E così andò davvero a finire. La sua attenzione si spostò, giorno dopo giorno, sempre più sul San Teodoro, fino a dimenticare l’amore per il vetro. Anzi, il vetro non lo vedeva più: immerso com’era nella contemplazione del San Teodoro non si accorgeva nemmeno della sua presenza e, di conseguenza, non riusciva neanche più ad apprezzare il suo pregio maggiore: la trasparenza. Solo ogni tanto, quando la curiosità gli faceva avvicinare il viso alla finestra, gli si appannava la vista e si ricordava della lastra di ghiaccio che lo isolava dal mondo. Il San Teodoro, dal canto suo, si presentava ogni giorno in maniera diversa. Ora timido, ora spavaldo, ora vanitoso della sua bellezza, ora custode ambizioso dei suoi affreschi, ora generoso e pronto a prestare la sua immagine agli occhi dell’osservatore. Per Leo, insomma, era un amico con tutti i suoi difetti e le sue qualità. Avrebbe voluto conoscerlo davvero, di persona, abbracciarlo in una stretta fraterna, ma il vetro lo fermava. Un giorno l’amico gli apparve tutto inclinato in avanti, verso la sua finestra, sorridente e carico di affetto. Leo l’osservò a lungo. La voglia di uscire e di poterlo toccare gli fece alzare il braccio e un pugno poderoso infranse il vetro.
La mala lingua del Borgo
Al numero centonovantatré di via Milazzo, in quello che i pavesi usano chiamare il Borgo basso, c’è un altorilievo di origine rustica raffigurante una testa che fa le boccacce. Non tutti lo conoscono, perché si trova fra le ultime case. I bambini lo prendono in giro, come un compagno di giochi un po’ sciocco che se ne sta tutto il giorno in disparte a guardare e, per giunta, sempre con la medesima smorfia. Guarda il Ticino. Del resto, non è il solo ad incantarsi sul fiume. Ci sono individui che restano ore intere a fissarlo senza saper muovere un dito, tanto meno un pensiero. Tiziano, per esempio, era uno di quelli. Il Ticino l’aveva attratto da sempre e, da buon borghigiano, se l’era fatto amico sin da piccolo. Lo aveva percorso ogni mattina fino al ponte per recarsi a scuola, saltando sull’acciottolato e fermandosi a rispondere con una boccaccia all’altorilievo. Un vizio, quest’ultimo, che gli era rimasto anche da adulto, nel senso che ogni mattina, recandosi al lavoro, avrebbe continuato a lanciargli almeno un’occhiata di connivenza (la sua rispettabile posizione di impiegato di banca non gli consentiva di più). Per molti è triste vedere la realtà sformarsi davanti agli occhi e alterarsi fino alla fantasticheria. Per lui, invece, non lo era. Tant’è vero che un giorno, percorrendo la solita strada, vide qualcosa muoversi e contorcersi sul selciato. La fissò con sguardo tranquillo, senza tradire la minima emozione. Era una specie di verme, rossastro, pieno di tensione nervosa e di convulsioni. Lo assalì una strana sensazione di disagio. Disapprovava quella visione, pur non conoscendone la natura. Eppure qualcosa lo riportava allo stesso brivido che aveva provato qualche tempo prima, quando nel consueto tragitto aveva scoperto che il grigiocalce dell’altorilievo era cambiato di colore. Il rosa sul viso, il bianco sugli occhi, il nero sui capelli, la banalità di quella policromia l’aveva infastidito. Avrebbe voluto dargli una mano di vernice uniforme, almeno per riportare alla naturalezza l’aspetto generale del suo percorso. Quella naturalezza che lo faceva sentire di casa. Ma era dignitoso che un impiegato, con tutti i problemi seri che dovevano interessarlo, si occue di certe frivolezze? La cosa allora morì lì. Ridusse le occhiate alla testa di pietra e volle ristabilire l’antico rapporto con il suo percorso. Ci provò per parecchio tempo, finché non fece più caso ai colori dell’altorilievo.
Ma questa volta era di nuovo daccapo. Quella specie di verme, quell’oggetto indefinibile che si dimenava gli trasmetteva agitazione e disgusto, come se si fosse trattato di una grossa sanguisuga che l’avrebbe morso da un momento all’altro. Insomma: l’essere così tormentato che si contorceva sull’acciottolato andava fermato. Con le mani era inutile tentarci: sarebbe sgusciato via, un’anguilla in un torrente. Poi ci sarebbe voluto troppo tempo e Tiziano non voleva certo far tardi al lavoro. Si poteva invece attirarlo con una fetta di dolce sacrificando la merenda mattutina. La necessità di quell’atto era comunque superiore ai desideri dello stomaco e ne avrebbe sopportato le conseguenze con grande dignità. Ma, al tempo stesso, la struttura sdrucciolevole della preda avrebbe reso inattuabile il progetto. Una canna da pesca spuntava dall’argine. Tiziano corse dal pescatore e lo convinse a prestargli il retino. Viscida o no, quella creatura strana doveva levarsi dalla strada. Trasse dalla borsa una fetta di castagnaccio e l’avvicinò all’essere che si contorceva. Questo diede una specie di leccata e fece per scappare via. Ma lo scatto tempestivo di Tiziano lo chiuse nella rete. Il suo rosso guizzava in tutte le direzioni, si arrotolava, si distendeva, si aggrovigliava, si dibatteva come un ossesso. Era insomma una torsione unica. Infine, ecco il momento più ributtante e più pericoloso: Tiziano l’avrebbe afferrato con le mani. La sua stretta da impiegato fu sufficiente e, una volta preso, il prigioniero cercò inutilmente di divincolarsi. Tenendolo con la sinistra, Tiziano si arrampicò sul muro dirigendosi verso l’altorilievo. Giunto in posizione, con uno sforzo tremendo sollevò l’essere e lo ficcò in bocca alla testa di pietra. La lingua era tornata al suo posto. L’impiegato scese e corse saltellando verso la banca: l’attendeva un’alienante giornata di lavoro al terminale.
Una dea narcisista
Sulla statua della Minerva giravano strane voci. Si diceva che fosse completamente impazzita e, fra lo stupore generale, prendesse a bastonate tutti i anti con il manico della sua lancia. Beninteso: bastonate leggere, più canzonatorie che di rabbia, ma, tutto sommato, comunque fastidiose. Una statua che impazzisce, si muove e per di più bastona la gente come un essere umano, è senza dubbio frutto dell’immaginazione popolare. Per questo molti sostenevano che si trattasse soltanto di un’influenza negativa dell’estate sulle menti contorte e fantasiose dei pavesi. Resta il fatto che parecchia gente si era presentata al pronto soccorso per contusioni lievi in varie parti del corpo. Ma, ancor più strano a dirsi, si era trattato di persone comuni, anonime, insomma: nessuno fra i personaggi di chiara fama. Per quanto riguarda questi ultimi, invece, le solite voci maliziose sostenevano che si erano medicati in proprio, facendo finta di niente e cercando di mettere a tacere l’opinione pubblica. C’era infatti chi asseriva che il comportamento inconsueto della statua non era altro che una conseguenza della politica della Giunta: la Minerva non ne poteva più del traffico che l’assediava e si batteva (o meglio, batteva gli altri!) per la risoluzione del problema «tangenziale». Gli ecologisti, dal canto loro, sostenevano che si trattasse semplicemente di una forma di protesta intrapresa nei confronti dell’inquinamento automobilistico. Altri ancora — e questi erano per lo più alcuni esponenti dei circoli culturali — ci vedevano un monito all’attività dell’ateneo e, di conseguenza, un’istigazione ad una maggior serietà accademica e a una riaffermazione dei pavesi nel campo artistico-letterario. Del resto, l’iscrizione appiccicata ai piedi della dea — Pavia dalla gloria millenaria del suo ateneo tragga auspicio a maggiori fortune — lo testimoniava da tempo. La Minerva, comunque, non aveva risparmiato nessuno. Si diceva che avesse infierito persino sul sindaco Maini, sull’auto dell’onorevole Rognoni di aggio a Pavia, sul dottor Ravizza, su Veltri, su Maria Corti, sul povero commendator Chiolini, eccetera. Tutti la temevano. Dopo la notizia che anche la stampa era stata raggiunta nella persona di Rizzuto, lo stesso direttore de II Ticino cominciò a preoccuparsi.
Fu una mattina che tutto cambiò ed il comportamento della Minerva ebbe una svolta decisiva. Il sole era appena spuntato. Una bruma leggera si sgranocchiava le case e le piante di viale della Libertà. Qualche macchina rada, qualche furgone, niente di diverso. Invece non era così. Qualcosa impedì la corsa di un camion, tanto che il conducente dovette frenare di colpo e scendere esterrefatto a guardare. La Minerva se ne stava seduta sul bordo della strada, con il mento sopra la mano, il gomito sul ginocchio, un po’ come il penseur di Rodin. — Ma allora è vero, gridò il camionista, che sei impazzita! — No, è una voce falsa — gli rispose cordialmente la dea. — Aspettavo solamente che qualcuno mi rivolgesse la parola. Sai quanta gente a ogni giorno ai miei piedi? Non riesco neppure a contarla. Eppure non uno sguardo, non un sorriso, non uno che dica: «Quella è la nostra Minerva». Ci sono così tante cose che i pavesi non notano più! Hanno fatto il callo, come si dice. E poi ti buttano in un angolo insieme ai rifiuti. Dopo aver risposto così, la Minerva si alzò e ritornò tranquillamente al suo posto. Non so se sia vera questa storia. Me l’ha raccontata lei stessa, ma dice tante di quelle fandonie! Una cosa è comunque certa: da quel giorno non è più scesa dal suo piedistallo e, se la si guarda attentamente o, soprattutto, se si fa l’atto di rivolgerle la parola, i suoi occhi sembrano brillare e la lancia oscilla a mo’ di bastone minaccioso.
Memorie di un vecchio ponte
Sono nato nel 1351. Devo confessare che mi sono vantato subito dei miei natali illustri, della mia discendenza romana e perfino della mia bella presenza. Che farci? Le dieci arcate mi avevano conferito sin da allora un aspetto elegante, reso raffinato dai due ponticelli levatoi che mi chiudevano alle estremità. Ma, col are degli anni, ho sentito la necessità di proteggermi dalle intemperie e così sono ricorso ad una copertura. Ah, se potessi raccontare tutto quello che ho visto! Perché io — e credo che tutti lo sappiano — ho una memoria di ferro. Ricordo ogni o che mi ha tamburellato sulla schiena, persino ogni zoccolo di cavallo che mi ha pestato le costole. Anche i pavesi avevano cominciato a volermi bene. In fondo è brava gente, di estrazione semplice, più o meno campagnola. Eppure distinguono per istinto la cosa bella da quella opprimente. Perciò mi amavano. C’erano persino alcuni di questi che si fermavano tutti i giorni davanti al San Giovanni della cappelletta e lo ringraziavano della protezione che mi accordava. Vivevo felice, insomma. Due chiacchiere con il Ticino, un’occhiata al Borgo, qualche carro che mi massaggiava con le sue ruote, qualche barcé dispettoso che mi faceva il solletico. Non conoscevo la noia, né tanto meno il dolore. Fu un giorno, in un brutto periodo che mi sembrò zeppo di scoppi e di temporali, che la mia esistenza subì un vero e proprio cambiamento. Credo che piovesse o qualcosa del genere. Una pioggia surreale, grossa, di gocce nere e voluminose che scuotevano la terra. Non credevo che potesse farmi del male e, in effetti, non me ne fece. Fu solo una sensazione sgradevole e indisponente. Durante questo temporale, saldo com’ero sui miei arti, sentii le giunture slegarsi e cedere. Guardai l’amico Ticino ed ebbi l’impressione di avvicinarmi sempre di più a lui, come se qualcosa mi espellesse da un luogo a me caro. Sì, insomma, come una nascita. Vidi il fiume avvicinarsi in tempo reale ed allora mi resi conto: caddi e spaccai lo specchio d’acqua. Da allora sono qui sotto. Non si sta male. C’è la corrente che mi accarezza e qualche animaletto che mi bisbiglia un saluto. I barcé, li vedo sempre. Ho anche un fratello più piccolo, proprio vicino ai miei piedi, che sovrasta la massa del fiume. È un po’ storpio, ma mi assomiglia lo stesso: c’è chi lo scambia addirittura per me e lo chiama vecchio. E poi, so che i pavesi non mi hanno
dimenticato. Ogni tanto qualcuno di loro si appoggia ai brandelli che ho lasciato sulle due sponde e ficca gli occhi nell’acqua del fiume. Chissà cosa pensa.
Delitti In biblioteca
Non ci sono le muffe che si arrampicano sui muri e sui libri, i grovigli di ragnatele negli angoli, i quintali di polvere che intaccano gli scaffali e le copertine. La Bonetta è linda, pulita come uno strato di neve fresca. Ci si siede volentieri a studiare, a leggere o a scartabellare le riviste sbirciando ora i vicini ora l’altezza impressionante del soffitto. C’è silenzio, come in tutte le biblioteche. Una calma e una tranquillità degne di un cimitero. Qui, infatti, giacciono sepolte montagne di parole, chiuse e compresse nei libri, negli incunaboli, nei codici, nei manoscritti, nelle migliaia di volumi che sfilano ordinati sulle scaffalature. Molti esemplari si nascondono al pubblico e si rifugiano in qualche sala misteriosa il cui accesso è consentito solo al bibliotecario: non tutti i frequentatori sono in grado di sopportare l’ondata di parole che li investirebbe. Di notte, infatti, quando il silenzio si fa disumano e ancora più inconcepibile, i pavimenti e i muri hanno un brivido. Un solletico lievissimo di parole li percorre, come una brezza, una corrente che gira vorticosa per tutte le sale, s’intreccia, si riavvolge sul proprio nucleo. Il silenzio supera allora se stesso e si fa anti-silenzio. Una specie di buco nero in cui confluisce e sparisce l’immobilità delle onde acustiche per dare consistenza ad un suono disumano. È il tempo, fermo nei libri, che fuoriesce lentamente, con un sibilo da bombola a pressione. Le parole scritte tornano a vivere. Solo un metronotte se n’è accorto. Ferma la macchina davanti al portone perché una specie di sussurro strano gli molesta le orecchie. In biblioteca? — si domanda. Un furto in biblioteca è senza senso, a meno che non si tratti di un furto su commissione di qualche manoscritto dell’epoca, oppure… di un vandalismo. Il metronotte scende dall’auto con la torcia elettrica in una mano e la pistola nell’altra. Solo i suoi i sulle scale, nell’immobilità dell’ambiente. La porta della Bonetta è socchiusa, ma non forzata, ed una luce lievemente azzurrognola ravviva i locali. Non si è sicuri di cosa vide la guardia quella notte. L’uomo è in pensionamento
anticipato per squilibrio mentale. C’è chi parla scherzosamente di fantasmi, chi di diavoli, chi dice, infine, che fu travolto da un’immensa valanga di parole morte.
La solita vecchia storia
— I ciottoli sono tutti uguali — riflette Pino — anche se si diversificano per qualche particolare. Persino per il suono. Prova allora a battere il tacco con più forza sul selciato e ne esce un rumore sempre diverso. Cupo, secco, squillante, sordo, si assomigliano tutti ma ognuno ha la propria frequenza, come un carattere. — Mi scusi — dice dopo aver urtato un ante. Eh già, i vicoli sono così stretti che ci si scontra facilmente. Per non parlare del Corso! Corso Cavour, oltre ad essere strettissimo e inadatto alle eggiate, è sempre il più affollato:. Poi ripensa al ante con cui si è scontrato. È stato sul punto di salutarlo per la sua aria così stranamente familiare. Un vicino di casa? Impossibile: i vicini li conosce bene, tant’è vero che con loro ha una certa confidenza. Forse è un vecchio amico che non vede da tempo, magari un compagno d’infanzia. Niente affatto: conosce quella faccia e l’ha vista recentemente o, addirittura, questo stesso giorno. Ma Pino fa parte di quella gente che non sopporta i dubbi. «Tagliare la testa al toro» è il suo motto. Si volta di scatto e torna sui suoi i. Nel frattempo la sua mente a in rassegna gli avventori del bar e conclude che potrebbe trattarsi di uno di loro. Bevendo il caffè capita spesso che ci si guardi attorno, magari nello specchio al di là del bancone, e accanto a noi ci appaiono delle facce sconosciute che la mente non afferra ma registra comunque nella sua memoria inconscia. Forse è proprio una di queste facce. Pino retrocede fino a via Cardano, ma nulla. L’individuo sembra essersi dileguato. Il suo pensiero torna allora ai problemi che l’assillano dalla mattina presto. Da quando è stato licenziato il suo animo non si dà tregua. È una tensione nervosa, un misto di insicurezza e di precarietà. Con i risparmi accumulati e quel poco di liquidazione può tranquillamente tirare avanti per un paio d’anni. Ma ecco il dubbio: e se nel frattempo non si riuscisse a trovare un bel niente? Pian piano l’ansia si impadronisce di lui, ne fa una corda di violino, tesa, nevrotica e lo costringe a pensare al peggio. In fondo — conclude — di peggiore c’è solo la morte. Gli basta questa macabra constatazione per sentirsi un po’ più sollevato. La
morte, come dice lui, è sempre a portata di mano. Quindi c’è rimedio ad ogni cosa, persino ai propri mali. Un punto su cui continua a riflettere e, nonostante tutto, non riesce a far luce è proprio la causa del licenziamento. Applicazione costante, eccellente comportamento, qualità di preparazione discreta. Perché, dunque, lasciarlo a casa così improvvisamente, specie quando non c’è in atto nessuna politica di riduzione del personale? Ragiona così tutto il santo giorno, eggiando per la città proprio per scaricare la tensione accumulata. Talvolta incontra qualche amico che lo saluta con un mezzo sorriso. Ma la cosa più strana sono i colleghi di lavoro: dapprima gli fanno un cenno qualunque, confidenziale, come se l’avessero tutti i giorni fra i piedi, poi s’impensieriscono e lo guardano come una bestia rara. Lui immancabilmente ripensa al giorno in cui, stufo di scervellarsi, decise di recarsi in fabbrica per esigere la giustificazione del suo licenziamento. L’ironia ed il sarcasmo con cui fu accolto lo lasciarono di stucco. Alcuni lo salutarono freddamente, altri gli chiesero per quale motivo si trovasse a so per la fabbrica. Ma il colmo fu il dirigente dell’ufficio del personale: — Torni al suo posto — gli disse — ché oggi non abbiamo tempo. Pino lo interpretò come un rifiuto al senso umanitario. In fondo, non chiedeva che il motivo del suo licenziamento — ed era una pretesa più che legittima. Strana gli parve anche la domanda del custode quando gli chiese dove si stesse recando. — Torno a casa — gli fece Pino. — A casa? Forse non stai bene? Qualche malessere? In effetti, Pino si sente strano da un po’ di tempo a questa parte. Non è solo un neodisoccupato, è anche un disadattato al centro di una serie di circostanze singolari che non riesce a capire. Pavia stessa sembra assumere un tono diverso, una dimensione insolita che la fa più silenziosa di come l’ha sempre vista in ato. Una cappa di piombo, simile a un fungo atomico, avvolge da oltre un mese la città dalle cento torri. Il caldo è soffocante. Per Pino sono giornate intere ate nella frescura del bar Voltone, guardando gli apionati del biliardo e dei videogiochi.
E qui che gli accade d’incontrare nuovamente il ante familiare. Non si è accorto del suo ingresso perché un filotto favoloso ha attirato la sua attenzione. Si gira verso il bancone per guardare l’orologio a muro e vede il volto del ante riflesso nello specchio. Sì, lo conosce. È senza dubbio una persona con cui ha avuto molta confidenza. Ma non la identifica, benché uno slancio d’affetto lo spingerebbe ad abbracciarla. L’osserva meglio. Ha i capelli ricci, un po’ brizzolati sulle tempie, e un paio di baffetti che gli copre il labbro sottile. Finisce di sorseggiare il suo caffè ed esce. Pino, quasi senza riflettere, gli è subito dietro. Lo pedina da vicino, a una decina di metri, per paura di perderlo di vista. Il ante si volta ogni tanto, distrattamente, ma sembra non accorgersi della sua presenza. La cosa più strana è che si avvicinano sempre più alla casa di Pino, tanto che lui ha la netta sensazione che vi si stiano davvero recando. Gli viene allora il sospetto che potrebbe trattarsi di un nuovo vicino che ha conosciuto a suo tempo, ma di cui non ricorda con sicurezza la fisionomia. Eppoi, se è davvero così, perché mai il vicino non l’ha riconosciuto e quindi salutato? ano in fianco al San Michele ed il pedinato, proprio come fa Pino per abitudine, alza gli occhi per ammirarne la facciata. Hanno dunque qualcosa in comune: l’amore per le vecchie cose pavesi. Anzi, più prosegue nel pedinamento, più si accorge che il ante mostra dei modi che ricordano i suoi. Il o sicuro, la testa bassa, la mano sinistra perennemente nascosta nella tasca eccetera. Ad un tratto — cosa curiosa — il ante prende a picchiare i tacchi sul selciato come se cercasse di ottenere dei suoni diversi a secondo del ciottolo su cui batte. Giungono infine in via Bossi. Pino si trova faccia a faccia con la sua abitazione e, ancora più allibito, vede il ante estrarre una chiave ed aprire il portone d’ingresso. — Un momento! — gli grida Pino. Ma l’uomo è già scomparso dietro l’uscio. Qui bisogna davvero riflettere. Un uomo qualunque — anche se dall’aspetto familiare — è entrato in casa sua con una chiave identica a quella che lui porta in tasca. Ma è poi davvero la chiave giusta, quella che Pino tiene nei pantaloni? E se si trattasse di una chiave qualsiasi, mentre quella originale gli è stata sottratta?
L’irrequietezza delle sue gambe, intanto, l’ha portato oltre la sua abitazione, giù giù fino a Lungo Ticino. Gira i tacchi e ritorna verso casa. Sull’uscio sfila di tasca la chiave e l’introduce nella toppa. Apre e in un balzo sale le scale. Nella sua stanza non c’è nessuno. Nemmeno in cucina. Prova a gridare ma nessuno risponde. Anche sua moglie, evidentemente, non è ancora rientrata. La casa è davvero vuota. Si affaccia allora alla finestra della sala. Giù, in strada, intravede il ante che s’allontana battendo i tacchi sull’acciottolato. Gli sembra quasi d’impazzire. Ricapitola tutti i fatti, fin dall’incontro-scontro nei pressi di via Cardano. La cosa è davvero insolita e comincia a temere di essere vittima di qualche allucinazione. Forse non è vero che il ante è entrato in casa sua, ma gli è solamente sembrato. — Starò invecchiando — dice. Si guarda nello specchio: capelli ricci e brizzolati sulle tempie, baffetti che coprono il labbro sottile. — Assomiglio addirittura al ante! E un’illuminazione: il ante ha la sua faccia. Ecco perché gli è sembrato così familiare. Una questione di somiglianza, insomma. Ma come fa a possedere le chiavi del suo appartamento? È un sosia e, come tale, possiede le sue stesse cose. Se così è, può possedere anche sua moglie, nel senso che la donna non si accorgerebbe dello scambio di persona. Pino si rende subito conto di quanto siano assurde quelle congetture, eppure la storiella del sosia, la vecchia solita storia del gemello riapparso gli sembra sempre più verosimile. Quattro i e quelle idee grottesche svanirebbero. Corre fuori ma, fin dal rumore dei tacchi sul selciato, può intuire che la città stessa ha un non so che di astratto, come se si trattasse di un’imitazione della Pavia originale. La figura del sosia gli è ormai diventata ossessiva. Teme d’incontrarla ad ogni angolo e non sa davvero come dovrebbe comportarsi. All’improvviso, un’ombra velocissima. È già dietro le sue spalle e si allontana battendo i tacchi sul selciato come per divertimento. Pino è lì lì per fermarla. Il cuore gli batte forte. L’afferrerebbe per le spalle e gli intimerebbe qualcosa per spaventarla. Il sosia sparirebbe per non tornare mai più. Ma il difficile è trovare le parole adatte all’intimidazione. Qualcosa di crudo, di violento, qualcosa che gli faccia capire che, gemello o no, lui è di troppo. La sua casa è per due sole persone: Pino e sua moglie. E Pino non sopporta nemmeno l’idea che qualcun
altro possa anche solamente fingere di abitarvi insieme a loro. Magari, in quello stesso momento, il sosia ha già salito le scale e se ne sta in panciolle sulla sua poltrona, si rimira nello specchio, parla con sua moglie, oppure guarda l’angolo del San Michele che fa capolino sullo schermo della finestra. No, non può davvero permetterlo. Una corsa ed è di nuovo davanti alla porta di casa. La serratura chiusa dall’interno gli impedisce di introdurre la chiave. Decide allora di suonare il camlo. Gli apre il sosia. Pino rimane esterrefatto a guardarlo, con quell’aria di chi disturba la tranquillità di un padrone di casa. — Io — balbetta — io abito qui. — Non credo, signore — fa l’altro. — Lei non abita da nessuna parte. Questa casa me l’ha lasciata mio padre. — Mio padre! — ribatte Pino. L’altro lo guarda come si osserva un pazzo, quindi chiude la porta. — No — mormora Pino tra sé. — Questa non è la solita vecchia storia del sosia. È qualcosa di più — e si guarda attorno smarrito. L’arenaria del San Michele, più sbriciolata del consueto, è gialla sotto il sole di mezzogiorno. Non è un sole pavese. Ne è sicuro. Quel cielo così limpido sembra un cielo ideale, azzurrissimo, che non ha niente in comune con quello sbiadito della sua Pavia. Non ha più casa, non ha nemmeno più la propria moglie e la propria città. La sua mente si scalda sotto la luce violenta e procede attraverso associazioni d’idee, illuminazioni improvvise. Nessuno per strada: a quest’ora tutti sono a tavola. Si odono i tintinnii delle posate e i rumori secchi dei piatti di ceramica. Tutt’attorno è silenzio. Solo una figura, in fondo alla via, cammina battendo i tacchi sull’acciottolato. Ma il suono giunge flebile, ovattato dalla calura estiva. È il suo sosia che se ne va per dei luoghi che non hanno più niente a che fare con la sua Pavia. L’intruso è lui, Pino, finito non si sa come in una città sosia della sua.
Chiuso per restauri
Smise il frastuono dello scalpello. L’eco dei colpi rimbalzava per la sala deserta come la voce di un attore tra le quinte. Il Fraschini, immobile, assisteva ad occhi aperti a quegli interventi sul suo vecchio corpo. Il teatro non dava segni di paura, né tanto meno sembrava interessarsi sul serio all’opera di quei rozzi chirurghi. Ne era rimasto giusto uno, data l’ora insolita, che proseguiva con accanimento nel suo lavoro. Ogni tanto si fermava. Asciugava il sudore e riprendeva a martellare. Poi di nuovo una pausa: uno sguardo in giro, distratto da quell’ambiente aristocratico ed elegante. Di colpo gli sembrò di udire un applauso lievissimo, come da una registrazione su nastro. L’operaio guardò la sala dall’alto del suo palco: la platea era un enorme scheletro dalla cassa toracica portentosa e dalle ossa perfettamente pulite. Solo allora cominciò a sentire la presenza di quel vecchio corpo in cui si era intrufolato e contro il quale picchiava il suo scalpello. Provò uno strano sentimento, un misto di pietà e di senso di colpa. Ma ben presto riacquistò la sua naturale compostezza: il vecchio teatro non poteva certo fargli paura. «Vietato fumare», lo ammoniva una scritta luminosa sopra la porta del palco. Depose martello e scalpello e si accese una sigaretta. Godeva di quel privilegio. Si appoggiò al parapetto con entrambe le mani e guardò la desolazione di quelle ossa. Il Fraschini, dal canto suo, l’osservava dal vicino soffitto e la donna del Bignami, affrescata lassù, sembrava prenderlo in giro. — Teatro, teatro — mormorò tra sé l’operaio — l’è no mej una michèta par tüti putòss che tra via i danè par cla ròba chi? All’udire quelle parole il Fraschini ebbe un sussulto. Si aprì una ferita e ne uscì un vecchio scroscio di applausi che fece paura. L’operaio tornò a rimirare la sala, con quelle lunghe file di poltroncine che conservavano ancora l’impronta dei milioni di corpi che vi si erano comodamente seduti. Una nuvola di polvere proveniente dalle quinte se le inghiottì all’improvviso. I tendami del sipario, così goffi e pesanti nel loro velluto bordò, si sganciarono e caddero con un tonfo.
Dapprima era una piccola macchia chiara al centro del palcoscenico, poi si spanse velocemente e, non appena dispersa la polvere, rivelò la sua natura: una pozzanghera enorme, biancastra, alimentata da gocce copiose che cadevano dal soffitto. Non era la donna del Bignami che piangeva, ma proprio il teatro. I muri, i palchi, le decorazioni cominciarono a trasudare acqua e l’edificio intero a sciogliersi lentamente. L’operaio, già stordito per conto suo, si trovò bagnato fradicio in un batter d’occhio. Il fenomeno crebbe sino al liquefarsi dell’intero proscenio, mentre il Fraschini, melodrammatico fino in fondo, sembrava sempre più un vecchio nostalgico che si scioglieva in lacrime. Quindi cominciò ad accusare tremiti e scosse violente, tant’è vero che l’operaio mollò gli attrezzi e in un volo fu in strada. Dietro di lui il fragore di un crollo segnava la fine del vecchio teatro. Il fango dei calcinacci disciolti era dappertutto. Gli aveva persino impiastricciato gli occhi e le palpebre. — Mi gh’entri niént, gh’entri propi niént — ripeteva l’uomo ai anti pieno di superstizione. La gente lo fissava allibita: alle sue spalle la facciata del Fraschini, perfettamente integra, ricordava la smorfia di un Arlecchino goldoniano.
Notturno pavese
La stanchezza è nei muri, nelle piante, nei coni di luce dei lampioni che battono fiacchi sull’asfalto. Pavia riposa. Stanca, estenuata dall’andare frenetico della giornata e infreddolita dall’umidità della notte. La notte è scesa con la nebbia: vecchie amiche che si tengono per mano e che a Pavia sono di casa. Ciarlano fra loro in dialetto. Lei, la notte pavese, nera come la pece per via di quel cielo sempre coperto, e quell’altra habitué — la nebbia — anziana signora che si diverte a rosicchiare le cose e a farci piombare nell’isolamento più completo. Tutt’è due amano la solitudine. Tant’è vero che a volte, specie d’estate, vivono separate e nascoste una all’altra. La notte, sempre precisa al suo appuntamento, scende allora da sola, seccata di non aver scoperto il nascondiglio della sua amica e, al tempo stesso, lieta di trovarsi sovrana assoluta di Pavia. Concede l’amnistia a moto e motorini e questi scorrazzano impazziti per le strade. Niente li ferma, nemmeno l’isola pedonale. Dietro di loro, uno stuolo di macchine rumorose e furibonde che s’insinua nelle viscere della Pavia vecchia e le fruga con violenza. È la Pavia insonne, quella più strana, dove i pazzi sfogano la loro angoscia provando il brivido della velocità proibita. Dall’alto, il Duomo esterrefatto li osserva. Pavia è anche questo. Ma ben presto — e soprattutto d’inverno — la solitudine si fa opprimente e la notte si dà da fare per ritrovare la sua amica. Allora scende a braccetto con lei, la nebbia. Le due creature pavesi, camminando in compagnia, producono un attrito che si trasforma in una sorta di musica misticheggiante e dolcissima. Se si vuole, la si può identificare con il leitmotiv del tempo pavese, una clessidra tutta singolare che contiene l’arena magica del Ticino. Il tempo fa sì che l’uomo si radichi sempre più alla terra. Con il are degli anni si assuefà al ritmo del sonno e della veglia, dei pasti e delle colazioni. Gli organi del suo stesso corpo si deformano in base alla loro attività. I piedi, ad esempio, s’incalliscono e si uniformano alla costrizione delle scarpe e alla scabrosità del terreno. Anche le creature più estranee all’essere umano si comportano nella stessa maniera. Così fa lei, la notte pavese. Il fantasma nero si
è ormai consolidato con il carattere della sua Pavia. Una figura umida, zoppicante, piegata sul collo dall’artrosi. Spesso — distratta com’è — appare in pieno giorno come un lampo nero. Alcuni rilevano solo un banco di nebbia, quella nebbia che — come sappiamo — si porta quasi sempre con sé. Entrambe si sono abituate anche alla connivenza. Gli innamorati le chiedono complici dei loro baci notturni, dei loro abbracci furtivi nel silenzio di qualche vicolo. E loro, le vecchie sentimentali, si concedono volentieri a questi scopi e assumono le fattezze di un sipario. Notte e nebbia pavesi, quelle dei poeti, loro stesse poetesse. Quando si distendono sull’ex-fiume azzurro, le sue acque tendono le orecchie liquorose per ascoltare i versi che loro declamano. Il Ticino, incantato da quelle poetesse, si addormenta.
Vicoli
Il cavalletto in spalla, come un vecchio alpino che va su e giù con lo zaino per i vicoli pavesi. Dà un colpo d’occhio in vicolo Terenzio. «Buona prospettiva, dice tra sé, ma c’è di meglio». Vicolo del Torrione, Sant’Ennodio, San Colombano, eccetera, li ricorda tutti come nomi di vicoli pittoreschi, ma non ne ha più presente la fisionomia. Molti cadono a pezzi, disabitati e soggetti all’incuria, oppure rappezzati alla bell’e meglio con impalcature posticce che sorreggono i muri. Altri, invece, hanno compiuto vere e proprie metamorfosi: riverniciati, rimessi a nuovo, traforati da box e citofoni o, addirittura, privati dell’antica pavimentazione per dare spazio ad un economico e confortevole asfalto. È piacevole e triste vagare per queste vecchie vie. Infine, trova il soggetto: una piazzuola tutta lastricata di ciottoli su cui sovrasta un gioco mirabile di ringhiere e di balconi, addobbati con biancheria di vario genere. I camini sbucano dai tetti come funghi autunnali e i piccioni fanno loro la corte saltellando tutt’intorno. Il soggetto è buono. L’artista appoggia il cavalletto e gli sistema i piedini. Non ha ancora finito quest’operazione, che un bambino ricciuto gli si mette accanto per curiosare. L’osserva con le braccine dietro la schiena, come per mostrare che non ha nessuna intenzione molesta. — Cosa fai? — chiede all’artista. La voce argentina risuona nel silenzio della piazzuola come un camlo di bicicletta. — Non vedi che dipinge? — risponde il nonno sopraggiungendo alle spalle. — Non disturbare il signore… — Lo lasci, lo lasci pure — interferisce l’artista. — Cosa fai? — ripete il bambino. — Disegno. L’artista apre un enorme bloc-notes e lo depone sul cavalletto. Quindi con un pennarello traccia i primi segni. Ma non sono pure e semplici linee: sono parole. Parole che si succedono in senso regolare da sinistra verso destra.
— E cosa disegni? — domanda il bambino. Questa volta il nonno non ha il coraggio di intervenire. Osserva con aria sorpresa il movimento ritmico della mano e cerca di decifrare la calligrafia quasi illeggibile. — Disegno quello che penso, che è poi quello che vedo. — E cosa vedi? — continua il bambino. — Delle parole cariche di immagini, e viceversa. Nomi come tetto, balcone, porta. Sono nomi belli, lo sai? Vedi, io giro spesso per Pavia. Mi piace soprattutto il centro, zone come Calcinara, San Michele, eccetera, ma io non sono un pittore. Per descrivere ho solo le parole. Allora dipingo con le parole. — Pavia l’è tanta bèla! — esclama il nonno da dietro le spalle, come se volesse mostrare di condividere ciò che ha detto l’artista. — Era tanto bella. Ma ha tutta l’aria di lasciar consumare ogni sua bellezza. I pavesi stessi disertano questi vicoli. Non ci vogliono più abitare e preferiscono la periferia, quella nuova fiammante, razionale e piena di comodità. Ci sono sotto questioni economiche, dicono, e poi il Comune fa ben poco per agevolare il ripopolamento. — Ma lei, almeno, è pavese? — interrompe il nonno con fare dubbioso. — Le dirò: quando Pavia non avrà più niente di tutto questo e vedrà sparire anche l’ultimo dei suoi vicoli, io me ne andrò di qui. Non lascio Pavia, perché me ne andrò da una città che non conosco più. Sorride con un briciolo di malizia e, immergendo lo sguardo nel silenzio che li circonda, si affretta ad aggiungere: — Io sono lo spirito dei vicoli.
Il giardino delle delizie
Sembra uno scherzo: nel bel mezzo di Pavia un polmoncino di verde. Sono gli orti del Borromeo. O meglio, una parte degli orti ceduta al Comune. Una sfilata di lance custodisce ciascuno dei due ingressi. L’alito umido del Ticino s’infila tra quelle del primo, volteggia fra panchine e alberelli, traa le lance del secondo cancello e sbuca in via San Carlo pronto a depositare la sua rugiada sui muri scalcinati del Bordoni. Ma il suo non è uno svago del tutto gratuito: lungo il percorso lascia cadere una minutissima polvere d’argento. È un fenomeno isolato, che accade rare volte durante l’anno. Vi entrai con sorpresa verso ferragosto, come per cercare un po’ di frescura e — che incanto! Il giardino si animò e si gonfiò fino a sprigionare una nuvola verdazzurrognola che mi sommerse completamente. Non distinguevo i profumi, perché non sono mai stato un buon conoscitore di botanica. Ma quelli di fronte a me erano certamente alberi da frutta ed era dalle loro chiome che fuoriuscivano quegli aromi. Frutti mai visti, simili a pere, ma del colore glauco di certe anse del Ticino, pendevano dai rami come festoni natalizi. Per terra serpeggiavano le erbe grasse, nervose come bisce d’acqua e innocue come lombrichi. Non facevano schifo, anzi: erano smeraldi flessibili da cui stillava un odore di fragola. Guardai il cielo ma non lo vidi. Gli alberelli da frutta erano lievitati fino a coprirlo e si arcuavano intrecciandosi sopra la mia testa. Una grotta di verde. Le foglie frusciando producevano suoni melodici che richiamarono uno stormo bizzarro di uccelli dalle livree multicolori: chi a pois, chi scozzese, chi a strisce finissime. Un piumaggio mai visto, fatto di foglie e di germogli. No, il mio occhio non s’ingannava: erano piante volanti, vegetali che si erano evoluti a tal punto da strappare le radici dal suolo e librarsi nell’aria. Non tutti avevano il becco: certi un muso come quello del gatto, oppure del cerbiatto, altri un’infiorescenza globosa simile all’ortensia. E inoltre, prerogativa dei più, era la presenza di parecchie zampe — residuo di radici — oppure di ali e di code gigantesche e inverosimili. Armoniosissimi, questi uccelli vegetali balzavano da un ramo all’altro emettendo delle note fisse, come se saltassero sulla tastiera di un pianoforte.
Ero quasi esausto e mi sedetti per istinto sulla panchina che avevo alle spalle. Dovetti alzarmi di scatto perché questa era stata sostituita da un enorme fiore di velluto trasparente che si era gualcito al solo contatto. E così tutte le altre panchine: mi guardai attorno e scoprii petali grandissimi e diafani carichi di nettare rosa. Sentii la gola arsa, tanto che, inebriato da quelle visioni, mi diressi verso il fontanino. Avevo gli occhi pieni di colori e le pupille mi crepitavano fino a bruciare. Bevvi al fontanino. La sua acqua era oro puro, fresca di menta. Mi riempivo la bocca e la sentivo fredda, zeppa di bolle d’aria e addolcita dal sapore del liquido. Una fonte della giovinezza? La testa prese a girarmi e vidi tanti me stesso che ora mi circondavano, ora fuggivano in mezzo al verde. C’ero io scolaro, con la borsa di finto cuoio sulle spalle; io adulto, staccato e calcolatore, con il sigaro tra le labbra; io adolescente, con un accenno di baffi sotto il naso a patata; io militare, annoiato dallo stillicidio del tempo; io collerico, io isterico, io generoso, io vigliacco, io inetto, eccetera. Mi venne il sospetto e volli osservare meglio. Sì, anche loro erano piante. Tanti me stesso bruni che si ramificavano, buttavano germogli, fuggivano e si moltiplicavano. Tutto mi girava intorno, forte forte. M’aggrappai con ribrezzo ad un cestino dei rifiuti e vi riconobbi la bocca spalancata di una pianta carnivora. — Ferma, ferma! — gridai. E tutto si fermò. L’acqua dorata si prosciugò lentamente. Pian piano il giardino tornò alla normalità. I muri del Borromeo osservavano imibili quell’uomo smarrito che si guardava in giro. Da quel momento non m’accadde più nulla. Ci sono tornato altre volte, nel giardino degli orti borromaici, e ci tornerò all’infinito, finché la magia non si ripeterà.
All’ombra del Ghislieri
Uno stato di agitazione, anomalo, come causato da una febbre maligna. La colpiva sempre, ogni giorno di più. Anche lei, in fondo, era uno di quei malati, sì, di quelli ossessionati dalla presenza delle costruzioni moderne ed affascinati dalla Pavia vecchia. Le solite cose: torri, vicoli, Duomo, monumenti, eccetera. Della Pavia nuova, invece, ammirava la precisione, il colore immacolato dei muri che i vecchi edifici non possedevano più o andavano perdendo, vittime del tempo. Spesso si trovava in contraddizione: lei, insegnante dalla puntualità e dall’ordine impeccabili, ed il suo istinto di incantarsi davanti a vecchiumi come quello di Calcinara, sapori antichi che la sbalzavano fuori dal tempo. Un fungaio che aveva dato adito alle pagine più sentimentali di Ada Negri, così il Futurismo pavese aveva definito i vicoli. E lei gli dava pienamente ragione ma, come la Negri, ne era attratta in maniera irresistibile. Avrebbe voluto sgridarli insieme ai suoi alunni, perché classificava il loro anacronismo come un ritardo spaventoso sui tempi moderni. Un ritardo di anni, forse di secoli, ma pur sempre un ritardo da rimproverare. I muri dei vicoli erano troppo alti e la minaccia di trovarsi schiacciata la spingeva a lasciar perdere le riprensioni e a rifugiarsi in vie di più ampio respiro. Le piaceva anche la zona dei collegi, quella che doveva percorrere tutte le mattine per recarsi a scuola. Da via Digione, dove abitava, giù per via San Martino, piazza Ghislieri, via Volta, fino al Franchi Maggi. La vicinanza della scuola le permetteva quella puntualità eccezionale di cui andava orgogliosa e la pretendeva anche dai suoi alunni. Mai poteva pensare che un giorno avrebbe tardato anche di soli cinque minuti e, nemmeno quando le accadde, volle crederci veramente. Quella mattina era in ritardo sulla sua cosiddetta tabella di marcia. La signora Spaccasecondi — come la chiamavano alcuni suoi allievi — camminava con o rapido, la gonna che si stirava sopra la falcata marziale. Ogni tanto intercalava una corsetta per guadagnare tempo. In piazza Ghislieri, la pavese piassa dal Papa, si guardò il polso: l’orologio aveva perso una lancetta. Dio mio, che ore erano? La lancetta dei minuti si lasciava
sceccherare su e giù per il quadrante e sembrava volesse coinvolgerla nel suo smarrimento. Fu davvero così. Impressionata dalla perdita di riferimento, la mente della donna si sentì precipitare nello stato confusionario più profondo. Non sapeva dove si trovava e nemmeno dove si stesse recando. Qualcosa le diceva che delle persone l’aspettavano: degli spregevoli e piccoli gnomi che non la comprendevano e la facevano disperare. Se non li avesse raggiunti al più presto, le avrebbero certamente fatto un sortilegio. Ma qual’era la strada giusta? Si guardò attorno smarrita. La febbre le bloccava le articolazioni e lo stato di agitazione tornava a tormentarla. Vedeva lancette d’orologio dappertutto. Persino i fili d’erba che si drizzavano lungo i bordi della strada segnavano un’ora ipotetica sui muri sconsacrati del barocchetto di San sco da Paola. Un vecchio prete dall’aspetto ancora vigoroso e dalla barba rigonfia si fermò ad osservarla. Le domandò se si fosse smarrita. La donna dapprima non capì, poi annuì con la testa. Era strano il modo con cui si esprimeva quel prete. Un linguaggio arcaico, quasi in disuso. Strano anche il suo abbigliamento: tutto bronzeo con un’enorme tiara sul capo canuto. Ma che razza di prete era? — si domandò l’insegnante. Il vecchio chiese di dargli una mano a salire sul piedistallo che stava in mezzo alla piazza. Da lassù avrebbe potuto vedere dove si trovavano e quindi indicarle la direzione. Salì a fatica, appoggiandosi alla spalla dell’insegnante e ansimando dallo sforzo. Il viso bruno, arso dal sole, faceva cornice a due occhi mobilissimi e intelligenti. Si drizzò sul piedistallo ed indicò: di là. La donna lo ringraziò vivamente e gli offrì il suo aiuto per ridiscendere. Ma il vecchio prete rifiutò: non voleva trattenerla oltre e farle sballare completamente la sua tabella di marcia. Eppoi, aggiunse, era un dovere. Per chi ama le vecchie cose pavesi avrebbe fatto quello ed altro. La signora Spaccasecondi posò gli occhi sullo sguardo tranquillo e carico di saggezza e lo ringraziò ancora una volta. Dal basso, il vigore di quella fisionomia le ricordava l’imponenza di certi monumenti equestri, tanto che, concluse, il Gattamelata al suo fianco non avrebbe stonato. Mentre si allontanava a i frettolosi, ecco sbucare un netturbino al lavoro. — Mi scusi, gli fece non priva d’impaccio, sa dirmi l’ora? Mi ero persa — si
giustificò sorridendo. — Per fortuna ho incontrato quel monsignore. Lo spazzino smise di scopare e si girò masticando con efficacia una gomma americana: — È tardi, tardi. Quel prete? Ah, Pio V. Sì sì, è un vecchio pavese fatto a suo modo. Pavese acquisito, s’intende. Deve per forza scambiare due parole con la gente, altrimenti soffre di solitudine. L’uomo rise e continuò a racimolare i suoi rifiuti. Anche i minuti raggranellati dal tempo non si contavano più. Ma l’agitazione era tale che la signora Spaccasecondi mollò lo spazzino e tornò sui suoi i con aria scombussolata: voleva vederci chiaro. Quel nome affibbiato al prete, Pio V, le nascondeva uno scherzo di cattivo gusto, oppure qualcosa che avrebbe potuto sicuramente calmare il suo sistema nervoso. Gettò lo sguardo in mezzo alla piazza, ma del prete nemmeno l’ombra. Il piedistallo giaceva abbandonato. Gli si avvicinò senza notare nulla di strano. Un’ombra improvvisa alle sue spalle le indicò che il vecchio prelato era ancora lì. — Chiedo scusa, monsignore — balbettò l’insegnante — ma lui, quel netturbino… dice cose strane di Pio V. Il vecchio mormorò qualcosa d’incomprensibile con la sua voce pacata. Cercava di difendere l’amico spazzino. — E Pio V? — insistette la donna. Il prete portò l’indice alle labbra e fece segno di tacere. Si arrampicò faticosamente sul piedistallo e riacquistò la sua compostezza ieratica, il braccio alzato verso il Ghislieri. Sotto quella protezione, il collegio sembrava crogiolarsi in uno stato di strano benessere, elettrizzante, come se fosse pronto ad esibirsi in qualcosa di prodigioso. Era questa la Pavia piena di fascino di cui era innamorata la donna. — Venga via, signora — le fece lo spazzino riapparso come d’incanto. — Venga, forza. Fra poco cominciano. Il mio compito è di mantenere l’ordine. La donna non capì. Il tempo era volato e lei non si sentiva più la signora
Spaccasecondi perché il ritardo era ormai spaventoso. Non capiva nemmeno la presenza enigmatica di quello spazzino che la implorava di seguirla e di allontanarsi: — Ma chi è? Che c’è? L’uomo la trascinò in un angolo della piazza e ripeté il gesto di silenzio compiuto dal vecchio prete. La prese la febbre, fonte di una convulsione frenetica. All’improvviso, un suono. — Sente, disse lo spazzino, che musica… Il suono si fece più intenso. Riempiva la piazza, lo si sentiva addosso come una coltre di bambagia. Era un angolo di Pavia che cantava. Il coro melodioso, frutto di un incantesimo, s’impadronì della piazza con la dolcezza di un Ingemisco verdiano cantato all’unisono. L’analogia con Verdi era così forte che all’insegnante parve davvero che tutto si fermasse, ammutolisse, per balzare indietro nella partitura ed attaccare con il violentissimo Dies irae. Ma non si trattava — e lei se ne rendeva conto — propriamente di quei brani. Era solo ciò che lei si voleva immaginare che fosse. Quella musica arcana si fece malleabile come il burro, modificabile a seconda delle proprie esigenze. E lui, il vecchio prete, si trovava nel mezzo, con la sua voce bassa che scavalcava la polifonia del coro. Sì, era questo il segreto assurdo e allucinante di Pio V, della vecchia Pavia, del tempo che vola, del tremore che la coglieva, delle stranezze dello spazzino, di quell’incantevole ritardo, infine, che all’ombra del Ghislieri aveva cancellato per sempre la lucidità della sua mente.
Professore di eloquenza
— Che tristezza! — sospira guardando i vapori della nebbia che si levano dal Ticino. L’acqua è grigia, fumosa e si confonde con l’aria. All’improvviso si ficca una mano nei capelli rossi e si tira i riccioli come se li volesse strappare: «Ma dov’è, dov’è il sole?» Evidentemente quest’atmosfera non gli piace. Lui, uomo dalla vitalità prodigiosa, si deve nutrire di luce e così — pensa tra sé e sé — questa bella famiglia di erbe e di animali. Ma qui purtroppo la vita è spenta, immersa nel grigiore perenne di un cielo che sa di argilla. Via, via. Ma la vedi? È forse peggio di Milano! Si avvolge nel suo tabarro e scappa con fare disperato verso casa. Gli stivali risuonano secchi sul lastricato dei marciapiedi. Non c’è in giro un’anima. Nemmeno in università, dove il suo o sotto i portici rimbomba da far paura, ci si accorge della sua presenza. Il giovane professore di eloquenza è solo in mezzo al grigiore autunnale, in una città che gli è più fredda della sua stessa ragione. «Ah, la ragione! — grida fra sé — una maledetta filosofa che vuole raffreddare i miei sentimenti. Ma se il mio cuore non vorrà più sentire, io me lo strapperò dal petto con le mie mani e lo caccerò come un servo infedele». E un uomo fatto così. Un ionale, un giovane pervaso dallo spirito romantico. Anche qui, in università, lo temono e lo ammirano come una persona d’eccezione. Di botto si ferma. Ecco due studenti che avanzano ignari verso di lui. La sua figura, piccola, tozza, dall’aspetto quasi scimmiesco, va loro incontro a i distesi. I due studenti si bloccano, l’osservano, poi indietreggiano impauriti come se avessero visto un fantasma. In un baleno sono in sella alle loro motociclette e sfrecciano per piazza Leonardo. Succede sempre così. Lui ridacchia, con fare ironico e distaccato. Attraversa la piazza e gira a destra verso corso Mazzini. L’autobus della linea tre, in sosta alla fermata, sembra compiacersi del suo motore che gira perfettamente al minimo. La gente sta salendo. Il conducente si volta e lo vede. Le sue mani si attanagliano al volante, sudano freddo e, con gli occhi sbarrati, accelera e si allontana con le portiere spalancate. Il viso del giovane si fa pensieroso: «Le mie basette rosse ed il mio aspetto folle mettono evidentemente paura. Me ne andrò di qui al più presto. Forse domani,
forse dopo, oppure… mai». All’altezza dell’orto botanico gira nella vietta di destra. È la sua via. Ma, anche qui, non può fare a meno di spaventare una vecchietta incrociata per caso. S’infila al numero undici, una volata per il cortile sbirciando le tracce di affresco sotto il porticato. Sale le scale di casa e si butta vestito sul letto, stivali compresi. È il suo modo di fare. Adesso si dispererà per un po’, piangendo e sognando amici e fantasmi: Teresa, Luigia, l’amico Ippolito, Isabella, Jacopo, Didimo con il suo sarcasmo, Lauretta, il paese natale. La notte pavese, intanto, scende implacabile su quel ruggire sommesso e dopo qualche minuto sembra averlo addormentato. Ma lui si risveglia, corre ansando alla finestra e grida tra i denti: «Certo, abbandonerò questo posto!» Poi torna rassegnato al letto. No, vecchio fantasma, non puoi andartene da Pavia. Tu hai abitato questa magica e per te inospitale città e l’impronta che hai lasciato ti ha incatenato a lei per sempre. Devi restare, vecchio amico, perché tutti si ricordino di Ugo Foscolo.
Due muri
— Siamo uno dirimpetto all’altro, come due specchi che moltiplicano all’infinito le loro immagini. Ci scrutiamo spesso, frugandoci con lo sguardo fin nei minimi particolari, quasi volessimo cercare la pagliuzza nell’occhio del vicino. Poi ci scambiamo le osservazioni. Le nostre voci rimbalzano per vicolo Longobardi, fra le nostre stesse strutture, tanto vecchie e pericolanti che la gente ha paura ad avvicinarsi. Chi ha il coraggio di attraversare quest’impalcatura che ci sorregge e taglia in due il vicolo? «Potrebbe crollare da un momento all’altro», risponde la gente. Intanto noi disputiamo sull’utilità dell’armatura senza andare oltre la constatazione della grave disfunzione architettonica che ci ha colpito. Le nostre pance si sono ingrossate, specie quella del mio dirimpettaio. Minacciano di scoppiare un giorno con l’altro. I mattoni sono cellule invase dal cancro del tempo e non riacquisteranno più la purezza della loro infanzia. Ci sono buchi e infezioni micotiche dappertutto, orina di cani ed escrementi di piccioni. Il nostro degrado fisico ha ormai logorato anche la nostra mente, tanto che non riusciamo più a pensare. Di fronte a me c’è solo un aborto di muro che non farebbe invidia nemmeno alla parte più scalcinata di Pompei. — Ma tu ti sei visto, caro vicino? — Guardo te ed è come se mi specchiassi. — Mi riferisco all’impalcatura. Non vedi che ti impedisce qualsiasi movimento? — Come un abbraccio. Ma proprio per questo non mi dispiace. Siamo più vicini, per così dire. Uniti grazie a questo abbraccio che ci lega, e lo saremo per sempre. — Sei il solito romantico. Ma ti rendi conto del vero significato di questa impalcatura? — È la nostra amicizia. Ci diamo la mano anche nella malattia, insomma. Tu sorreggi me ed io sorreggo te. Anche il tuo numero civico, l’otto, testimonia l’unione di due sfere, una congiunzione carnale fra due caratteri. — La tua ottusità mi spaventa. Vuoi sapere una volta per tutte il vero senso di questo strumento di soccorso? Si chiama menefreghismo. Siamo così importanti
che i pavesi non ci vogliono nemmeno restaurare. E, come noi, versano in queste condizioni tanti vecchi muri del centro. Il telaio in cui ci hanno impacchettato non è una riparazione provvisoria: è solamente un riguardo verso il loro sistema nervoso che non sopporta lo spavento dei crolli improvvisi. — Sei sempre pessimista alla stessa maniera. — Ti dico che ho ragione. Vuoi una sfida? — Su, avanti. Il solito braccio di ferro, anche se prima o poi finiremo per sbriciolare questi vecchi mattoni. — Senti come cigola l’impalcatura! — Dalla tua parte è saltato un bullone! — Ti cade l’intonaco! — Basta, basta, o qui crollerà davvero tutto! — Il divertimento è finito. Anzi, penso che un giorno finirà sul serio. Chissà: magari, alla pubblicazione di queste parole, la mia pancia malata è già esplosa in una pioggia di mattoni, oppure qualcuno ha levato il ponteggio e dato inizio al restauro (speranza che si ripete in eterno, come questo racconto). — Siamo uno dirimpetto all’altro, come due specchi che moltiplicano all’infinito le loro immagini. Ci scrutiamo spesso, frugandoci con lo sguardo fin nei minimi particolari, quasi volessimo cercare la pagliuzza nell’occhio del vicino…
Vicolo del Senatore
Nella macchina faceva caldo. Le gocce si rompevano sui vetri appannati e uscivano di scena rotolando allegramente. Fuori la pioggia si mescolava con il buio che non si riusciva a distinguerla. Se ne avvertiva l’odore, l’umido dell’acqua che bagna le narici. Scendiamo, fece lui. Qualche accidente all’ombrello che non si apre e poi via, stretti sotto la scodella di stoffa piena di infiltrazioni. Lei si lamentava, ribadiva l’insensatezza di quella eggiata. Ho il raffreddore, disse, eppoi tutto questo freddo… Si strinse di più nel giaccone e si lasciò sprofondare nell’abbraccio che le scaldava le spalle. Lui, invece, non diceva niente. Intento com’era nei suoi pensieri torbidi, calcava il o sui ciottoli di via Parodi, gusci di lumaca che voleva schiacciare. E poi, riprese la donna, solo una testa matta come la tua vuole ficcarsi in un vicolo in una sera come questa. Piove, c’è buio, e tutto questo disagio per cercare qualcosa che non mi vuoi dire o che nemmeno tu conosci. Lui camminava silenzioso, guardando la luce dei lampioni che rimbalzava sui ciottoli e si tuffava nelle pozzanghere. Questi sassi vengono dall’acqua del Ticino, pensò, e nell’acqua si trovano a loro agio. Arrivati, mormorò lei. Finora avevo udito solo le loro voci, intravisto qualcosa e immaginato il resto. Adesso li avevo di fronte. Era una coppia comune, giovane. Lui con gli occhiali e l’impermeabile, lei vestita con gusto, i capelli ricci arruffati dall’umidità e carichi di riflessi ramati. Mossero i primi i verso di me ed io credetti di capire subito cosa erano venuti a fare. Lo vedi? fece lui. La donna restò zitta. Io continuavo ad osservarli dall’alto dei miei muri e ripensavo ai vecchi tempi. Il monastero del Senatore, l’usterìa di curtlà, la selciatura del 1804 e così via. Anticamente si chiamava vicolo dei Contegni, udii sussurrare. L’uomo le stava raccontando qualcosa di me. Provai una soddisfazione indicibile quando vidi il suo sguardo commosso che frugava tra le mie pietre. Mi percorsero fino allo slargo, dove si fermarono per osservare meglio l’altezza degli edifici. I lampioni oscillavano appesi ai fili, ma la loro luce era puramente rappresentativa. Era buio e nell’atmosfera — lasciatemi dire — quasi romantica sentii quei due individui dentro di me, come due amici. Mi accarezzavano con
gli occhi curiosi e la cosa mi faceva un immenso piacere. Ma quella loro azione non era gratuita: cercavano, volevano sapere qualcosa che io non riuscivo a ricordare, benché dapprincipio mi fosse sembrato di riconoscere nettamente. La pioggia mi lavava i muri, inspessiti d’incrostazioni e di muffe. Un bagno dolcissimo accompagnato da tanti piccoli scrosci che cadevano dalle grondaie. I rivoli d’acqua mi solleticavano, si sparpagliavano e rilucevano ai piedi dell’inferriata de L.a.Pi.Pa. Tutta la mia natura, insomma, fremeva di riflessi e di rumori, viva come un sogno che prende realtà. Che romanticume! mi dissi indispettito e tornai ad osservare i due ospiti. Adesso avevano imboccato il secondo tratto, quello che porta in corso Cavour. Procedevano lentamente, avvinghiati sotto la protezione dell’ombrello. L’uomo si fermò. Alzò il collo di scatto. È qui, disse. E pian piano lo vidi anch’io. Era apparso in modo flebile, appena accennato, tanto da far sorgere il dubbio che si trattasse di un effetto puramente ottico. Sembrava seduto su una porticina, le braccia incrociate sul petto, la lunga capigliatura ed il sorriso enigmatico. La coppia lo distingueva a fatica. Lui indicò ripetutamente la posizione e mormorò qualcosa. Lei strizzò gli occhi nello sforzo di riconoscerlo. All’improvviso, tra lo stupore di tutti, un battito di piume: l’angioletto spiegò le ali e volò via. Fu un lampo di lucidità e mi tornò in mente quel meraviglioso e ormai scalcinato angioletto in cotto di Rinaldo de Stauris, superstite dei vandalismi settecenteschi perpetrati nell’antico San Matteo. L’avevo tratto in salvo e custodito per un paio di secoli all’estremità della mia appendice settentrionale. Anche l’uomo se ne ricordava. S’incupì e constatò che al suo posto non era restato più niente, nemmeno la firma di un ladro. L’angioletto era scomparso da anni. Qualcosa, pochi istanti prima, era comunque volato via. Un piccione, suggerì alla compagna per tranquillizzarla. Sì, forse era solamente il frullo d’ali di un vecchio piccione. E se ne andò con una piega amara sulle labbra.
La cattedrale sommersa
— È l’ora giusta: quando il sonno non è ancora maturo e cominciano le. prime allucinazioni. Ma è proprio così, pa’? — Certamente — risponde scalando la marcia per iniziare il soro. L’asfalto è umido, bagnato dalla foschia serale. Le ruote srotolano sulla strada una sciarpa di catrame asciutto, più nero, mentre una nuvola finissima d’umidità si deposita sul vetro posteriore. Il motore ringhia sotto lo sforzo e il riscaldamento caccia dentro l’abitacolo un’aria secca e calda che asciuga la gola. — Pa’, parlami di Pavia — fa la ragazzina. — Una città strana, Michela. Anzi, quasi incantata. Qui tutti se ne fregano, nel senso che ognuno si fa gli affari suoi e la città agonizza nella noncuranza. Però è bella, almeno nei miei ricordi. È bellissima. Nel centro c’è un Duomo che è il terzo in Italia per altezza. Poi c’è Calcinara, piazza Grande, il Corso, Cieldoro, tutti posti dove noi studenti mettevamo in pratica la vera goliardia: scherzi di tutti i colori. Ma erano altri tempi. Oggi Pavia è molto trascurata, davvero trascurata. — E la magia, pa’, in che cosa consiste? — Vedi, Michela, la magia in sé non esiste: si sente, la può sentire chi ha avuto con lei un rapporto intimo. Un po’ come me. Ma forse no, non è neppure questa. La magia, forse, non esiste nemmeno. La macchina sfreccia per viale della Repubblica, davanti ai cancelli della Necchi. Sono anni che quelle gomme non sentono l’attrito delle strade pavesi. L’ultima occasione risale a cinque o sei anni fa, quando ci era tornato per trovare degli excompagni di facoltà. Stavolta, invece, è un capriccio che si toglie tanto per far visitare il centro ed il vecchio «Cieldoro» alla sua Michela che non li ha mai visti. Milano-Pavia in auto è quasi uno scherzo, ma gli è sempre mancato il tempo necessario per metterlo in pratica. Proprio uno scherzo come ai vecchi tempi dell’università.
— Insomma, pa’, è una città strana? — Eh, sì, direi proprio così: strana. A porta Milano tira diritto su piazza Castello, poi sterza e si butta verso il San Pietro in Ciel d’Oro. — E quell’ombra di pescatore? — fa Michela. — Pescatore? Quale pescatore? La ragazzina allude alla statua di Garibaldi in cima allo sperone di roccia artificiale. — In piazza Castello non ci sono pescatori, tanto meno pescatori notturni. — Ma sì, pa’, sono sicura: aveva la bacchetta. La bambina sarà eccitata, pensa il padre, e questa storia di magia pavese ha messo in moto la sua fantasia. — Poi torniamo a vederla — le dice per rassicurarla. Intanto sbircia nello specchietto retrovisore e, pieno di spavento, scorge la statua di Garibaldi che sta pescando con tanto di bacchetta e mulinello. — Ma pescando che cosa? L’immagine è confusa, annebbiata, come se fosse intravista dal di sotto di uno specchio d’acqua. Ci si sente un pesce, in questi casi, che spia i nemici a un pelo dalla superficie. La magia evocata dalle parole dei due si è avverata. L’auto sembra sommersa in una Pavia liquida, un’Atlantide sepolta sotto quintali e quintali d’acqua dolce. A pensarci bene, gli è sembrato di udire un grosso tonfo: non è stato altro che il rumore della gran massa d’acqua spostata dalla sua auto. Bolle dappertutto, come bolle di sapone. E gli alberi: alghe flessuose che lasciano le loro chiome in balia della corrente. Il tergicristallo fatica a scorrere, frenato dalla pressione, ma è sufficiente per lasciare distinguere in fondo all’acciottolato la chiazza scura del vecchio «Cieldoro». — Che bello! — fa la ragazzina. — Una cattedrale sommersa.
Il padre annuisce. Solo lui si rende conto che si tratta di un’allucinazione, o meglio: della materializzazione magica di un sogno del vecchio San Pietro in Ciel d’Oro. — Pavia — mormora — città d’incantesimi…
La casa del mistero
Cara casa del mistero,
con questo nome ti ho chiamato la prima volta che ti ho intravisto dalla fessura del portone. È un mistero davvero come tu sia sopravvissuta ai secoli ed allo stato d’abbandono in cui ti hanno lasciato sprofondare. — Vecchio palazzo Vistarino! così esclamavo tra me dopo che ti ho lasciato il primo giorno in cui ci siamo visti. Quel poco della tua aria che avevo respirato mi inebriava e mi riempiva i polmoni di cose lontane, avvertite con i sensi e messe a fuoco dalla mente. Nel giro di un paio di giorni sapevo ormai tutto sul tuo conto: i marchesi Bellisomi, la servitù numerosissima che alloggiava al pianterreno, i progetti dell’architetto Croce, eccetera. Proprio così eri nato, dai disegni settecenteschi di sco Croce, e non — come dicevano in tanti — dall’ingegno del Veneroni o del Cassani. Anche qui un mistero: la tua paternità discussa. Eppure, ce n’erano voluti di anni per farti nascere! Rimaneggiamenti, stucchi, affreschi, un via vai di gente che lasciava quasi trapelare il sospetto dell’improvvisazione. Poi ci fu l’impulso ai lavori dato da Gaetano Annibale, il parco creato dal marchese Pio, ed infine i Vistarino, ultimi proprietari di famiglia nobile. Insomma, mi sei piaciuto. Fu così che decisi d’incontrarti. Una sera fredda, piena di nebbia (la nebbia è sempre il mio migliore complice), un’umidità da far marcire i cappotti. Lungo Ticino è così, non perdona davvero chi lo disturba dopo l’imbrunire. Scorsi il tuo chalet dall'inizio della via, una delle poche cose che ti hanno ristrutturato. Sapevo che ciò che stavo per compiere era una pazzia e, oltretutto, una pazzia illecita. Gettai un rampino sul muro di cinta nei pressi dello chalet e mi issai per la corda a forza di braccia. Oh, lo so. Un primo momento mi scambiasti per un ladro e mormorasti: «Non c’è più niente da portar via, eppure insistono a tormentarmi». Io ti sentii, anche se non lo diedi a capire. Rimasi là sulla sommità del muro e mi sedetti a cavalcioni sopra le tegole. Non volevo disturbare la tua quiete e,
pertanto, non mi sarei permesso di posare nemmeno un piede sulla terra del piccolo parco. La nebbia, impastata con il buio, si ergeva come una parete davanti ai miei occhi. Fu allora — ed io me ne accorsi — che tu ti rendesti conto delle mie intenzioni ed iniziasti a diffondere la tua luce strana fino a dissipare la nebbia e l’oscurità. Per la prima volta posso dire di aver visto il vero palazzo Bellisomi-Vistarino. Davanti si ergeva il tuo parco, ormai trasandato ed inselvatichito. Alcune piante secolari ficcavano la cima nel buio del cielo e davano l’aria di essere le padrone assolute di quei giardini. Strizzai gli occhi e distinsi la tua sagoma, con una piccola scalinata malconcia che conduceva alle stanze della servitù. Poi vidi le finestre, le balaustre decrepite, gli interni consunti, gli stucchi, gli affreschi, le tappezzerie di Bruxelles, tutto triste e malandato. Gli specchi erano quasi tutti spariti e lo stesso i lampadari veneziani di cristallo. Del tuo vecchio arredamento settecentesco non restava più nulla. Si erano salvati giusto il marmo dei camini e qualche porta. Le stalle, anche loro bell’esempio di barocchetto lombardo, avevano ormai l’aria di porcili. Fu in quell’istante che la mia contemplazione venne interrotta: — Lei — gridò una voce — cosa fa lassù? Una persona era sbucata dall’angolo del cortile. Probabilmente il custode, ma, in verità, non lo saprò mai. Ebbi un istinto: — Sono il fantasma del marchese Gaetano Annibale Bellisomi. Non so se fu la fortuna o il puro caso (ma io penso che non sia estraneo il tuo intervento!): una folata d’aria mi avvolse nella nebbia. Udii un timoroso «Sta bene, sta bene» ed il rumore di i frettolosi che si allontanavano. Risi di cuore e ti ringraziai, vecchio palazzo Vistarino. Mi calai in strada e tornai a casa. Non ho dimenticato quella storia e, come vedi, ti scrivo a distanza di tempo. Ho dovuto riflettere, analizzare il fatto nei minimi particolari perché il mio raziocinio è pignolo, lento a digerire i concetti più di un ruminante. Penso che tu non mi risponderai, come non mi rispondesti quella sera. Ma fra noi — si sa — c’è un tacito accordo.
Tuo devotissimo ***
P.S. anche se vorrei tanto poter firmare Gaetano Annibale Bellisomi.
Sul Naviglio
Galleggiava inerte sul pelo dell’acqua, come un sacco di spazzatura gonfio d’aria. I ripetuti urti della chiusa non gli avevano provocato nessuna tumefazione. La sua pelle, liscia e tirata come quella di un tamburo, sembrava raccontare ancora di quel momento. I i che erano echeggiati lungo la riva del Naviglio, poi il tonfo. Bolle d’aria, tanto freddo e infine il buio. L’immagine del suo corpo alla deriva si dissolse e un brivido gli percorse la schiena. La crisi di astinenza gli era durata una manciata di minuti, ma adesso era tornata e gli martellava le vene con prepotenza. Doveva assolutamente trovare un po’ di roba, altrimenti il suo corpo non avrebbe retto. Il cuore sembrava una valvola impazzita che pulsava a tutto vapore. Un sudore freddo gli ricopriva la fronte. — Dio mio! disse il ragazzo e credette di iniziare a correre lungo la via. In effetti, non fece che pochi i, quindi si accasciò ai piedi del muro. Il Naviglio non era lontano. Bastava attraversare piazzale San Giuseppe e l’avrebbe visto. Era, più che un’alternativa, un’idea che lo allettava di per sé: buttandosi in quel punto il cadavere avrebbe attraversato tutta la sua Pavia, città tanto amata quanto inospitale, e, con un po’ di fortuna, sarebbe stato ripescato solo al confluente. Ma era un calcolo sbagliato, tanto più che alcune chiuse gli avrebbero sicuramente sbarrato il percorso. Eppure, nella sua mente malata, l’idea appariva così brillante da poter risolvere qualsiasi crisi. Era finito, ormai. Si sentiva un rottame. Le ultime dosi avevano accelerato l’invecchiamento delle sue cellule fino ad aggrinzirgli la pelle del viso e delle mani. Tentò di guardarsi nello specchio d’acqua del Naviglio, un po’ come Narciso, ma non vi vide che una sagoma grigia. Tutto era fatto. Tutto era deciso. Si levò la giacca (chissà perché) ed iniziò a calarsi tenendosi aggrappato all’armatura del ponte. Voleva farlo lentamente, con dolcezza, come se il Naviglio fosse stato una creatura delicata. I piedi erano ormai sul pelo dell’acqua e — Vigliacco! gridò. Il Naviglio si era ghiacciato all’improvviso. Un pavimento di cristallo. Il giovane prese a saltare sulla superficie cercando inutilmente di romperla. Picchiò allora i pugni sulla massa trasparente sino a farsi sanguinare le
mani. Il Naviglio non lo voleva con sé. Un altro che gli rifiutava il suo aiuto, così pensò il ragazzo. I nervi erano ormai a fior di pelle e gli arti tremavano in maniera convulsa. Non trattenne nemmeno lo stomaco e, dopo qualche sfogo, si mise a correre lungo la superficie ghiacciata. Incespicava, scivolava, infine cadde e si ammaccò un gomito. La botta lo intontì a tal punto che restò sdraiato dov’era caduto. Il cuore gli scoppiava nel petto. Chiuse gli occhi. Era ormai sul fondale. Il corpo devastato dai buchi e dalla sofferenza, raggomitolato su se stesso come un bambino nel seno materno. Il Naviglio lo cullava leggermente e, pian piano, gli lavava le piaghe, lo accarezzava e lo portava lungo il suo corso, giù giù verso il respiro ampio del Ticino. Qui lo colsero una pace e una tranquillità come non provava da anni. Una sensazione infinita di dolcezza. — Ne voglio di più — mormorò. — Stai calmo — fece il medico — ancora un po’ di tempo e sarai disintossicato.
Lo sfratto
Un fantasma in mezzo alla nebbia autunnale, lì, in riva al Ticino. Il Ponte Vecchio quasi non si vede nemmeno. Dappertutto è grigio, un muro di caligine che ti circonda lasciandoti uno spazio vitale di pochi metri. Perché ti guardi intorno così, Michele? Non è certo la prima volta che vedi la nebbia. Eppure senti sempre qualcosa di strano, lo so, di surreale, e ti incanti come un ebete. Guardi verso l’ex-locanda, fermo accanto al Ponte Vecchio. Non si vede quasi niente e decidi di attraversare la strada. Michele è un tipo sognatore, un po’ svitato, uno di quelli che amano frugare nel ato per tirare fuori vecchi ricordi. E lì, nella magia della locanda, ce ne sono tanti! Gli torna alla mente l’ingresso, la porta massiccia e la scalinata con tracce di pittura murale. Ma forse si confonde: la locanda non ha mai avuto niente di tutto questo, eppure è tanto bello immaginarla così! Maniglie dorate, picchiotto a muso di cervo e stampe ottocentesche nell’atrio. Tantissime stampe. I i risuonano scricchiolanti sul parquet, davanti alla specchiera che riflette il suo sguardo d’entusiasmo. La sala da pranzo è grande ed elegante. Ma, Dio mio, com’è possibile che fuori tutto appaia così triste e malandato, le imposte consumate, i balconi di ruggine, l’insegna annerita dal tempo e dallo smog? Ma chi ti ha spinto a credere, vecchio Michele, che l’avresti comprata? Quando ti metti in testa una cosa — si sa — non ti ferma nessuno. La sala da pranzo non è vuota: nell’angolo estremo un folto gruppo di figure sta immobile al chiarore della finestra. Facce anonime, pallide, che lo fissano senza batter ciglio. Anche loro vecchi clienti, impettiti, le mani dietro la schiena e rigidi come soprammobili. Michele guarda dalla finestra: grigio assoluto. Del Borgo, nemmeno l’ombra. Gli individui analizzano Michele con occhi attoniti e lui, ingenuamente, teme che avvertano la presenza dei suoi abiti maleodoranti. Ma in fondo, che vogliono dalla sua persona? Non è forse il proprietario? Sì, Michele. Clienti o no, cacciali fuori, tutti quanti! Buttali di peso sulle scale come birilli! Ma i birilli torcono il naso e guardano con ribrezzo la sua barba incolta e il suo
cappello dalla tesa mezza lacera. «Fuori, fuori!» grida intanto Michele e si lascia cadere sulla poltrona. «Questa locanda è mia. La mia casa». Si rilassa un momento. All’improvviso, un lieve botto: un cliente appare fra i suoi piedi, piccolo come un lillipuziano. Un istante, e poi ne sboccia un altro. Poi un altro, un altro ancora. Crescono come funghi, dapprima piccoli, quindi sempre più grandi e numerosi. Michele è sconcertato. Si alza avanza indietreggia, si trova circondato da decine e decine di esplosioni contenute e da birilli che crescono dappertutto. La locanda ne è mezza piena. Figure minute, medie, grosse, crescenti a vista d’occhio, tutte con quel pallore e con lo sguardo perso nel vuoto. Pian piano incominciano ad aggredirlo: ora un morso alla caviglia, ora al polpaccio, sempre più forti, sempre più violenti. Non sono più clienti: sono gli altri, quella folla anonima che gli ha sempre vietato di possedere un’abitazione tutta sua nella sua Pavia. Ed ora lo spingono fuori di casa, ancora una volta gli impediscono di vivere come tutti i cristiani. Michele cerca di sradicarne un paio. Niente da fare: si staccano persino i listelli del parquet, ma i loro piedi restano abbarbicati. Tentenna, si confonde, raggiunge l’ingresso con l’atrio che pullula di gente. È spinto fuori e, mentre cerca disperatamente di opporsi, il viso gli si riempie di lacrime. La porta è chiusa. Caccia un grido lunghissimo. Chivas, il bastardino, abbaia e fa un balzo indietro. Ma sì, ma sì, Michele. Ti sei addormentato lì sulla panchina, in mezzo a tutta questa umidità. «Vieni, vecchio Chivas», mormori al cane. Lo prendi in braccio, trai un sospiro e incominci a rovistare con disinvoltura nei cestini dei rifiuti di Lungoticino. La locanda abbandonata, affondata nella nebbia, partecipa con apprensione alla tua ricerca. Ma tu non la vedi.
Le tentazioni di Antonio
Capelli lunghi e biondi, occhi grandi, sorriso dolce tra le guance paffute. La bambola è lì sulla bancarella, con il suo corpicino un po’ goffo, ma terribilmente attraente. Antonio la guarda, anzi la scruta. Sono cinque minuti che se ne sta lì impalato senza prendere una decisione. — Via, Antonio, non vorrai comprarti una bambola? Saresti proprio scemo. Ma qualcosa, insomma, devi pur fare. Che cosa? Questo si domanda Antonio. Intanto non si muove. Vorrebbe acquistarla ma sarebbe per lui una figura meschina. — E perché mai? pensa. — Non potresti dire che la prendi per la tua bambina? Ma va’, Antonio, lo sanno tutti che non hai figli. E adesso, per giunta, non hai neppure più la moglie. Sì, perché la moglie di Antonio è morta da un mese. Un male brutto, carogna, come lo chiama lui. Allora, convinto dal cognato, si è preso un po’ di aspettativa, perché non ce l’avrebbe fatta a continuare ad insegnare in mezzo ai ragazzi del Ferrini. E adesso tutt’a un tratto questa storia della bambola. — Ma come si fa, si domanda lui, ad innamorarsi così perdutamente di una bambola come questa? Sarà bella, d’accordo. Sarà piccola, d’accordo. Ma lo sai, Antonio, che non puoi assolutamente permettere che ti sorprendano a comperarla? E allora? La soluzione è una sola, e Antonio lo sa. Ma il rischio è molto più alto. — E che ne dici, mormora tra sé, dell’appagamento a fatto compiuto? della soddisfazione di poterla rapire e sentirla scottare in fondo alla tasca dell’impermeabile? La gente ti osserverebbe senza sapere cosa nascondi. Non vede il tuo peccato, insomma. Ma lì, in piazza Petrarca, ci sono troppi occhi indiscreti. I commercianti sono svelti e sanno cosa vogliono. Si stanno addirittura battendo per spostare il mercato sull’allea di piazza Castello. — Gente furba, questa — pensa Antonio. — Ti beccherebbe sicuramente. Un giro per il banchetto del formaggiaio, poi intorno al fiorista, ed eccolo di nuovo lì, pronto a colpire. È un attimo. La gente è distratta, nessuno vede: via! La bambola è al sicuro nella tasca capiente dell’impermeabile. — È stata una fortuna, si ripete Antonio, procurarsi un impermeabile così ingombrante. Sì, un
vero colpo di genio. E lei, finalmente, è qui. Si tocca la tasca dall’esterno, la stringe, e un piacere indicibile gli addolcisce le viscere. La bambola è sua, tutta sua, e nessuno — questo è l’importante — nessuno si è accorto di niente. Cammina con o svelto in mezzo alle altre bancarelle, mentre il timore s’insinua pian piano su per la spina dorsale. Dietro di lui, forse, qualcuno ha visto ogni cosa ed ora lo sta rincorrendo. Magari il commerciante, pronto a colpirlo alle spalle e a gridare in mezzo a tutta la gente: «Al ladro! Al ladro!» Dio mio, che vergogna! Antonio sente gli occhi di tutti rivolti sul suo corpo, gli indici puntati che additano la sua colpevolezza. Proprio lui, professore di italiano, sorpreso a rubare come uno zingaro e, per di più, a rubare una bambolina. No no, il commerciante non se ne è accorto. Forse qualcun altro sì. Forse qualcuno che lo sta pedinando ed è pronto a seguirlo fino a casa. E se Antonio gli sbattesse la porta in faccia? No, l’uomo lo fermerà sicuramente prima, magari a metà strada. Lo afferrerà per le falde dell’impermeabile e gli dirà pressappoco: «Ehi, ti ho visto rubare. Lo sai che potrei denunciarti e farti perdere il lavoro? Un professore beccato a rubare. Ah! Ah!» Antonio non saprebbe di certo come reagire. Si accascerebbe contro il primo muro e udrebbe la proposta tanto temuta: «Facciamo un milione e non ne parliamo più». Ricatto, dunque? Ma nessuno, invece, lo segue. Il mercato è già lontano. Per forza, con il o che tiene! Un pezzo del Corso, piazza Grande, il Demetrio, poi una fermata improvvisa. Nessuno l’ha visto, d’accordo. Ma la sua coscienza? Si guarda attorno. I giornali dell’edicola parlano del raid americano su Tripoli. — Vedi, Antonio, dice tra sé, quante cose più grandi accadono nel mondo? Cosa vuoi che importi il furtarello di una bambola, meravigliosa sì, ma pur sempre una bambola di plastica? Lo spettro della terza guerra mondiale non sfiora minimamente questa città sonnolenta. Tutti tornano alle loro occupazioni quotidiane. «Scusi lei», fa una voce alle spalle. Un tuffo al cuore. Al diavolo, Antonio: è solo tuo cognato. «Come va, Antonio, come va? Ti ho spaventato?»
Antonio suda freddo. La bambola gli pesa enormemente e gli sembra che gonfi la tasca in maniera inconcepibile. Scambia due parole, poi «La fretta», gli dice. Un saluto e si allontana ancora più rapido di prima. Eppure, sente di non potercela fare: ancora troppa strada per arrivare in corso Garibaldi. Introduce la mano nella tasca e, finalmente, la tocca. La bambola è morbida, liscia, così dolce che non vede l’ora di poterla guardare. Gli occhioni verdi sono due perle sotto il polpastrello. Di colpo si ferma: — No, Antonio — borbotta. — L’hai fatto, ci sei riuscito, hai vinto te stesso. Ma ora basta: non puoi lasciarti ammaliare da una bambola, anche se assomiglia a tua moglie. Cosa ne penserebbe la povera Marta? Su, devi liberartene. Gettala in un cestino di rifiuti. Antonio è fermo, coperto di sudore. Di fronte a lui c’è via Cavallotti che si tuffa a testa bassa verso il Ticino. Duecento metri e sarebbe a casa. Ma è così bella, quella bambola! Non può certo cacciarla fra i rifiuti, specialmente ora che alcuni anti l’osservano. La mano racchiusa in tasca è madida di sudore, un pezzo di ghiaccio. Stringe il corpo della bambola accarezzandolo con il pollice. Alla sua sinistra c’è un vicolo cieco che fa al caso suo: è un’appendice anonima di via Cavallotti, un luogo abbandonato da Dio e dagli spazzini. I rifiuti crescono negli angoli, i ciuffi d’erba tra i ciottoli, il muschio e la muffa sulle case abbandonate che sfilano lungo il vicolo. Unico segno di vita: l’abitazione in fondo alla strada, sbarrata da un cancello. Una torre, sopra la testa di Antonio, sembra gridare nel cielo con una voce che nessuno può udire. D’un tratto estrae la bambola, alza il braccio e la scaglia in fondo al vicolo cieco. — Prendila, Pavia! esclama. È tutta la mia vita! È fatta. Si aspetta una reazione. Spera che il vicolo gliela risputi fuori. Ma Pavia, questa volta, non si muove. Antonio prende a correre lungo il marciapiede senza sapere dov’è diretto, e ride, ride di cuore pensando alla sua Marta. Dietro le sue spalle, nessuno si accorge che la bambola lo segue.
La gara dei poeti
Il piccione si chiede perché quello stupido del Broletto lo guarda così, con un occhio che segna le ore in mezzo alla fronte: intanto lo sanno tutti che non conta più niente. L’uccello beve con disinvoltura nella pozza d’acqua e vola via. Battendo le ali, si alza verso il Duomo, si mangia il cielo e sparisce dietro il cupolone. Il Broletto, invece, osserva piazza Grande ancora immersa nella foschia mattutina. I ciottoli sono umidi, come se l’acqua li avesse bagnati. Se non fosse così presto, in questi momenti è bello pensare ad un angolo della cucina, accanto alla stufa o al termosifone, un buon Barbera dell’Oltrepò e un piatto di polenta. Il Broletto è lì, immerso nell’umidità e contempla la piazza vuota. Non può capire né il Barbera né la polenta. a il giornalaio (è uno dei più mattinieri) e fischietta una canzoncina popolare. La musica ravviva il silenzio, poi svanisce dentro l’edicola. Il giornalaio, affaccendato, non lo degna di un saluto. Sono ati i vecchi tempi, in cui il Broletto contava davvero qualcosa! A questo pensava il palazzo. Si ricordava come tutti lo guardassero e riconoscessero la mente della città, l’emblema del libero Comune e dell’indipendenza pavese. Poi ci furono i Visconti, che schiacciarono Pavia. E di lì incominciò la rovina. La piazza intanto si sta animando. Operai, qualche commerciante, i primi studenti. Da un momento all’altro dovrebbe apparire anche lei, la sua Santa Maria Gualtieri. La chiesetta è tutta arroccata dietro l’impalcatura del restauro. Il Broletto l’intravede appena, anzi: non si accorgerebbe nemmeno della sua presenza se non sapesse in che precisa posizione è situata. La chiesa fa udire il suo buongiorno ed il palazzo del Broletto restituisce il saluto. Le domanda se ha ben dormito ed aggiunge che nel frattempo il suo cervello ha avuto un’idea formidabile: se fero la gara dei poeti? Ma sì, come i greci dell’antichità. Improvviserebbero versi, così, per puro divertimento. La chiesa annuisce, ma chiede la partecipazione del campanile del Carmine. Il Broletto si oppone: troppo distante, il Carmine, per udire le loro voci. Allora Santa Maria Gualtieri risponde seccata che cominci da solo, perché dalle sue
mura non verrà fuori una sola parola. Il Broletto risponde che è d’accordo. Inizierà lui e, di ripicca, afferma che riuscirà a trascinarla nel gioco prima che declami il decimo verso. Soggiunge, però, che si reciterà esclusivamente in dialetto. Altrimenti, che pavesi sarebbero? La poesia improvvisata dal Broletto è un volo pindarico, balza sulla cupola del Duomo e sparisce dietro al piccione. Le parole si susseguono rapidissime, piene di vocali e di dittonghi alla se, con raffiche di immagini sempre più frizzanti. Ma giù, in piazza, accade la cosa inconsueta. Un impiegato delle assicurazioni eggia per il Centro e si ferma all’edicola per comperare il giornale. Alle parole del Broletto, il malcapitato si trova proiettato sulla cupola del Duomo e, pieno di spavento, si aggrappa alla scaletta di metallo. Il Broletto continua a recitare i suoi versi e l’uomo si alza in volo dietro il piccione per sparire nel cielo. Santa Maria Gualtieri è divertita. Accetta il gioco ed anche lei prende ad improvvisare. I suoi versi parlano di ciottoli vivi che saltellano e si muovono come i sogni di un bambino. Anche qui accade l’incredibile: la gente della piazza si trova su un selciato mobile, vivo e dispettoso. I più cadono a terra, altri fuggono terrorizzati. Il Broletto e la chiesa sorridono con malizia. Il primo intima il silenzio e riprende con un o in endecasillabi sciolti. Il tono, dapprima elegiaco, si trasforma in satira e attacca i pellicciai del Centro con l’immagine bizzarra della fuga delle pellicce dai negozi. I anti, che a quest’ora si fanno più numerosi, si vedono assaltati da decine e decine di pellicce di tutte le specie che piovono sulle loro spalle, cinque o sei alla volta. È la paura. Nessuno pensa al valore commerciale di quei beni, anzi: tutti cercano di strapparseli di dosso e di scappare, ma si trovano appesantiti da altre e più numerose pellicce. Tocca a Santa Maria Gualtieri che dice di avere pronte delle nuove immagini poetiche. In piazza Grande, tra i anti sommersi dalle pellicce, appare improvviso il mercato coperto, richiamato in superficie dai versi della chiesa. I commercianti si guardano intorno completamente disorientati e se la prendono con il Comune ché ha autorizzato un simile miraggio. Il Broletto incalza. Descrive i piccioni — compagni del Duomo — muovere in alto in formazioni compatte e poi, uno stormo alla volta, picchiare sulle
bancarelle e sulla gente bombardandole a modo loro. È un fuggi fuggi generale. In mezzo al disordine sbuca il Regisole, accorso dalla vicina piazza del Duomo. Travolge tutti sotto gli zoccoli del suo cavallo bronzeo, balza di sella e si appresta a far esplodere una bomba micidiale al centro del mercato. Pavia salterebbe in aria, tutta quanta, risparmiata da quello stillicidio di piccoli scempi e di noncuranze che la sta uccidendo giorno dopo giorno. L’ordigno è pronto. Il Regisole gira la maniglia del detonatore e allora — È andata. Pavia è una pioggia di scintille che sprizzano fuochi d’artificio. Un attimo dopo, è la desolazione di una città rasa al suolo. Torna alla mente la distruzione degli Ungari del 924. Sogni, vecchie allucinazioni di una città decaduta che ne ha viste di tutti i colori. Forse non è accaduto niente di tutto questo. Piazza Grande è ancora lì, gocciolante di umidità, impotente di fronte alla Pavia che tramonta, ai vicoli che si ammodernano, si trasformano e si fanno chiamare vie. Alcuni anti credono di udire la voce del Broletto che, imitando Baudelaire, spalanca la bocca in una smorfia e grida: «T’amo, infame città!»
Il party
— Chiediamo scusa, signore — mi dicono. — Per il palazzo Carminali Bottigella? Io li guardo meglio. Sono due frati di mezza età, i cappucci bianchi (solo uno lo indossa) e due lunghe barbe ricce che nascondono il viso. — Non si recano mica al ricevimento? Vengano pure con me, allora. Siamo vicini: quattro i e li accompagno io. I due mi ringraziano e si mettono ai miei fianchi. È ridicolo camminare per il Corso con queste due figure appariscenti ai lati. Mi sento come in mezzo a due carabinieri, tanta è l’insistenza degli sguardi della gente che incontriamo. — È l’aspetto medioevale, per così dire — asserisco con l’intenzione di giustificare quel comportamento collettivo. I monaci mi danno ragione e sorridono. Non aggiungono niente alle mie parole, ma è chiaro che si compiacciono di quell’attenzione generale e, al tempo stesso, della situazione buffa in cui m’hanno cacciato. Ad un certo punto afferro il braccio del frate incappucciato: — Lo sa, padre? Mi ricorda moltissimo un affresco che ho visto nella nostra Certosa. Forse ho fatto male a fermarlo così d’improvviso. E poi, perché mai m’interessa fargli presente che l’ho già visto da qualche parte? È un vero istinto, a volte, che ti spinge a muovere un braccio o a pronunciare una sfilza di parole che non ti appartiene. Le tieni in gola, senti che devi sputarle fuori e di colpo te le trovi sulla lingua che già rotolano verso l’esterno. Le mie parole sono ormai scandite. Il monaco mi guarda con aria circospetta: — Sì, figliolo, siamo noi.
— Ma noi chi? I frati del… Non so nemmeno cosa voglio dire con quel complemento di specificazione lasciato a metà. Forse potrei aggiungerci qualcosa di fantasia e l’interlocutore fingerebbe di ritenersi soddisfatto. Invece no. Ammutolisco. Lui si liscia la barba e confessa: — Siamo noi: i due certosini affrescati dal De Motti. — E come diavolo…? — Non il diavolo, per carità! Non il diavolo, bravo giovane, ma noi. Proprio noi, stufi di restare appiccicati su quelle pareti a rimirare le crudeltà che si compiono ogni giorno contro il nostro bel monumento, abbiamo deciso di andarcene, svagarci. Io l’osservo. Non so più se credergli o meno. Ma, forse, non è nemmeno necessario porsi l’interrogativo. Basta ascoltare queste stranezze e lasciarsi rapire dal magnetismo che emana la loro fisionomia. — Siamo arrivati — balbetto. Di fronte a noi c’è il Bottigella. Avvolto nella sua robustezza rinascimentale, ci guarda con un senso di pena, quasi volesse mostrare le persistenti manomissioni inferte alla sua mole nel corso dei secoli. Ma il frate vuole finire a tutti costi il suo discorso. Stavolta è lui ad afferrarmi per la manica dell’impermeabile e a costringermi a portare il mio udito all’altezza della sua bocca: — E ti dirò di più (te lo dirò sottovoce). Qualcuno ha fatto persino un tentativo di imitazione riproducendo le nostre immagini sulle false bifore. Forse in buona fede, sperando che la gente non se ne accorgesse. Ma quando manca la firma — tu mi capisci, caro figliolo, quando manca la vera firma è inevitabile che qualcuno scopra l’inganno. Siamo unici, non c’è che dire. (E il Signore mi perdoni la vanità!) — Bello, bello il Bottigella — fa l’altro monaco con il naso per aria. — Questa è roba del quattrocento o giù di lì. Poi mi guarda negli occhi, sorride e ripete:
— Giù di lì… anche noi, del resto. La cosa è davvero assurda. Sto girovagando per Pavia con due affreschi di Jacopo De Motti ai lati, chiacchieroni per giunta e, ancora più allucinante, mi sto recando ad un party organizzato presso il Bottigella. Entro quasi di soppiatto ando dalla portineria. I due frati sono spariti quando io mi sono perso in fantasticherie davanti al portone. Ho la maniglia in mano, eppure tutto potrebbe tornare com’era prima ed io ricacciarmi in mezzo alla folla che scorre sul Corso. Ma no, che stupido! Perché spaventarsi se due monaci fanfaroni mi raccontano che sono scappati da un affresco? «Io», avrei potuto rispondere, «sono fuggito dalla cripta di Sant’Eusebio dove ho soggiornato per duecento anni». Frottola per frottola, li avrei messi a tacere. — Buon giorno, nonna Innocentina. La vecchietta si sprofonda in sorrisi e si porta sulla soglia della portineria. Mi fa segno di proseguire e, agitando le mani, mi lascia capire che di sopra c’è un po’ di trambusto. — Stia pure comoda — le faccio io. Ma la cara vecchietta mi prende la mano che stringe la maniglia, la gira e, masticando qualche ’ngiorno misto a sorrisi, mi invita ad entrare. Dentro non c’è nessuno. Il salone è immerso in un’opprimente penombra che viene rischiarata dalla parte della scalinata. Il leone di pietra, ai piedi di questa, mi guarda con aria stupita, come se il mio aspetto stesse dando nell’occhio più di quello dei due frati. — Forza! — mi grida uno di questi dall’alto del pianerottolo. — Non avrai mica paura dei fantasmi. Qui siamo tutti pavesi e basta. Sali, dunque. Gli altri ti stanno aspettando. In due balzi sono in cima. Le gambe mi tremano ed un timore folle si impadronisce della mia mente. Paura di non so che cosa, di un fenomeno superiore alle mie facoltà di intendere. Che sia la paura stessa della morte? Si apre alla mia vista una sala enorme, così vasta che non mi spiego come possa stare racchiusa fra le mura di questo palazzo. Quei furfanti dei frati stanno
probabilmente architettando qualche cos’altro. Mi avvicino e sentenzio tra me e me: — La sala dei prodigi (ci sono proprio tutti). Do un’occhiata attorno ed il cuore inizia a battermi forte in petto. È terrore, o forse stupore, o forse ancora la consapevolezza di sentirsi incosciente. Di fronte, adagiata su una morbida e monumentale poltrona di pelle, c’è la Minerva. Lancia e scudo depositati in guardaroba, mi osserva con lo sguardo intelligente e stringe in mano un bicchiere. Al suo fianco, un ometto dalle basette rosse e dall’aspetto scimmiesco: sembra Ugo Foscolo. Anzi, glielo si legge sugli occhi mobilissimi e pieni di energia. Ci sono anche le tre torri di piazza Leonardo, tutte curve per non urtare il soffitto e più simili a tronchi spogli che a costruzioni umane. Man mano che mi giro attorno, scopro personaggi curiosi, esseri strani con cui, bene o male, ho avuto un rapporto. Dai resti marcescenti di un barcé sinistrato, alla guardia gigantesca della Porta Nuova, alla figura artistica dello spirito dei vicoli e così via sino alle due vecchiette che parlottano insieme. Sono loro le prime donne del party: la Notte e la Nebbia pavesi. La Notte mi osserva con curiosità, bisbiglia qualcosa, tracanna un cocktail, poi batte le mani. Il brusio di voci, che fino ad ora mi ha solleticato le orecchie, tace di colpo. Persino il vento di parole della Bonetta, che si diverte a correre come un pazzo per la sala, si ferma e si siede al suo posto. I merli dei torrioni del castello visconteo smettono di svolazzare e così fanno i vegetali volanti dei giardini borromaici. Tutti i convenuti, insomma, ubbidiscono al segnale dell’anfitrione. La Nebbia prende la parola. Parla in dialetto, naturalmente, e ribadisce il motivo per cui ha riunito questa combriccola. È una spiegazione strana, circonfusa di concetti astratti da lasciare di stucco l’ascoltatore. Insomma, non ci capisco niente. All’improvviso alza solennemente un braccio e lascia cadere il dito puntato su di me. Un brivido mi corre lungo la spina dorsale, ed il cuore, riposato da quei minuti di concentrazione, riprende a battere con violenza. La mia fronte è di gelo, le radici dei capelli hanno una contrazione, le ginocchia si fanno molli. Ho paura. Non so cosa possano farmi, né, per altro, se abbiano davvero delle cattive intenzioni nei miei confronti. Può darsi che mi sbagli e, tutto sommato, mi conviene restare fermo dove mi trovo, in mezzo al silenzio e all’odore sinistro
che emana questo salone. Uno dei due frati, evidentemente, non ha capito la situazione. Sorseggia più volte un Martini per prendere coraggio e domanda ai convenuti: — Siamo qui per ringraziare, infine, o per maledire? — Per ringraziare: evviva il provincialismo — borbotta la voce profonda e metallica di Pio V. — No, maledire. La presunzione è presunzione e basta — correggono in coro i due muri di vicolo Longobardi. Per ragioni di spazio, i due si sono avvolti su loro stessi come un tappeto e si sono cacciati nell’angolo più oscuro del salone. — Via! Per entrambi i motivi — taglia corto l’angioletto in cotto di vicolo del Senatore. — Io me ne stavo così bene in casa del mio ricettatore ed ora, invece, sono sulla bocca di tutti con l’appellativo di refurtiva. Un grazie, dunque, per la commemorazione, ma uno sdegno per aver risvegliato amari ricordi. La Notte ordina di nuovo di tacere. Un silenzio profondo che sa di meditazione. All’improvviso qualcosa stravolge le loro menti. Iniziano a ridere tutti insieme, in maniera fragorosa ed insensata. Risate lunghe, quasi angosciose. Ride persino la lingua dell’altorilievo del Borgo e si dibatte sulle mattonelle bagnandole di saliva. Ridono tutti sgangheratamente, con mascelle che non sono più loro e con gli occhi che si riempiono di lacrime. Un’atmosfera pazzesca che ha l’aspetto di un bizzarro finale e apoteosi. L’ambiente si stringe, il calore si fa insopportabile e tutti questi esseri incominciano ad avvicinarmisi oltre l’area dove la confidenza dei corpi diventa inevitabile. La presenza immediata di queste creature mi opprime e l’agitazione mi stringe le tempie. Mi precipito giù per le scale a rotta di collo e in un balzo sono in strada. La pace e il silenzio del Corso! Niente più risate né fruscii sinistri attorno ai miei piedi. Tutto è tranquillo, persino il lento via vai della gente. Prendo a camminare con o sciolto e calmo, con le narici ancora pregne di quell’odore misterioso. Mi fermo un istante, accendo un mozzicone di toscano che mi trovo in saccoccia, quindi mi avvio alla ricerca di un buon caffè.
Romano Augusto Fiocchi è nato a Pavia nel 1961. Finalista al premio di poesia Guido Gozzano 1983, ha pubblicato le raccolte di racconti Capricci pavesi (1986), PazzaPavia (1989), Dipinto a testa in giù (1994), Un mistero in via Cardano (2004), il romanzo Il tessitore del vento (2006), i volumi di racconti singoli Il libro OGM (2005), La leggenda delle perle di fiume (2007), Il gatto del soldato (2011, premio “Inedito” Città di Chieri e Colline di Torino). Con il racconto Opernplatz ha vinto il premio “Le storie del Novecento” 2013. Giornalista pubblicista, ha collaborato a diverse testate su carta e on-line come elzevirista e critico d’arte.
Collegamenti a pagine multimediali:
http://www.youtube.com/watch?v=BEaG2MEsq1o Intervento di Mino Milani alla presentazione di Capricci Pavesi (1° novembre 1986).
http://www.romanofiocchi.it Sito Internet dell’autore.