Amore Nel Silenzio 5q5v2f

Amore nel silenzio Andrea Zanacchi

Published by Diffusione Digitale at Smashwords Copyright 2010 Andrea Zanacchi

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SOMMARIO

PICCOLA MISS UN VIAGGIO SOLO UN CASO LACRIME D’ANGELI UN RICORDO PARIGINO

PICCOLA MISS

L’aria respirata in quel limbo di fede e ione diveniva, lentamente, sempre più pesante, tutto sembrava ardere di zolfo. Scostai i capelli dagli occhi, il sole cadeva a picco con i raggi filamentosi sulla pelle brunita del suo viso, mi guardava con sguardo stanco dall’alto dei suoi pensieri, si tolse le scarpe dai tacchi vertiginosi, le lasciò cadere imperfette sul tappeto dai motivi orientali, amai quei piedini perfetti, quel loro candore fasciato da una seta chiara e trasparente, potei vedere le lunghe dita chiudersi in una punta levigata d’ogni spigolatura e le unghie curate e smaltate: un piacere così incomprensibile per i miei occhi; ritirò quei piccoli bon bon, li nascose sotto di sé, si poggiò con il corpicino al bracciolo sgomento del divano in pelle, il cameriere servì i drink ordinati, martini bianco con uno spicchio di lime, whisky per me, li adagiò lentamente sul tavolino dinanzi i nostri occhi, restò lì un istante, immobile, tutto impomatato, lo sguardo rapito da quella ninfa, il vassoio sottobraccio, bastò un suo gesto con la mano e lo scostò dolcemente: non si sentì affatto rifiutato, anzi. Prese il bicchiere con le mani prive di alcun ornamento, le dita affusolate, lunghe chilometri e chilometri di sensualità al cui termine, ancora, unghie ben curate e velate da uno smalto quasi trasparente che le rendeva lucide ed alla fine un tocco di bianco che ne sottolineava un qualcosa di intrigante. Teneva il suo drink con leggerezza tra l’infinito delle sue mani, portò il glass alle labbra, bevve un sorso, mi guardò nuovamente - lei non beve? - sentii la sua voce schiarirsi verso di me si, ora bevo - presi il mio whisky e lo scolai senza batter ciglio, posai il bicchiere e spostai nuovamente i capelli dagli occhi, la vidi bene impressionata - ero un po’ assetato - mi giustificai cercando di celare il mio alcolismo cronico, ne avrei scolato una bottiglia intera se avessi potuto - non deve giustificarsi - sorrise e si sfiorò con un dito le labbra, sorseggiò il suo martini sino a lasciare lo spicchio sul fondo di vetro, alzò il dito e nuovamente il cameriere, ne ordinò altri due - è un piacere servirla - disse sparendo subito dopo tra la folla. - suppongo sia venuto il momento di cominciare l’intervista, miss - suggerii con tono di voce accaldato - spero che non siano quelle solite domande noiose, odio le interviste per questo motivo - il cameriere era nuovamente al suo fianco con i drink -lasciali sul tavolo - un inchino e via di nuovo.

Sorseggiò lentamente il martini mentre ero intento a pensare alle mie “solite” domande da giornalista da quattro soldi - perché non usciamo ed andiamo da qualche altra parte a fare l’intervista? propose ed un sorriso complice si nascose dietro il suo bicchiere - lei alloggia qui? - chiese curiosa - no, in un altro hotel - risposi, forse colse la vena di imbarazzo che aveva sospinto la mia voce, sorrise - andiamo, mi sono stancata di questo coso, mi porti nella sua stanza - la guardai confuso - ma, non è adatta a lei - posò gli occhi neri su di me, mi sentii arrossire, la guardai quasi spaventato dietro il ventaglio di capelli - sciocchezze, andiamo - lasciò cadere il bicchiere sul tavolino, si tuffò nelle scarpe, camminò ondulando i fianchi rotondi a o spiegato verso l’uscita - si muova - intimò voltandosi verso di me, scolai il vecchio jack in fretta e furia e la seguii - ecco il suo cappello ed il suo impermeabile signore - li presi al volo e la seguii fuori dall’hotel - prendiamo un taxi - alzò la mano ed un’auto si fermò davanti i suoi piedi, che potere potesse avere nelle sue mani lo ignoravo, ma doveva essere qualcosa di grande; ci sdraiammo sul sedile posteriore, io soffocato dalla sua pelliccia - dove vi porto? - la guardai interrogativo - ci porti dove il sole scioglie la neve - fece lei - sentite, io non ho tempo da perdere - innervosito il tassista guardò nello specchietto con occhi cupi e d’un tratto - ma lei è - gli occhi brillarono di luce propria - miss, dove desidera - lei guardò fuori dal finestrino - ci porti al solo hotel - l’uomo annuì - subito signore - la macchina partì lentamente balbettando un lungo mantra idraulico, lei, miss, restò in silenzio per tutto il viaggio. Una volta giunti, pagai l’uomo che mi sorrise e strizzò l’occhio, non diedi modo di capire e lo lasciai alla città, che inghiottì il taxi nell’oscurità delle sue fauci. La stanza era poco illuminata, arredamento con mobili da quattro soldi, ma pulita ed ordinata; la vidi aprire il frigobar e ne cavò fuori una bottiglietta di martini, l’aprì e la scolò velocemente, senza sorseggiare, con violenza ed ingordigia, ne prese ancora una, via, giù nel suo stomaco senza sorseggiare il liquido trasparente, la guardai timoroso d’esser inghiottito dalle sue labbra allo stesso modo del martini - allora è qui dove dormi - lasciò la bottiglia sul

pavimento e si avvicinò al letto, si appoggiò sul piumone e carezzò la valigia posata nel centro – pelle - la annusò - mi piace l’odore di pelle - sembrava sincero il modo in cui ne godeva ad ogni sospiro - sai, mio nonno era un piccolo calzolaio, sono cresciuta nel suo minuscolo laboratorio, l’odore della colla e della pelle sono il ricordo più vecchio che ho - si soffermò sulla chiusura posso? - chiese con voce strozzata, feci di si con il capo, un clik metallico infranse il silenzio provocatore della stanza, l’aprì lentamente: un jeans chiaro, lo accarezzò, calzini, mutande, sorrise ed un velo di imbarazzo spolverò le sue guance di porpora, una camicia a righe bianche ed azzurre, un maglione, lo strinse a se e vi chinò il capo estasiata dalla morbidezza - che buon profumo disse stringendo gli occhi così forte da lasciar fuggire una lacrima; e poi una busta da lettere, un astuccio con penne, colori, matite - e questa? -aveva tra le mani una busta di carta, l’aprì: mmmm, il dolce fragore di carta stropicciata, una bottiglia ancora incelofanata di whisky, la posò sul piumone, si alzò e si avvicinò lentamente a me - non hai un po’ di musica? - aderì placidamente al mio corpo, un vecchio giradischi poltriva nell’oscurità di un angolo, sfuggii a quella sua dolce presa e volai verso quell’aggeggio, cercai qualcosa di interessante tra una vecchia scelta di 33 giri, Rita Pavone, Solo, Tony, Caselli: finalmente qualcosa. Un jazz lento ed inquieto si levò stonato dalle casse polverose, si avvicinò nuovamente a me, potevo sentire il suo profumo dolciastro confondersi con quello secco di martini, prese le mie mani e cominciò a muoversi e guidarmi lentamente sul tappeto della stanza - hai uno splendido odore - detto ciò, appoggiò la testa al mio petto, ballammo finché il disco finì e la sera reclamò il suo saluto, mi guardò e sorrise, infilò la testa nel frigo e cominciò a frugare - ho questa - alzai la mia bottiglia - no, quella lasciamola per dopo - ne uscì con il naso rosso dal freddo e con due miniature di vodka, me ne porse una, la presi, lei alzò la sua dopo aver svitato il tappo: il resto potete immaginarlo. Ora di cena - ho fame - lasciò l’ultima bottiglietta di liquore contenuta nel frigo sul pavimento e si diresse verso la porta l’aprì - porta la bottiglia - fece lei un attimo prima di sparire fuori nel corridoio, la seguii con la bottiglia infilata in una tasca dell’impermeabile e la sua pelliccia tra le braccia - aspettami - correva per il corridoio senza freni, sbucò in strada, la sera era fredda come tutte le sere invernali, si strinse a sé in un abbraccio, tremò nelle sembianze di un pulcino bagnato - tieni, metti questa - le misi la pelliccia sulle spalle, mi strinse le mani per un istante ed un senso di malinconia mi pervase,

provai un irresistibile desiderio di stringerla a me e non lasciarla sfuggire per nessuna ragione al mondo, mai più, ero certo che non si sarebbe opposta, percepivo che era ciò che sperava - dove desideri andare - chiesi sciogliendo in insulse parole un simile istante - non lo so, forse dove nessuno mi conosce chiamai un taxi, alzai la mano, ma il mio corpo non doveva avere il suo stesso fascino. Quando finalmente se ne fermò uno, ci sedemmo con calma ed in modo composto, diedi indicazioni al tassista sul luogo dove doveva condurci, avrebbe dovuto attraversare tutta la città, le strade più belle ed importanti, quelle frequentate dai noti, per poi terminare la corsa in una via buia, lì avremmo cenato in una piccola trattoria. Le strade erano illuminate a giorno, le luci irrompevano con violenza nel taxi bianco dai finestrini velati da una patina di condensa, un fiume di persone si scontrava sui marciapiedi con le mani occupate a reggere buste d’ogni dimensione, forma, colore, sul viso indossavano un’espressione stampata a caldo di felicità sintetica, restammo tutto il tempo in silenzio, lei di tanto in tanto mi stringeva la mano o sfiorava quel finestrino. Arrivammo come programmato nella stradina, pagai l’uomo che sparì chissà dove, ci sedemmo ad un tavolo nascosto in un angolo ed ordinammo l’antipasto; il piatto si presentava traboccante di salumi stagionati e profumati, formaggi, mozzarelle, olive, verdure grigliate, seguito dal primo, una zuppa di farro, povera ma calda e saporita, annegata nell’olio; per finire il secondo, un’insalata di patate bollite, il tutto annaffiato da un forte vino rosso. Mangiammo scambiandoci sguardi e sorrisi - non mangio cose così da un’eternità, sempre in quei fottuti ristoranti, mai un vino acido o una birra, odio tutte quelle cene sofisticate - la guardai - c’è gente pronta a linciarti per ciò che hai detto - mi sorrise - sai, sono stanca di quel mondo, quando ero piccola avrei fatto tutto accentò quel “tutto” - per entrare in quel mondo…l’ho fatto - greve si fece la voce - ora farei di tutto per uscirne - vidi una lacrima scivolare oltre gli occhi e cadere su di una noce - tutto cosa? - chiesi - tutto - le alzai il viso con la mano, non sapevo se fosse sincera, ma lo sembrava, le asciugai gli occhi freschi di rugiada salata, mi sorrise, prese il bicchiere e lo vuotò – andiamo - si alzò ed andò via con la bottiglia di rosso, lasciai molto più di quello che avevamo speso sul tavolo e la seguii fuori - chiamo un taxi - mi prese la mano - no, camminiamo - si attaccò alla bottiglia e fece un lungo sorso – bevi - asciugò una lagrima di vino che le correva lungo il mento, si asciugò con la mano, presi la bottiglia e sorsai. Ci mettemmo in cammino, la vita della città sembrava così lontana, i motori tonanti delle auto, il brusio di voci era distante da noi che camminavamo sulla muraglia del fiume, potevamo sentire i pesci battere sul pelo dell’acqua le pinne robuste, sentivamo il fiume scorrere contro le rocce, il fruscio delle piante carezzate dal vento gelido, tutto si inabissava per poi innalzarsi sino al suono più

acuto del silenzio - c’è stato un momento della mia adolescenza che rimasi chiusa mesi e mesi in casa, senza mai mettere il naso fuori. L’esterno mi terrorizzava, camminare semplicemente in cortile mi faceva stringere lo stomaco in dolorosi crampi. Avevo paura di potermi sentir male ovunque andassi ed appena provavo ad uscire, sentivo la mia voce morire, il mio respiro appesantirsi e lentamente ciò che avevo attorno si faceva lontano e tutto rallentava - mi strappò la bottiglia dalle mani e la scolò, eravamo ubriachi, ma dovevamo ingollare ancora. Comprammo ancora vino in una taverna e continuammo il cammino, questa volta imboccammo un vicoletto fiocamente illuminato da un lampione - quanto odio questi cosi - si riferiva ai s.pietrini - sai, il mondo in cui mi trovo a vivere è spregevole, traboccante d’odio, perversioni, è cieco di potere, ecco perché voglio uscirne. Tutto è amaro, falsità servite in pillole dolciastre al pubblico pagante, è come trovarsi a teatro, ognuno ha un ruolo, c’è il bello, il simpatico, l’intellettuale, il travestito - con tono triste - la miss - inciampò e cadde su di me -noi diamo alle persone modelli, le ragazzine sognano d’essere come me, ma “me” io non so cosa sia - la aiutai ad alzarsi, ci fermammo su delle scalinate, bevemmo ancora, eravamo pieni d’alcol, ma i pensieri fluivano come sangue nelle vene - sono così sola - la voce silente in vastità di oscura pazzia - hai sempre te stessa - la risposta ruppe il silenzio - ho perso me stessa quando posarono quella coroncina sulla mia testa, qualche istante dopo vennero a riscuotere il pagamento - non capii, poi mi guardò con i suoi occhi traboccanti lacrime e fu chiaro - voglio fuggire da qui - poggiai le bottiglie vuote e la strinsi a me, potevo sentire il naso che tirava su di tanto in tanto, il cuore batterle nel corpicino - vuoi un’intervista? non c’è film, calendario, sfilata, non c’è niente di niente - non riuscivo a capire quelle parole interrotte dal pianto che si faceva sempre più insistente, mi sentivo così inerme ho sete - disse, presi la bottiglia dalla tasca, tolsi il cellophan e diedi un bel sorso, lei di seguito. Ci incamminammo nuovamente barcollando nella notte, lei si trascinava a me raccontando di suoi colleghi, politici, ecclesiasti e persone a me sconosciute, giungemmo sulle sponde del fiume, cadde in ginocchio - sai perché mi piaci? - non ebbi il tempo di provare a rispondere - sei il primo uomo che non prova a portarmi a letto. Da piccola ero così carina che il maestro mi accompagnava in bagno e mi accarezzava le gambe, io non capivo, a lui piaceva,

io rimanevo in silenzio e lo lasciavo fare - caddi al suo fianco con la bottiglia nel fango - per quella corona ho regalato la mia innocenza, ora farlo con un qualsiasi essere vivente non ha più importanza, la prima volta è stata con un professore, a volte mi sento una prostituta, poi penso che - le lacrime cominciarono nuovamente a scendere - poi penso che l’ho fatto per divenire qualcuna, come si dice…il fine giustifica i mezzi - mi guardava in attesa di una parola che potesse confortarla, non sapevo cosa dirle, la tenni stretta sino all’alba. Mandammo giù ancora qualche sorso con il sole che nasceva in cielo, raccogliemmo i resti di noi stessi e ci incamminammo in silenzio verso il suo hotel, la pelliccia la regalò ad una vecchia infreddolita che incontrammo per strada, la coprii con il mio impermeabile e la tenni stretta a me, ci lasciammo davanti l’entrata, mi guardò con gli occhi neri, il trucco un po’ sbavato agli angoli - sai perché mi piaci - disse sottovoce - si, me l’hai detto - sorrise e mi regalò un bacio sulle labbra. La vidi sparire tra le porte dell’hotel, all’entrata la accolsero milioni di persone disposte ad offrire se stessi, lei si concedeva cullata dai loro desideri, consapevole che non sarebbero durati per sempre. Io chiamai un taxi, crollai sul sedile ripensando a lei, presi la bottiglia dalla tasca, ancora un sorso posato sul fondo, svitai il tappo e svuotai quel sorso sull’asfalto. L’intervista a quella che mi si era presentata nelle spoglie di una dea, si era trasformata nella silenziosa confessione di un cuore in sordina.

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UN VIAGGIO

Nonostante fosse metà Ottobre, un sole prematuro facea ribollire l’aria dei vagoni in cui stipati esalavano respiri affannati viandanti avvolti da cappotti e sciarpe di lana. Terminata lezione Italo aveva imboccato la strada per la stazione a o spedito, con l’augurio di giungere qualche istante in anticipo, speranzoso di scorgere tra la moltitudine di corpi un posto libero. Voci ed ogni sorta di suono, cupo o acuto che fosse, riecheggiava nell’immenso edificio, fondendosi in un lungo ed instancabile brusio e talvolta un orrendo contorcersi di ferri rompeva la nenia infernale con ferocia, cogliendo di sorpresa bambini e cuori lievi. Il treno immobile aveva le porte spalancate, innanzi alle quali sfilavano pensatori, commessi viaggiatori, prostitute d’alto bordo ed ancora una corrente di visi e sguardi inimmaginabile che dopo un lungo pensare, senza aver scorto un miraggio di speranza, giungeva all’agognata decisione d’entrarvi e sostare nell’anticamera di lamiere; un’antinferno Dantesco, ove una targa impressa a fuoco diceva “non poggiarsi alle porte quando il treno è in movimento”, ed uno dei tanti Minosse in divisa e cappellino spingeva i corpi in avanzo, strizzandosi i baffi mefitici, nei gironi appestati. L’odore di grasso lungo i binari mestato al piscio ed i residui corporei di gabbiani e piccioni si legava alla gola, alla voce, Italo tossì ed una lacrima di saliva cadde tra le spighe rossicce cresciute appena sul mento, una macchiolina di fumo, di metà toscano, si levò nel riflesso marmoreo - ciao, sono di S.Patrignano, avresti qualche spicciolo per il biglietto? - la voce rotta da un singhiozzo silenzioso si adattava bene al viso scavato, alle occhiaie segnate da carbone, le labbra tumide e straziate dai morsi dell’astinenza, le mani ossute stringevano un anellino appeso al lobo dell’orecchio, simulando un pudico senso di vergogna, un innocente imbarazzo per il disturbo arrecato - ecco, ho solo questi… - un sorriso famelico e l’occhio sognante una dose, un’ultima dose - oh, qua non si smendica…è zona mia…- una minuscola macchia scura, dalle trecce bruciate dal grasso, da tormente gelate, il ghigno malefico, l’occhio

rabbioso - come? che dici? - si fa avanti e lo spinge, i suoi occhi sembrano già pregustare il bottino e la dolce goccia d’eroina, Italo si fa avanti senza prestare attenzione, la sua azione si è compiuta, soffrano loro per le proprie storie, alle sue spalle una lama brilla nello specchio dorato. I corpi issati nel vagone, stipati l’uno su l’altro come ruvide casse incastrate in insignificanti tranci di pavimento, agognavano in quella terrificante stretta un respiro di flebile purezza, nei loro occhi la speranza ed il desiderio di giungere salvi sino alla riva opposta. Il corpo lasso, grondante gocciole bollenti, si posò lungo l’asta che attraversava nella sua verticale lunghezza quello spazio angusto adibito ad ascesa e rovinosa discesa, posò lo zaino su d’un tappeto di plastica lurida ed agognò un po’ di pace nella mano che brandiva un velo di carta. Scrutò il brivido orizzonte di lamiera, gli occhi si mossero di nascosto alle spalle dei filamenti oscuri appiccicati alla fronte, altri corpi, altri sorrisi inebetiti da dolori lungo le schiene curve, cadaveri posati “comodamente” su mensole emergenti dalle pareti accaldate; una ragazza, un ragazzo immersi in una spensierata discussione, l’irreale favella parea dimentica del luogo in cui si teneva il controverso dibattito, un deprimente inferno, un cubo di latta in cui i corpi venivano abbandonati a macerare nel sudore stillato lentamente dalla pelle; al suo fianco una donna, sacche di plastica le cingevano i piedi puntuti, di tanto in tanto le mani sgraziate ne pescavano una custodia rigida d’un Cd, lo osservava voltandolo infinite volte, strappava con leggerezza un filo della plastica trasparente che lo custodiva e poi ancora una volta giù nell’opprimente bollore della busta, sino a quando magicamente ancora una volta era tra le sua dita; ed ecco il termine ultimo, alle sue spalle due vegli gobbuti, posati pesantemente sulle proprie vite che sospiravano amarezza e dolori reumatici, il caldo opprimeva le sillabe appena pronunciate, la vita sembrava scemare tra le loro labbra - tutto sommato… - pensò tra se - non ci sono così tante persone… -. Il tempo avanzò lentamente, il sole sembrava trascurare il resto del mondo ostinandosi sulle lamiere ormai disciolte in un lago rugginoso di vernice, eppure restava immobile, ritto sulle proprie gambe, non pensava ad altro Italo ,tanto…,- pensava tra se -,ben presto i vagoni si vuoteranno ad ogni stazione…,il pensiero d’aver presto un posto su cui sedere non sembrava più un sogno irreale, non tardi si sarebbe avverato. Ormai l’aria era irrespirabile, il calore attanagliava i corpi, i più fortunati si erano

liberati degli indumenti che ingombravano respiri scorgendo un breve attimo di refrigerio, per gli altri la sorte aveva riservato destino ben più crudele. Un lezzo curioso cominciarono ad emanare i corpi impietosi e ad aggravare il tutto una eggera novella. Si sistemò ritta su lunghe gambe di cuoio reggenti una schiena impeccabile, il sottile profilo da cigno siberiano, da ballerina russa, si adagiò al suo fianco; il suo profumo dolciastro di frutti di bosco, l’odore dei corpi a macerare mescendosi nell’aria bollente in un acido tepore, appestò l’intero antinferno e le stremate narici persero le ultime gocce di dignità. Era al suo fianco, poteva intravedere il lungo collo bruno nascosto dalla distesa di capelli neri che lambivano senza sosta la linea delle spalle; il viso puntuto, un dolce velo d’abbronzatura, era illuminato da due splendenti nocciole interrate dal naso arricciato ai cui piedi le labbra disegnate di rosso che mostrava con insolenza. Guardava la figura al suo fianco, quella bellezza difesa da uno spesso strato d’indifferenza che attirava a se i timidi sguardi nocivi degli uomini presenti; avrebbe desiderato conoscere il corso dei suoi pensieri - forse… ripeteva tra se - o forse… - ed ogni parola gli sembrava sempre più distante dalla realtà; pensava, forse, alle parole sussurrate che rendevano così sporco il suo corpo? immaginava forse i commenti che sarebbero stati espressi nell’istante preciso in cui si fosse dissolta tra le macchie di persone; ed il fastidio provato a sentire gli occhi sudici di voglie? o forse no, una ballerina, la consapevolezza di se stessa, gli occhi stretti sulla propria pelle, il suo corpo, uno scettro con il quale controllare i celati desideri e condurli alla follia. E lungo il crinale di quel pensiero, la minuscola anticamera fu invasa da una flottiglia di corpi che traversò le brevi interruzioni degli altri eggeri; quando la furia scemò ancora un breve silenzioso respiro fuggì dalle labbra asfittiche, la coppia ingiuriò l’ombra funesta che aveva calpestato i bagagli insignificanti, i due vegliardi ne maledivano altri per averli spinti lungo le lamiere roventi, mentre gli occhi della ballerina accarezzavano l’idea d’un infinito, stretta nel suo barlume di tranquillità, con le cuffiette nascoste tra i filamenti oscuri a sussurrarle dolcezze di parole. E finalmente udirono il suono premonitore, presto si sarebbero ritrovati, vele spiegate, lungo un corso di basalto unto di grasso. Un singhiozzo di ferri, i cadaveri da una forza inesistente spinti lungo la “direzione”, la porta dell’eterna pena ancora spalancata, scrutò lungo il pavimento scuro incastonato di cicche e brandelli di zoccoli, ed ecco uomini in completi scuri, che sino a qualche istante precedente avevano tenuto comportamenti impeccabili, correre con le loro

ventiquattr’ore sotto braccio imprecando a cieli e binari, madri trascinare per gli arti insignificanti i pargoli, che invano tentavano di mantenere il o claudicante ed infine ancora urla e vaghi rumori d’ossa in frantumi. Fu in quell’istante, le porte iniziarono un vibrante scricchiolio nell’imibilità bollente dei presenti, due figure si intrufolarono nell’anticamera: il treno si spinse oltre la sponda grigia affollata d’ombre penose. - scusa che me fai assede… - un volgare assolo della sua voce rauca, una delle ragazze si fece largo tra le anime in pena, uno dei balbuzienti vegli scostò il bastone carnale su cui si posava affannoso e lei cadde pesantemente su d’un gradino di lamiera, un sospiro narcotizzante esplose dalle labbra lascive, l’altra silenziosamente posò le mani candide sull’appiglio stremato dalle prese umidicce. Il bollore soffocante corrompeva i corpi, rivoli di sale bagnato scivolavano per i crinali stremati dalla sofferta condizione colta negli sguardi che pareano masticare brevi grida di disperazione e poi un bagliore di speranza da l’antro infernale, la tentazione giungeva fresca e odorosa di rose. I corpi aderivano l’un l’atro come tanti tasselli senza potersi muovere e così un braccio aguzzo premeva con insistente inconsapevolezza nel suo fianco, Italo vide l’ultima figura entrata nel treno tenersi stretta a se. E finalmente il preannuncio d’una sosta per i dolenti peregrini, l’incedere singhiozzante, le grida scintillanti dei metalli a contatto, plastica bruciata e benzene aromatico e fu la nausea a mordere la bocca dello stomaco, i eggeri deglutirono all’unisono sfiorandosi le fronti su cui bruciavano perle d’amianto; le porte si aprirono, un sospiro si levò nell’anticamera, “aria, aria fresca” pensò tra se Italo saziando la propria fame inconsistente ed infine una masnada d’ombre fuggì dai gironi senza chieder permesso. “Ed eccoci ancora in viaggio”, le parole risuonarono tra le tempie apite. I vagoni pareano ormai librarsi tra terre desolate e crinali piangenti, la breve boccata d’aria aveva rincuorato le anime oramai non più stipate come vecchi bauli, Italo si voltò e cercò l’essere che sino ad allora aveva tormentato il suo “povero” rene. Filamenti d’oro colavano al suo fianco lambendo le linee celate da lunghe piume bianche che cadevano giù sino al pavimento. Ambì alla perfezione, cercò il suo

viso “chissà…” le parole, le sue parole risuonavano interrogative nella mente, ma poi i eggeri lo attrassero a loro, un ragazzo seduto su d’un seggiolino si era impelagato in un discorso spericolato con uno dei vegli: - e nuove generazioni ed i loro comportamenti “Vi mancano i valori…- asseriva il vegliardo curvo su d’un raggio di luce, il ragazzo attendeva l’istante per poter replicare alle parole spente e la coppietta tutte baci ed effusioni celati dalle crine scure di lei, mentre il suo amore le massaggiava il seno canuto, mentre il capezzolo granitico spuntava dal tessuto sanguigno “si saranno accorti di destare attenzione…”, la donna aveva tra le mani il suo CD su cui fiero svettava il viso tristemente noto del defunto Mickey Mouse, sorrideva e mentre lo faceva carezzava il ventre, le labbra rossicce si impressero nello sguardo immoto “avrà pensato al nome? è certa di ciò che sta per fare? ancora un innocente gettato nella brace…chissà se al momento della rivelazione si era sentita pronta ad amare l’esserino che violentemente cresceva in se, le mamme sanno d’esser pesanti? ” La donna si accorse degli occhi di Italo e sorrise ancora ed un sottotitolo scandì il movimento rosso sangue “sono io, sto per dar vita a mio figlio, gioite genti, gioisci universo tutto…” non poté che non rispondere con un sorriso sbiadito e quando la donna si accorse del suo sguardo insistente si chiuse in un lungo pensare. Ed ora l’immagine accigliata della futura “Vergine” svanì, nei suoi occhi l’ombra affusolata della ballerina con lo sguardo perso chissà dove oltre le lamiere roventi “che strano essere, cosa starà fissando…” pensò tra se cercando una risposta, avrebbe desiderato interrogarla su ogni proprio pensiero “a cosa pensi?” e la sua mente continuò a colmarsi di riposte sempre più vaghe e scontate “l’inutilità dei tuoi studi, oppure, stai ritornando dai tuoi genitori perché il tuo lui ti ha lasciata”, le storie sembravano ormai affollare e devastare ogni sua cellula cerebrale, per quanto si fosse sforzato di pensare non avrebbe mai conosciuto il profondo di lei: sola tra la folla. Poi Italo si accorse che la figura che aveva tormentato il suo fianco si era appena voltata ed in quel preciso istante svanirono coppie tubanti, vecchi cinguettanti, mamme carezzevoli, ballerine, lamiere bollenti, sospiri dolorosi, i suoi occhi furono rapiti dalla “natura bella”. Occhi di cielo terso scrutavano oltre l’orizzonte dei corpi, filamenti di seta impreziosita d’oro scendevano con leggerezza lungo il corpo, il viso di bianco marmo incastonato di un dolce sorriso sanguigno, avorio risplendeva tra le

labbra schiuse, rapita chissà da cosa, chissà dove, la malinconia della ballerina, inesistente, placido il respiro che sapea di more. - ciao… - le labbra di Italo si schio per un sospiro, ma come sospinta dal breve corso d’aria, appena un sussurro si librò sul viso puntuto, lei lo guardò senza capire. I loro occhi si incontrarono e i denti incisero sulle labbra un silenzioso imbarazzo, un impercettibile movimento della pupilla scura, il cuore in preda allo spasimo sparviero.

Silenzio, si scrutavano, Italo avrebbe desiderato volgere gli occhi al pavimento sudicio “cosa hai fatto? perché?” le parole risuonavano con violenza nella testa cercando invano una risposta e pregando che al più presto lei rivolgesse gli occhi, non importava dove, ma lontano dai suoi; e poi come se le sue preghiere fossero state udite, lei smise di fissarlo; un sospiro di sollievo varcò il segno ingiallito delle narici, - ciao… - e poi un colpo basso, sferrato a freddo dalle alte sfere, la parola fu sussurrata con delicata dolcezza. L’imbarazzo sparì e poi giunse ancora, indugiò lungo la linea dei suoi capelli, i suoi occhi erano posi su d’un anello incastonato di pietrine verdi per poi voltarsi ancora negli occhi di lei - ciao… - il cuore immerso in un magma di piacere serafino, ricambiò ancora e nuovamente lui e poi sorrisero e sulle gote bianche le fossette abbracciarono le labbra sottili - non siamo destinati a salutarci all’infinito - sorrise ancora e con un dito scostò i capelli dagli occhi. Era bello vederla sorridere, gli occhi si irradiavano di luce, come baciata dal sole, un delicato librar di ciglia, rondinelle nella primavera del suo viso, Italo percepì un palpito irregolare e riuscì a stento a respirare, avrebbe desiderato stringerla a sé e schiudere le labbra sulle sue, l’immagine nei suoi occhi, un sogno, un desiderio chiaro e dolorosamente dolce. - fa caldo, vero? - avrebbe desiderato dirle altro, ma vinto dalla timidezza le parole uscirono atone, insignificanti, lei rispose con un cenno del capo, sorridendo, come accortasi del tremendo imbarazzo; avrà forse pensato che si trattasse del solito scocciatore e del suo patetico tentativo di conquista, forse ciò che voleva era liberarsi al più presto di lui, eppure si accorse che i suoi occhi erano attenti ad ogni proprio movimento, anche quando levava il polso a sé per accertarsi del dato temporale, anche se cercava di celare quella attenzione dietro

un’irreale casualità. Accadde qualcosa, le mani si sfiorarono, una carezza appena percepibile, qualcun altro non vi avrebbe prestato attenzione, i loro occhi si specchiarono ed un timido velo vermiglio tinse di rosso le pelli tremanti. La mano di Italo si mosse lentamente sino a giungere a lei, non fece resistenza alcuna, parve come se attendesse da tempo ormai le dita sconosciute. Il cuore batteva urlando di terrore, non una parola, come sospinti da ignorata magia furono vicini, provarono l’esistenza dell’altro, gli odori della pelle, i ritmi irregolari dei respiri. In silenzio si baciarono, le labbra si schio come boccioli tinti di rugiada ed i presenti silenziosi apivano nei loro sguardi curiosi. Un doloroso singhiozzo del vagone annunciò la prossima sosta. Gli occhi di lei guardavano l’infinito ad un o dai vetri macchiati, Italo mirava la ragazza al suo fianco che si teneva al suo stesso appoggio, per un istante si sentì smarrito, la certezza svanì, tutto era stato un misero sogno ad occhi aperti, un desiderio succube d’una fervida immaginazione. Il viaggio proseguì con i suoi ritmi incandescenti, ma tutto parea perder d’importanza, Italo non poteva fare a meno di ripensare a quel sogno così dolce: “Amore?” si chiedeva senza darsi risposta. Il treno rallentò tossendo brusche frenate, le porte si aprirono ed i eggeri sembrarono profittare d’un istante di distrazione per fuggire dalla amara prigionia, le voci empirono le pareti di metallo, con colpi sferrati alla cieca si fecero largo, lei ormai era sulla soglia impolverata quando si voltò per un istante ed i loro occhi ancora una volta si sfiorarono ”non posso…” pensò tra se, non avrebbe potuto, non avrebbe dovuto perdere lo specchio di quell’anima silenziosa che lo aveva banalmente rapito. Sfuggì alle lamiere contorte facendosi spazio tra le anime in pena a suon di calci, si trovò nella minuscola stazione, cercò la figura tra la folla che sfilava lentamente sul dolce asfalto e poi “eccola lì…” lenta procedeva in silenzio, Italo la raggiunse e con il cuore tra le sue mani la trattenne - cosa c’è…- disse con voce turbata - se confesso d’essere innamorato di te, mi credi? Ho sognato di stringerti, di baciarti, non so il perché, non so il come, non voglio neppure saperlo…io ti amo…- la voce rotta dal respiro affannato, una lacrima le levigò il viso - come ti chiami? - sorrise - Italo… - lei strinse a se le sue mani, sembrò cogliere un dolce ricordo, chiuse gli occhi - se dico di amarti, mi credi? - si guardarono e sorrisero baciandosi senza alcun pudore - come ti chiami? - la voce d’Italo ruppe il silenzio

- Lisa… - la strinse a se - Lisa, io ti amo… -. - Ti amo… - la voce ruppe il silenzio dell’anticamera, i eggeri con sguardo pensoso si volsero ad Italo, le porte si chio, lei era ad un o da lui, posò la mano sul vetro incrostato di polvere, i suoi occhi si volsero verso il vagone, sussurrò Italo - Ti amo… - sembrò percepire la parola creata per lei e non ne fu scossa.

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SOLO UN CASO

Nel cielo una nuvola minacciava i anti con gli occhi grevi di pianto, lui la guardava sperando che trattenesse le lacrime sino all’arrivo dell’autobus, una goccia gelata gli precipitò proprio sulla punta del naso, la guardò e rabbrividì all’idea di non aver portato con sé un ombrello. Clara lo aveva lasciato sul tavolo, vicino la tazza del caffelatte , ma lui non aveva battuto ciglio ed era andato via senza salutare, non era un “bel periodo” tra loro, così diceva agli amici che chiedevano “e Clara?!?”; abitavano insieme perché non sapevano dove andare, lui non avrebbe mai accettato l’idea di ritornare dai suoi, lei, sperava ancora; tre anni di convivenza erano tanti, in cuor suo lo amava come il primo giorno, ma percepiva il suo distacco, così lasciavano che quella storia, la loro storia, naufragasse lentamente, senza virate improvvise, come in balia d’una corrente inconsistente. Maledì il comune, le associazioni per i consumatori, tutti quelli che avrebbero dovuto montare una “misera pensilina” sotto cui potersi riparare. Presentarsi ad un appuntamento fradicio dalla punta dei capelli alle scarpe non era una cosa piacevole, aveva sempre creduto che l’aspetto influisse sulle scelte delle persone, come per un venditore, anche per lui, e sin dal suo primo incontro con un editore aveva prestato particolare attenzione alla cura della sua immagine. Quello non si trattava d’un incontro con un editore, ma qualcosa di più particolare di cui non conosceva nulla, neppure ciò che lo aveva spinto sino a quella fermata umida. Era accaduto tutto per caso, era dal barbiere, in uno di quei giorni in cui non si ha nulla da fare, aveva consegnato da poco le bozze dell’ultimo libro, era seduto su d’una poltrona, in silenzio, godendosi quel dolce far niente in attesa che giungesse il proprio turno. Senza il ben che minimo interesse aveva tratto dalla catasta di riviste, gettate su d’un tavolino, una settimana enigmistica ed aveva cominciato a sfogliare le pagine ruvide, quando, tra cruciverba incompiuti e puntini colorati da mani inabili, la sua attenzione era stata catturata da un nome segnato in grassetto alle pendici del titolo d’un racconto. Aveva riconosciuto quel cognome che seguiva il nome quasi anonimo, privo di

interesse, Laura, un nome che non gli diceva nulla, che non lo emozionava, che non lo interessava, a cui non avrebbe prestato attenzione se non fosse stato accompagnato da quel segno; quel cognome lo conosceva bene, molto bene, lo aveva pronunciato il primo giorno di scuola con la vocina rotta dall’emozione mista alla paura dell’ignoto, alle presentazioni, era stampato in caratteri larghi un dito sulle copertine dei libri, lo aveva scritto sui quaderni dei suoi appunti sin da quando aveva scoperto l’uso della penna: era il suo cognome. Certo, un cognome lo si può trovare ovunque, in ufficio, in tram, ma la cosa che lo incuriosì era che una donna con il suo stesso cognome pubblicasse racconti, ed allora, ridestato dal torpore che lo aveva avvolto sino a quel preciso istante, si immerse nella storia di un vecchio marinaio accusato di pedofilia, “ci vuole coraggio a pubblicare una cosa del genere su d’una settimana enigmistica!” pensò tra sé mentre il barbiere lo esortava ad accomodarsi sulla poltrona.

Aveva un sorriso ebete stirato sul volto, l’autobus procedeva a rilento nel traffico congestionato a causa della pioggia, pensava a cosa le avrebbe risposto se lei avesse chiesto “cosa l’ha spinta a contattarmi?!?” non lo sapeva, non sapeva cosa lo avesse spinto a quell’azione affrettata. Clara, il pomeriggio della scoperta, lo aveva visto rientrare a o spiegato con l’identico sorriso, aveva chiesto cosa fosse accaduto e cosa cercasse sull’elenco del telefono “affari!” la congedò frettolosamente, mentre su un taccuino annotava l’oggetto dei suoi interessi. Clara! Amava Clara, la guardava in silenzio dormire, adorava il suo modo di rigirarsi tra le lenzuola tiepide e le sue dita che lo cercavano nel sonno, anche ora, che non eran capaci di dirsi “Ti amo!”. Una breve lettera aveva preso forma su d’un foglio bianco, poche parole, l’espressione d’un desiderio seguito da una breve presentazione, tutto qui, Clara lo guardava con un sorriso crucciato da un pensiero, preparava il caffè, aveva il pigiama a righe, blu, verde, giallo, rosso, lo avevano scelto assieme, lo aveva indossato la prima notte ata con lui in quella casa, nel loro letto, era felice, erano felici; ora aveva l’aria stanca, di chi desidera esplodere con tutto lo schifo che si porta dentro, decisa a ricominciare una vita nuova priva di ricordi che feriscano; lo

osservava fare colazione, aveva lasciato l’ombrello accanto alla tazza vuota, non aveva chiesto più nulla su ciò che stesse combinando e quando lui le si era presentato dicendo “parto!” non aveva replicato. Aveva gli occhi lividi di sonno, i pensieri si erano raggrumati sull’immagine silenziosa di Clara, cosa fosse accaduto lo ignorava “i soldi? Le assenze? Cosa?!?” non sapeva darsi una risposta, guardava la città che si scioglieva in macerie sotto la pioggia incalzante, ed il pensiero era per lei.

Tante volte, prima della partenza, aveva cercato di dare un volto a quel nome, si chiedeva se fosse vecchia, un’ audace anziana scrittrice che riempiva i suoi giorni inventando storie; oppure una giovane studentessa di Filosofia che pagava i suoi studi con la carta stampata, sognando una vera pubblicazione. Aveva optato per una gentile vecchietta dal sorriso alcalino che aveva dato inizio alla propria carriera di scrittrice inventando favole per i suoi nipoti. Non si aspettava di ritrovare un parente disperso, aveva fatto una ricerca sul proprio cognome constatando che pochi godevano di quello che lui non esitava a definire privilegio; ciò che lo spingeva era curiosità farcita da un inconsapevole desiderio di fuggire, anche per poco, dalla vita che lo stava riducendo in lacrime. “appena la incontro telefono a Clara” aveva una giacca di velluto a costine, la camicia a righe stirata di fresco, il profumo agli agrumi, gelido ed aspro, il ricordo d’un brivido estivo, ed una coppola calata sul viso. Con l’indice si sfiorava i baffi scuri, li aveva fatti crescere alla pubblicazione del primo libro e non gli aveva più tagliati, con gli amici si giustificava dicendo che lo facevano sentire “tanto scrittore impegnato” o “ tanto inglese” in realtà non ne aveva il coraggio perché temeva di non riconoscersi più. Si sentiva pronto per quell’incontro, non aveva dormito la notte in preda all’eccitazione, ma non importava, perché non troppo tempo sarebbe trascorso dal concludersi di quella storia. Aveva con se il suo libro, in copertina era inciso il suo nome in caratteri gotici, non aveva mai concepito la scelta della casa editrice “il tuo libro è un mistero, il gotico è il carattere più misterioso” ripensò alle parole del suo editore e sorrise. La lettera di risposta giunse poche settimane dopo, quando la trovò sulla sua

scrivania urlò di gioia, la scartò in preda al panico, un senso d’eccitazione e paura lo colse, lesse lentamente ad alta voce la breve frase “felice di incontrarla la aspetterò per colazione il 23 settembre al Cristal in Via dei Cristalli 16. Laura” poche parole che lo colmarono di gioia. L’autobus lo lasciò alla fermata riportata nella lettera, un’insegna luminosa parve attenderlo; il Cristal distava poche centinaia di metri, divorò l’asfalto che lo divideva da quel mistero a o levato, la pioggia cadeva insistentemente, raccogliendosi tra le pieghe della giacca, tra le dita pallide d’emozione che sfregava contro il tessuto umido per scaldarle. Entrò, un breve tepore si intromise tra i tessuti umidi, pronunciò il suo nome, il barista, un vecchio dai baffi giallognoli indicò un tavolo illuminato da un lume rossastro - quello è il tavolo prenotato, ma la signora dev’essere in ritardo… - “la signora” pensò tra se “allora è una dolce nonnina” continuò, si accomodò in silenzio, cercando le parole che avrebbe dovuto pronunciare al suo arrivo, dopo pochi tentativi giunse alla conclusione “buongiorno, è un vero piacere conoscerla signora, mi spiace di importunarla ma …” ed avrebbe continuato così. Il tempo ava e lui attendeva in religioso silenzio vagando tra i tavoli e le copertine di riviste appese al muro, Times, Panorama, L’Europeo e fu proprio su una di queste che riconobbe quel nome “una stimata frequentatrice del locale!” sentenziò tra se. - cosa le servo signore?!? - una giovane cameriera era al suo fianco, un sorriso fresco le tingeva il viso di rosa, i capelli raccolti le cadevano in una lunga treccia dietro le spalle - nulla, la ringrazio… - rispose riprendendo la lettura del racconto da cui tutto aveva avuto origine - aspetta qualcuno?!? - annuì - vedo che legge un racconto di Laura … - levò il capo - lei la conosce? - stretta nelle spalle fece di si con il capo - qui la conoscono tutti! - ne fu meravigliato - e sa dirmi com’è? - sorrise - è curioso! Mi dica, le piace come scrive? - aveva atteso quella domanda, ma non da una cameriera - certo, ha uno stile delicato, sotto alcuni punti di vista ricorda il mio… - una chiamata da un altro tavolo e la cameriera curiosa fuggì via. L’attesa si prolungò, ma non aveva alcuna intenzione di andare via, ordinò un cappuccino e lavorò ad un racconto - anche lei scrive?!? - la ragazza era seduta al suo fianco, ne fu sbalordito

- mi dica, ma cosa la spinge ad attendere una persona che probabilmente non giungerà mai? - non lo sapeva, attendeva quella domanda, ma la risposta si perdeva nel silenzio dei suoi pensieri - non lo so! - sorrise - come fa’ a non sapere una cosa del genere? - pensò che a molte cose non sapeva dare risposte, alla paura del buio, al piacere del caffè, ai sogni, ai silenzi che lo avevano allontanato da Clara e fu in quel momento che ne sentì la crescente nostalgia, provò il desiderio di dirle “Ti amo!” il bisogno di averla accanto, all’amore che provava per lei - è innamorato? - la cameriera aveva tra le dita un frammento di croissant, vagò con gli occhi oltre e tornò a lei, che attendeva d’esser stretta, attendeva solo d’esser amata - lei ha fatto un lungo viaggio per conoscere una persona che forse non verrà mai, che per un puro caso condivide con lei lo stesso cognome, lasciando che la nebbia dell’inconsapevolezza avvolgesse la sua vita… perché? - e la guardò, aveva gli occhi azzurri, pochi anni dividevano le loro vite - lei?!? - annuì - una studentessa di Filosofia! - fece di no con il capo - una cameriera a cui piace raccontare storie - si scambiarono un sorriso - un mistero svelato! - fece di no con il capo - sveli il mistero che la tormenta, non vale a nulla fuggire… - ed andò via.

Clara era bella, il colore degli occhi risaltato dal tocco leggero d’una matita lilla, i ricci sospesi sulle spalle, le si avvicinò e la strinse, aveva dimenticato l’odore della sua pelle, del suo alito, aveva lasciato che l’indifferenza li conducesse lontani, lei non avrebbe atteso ancora allungo, i suoi occhi si empirono di lacrime di smeraldo, fu come stringerla per la prima volta, sentirne il muto desiderio crescere sino alla perdita dei sensi. Fu come fare l’amore per la prima volta, tra la paura e l’imbarazzo di non sapere cosa fare, il silenzio della notte li avvolse e lui pianse a vederla sonnecchiare tranquilla al suo fianco, movendosi di tanto in tanto alla ricerca del suo corpo, le accarezzò i capelli ed in silenzio si lasciò stringere scivolando tra le braccia, odorose di rugiada, della notte.

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LACRIME D’ANGELI

Era ato l’ultimo pulman delle 6:30, Antonio l’aveva perso e non ne sarebbero ati altri. - Cazzo!!! - esclamò calciando un sasso davanti la fermata deserta - oggi devo andare assolutamente a scuola… - continuò pensando tra sé e sé abbandonandosi ad una vecchia panchina verde in doghe d’acciaio infinitamente ricoperte di scritte multicolori. Appoggiò pesantemente il suo fondoschiena di jeans all’estremità esterna, per via dell’enorme zaino sulle piccole spalle ingobbite dal peso. Appoggiò i gomiti sulle ginocchia ed incastrò tra due lunghe mani il viso dalle curve delicate su cui si vedevano spuntare i primi accenni di barba, rivolgendo lo sguardo alla campagna che perdeva i propri confini oltre la nebbia. Posò lo sguardo su un letto di foglie secche che riposavano docilmente lungo il ciglio della strada, levò il capo e rimirò i rami ormai spogli degli alberi che si perdevano nel vuoto lattiginoso del cielo - non li ho mai notati prima… - si rivolse a se stesso come ad un altro interlocutore e dalla punta dell’albero più alto scrutò il cielo rabbioso che si preparava a vuotare il contenuto delle proprie vesciche sulla terra - devo pensare qualcosa… - disse continuando a scrutare il cielo con preoccupazione. Scostò un ciuffo di capelli dagli occhi e cercò oltre l’infinito della strada la sagoma di un’automobile in arrivo: nulla. Si mise in cammino in direzione del paese, sostando di tanto in tanto per far riposare le spalle su cui gravava il peso dello zaino. Gocciole solitarie cominciarono a cadere sui suoi capelli, Antonio maledì il cielo incontinente e cercò di aumentare il ritmo del proprio o. Corse sotto una quercia per cercare riparo, da lì scrutò tutto intorno, nella speranza di trovare qualche abitazione dove chiedere aiuto. Nonostante avesse percorso, con l’autobus, quella strada ogni giorno, non aveva mai notato il

paesaggio che ora gli si era presentato in tutta la sua malinconica bellezza, lunghe distese di prati verdi sfiorate da filari di nebbia che lasciavano a malapena intravedere l’orizzonte, tristi alberi grigi senza più foglie, curvi sulla loro vecchiaia, che si lasciavano sopraffare dalla nebbia del tempo, fu così che cavò dallo zaino la sua macchina fotografica ed immortalò quel paesaggio dai tratti malinconici. Fu nel preciso istante che scattò la fotografia alla vecchia quercia che scrutò nella nebbia un’abitazione, non perse tempo a porsi domande, ben presto si ritrovò a correre lungo un viale bianco volteggiando tra pozzanghere oscure, ciuffi d’erba viscida, e fango. E finalmente la lunga fatica fu premiata. La casupola di legno si ergeva dinanzi i suoi occhi, su cui piovevano gocce gelate, piegata su se stessa dava l’impressione di essere totalmente abbandonata all’umore del tempo, creste di vernice bianca volavano via ad ogni sospiro del vento, accompagnate dal lento cigolio di una zanzariera e dalle dolci note della pioggia. Tra le falde del tetto, faceva capolino il viso pallido d’un vecchio comignolo, da cui spuntava un timido fumo bianco che perdeva la propria consistenza nel cielo lattiginoso. Tutto dava l’impressione d’una irreale immobilità, basti pensare che l’unico cenno di vita era il lento cullare d’un dondolo sulla veranda.

Si fece avanti in silenzio, scostò la vecchia zanzariera e colpì con decisione il portone, bianco, il colpo vigoroso fece volar via altri frammenti di vernice, i colpi risuonarono in silenzio senza disturbare il sonno di un gatto grigio arrotolato su se stesso ai piedi d’un vaso in ceramica. Attese di fronte il portone una risposta che non giunse. La delusione fu amara, la speranza di trovare un luogo asciutto dove riposare e perché no, un bicchiere di latte caldo, si infranse in quel silenzio assordante. Era in procinto di riprender la strada del ritorno quando l’inconfondibile schiocco di una serratura lo ritirò a sé - Posso esserti utile? - ruppe il silenzio una voce di fanciulla, Antonio si voltò, uno strano calore salì dalle viscere sino al cuore e quando l’immagine si materializzo nei suoi occhi, un lieve mancamento lo colse, la giovane donna era sul portone, un lieve sorriso increspava il volto d’un magico candore, incastonato tra lunghi filamenti rossi che ricadevano oltre le spalle perlacee lungo i fianchi fasciati da una vestaglia di seta. Le parole uscirono a sento dalle

labbra di Antonio - non mi risulta che sia qui la fermata dell’autobus… - disse la ragazza sorridente indicando un punto preciso sulla strada. - Lo so… in effetti la fermata è alcuni chilometri prima, però avevo deciso di andare a piedi, però il cielo è stato inclemente… ha iniziato a piovere… - rispose Antonio - non potrei chiamare qualcuno con il suo telefono? - la donna annuì - certamente, seguimi… - detto ciò si voltò. La donna fece strada lungo il corridoio oscuro, lontano si sentiva l’eco stonato dei tuoni che si facevano avanti con sempre più veemenza. Antonio si ritrovò in un corridoio fiocamente illuminato da una lampada poggiata su di un tavolino, di fronte si vedeva salire una scala bianca che conduceva al piano superiore - il telefono è lì nel salone… - disse la giovane donna, Antonio si voltò per ringraziare, ma di lei neppure l’ombra; si diresse lentamente nella sala buia cercando di scorgerne i confini, raggiunse con difficoltà il telefono che era posto su di un vecchio tavolo scacchiera, alzò la cornetta, ma era isolato, provò più volte ma nulla, evidentemente il temporale doveva aver interrotto le comunicazioni. Gli occhi ormai abituati all’oscurità furono capaci di distinguere piccoli oggetti disposti in ordine maniacale su tavolini e lunghe mensole, poco lontano da lui riuscì ad intravedere la figura, su cui si rifletteva la flebile luce della lampada, di un pianoforte verticale. Disposte su di una carta da parati a righe rosa , foto in bianco e nero di giovani uomini barbuti, bambini infangati, distese di prati incontaminati e le punte minacciose di montagne. Quel luogo sembrava essersi per un istante soffermato a ricordare il ato, tutte quelle fotografie, gli oggetti di origini e età imprecisate: tutto. Entrò in una piccola cucina, questa volta illuminata dalla luce del giorno, la giovane donna era vicino un fornello intenta a chiudere con non poca difficoltà una moca - lascia… faccio io… - e con un gesto rapido trasse tra le sue mani la piccola macchina - hai telefonato? - continuò lei, spostando con una mano la tendina della finestra per rimirare il cielo - no... è isolato il telefono… credo che dovrò andar via sotto la pioggia… - rispose Antonio mirando con i suoi grandi occhi il corpo di lei coperto dalla semitrasparenza della vestaglia.

-Se vuoi, puoi aspettare che smettano di piangere gli angeli qui… - disse invigorendo la fiamma del fornello - come?!? - credendo di non aver compreso le sue parole - che smetta di piovere… si dice che la pioggia non sia altro che le lacrime degli angeli… - spiegò lei divertita dalla reazione dell’ospite improvviso mentre adagiava il proprio corpo su di una poltrona al fianco d’un camino scoppiettante. - Ah… - fu capace di dire, perso nella mirabile visione. E poi, senza accorgersene un velo di imbarazzo spruzzò le sue gote d’un fresco vermiglio, la giovane donna lentamente lo aveva privato dei vestiti zuppi posandoli di fianco al camino. Antonio sorseggiava il caffè, stringendosi sulle spalle una coperta, non poteva credere a ciò che stava accadendo, i primi timidi sguardi avevan fatto posto al racconto della propria vita. Il liceo, gli amici, la famiglia e la fotografia, tutto svaniva nel momento in cui pigiava il pulsante per dar vita all’otturatore. Le parole fermarono il tempo, Antonio aveva la sensazione di aver parlato per ore ed ore, ma la luce parve non aver subito alcun mutamento. Fu il tempo di Diana, la sua voce parve narrare la storia di una donna sconosciuta che per la giovane età che dimostrava sembrava aver vissuto mille vite.

- Ho l’impressione che siano ate molte vite, da l’ultima volta che ho amato e sono stata amata da un uomo… - disse con malinconia, volgendo lo sguardo alla finestra, da cui si vedeva scendere dalla grondaia la pioggia sulla veranda. Antonio non seppe darsi una spiegazione a ciò che accadde, lunghi inverni parvero are nell’ora di un giorno e senza capire come, si ritrovò ad amare quella donna tra lenzuola che sapevano di pesco in fiore. Le labbra di Antonio sfioravano tremolanti la pelle di Diana che sembrava preda di un piacere dimenticato da troppo tempo ormai; quella fu la stagione delle carezze, dei dolci baci, dell’accesa ione; fu la stagione dell’amore che si consuma tra le lenzuola sino alla perdita dei sensi.

Quando si svegliarono la pioggia continuava a cadere incessante, si diedero un lungo bacio ed Antonio alla visione del suo corpo nudo, ebbe il desiderio di renderlo immortale sulla pellicola. Recuperò la macchina fotografica che aveva nello zaino e scattò. Diana si muoveva su le lenzuola sgualcite nuda, mostrando in tutta la sua bellezza il suo corpo, i perfetti seni che ricadevano a goccia, il triangolo del suo ventre formato dalle cosce, da cui spuntava timidamente una soffice peluria rossa. Antonio scattò l’ultima foto del rullino con Diana di spalle, mentre suonava il pianoforte, la lunga chioma rossa raccolta sulla spalla destra lasciava intravedere la linea perfetta del collo. Smise di piovere ed Antonio recuperò i panni asciutti, Diana coperta solo dalla camicetta pregò Antonio di restare con lei, non sembrava difficile capire che era tempo di ritornare a casa - sono innamorato di te… - disse lui sorridendo, e l’abbracciò - non lasciarmi... - rispose Diana lasciando sfuggire una lacrima che raccolsero le labbra. Le loro labbra erano un’unica cosa, i loro respiri erano fusi in uno solo e tutto intorno c’era solo il rumore del vento che continuava a spingere il dondolo ed a scrostare la vernice bianca dalle pareti in legno. Antonio si voltò e si lasciò alle spalle Diana, camminò lungo il sentiero fangoso e si voltò ancora una volta per rimirare la figura sulla porta, solo dopo molti i, ma ormai un fitto muro di nebbia impediva ai suoi occhi di scorgere le fattezze della casa. Tornò il giorno seguente, ripercorse la strada a piedi, o per o, giunse all’albero che aveva fotografato, ma con sua grande delusione, la casa non c’era più, il sentiero fangoso era sparito. Tornò i giorni successivi, ma nulla, non c’era. Si chiese se avesse sognato tutto, ma ricordò di avere il rullino, così lo portò a sviluppare dal fotografo della città. Quando ebbe le foto tra le mani, scoprì con delusione che erano tutte nere, il fotografo rise di quell’errore imperdonabile, ma Antonio non vi prestò attenzione, sfogliò le stampe velocemente finché non arrivò alla foto che aveva scattato per ultima, davanti a lui c’era la prova dell’esistenza di Diana, la creatura che aveva amato in una piccola casa in legno.

arono molte stagioni ed Antonio era ancora alla ricerca di quella casa, la sua vita non aveva più avuto alcun senso, aveva lasciato che i giorni scivolassero tra le sue dita, trascorse ogni momento a versare lacrime sotto quella quercia in attesa di rivedere la casa di legno spuntare tra la nebbia. Giunse la vecchiaia e a quell’amore fu dato nome pazzia, dalla gente. Non aveva importanza ciò che dicessero, lui aveva la prova di quell’amore, una fotografia ormai logora su cui le lacrime avevano lasciato il segno della disperazione. Finché un giorno, ripercorrendo la strada del ritorno riconobbe un sentiero infangato, lo attraversò correndo, senza badare al fango che si attaccava ai suoi pantaloni, stringendo nella mano la foto di Diana, arrivò davanti la casa in legno ed iniziò a gridare - Diana… Diana… - lacrime di sale bagnavano il volto ormai giovane, l’uscio si schiuse e vi apparve lei, nulla sembrava esser cambiato da quel giorno - cosa c’è? - disse lei sorridendo - non puoi neppure immaginare quanto io ti abbia cercato… - disse con la voce rotta dal pianto - ma se ci siamo visti solo ieri… - i loro occhi si incontrarono - ieri? - fu capace di dire, solo in quel momento si accorse che le sue mani non erano più nodose, ma erano le mani di un giovane, la pesantezza di quella vita ata a sperare si era dissolta, corse da lei, la strinse a sé e la baciò con le labbra, con i ricordi, con il dolore, con l’amore: con il cuore. - non ti lascerò più… - disse Antonio in forma di giuramento, Diana sorrise e poi si accorse che un fitto velo di nebbia scese sul sentiero impedendo agli occhi di vedere la strada - guarda… - disse Diana stringendo le mani di lui - gli angeli hanno iniziato nuovamente a piangere… - detto questo, i due si lasciarono alle spalle ciò che tutto era stato, le loro vite, vivendo nella dimensione di un presente che si chiama amore.

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UN RICORDO PARIGINO

Henrì sospirava mirando le cupole che si levavano nel cielo rossastro d’un pomeriggio di metà luglio; camminava lentamente lungo le sponde del Tevere, sull’acqua verdastra si rifletteva l’immagine dei gabbiani reali che si abbandonavano al dolce oscillare della corrente, quasi rapiti dal quel riflesso sconosciuto che si perdeva nei loro occhi. Henrì pensava a Parigi e non provava alcun segno di nostalgia, era uno scrittore, romanzi d’amore il suo genere, “il genere perfetto” ripeteva alle interviste, ma era stufo di quella città, meta ambita da sposi novelli in viaggio di nozze, vecchi desiderosi di accendere nuovamente il sentimento; “ma come, un scrittore d’amore che fugge dalla città della ione?! Che sciocchezza!” ripensava alle parole del suo editore, Gérard, lo rivedeva agitarsi dai vetri del Charles De Gaulle, supplicandolo di non partire, nei suoi occhi era svanita la speranza di un altro best sellers; per lui, Parigi era ormai un ricordo lontano che riaffiorava nei sogni come uno specchio sporco di olio, tutto qui, un’inutile accozzaglia di sentimenti urlati dalla punta bollente della Tour Eiffel, e strade e sogni infranti; il turista ritorna felice a casa propria, portando con sé il ricordo d’un sogno, si, perché per chi non è di Parigi tutto è avvolto da poesia e musica, ma per chi, a Parigi deve viverci, tutto è diverso. Ciò che più gli mancava della sua città era il suo studio, la finestra che affacciava sul sogno delle coste italiane, aveva scritto di Parigi ed aveva avuto successo, ma stanco dell’aria che respirava divorò con lo sguardo la Monnalisa e prese la decisione. Un giorno qualsiasi, si era svegliato dal lungo torpore che lo aveva ridotto all’instabilità emotiva, si era guardato nello specchio e si era detto “Henrì, questo non è più il tuo posto, da domani vivrai in Italia!” aveva telefonato al suo editore e senza attenderne risposta aveva riagganciato il ricevitore; urlando di gioia, i suoi genitori avrebbero capito, Madleine, avrebbe preso la sua decisione, sarebbe partito con o senza di lei, non importava, tutto quell’amore lo aveva reso insensibile ad ogni forma d’emozione.

Ed eccolo lì, affacciato alla balaustra di marmo d’un ponte, intento a contemplare il volo leggero d’un gabbiano in attesa di tuffare il becco nelle acque e trarne la sostanza della vita: il cibo. Un traghetto zeppo di turisti suonò la sirena, ricambiò il saluto sorridente, un tremore scosse le porte dello stomaco, il pesciolino che si dibatteva nel becco del volatile aveva mosso il desiderio di nutrimento. La sua abitazione si trovava nel cuore di Trastevere, d’angolo tra Via dei Panieri e Via del Cedro, aveva amato da subito quella casa dalla facciata di rosso stinto, coperta interamente da un fitto intrigo d’ edera da cui spuntavano l’ingresso ed una finestra al pian terreno, ed altre al piano superiore; il suo studio era stato disposto in una torretta da cui poteva ammirare la linea del cielo sfiorare i tetti Romani, contemplando per ore ed ore, le punte, le cupole, immaginando che giù, ai piedi dei palazzi, si divincolassero vicoli in cui perdersi, inebriato dai colori e dai suoni di quella nuova vita; ed infine il minuscolo giardino che si scopriva solo visitando la struttura, protetto dai muri incrostati degli altri fabbricati che incorniciavano il cielo facendone fotografie perfette. Nel frigorifero aveva acqua, vino, e pochi alimenti utili all’ora dell’aperitivo; Henrì era un ottimo cuoco, ma nel preciso istante che aveva messo piede a Roma, aveva preso la decisione di non cucinare sino a quando non avesse appreso i segreti della cucina Italiana e così ogni giorno, a pranzo ed a cena, si recava in una minuscola trattoria, chiedendo carbonare, code alla vaccinara, cicoria strascinata e pregando, infine, le padrone, dai modi grossolani, di svelargli i segreti di quei sapori traboccanti storie - e che ve devo di’ sor’ stranie’, me l’ha ‘nsegnato mi’ madre, è cosa de famija, si ve lo dico a voi, nun è più de famija… Il suo Italiano era sufficiente alla sopravvivenza in territorio straniero, aveva appreso anche i gentili modi di dire dei Romani; ricordava con un vago senso di terrore il suo primo giorno a Roma, aveva chiesto informazione ad un vecchietto che camminava in Via Nazionale e quello sorridente gli disse “ma vattela a pija nder culo!” ed andò via gesticolando, lo prese per un modo gentile di salutare e fatti pochi metri si avvicinò ad un vigile chiedendo dove si trovasse il Colosseo, avuta l’informazione ringraziò del disturbo apostrofandolo con il sorriso, come il vecchietto “come si fa a Roma!” spiegò all’agente, ma quello non ne volle saper nulla e lo multò di cento euro. Sospirava a quel ricordo e gli sembrava impossibile che fossero asti pochi

mesi dal suo arrivo, solo, senza alcun amico; ora aveva il suo bar di fiducia, i suoi vicini sessantenni trasferitisi dalla Puglia, Donna Candida che gli cucinava la pasta al forno e Er Zagaglia che gli forniva “er mijor’ vino de’ li Castelli!”. Le sue giornate le trascorreva tra eggiate e chiacchiere con i vecchi che incontrava nei vicoli, amava quel loro modo di prender confidenza, di raccontare le cose, non avevano alcun timore di uno straniero,“a Parigi” pensava tra se “non mi avrebbero rivolto la parola, poveri stupidi! Non sanno cosa si perdono!” - A Straniè che fai, venghi a giocà a 101? - era davanti il bar di Umberto, “’Mberto” lo chiamavano tutti, uno dei vecchietti aveva tra le mani il bicchiere di birra levato - no, magari più tardi! - il vecchio alzò le mani e continuò a giocare. La signora Pina stendeva i panni fuori dall’ingresso, aveva un sorriso stampato in volto che lo emozionava, vederla al mattino era vivere un giorno di pace e spensieratezza, suo marito Antonio aveva tra le mani la gazzetta dello sport; salutò con un gesto della mano, i due anziani ricambiarono cordialmente e lui si sentì pieno ed appagato. - Henrì, sua moglie è appena arrivata da Parigi - la voce della donna era piena d’eccitazione, suo marito le lanciò uno sguardo furibondo, come se avesse dovuto mantenere un segreto - mia moglie?!? - chiese, i due annuirono indicando il portone, “Madlaine!” pensò, salutò e sparì nell’ombra della casa. - Ti aspettavo! Ma non hai nulla da mangiare?- la figura affusolata di Julie si levava, su per il cielo ligneo del soffitto, dal centro della stanza - tu cosa fai qui? - sorrise - sono venuta a farti un saluto! -. Julie, diabolico scherzo della natura, tentazione di ogni tentazione, modella per gioco, attrice per noia, desiderio nascosto dell’ uomo. - che bella sorpresa! - gli si fece vicino lentamente, ondeggiando i fianchi gentili - dove mi porti, ho l’insaziabile desiderio di bere! - un bacio sfiorò le sue labbra, le salive si mischiarono, sapori si confo a sapori, il desiderio crebbe nuovamente dal fondo del corpo. Julie era stata una delle tante motivazioni per cui aveva lasciato la Francia, un Diavolo tentatore, questo l’ho già detto, ma è bene ripeterlo; Julie l’aveva incontrata in un caffè di Rue de la Verrerie, erano le 10:00 del mattino, Henri aveva tra le mani un croissant, lei stringeva un flute di champagne, la conosceva, non di persona, ovviamente, frequentava gli ambiente art-chic, ne avevano

parlato ad una mostra fotografica di un suo amico reporter, con cui aveva collaborato in Iraq, si accompagnava al figlio di un sultano, invitato speciale del senatore Piccard, camminava tra i presenti come una principessa esotica, aveva al collo una collana di diamanti i cui riflessi le bagnavano la pelle diafana sgualdrina! - sussurrò Madlaine, i presenti risero di gusto, lui ne fu affascinato. Sorseggiava lo champagne come se si fosse trattato di un caffè, il barista la guardava in preda ai più frenetici spasimi erotici, Hernri pensò che non avrebbe tardato dal chiudersi nel retro; come in preda ad un sortilegio le si fece vicino, lei lo guardò dall’alto della flute - Buongiorno, mi chiamo Henrì la Motte… - posò il cristallo sul banco lucidato di fresco - lo scrittore… vuoi scoparmi? - il barista era fermo ad un angolo e con gli occhi lo incitava ad accettare la proposta, non sapeva che dire, cosa pensare, lei si alzò e camminò sino all’uscita, prima che la porta la lasciasse sfuggire si voltò e abbandonò uno sguardo d’intesa, inutile dire che Henri la seguì, il resto è segnato da sesso, ed alcol. - vuoi scopare, prima? - sorrideva la sgualdrina a detta di Madlaine - no! rispose, lei non parve risentirsi della risposta, tutt’altro, parve divertita - portami a bere! - uscirono e percorsero le stradine sghembe di Trastevere come fai a vivere qui? - la osservò, e sorrise a vederla zoppicare, i tacchi le si incastravano tra i sanpietrini - merd… - la sentiva imprecare contro le strade di Roma e l’intera storia italiana. Si fermarono ad un’osteria, Henrì ordinò un litro di vino rosso - er mejo de’ li castelli - diceva un’insegna affissa alla parete della struttura - mi piace sentirti parlare in Italiano… - era sincera, beveva con gusto il nettare rossiccio mandando giù pezzi di salame e ricotta, poi si guardò attorno, scrutò nell’ombra, Henrì si chiese cosa stesse cercando, poi, lentamente scivolò ai suoi piedi ed il resto potete solo immaginarlo. Julie aveva un particolar modo di rinsaldare i rapporti, si, perché dopo un mese di relazione lasciò Parigi senza dir nulla, Henrì non aveva avuto il coraggio di cercarla, sentì pronunciare il suo nome ad una di quelle raccolte di beneficenza che organizzava la sua casa editrice “è in Sud Africa a fare un servizio fotografico” una signora replicò “vorrà popolare anche l’Africa. Sgualdrina!”; Julie era questo, ti seduceva e poi ti abbandonava senza un motivo, una spiegazione, Henrì non si fece domande, lasciò correre e riprese semplicemente

la sua vita. Ora era lì, sotto il tavolo, decisa a compiere una delle sue solite follie; le carezzò i capelli e le alzò il viso, aveva gli occhi dolci, forse stanchi, per il viaggio, racchiudevano la speranza di cosa? - no, Julie, non qui… - non nascose la sua delusione, ma non disse nulla, ritornò al suo posto sorridente come sempre, cenarono senza fretta, senza pensare al ato, a ciò che li aspettava al mattino, o semplicemente ciò che v’era fuori; non l’aveva mai vista così, una gattina che si bagnava il muso nel latte, aveva il viso sporco di sugo, le dita unte d’olio ed un sorriso che non le aveva scorto a Parigi, forse aveva ragione lui, Parigi ti rende triste, sorridi senza sapere di non esserne capace. Roma è una poesia che cambia con il mutare delle ore, non si ripete, si lascia leggere silenziosa dalla luna, dal sole, dagli sguardi colmi di ione scolpiti sui volti dei turisti, si lascia accarezzare dalle acque torbide del Tevere, si lascia sussurrare al suo risveglio dai gabbiani, si addormenta sulle note scadute d’un barbone: “Roma, Roma, Roma!”. Il cielo era tinto di blu rischiarato da quella splendida ragnatela che formano le stelle, camminavano su Ponte Cestio, il vino aveva reso il loro procedere lento, incostante, sostarono un istante, Julie si sentì svenire - è bella! - pronunciò sottovoce - mi fa venir voglia di amare! - Henrì la guardò, aveva uno strano sorriso, le lacrime lambivano il vero disegno delle labbra, non l’aveva mai vista priva di trucco, anche quando erano a Parigi, dopo aver fatto l’amore, lei non lo permetteva. Un sottile filo di seta nera le macchiava le guance - perché piangi? - si strinse a lui e lentamente gli sussurrò - mi sei mancato! l’acqua scrosciava a pochi metri dai loro piedi, ma ne potevano sentire l’odore acre della terra, delle alghe, la schiuma argentata della piccola cascata che porta a Ponte Rotto, brillava al chiarore della luna, l’umidità saliva lentamente ed in gocciole si posava sui capelli di lei, percepiva il calore del suo respiro, la dolcezza delle lacrime tra le labbra, la morbidezza della sua pelle. Si guardarono, lei non aveva più un filo di trucco, sorrisero entrambi e si precipitarono per le strade di Roma.

Discese con grazia ed eleganza dalle scalinate di Piazza di Spagna, risero di gusto alla vista di una comitiva di Giapponesi che li fotografava - chissà, forse pensano che stiamo girando un film! - Voglio fare il bagno nella fontana di Trevi, come Anita Ekberg e poi voglio dipingere l’acqua di rosso per protestare! - correva per le strade semideserte - ma contro cosa vuoi protestare? - chiese Henrì ridendo a crepapelle - non lo so, ma voglio protestare! Era l’alba, le loro labbra si sfiorarono, il loro primo bacio al chiarore sbiadito d’una lanterna; fecero l’amore, lentamente, senza la paura del futuro, godendo l’uno dell’altra, amando e piangendo per l’amore che non erano stati capaci di dare. Prima di chiudere gli occhi, la voce di Julie si schiarì nella semioscurità della stanza - Henrì, voglio protestare contro la mancanza d’amore! - lui la strinse a sé, una carezza sfiorò il viso di lei, una lacrima bagnò il petto di lui e nacque un fiore - Henrì, ti amo… - respirava lentamente, dormiva, aveva un dolce sorriso che spuntava tra la barba incolta, lo baciò e si abbandonò all’estremo richiamo della notte. Quando aprì gli occhi era solo nel letto, Julie era sparita, non pianse, non lo avrebbe mai fatto, sapeva bene che sarebbe accaduto, anche se in cuor suo aveva sperato sino all’ultimo; quella storia non era il capitolo finale di un film, il protagonista si sveglia solo nel letto e si dispera sino a quando il suo amore non ritorna con i cornetti caldi ed è amore per sempre; Julie non era un luogo comune, Julie era la tentazione. Lasciò che il mattino romano lo accogliesse, avrebbe dovuto scrivere di quella notte ma non lo fece, non lo aveva fatto allora, non lo avrebbe fatto adesso. Le strade si riempivano di auto, i rumori infastidivano i gabbiani che si preparavano al volo per raggiungere il mare, non pensò a Julie, non pensò a nulla, non all’amore, non alla letteratura, non progettò suicidi, lasciò soltanto che l’orizzonte fatto di punte, curve e linee, riempisse quel vuoto che aveva proprio “qui!” nel cuore.

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Grazie per aver letto questo libro.

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