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Abraham

Racconto Fantastico

di Giuseppe Ussani d’Escobar

Titolo | Abraham Autore | Giuseppe Ussani d’Escobar ISBN | 9788891158864 Prima edizione digitale: 2014

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sca, sca…….non è possibile, non deve essere così! La voce gli si bloccò in gola, ne uscì un rantolo, poi lacrime profonde gli segnarono il volto. Quel giorno moriva la compagna di un amore breve ma intenso. Era rimasto accanto a lei quella sera di Natale, le aveva regalato delle bellissime rose rosse, ma lei ora era andata via. Per un attimo, aveva pensato di trasferirsi nell’ospedale dove gli avevano comunicato la cattiva notizia, per non lasciarla mai. Un tumore l’aveva travolta in pochi attimi. La vita, a volte, nel suo scorrere ha dei tempi che non coincidono con la volontà degli uomini. Quando si erano conosciuti, avevano fatto subito dei progetti, volevano viaggiare, partire, conoscere nuovi luoghi, lei gli parlava spesso del Giappone, di una porta costruita senza pareti intorno, una porta sospesa tra cielo e terra, una porta che si librava nell’aria con le ali di un possente uccello, una porta che dava sul nulla, sul vuoto. Ma esisteva questa porta?! Giovanni sognava, ormai frequentemente, questa porta che aveva assunto nella sua immaginazione la consistenza dei sogni. Sempre sca, gli aveva parlato a lungo, quando sedevano abbracciati sul divano, dei Samurai, antichi guerrieri, cavalieri senza paura e con un elevato sentimento dell’onore. Il Giappone, con le sue suggestioni e le sue provocazioni, continuava a vivere in lui, i sogni di lei non erano finiti, erano più forti di prima. Giovanni, decise di viaggiare con il ricordo di lei nell’anima, senza mai toccare la terra giapponese, destinazione il Brasile, a San Paolo conobbe un luogo, dove erano custoditi i mostri, esseri umani, creature che non potevano uscire da quella prigione, poiché deformi, non potevano essere inseriti nella società civile, a causa della loro diversità, avrebbero terrorizzato la gente comune, fantasmi genetici chiusi per sempre nel castello degli orrori, ma il vero orrore era fuori o dentro quelle mura? Volle poi trascorrere, una notte, in un laboratorio dove erano segregati i feti che per le loro deformazioni non erano sopravissuti o ai quali era stata interdetta la vita da medici giudici. Conobbe una ragazza giovane che si lavava, essendo priva di arti, sotto la doccia, tenendo la spugna fra i denti, per lei era assolutamente normale. Aveva degli occhi bellissimi del colore degli zaffiri illuminati da un raggio di sole, era sempre allegra e la luce, che aveva dentro, riscaldava anche gli animi più tristi e depressi. Il bambino dalle due teste, con una sorrideva e con l’altra piangeva, raccontava barzellette molto divertenti che leggeva sui giornali, ed era un asso della matematica, era capace di fare somme con un infinita di cifre, ricordandole a memoria. Un giorno Giovanni, decise di partire per l’Amazzonia, voleva conoscere gli spiriti della foresta, che incarnavano le forze della natura. Come erano belli quei bambini con i loro sorrisi puri, che gli correvano incontro, chiedendogli qualche piccola offerta; un

bimbo, una mattina, lo afferrò dalla mano ed iniziò a trascinarlo, lui lo lasciò fare, si trovò così davanti un alto grattacielo con tantissimi piani, il piccolo lo pregò di seguirlo, gli doveva far vedere un qualcosa di bellissimo, lo seguì, entrò in un ascensore, si fermarono all’ottavo piano, uscirono, l’ambiente era elegante, un corridoio si sviluppava senza alcuna interruzione, le porte delle camere erano tutte aperte, si sentivano degli ansimi, ed una mescolanza di profumi saturava l’aria, l’odore era forte, si respirava il sesso nella sua dimensione più bestiale ed estatica, si fermarono davanti ad una camera e ne uscì fuori una adolescente bellissima bruna dagli occhi magnetici, scintille di luce affioravano dalle pupille, il blu dell’iride ricordava il mare degli abissi, un genere di mare che mette la paura addosso, un mare che ti può trascinare nel suo seno e farti scomparire, forse era una sirena, ed avrebbe emesso da quelle labbra finemente disegnate un canto ancestrale potente, forse la melodia degli spiriti della foresta, e l’avrebbe trascinato con se fra le onde di un piacere senza limiti. Giovanni l’assecondò si perse tra le sue braccia, ne seguì con gli occhi e con il cuore la danza d’amore, quei movimenti cadenzati e ritmici, quella sua dedizione totale al maschio quale inesauribile fonte di piacere. Si affittò una casa nei pressi del bordello di cristallo, la chiamò la casa delle sirene, vi tornava spesso, cercava sempre lei, le era diventato fedele, lei si tratteneva con lui più del previsto e gli raccontava i suoi desideri, le sue aspirazioni, uscire da quella professione, con i soldi messi da parte iscriversi all’università ad architettura e progettare edifici e case bellissime. Un giorno Giovanni decise di tornare nella sua città natale a Roma, così portò con se e sposò la ragazza, la iscrisse all’università e lei rinacque, splendida e pura nella sua vera vocazione, ma di notte era sempre lei, la prostituta che amava donarsi totalmente senza freni. In fondo si ripeteva, Toulose Lautrec aveva scelto di vivere all’interno di una casa di piacere a Parigi, ed aveva conosciuto così il vero amore, la vera tenerezza, la solidarietà umana e profonda tra donne, che dormivano insieme proteggendosi e coccolandosi. Forse la donna che ha conosciuto il sesso in tutte le sue forme ed espressioni, ha un concetto della sessualità così surreale, rarefatto ed astratto che finisce per conoscerne l’autentica essenza, spiritualizzandolo ed interiorizzandolo, non perdendo la capacità d’innamorarsi dolcemente. Dalla ragazza ebbe in dono un figlio bellissimo. Una notte, mentre cercava di prendere sonno, seduta nella poltrona accanto al comodino, illuminata dalla morbida luce della lampada, gli apparve sca, non credeva ai propri occhi, si fermò ad ammirarla, era bella, non più sofferente come gli ultimi giorni che aveva trascorso su questa terra, era sorridente, si era trasformata in un angelo meraviglioso, dai suoi occhi emanavano dei potenti bagliori, i suoi capelli erano liberi nell’aria, ad un certo momento accavallò le gambe e si protese verso di lui e così gli disse: “Nei

prossimi giorni, abbi fiducia, viaggerai in Giappone, erai attraverso la Porta alata, della quale ti ho sempre parlato e diventerai un Samurai. Sarai un Cavaliere e proteggerai i deboli e gli oppressi, io sarò sempre con te, adesso ti lascio, sono contenta che hai trovato il vero amore, il mio destino doveva essere un altro: Guidarti attraverso la luce, il tempo e lo spazio, per mostrarti che veri confini non esistono.” Giovanni non rimase per nulla scosso dalla apparizione e dalla rivelazione, aveva sempre pensato e percepito che lei non l’aveva mai abbandonato. Prese finalmente sonno. Quella notte sognò a più riprese la ragazza deforme priva di arti, dal bel sorriso, che si lavava serrando fra i denti la spugna, la ragazza lo invitava a non dubitare e a non aver paura di eventuali mostri poiché erano benevoli, e lo avrebbero aiutato. Ma non ebbe alcuna paura, poiché era da sempre convinto che la vera mostruosità è insita nell’anima degli uomini che amano definirsi “normali” e guardano agli altri accusandoli di essere diversi. La mattina dopo con Ruth, questo era il nome della sua compagna, decisero di fare una gita a Villa Adriana, l’antica villa dell’Imperatore Adriano, nelle immediate vicinanze di Roma. Quei luoghi lo rilassavano ed avevano sempre avuto l’effetto di rappacificarlo con l’universo. Sostarono sul bordo di un antica piscina, un coccodrillo di marmo sembrava osservarli, ma non aveva un aria aggressiva, anzi piuttosto pacifica. Forse aveva da poco fatto colazione con un grasso capriolo che era andato lì ad abbeverarsi. Il bimbo tra le braccia della giovane ragazza era sorridente, di uno di quei sorrisi che conquistano e ti lasciano stordito per la spontaneità e la purezza. Quel batuffolo era suo figlio, non riusciva a crederci. Per anni ed anni, non aveva desiderato figli, quando una volta, ricordava, una donna gli aveva detto che c’era il rischio seppur remoto che fosse rimasta incinta, lui si stese sul letto, rigido come un morto, con le mani in croce sul torace. Non si sentiva pronto, voleva rimanere ancora prigioniero e beato del ruolo del figlio, vedersi improvvisamente padre, precipitato nell’inferno dei pannolini e dei lamenti notturni, seguiti da nenie, lo spaventava a morte, le parole gli tremavano tra le labbra in uno sconnesso balbettio da idiota. Così Giovanni era consapevole che la paternità era una condizione che non gli apparteneva. Quando aveva incontrato sca, aveva inaspettatamente progettato con lei di avere almeno un figlio, ma non era venuto, e lei si era ammalata troppo presto, non avrebbe mai potuto portare a termine una gravidanza. Quando era molto giovane aveva avuto una storia con una bionda australiana, una ione divorante li aveva investiti, era bellissima, una ballerina di danza classica, spesso nuda improvvisava davanti a lui dei i, per il puro piacere di essere contemplata, ogni notte facevano l’amore, una mattina non se la trovò più accanto nel letto, era andata via per sempre, non aveva

lasciato nemmeno un messaggio d’addio. In quei momenti di tristezza e di depressione s’impossessò di lui lo scrupolo che lei poteva essere rimasta incinta, così la cercò, non la trovava, era scomparsa. Quegli attimi di disillusione, desolazione e solitudine gli erano serviti a comprendere che la donna ha un potere immenso sulla vita e sulla morte, lei poteva aver, benissimo, senza alcun scrupolo ed indugio, reciso il bocciolo che portava in grembo, senza considerare la volontà maschile, le sue decisioni. Finalmente riuscì a parlare con la giovane per telefono, che lo rassicurò di non avere mai atteso un figlio da lui. Ma Giovanni rimase per sempre col dubbio ed il sospetto che la realtà fosse un'altra. Iniziò anche a pensare che fosse sterile e che quindi una strana sventura si era abbattuta su di lui, il suo seme non avrebbe mai generato vita nuova. Ma poi Ruth aveva compiuto il miracolo, e lui aveva accettato che lo stupore entrasse nella sua vita, a volte in piena notte stringeva il bimbo sul petto nudo, quasi a volerlo allattare con la sua anima, all’improvviso lo guardava nei piccoli occhi, un mistero profondo si celava dietro quello sguardo, e non riusciva a penetrarne il fondo, quante volte aveva letto dietro il velo dell’iride i pensieri di un adulto, o li aveva perfettamente sincronizzati con i suoi, ma non riusciva a trovare la miracolosa radice dello sguardo di un bimbo, che per giunta era il suo proprio figlio, sangue del suo sangue. All’improvviso Ruth gli ò la sua mano di seta sulle labbra, sentì poi le labbra umide di lei sulle sue, tornò così alla realtà, si trovava a Villa Adriana a Tivoli con la sua compagna ed il bimbo frutto di un unione autentica, ionale, profonda, sconvolgente nel quotidiano; sempre nuova e trepidante di sesso lei lo seduceva senza resistenze. Il dialogo volse verso il Brasile, poi lei gli raccontò che aveva letto su una rivista brasiliana di un certo Aleijadinho, era uno scultore, veniva considerato il Michelangelo del Brasile, era storpio e deforme, si faceva trasportare avvolto da una coperta per non essere visto, e lavorava per ore, instancabilmente alle figure dei Santi, degli Apostoli, sublimando la sua deformità nell’estasi della bellezza e delle forme, la sua scultura era una forma di preghiera. Quindi dalla mostruosità può nascere la bellezza, da una cornacchia può venir fuori il canto di un usignolo, tutto ciò poteva apparire impossibile, ma poteva accadere. Allora ne deriva che la bellezza può generare mostri. Ma queste non erano altro che allucinazioni in libertà. Pur vero che Giove o Zeus, che dir si voglia, per conquistare le sue amanti assumeva le sembianze di un toro, di un aquila, di una pioggia dorata. Erano comunque metamorfosi e deformazioni del sovrano di tutti gli dei. Quella notte andò a dormire con un sapore strano tra le labbra, un presentimento lo tenne sveglio per alcune ore nel cuore della notte, non si muoveva per non svegliare la bella Ruth, respirava appena, guardava,

come per distrarsi dai suoi ossessivi pensieri, i seni di lei, quei capezzoli turgidi, duri, li sentiva tra le sue labbra, al contatto con la sua lingua, alla fine conquistò il sonno. Nel cuore di quella notte, accadde qualcosa di imprevisto e di strano. Alle sue orecchie giunse un rumore di ticchettio sul vetro della finestra, gli si spalancarono le palpebre, poi nascose la testa sotto le coperte, non voleva né sentire né vedere. Il ticchettio continuò ad insistere, non faceva pause, aumentò d’intensità, alla fine decise di guardare, per paura che Ruth si svegliasse, era convinto che con la mente stesse attraversando un sogno, soffriva forse di allucinazioni sonore dovute all’eccessiva stanchezza. Guardò e vide un grande pesce volante che con un ala percuoteva il vetro della grande finestra, era bellissimo sembrava un arcobaleno, tutti i colori facevano sfoggio di se sulle sue squame smaglianti, aveva un muso simpatico e respirava come tutti i pesci quando si trovano nell’acqua, muovendo ritmicamente le mandibole, schiuse leggermente, a forma della lettera O. I suoi grandi occhi fissavano Giovanni e sembravano volergli comunicare qualcosa di urgente. Le sue ali erano come quelle dei colibrì, si muovevano vertiginosamente nell’aria, e con una continuava a bussare contro la finestra. Giovanni lo ammirava, non aveva mai visto nulla del genere, era un prodigio della natura, un pesce che vola e di quelle dimensioni, era enorme quasi come un cavallo, mancava solo che nitrisse. Certamente stava dormendo, era un sogno bizzarro, divertente ed inquietante al medesimo tempo. Il Pesce sembrava sorridergli ed ammiccare con un occhio, smise di ticchettare ed ondeggiava nell’aria. Certo Giovanni, quando era piccolo, come tutti i bambini, aveva una boccia con i pesciolini rossi, una volta arrivò ad averne ben sette, tra cui un pesciolino veramente particolare, era d’oro, aveva più volte tentato di avviare una conversazione acquatica con i suoi amici pinnipedi, anche lui con la bocca schiusa a forma di O, si era più volte affacciato all’universo liquido, i pesciolini a volte sembravano fortemente incuriositi ed interessati a decifrare i messaggi della grossa creatura che li guardava cercando un contatto, ma il tutto si era sempre verificato senza un originale scambio di idee e di informazioni sui due mondi paralleli, destinati da sempre a sfiorarsi senza mai veramente toccarsi e compenetrarsi. Ora era lui che si sentiva immerso in una boccia d’aria con questo qualcuno signor Pesce che lo studiava e lo analizzava nelle sue reazioni e nei suoi movimenti, forse se avesse aperto la porta finestra, per uno strano capriccio e sovvertimento del reale, tipico dei sogni e delle apparizioni, una valanga d’acqua avrebbe allagato la camera. Forse stava semplicemente nella fase del dormiveglia, quando ciò che è impossibile sembra assurdamente reale, forse era ancora bambino nella sua stanza, non aveva mai avuto una compagna e neanche un figlio, non aveva una casa e nemmeno quel letto nel quale credeva di essersi addormentato, non aveva mai toccato, né

guardato quei seni che tanto lo attiravano, era ancora bambino nella casa dei suoi genitori, aveva da poco baciato la mamma ed il papà per dargli la buona notte, e prima di addormentarsi nel suo lettino aveva fissato per qualche secondo la boccia con i pesciolini rossi, ecco aveva capito tutto, tutto era chiaro, i suoi occhi si erano chiusi nel sonno, e l’ultima confortevole immagine che avevano catturato era il guizzare libero dei pesciolini. Adesso per interrompere tutta questa sensibile e devastante confusione, doveva semplicemente alzarsi dal letto, aprire la finestra ed invitare il Pesce enorme ad entrare, l’incantesimo si sarebbe immediatamente spezzato, non si sarebbe dovuto spaventare se il Pescione avesse anche proferito qualche parola, tutto era normale, tutto era sotto controllo, la ragione come sempre avrebbe vinto e dominato i fantasmi, gli incubi dell’inconscio e dell’irrazionale. Ma, allora sarebbe per certo scomparsa anche Ruth ed il bimbo, sarebbero riapparsi in compenso la mamma ed il papà, lui avrebbe emesso un piccolo e debole urlo, e tutti sarebbero apparsi, anche i suoi fratelli, con i loro volti chini sul lettino, a guardarlo, si sarebbe sentito protetto ed avrebbe dopo qualche minuto ripreso a dormire serenamente, tutto d’un fiato, senza più risvegliarsi fino al sorgere dell’alba che filtrava fra le assi della vecchia serranda. Ma non voleva rinunciare al suo amore, a Ruth ed al figlio, facevano ormai parte di lui, della sua esistenza, erano così veri, non aveva nemmeno avuto il tempo di salutarli, di dirgli addio, di un ultimo bacio. Non era giusto. Voleva dirgli che si sarebbero rivisti, che lui l’avrebbe cercata in tutte le donne che avrebbe conosciuto ed avrebbero di nuovo concepito un bambino bellissimo al quale avrebbero dato il nome di Gabriele come l’Arcangelo e come il suo papà. No, aveva deciso, che nel risveglio, voleva trovarsi accanto la mamma, il papà, Ruth ed il figlio. Adesso doveva aprire la finestra, non poteva indugiare a guardare come inebetito il Pesciolone. Si sentiva ipnotizzato dai grandi occhi del Pesce, era come immobilizzato. Adesso raggiungeva la porta finestra, stringeva la maniglia, incontrava gli occhi del Pesce nei suoi, sembravano indagare la sua anima, le sue intenzioni, non capiva se era più lui ad avere paura del pesce od il pesce di lui. Ecco stava per aprire, era il momento giusto, doveva cogliere l’attimo di disorientamento del Pesce, e poi doveva correre a letto, il più veloce possibile ed urlare aiuto. Chiuse gli occhi, serrando strette, strette le palpebre, coprendosi con una mano gli occhi. Aprì. Sentì un ala del Pesce gigante avvolgerlo con delicatezza e pensò fra se e se che il sogno non si interrompeva, insisteva nella sua mente a non lasciarlo in pace. Forse non si svegliava perché era morto, forse era morto nel sonno, Ruth si sarebbe svegliata, avrebbe cercato di scuoterlo, lui non avrebbe più aperto gli occhi, il giorno successivo avrebbero avuto luogo le sue esequie nel Cimitero Monumentale di San Lorenzo, lei avrebbe sofferto, poi dopo alcuni anni si sarebbe sposata ed

avrebbe dato un nuovo padre al figlio. Si era morto! Era finita. Ma non aveva fatto il testamento delle sue ultime volontà, solo lui sapeva dove aveva nascosto la moneta greca raffigurante Atena su un lato e sull’altro l’Ippogrifo, la Saggezza e la Sapienza hanno le ali, poi l’Ippogrifo era bellissimo, leggero come il soffio del vento, l’Ariosto se ne era impadronito per scrivere il suo Orlando Furioso, e l’aveva inviato a recuperare il Senno di Orlando sulla Luna. Avrebbe voluto che quella moneta per sempre accompagnasse nella vita suo figlio, per sempre…… quasi un amuleto contro il male e le potenze oscure che si annidano nell’invidia, nella malvagità degli uomini. Poiché l’uomo non è assolutamente una creatura benefica, non partecipa alla bellezza ed all’armonia della Creazione, si compiace di distruggere, consumando il pianeta Terra. L’amuleto avrebbe difeso il figlio contro l’egoismo spietato degli uomini. Era troppo tardi. Era morto. Il Pesce, intanto, continuava a massaggiargli il volto con la sua grande ala, forse era consapevole che Giovanni non stava troppo bene, la confusione ed il panico si erano impadronite di lui. Giovanni piangeva e tremava, il Pesce dal canto suo non sapeva come affrontare la situazione che sembrava precipitare. Una mattina il Pesce gigante nuotava nell’aria, sopra le nuvole, in una dimensione altra, nuotava oltre le nuvole, nello spazio immobile, tra gli astri, le meteore, i pianeti, la musica dell’universo lo cullava, una musica melodiosa, morbida come le lenzuola di seta di un letto immenso, quando, sul suo percorso si staglia una figura di donna. Naturalmente il Pesce, ne rimase scosso, aprì gli occhi, sbarrandoli e le chiese perché lo disturbasse. Lei, in un primo momento, non trovava risposte. Si sedette pensierosa su un meteorite accavallando le gambe, il grande Pesce la seguiva, attendendo una scusa od una giustificazione al disturbo che gli era stato arrecato. La Donna rifletteva su come esporre i fatti, che gli ronzavano in testa, al Pesce e spiegare la necessità e l’importanza di un suo rapido intervento che si sarebbe rivelato decisivo per la salvezza dell’umanità. sca si avvicinò al grande pesce e gli sussurrò alcune parole nell’orecchio. Il Pesce comprese subito l’importanza della missione che gli era stata conferita. Giovanni continuava a disperarsi sulla sua tragica sorte, era morto, ma era ancora giovane! Doveva essere stato colto da un infarto in piena notte, e non aveva avuto il tempo di reagire, o forse un ictus. In un batter di ciglia si liberò dall’ala del pesce, e corse verso la ringhiera del balcone, la scavalcò e si lanciò nel vuoto, il grande Pesce lo guardava stupito, era incuriosito dall’azione repentina dell’uomo e non riusciva a spiegarsela. Sapeva che gli uomini non volavano, ma forse questo aveva le ali e le nascondeva benissimo, lo guardava cadere alla velocità di un sasso, ma da un momento all’altro si attendeva

dall’uomo il miracolo, sicuramente una piroetta, poi in picchiata, per poi ondeggiare come lui nel cielo. Il grande Pesce ebbe l’intuizione che l’uomo alla fine si sarebbe sfracellato a terra, così si lanciò a soccorrerlo, Giovanni, nel cadere, gridava che era vivo, si era accorto di non essere addormentato né di essere morto, la sofferenza del vento che gli sferzava sul volto era talmente intensa, gli sembrava che innumerevoli aghi gli si conficcassero sotto la pelle, era un dolore straziante, ma era vivo, soffriva. Il Pesce lo raggiunse e lo lasciò adagiarsi sulla sua groppa. Giovanni, pensava di essere impazzito, lui era a cavallo di un Pesce gigante, che per giunta volava, era incredibile. Doveva capire cosa stava accadendo. Non poteva continuare ad ignorare il sovvertimento delle leggi naturali, si ripeteva, tra se e se, che i pesci nuotano nell’acqua e certamente non volano. Il Grande Pesce lo trasportò verso un luogo semideserto, in una radura, nel mezzo di una foresta, lo fece scendere a terra con rispetto e delicatezza, lo fissò per un breve momento, poi iniziò a parlare: “Il mio nome è Abraham, appartengo ad una specie rara che più non esiste, una razza pacifica, gli uomini nel ato ci hanno minacciato ed ucciso, si sono nutriti delle nostre carni i tuoi antenati, da quel momento abbiamo scelto di vivere nello spazio siderale, lasciandoci dondolare dai venti ed ascoltando la struggente musica delle stelle e dei pianeti. Il vostro Pitagora aveva ragione, lo incontravamo spesso nello spazio, saltava da un pianeta all’altro, divertendosi e ridendo a squarciagola come un bambino, sosteneva di aver intuito ciò che ora verificava dopo la sua morte, ovvero che le stelle e i pianeti grazie al loro movimento producono una musica celestiale”. Giovanni a bocca aperta, lo ammirava, come era possibile che esistesse un pesce parlante che volava! Tutto nella sua mente si aggrovigliava, troppi nodi da sciogliere, decise così di sospendere gli interrogativi e di lasciarsi vivere, ascoltando fino in fondo le follie che uscivano dalla bocca del pesce. “Pitagora che uomo simpatico, è un po’ di tempo che non lo incontro, ci fermavamo a parlare, lui ogni tanto saliva sulla mia groppa e volavamo, mi raccontava delle sue invenzioni. Che mente! A proposito, siamo dotati anche di parola, come puoi notare, ed abbiamo anche la facoltà di leggere il pensiero. All’occorrenza possiamo volare più veloci della luce, a volte cantiamo per are il tempo, possiamo imitare i versi degli altri animali, abbiamo un notevole orecchio per i suoni. Ma sappiamo anche nuotare, certo non ci piace molto, sai com’è da quando abbiamo scoperto il volo! Mi deprime nuotare. Ora veniamo agli argomenti seri. Ricordi sca, bene, lei mi ha inviato a te. Noi pesci giganti, nello spazio siderale incontriamo frequentemente le anime dei morti che si intrattengono a parlare con noi. Ad un certo momento sca mi taglia la strada, o meglio il volo, e mi prega di mettermi al tuo servizio per salvare l’umanità. Certamente non capivo, tutto era un mistero, mi

era oscuro il significato delle sue parole. Lei allora mi racconta la vostra storia e che tu nelle vite precedenti sei stato un cavaliere, e che ancor oggi conservi lo spirito e gli ideali della cavalleria. Vado al sodo, un uomo malvagio, per le sue perfide scorribande si serve di una Katana, la spada, come tu sai, dei Samurai. La Katana è maledetta. sca quando era in vita, l’aveva trovata e l’aveva nascosta nella casa di una sua amica, in una cantina. La Katana gemeva, i suoi lamenti erano agghiaccianti, infernali, l’amica se ne volle liberare e la vendette ad un antiquario collezionista di armi antiche senza informare sca. La tua donna era una Samurai, forse lo ignoravi, lei si mise sulle tracce dell’antiquario, l’aveva quasi raggiunto, ma, come tu ben sai, si ammalò e morì. La Katana fu venduta ad un miliardario, che entrò in perfetta sintonia e simbiosi con l’arma. La Katana è molto antica, venne forgiata da un importante maestro-sacerdote, ma a causa di un attimo di distrazione, lui aveva lasciato la Katana incustodita nella fase della lavorazione, in men che non si dica, un popolo di spiriti infernali entrò nell’anima della spada e la corruppe, erano degli spiriti potenti che nutrivano da tempo un sentimento feroce di vendetta nei confronti del Maestro forgiatore, uomo buono, saggio ed onesto. Il Maestro pagò con la sua vita la distrazione, visse tormentato dai rimorsi, non si perdonava di aver creato quella spada e di averla venduta, la Katana ora era libera di dannare molte anime e di commettere empietà e dissolutezze, così dopo aver provato invano a recuperarla, una mattina di primavera decise di commettere il suicidio rituale. Ora tu devi fermare la Katana ed il suo proprietario.” Giovanni continuava a fissare interdetto ad Abraham, come faceva quel pesce fantastico a sapere di sca, del loro amore? Che creatura strana, che amava persino cantare! Intanto Abraham lo guardava con impazienza, come per dire allora voliamo a caccia della Katana? Giovanni gli chiese di riaccompagnarlo a casa, poiché voleva congedarsi dalla sua famiglia, spiegandogli che partiva per un lungo viaggio di lavoro, che li avrebbe chiamati per telefono quasi ogni giorno. Abraham acconsentì, lo fece salire sulla sua groppa e volarono a casa, nel salutarsi rimasero d’accordo che la notte successiva quando la compagna ed il figlio riposavano, Abraham sarebbe andato a prenderlo per iniziare il lungo viaggio, con destinazione Giappone. Perché il Giappone? Se la Katana ed il suo losco proprietario si trovavano in Europa! Era sufficiente attendere pazientemente il giorno dopo per finalmente capire le motivazioni del lungo viaggio alla volta dell’Oriente. Erano le prime ore dell’alba, Ruth lo accolse tra le sue braccia e fecero l’amore. Era così soddisfatto del rapporto con Ruth, così giovane e bella, il suo profumo lo avvolgeva, lo catturava. Dal corpo di lei provenivano odori e sapori così soavi, freschi e mai conosciuti, l’amava, la sua lingerie era così raffinata, quella seta ricamata, dal corpo di lei sembrava assorbire una bellezza

senza pari. Si amarono come sempre intensamente. La mattina dopo andarono con il bimbo a Villa Borghese, una bella giornata di sole, una eggiata lenta, non sapeva come informarla del suo viaggio, i i si perdevano tra le foglie autunnali, il fruscio e nascondere i piedi sotto la coltre di foglie era piacevole, le dolci parole di lei, innamorata della natura e del sole, si perdevano nell’aria, era un atmosfera di beatitudine, ogni tanto una vecchietta, un bambino od un ragazzo in bicicletta si avvicinavano. Tutto era sospeso nell’aria di luce. Si fermarono davanti alla fontana di Mosè ritrovato lungo le rive del Nilo, i papiri crescevano nell’acqua così rigogliosi e forti, che si erano forse veramente identificati con la rappresentazione dell’avvenimento. Una scenografia perfetta. Fintamente selvaggia e primitiva, ma armoniosa. La natura e l’uomo complici nell’equilibrio e nelle magie del creato. Ripresero i loro i e giunsero alla terrazza del Pincio, una vista interessante su Piazza del Popolo, rielaborata architettonicamente dal Valadier. Al di sotto Santa Maria del Popolo con quelle frustate di luce, bagliori di rivelazione delle pale d’altare del Caravaggio. Questa era Roma, la città della sua infanzia, della sua adolescenza e giovinezza. Ora era un uomo, ma sempre innamorato della città santa e sacra ad Imperatori e Papi. Nel camminare, si ritrovarono di fronte l’orologio ad acqua, lei gli prese la mano, gliela tenne stretta fra le sue, e gli disse: “Vorrei essere quella goccia d’acqua, che scandisce il tempo e le stagioni della tua anima, vorrei rimanere sulla tua fronte immobile come una perla e conoscere sempre tutti i tuoi desideri, sogni e pensieri. Io sono la tua goccia d’acqua che scandisce il ritmo delle tue lancette interiori, conosco il pulsare del tuo cuore, i segreti delle tue vene, esploro la tua mente fantastica ogni attimo”. Giovanni rimase sconcertato dalla tenerezza e profondità di quelle parole: “Tu sei la mia vita, il mio amore, il mio tutto. Ti adoro.” E lei con una mano gli coprì le labbra:”Allora apriti con me, non temere, il mio amore è così immenso che può tutto accettare e tutto comprendere. Parlami qual è il pensiero che hai dentro e non riesci a trovare le parole per esprimerlo? Lascia che sia io ad organizzare le frasi intorno al nucleo del tuo pensiero, lascialo emergere spontaneamente, perfavore.” Lui quando vide l’ancora della salvezza venirgli incontro nel turbinio dell’indecisione, l’afferrò: “Tesoro, devo recuperare una spada maledetta, che può rivelarsi pericolosa per l’umanità, e domani devo partire per un lungo viaggio con destino Giappone, non so ancora quanto mi dovrò trattenere lì e non ne conosco lo scopo, non ti preoccupare tornerò presto.” Ruth gli chiese se volesse essere accompagnato all’aeroporto, ma lui rispose che non era assolutamente necessario, sarebbe partito in piena notte e non voleva disturbarla. Non gli fece altre domande, sembrava intuire quando esattamente le domande e le risposte divenivano superflue. Quella notte si coricarono e si guardarono a lungo negli occhi, le

parole non uscivano dalle labbra, il tempo era sospeso, lo spazio era annullato, il momento del prodigio si avvicinava, lei prese sonno, stremata dalla stanchezza e dalla bellezza della giornata. Abraham bussò con l’ala contro il vetro della finestra delicatamente, lui si alzò pian piano, aprì la porta finestra e presero il volo verso Oriente.

Lasciamo ora volare Giovanni sulla sua magica cavalcatura verso la misteriosa missione. Ai tavolini di un pub, sedevano due giovani uomini vestiti elegantemente, era Londra. I due conversavano animosamente, a momenti, sembravano persino litigare, si interrogavano sull’importanza della politica nella società attuale, una società che non lasciava alcun spazio agli ideali. Le ideologie erano tramontate, prima il comunismo, poi il capitalismo in fondo era anch’esso fallito. Le Banche, i mutui…proprietari di case che si trovavano senza nessun preavviso per strada, la borsa poteva crollare non era immortale, si era sfiorata la crisi degli anni ’30, quando liberi professionisti, impiegati, dirigenti, imprenditori alla disperazione si lanciavano a New York, ed in altre città dalle finestre dei grattacieli, simbolo di quelle speranze nel progresso e nel benessere, ed eterna sfida contro la forza di gravità, da quei grattacieli che incarnavano l’energia pura dell’intelligenza umana. Uomini che avevano costruito pietra su pietra immense fortune, spesso emigrati dalle loro terre d’origine, con nel cuore infinite promesse, di mandare aiuti finanziari alle loro famiglie, ora erano soli, avevano concretizzato i sogni su fondamenta che credevano solide, che ora vacillavano e crollavano. I sogni crollavano loro addosso, coprendoli di macerie e di polvere. Ma l’Occidente di oggi sembrava aver domato i rischi e superato le paure, ma serpeggiava la crisi, famiglie intere a Londra, come altrove, non arrivavano a fine mese. Una volta erano cittadini con il diritto di esistere, ora il marito licenziato, quando non anche la moglie, non riuscivano più a vivere ed a sperare sui risparmi di un intera vita. Associazioni di volontariato assistevano questi nuovi poveri, ma le risorse non erano mai sufficienti. Uno dei due giovani, si alzò, ringraziò l’amico della conversazione, gli strinse la mano e se ne andò di corsa, come se avesse un appuntamento improrogabile. L’uomo che era un italiano che viveva a Londra da molti anni, il cui nome era Alessandro, apparteneva ad una famiglia dell’alta nobiltà romana, aveva fatto la sua fortuna a Londra comprando e vendendo arte italiana del Rinascimento e del Barocco, ma anche contemporanea. Era un amante della bellezza. Nell’ultimo periodo aveva anch’egli risentito della crisi finanziaria, anche se in forma leggera. Viveva in un attico luminosissimo le cui finestre davano su Hyde Park. Ma quali erano i suoi

hobbies, amava i dipinti e le sculture, specialmente le sculture che gli davano quel senso della tridimensionalità e quasi della vita, credeva che la notte le sue sculture si animassero e comunicassero tra loro, per questo si chiudeva a chiave nella sua raffinata camera da letto. Di giorno amava toccarle, sentiva le loro energie e lo spirito delle mani che le avevano accarezzate prima di lui e dello scultore. Un giorno capì che non poteva più sopportare di guardare seduto dalla sua comoda finestra tutto quel dolore che aveva invaso le strade, la povertà che si trascinava senza vedere alcun spiraglio di rinascita, di resurrezione. Così mise a fuoco il suo nuovo atempo, uccidere i banchieri ed i lestofanti che avevano truffato milioni di persone in tutto il mondo. Alessandro, dall’alto del suo nido d’aquila, tesseva trame, architettava strategie e trappole. Era tornato a casa di fretta, perché aveva appuntamento con la figlia di un famoso banchiere, lei l’avrebbe raggiunto per cena, doveva sbrigarsi ad accendere le candele, ad abbassare la luce dei lampadari, doveva controllare che il suo maggiordomo avesse già indossato la livrea e fosse pronto ad aprire la porta alla donna ed a servire impeccabilmente. La bella e giovane donna era lo strumento per attirare su se stesso la fiducia e le confidenze del padre. Alessandro attendeva trepidante Teodora che peraltro era molto sensuale. Lei giunse, lasciò scivolare la sua bianca pelliccia per terra, chiese ad Alessandro che il maggiordomo fosse allontanato, e si concesse a lui in un orgasmo senza fine.

Torniamo ora ad Abraham in volo, stava sorvolando la Cina, Giovanni era così entusiasta del viaggio, gli sembrava di essere tornato bambino, come quando andava accompagnato dal padre sulle montagne russe. Avevano attraversato l’antica Unione Sovietica, ora Russia, ed ora vedeva proprio con i suoi occhi dall’alto per la prima volta, la Grande Muraglia. Nella sua mente un lontano ricordo affiorava, lui paladino della giustizia, ricordava un ragazzo al quale era legato da un patto di sangue di fratellanza e dalla promessa di comportarsi per sempre da cavalieri. Lo aveva conosciuto un giorno di molti anni fa in un castello dalle alte torri, che apparteneva ad amici comuni, dopo una breve e avventurosa gita nei sotterranei bui dove trovarono le piume dei gufi, risalirono alla luce, si guardarono negli occhi con espressione di sfida, quel ragazzo era l’Alessandro che ora viveva a Londra, aveva gli occhi azzurri e brillanti, zampilli di fuoco affioravano mal celati e trattenuti, lui Giovanni aveva gli occhi verdi cangianti, sfumavano in certi momenti verso il celeste, quando era particolarmente eccitato. Indossarono gli elmi di due armature antiche e si sfidarono a colpi di spada, nessuno dei due vinse, erano ugualmente forti e

coraggiosi. A combattimento concluso, si tolsero gli elmi, si guardarono, si abbracciarono, e si giurarono per sempre lealtà e fratellanza. Il sangue che scorreva sulle loro mani suggellò il loro giuramento. Nacque una grande amicizia, che ancor oggi perdurava, nonostante la lontananza; si erano rivisti a Roma, quando Alessandro tornava dalla famiglia per le feste o le vacanze, ed a Londra, quando Giovanni visse un lungo periodo nella capitale inglese legato ad una donna, originaria di Manchester. Si erano allora frequentati assiduamente, trascorrevano le sere a Soho nei locali di moda, i pomeriggi da Harrods, dove si trattenevano in compagnia delle fidanzate al bancone dell’Oyster Bar. Adoravano entrambi le ostriche, le trovavano afrodisiache. Un giorno Alessandro invitò il suo amico e fratello nel suo attico, dove viveva allora, a Piccadilly Circus, Giovanni si affacciava continuamente ad osservare dall’alto il Cupido in volo del famoso monumento, conversavano amabilmente di letteratura inglese, di Byron, del bellissimo ed emozionante poema del prigioniero di Chillon; certo Byron era un vero eroe che viaggiava con l’obiettivo di identificare i popoli oppressi e lottava per la loro libertà, era morto a Missolungi in Grecia, testimoniando fino alla fine la sua fede nel diritto alla libertà dei popoli. Si dissero che anche loro erano dei cavalieri ed avrebbero vissuto come Byron. Alessandro in quell’occasione gli fece dono di una spada normanna, che era appartenuta da secoli alla sua famiglia. Si abbracciarono e si salutarono. Giovanni lasciò Londra, e tornò a Roma, si scrissero per mail, si telefonarono, ma non si videro per molto tempo. Un Natale si ritrovarono a Roma, si dettero appuntamento al Bar della Pace, sorseggiarono un whisky Laphroaig, assaporandolo lentamente, ricordarono un Carnevale trascorso insieme a Venezia prima che Alessandro si trasferisse a Londra, quando conobbero per la prima volta quel whisky, unico, affumicato. Giovanni percepiva l’amico fraterno alquanto strano, non faceva che parlare del tracollo dell’economia, dell’indispensabile riscoperta dei valori della cavalleria, e sosteneva la necessarietà di armarsi nuovamente e combattere per i diritti della persona. Non riusciva a leggergli nell’anima, Alessandro non era più trasparente nelle sue intenzioni e nei suoi progetti come lo era stato con lui per molti anni. Sentiva il suo affetto, ma nel contempo lo avvertiva distante. Ma forse era solo una sensazione! Da quel giorno non lo vide più per tanto, forse troppo tempo, ma quell’incontro ultimo gli aveva lasciato un sapore amaro in bocca. Qualcosa era cambiato nell’anima, nella personalità dell’amico.

Ora torniamo a Londra, all’attico su Hyde Park. Alessandro si stava rivestendo,

lei giaceva ancora nuda nel letto. Tutto era immobile, il silenzio era solamente rotto dal respiro lento di lei. Lui la guardò, le toccò i glutei sodi come il marmo, erano caldi, li coprì nuovamente con il lenzuolo, si diresse verso il bagno, si guardò soddisfatto nello specchio, l’aveva sedotta, o era lei che aveva sedotto lui? Era totalmente inutile e narcisistico farsi queste domande. L’importante è che Teodora era ora lì, in casa sua. Il padre era uno dei banchieri più importanti di Londra ed aveva raggirato migliaia di risparmiatori che ora si trovavano senza niente ad implorare l’elemosina, all’angolo dei teatri e dei locali alla moda di Soho. Qualche giorno fa un povero pensionato, era una volta un professore d’arte molto amato e stimato dai colleghi e dagli allievi, era entrato alla Tate Modern sul Lungotamigi, aveva visitato una mostra su Bacon, si era riunito con i suoi allievi di un tempo all’ultimo piano nella caffetteria, aveva gustato un cioccolato caldo, poi si era alzato, si era congedato ed era uscito per sempre dalla loro vita. La polizia aveva rinvenuto il cadavere del professore nelle acque del Tamigi. Questo era il destino dei clienti del banchiere, la cui figlia riposava ora nel suo letto indifesa, come una qualsiasi donna. Alessandro doveva vendicare quella gente, la sua sete di sangue non trovava pace. Sapeva che il padre di Teodora aveva l’abitudine di fare jogging la mattina presto nei pressi del Serpentine, ed era sempre sorvegliato da una scorta che lo seguiva a distanza senza perderlo d’occhio. L’uomo poi si recava due volte alla settimana con amici allo stesso ristorante Thai nei pressi di Trafalgar Square, il martedì ed il giovedì. Il Banchiere aveva un amante, una giovane prostituta che lui aveva deciso di togliere dal marciapiede e mantenere, con grande rammarico della figlia, che si sentiva così esclusa dagli affetti dal padre egoista, che si divideva tra il cane, un bel Irish Wolfhound e l’amante, la madre purtroppo era morta annegando durante una gita nei laghi della Scozia. Sir Arthur, questo era il nome del finanziere multimiliardario, si vedeva con l’amante tutte le sere, e rincasava alle prime ore dell’alba nella sua casa alle porte di Londra.

Abraham finalmente avvistò le coste giapponesi, erano giunti a destinazione, ora il Pesce gigante si voleva riposare per riprendere le forze, aveva volato senza sosta per due giorni, così chiese a Giovanni di scendere nelle vicinanze di Tokyo, poiché per alcune ore si sarebbe assentato, e se lui voleva poteva farsi un giretto in quella città per ingannare il tempo. Abraham riprese il volo, si diresse verso le montagne, lì vi era un luogo così alto, tra i picchi innevati, dove nessuno lo poteva vedere né disturbare. A quelle altitudini Abraham si abbandonò alle correnti d’aria, lasciandosi dondolare come in un amaca. Nel frattempo Giovanni

girava per Tokyo, incuriosito da quelle folle che si spostavano ad ondate da un punto all’altro. Nella città incontrò tanti cani robot, avevano perso i padroni, o erano stati abbandonati, guaivano e parlavano, uno di questi gli scodinzolò vicino ai piedi e senza essere interpellato gli raccontò la sua storia, aveva servito fedelmente il suo padrone, come si conveniva ad un cane giapponese, ma alla fine il suo proprietario aveva preso in casa un cane vero, intendo dire, di pelo ed ossa, iniziava così una gara per chi compiaceva di più il loro signore. Il cane vero, correva velocemente, riscaldava con il suo corpo i piedi dell’uomo nelle giornate lunghe di freddo e pioggia, con la sua lingua gli leccava le mani e con il suo fiato gli riscaldava il volto. Così il cagnolino robot soffriva nel vedersi emarginato in un angolo, si sentiva ogni giorno di più un volgare ammasso di ferraglia, un giorno mentre gli portava il giornale, rimase nascosto dietro la porta ed ascoltò le parole piene di affetto che il padrone, rivolgeva al cane in pelo ed ossa. Il cagnolino robot si sentì dimenticato, era deluso dalla glacialità dell’uomo, uscì di casa, lesto e senza fare rumore, e non vi tornò più. Da allora vagava per la grande metropoli, offrendo i suoi servigi, nei negozi e nei supermercati, consegnava persino la spesa a casa, se gli veniva ordinato, a condizione che fosse ben remunerato, rifuggiva qualsiasi contatto affettivo con l’uomo, era diventato l’imprenditore di se stesso, ormai era così richiesto che si poteva permettere di accettare solamente le commissioni che gli intereressavano e che non lo stancavano eccessivamente. Giovanni lo salutò e gli augurò buona fortuna. Si recò nel luogo alla periferia di Tokyo, dove era stato lasciato da Abraham, finalmente il grande Pesce giunse, lo fece salire sulla sua schiena e volarono via. Abraham era molto rilassato, si sentiva ringiovanito e rinvigorito, con un colpo d’ala si trovarono di fronte ad una porta circondata dal nulla. Giovanni si rese allora conto che si trovava di fronte alla porta di cui gli aveva parlato sca. Ora era evidente, doveva adempiere all’iniziazione, doveva are attraverso l’arco della porta e sarebbe divenuto un Samurai. Si tolse i vestiti, rimase nudo, poiché l’uomo nasce nudo, per poter rinascere ad una nuova vita, si deve tornare allo stadio del neonato. Iniziò a camminare verso la porta, con una certa esitazione, guardava davanti a se con una punta di timore e rispetto, presentiva che qualcosa di sacro e misterioso stava per accadere nella sua vita normale. Attraversò quella soglia titubante, dall’altra parte vi erano dei ciliegi ed un panorama spettacolare, i suoi occhi si trattennero sui rami degli alberi, poi vagarono sull’abisso cercando un punto dell’orizzonte da mettere a fuoco, ed al quale ormeggiare il suo sguardo, non lo trovava il vortice era immenso, la spirale roteava intorno a lui, sentiva le sue membra leggere, le ossa cave come quelle degli uccelli, la sua anima stava volando fuori dal corpo. Forse quando uno nasce dal ventre della propria madre, vive quelle sensazioni, ma non

riusciva a rammentare, spingeva la sua memoria oltre ogni limite umano e fisico, l’affaticava in una impossibile discesa alle radici dell’io. Un attimo dopo l’anima era rientrata nel corpo, tutto gli appariva più chiaro, il giorno aveva una luce diversa, il suo respiro era più profondo, le braccia e le gambe avevano una nuova sensibilità, il sangue scorreva più libero, le sue mani palpeggiavano l’aria, i suoi occhi erano spalancati, le palpebre non erano più pesanti ed intorpidite, era nuovamente vivo, ancora non gli era chiaro sotto quale forma fosse resuscitato. Abraham gli disse, avvolgendolo nella sua ala, che era sempre uomo, ma era anche un samurai, la sua mente ora aveva le ali, poteva viaggiare senza muoversi, gli era sufficiente immaginare un luogo ed avrebbe istantaneamente conosciuto quel luogo, come se vi avesse vissuto da sempre. In quel momento sentì un brivido lungo il corpo, un formicolio iniziò a scorrere lungo la sua persona, lo attorniarono dei giganti, avevano dei mantelli straordinari, i loro elmi ostentavano animali reali e fantastici, uno di loro si staccò dal gruppo, era temibile nella sua armatura, si sciolse i lacci, rimase con la sola veste di seta, si sganciò dal mento l’elmo e procedette verso Giovanni, al quale intanto tremavano le gambe, gli rivolse un sorriso benevolo, si sentì gli occhi del Samurai nei suoi, così gli permise di rivivere le numerose battaglie, gli scontri sanguinosi, vide la vita del Cavaliere orientale dentro di se, una pellicola, immagine dopo immagine, si proiettava nel suo cuore, nei suoi polmoni che cercavano l’aria, un mare di sangue gocciolava dalle nuvole, il cielo era rosso, le grida facevano vibrare la terra come un tamburo, la Katana fendeva il vento, una corsa di cavalli impazziti, ma chi era questo personaggio di cui la stessa natura doveva avere paura? Il gigante si presentò, era Musashi, la leggenda in Giappone si era impadronita di lui, quando si parlava degli antichi Samurai era inevitabile menzionare il suo nome. Si narrava di lui come di un santo, ma anche come di un demonio, ma qual’era il suo vero volto? Musashi si avvicinò ancora di più a Giovanni e gli cinse ai fianchi la sua Katana, ora iniziava la missione, doveva ritrovare la Katana maledetta, e distruggerla. La Katana si trovava a Londra. Era nascosta in un orfanatrofio, sotto il letto di un bambino, nel pavimento vi era una botola, dentro vi era la spada posseduta dagli spiriti del male. Adesso doveva volare verso l’Europa con Abraham. Il grande Pesce e sca, la sua sca, la donna Samurai, gli avrebbero mostrato la via. Musashi lo strinse a se, chiamandolo figlio, si voltò, si diresse verso la Porta, la oltreò e scomparve. Abraham invitò Giovanni a salire su di lui e ripresero a volare, lui gli chiese di dirigersi a Roma, voleva rivedere la sua Ruth ed il figlio.

Londra. Albeggiava su Hyde Park, la brina riluceva sui prati, una brezza leggera soffiava sulla città che muoveva il suo corpo assonnato, uomini e donne si tuffavano nei buchi della metropolitana, tra le mani stringevano un coffee e con la cannuccia succhiavano con tenacia ed impazienza, le persone che scendevano, miracolosamente, non si urtavano frontalmente con le persone che salivano, nei treni i giornali si aprivano e chiudevano rapidamente, la gente divorava i titoli, poi venivano lasciati sui sedili, ed il prossimo viaggiatore li afferrava, consumandoli fino alla sua fermata. Un giornale aperto lasciava intravedere il viso di un uomo insanguinato, indossava una giacca finemente rifinita, non era uno dei soliti barboni o nuovi poveri, ucciso dal freddo o da una coltellata di un malvivente, che indispettito per non aver trovato nelle tasche o nel portafoglio di pelle di coccodrillo del malcapitato, nemmeno un centesimo lo aveva fatto fuori, mettendo fine alle sue pene. L’uomo del giornale era un individuo elegante, si vestiva secondo la moda, le sue scarpe erano lavorate artigianalmente, era un pezzo grosso della High Society della capitale. Sotto la foto si poteva leggere, nei titoli grandi, il nome, era Sir Arthur, il banchiere della City. Una signora si sedette accanto al sedile sul quale era posato il giornale spalancato, lo prese, lesse i titoli, osservò la foto ed un leggero sorriso le affiorò nell’angolo del labbro. Forse era felice di venire a conoscenza di quel delitto spietato, certamente non era amareggiata o triste. Sir Arthur non era assolutamente molto amato dal popolo inglese, era apprezzato nell’alta società per i suoi “divini” ricevimenti nella sua villa alle porte della capitale. Ma la gente comune lo detestava, lo considerava uno squalo dell’alta finanza. Chi era stato ad ucciderlo e come? Riavvolgendo i fili della storia, con un salto all’indietro, andremo alla notte precedente e vedremo in faccia l’assassino. Sir Arthur quella sera, dopo una cena con amici, ed aver fatto una eggiata con il suo fedele cane, era andato a trascorrere la notte con la sua amante nel cuore di Londra nei pressi del Victoria & Albert. Era entrato nell’elegante edificio, aveva preso l’ascensore, si era fermato al piano, lei lo attendeva sulla porta nella sua vestaglia di seta semitrasparente, gli mise le braccia al collo e lo tirò dentro. Lì ò l’ultima notte d’amore della sua vita avida ed avara. Verso le due, quando nel silenzio la capitale affondava, una nave fantasma alla deriva, ed ogni tanto il rumore dello scarico di un bagno spezzava la quiete, si potevano sentire delle urla nella tromba delle scale, un uomo era penetrato nella casa della donna di Sir Arthur, il miliardario aveva iniziato una folle corsa verso lo studio, stava frugando dentro un vaso, una preziosa porcellana cinese, ma veniva raggiunto dall’uomo. La donna intanto era rimasta impietrita sulla soglia dello studio, poi riavutasi, disse

all’uomo di uccidere senza pietà il banchiere malvagio. Alessandro sfoderò la Katana, lo fissò negli occhi, cercando dentro di se un moto seppur minimo di comione che lo distogliesse dal crudele delitto, ma nel suo cuore non trovò alcuna ragione per risparmiargli quella morte atroce, con un colpo tagliò in due il vaso, il cui coperchio per alcuni secondi rimase sospeso nel vuoto, cercando ancora la parte inferiore alla quale avvitarsi, poi si schiantò in terra, frantumandosi in migliaia di briciole, gli occhi di Sir Arthur correvano ovunque cercando una via di fuga, le dita delle mani si erano irrigidite e non avevano più alcuna presa, il sudore e le lacrime si mescolavano sotto il mento e scivolavano sul tappeto persiano. Sir Arthur invocava tutto il pantheon dei santi, ma era abbandonato da tutti. La Katana sibilò nell’aria e lo tagliò in due all’altezza dello stomaco. La voce di Sir Arthur continuava ad espandersi nella stanza, poi si accorse di essere morto. Nella sua mente viaggiarono le ultime immagini al rallentatore, i ricevimenti, i trofei della caccia alla volpe, i politici che avevano appoggiato la sua scalata al potere, i politici che lo avevano coperto per anni, fino alla simulazione della bancarotta, le vacanze ai Caraibi, ed infine le gambe della sua amante, il sesso sfrenato, ora doveva lasciarsi andare, abbandonarsi alla fantasia di un ultimo orgasmo, si trovava in una riunione con personaggi famosi della Londra bene, donne ed uomini avvinghiati, ma anche uomini ad uomini vestiti da donna, vi erano magistrati che percuotendo il loro martelletto sul banco avevano amministrato la vita e la morte delle persone. Chiuse gli occhi, spegnendosi nel piacere. Alessandro lo guardò un ultima volta ed uscì dalla casa, scendendo a precipizio gli scalini. Si allontanò nel buio assorbito dalla notte che ancora non lasciava il posto al nuovo giorno. Ma Sir Arthur era solo uno dei tanti.

Roma. Era una mattina piena di sole, Abraham atterrò in un prato dalle parti dell’Appia antica, Giovanni lo salutò, si sarebbero rivisti la mattina dopo nel luogo dove lo aveva lasciato. Arrivò a casa per l’ora di pranzo, Ruth sembrava che lo avesse sempre atteso, era bella, come sempre bella. Il figlio era, ogni giorno, che ava, più dolce e sorridente. Aveva in quel periodo, pensato, spesso e volentieri, ai suoi amici pittori e scultori. Quando era più giovane, si era interessato della curatela di alcune mostre d’arte, personali o collettive che fossero. Molte volte aveva vissuto con questi artisti, per periodi più o meno lunghi, per approfondirne la vita interiore e conoscere gli angoli più reconditi della loro molteplice personalità. Per un momento gli tornò alla mente un nome

ed un volto, Lorenzo era un artista bizzarro, aveva una barbetta da satiro, gli occhi vivi e giocosi, amava lo scherzo e la provocazione intelligente, scolpiva fiori fantastici, la cui forma ricordava alghe marine ed anemoni, e costruiva ricci, piccoli, grandi e giganteschi. Un giorno Lorenzo aveva affrontato la costruzione di un riccio monumentale, Giovanni guardandone il progetto ne era rimasto affascinato e sorpreso. Il riccio poteva benissimo ospitare al suo interno una persona. Aveva in quegli anni desiderato spesso di provare a chiudersi in quel riccio per almeno una notte. Decise così di telefonare a Lorenzo e di chiedergli se gli poteva edificare un riccio gigantesco sulla sua terrazza, era determinato ad usarlo quale pensatoio, intendeva trascorrere alcune ore nel corso della giornata all’interno di quella grotta straordinaria a riflettere, a riformulare i suoi pensieri e le scelte che doveva assumersi. Lorenzo al sentire la voce del vecchio amico, accettò l’incarico senza alcuna esitazione, avrebbe quel giorno stesso cominciato la progettazione ed i lavori, prevedeva che nel giro di una settimana, forse anche meno, gli avrebbe consegnato il riccio pronto e rifinito, naturalmente completo di spine. Giovanni era fiero dell’idea che aveva avuto, ed inoltre i due amici si sarebbero rivisti in quell’occasione. Ma Lorenzo perché si era dedicato corpo ed anima ad elaborare ricci, quelle strane creature marine? Proveniva da una zona della Puglia, dove gli abitanti erano particolarmente golosi di ricci, ne divoravano grandi quantità. Si può dire che era cresciuto a pane e ricci, dalla prima infanzia se ne era innamorato. Il riccio era per lui la vera bandiera di quella terra e così aveva stabilito che era giusto dedicargli un monumento con tutti gli onori del caso. Ruth entrò nella stanza, Giovanni aveva da poco abbassato la cornetta del telefono, si dondolava nella poltrona ripensando ai suoi amici artisti, lei gli si avvicinò, aveva voglia di lui, si lasciò cadere di dosso l’accappatoio e lo prese, lì immerso nei suoi pensieri, nelle sue fantasticherie. Lui provava a seguire con la mente il filo delle sue frasi e delle sue immagini, ma non vi riusciva, le sue visioni si opacizzavano, si dileguavano. Lui era suo, non c’era niente da fare, era meglio lasciarsi andare in quella corrente e partecipare, cavalcare le emozioni e le sensazioni. Il piacere cresceva, l’odore di lei aveva riempito la stanza, aveva impregnato le pareti, i mobili, tutto sapeva di lei, del suo umore. Onda dopo onda, il mare ingrossava, copriva la terraferma, invadeva i centri abitati e trascinava via corpi ed oggetti, la furia degli elementi si era scatenata sul suo corpo, lei per qualche attimo, l’aveva sentito con la mente lontano, doveva riappropriarsi della terra che con la bassa marea rischiava di seccarsi, le onde salivano all’improvviso, sradicavano alberi e case, un urlo poi un altro rimbombarono dal nucleo di fuoco della terra, il mare bagnò per ultimo i piedi delle montagne e poi si ritirò, addormentandosi sul suo torace.

Tower Bridge si stagliava con la sua mole elegante ed austera, Alessandro camminava rapido, senza fermarsi a guardare la gente o le vetrine, si fermò di fronte ad un edificio neoclassico, vi entrò, tutti lo salutavano e sembrava che lo conoscessero molto bene. Era l’orfanotrofio che il nobile romano aveva voluto e che sosteneva con importanti e consistenti finanziamenti di tasca propria. Alessandro aveva, sin da giovane, sempre sognato di creare scuole, credeva nella formazione dei bambini, sosteneva che la cultura rende qualsiasi uomo libero. A Londra si parlava molto di quest’orfanatrofio, lo si considerava un luogo di speranza, era ritenuto uno dei luoghi migliori per il corpo docente estremamente preparato e selezionato personalmente dal Principe romano. Nell’insegnamento si attribuiva una notevole importanza all’educazione, ai valori sociali, politici ed umani. La storia dell’arte, la storia delle religioni, la letteratura erano le principali materie di studio. Le giovani coscienze si dovevano nutrire dei simboli e dei sentimenti umanistici e rinascimentali, e dedicarsi al concetto di evoluzione sociale e di uguaglianza attraverso lo studio della grande letteratura, infine proiettarsi in un futuro dove non esisteva più l’affermazione che una religione è migliore dell’altra, poiché si avvicina di più alla verità. Non esiste una verità assoluta, lo sforzo di ogni singolo uomo è apprezzabile e stimabile nel tentativo individuale di catturare la verità. Alessandro ben sapeva che a quell’ora della mattina, i bambini erano nelle aule, si aggirò per i corridoi, ogni tanto da una piccola finestra di vetro incorniciata nelle porticine delle aule, si affacciava, senza disturbare la lezione in corso, scorgeva i piccoli alunni attenti e silenziosi, tesi ad apprendere, con le membra e con lo spirito; ne era compiaciuto, era orgoglioso di quei figli adottivi così scrupolosi nell’eseguire i compiti e gli ordini dei loro professori. Salì i gradini di uno scalone ed in un paio di minuti si ritrovò di fronte un grande portone di noce massiccio, lo aprì, ed entrò, era il dormitorio dei bimbi, andò con fare deciso, sicuro di se, verso un lettino, si inginocchiò, guardò sotto, afferrò un gancio, di cui lui solo conosceva l’esistenza, lo sollevò, era una botola, estrasse, da sotto il cappotto, la katana, e la depose nel vano del pavimento, richiuse la botola con grande cura ed attenzione. Si alzò, si aggiustò il cappotto, guardò al di sopra della testiera del letto, vi era un nome, Paul seguito da un cognome altisonante. Il bimbo era il figlio di un magistrato, che era morto, alcuni anni or sono. Ora viveva e studiava per essere un uomo migliore del padre. Si diceva che il magistrato era morto a causa di un volgare incidente, del quale si ignorava la natura. Una sera, una domestica, della Londra bene, dalle parti di Saint Paul Cathedral, dove aveva la sua ricca dimora il giudice, scese in strada, con la busta della spazzatura si

diresse verso un cestino, sollevò il coperchio, si ritrasse distrutta dall’orrore di ciò che aveva visto, una dentatura perfetta gli aveva sorriso, illuminata dalla luce di un lampione. Era la testa del giudice, paralizzata in un ghigno ironico. La polizia stabilì che l’uomo era stato ucciso la notte precedente. Era una calda sera d’inizio estate, insolita per Londra, quando Alessandro si era intrufolato nell’appartamento dove il giudice viveva con sua moglie ed il piccolo figlio nato da poco. La moglie con il neonato era a casa di una sua amica fuori città. Il giudice Sir Anthony era da solo in casa, ed era giunta la sua ora quell’afosa sera d’estate. Il giudice era un uomo ambiguo e malvagio, la sua notevole fortuna era legata ai versamenti sui suoi conti correnti all’estero, di centinaia di migliaia di sterline da parte di politici che lui abilmente ricattava, il suo silenzio e la sua collaborazione avevano un costo elevato. Chi rifiutava di omaggiarlo con generosi regali, veniva colpito dalla cieca giustizia, indagava e sempre aveva la capacità di individuare un neo nella vita apparentemente perfetta ed esemplare di un uomo. Questi uomini perseguitati dal giudice inflessibile, venivano processati e rinchiusi nelle galere più dure, lontani dall’affetto dei loro familiari. Politici, imprenditori, banchieri nell’abissale solitudine della cella, accusati di corruzione, di frode in bilancio, a volte giustamente ma anche ingiustamente, venivano aggrediti dalla depressione, alcuni uscivano dalle prigioni dopo anni, distrutti ed invecchiati, malati, consumati dall’infinito dolore morale e spirituale, incapaci di ricrearsi una vita, all’indice con la nomea di malfattori, dimenticati dalla moglie che si era risposata e dai figli che avevano trovato un nuovo padre. Alcuni di questi carcerati, non avevano sopportato l’orrore della privazione della libertà, non tolleravano di essere stati cancellati dalla società reale ed attiva, così si toglievano la vita. Sir Anthony aveva costruito così parte del suo successo, sui cadaveri eccellenti, scrivendo libri sul rispetto della giustizia e sui casi che aveva dovuto affrontare nei tribunali, si considerava il custode della morale, veniva intervistato dai giornalisti della BBC preoccupati di interrogarlo sui pronostici riguardanti l’alta società londinese. Nei programmi televisivi Sir Anthony dichiarava di essere alle prese con una nuova indagine, ribadendo che non poteva soffermarsi sui particolari o fare rivelazioni di alcun tipo, poiché avrebbe altrimenti intralciato i procedimenti in corso. Ma non gli poteva sfuggire di aver suscitato in questo modo una morbosa curiosità, la sua vocazione era la spettacolarizzazione della giustizia. Una volta avviato il processo ed a sentenza eseguita, usciva il suo libro. Strategia perfetta. Inoltre il giudice era un vizioso, chattava in internet, nei siti dove si cercava il sesso, fingendosi una donna, chiaramente non aveva mai avuto incontri reali al buio, aveva troppa paura di esporsi, non voleva far uscire il suo nome legato a questo genere di attività disdicevoli. Ma Alessandro, attraverso la sua rete di informatori, aveva scoperto

questa perversa ione del magistrato. Una sera, il magistrato, fingendosi una giovane ragazza desiderosa di compagnia, s’imbattè, in un sito di incontri, con un uomo, che immediatamente denunciò la sua eterosessualità, ma di trovare anche stimolante il rapporto con i travestiti, al magistrato che dall’altra parte della rete, intanto rideva soddisfatto, non parve vero, poteva in un certo qual senso rivelare la sua natura nascosta, entrare in un gioco sottile di ombre e luci, confidò al partner della chat di amare il travestimento femminile e di essere un uomo anche lui, iniziarono a frequentarsi assiduamente nel sito, il magistrato per rendere più verosimile l’esperienza, anche se aveva escluso il video, per non essere visto, alternava al parruccone del giudice, una bellissima e profumatissima parrucca color nocciola, nascondendo i suoi radi capelli biondi. Un giorno l’uomo chiese al magistrato un incontro reale, si era innamorato di lui ed era annoiato dal sesso virtuale, così gli dette un appuntamento davanti ad una discoteca per omosessuali, Sir Anthony l’avrebbe riconosciuto in quanto avrebbe indossato una minigonna, una parrucca nera e folta, stile Ava Gardner, una camicetta rosa, ed avrebbe portato dei tacchi a spillo vertiginosi. Il Magistrato gli chiese insistentemente di rivelargli l’identità, la sua era una richiesta di prova d’amore e di fiducia, in caso contrario non si sarebbero mai incontrati. Il travestito desideroso di un autentico e concreto contatto sessuale era un famoso politico. Il Magistrato, con in testa, la sua bella parrucchetta color nocciola, appuntò il nome su un foglio di carta. La sera che si dovevano incontrare, un automobile della polizia si accostò al marciapiede, sul quale svettava con le sue prodigiose scarpine il politico, ed un poliziotto scendendo gli aprì con deferenza lo sportello e lo invitò ad entrare. Alessandro, una volta in casa, aveva esplorato le camere in punta di piedi, ed aveva sorpreso il giudice seduto al suo scrittoio, intento a leggere e rileggere alcuni i del suo ultimo libro, che si era rivelato un successo editoriale, si avvicinò a Sir Anthony, che lo guardava terrorizzato, lo costrinse a prendere il parruccone da magistrato e ad indossarlo, poi gli chiese di sedersi alla scrivania e di leggere a voce alta alcuni i del suo libro, il giudice obbedì senza accendere una polemica, senza contrariarlo, credeva di avere a che fare con un pazzo dalle strane manie, si trattava probabilmente di un mitomane, che avendolo visto spesso in televisione, credeva in questo modo banale di assurgere ad una notorietà inaspettata e gloriosa, una volta realizzata l’ambizione di vedere il giudice leggere davanti a lui il libro, che il maniaco quasi sicuramente teneva appoggiato sul comodino, il folle sarebbe uscito dalla prestigiosa dimora di Sir Anthony e si sarebbe consegnato alla polizia, non prima di aver rilasciato una lunga intervista alla BBC raccontando l’avventura di come era penetrato nell’impenetrabile casa del giudice infallibile, e di come il grande guardiano della pubblica morale di fronte a lui aveva aperto il suo ultimo

libro ed aveva lentamente letto alcuni suggestivi i che poi avevano insieme commentato. Ma non andò così! Alessandro si mise alle spalle di Sir Anthony, mentre leggeva a voce alta:”La giustizia è la mia musa, nel dichiararla colpevole di corruzione, di falso in atti d’ufficio, di corruzione nei confronti di quella banda di ladri dell’associazione costruttori, al fine di ottenere voti per essere nominato membro del Parlamento, John Detroit, la dichiaro colpevole e la condanno a venti anni di carcere….”la testa si staccò dal collo e rotolò a terra, il sangue era un fiume in piena, le mani per qualche minuto ancora sostennero le pagine del libro, poi crollarono sul piano della scrivania senza vita. Alessandro prese tra le mani la testa, sembrò rivolgere alcune brevi frasi sconnesse fissando negli occhi il giudice, poi la infilò in un sacco, rinfoderò la katana e corse via dalla casa delle vergogne. Una mattina mentre camminava a piedi nudi per casa, guardando dalle ampie finestre gli alberi di Hyde Park, sentì squillare il telefono, francamente non aveva alcuna voglia di rispondere, poi una forza misteriosa lo spinse a prendere la cornetta, era la moglie del giudice, di Sir Anthony, lo stava pregando di accogliere nel suo orfanatrofio modello, il figlioletto Paul, poiché non aveva i soldi necessari per mandarlo in una scuola a pagamento. Anthony accetto, prendendo su di se la responsabilità dell’educazione del piccolo Paul. Una mattina gli balenò nella mente l’illuminazione di celare la Katana sotto il lettino del figlio di Sir Anthony, e così fece. Il figlio innocente del giudice avrebbe nascosto con il suo corpo il vero strumento della giustizia, la giustizia pura non corrotta, che esisteva incontaminata senza cercare compromessi con la coscienza e senza perseguire sporchi vantaggi personali.

Giovanni e Ruth, abbracciati stretti, stretti, trascorrevano quella notte dopo aver fatto nuovamente l’amore, sentivano le loro anime colme di luce e calore, una voce interiore iniziò a dialogare con lo spirito di lui, lo invitava ad andare verso il suo studio, assecondò l’invito che gli era stato rivolto a più riprese, si lasciò cadere nella sua poltrona nell’oscurità, non accese la lampada liberty della scrivania. Rimase fermo ad attendere ulteriori istruzioni che potevano venirgli da quella voce, da un momento all’altro, ma niente accadeva, regnava il silenzio più stagnante ed inverosimile. Ma una luce, una stella cadente microscopica iniziò a baluginare, ed a vibrare in una luminosità intermittente, nell’aria immobile. Poi, davanti in piedi, dritta e fiera, gli apparve sca. Lui scoppiò a piangere, l’amava come sempre. Iniziò a parlare con lei, gli venivano in mente i giorni dell’ospedale, di quando si baciarono intensamente per l’ultima volta nel corridoio. Giovanni, come tutte le sere, l’accompagnava al bagno, la lasciava

sulla porta, poi si allontanava e dopo qualche minuto tornava a prenderla, lasciava scivolare il suo braccio sotto quello di lei e usualmente si dirigevano verso la camerata dove lei riposava con altre sei donne; quella sera avevano scelto di trattenersi per qualche minuto seduti su una panca del corridoio, si scambiarono un bacio apionato, rubato al tempo nemico, sottratto alla dispettosa e gelida morte, un bacio che per sempre avrebbe portato dentro di se, l’amore aveva vinto la morte. Una relazione profonda e sincera continua oltre il muro della tenebra, il loro amore non era mai terminato, lei era quell’angelo che lui ogni tanto percepiva accanto, quando era immerso nei suoi pensieri. Non poteva toccarla, accarezzarla, ma la sentiva, era sempre presente nella sua vita. Ora era lì ed era impaziente di dargli un messaggio importante. Lei lo guardò con un amore immenso ed una sensazione di calore investì la sua anima, acquietandolo. Lei incominciò ad indicargli dove, esattamente, trovare la Katana maledetta, che doveva assolutamente distruggere al più presto, lui ascoltò attentamente, doveva usare la Katana di cui gli aveva fatto dono Musashi per annullare le potenze malefiche della spada e riuscire così a disintegrarla con un solo colpo. La Katana, posseduta dagli spiriti diabolici, si trovava a Londra, in un orfanatrofio, vicino Saint Paul, lui doveva penetrarvi nel tardo pomeriggio, intorno alle diciotto e trenta, quando i bambini erano a cena nel refettorio, e portare a termine l’impresa, senza frapporvi alcun indugio. Poi avrebbe raccolto le schegge della spada, riposte in un sacco, e le avrebbe gettate nel Tamigi. Giovanni fece cenno con la testa di aver perfettamente compreso e si mise la mano sul cuore, nell’espressione della più totale devozione. Prima di tornare verso la camera da letto e di sdraiarsi a fianco della bella Ruth, cercò di abbracciare sca, ma non vi riuscì. Lei se ne dispiacque, capì la sua amarezza e per rasserenarlo gli mostrò il ciondolo che lui gli aveva regalato quando erano usciti insieme per la prima volta, si trattava di un ambra fossile, aveva milioni di anni, veniva dalle rive del Baltico, lei si avvicinò ancora di più per fargliela vedere più chiaramente, era il simbolo del loro legame che non si era mai interrotto, era l’anello matrimoniale che lui non aveva fatto in tempo ad infilare al suo anulare, era un raggio di sole sul quale le loro due anime si incontravano ogni giorno ed ogni notte. Ma la morte era arrivata troppo presto. Lei, quella sera, respirava con grande fatica, gli aveva sussurrato in un orecchio che prima di incontrare lui, aveva chiamato la morte, la vita le era sembrata priva di senso, l’aveva conosciuto, si era innamorata ed aveva vissuto, ma la morte oramai circolava potentemente nelle sue vene, la voglia di vivere, nella frenesia della sua linfa, apriva la strada alla fine tragica, era ineluttabile, ma lui rimanendogli vicino fino all’ultimo le aveva donato l’amore più grande, l’amore sapiente che non può finire mai e che sa attendere. Giovanni, con gli occhi pieni

di lacrime, andò verso la sua camera da letto ed amò fino alle prime luci dell’alba la bella e giovane Ruth, nel bel mezzo del piacere gli parve che all’improvviso Ruth si trasformasse in sca, ma certamente era solo un allucinazione visiva e sensoriale, nulla di più, o forse no?! La mattina Giovanni arrivò puntuale all’appuntamento con Abraham e volarono verso le Alpi.

Nel Guardian, ormai, da alcune settimane, apparivano notizie di continuo sulla scomparsa di ricchi industriali, politici e banchieri a largo dei Caraibi, erano avvenimenti strani, sui loro panfili si sentivano così protetti dalle loro scorte armate, come erano possibili queste sparizioni! L’opinione pubblica congetturava che i miliardari non sparivano, in realtà facevano perdere le loro tracce inseguiti dal fisco, per ricomparire poi sotto altro nome, con una nuova identità in un altro angolo del pianeta, dove nessuno li avrebbe mai e poi mai riconosciuti. Ma non era affatto così, queste persone potenti venivano effettivamente sequestrate da un rapitore ignoto, che li imprigionava nelle stive di un panfilo di sua proprietà. Alessandro amava veleggiare, il mare era una delle sue grandi ioni sin da ragazzo, il suo panfilo aveva il motore, ma lui preferiva navigare a vela, il vero marinaio ama ascoltare il fruscio delle onde lungo i fianchi dell’imbarcazione. Mentre sorseggiava un rum, i versi dei gabbiani erano interrotti da lamenti umani, allora irritato, scendeva nella stiva, ne risaliva trascinando con se uno di quegli uomini ignari del destino che li attendeva, lo portava vicino al parapetto dell’imbarcazione, contemplava il tramonto e prima che sorgesse la luna, con la Katana, sua compagna inseparabile gli tagliava la gola, e lo dava in pasto ai pesci.

Abraham, dopo aver fatto con il suo cavaliere, un breve giro sulla Scozia, sulle montagne e sui laghi, atterrò a Londra, nelle immediate vicinanze, all’imbrunire. Una voce bisbigliò a Giovanni nell’orecchio che non avrebbe trovato la Katana al suo posto nell’orfanatrofio, poiché l’uomo malvagio che ne faceva uso, si trovava per almeno per una settimana ai Caraibi, dove stava commettendo degli atroci omicidi. Era sca che gli suggeriva di farsi ricondurre a Roma da Abraham, per tornare, trascorsa una settimana, a Londra e portare a compimento la missione. Così il grande Pesce riprese il volo con rotta Roma. Ruth lo accolse felice, entusiasta che il viaggio di lavoro non si era protratto a lungo. Il giorno successivo Lorenzo bussò alla porta della loro casa, il grande riccio era pronto,

ora lo doveva pazientemente montare sulla terrazza. Quando il riccio fu ultimato, Giovanni non riuscì a trattenersi dall’entrarvi, salutò tutti augurando la buona notte, voleva trascorrere quella notte nel ventre del riccio, si sentiva figlio del grande riccio, provava l’emozione di galleggiare nelle viscere del grande e mostruoso animale, aveva la sensazione che le membrane gli fero da cuscino e lo cullassero. Lorenzo, il mago dei ricci lo aveva portato nelle profondità del mare, lo aveva condotto nel labirinto metafisico ed onirico del grande riccio, le spine lo difendevano, il suo corpo era chiuso in una corazza, ma all’interno il confortevole riccio lo coccolava con le sue tenerezze morbide. Giovanni, scopriva che la vera dimensione del Samurai è avere la corazza di un riccio ed il cuore dolce, indifeso. Alla fine ava lunghe ore all’interno del riccio in meditazione. Trascorse una settimana, doveva partire nuovamente per Londra. Nella sua mente era sempre più chiaro il concetto che Buddha doveva aver raggiunto lo stato di assoluta beatitudine raccogliendosi in meditazione nella cavità di un riccio gigante, che San Gerolamo quando si ritirò nel deserto a pensare, era convinto di essersi chiuso in una caverna, ma in verità si era trovato nello stomaco di un riccio enorme. Giovanni era pronto a riscrivere la storia dell’ascesi mistica. Ma ora doveva tornare nella capitale inglese, non poteva dimenticare la nobile causa alla quale si era votato.

Abraham lo attendeva in un prato di sera vicino casa, ripresero il loro viaggio, arono sulla Manica, tirava un vento forte, ma Abraham tenne bene il volo, senza sussulti, atterrarono nei sobborghi di Londra, Giovanni dormì in un comodo albergo nei pressi di Piccadilly, il silenzio era rotto a tratti, da voci di ubriachi che avano in strada, rimbalzando da un palo della luce all’altro. sca in quell’interminabile notte, lo incoraggiò, lo rassicurò, gli promise che avrebbe vinto, poiché il Bene era dalla sua parte, tifava per lui. Giovanni si sentì più forte, una volontà di acciaio s’impadroniva delle sue membra, non ebbe più paura. Sorgeva il sole, la giornata appariva in tutto il suo splendore, ma per agire doveva aspettare il pomeriggio, nel frattempo decise di prepararsi al rito dell’annientamento delle energie negative della Katana, attraverso la concentrazione, la preghiera e l’astinenza da cibo. Arrivò quel pomeriggio e giunsero le diciotto e trenta, l’ora stabilita, Giovanni entrò nell’orfanatrofio dalla finestra di una delle aule, salì velocemente i gradini, fino a trovarsi di fronte la grande porta di legno di noce. Varcò la soglia, adesso doveva trovare la botola che nascondeva la Katana maledetta, guardare sotto tutti i letti il più velocemente possibile, prima che i bimbi rientrassero dalla cena. Ma su un

lettino, in fondo alla camerata, sedeva un bambino, che scese dal letto e gli andò incontro. Si presentò, era Paul, si proprio il figlio del giudice modello di morale, gli disse che gli avrebbe mostrato il nascondiglio della Katana, sollevò la coperta del suo letto, gli indicò un gancio, doveva sollevarlo, sotto giaceva la terribile arma. Giovanni si mise con metà corpo sotto il letto, prese il gancio, lo mosse, lo alzò, afferrò la lama della spada, la tirò fuori, uscì da sotto il letto, e chi trovò davanti a se? Alessandro, sorgeva lì davanti ai suoi piedi, infuriato, ma quando si accorse che si trattava del vecchio amico, del suo fratello di sangue, i nervi del suo viso si distesero, ed un ampio sorriso affettuoso solcò l’espressione delle sue labbra, ma perché il fedele amico voleva rubargli la sua Katana! Giovanni gli doveva delle spiegazioni. I due amici erano così felici di rivedersi, che decisero di andare a cena insieme, Alessandro avrebbe permesso all’amato amico di portare con se la Katana che gli era stata sottratta. Voleva conoscere le intenzioni di Giovanni. Si sedettero al tavolo di uno dei ristoranti londinesi più esclusivi. Ordinarono ostriche e champagne. Giovanni iniziò:”Allora, sei tu l’assassino, sei tu che uccidi tutta questa gente, sei forse impazzito?! Hai ragione sono uomini disprezzabili, hanno distrutto migliaia di vite e di speranze, sono dei mostri. Hai ragione, ma non puoi giustiziarli tu. Così diventi peggiore di loro. Non ti riconosco più, tu eri contrario a qualsiasi forma di violenza, che ti è successo?” Alessandro era profondamente turbato dalle parole dell’amico, si nascose il volto nella conca delle mani, poi alzò lo sguardo. Era evidentemente orgoglioso del suo operato e non aveva alcun rimorso. Alessandro provò a spiegargli la cattiveria di quegli individui, ma l’amico non lo ascoltava. Giovanni brindò con il calice alto fra le mani, assaggiò alcune ostriche, si alzò dalla tavola portando con se la spada maledetta, uscì fuori dal ristorante, soddisfatto della cena e dopo aver pagato. Prese la direzione di Hyde Park, lì aveva stabilito di eseguire il rito, per poi dirigersi al fiume, alle cui acque avrebbe abbandonato le ceneri della Katana diabolica. Alessandro lo seguì, come attonito, i suoi i erano quelli di un automa, vide che il suo amico del cuore si fermava, nel centro di una radura, era ormai quasi buio, tirava fuori una Katana simile a quella di lui, altrettanto antica e preziosa, e con un colpo recideva la lama dell’arma malvagia, gli spiriti del male fuggirono, poiché riconobbero la forza e la potenza di Musashi nel colpo sferrato, Alessandro cadde a terra stordito, Giovanni gli si avvicinò, gli accarezzò il bel volto e gli disse che adesso era veramente finita. Ora poteva tornare alle sue collezioni d’arte e dimenticare il male.

Abraham quella notte riportò Giovanni da Ruth………………………..

Giuseppe Ussani d’Escobar (Roma 20/10/1966) Laureato in Letterature Straniere, si dedica allo studio della Storia dell’Arte, diventa così Curatore di Mostre Personali di Artisti Contemporanei. Da sempre si interessa al Teatro ed ha scritto recensioni per la rivista “Prima Fila”. Ha rivestito il ruolo di responsabile delle Relazioni Culturali per Ambasciate Straniere presenti in Italia. Abraham è il suo primo racconto ad essere pubblicato, una storia fantastica dove i confini spazio-temporali vengono annullati. Un avventura romantica ed onirica, d’amore e giustizia destinata a farci sognare per un attimo ad occhi spalancati.

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