La prossima vita romanzo
Vittoriano Borrelli
Published by Giuseppe Meligrana Editore at Smashwords
Copyright Meligrana Editore, 2012 Copyright Vittoriano Borrelli, 2012
Tutti i diritti riservati ISBN: 9788897268413
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INDICE
Frontespizio
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Licenza d’uso
Vittoriano Borrelli
Dedica
Introduzione
Capitolo 1 - Ponte Vecchio Capitolo 2 - Il contratto sociale Capitolo 3 - Il lieto evento Capitolo 4 - Piazza della Signoria Capitolo 5 - Alla Galleria degli Uffizi Capitolo 6 - La leggerezza dell’essere
Capitolo 7 - Il Gallerista Capitolo 8 - Indovina chi viene a cena? Capitolo 9 - La caduta degli dei Capitolo 10 - Santa Maria Novella Capitolo 11 - La resa dei conti Capitolo 12 - Il giorno dopo
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Vittoriano Borrelli
Vittoriano Borrelli nasce a Portici (Napoli), il 14/09/1961. Fin da ragazzo dimostra uno spiccato interesse per la musica, la letteratura e, in genere, per tutte le cose in grado di ispirargli una forte ione emozionale. Inizia a scrivere alcuni racconti, per lo più autobiografici, ma verso i quattordici anni l’amore per la musica prevale sulle altre ioni tanto da divenire, quasi, il filo conduttore della sua adolescenza. Nel 1980 si iscrive alla SIAE ottenendo prima la qualifica di paroliere e poi quella di compositore. Ha scritto più di 300 canzoni e alcune di esse sono state riportate nel libro “Le parole del mio tempo”, scritto nel 2001. Nel 1988 si laurea in Giurisprudenza all’Università “Federico II” di Napoli, titolo che gli permette di accedere alla carriera di Segretario Comunale. Attualmente svolge tale professione nei comuni della provincia di Como. Grande estimatore di Alberto Moravia (ha letto e riletto tutte le sue opere), agli inizi del duemila “rispolvera” la sua ione per la scrittura e scrive “La prossima vita”.
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Non c’è peggior solitudine ch’esser soli con i propri sogni!
A mia madre
È stato per caso che un giorno, guardandomi allo specchio, mi sono chiesto se, alla fine di un certo percorso, ci sarebbe stata per me… una prossima vita!
Introduzione
Ho voluto scrivere un romanzo sull’immaginazione, affrontando un tema dell’esistenzialismo che sarebbe stato caro al mio illustre Maestro, Alberto Moravia. Il tentativo, naturalmente, deve essere visto alla luce della mia esperienza personale di autodidatta, senza alcun richiamo a termini di paragone con il grande scrittore romano che sarebbero impropri e irriverenti. Il romanzo parte da un evento drammatico, la morte della madre del protagonista, e si sviluppa attraverso trame che intersecano la realtà e l’immaginazione, in un gioco di simbolismi e di riferimenti concreti che il personaggio principale, Leo Ferretti, conduce fino all’estremo della sua coscienza. È un romanzo del dolore, muto e inespresso, che alla fine travolge e consuma la stessa immaginazione del lettore, divenendone, egli stesso, personaggio aggiunto di una cornice del tempo che può essere, indifferentemente, effettiva o virtuale.
Vittoriano Borrelli
Capitolo 1 Ponte Vecchio
Ho smesso di sentirmi giovane dal giorno della morte di mia madre. Prima di allora pensavo che la vita potesse riservarmi molte prospettive e speranze, talché la mia condizione di uomo era piuttosto proiettata in un futuro non ben definito, ma ancora pieno di cose da scoprire e da conquistare. Avevo da poco superato i quarant’anni e la mattina precedente il funerale mi guardai allo specchio notando, con sorpresa, due sottili solchi ai lati degli occhi, che ben presto avrebbero preparato il terreno alle prime rughe. Avvertivo qualcosa di più del normale abbattimento per l’affetto appena mancato, come se tutto a un tratto ogni parte del mio corpo si fosse inevitabilmente trasformata e cominciasse a dare i segni di una prematura senilità. In genere in circostanze come queste si piange molto. Io lo feci al punto da provare sollievo per essere riuscito a dare la prova visiva del mio dolore. Sono sempre stato refrattario a manifestare i miei sentimenti. Fin da bambino mi domandavo se, alla scomparsa di una persona cara, sarei stato capace di mostrare la stessa disperazione che in circostanze simili leggevo nelle facce di parenti o conoscenti. A dire il vero, quando mio fratello Enrico mi annunciò per telefono che la mamma era finita, rimasi come impietrito davanti alla cornetta, e l’unica frase che riuscii a dire fu un “Va bene, ci vediamo domani”, alludendo con questo che da lì a poche ore avrei preso il primo treno per Roma, fino a raggiungere l’ospedale dove la mia povera madre si era spenta. Ma appena misi giù il ricevitore cominciai a piangere a dirotto con le lacrime che, finalmente senza alcuna reticenza, mi ingorgavano il viso fino ad arrivarmi sul collo, come un fiume che durante un’alluvione oltrea gli argini senza incontrare alcun ostacolo. Abitavo in un piccolissimo appartamento preso in affitto, con le finestre che davano su Ponte Vecchio a Firenze. Mi ero trasferito in quella città da oltre dieci
anni, da quando cioè ottenni un posto come docente di filosofia in un liceo classico. In realtà avevo preso questa decisione non tanto per una semplice opportunità professionale, quanto piuttosto per allontanarmi dalla mia famiglia e, in particolare, da mio padre, verso il quale non ho mai nutrito grande affetto. Basta, dopo la telefonata di Enrico e il mio pianto disperato, consultai gli orari dei primi treni che all’indomani sarebbero partiti per Roma; poi presi un borsone nel quale infilai appena un vestito di ricambio e alcuni effetti personale, preparandomi per quello che speravo si trattasse di un brevissimo soggiorno nella casa di mio fratello. Ora, l’intenzione di fermarmi il più breve possibile a Roma potrebbe apparire contraddittoria rispetto al dolore che avevo provato all’annuncio della morte di mia madre. In verità, ero particolarmente preoccupato per alcune situazioni o aspetti pratici che avrei dovuto inevitabilmente affrontare. Innanzitutto, mi seccava enormemente dover incontrare persone che al mio cospetto contavano poco o che addirittura detestavo, prima fra tutte, mio padre. In secondo luogo, avrei dovuto occuparmi, sia pure con la collaborazione di mio fratello, delle questioni rituali inerenti all’organizzazione del funerale, alla scelta del loculo, agli accordi con l’agenzia di pompe funebri e con il personale comunale dei servizi cimiteriali, al rilascio di autorizzazioni e pratiche amministrative varie, insomma, a tutte quelle cose che ero costretto a fare nonostante avessi bisogno di restare da solo con il mio dolore. In terzo luogo, ma non ultimo d’importanza, ero convinto che quanto più fosse durata la mia permanenza a Roma, tanto meno sarei riuscito ad affrontare certe questioni familiari che dal giorno del mio trasferimento a Firenze pensavo di avere definitivamente accantonato. Mi accasciai sul divano e mi dedicai alla mia attività preferita: il pensiero. È una mia caratteristica quella di parlare poco e di pensare molto, soprattutto mi piace farlo in determinati momenti della giornata come la sera tardi, quando i rumori della città cominciano ad attenuarsi. A che cosa pensavo? Innanzitutto al fatto che non avrei più potuto sentire la voce di mia madre e già mi mancavano le sue telefonate settimanali, quando mi domandava se stavo bene, se il lavoro tirava e se un giorno o l’altro mi sarei deciso finalmente a farle visita. Erano le solite domande di una madre premurosa verso il proprio figlio, alle quali qualche volta rispondevo con tono seccato, ma che adesso mi mancavano terribilmente. Mentre ricordavo queste parole, mi parve di vedere la figura di mia madre,
snella, con il corpo ben slanciato e molto più giovane di come l’avevo vista l’ultima volta. Eccola apparirmi con i capelli nerissimi, avvolti in un fazzoletto azzurro, un vestito dello stesso colore che le arriva alle ginocchia e una mano infilata in una delle tasche laterali. Il viso dalla forma regolare è però di un colore bianchissimo, che fa da contrasto con le profonde occhiaie sotto i grandi occhi neri. La vedo inchinarsi ad accarezzare i capelli di me bambino con i pantaloncini corti e una cartella a tracolla sulle spalle. Mi dice: “Su Leo, da bravo, ora vai a scuola, vedrai che la mamma più tardi verrà a prenderti. ” Già, la scuola! Mi ricordai a un tratto che dovevo telefonare a Cinzia, la mia ex moglie, per avvertirla che il giorno dopo non avrei potuto accompagnare mio figlio Giulio alla gita scolastica. Eravamo separati da un anno, ma di comune accordo avevamo deciso di continuare a frequentarci esclusivamente nelle occasioni in cui il nostro ruolo di genitori ce l’avrebbe imposto. Composi il numero di quella che per tre anni era stata anche la mia casa, e dall’altra parte Cinzia rispose con la sua solita voce calma e sorniona. Le spiegai quello che mi era accaduto cercando di controllare per una sorta di pudore la mia commozione. -“Mi dispiace tanto Leo, posso fare qualcosa per te?”-“No, ti ringrazio. Piuttosto, dovresti dire a Giulio che domani non potrò accompagnarlo.”-“Non preoccuparti, lo farò io. Chiederò un permesso.”Cinzia lavorava come vicaria alla direzione didattica della scuola materna di mio figlio. -“Sicuro Leo che non hai bisogno di niente?”-“No, no… è meglio che ti occupi di Giulio. Ci vediamo al mio ritorno.”Riagganciai e mi strinsi nelle spalle domandandomi che cosa avrei fatto nei prossimi cinque minuti. In quel momento avevo soprattutto bisogno di fare o pensare a qualsiasi cosa pur di tenere la mente occupata e lontana dal senso di solitudine che provavo. Mi accostai alla finestra e notai una coppia di giovani amanti che sotto i portici
di Ponte Vecchio si scambiavano carezze. Non potei fare a meno di pensare ai tempi in cui io e Cinzia, proprio in quel medesimo posto, avamo le sere a tenerci per mano e a guardarci a lungo negli occhi, mentre l’Arno scorreva lento e silenzioso. Allora eravamo trasportati dall’ansia e dalla curiosità di immaginare il nostro futuro quanto più roseo possibile, senza lasciarci scalfire minimamente dal dubbio che la nostra unione, presto o tardi, non sarebbe stata più così intensa e coinvolgente come gli sguardi che ci scambiavamo. Si dice che niente è per sempre e che l’amore, più di ogni altra cosa, è come una fiamma destinata a spegnersi non appena il vento si alza un po’ di più. Penso che con Cinzia le cose siano andate proprio così. Prima l’innamoramento e, soprattutto, l’attrazione fisica, poi le prime incomprensioni, l’insofferenza, la noia, e infine, l’indifferenza che diede al nostro matrimonio il colpo di grazia. Ma, come in tutte le cose che falliscono, ci fu più di una ragione per cui da una fase di grande trasporto emotivo e ionale, ammo a un’altra di segno opposto, in cui smettemmo di considerarci l’una parte dell’altra o, come si dice, una cosa sola, unica e indissolubile. Queste ragioni furono in un certo senso precedute da circostanze “indiziarie” e concorrenti con l’evolversi degli eventi che determinarono la fine del nostro rapporto. Dopo la nascita di Giulio, Cinzia non riuscì più a perdere i chili che aveva accumulato durante la gravidanza. Anzi, nonostante seguisse - peraltro senza convinzione - svariate diete il suo peso, anziché diminuire, aumentò ancora di più, procurandole non pochi problemi psicologici e relazionali. Quando l’ho conosciuta Cinzia era magrissima, con un corpo così longilineo e slanciato che avrebbe potuto fare la fotomodella. I lunghi capelli biondi che attorniavano il viso minuto e regolare e che mettevano in risalto i grandi occhi azzurri, il naso lineare e la bocca piccola ma formosa, le conferivano l’aspetto di una ragazzina, sia pure già matura nelle grazie e nelle movenze. Cinzia era consapevole della sua bellezza e non perdeva occasione di sfoggiarla in tutte le sue espressioni, soprattutto quando facevamo l’amore. Era questo il momento in cui Cinzia dava il meglio di sé, quasi che il rapporto fisico fosse per lei il modo più efficace e immediato per veicolare i propri sentimenti. Mi veniva sopra spogliandosi lentamente fino a denudare per primi i seni rotondi e ben
proporzionati, poi i fianchi sinuosi e vellutati, aspettando con i capelli ravviati all’indietro che con la mano io potessi tastare quelle rotondità. Poi chiudeva gli occhi ed emetteva un lungo sospiro, quasi a voler rivelare un appagamento totale che più tardi l’orgasmo avrebbe soltanto confermato. Chissà perché ma questa maniera precisa e rituale di fare l’amore, mi suggeriva spesso l’idea del rivenditore di automobili che al cliente di turno descrive con dovizia di particolari le caratteristiche di cui è dotato l’ultimo modello. Così Cinzia, che prima di offrirsi a me, sentiva l’esigenza di farmi intendere ogni volta di come il suo corpo fosse bello e desiderabile e traeva dal mio sguardo vigile ed eccitato una sorta di compiacimento che andava al di là del mero godimento fisico. Era chiaro che l’aspetto esteriore doveva essere per lei l’elemento che ben si coniugava con quanto la sua parte interiore intendeva esprimere. Questo bisogno di ricevere conferma delle proprie qualità fisiche e, nello stesso tempo, di essere pienamente accettata, durò all’incirca fino alla nascita di nostro figlio e da allora non avemmo che rapporti intimi fugaci e occasionali. Come ho già ricordato, Cinzia non riuscì più a smaltire il peso che aveva assunto durante la gravidanza e incominciò a ingrassare notevolmente, complice anche il nostro tenore di vita che mia moglie non gradiva e che anzi decisamente disprezzava. Cinzia, che proveniva da una famiglia poverissima, desiderava diventare ricca e invidiata da tutti e questa sua aspirazione l’anteponeva a qualsiasi cosa che non avesse un significato pratico e utilitaristico. Aveva scommesso su di me, allora giovane di belle speranze, appena laureato in giurisprudenza e aspirante notaio, costretto invece dalle circostanze e dalle opportunità della vita a ripiegare per un lavoro di minor prestigio e importanza. E così, invece che di ville sontuose, vestiti firmati e gioielli, non potei che offrirle un piccolo appartamento e la prospettiva di essere costretta a lavorare per far quadrare i conti del bilancio familiare. Anche se Cinzia non lo ha mai ammesso apertamente, sono convinto che siano state proprio le nostre condizioni di vita a trasformarla nella donna grassa e non più avvenente e desiderabile. Io, per converso, non condividevo questo suo atteggiamento che, anzi, mi offendeva e mi ispirava sentimenti di forte rancore. A quei tempi ero un ragazzo pieno di sogni e di ideali e per realizzarli pensavo
che il denaro fosse soltanto un mezzo, e neppure tanto importante. D’altra parte, il desiderio di liberarmi al più presto di certi legami familiari, mi aveva costretto a prendere decisioni forse poco allettanti dal punto di vista professionale, ma sicuramente più vicine alla mia aspirazione di condurre una vita semplice e dignitosa. Insomma ero, nell’accezione più tradizionale del termine, poco ambizioso e molto più incuriosito da ciò che accadeva nel mio mondo interiore e, in genere, nella mia sfera affettiva. Avevo inoltre dalla mia la grande ione per la pittura, attraverso la quale riuscivo meglio a percepire quanto dall’esterno mi arrivava in termini di emozioni. Era, questo, qualcosa di più di un semplice atempo, giacché alla creazione dei miei dipinti dedicavo una buona fetta della mia giornata. Non avevo però l’aspetto tipico del pittore, nel senso che non amavo vestirmi in maniera stravagante, magari con jeans e maglioni larghi, capelli lunghi e barba non curata. Ero, al contrario, piuttosto tradizionale nell’abbigliamento e molto più somigliante al piccolo borghese con giacca e cravatta, capelli cortissimi e imbrillantinati, la barba sempre ben fatta. Molti facevano fatica a credere che avessi l’hobby della pittura. “Come? Fai il pittore con quella faccia? A guardarti non si direbbe proprio. Di solito i pittori hanno un aspetto così stravagante!”. Erano più o meno questi i commenti che sentivo fare, ma, come si vedrà nel mio racconto, sono sempre stato un uomo pieno di contraddizioni, l’esempio vivente di come sia possibile far coesistere l’essere e l’apparire. Cinzia, invece, considerava questa mia ione alla stregua di chi valuta le cose sotto l’aspetto della loro possibilità di procurare un certo vantaggio economico. Costretta a rinunciare al sogno di essere la moglie di un affermato notaio, Cinzia aveva cominciato a fare progetti sulla possibilità di trarre guadagno dalla vendita dei miei quadri. In realtà, a parte qualche sporadica mostra, dovette ben presto arrendersi e accettare a malincuore il fatto che da questa attività non si sarebbero ottenuti i risultati che lei si attendeva. Del resto, per la pittura, come per l’arte in genere, Cinzia non mostrava alcun interessamento particolare, né tanto meno si sforzava a farlo. Riporto un esempio che potrà chiarire meglio il rapporto che Cinzia aveva con questa mia ione. Subito dopo sposati andammo ad abitare in un appartamento dalle parti di Sesto Fiorentino, che io giudicavo per la sua esposizione sulle colline di Firenze, carino e accogliente, ma che Cinzia considerava semplicemente una sistemazione provvisoria, in attesa di alternative migliori. Era un piccolo appartamento all’ultimo piano di una palazzina immersa nel verde, che si distaccava da un complesso di case più vecchie collocate verso nord, in
direzione dell’Appennino. Questo appartamento aveva un piccolo ingresso e subito dopo un corridoio stretto e lungo che serviva il soggiorno e la cucina e, con una svolta a elle, il bagno e la camera da letto. Era una casa piena di quadri, di pittori più o meno sconosciuti, appesi in gran parte nel soggiorno che non era molto grande. Infatti, anche per la presenza del camino che occupava molto spazio, lo arredammo con pochi mobili e un divano che, per quanto lo avevamo pagato, costituiva il pezzo più pregiato. La camera da letto era, al contrario, così ampia che pensai di sistemare in un angolo della finestra il mio fedele cavalletto con la tela e tutto l’occorrente per dipingere. Ci avo in questa stanza gran parte del mio tempo libero, con lo sguardo spesso proteso a guardare al di là della finestra cercando di trarre da ciò che vedevo (o immaginavo di vedere) qualche spunto per i miei quadri. Una volta avevo realizzato un dipinto che raffigurava le quattro stagioni: da una sfera, simbolo del mondo, si dipartivano come raggi solari, sfumature di colori più o meno accesi a seconda del tipo di stagione. E così dal grigio cinereo e sbiadito dell’inverno si ava ai colori verdeggianti della primavera, giallognoli dell’estate e marroni dell’autunno. Non erano certo i colori di Monet, di cui ammiravo soprattutto la tecnica sopraffina e la genialità di saper coniugare l’immaginazione e la realtà della rappresentazione, ma mi sentivo piuttosto soddisfatto. A lavoro finito mi rivolsi a mia moglie per conoscere il suo parere. Cinzia era seduta davanti al comò, intenta a truccarsi, e alla mia domanda “Che te ne pare?” distolse lo sguardo verso il lato destro dello specchio in cui si poteva notare il dipinto appoggiato sul cavalletto. -“Mah, non saprei. Che cosa rappresenta?”-“Le quattro stagioni.”Si avvicinò di più allo specchio come per guardare meglio, quindi esclamò: -“A me sembra semplicemente un agglomerato di colori!”Rimasi deluso, non tanto per il giudizio poco lusinghiero, quanto piuttosto per la superficialità con la quale, ancora una volta, mia moglie mostrava di interessarsi alle cose che facevo.
-“Non pensi che per giudicare un quadro si debba andare al di là dell’impatto visivo e cercare invece di capire il messaggio che si vuole trasmettere?”-“E quale sarebbe questo messaggio?”Ora Cinzia aveva ripreso a truccarsi con una certa fretta, come se avesse voluto “sbarazzarsi” al più presto di quella discussione. -“Quello che tu definisci ‘un agglomerato di colori’ altro non è che l’uomo e le sue contraddizioni.”-“Sarà come dici, ma per me resta un mosaico di colori. Non dico che sia brutto, ma certamente non ci leggo il messaggio che ti ha ispirato.”Mi avvicinai alle sue spalle con le mani appoggiate alla sedia, guardandola fissa attraverso lo specchio. -“Anche tu quando ti trucchi, come in questo momento, lo fai perché vuoi trasmettere qualcosa e non certo per dare alla tua faccia un colore diverso. Voglio dire che c’è sempre una ragione per qualsiasi cosa che facciamo, basta semplicemente sforzarsi di comprenderla.”Cinzia sembrò capire l’antifona, e infatti sbottò: -“Oh Leo, quanto sei noioso! Cosa c’entra adesso il trucco con il tuo quadro?”-“C’entra nella misura in cui le nostre azioni siano preordinate a far suscitare negli altri una reazione. Tu ti trucchi evidentemente perché vuoi che il tuo viso sia più bello e desiderabile e, soprattutto, che siano gli altri a percepire questa cosa. Allo stesso modo, io ho dipinto questo quadro per trasmettere un certo messaggio come, appunto, le contraddizioni dell’uomo, ma potrebbe trattarsi di qualsiasi altra cosa che va al di là della mera rappresentazione visiva.”Cinzia rimase per un attimo in silenzio, come per riflettere su quanto le avevo detto. Poi sentenziò: -“Mi sembra un ragionamento un po’ contorto. E poi non è sempre vero che facciamo le cose per attenderci dagli altri una reazione.”Adesso si era ata il rossetto premendosi le labbra per spargerlo
uniformemente. Io mi sdraiai sul letto con le mani unite sotto la testa e lo sguardo rivolto verso il soffitto. Quindi ripresi: -“È strano sentirti dire queste cose. Quando facciamo l’amore non la pensi proprio così.”Lei si girò di scatto lanciandomi un’occhiata interrogativa. -“Quando facciamo l’amore? Che vuoi dire?”-“Non so se te ne accorgi, ma quando ci amiamo ti comporti sempre allo stesso modo. Mi vieni sopra, ti spogli lentamente e prima di lasciarti andare ti accerti che io sia completamente rapito dalla tua bellezza. Insomma, vuoi essere sicura che questo tuo modo di esprimerti sia pienamente condiviso e accettato da me. Se due più due fa quattro dovresti capire quello che intendo dire.”Cinzia si alzò dalla sedia riponendo nel beauty case quello che le era servito per il trucco, senza scomporsi affatto per le cose che le avevo detto. Si avviò verso la porta, e prima di andarsene si girò verso di me: -“Continuo ancora a non capirti. E poi la matematica non è il mio forte.”Quindi uscì dalla stanza.
Capitolo 2
Il contratto sociale
Di discussioni come quella ce ne furono molte altre, e tutte finivano quasi sempre con litigate più o meno accese che ci facevano tenere il muso anche per qualche giorno. Avvertivo sempre più la sensazione che Cinzia fosse infastidita del tempo che avo a dipingere, quasi estraneandomi dalla vita che mi circondava e, in un certo senso, anche da lei. Il mio rapporto con la realtà viveva e si giustificava attraverso le cose che creavo su quella tela, un po’ come uno straniero che, trovandosi in un paese sconosciuto, cerca di farsi capire attraverso un interprete. Cinzia, d’altro canto, non manifestò mai apertamente il suo disappunto e preferiva piuttosto usare parole con il doppio senso, che facevano alludere al suo disagio pur senza mai confessarlo. Così capitava che quando rincasava faceva finta di sorprendersi nel trovarmi in camera da letto immerso, come sempre, nella pittura. Spesso diceva: -“Ah sei qui, ti ho cercato per tutta la casa e mi chiedevo dove fossi finito!”- In realtà avrebbe voluto dirmi: -“E dove mai potevo trovarti se non in questa stanza, con la tua fedelissima tela?”Lentamente, quasi senza rendermene conto, smisi di parlare con lei. Voglio dire che a un certo punto iniziammo a comunicare solo a gesti, un po’ come accade tra due sordomuti che si sforzano di capirsi. Del resto, ciascuno di noi conosceva perfettamente i comportamenti e le abitudini dell’altro, sicché l’uso della parola non era neanche più indispensabile. Io sapevo che Cinzia si svegliava a una tale ora, riordinava la casa, usciva a fare spese, preparava il pranzo, stava in soggiorno a leggere qualche rivista o usciva di nuovo con un’amica a fare shopping fino a che non rincasavo. Parimenti, Cinzia, pur nel dormiveglia, conosceva a memoria tutti i miei movimenti, quando la mattina presto mi alzavo dal letto ai primi due squilli della sveglia, andavo in bagno, mi facevo la doccia e, a giorni alterni, la barba, andavo in cucina e preparavo il caffè, quindi mi vestivo, prendevo la valigetta e uscivo di casa per andare a lavoro fino a rincasare la sera per la cena o, quando tornavo presto, a rinchiudermi in camera con la mia pittura. In quel periodo non avevamo bisogno di sapere null’altro di quello che poteva capitarci nella nostra vita. Ci bastavamo così!
Cinzia, a un certo punto, smise addirittura di cercarmi per la casa, tanto ormai sapeva dove trovarmi e qualche volta mi capitava di sentirla annunciare dal corridoio che la cena era pronta anche se non c’eravamo ancora visti per tutto il giorno. Sembrerà strano, ma non avevamo ancora toccato il fondo. Il nostro matrimonio si reggeva su questa abitudine che noi condividevamo con tacito assenso. E del resto fu forse quello il periodo in cui i nostri rapporti intimi si intensificarono ancora di più. Muti di giorno, la sera sembrava fatta apposta per dare sfogo al nostro linguaggio dei sensi e per ristabilire tra noi quell’equilibrio che la vita diurna pareva mettere in bilico. Insomma, cercavamo di recuperare attraverso il rapporto fisico il senso di appartenenza alle cose e alla realtà e, alfine, alla nostra stessa esistenza. Quella solitudine e quell’essere distanti, che di giorno ci faceva comportare come due stranieri inibiti nel linguaggio e nella comunicazione interpersonale, di notte si trasformava in una sorta di àncora di salvezza che ci restituiva, attraverso la congiunzione carnale, il senso di essere una coppia che viveva sotto lo stesso tetto e che, bene o male, doveva agire come tale, almeno fino a quando la vita che ci eravamo imposti non sarebbe cambiata. Bambino, quando ancora dormivo nella camera dei miei genitori, mi capitava di svegliarmi e di scorgere mio padre e mia madre impegnati nell’amplesso e ricordo che non riuscivo a spiegarmi come due persone, -che di giorno si ignoravano completamente,- potessero di notte avere un comportamento così intimo e ionale. Forse fu anche per questo che nel mio rapporto con Cinzia, trovai quasi naturale il diverso atteggiamento che l’uno riservava all’altro quando la porta della camera da letto si chiudeva e ci si ritrovava inevitabilmente a stretto contatto. Cinzia, probabilmente, era arrivata a questo percorso per motivi diversi dai miei, e una volta provò a spiegarmeli in un momento di intima confessione. Avevamo da poco finito di fare l’amore e mia moglie, anziché rivestirsi, rimase distesa sul letto, con la testa appoggiata a una mano e lo sguardo rivolto verso di me che giacevo supino.
Mi disse: -“Oggi è stato più bello delle altre volte.”Tacque per qualche istante, come per attendersi una risposta che non venne, quindi proseguì: -“C’è un particolare di te che mi piace molto e che mi fa sentire in un certo senso appagata, al di là del piacere fisico che provo quando stiamo insieme.”Mi girai verso di lei domandandole: -“E quale sarebbe questo particolare?”-“Il modo con cui mi guardi quando sono sopra di te. Tu fai l’amore soprattutto con gli occhi. Si direbbe che non c’è altra parte del tuo corpo che sia così espressiva come lo sguardo che, immancabilmente, mi rivolgi a un certo punto del rapporto. Oggi, quando ho avuto l’orgasmo e ho riaperto gli occhi, ho visto nuovamente questo sguardo, ma è stato così intenso che mi sono sentita pienamente soddisfatta e felice di essermi concessa a te. Ti dirò di più: anche se da qualche tempo il nostro rapporto non funziona più come dovrebbe, credo che sia proprio per la tua maniera di amarmi che non mi sono cercata un altro uomo.”-“Vorresti dire per la mia maniera di guardarti.”-“Sì, diciamo pure per il tuo sguardo.”Mi alzai a sedere e allungai la mano verso il comodino per prendere il pacchetto di sigarette e l’accendino. Ne accesi una, e dopo due boccate, domandai: -“Adesso però mi devi spiegare come è stato questo sguardo e quali sentimenti ti ha ispirato.”Cinzia si alzò, s’infilò la vestaglia di pizzo nera che aveva acquistato poco prima che ci sposassimo e andò a sedersi ai piedi del letto, di fronte a me. -“Non so, è stato uno sguardo di implorazione e, nello stesso tempo, di gratitudine.”-“Implorazione? Gratitudine?”-
-“Sì. Di implorazione, perché in quel momento mi è sembrato che volessi chiedermi di continuare ancora con il movimento dei fianchi.”-“E la gratitudine? Cosa c’entra la gratitudine?”-“C’entra perché alla fine mi sono rovesciata indietro prolungando di qualche istante il momento di piacere che tu, forse inconsciamente, mi hai chiesto fissandomi negli occhi.”Poteva sembrare una rivelazione, e invece ebbi la conferma che il comportamento di Cinzia a letto non era per niente casuale, bensì studiato e calcolato. Non nascondo che a letto traevo maggiore godimento nell’osservare i movimenti di mia moglie, ma era altrettanto vero che la gestualità comunicativa di Cinzia andava al di là del mero asservimento ai miei desideri. In altre parole, avevo avuto la riprova, sia pure con una confessione sottintesa, che Cinzia, più che restare colpita dal mio sguardo, amava soprattutto sentirsi guardata, e il fatto di essere bella le conferiva in più la consapevolezza di poter suscitare in me quelle emozioni che lei desiderava per sentirsi gratificata. C’era però la questione “dell’altro uomo” che mia moglie aveva solo accennato, ma di cui ero stato particolarmente colpito. Provai a indagare: -“Prima mi hai detto che, grazie alla mia maniera di amarti, non ti sei cercata un altro uomo. Questo vuol dire che c’è stato un momento in cui hai pensato di tradirmi?”Cinzia abbozzò un mezzo sorriso, quindi rispose: -“Ecco, adesso ricominci con le tue solite domande! Non ti basta sapere che con te, nonostante tutto, sto bene e non m’interessa altro?”-“Nonostante tutto?”Si fece di colpo seria, e dopo aver sistemato un lembo della camicia che penzolava sulle gambe, come a voler nascondere una nudità che poco prima aveva esibito senza alcuna reticenza, ammise: -“Lo sai, Leo, che tra noi non è più come il primo giorno! Tu fai la tua vita, io la mia. Sembriamo due pensionati che alloggiano nello stesso albergo o due studenti che dividono la stessa casa.”-
-“E tu ti sei mai chiesta perché ci comportiamo così?”-“Sì. E mi sono detta che ciascuno di noi ha bisogno di un proprio spazio. Forse è anche colpa della nostra vita quotidiana che ci impone di fare le stesse cose e ci dà poco tempo per pensare a noi stessi. Così trovo quasi naturale che tu i il tuo tempo a dipingere ed io a fare spese o a incontrarmi con qualche amica.”Dovevo aver assunto un’espressione triste e malinconica perché tutto a un tratto Cinzia si avvicinò a me e, accarezzandomi il viso, si affrettò a rassicurarmi: -“Ma non ti preoccupare. Sono ancora innamorata di te. !”Mi schioccò un bacio sulla fronte e si avviò trotterellando verso la porta avvertendomi che sarebbe andata a farsi una doccia. Così Cinzia era cosciente del fatto che il nostro matrimonio cominciava a dare i primi segni di cedimento ma, al contrario di me, attribuiva a questa crisi, almeno apparentemente, un’importanza minimale, dovuta più agli effetti di un’assuefazione quotidiana che a una vera e propria regressione dei sentimenti. Non so se mia moglie fosse veramente sincera. I miei dubbi nascevano dal fatto che certi suoi atteggiamenti di stanchezza e di insofferenza verso le cose che facevo parevano rivelare, invece, uno stato d’animo di profonda insoddisfazione per la vita che le avevo offerto. Anche se si procurava di non ammetterlo mai a chiare lettere io sentivo, ad esempio, che Cinzia non amava la mia pittura e questo lo faceva capire sia con atteggiamenti, diciamo, espliciti, che con discorsi sottintesi. Ad esempio, aveva sempre da ridire per il disordine della camera da letto causato da pennelli, tele e colori sparsi un po’ dappertutto. Non era raro che la mattina, quando si alzava prima di me, la sentissi brontolare per essere inciampata in qualche pastello o per l’aria viziata provocata dagli odori dei dipinti appena realizzati. Allora andava spedita alla finestra e apriva con impeto le imposte per far are l’aria. Qualche volta l’ho anche sentita mormorare imprecazioni del tipo: -“Accidenti a te e alla tua pittura!”- mentre io da sotto le coperte ascoltavo con le orecchie ben tese ma con lo stato d’animo molto dispiaciuto, come un bambino che poco prima sia stato sorpreso nell’atto di compiere una marachella. Ma come ho accennato, questo disappunto si manifestava, sia pure indirettamente, con certi discorsi chiaramente allusivi. Le poche volte in cui tra noi si instaurava un minimo di conversazione, mi parlava di questa o di
quell’amica che aveva una casa più grande e più bella della nostra o del marito dell’amica che aveva un lavoro tale da permettergli di andare a cena fuori almeno una volta la settimana o di are le vacanze estive in certe località rinomate anche per due o tre mesi. -“Certo, anche noi potremmo fare queste cose se solo il tuo lavoro fosse diverso, o se tu potessi occupare il tuo tempo libero facendo un’altra attività.”Quindi la mia pittura era per lei tempo sprecato, ma si guardava bene dal nominarla, forse perché sapeva quanto fosse importante per me. A essere sincero, ho cominciato a nutrire, a un certo punto, un sentimento di avversione e nello stesso tempo di struggente rimpianto per la donna che ancora amavo ma che, purtroppo, era così diversa da me. È vero, andavamo a cena soltanto ogni tanto e al mare, quando le cose andavano bene, per non più di quindici giorni all’anno. Ma mi pareva che questo tenore di vita, - peraltro molto proporzionale a quanto eravamo disposti a chiedere a noi stessi - fosse, a quell’epoca, l’unico possibile e non meritasse di essere continuamente sottoposto a termini di paragone ingiusti o quanto meno impropri. Del resto, come ho già detto, ero “geneticamente” incuriosito dalla vita dei sentimenti delle persone che potessero procurarmi un certo benessere interiore. Ero, è proprio il caso di dirlo, il tipico ragazzo con la testa tra le nuvole, che nonostante avesse varcato la soglia dei trent’anni, credeva ancora al motto “due cuori e una capanna”, anche se questa “capanna” era rappresentata da un piccolo appartamento alla periferia di Firenze. Quando eravamo fidanzati, Cinzia era molto meno esigente di quanto poi si è rivelata con il matrimonio. Anzi, sembrava convinta, anche più di me, che bastasse l’amore per affrontare e risolvere ogni genere di cosa, senza pretendere null’altro che una vita semplice, purché onesta e affettuosa. Mi diceva: -“Quando ci sposeremo, voglio essere per te una moglie perfetta. Mi prenderò cura di te, sarò una brava cuoca e una brava amante. Non ti chiederò altro che di amarmi come ti amo io.”E invece non è stato così! A poco a poco, abbiamo cominciato a nutrire l’un verso l’altro ambizioni non condivise, che mai si sarebbero collimate. Credo che uno dei motivi principali per cui molti matrimoni falliscono sia proprio questo cambio di aspettative verso se stessi e verso il proprio partner,
sicché non si è più disposti ad accettare cose che prima erano importanti ma che, a un certo punto, non lo sono più. Proprio in quei giorni stavo spiegando agli studenti della scuola dove insegnavo il significato del valore dell’esperienza giuridica secondo la concezione filosofica di alcune scuole di pensiero. In particolare, ero arrivato a illustrare la posizione dei giusnaturalisti, secondo la quale il valore dell’esperienza giuridica non poteva che fondarsi sul contratto sociale, ovvero sulla volontaria determinazione di regole e di comportamenti da parte di una certa comunità. C’era un aggio che mi aveva particolarmente colpito, se non altro perché mi sembrava di cogliere delle forti analogie con la mia esperienza matrimoniale. In breve, l’idea del contratto sociale così concepita, poteva avere valenza solo dall’angolo visuale di una concezione individualistica della vita sociale, che scinde l’individuo dalla stessa e che lo astrae dalla concretezza dei rapporti in cui vive. Proprio queste ultime parole mi sembravano, in un certo senso familiari, come se le avessi già sentite e interiorizzate prima ancora di averle capite. Ricordo che mi sono anche commosso, e per non farmi accorgere dagli studenti mi sono voltato verso la lavagna apparentemente concentrato a guardare un grafico che avevo poco prima disegnato per rappresentare la teoria delle possibili società giuridiche. Non ho potuto fare a meno di sovrapporre questa idea del contratto sociale, con il contratto di matrimonio che Cinzia ed io avevamo, in sostanza, stipulato. Quindi, se era vero che il contratto sociale derivava da una concezione individuale della vita reale, altrettanto poteva essere che io e Cinzia, nell’esperienza concreta, avevamo via via assunto, un’idea del matrimonio del tutto diversa e, come poi si è rivelata, addirittura antinomica del concetto stesso di unione fra due persone. Si sa che il matrimonio è un’istituzione basata su determinati valori, come la fedeltà, la comprensione, il reciproco aiuto e la famiglia, che richiedono comportamenti non individualizzati ma protesi verso un bene comune accettato e condiviso. Invece tra me e Cinzia si stava verificando esattamente il contrario: le azioni e le aspirazioni dell’uno non trovavano più corrispondenza nelle azioni e nelle aspirazioni dell’altro. E così il matrimonio considerato come un contratto in cui ciascuno si impegna a concedere quello che è disposto a dare e a ricevere, veniva, nel nostro caso, ampiamente disatteso. Insomma, si potrebbe parlare di un vero e proprio inadempimento contrattuale, ma i contratti, si sa, sono fatti anche per essere stracciati.
Capitolo 3 Il lieto evento
Questa lenta e progressiva presa di coscienza che il nostro matrimonio si avviava ormai verso un’inevitabile rottura, non fu allentata nemmeno quando Cinzia mi annunciò di essere incinta. Si dice che un figlio può essere una soluzione per avvicinare due persone in crisi: nel nostro caso, o almeno per me, la prospettiva di diventare padre non mi entusiasmava granché, forse perché mi metteva di fronte a delle responsabilità maggiori, in un momento in cui i nostri problemi di coppia erano invece ancora aperti e irrisolti. Al contrario di me Cinzia sembrava, non dico felice, ma molto più disposta ad accettare il ruolo di madre. Quando mi comunicò questa notizia eravamo in soggiorno a pranzare, compunti e silenziosi come se stessimo celebrando un rito religioso. Si udiva soltanto il tintinnio dei cucchiai immersi nel brodo, in un movimento roteante, monotono e ripetitivo. A un certo punto Cinzia smise di mangiare e, unendo le mani sotto il mento, annunciò: -“Devo darti una notizia. Oggi ho avuto la conferma che sono incinta!”Nel millesimo di secondo in cui fu scandita l’ultima sillaba della parola “incinta” il cucchiaio che reggevo a mezza altezza tra il piano del tavolo e la bocca, mi scivolò bruscamente nel brodo provocando degli schizzi che si sparsero sulla tovaglia. Uno di questi mi arrivò a un occhio, ed io, un po’ goffamente, presi a pulirmi con il tovagliolo di carta. -“Che cosa significa che sei incinta?”-“Significa che è avvenuto quello che normalmente capita quando si è fecondi e si hanno dei rapporti intimi. Dovrebbe nascere per settembre, esattamente fra sette mesi e dodici giorni stando alle previsioni del mio ginecologo.”Feci finta di non notare l’ironia e domandai serio:
-“Sette mesi e dodici giorni? Vuol dire che sei incinta da quasi due mesi e me lo vieni a dire solo adesso?”-“Oh Leo, quanto la fai lunga! Evidentemente volevo esserne sicura. E poi, scusa, che differenza fa?”Non replicai. La differenza era che avrei preferito che Cinzia me ne avesse parlato prima, quanto meno per sapere se ero d’accordo. D’altra parte non avevamo mai discusso della prospettiva di avere dei figli, tanto più che sapevo che Cinzia prendeva degli anticoncezionali. -“Vedo che questa notizia ti ha scioccato.”Andai a sedermi sul divano con le mani sulle tempie, come se avessi avvertito un gran mal di testa. -“Forse tu non lo sai, o fai finta di non rendertene conto, ma tra noi le cose non vanno tanto bene. Tu stessa una volta me lo hai fatto notare. E poi, scusa, potevi almeno parlarmene!”Cinzia si alzò e si diresse verso la finestra, girandomi le spalle. Tirò fuori della tasca della vestaglia il fazzoletto per soffiarsi il naso, ed io compresi che stava piangendo. In quel momento mi fece una gran comione e mi domandai se non avessi esagerato a reagire in quel modo. Mi avvicinai a lei e per un istante fui tentato di abbracciarla; invece, orgoglioso com’ero, lasciai cadere le mani in tasca e le sussurrai: -“Che fai adesso? Piangi?”Senza voltarsi, Cinzia rispose con tono sommesso e pieno di rancore: -“A volte penso che tu sia proprio cattivo. Ti diverti a farmi soffrire. Ho voluto farti una sorpresa, e tu, per tutta risposta, mi dici che dovevo dirtelo prima. Ma sai?…”, e a questo punto si girò verso di me: “Io penso invece che questo figlio potrebbe riavvicinarci, farci sentire di nuovo uniti come un tempo.”-“Ma è proprio questo il punto,” obiettai, -“se non ci sentiamo vicini, se non facciamo qualcosa affinché ciò avvenga, come pensi che possiamo dedicare la nostra attenzione verso un figlio? Non si possono risolvere i problemi facendo finta che non esistono!”-
-“Quali problemi?”Con un a leggera spinta, Cinzia si scostò da me e prese a sparecchiare la tavola. In realtà sembrava che avesse bisogno di tenersi soprattutto occupata per tirare fuori quello che, evidentemente, covava da molto tempo. Ecco, infatti, uscire e tornare dalla cucina ora con la zuppiera del brodo, ora con i piatti messi uno sopra l’altro, e infine con le posate, i bicchieri e il pane disposti alla rinfusa sul vassoio. Frattanto parlava e parlava, come una grandine caduta da un cielo fattosi improvvisamente scuro. -“La verità è che non mi ami più come prima. È questo è il ‘solo’ problema che c’è tra noi. Il guaio è che non hai il coraggio di dirmelo in faccia, e allora aspetti che sia io a stancarmi di te. Credi che non lo sappia il motivo per cui te ne stai sempre chiuso in camera a dipingere? Ebbene, quel motivo sono io! Tutto il tuo isolamento ruota intorno ad una volontà ben precisa di vedermi il meno possibile, tranne che… a letto. Ma sai che ti dico? Io questo figlio lo avrò, con o senza il tuo consenso. È l’unica cosa che mi resta di veramente mio, malgrado la vita che faccio e che, per colpa tua, sono costretta a fare.”Tacque. L’uragano di parole cessò improvvisamente e il silenzio piombò tra di noi lungo e intenso, ma non meno pesante delle rivelazioni che avevo appena ascoltato. Cinzia prese una seggiola e andò a sedersi davanti al camino, con lo sguardo apparentemente assorto a controllare gli ultimi residui della legna che il fuoco, lentamente e inesorabilmente, stava consumando. Mi venne quasi naturale collegare la reazione rabbiosa e spontanea di mia moglie con il movimento delle fiamme, prima ampie e scoppiettanti, e adesso ridotte a poco più di un lumicino tra le ceneri. Avrei voluto reagire con lo stesso impeto, facendole notare che nessuno le aveva costretta a scegliere quella vita, e che il vero problema non era l’assenza o meno dei sentimenti, ma piuttosto la capacità e la volontà di ciascuno di ascoltare e di capire quanto le parole e gli atteggiamenti dell’altro non riuscivano a esprimere. Ero disperato, ma di una disperazione muta e impotente, che agiva esclusivamente dentro di me senza che potessi risolverla definitivamente. Era come se mi trovassi continuamente in bilico tra il desiderio di ribellarmi e dare un taglio netto alla mia vita, e la rassegnazione per quanto questa stessa aspirazione potesse veramente compiersi. Mi rendevo conto che in tutte le discussioni con mia moglie, non ero mai arrivato alla cosiddetta resa dei conti:
tutto rimaneva sospeso e indefinito, come un romanzo perennemente in cantiere in cui l’autore non sa ancora decidersi se scrivere o no la parola fine. Ripercorsi velocemente alcuni momenti del ato e ricordai, ad esempio, che nella discussione sul dipinto delle “quattro stagioni”, sia pure ricorrendo allo stratagemma della rappresentazione simbolica della bellezza rispetto al suo contenuto, non ero riuscito a far capire a mia moglie quanto fossi profondamente insoddisfatto della sua disattenzione verso le cose che mi proponevo di dire o di fare. Allo stesso modo, sulla questione della mia maniera di far l’amore con gli occhi, di cui Cinzia si era servita per giustificare il nostro rapporto, io avevo lasciato credere che fosse realmente così, accettando ivamente il fatto che la nostra crisi fosse dovuta alla necessità di ciascuno di avere un proprio spazio, mentre in realtà tale esigenza costituiva piuttosto l’effetto e non la causa dei nostri problemi. E adesso, dopo la rivelazione della gravidanza e lo sfogo di mia moglie conclusosi con l’imperativo: “io questo figlio lo avrò, con o senza il tuo consenso”, avevo reagito, alfine, con lo stesso atteggiamento ivo delle precedenti occasioni, con il risultato di non aver agito affatto, come a voler lasciare che fossero gli eventi a decidere per me. Era anche vero che in tutte le situazioni che ho appena ricordato, Cinzia non aveva fatto alcunché per analizzare in maniera più approfondita quello che, soltanto apparentemente, poteva sembrare una crisi eggera ed effimera. Insomma, per mia moglie era naturale (e giustificabile) che due persone potessero, a un certo punto, non essere più in sintonia, in quanto “logorate” dalla vita quotidiana. E altrettanto spontaneamente riteneva che tutto potesse essere risolto con il più classico dei rimedi: la maternità. Tuttavia non era neanche da escludere che Cinzia fosse, come me, disperata e perfettamente consapevole di quanto ci stava succedendo. Ma con la differenza che la sua disperazione agiva sul piano della realtà pienamente attiva e partecipe delle sue decisioni, al punto da essere, come dire?, esorcizzata con il progetto, piuttosto scontato e naturale, di diventare madre. Insomma, mentre la mia disperazione era “soltanto” interiore e si contrapponeva con quanto nella realtà effettiva io dimostravo di accettare ivamente e senza riserve, per Cinzia questa stessa realtà effettiva costituiva il presupposto per agire all’esterno con una disperazione attiva e dirompente ma, proprio per questo, da annullare con un evento pratico (la gravidanza) di segno opposto. E in effetti i giorni a seguire furono la riprova di come Cinzia, diversamente da me, fosse riuscita a ristabilire un equilibrio tra la pochezza della vita quotidiana,
e l’intensità emotiva dovuta all’attesa del lieto evento. Intanto non l’avevo mai vista così attiva ed entusiasta per le cose che faceva: la mattina si alzava piuttosto presto (era sempre stata una dormigliona!), e spesso mi precedeva in cucina per preparare il caffè. Qualche volta riusciva persino a sorridermi (non lo faceva quasi mai!), e ad aiutarmi nella scelta del vestito da indossare per andare al lavoro. Aveva, inoltre, sempre qualcosa da fare: visite dal ginecologo, sedute terapeutiche con altre future mamme per la preparazione al parto, puntate nei negozi di articoli e abbigliamenti per la prima infanzia. Tornava a casa sempre con qualcosa che aveva comprato per il corredino: tute, cappellini, guanti, lenzuolini, coperte, e persino confezioni di pannolini bianchi (non sapevamo ancora se sarebbe stato un maschio o una femmina). Quando rientravo dal lavoro mi prendeva per mano e senza neanche darmi il tempo di svestirmi, mi faceva accomodare sul divano per mostrarmi gli ultimi acquisti con un entusiasmo che, devo ammettere, mi faceva persino commuovere. Ero soprattutto colpito dal modo con cui mi mostrava questo o quell’altro vestitino, con una gestualità puntigliosa e rituale che mi faceva pensare a quelle commesse intente a mostrare, nella maniera più convincente possibile, i capi di abbigliamento sparsi sul bancone. Con grande cura e attenzione, come se stesse compiendo un’operazione delicatissima, la vedevo sfilare dalle scatole o dagli involucri di carta quei piccoli vestiti, tenendoli sospesi per un po’ con la punta delle dita e disponendoli con ordine sul divano. Intanto parlava in continuazione senza darmi nemmeno il tempo di commentare. Ecco descrivermi, con dovizia di particolari, la copertina per la culla, i due - tre cappellini che era riuscita a trovare a buon prezzo e persino la camicia della “fortuna” che il nostro erede avrebbe indossato subito dopo la nascita. Questo ritornello si ripeteva quasi ogni giorno, e sempre con il solito soliloquio cui assistevo ivamente, dal momento che Cinzia, più che coinvolgermi nella sua felicità, mi vedeva piuttosto come uno spettatore o come un confidente cui rivelare le proprie emozioni senza necessità di attendersi delle risposte. Le volte che provavo a fare un commento venivo prontamente zittito, e questo mi faceva pensare ancora di più che Cinzia non amava alcuna “intromissione” in quello che lei riteneva un momento di felicità soltanto suo. Forse c’era ancora del rancore per il fatto che avevo accettato malvolentieri la notizia della gravidanza. Ne ebbi la conferma quando un giorno, dopo avermi mostrato l’ennesimo vestitino, le chiesi se non stesse esagerando, visto che alla nascita del bambino mancava
ancora molto. Cinzia, invece, interpretò la mia perplessità come un rimprovero e non perse tempo ad apostrofarmi: -“Ecco, come al solito cerchi sempre di rovinare tutto. Se non ti senti ancora pronto a condividere con me questi momenti, vorrà dire che me li godrò da sola!”Ancora una volta si metteva sulla difensiva, con un atteggiamento che non ammetteva repliche e che faceva aumentare ulteriormente le distanze tra di noi. Era comunque vero che mi sentivo, non dico distaccato, ma sicuramente meno preso di Cinzia, tanto da chiedermi se questa scarsa attenzione verso un evento che avrebbe comunemente fatto la felicità di molti, non nascondesse in realtà una predisposizione d’animo genetica, ovvero non controllata ma dovuta, ad esempio, a un fattore ereditario. Pensai di chiedere a mia madre se, in occasioni del genere, anche mio padre si era dimostrato poco pronto nel ruolo di genitore. A dire la verità, quando composi il numero dei miei mi ero subito pentito e stavo sul punto di riagganciare, quando dall’altra parte sentii la voce di mia madre rispondere con una prontezza che mi colse di sorpresa: -“Che riflessi! Come mai eri così vicina al telefono?”-“Ah Leo, sei tu? Ho appena finito di parlare con tua sorella. Dice che non riuscirà a venire nemmeno per questa Pasqua.”Luciana, mia sorella, si era trasferita in Germania e aveva sposato un generale dell’esercito tedesco, grande e grosso. -“Non te la prendere mamma. Magari verrà l’estate prossima.”-“L’estate di quale anno? Ormai devo abituarmi a rimanere sola. Anche tu Leo, dici sempre che verrai a trovarmi e poi non lo fai mai.”-“Mamma, sai benissimo perché!”-“Sì, lo so. È per tuo padre. Ma io spero sempre in un miracolo. Alla mia età non mi resta altro. A volte sogno ad occhi aperti e vedo te e tuo padre che andate finalmente d’accordo. Lo sai l’altro giorno cosa mi ha detto?”-
-“Cosa?”-“Mi ha detto: ‘Leo è sempre stato un ragazzo chiuso e introverso. Se non fosse stato per questo, forse avremmo potuto avere un bel rapporto. ’ ”-“Questo significa che sarei io il ‘miracolo’ che aspetti? Ma forse hai ragione tu: ci vorrebbe proprio un miracolo perché io diventi il vostro figliol prodigo!”Dall’altro capo ci fu silenzio. Immaginavo mia madre intenta a scegliere la risposta più opportuna, proprio come un giocatore di scacchi che, colto di sorpresa dall’avversario, indugia sulla prossima mossa da compiere. -“Non voglio che tu diventi quello che non vuoi essere”-, mi rassicurò, -“Ho solo cercato di dirti che mi piacerebbe vedere, un giorno, tutta la famiglia riunita. Ma dimmi, stai bene?”-“Sì.”-“E il lavoro? Va tutto bene?”-“Sì.”-“E Cinzia?”-“Sì.”-“Cosa vuoi dire con quel ‘Sì’?”-“Sì. Cioè no. Voglio dire che ti ho telefonato per chiederti una cosa. Forse ti sembrerà strano, ma riguarda papà. Ricordi che reazione ebbe quando gli comunicasti che eri incinta di me?”Ancora silenzio! Questa volta però durò appena tre secondi. -“Mah, non so. È ato tanto tempo! Ma perché mi chiedi questo?”-“Così.”-“ ‘Così’ non è una risposta!”Mia madre era troppo intelligente per non aver capito che c’era qualcosa che non
andava. Non sapevo se dovevo spingermi oltre, col rischio di farla preoccupare, o se era meglio ostentare una curiosità che, francamente, mi riusciva difficile simulare. Riprendendo il paragone del giocatore degli scacchi, adesso ero io a essere titubante sulla prossima mossa da fare. Ma mia madre giocò di anticipo con una domanda che era, allo stesso tempo, un’affermazione: -“Leo, dimmi la verità. C’è qualche problema con Cinzia?”-“Nessun problema.”-, mentii, -“Voglio solo sapere come apprese papà questa notizia.”-“Tuo padre, lo sai, era sempre in giro per lavoro. A volte capitava che quelli della società lo mandassero fuori città anche per settimane, quindi ci vedevamo poco. Ma sai?”-“Cosa?”-“Ora che mi ricordo, è stato proprio quando si trovava a Milano per presentare un nuovo prodotto cosmetico che al telefono gli feci capire che ero incinta.”-“Che cosa gli dicesti?”-“Non ricordo bene le parole, ma più o meno gli dissi che quando sarebbe tornato a casa mi avrebbe trovata un po’ ingrassata.”-“E lui?”-“Non ebbe il tempo di rispondere. Eravamo in interurbana e la comunicazione si interruppe.”-“E dopo?”-“Quando tornò a casa, ci rimase per qualche giorno e poi partì di nuovo. Ma questo lo ha fatto sempre, anche con i tuoi fratelli.”-“Vuoi dire che scappava da te solo per lavoro?”-“Scappava da me? Che parole! Tuo padre ha sempre amato, prima di tutto, il suo lavoro. Credo che non lo fe per altri motivi.”-
Così mia madre cercava di rassicurarmi che il comportamento di mio padre era dovuto a ragioni esclusivamente professionali. Ma sentivo che questa giustificazione non era veritiera. Era chiaro, almeno per me, che mia madre mi nascondeva qualcosa, ma decisi di non insistere. In fondo anch’io non ero stato completamento sincero con lei quando avevo voluto tranquillizzarla sul mio rapporto con Cinzia. Così, senza chiederle altro, la salutai con la scusa che dovevo ritornare a scuola per le lezioni. -“Aspetta Leo. Sei sicuro di stare bene?”-“Sicurissimo.”-“E la gravidanza di Cinzia?”-“A gonfie vele. Scusa mamma, ma adesso ti devo proprio lasciare. Ci sentiamo presto.”-
Capitolo 4 Piazza della Signoria
Quella mattina non avevo nessun impegno di lavoro. Era il mio giorno libero. Cinzia doveva incontrarsi con il ginecologo e per l’occasione aveva deciso di farsi accompagnare dalla sua amica Erminia. -“Devo fare un esame un po’ particolare”-, si era giustificata mentre, seduta sul letto e dandomi le spalle, s’infilava le calze, -“e così ho pensato di andarci con Erminia. Non ti dispiace, vero?”-“Figurati!”- risposi stringendomi nelle spalle, -“Ne approfitterò per correggere i compiti.”E invece non avevo nessuna voglia di lavorare, né tanto meno di restare a casa. Pensai allora di uscire e di fare due i nel centro della città. Presi la macchina e mi involai in direzione di Firenze. Dopo venti minuti ero già nei pressi di via dei Leoni. Parcheggiai la macchina in un autosilo e mi incamminai verso Piazza della Signoria. Intanto ripensavo alle parole di mia madre e al suo tentativo, malriuscito, di giustificare il comportamento di mio padre quando gli fece capire che era incinta di me. Secondo mia madre, la comunicazione telefonica si era interrotta proprio nel momento in cui mio padre apprese questa notizia. Ma tale circostanza mi convinceva poco, tanto più che mio padre avrebbe potuto tranquillamente ritelefonare, se non altro per dimostrare il proprio interessamento. Dunque, era chiaro che quella conversazione non s’interruppe affatto ma mia madre, sicuramente per non farmi dispiacere, aveva preferito tenermi all’oscuro della reazione di mio padre. Può darsi che all’annuncio sottinteso della gravidanza, mio padre si fosse mostrato, come me, contrariato e avesse, alfine, deciso di prolungare il suo viaggio di lavoro per tenersi lontano il più possibile non solo dalla donna che aveva sposato, ma anche, se non soprattutto, dall’idea della famiglia, dalla quale non era mai stato attratto. Del resto, per stessa ammissione
di mia madre, mio padre aveva preferito anteporre il lavoro a qualsiasi altra aspirazione che lo tenesse legato al ruolo di marito e di genitore. Così, all’ipotetica ma non improbabile fuga di mio padre dalla famiglia faceva riscontro, in una sorta di rievocazione simmetrica, la mia riluttanza nell’accettare la soluzione che Cinzia aveva deciso di dare alla nostra crisi coniugale. Solo che a differenza di mio padre, la mia “fuga” si riduceva in una evasione simbolica dal mio rapporto con Cinzia, che traeva origine dalla mia ione per la pittura, ma appunto perché simbolica, non completamente distaccata da ciò che mi accadeva sul piano effettuale. In altre parole, come mio padre, restavo ai margini di una vita familiare che non riuscivo a controllare, né a incidere in maniera significativa; ma, diversamente da lui, ero cosciente di questa forma di incapacità relazionale che, alla fine, mi portava a subire l’impronta che Cinzia aveva deciso di dare alla nostra esistenza. A questo punto del mio ragionamento decisi di concedermi una pausa. Entrai in un bar di Piazza della Signoria, andai a sedermi a un tavolino e ordinai un caffè. Dalla vetrina centrale potevo vedere i anti che si muovevano da un lato all’altro del marciapiede con un ritmo quasi cadenzato, come se stessero sfilando su una erella. Pareva che tutti avessero la stessa faccia, uguale e inespressiva, così che in questo scenario ripetitivo mi sembrò quasi insolito vedere un uomo e una donna che si tenevano in disparte sul lato sinistro della vetrina. Osservai più attentamente l’uomo: era sulla cinquantina e aveva i capelli brizzolati e imbrillantinati, con un soprabito chiaro che metteva in risalto la sua statura alta e longilinea. Aveva entrambe le mani infilate nelle tasche e ascoltava, con un’espressione annoiata e rassegnata, quello che la donna gli andava dicendo. Quest’ultima mi volgeva completamente le spalle ma notai qualcosa del suo fisico che mi apparve subito familiare. Non molto alta, aveva i capelli lunghi e biondi che le scendevano ordinatamente sul collo di pelliccia del cappotto. Nonostante l’abito largo, potevo indovinare la sinuosità dei fianchi, ben proporzionati rispetto al resto della corporatura. Questa sensazione del “già visto” mi venne immediatamente confermata quando la donna si girò verso l’uomo, e quasi mi venne un colpo nel riconoscere il volto di Cinzia! Che cosa ci faceva in quel posto, a quell’ora, e per giunta con un uomo che non avevo mai visto prima? Niente di più semplice sarebbe stato uscire dal locale e rivolgerle direttamente queste domande. Invece indugiai a osservare la scena.
Ora l’uomo aveva preso a camminare a o svelto verso la statua di Michelangelo, tenendo il bavero alzato come se avesse voluto proteggersi dalla ‘pioggia’ di parole che Cinzia, poco più indietro, gli stava proferendo. Era evidente che stessero litigando, ma tra i due Cinzia era sicuramente più colorita e ionale. L’atteggiamento calmo, quasi calcolato dell’uomo, l’aveva indispettita al punto da renderla scomposta nei gesti e nell’espressione: lei che con me riusciva quasi sempre a controllare le proprie reazioni, ora appariva liberata da ogni convenzione e, noncurante della gente, mostrava tutta la rabbia per chissà quale risentimento. A un certo punto l’uomo si è girato verso Cinzia e afferrandola per le spalle le dice qualcosa che il successivo gesto delle mani mi fa pensare a una frase del tipo: “Basta! Falla finita!”. E infatti, subito dopo, l’uomo si allontana in tutta fretta, lasciando Cinzia sola al centro della piazza, non molto distante da Palazzo Vecchio. Ora sembrava che mia moglie guardasse dritta verso la vetrina del bar, ed io istintivamente mi coprii la faccia con il giornale per non farmi riconoscere. Lentamente lo lasciai andare verso il basso, ma a quel punto Cinzia non c’era più. Mi alzai di scatto, andai a pagare e senza neanche aspettare che la cassiera mi desse il resto e lo scontrino, uscii quasi scappando dal locale. Cinzia non guidava. Poteva essere arrivata lì facendosi accompagnare dall’uomo misterioso e ora che l’aveva mollata (o, almeno, così sembrava) sarebbe stata costretta a prendere la corriera o il treno per Sesto Fiorentino. Calcolai che se fossi riuscito a districarmi nel traffico del centro e a raggiungere nel più breve tempo l’imbocco della statale per Barberino, sarei arrivato a casa molto prima di Cinzia. Non so perché avessi quest’ansia di farmi trovare in casa: probabilmente non volevo che mia moglie scoprisse la mia assenza proprio come, poco prima, io l’avevo sorpresa con un altro uomo. Benché la mia decisione di uscire di casa anziché correggere i compiti fosse del tutto normale e casuale, preferivo non concedere a Cinzia alcun pretesto per giustificare in qualche modo il suo comportamento con allusioni del tipo: -“È vero, mi hai vista con un altro, ma tu che ci facevi al bar a quell’ora?”- Mi sentivo un po’ come quei bambini che, dopo aver scoperto qualcosa di proibito, preferiscono tacere pur di non rivelare il modo con cui ne sono venuti a conoscenza. Ma c’era un’altra ragione, forse la principale, che mi spingeva ad affrettare il più possibile il mio ritorno a casa. Volevo trovarmi nella condizione di scrutare meglio la faccia di Cinzia quando, al rientro, si sarebbe presentata ai miei occhi. Avevo persino scelto il posto dove
farmi trovare: in soggiorno, sulla mia fedele poltrona, apparentemente assorto a leggere il giornale. Insomma, l’avrei aspettata al varco, ma non tanto per estorcerle la verità dei fatti: quello di cui avevo maggiormente bisogno, era sapere in che misura ciò che avevo appena scoperto corrispondesse a un mutato atteggiamento espressivo di mia moglie. Da fidanzati, facevamo a volte il gioco di guardarci a lungo negli occhi. Io ero sempre il primo a distogliere lo sguardo; la serietà simulata di Cinzia era così goffa che non mi tratteneva dal ridere. Questa volta però non era un gioco: non avrei riso e né tantomeno avrei distolto lo sguardo. Intanto ero letteralmente imbottigliato nel traffico. Da quando avevo lasciato l’autosilo, non avevo fatto più di qualche centinaia di metri e di questo o non sarei rientrato a casa in tempo. Nell’attesa ripensai alla scena di Cinzia con l’uomo misterioso. Provai ad analizzare la mia reazione di fronte a questo evento. Mi aveva ingelosito o soltanto infastidito? Con mia stessa sorpresa convenni che ciò che mi faceva stare male non era tanto l’idea del possibile tradimento, quanto piuttosto la percezione che tra mia moglie e il suo accompagnatore ci fosse una relazione più profonda che sicuramente non era iniziata da poco. Questa sensazione mi veniva suggerita da una certa familiarità dei loro gesti e, soprattutto, dalla loro maniera di relazionarsi, come da coppia “consumata” e collaudata. Il palese disappunto di Cinzia e la reazione perentoria dell’uomo mi faceva pensare a un legame diverso da quello che ci potrebbe essere tra due semplici conoscenti. Dunque, Cinzia e quell’uomo si conoscevano da tempo, ma ciononostante mi riusciva difficile accettare che mia moglie avesse, come dire?, una seconda vita di cui ero all’oscuro. Io sapevo, o almeno credevo di sapere, che tra me e Cinzia non c’era altro che la nostra convivenza, fatta di abitudini e di conoscenze comuni, sicuramente anche di incomprensioni, ma di quelle che possono esserci all’interno di qualsiasi coppia. E così, in questo contesto di vita comune, sia pure scolorito e scontato, pensavo che nessuno di noi due avesse potuto avere la forza e la capacità di percorrere una strada diversa da quella dello stare insieme. È vero, eravamo in crisi, ma non al punto da guardare al di là della nostra sfera affettiva. Inoltre, c’era l’attesa del nostro primo figlio che evidentemente si contrapponeva alla volontà, di segno opposto, di porre fine al nostro matrimonio. Quest’ultima considerazione mi procurò un certo sollievo e pensai che, forse, quello che avevo
visto poteva avere un’altra spiegazione. Il suono del clacson di una macchina che dietro di me mi avvertiva del semaforo verde, mi fece trasalire e ritornare bruscamente alla situazione reale di trovarmi ancora impelagato nel traffico di Firenze. All’approssimarsi dell’ennesimo incrocio accelerai per evitare che il semaforo, ormai sul giallo, mi bloccasse nuovamente. Causa anche dei tentennamenti di un furgoncino che mi precedeva fui costretto, invece, a fermarmi e ad attendere l’attraversamento di un gruppo di pedoni. Fra loro scorsi Cinzia, che proprio nel mezzo delle strisce pedonali si girò verso di me e mi riconobbe. Anziché proseguire, mia moglie ritornò indietro e con la mano m’indicò la piazzola della fermata del bus dove mi sarei potuto accostare. E infatti, non appena il semaforo ritornò sul verde, girai verso quel punto con una manovra repentina che per poco non provocò una collisione con un motorino sbucato dalla destra. -“Che ci fai da queste parti?”- mi domandò Cinzia chinandosi al finestrino. -“Sei stata dal medico?”-“Macché! Il ginecologo è stato chiamato per un’emergenza, Erminia si è fermata da sua madre, ed io stavo andando alla stazione. C’è lo sciopero degli autobus.”-“Allora che aspetti? Sali!”Ripresi la marcia e per qualche minuto non parlammo. La precisione con la quale Cinzia mi aveva fornito queste informazioni mi convinceva poco. Era possibilissimo che l’appuntamento fosse saltato per un impegno improvviso del medico, che Erminia fosse dovuta rimanere dalla madre e che, alfine, lo sciopero delle corriere avesse costretto Cinzia a ripiegare per il ritorno in treno. Ma proprio questa concomitanza di contrattempi, singolarmente “verosimili”, mi faceva pensare invece a una sorta di giustificazione premeditata e calcolata. Probabilmente ero diffidente soprattutto per la scena che avevo assistito dal bar di piazza della Signoria, sicché istintivamente reputavo improbabile quello che in realtà poteva essere logico e possibile. A questo punto, Cinzia, forse insospettita dal mio silenzio, riprese a parlarmi: -“Non mi hai ancora detto che cosa ci fai in città.”-
-“Sono qui per lavoro.”-“Per lavoro? Ma non è il tuo giorno libero?”-“Voglio dire: per il mio ‘secondo’ lavoro, la pittura. Stavo andando alla Galleria degli Uffizi per vedere una certa cosa.”Ormai rispondevo a caso. Non ero riuscito a farmi trovare in casa, avevo incontrato Cinzia troppo presto, e adesso tutta la situazione pareva sfuggirmi di mano. -“Alla Galleria degli Uffizi? Ma si trova dall’altra parte!”-“Lo so. Ma sto cercando un parcheggio. È la terza volta che faccio lo stesso giro.”Questa inversione dei ruoli mi faceva amaramente sorridere: Cinzia, che si sarebbe dovuta preoccupare del mio interrogatorio, ora si mostrava sicura e disinvolta nella sua veste di interrogante, come se volesse spostare tutta l’attenzione su ciò che stavo facendo. -“Sai che ti dico?”, ripresi, “Perché non mi accompagni? Ti prometto che non ci tratterremo molto”. -“A dire la verità, sono un po’ stanca. Preferirei tornare a casa. E poi lo sai, non sarei di buona compagnia.”Aveva ragione. Le poche volte in cui siamo andati a vedere mostre o musei, Cinzia aveva sempre ostentato una certa insofferenza. Non solo non amava la mia pittura, ma trovava terribilmente noioso assecondarmi in queste visite. -“Dai, che ti costa? Ormai siamo già qui! E poi voglio farti vedere una cosa:”-“Che cosa?”-“Lo scoprirai tra poco.”Ritornai all’autosilo di via dei Leoni e parcheggiai la macchina all’ottavo piano. Prendemmo l’ascensore e durante il percorso osservai a lungo Cinzia.
-“Perché mi guardi così?”-“Quando eravamo fidanzati ti dispiaceva meno accompagnarmi in questi posti!”-“Erano altri tempi!”- Si girò di scatto verso le porte dell’ascensore e attese con impazienza che si aprissero. -“Altri tempi? Ti ricordo che siamo sposati da appena due anni. Ci hai messo poco a stancarti!!”Vidi Cinzia schiudere la bocca come per dire qualcosa, ma l’arrivo al piano terra le tolse dall’imbarazzo di replicare. Dopo pochi minuti giungemmo a Piazza della Signoria ed io volutamente mi fermai proprio davanti al bar da cui, poco prima, avevo sorpreso Cinzia con il suo misterioso accompagnatore. Non so cosa volessi sperimentare veramente; forse volevo ricostruire, attraverso la sovrapposizione della mia persona, la scena in cui mia moglie si era rivolta al suo interlocutore per scoprire l’effetto che avrebbe sortito. Infatti poco distante dal lato destro della vetrina centrale, mi rivolsi verso la piazza fingendo di vedere qualcosa, con Cinzia che mi seguiva poco più indietro. Mi sentivo stranamente turbato, e in un certo senso intimorito da quello che avrei potuto leggere nel volto di Cinzia allorché mi sarei girato verso di lei. A quel punto Cinzia, come se avesse intuito la trappola che le avevo teso, appoggiò la testa sulla mia spalla e mi disse con un filo di voce: -“Credo di non sentirmi bene. Ti prego, accompagnami a casa!”- Nello stesso tempo si rovesciò completamente su di me, ed io usai tutta la mia prontezza di riflessi per sorreggerla ed evitare che cadesse a terra. Provai a scuoterla e con l’aiuto di alcuni anti, che intanto erano accorsi, la portai nel bar. -“Presto, mia moglie sta poco bene”-, gridai. Subito il barman uscì dal bancone procurandosi una sedia. Finalmente Cinzia si sedette rivolgendomi un’occhiata che io raccolsi come un’implorazione. Ancora confusa, lo sguardo di Cinzia pareva volermi dire: -“Lo so che cosa volevi scoprire, ma ti prego di non farlo!”Il barman ritornò con un bicchiere d’acqua invitando la piccola calca a fare spazio. Cinzia bevve tutto d’un fiato e mi rassicurò di stare già meglio. Anche la folla sembrò sollevata e lentamente uscì dal locale.
-“Sei sicura di stare bene? Non vuoi che ti accompagni all’ospedale?”-“Non è necessario. Anzi, credo di farcela ad accompagnarti alla galleria. "-“Forse non è il caso. È meglio tornare a casa.”-“Sto bene, ti dico. Vedi?”- Così dicendo, si alzò prontamente dalla sedia per dimostrarmi di essersi pienamente ripresa. Notai l’improvviso ripensamento di Cinzia, che pochi minuti prima sembrava decisa a tornare a casa. Superato il momento di sbandamento che le avevo procurato simulando la scena con il suo accompagnatore, ora sembrava volermi dimostrare tutta la sua riconoscenza per aver taciuto e per essere stato, in un certo senso, comprensivo “premiandomi” con la cosa che meno desiderava: accompagnarmi alla Galleria. Così, dopo aver ringraziato il barman e i presenti per l’aiuto e l’interessamento, uscimmo dal bar e ci avviammo verso il Piazzale degli Uffizi.
Capitolo 5
Alla Galleria degli Uffizi
Alla Galleria c’ero già stato altre volte. Era per me un luogo consueto in cui rifugiarmi quando il mio rapporto con l’arte entrava in conflitto con l’altra dimensione, latente e parallela, costituita dalla realtà in cui vivevo e che non riuscivo ad accettare completamente. Firenze, città d’arte per eccellenza, offre tanti altri luoghi in cui rimirare lo splendore delle proprie sculture, monumenti o affreschi. Basta percorrere qualsiasi via del centro storico per ritrovare i segni di queste antiche bellezze e persino di sentirli nell’aria. È un po’ come calarsi in un’atmosfera surreale, di intima connessione tra la storia e la realtà contemporanea, tra ciò che rappresenta il ato e ciò che movimenta il presente. Si direbbe che le stesse persone che popolano le case, gli uffici e le strade di Firenze vivano nella contrapposizione tra questi due contesti epocali, al punto da sembrare, almeno nel mio immaginario, personaggi appartenenti ora all’una, ora all’altra dimensione storica. Ma la Galleria restava per me il luogo che ricercavo maggiormente e che, più degli altri, riusciva a ricomporre il mio amore per l’arte, a dispetto di una realtà effettiva che invece sembrava volerlo mettere continuamente in discussione. In altre parole, una volta resomi conto che la mia crisi coniugale era dovuta alla diversa concezione che mia moglie ed io avevamo della vita, avevo cominciato a trasferire nella mia realtà virtuale, rappresentata dal mio amore per la pittura, le frustrazioni e le contraddizioni che interiormente cumulavo e che si risolvevano, tutte, nella constatazione di non avere accanto la donna che volevo e di non essere, io stesso, l’uomo che Cinzia aveva desiderato. Questa contrapposizione tra realtà effettiva e realtà virtuale agiva come il pendolo di un orologio, nel senso che oscillava nell’uno o nell’altro verso, senza mai trovare il giusto equilibrio. Tanto più subivo la realtà effettiva, quanto più avevo bisogno di trasporre in quella virtuale il mio bisogno di acquisire certezze e di recuperare il senso della mia appartenenza alle cose e alle persone. Ora, mi trovavo in un momento della mia vita in cui il “pendolo” si trovava decisamente dalla parte della realtà effettiva, rappresentata dalla consapevolezza della mia crisi coniugale che intanto si era acuita con l’annuncio della
gravidanza di mia moglie. A dire il vero quella mattina, quando avevo approfittato del mio giorno libero per andare in città, avevo già inconsciamente deciso di ritornare alla Galleria degli Uffizi per recuperare le ragioni di questa crisi. Infatti, allorché avevo incontrato Cinzia dopo averla sorpresa in piazza della Signoria, fu per me del tutto naturale proporle di accompagnarmi in questo luogo. Insomma, quella che poteva sembrare una scusa per giustificare la mia presenza in città, altro non era che la ragione principale della mia condotta, sia pure rafforzata dai nuovi avvenimenti che si erano susseguiti. In un certo senso, consideravo la Galleria come un luogo sacro da cui ero attratto e verso cui mi dirigevo, allo stesso modo di colui che è spinto a entrare in chiesa alla ricerca della propria pace interiore. E in effetti l’alone di sacralità che mi pareva avvolgere questi ambienti dell’arte, contrassegnata dal silenzio quasi religioso dei visitatori, rendeva naturale, ai miei occhi, l’accostamento con i luoghi, diciamo ufficiali, delle confessioni religiose. Ora io e Cinzia eravamo entrati nell’ingresso principale della Galleria e ci stavamo dirigendo al terzo piano dove sono collocate le sale dei dipinti. Avevo nuovamente avvertito quell’atmosfera di sacralità, cui ho appena accennato, tanto che se mi fossi trovato, per assurdo, davanti ad un’acquasantiera, non avrei esitato a segnarmi come il più devoto dei fedeli. Finalmente giungemmo nel Corridoio Vasariano ed io avanzai spedito verso la sala dove sapevo esposta La nascita di Venere di Botticelli. -“Ma dove mi porti?”-, chiese Cinzia, più per un bisogno di dire qualcosa che per curiosità. -“Aspetta e lo vedrai.”Ci avvicinammo al dipinto e lo osservammo in silenzio: io con le mani incrociate e lo sguardo meditativo, Cinzia stranamente paziente e accondiscendente. -“Vedi”-, dissi senza distogliere gli occhi dal dipinto, -“quello che più mi colpisce di quest’opera è la malinconia, il ricordo struggente di un ato perduto che Botticelli ha voluto ricordare attraverso i richiami alla mitologia antica: Venere che sulle onde del mare viene sospinta da Zefiro verso terra, e qui accolta da un’Ora pronta con un manto a coprire le sue nudità. Ma è una bellezza
che suscita rimpianto per il significato che lascia intendere. Questo quadro vuole rappresentare, almeno per me, il desiderio inappagabile per il Bello, e allo stesso tempo, il bisogno che questo valore sia preservato e difeso dalle inquietudini e dalle contraddizioni del mondo. Ed è inappagabile per l’illusione visiva data dallo splendore di Venere e dalla presenza protettiva del mantello dell’Ora.”Tacqui e mi girai verso Cinzia che mi guardava interrogativa. -“Perché mi dici queste cose? E soprattutto, perché mi hai portato qui?”Respirai profondamente. Quindi spiegai: -“Trovo che ci sia una stretta correlazione fra te e ciò che mi ispira questo quadro.”Adesso Cinzia sembrava ancora più confusa. Non sapeva se sentirsi lusingata dal paragone, o se doveva mostrarsi diffidente per gli sviluppi incerti della mia dissertazione. Per tranquillizzarla, strinsi le sue mani e la guardai fisso negli occhi: -“Ti ho portata qui perché voglio sperimentare una certa cosa.”-“Che cosa?”-“Voglio provare la stessa malinconia di Botticelli, ma per fare questo ho bisogno che tu accetti di posare per me.”Sapevo che Cinzia non amava questo genere di cose. Era convinta che i ritratti non fossero mai naturali ed esprimessero, piuttosto, solo un punto di vista personale del pittore. Ma contavo sul fatto di averla portata in quel luogo per dimostrarle quanto ci tenessi a questo progetto. -“Così vorresti che io fossi la ‘tua’ Venere?”- Il sorriso con cui Cinzia aveva accompagnato queste parole, mi fece subito precisare: -“Lo so di non essere un grande pittore, né credo che lo diverrò mai. Non pensare che io voglia competere con la genialità di Botticelli. E nemmeno che ti abbia proposto questo per un capriccio. Quello che ti chiedo è di lasciarti portare nel mio mondo, sia pure in maniera simbolica e per un tempo limitato.”-
Cinzia si fece di colpo seria. Senza dire niente, si infilò gli occhiali scuri e corse verso l’uscita della sala. -“Ma che ti prende?”La raggiunsi fino a frappormi fra lei e l’uscita; quindi appoggiai una mano sulla sua spalla e con l’altra sfilai gli occhiali per guardarla meglio negli occhi. A quel punto scoprii che stava piangendo. -“Adesso perché piangi?”-“Non è niente. Sono solo un po’ stanca. Vorrei che mi accompagnassi a casa. E questa volta dico sul serio.”-“Ma perché? Ho detto qualcosa che ti ha offeso?”Eravamo di nuovo nel Corridoio e la scena era sicuramente inusuale rispetto al contesto in cui si svolgeva: Cinzia che correva avanti senza parlare, io che per tenerle il o le stavo dietro, e infine gli altri visitatori che si giravano verso di noi, un po’ sorpresi nell’assistere a quello che sembrava un normale litigio tra due amanti. -“Non capisco perché non mi rispondi. Ti vuoi fermare una buona volta? Guarda che non è uno scherzo. Ti ho portata qui perché voglio che tu finalmente capisca che cosa voglio dal nostro rapporto. E poi che ti costa posare per me? Sono o non sono l’uomo che hai sposato?”Dissi questo e molto altro ancora. Ero ato alla disperazione più cupa perché temevo di non essere riuscito, ancora una volta, a farmi capire. Finalmente Cinzia si fermò all’uscita della Galleria e mi rassicurò: -“Va bene, va bene. Sarò la tua modella. Ma adesso, ti prego, accompagnami a casa.”Da quel momento e fino al ritorno a casa rimanemmo in silenzio senza scambiarci nemmeno una parola. Non so quali fossero i pensieri di Cinzia ma i miei erano sicuramente frenetici e tormentati. Per l’intero tragitto in macchina, analizzai tutto il comportamento di mia moglie: da quando l’avevo sorpresa con un altro a Piazza della Signoria, fino all’ultima reazione, scomposta e misteriosa, con cui aveva, alfine, accettato di posare per me. Pensai che Cinzia si era chiusa
in se stessa per non ammettere che il nostro rapporto era arrivato, oramai, a un vicolo cieco. Qualcosa mi diceva che mia moglie, pur avendo intuito quello che avevo scoperto di lei, non era ancora pronta ad affrontare apertamente la questione della nostra crisi coniugale. E così aveva preferito trincerarsi in reazioni ambigue, come il malessere davanti al bar di Piazza della Signoria, o l’improvviso turbamento di fronte alla mia richiesta di farmi da modella. D’altra parte, avevo dimostrato anch’io altrettanta reticenza nell’esigere chiarezza dal nostro rapporto. Sarebbe bastato farle confessare ciò che avevo visto quella mattina, metterla davanti alle sue responsabilità e magari cercare di trovare, di comune accordo, una soluzione ai nostri problemi. È un appunto che mi sono mosso quando, giunti all’imbocco della statale per il Mugello, mi sono girato verso Cinzia che intanto dormiva tutta rannicchiata sul sedile. Aveva il sole che le illuminava il viso e i lunghi capelli dorati infilati negli ampi seni che si intravedevano dal cappotto sbottonato. Non l’avevo mai vista così bella e in quel momento mi sono commosso. Pensai, con gli occhi pieni di lacrime, che ero ancora innamorato di lei e questo pensiero mi sollevò dal senso di colpa di non avere avuto, come Cinzia, il coraggio di affrontare la situazione. Questo momento di debolezza giustificava, in un certo senso, le ragioni del mio progetto di rivivere, attraverso la realizzazione del ritratto di mia moglie, la malinconia che Botticelli mi aveva ispirato con il suo dipinto. Ora, si dirà, che la ricerca di questo particolare stato d’animo non avesse in sé alcun elemento costruttivo rispetto al bisogno di superare una crisi di coppia che, al contrario, richiedeva un trasporto emozionale di altro tenore. Ma la malinconia che avevo ravvisato nell’opera di Botticelli era, per me, tutt’altro che negativa, in quanto sottesa a recuperare le ragioni spirituali della bellezza che la realtà concreta non ammetteva o non voleva accettare. In altre parole, volevo che mia moglie entrasse, seppure simbolicamente, nella realtà virtuale che io avevo costruito come forma di autodifesa dai miei condizionamenti esterni, e attraverso la rivisitazione personale della Venere di Botticelli, farle “toccare” con mano il sentimento di malinconia per quanto la vita ci aveva finora tolto. Guardai l’orologio e calcolai ancora un dieci minuti prima del ritorno a casa. Allora mi misi a sognare ad occhi aperti, immaginando il momento in cui Cinzia si sarebbe prestata nell’insolito ruolo di modella. Ma la mia immaginazione era più proiettata a focalizzare gli effetti che il ritratto di Cinzia avrebbe sortito sul nostro rapporto. In fondo, come ho cercato di
spiegare, quello che mi interessava maggiormente era la condivisione di mia moglie della malinconia per il tempo andato, intesa come momento in cui le nostre speranze di una vita felice erano ancora intatte e propositive. Sicché il ritratto che in quel momento stavo immaginando, somigliava piuttosto a dei fotogrammi di un film che si azionava sotto la mia regia. Ecco quindi che alla Venere del dipinto di Botticelli io sovrapponevo la figura snella e sinuosa di Cinzia che dal mare si avvicinava verso me, pronto ad accoglierla e a difenderla, come l’Ora, dalle contaminazioni del mondo. Questa scena è stata come l’effetto di un flash, nel senso che è apparsa e scomparsa rapidamente per far posto al viale alberato che io ho riconosciuto come quello di casa mia. Anche Cinzia in quel momento si è destata e mi ha chiesto se eravamo arrivati. Senza risponderle, ho preso dal cruscotto il telecomando per azionare il cancello automatico che dava sul vialetto della palazzina dove abitavamo. Dopo pochi minuti eravamo già a casa.
Capitolo 6
La leggerezza dell’essere
Cinzia mantenne la promessa di posare per me, ma lo fece solo qualche giorno più tardi. Gli avvenimenti di quella mattina erano stati di una intensità tale, che nemmeno da parte mia c’era il desiderio di mettere subito in atto la rievocazione del ritratto di Botticelli. Così, dopo un pranzo silenzioso e frugale, mia moglie si ritirò in camera a riposare ed io, finalmente, ne approfittai per correggere i compiti e per preparare il programma di lavoro del giorno dopo. Insomma, ritornai alla vita di sempre anche se sentivo che niente sarebbe stato come prima e che la realtà in cui mi ero calato nuovamente mi avrebbe riservato, da lì a poco, altre sorprese. In effetti l’attesa per ciò che giudicavo decisivo e importante per il mio futuro, mi fece affrontare le rituali incombenze quotidiane in maniera effimera e provvisoria, come se fossi perennemente in bilico tra l’agire in quanto tale e l’aspettativa di finalizzare le mie azioni verso un certo risultato, che alla fine voleva dire non vivere affatto. Era come se mi fossi presentato largamente in anticipo a un appuntamento importante, e con fare impaziente guardassi continuamente l’orologio nell’ attesa del sospirato incontro. Questo stato d’animo si rifletteva anche sul piano pratico. A scuola, ad esempio, non vedevo l’ora di terminare la lezione e con la coda dell’occhio controllavo l’orologio esposto sulla cattedra, quasi a voler esorcizzare con lo sguardo il rapido movimento delle lancette. Ma i minuti avano lenti, e questa continua spia del tempo me li rendeva oltremodo interminabili. Era sicuramente un comportamento insolito, poiché non avevo nessun altro impegno se non quello “ufficioso” assunto con mia moglie. Ora, dopo la discussione alla Galleria degli Uffizi, non eravamo più ritornati sull’argomento, ma in cuor mio speravo che Cinzia, prima o poi, si sarebbe offerta spontaneamente per realizzare quanto le avevo proposto. Questo momento arrivò, ma prima accadde una certa cosa che lo propiziò. Come ho già detto, mia madre mi telefonava almeno una volta la settimana.
Queste conversazioni duravano per lo più pochi minuti, il tempo di salutarsi e di fare le solite benevoli raccomandazioni. Mia moglie accoglieva queste telefonate con apparente distacco e indifferenza. In realtà sapevo che questi appuntamenti abituali non le facevano molto piacere, soprattutto perché la escludevano da quella sintonia filiale che le era sempre mancata a causa della prematura scomparsa della madre. Dal suo punto di vista, mi faceva notare che questo rituale non mi aiutava a superare quella dipendenza da certi legami familiari che avevo voluto interrompere con la mia decisione di trasferirmi a Firenze. Non che ce l’avesse con mia madre, ma era convinta che mi trovassi ancora in un equilibrio precario tra quello che rappresentava la mia famiglia, cioè il ato, e quello che invece era, o doveva essere, il presente e il futuro, ovvero la nostra unione coniugale. Quando litigavamo mostrava acredine per il mio modo di accettare ivamente certe situazioni che, a suo dire, erano la diretta conseguenza di questo condizionamento familiare. Non so se avesse ragione, ma credo che il più delle volte a Cinzia fe comodo giustificare la propria insoddisfazione attribuendomi la responsabilità di non essere, per usare le sue stesse parole, pienamente distaccato dalle mie radici. Ma a parte queste considerazioni che venivano fuori soprattutto quando c’era tensione tra noi, Cinzia riusciva benissimo a mascherare il suo disappunto. Anzi, con mia madre si mostrava molto gentile, come quella volta in cui, rincasando, la vidi che le parlava al telefono con la solita cortesia. Dal soggiorno mi fece segno con la mano di avvicinarmi, mentre si accomiatava da lei con queste parole: -“Ecco, Leo è rientrato in questo momento. Glielo o subito.”Con la mano sopra il ricevitore mi confermò, come avevo già capito, che era mia madre e subito dopo uscì dalla stanza. -“Mamma, come mai hai chiamato a quest’ora?”Erano quasi le due del pomeriggio. Di solito lo faceva la mattina presto prima che andassi al lavoro, o la sera tardi quando sapeva di trovarmi in casa. -“Leo, stai bene? Il lavoro come va?”Erano i soliti convenevoli, ma ebbi l’impressione che fossero il preludio a qualcosa di più serio.
-“Mamma, cosa c’è che non va?”-“Niente! Adesso non posso più chiamarti e chiederti come stai?”-“Lo sai che puoi farlo, ma non hai mai telefonato a quest’ora.”-“E va bene!”-, ammise, -“Ma non alterarti per quello che sto per dirti! Ho parlato stamane con tuo padre. Mi ha detto di riferirti che all’agenzia dove lavora stanno cercando un consulente legale. Tuo padre avrebbe desiderio che ci fi un pensierino.”Provai un senso di rabbia e di delusione. Da un lato ce l’avevo con mia madre per essersi prestata nel ruolo di “messaggera” che non le si addiceva per niente, soprattutto perché sapeva che non avrei mai accettato una proposta del genere. Dall’altro, constatai amaramente che mio padre, ancora una volta, aveva mostrato di non essersi rassegnato al fatto che la mia scelta di trasferirmi a Firenze e di seguire la carriera dell’insegnamento era dovuta soprattutto alla pochezza del nostro rapporto e, di conseguenza, alla precisa volontà di allontanarmi da lui per provare, finalmente, a camminare con le mie gambe. -“Mi dispiace mamma che ti sei così affannata per comunicarmi questa proposta. Ma sai benissimo come la penso. Puoi riferire a papà che non intendo farci nessun ‘pensierino.”Mia madre reagì alla mia ironia mettendosi sulla difensiva. -“Leo, sei arrabbiato con me?”-“Penso che non avresti dovuto prestarti a questa cosa. E poi papà poteva benissimo parlarmene direttamente anziché fare leva su di te.”-“È quello che gli ho detto! Ma sai com’è fatto. Dice che sei troppo orgoglioso per ascoltarlo. E così ha pensato che potessi farlo io. Evidentemente non è stata una buona idea.”-“Già!”-“Comunque gli dico che te ne ho parlato e che mi hai promesso che ci penserai. Lo so che non è vero, ma a tuo padre farebbe molto piacere.”-
-“Anche questa non è una buona idea. ”, obiettai, “Non vedo perché dobbiamo illuderlo!” Avevo usato quel dobbiamo perché ormai mi sentivo parte della complicità che, del tutto spontaneamente, si era creata con mia madre. -“Tuo padre ha una certa età. Quando s’invecchia si ha bisogno delle illusioni per accettare il presente. ” -“Dovrebbe essere il contrario” obiettai ancora, “Di solito si dice che la vecchiaia porta saggezza.”-“Sì,”-, concluse lei, -“ma l’essere saggi è una virtù di pochi!”Ci salutammo rinnovandoci pieno appoggio l’uno verso l’altro, proprio come due compagni di sventura accomunati dallo stesso infausto destino. Mi buttai sul divano e presi a massaggiarmi la fronte e le tempie. Riflettevo sulle ultime parole di mia madre, cioè sulla saggezza come virtù di pochi, e sull’illusione che, secondo le mie osservazioni, doveva costituire la sua antitesi. Devo essere sincero, forse per la prima volta ho provato comione per mio padre. Malgrado la sua esperienza mio padre nutriva ancora verso di me aspettative del tutto sterili, fermamente convinto che nella vita tutto potesse avere senso soltanto facendo leva su qualcosa che empirica non era, ovvero l’immaginazione. Ed è stato quasi naturale cogliere un certo sillogismo tra il mio rapporto con mio padre e quello con Cinzia. Per queste persone non ero né il figlio e né il marito desiderato; ciò nonostante c’era l’illusione, sia da parte mia che di mio padre, che un bel giorno, come per miracolo io sarei diventato il figliol prodigo e nello stesso tempo l’uomo che Cinzia avrebbe di nuovo amato e apprezzato. Proprio in quel mentre mia moglie entrò nel soggiorno e, vedendomi così pensieroso, domandò: -“Che hai? È successo qualcosa?”La guardai da capo a piedi e pensai, con meraviglia, che nonostante fosse al quarto mese di gravidanza il suo corpo si manteneva ancora longilineo. Cinzia indossava una vestaglia rosa di seta che, per la sua aderenza al corpo, ne esaltava le bellissime forme, quasi da far dubitare che fosse davvero in dolce attesa. -“Perché mi guardi così?”-
-“Penso che non sei per niente ingrassata. Non ti si vede neanche la pancia.”-“Dici?”- e si ò una mano proprio in quel punto con l’aria di chi temesse veramente di trovarla appiattita. -“A me non sembra! Sarà perché sono di corporatura snella. Comunque ti assicuro che i chili li ho messi.”Andò a sedersi accanto a me accavallando le gambe e, tirandosi all’indietro i capelli, m’interrogò: -“Allora? Cosa voleva tua madre?”-“Mio padre vorrebbe che lavorassi per lui come consulente legale.”-“Consulente legale? E il tuo lavoro qui?”-“Evidentemente dovrei lasciarlo per fare ritorno a Roma.”Ora, se Cinzia tollerava a malapena le telefonate di mia madre, nei confronti di mio padre era addirittura spietata. Lo considerava come un manipolatore capace di esercitare sugli altri un forte condizionamento psicologico. Più del legame con mia madre, Cinzia era preoccupata del fatto che mio padre, nonostante la distanza, fosse ancora molto presente nella mia vita; e questo rapporto, che lei giudicava non completamente risolto, si rifletteva negativamente sul mio percorso di crescita e di maturazione. Inoltre, se non soprattutto, Cinzia non aveva perdonato a mio padre il suo palese dissenso per la mia decisione di sposarmi con una donna che lui riteneva non adatta a me in quanto socialmente inferiore. Quindi il pensiero che potessi prendere in considerazione i propositi di ‘restaurazione' di mio padre, conclamati dal mio possibile ritorno a Roma, l’aveva subito spinta ad accertarsi sulle mie reali intenzioni. -“E tu cosa intendi fare?”-“Non lo so. Ho promesso a mia madre che ci avrei pensato.”Naturalmente non era vero, ma volevo vedere la reazione di mia moglie. In fondo la proposta di mio padre, sia pure sottesa a farmi capire quanto fosse sbagliata la mia scelta professionale, mi offriva nuove prospettive di guadagno che non potevo permettermi con il mio stipendio di insegnante. E Cinzia aveva
sempre avuto un debole per certe professioni che, secondo lei, destavano maggior prestigio sociale. -“Cosa vuoi dire che ci devi pensare? Non vorrai farmi credere che saresti interessato a lavorare con tuo padre?”-“Perché no? Potrei guadagnare di più. Tu stessa ti sei lamentata del nostro tenore di vita.”-“Sì,”-, ammise, -“ma potremmo migliorarlo senza l’aiuto di tuo padre!”-“Con un secondo lavoro!”-, esclamai alzando le braccia al cielo e con tono chiaramente sarcastico. -“Lo fanno in tanti. Non saresti l’unico.”Cinzia si alzò. Raccolse da terra dei frammenti di carta, accostò una seggiola al tavolo e prese a sistemare alcuni soprammobili sul piano del camino malgrado fossero in perfetto ordine. Da questi gesti, apparentemente normali, capii che si sentiva molto agitata, come era suo solito quando non riusciva a portare la discussione sul punto che desiderava. Poi alzò gli occhi verso il dipinto delle ‘Quattro stagioni’ che, contro il suo volere, avevo appeso proprio sopra il camino e commentò con le braccia conserte, come il più consumato dei critici d’arte: -“Però! A guardarlo meglio non è poi così male! I colori, poi, si adattano perfettamente con l’arredamento della stanza.”Si girò verso di me sorridendomi: -“Non hai mai pensato di esporlo in qualche mostra?”Devo ammettere che questa improvvisa attenzione di Cinzia verso la mia pittura mi aveva colto di sorpresa. Prima di allora non aveva manifestato il benché minimo interessamento per questa ione che riteneva, come ho più volte sottolineato, inutile ed economicamente improduttiva. Adesso, fiutando il pericolo di un possibile sconvolgimento delle mie scelte professionali, Cinzia aveva pensato bene di ricorrere al mio amore per l’arte come argomento di dissuasione dalle nuove prospettive lavorative offerte da mio padre. -“Una mostra? Ti devo ricordare i risultati di quel concorso per giovani pittori
dell’estate scorsa?”Si trattava di una mostra locale che si era tenuta a Scandicci. Non ai nemmeno le eliminatorie. -“Come siamo pessimisti! Lo sai che è una questione di fortuna e di conoscenze. Bisogna avere pazienza. Prendi Van Gogh, ad esempio…”-“Aspetta, aspetta.”-, la interruppi, -“Non dirmi che adesso t’intendi di pittura.”Per tutta risposta, Cinzia andò a sedersi sulle mie ginocchia e iniziò a massaggiarmi i capelli. -“Sono piena di risorse.”-, civettò. -“Van Gogh, dicevo, fino alla sua morte era un perfetto sconosciuto. Soltanto molto tempo dopo il mondo intero seppe apprezzare la bellezza dei suoi quadri.”-“Questo mi conforta.”- ironizzai, -“Vorrà dire che ho ancora tutta la vita davanti a me per sentirmi un genio incompreso. Dovresti anche sapere che Van Gogh venne internato nel manicomio di Saint-Rémy.”-“Ho letto qualcosa del genere. Era pazzo?”-“Può darsi che lo fossero quelli che lo avevano accusato. Voglio dire che il dipinto “Strada dei cipressi ”, uno dei suoi capolavori, venne realizzato quando era ancora rinchiuso in manicomio. Tra la pazzia e l’essere razionali,”- spiegai, -“ci può are pochissima differenza. E poi, il fatto che i meriti di Van Gogh vennero riconosciuti solo dopo la sua morte, è una riprova ulteriore di come la genialità, per la coscienza comune, possa suscitare diffidenza e timore, al punto da essere bandita dai canoni preconcetti della normalità.”Senza volerlo Cinzia mi aveva offerto lo spunto per una riflessione sul mio rapporto con la realtà, effettiva e virtuale. Il mio comportamento poteva definirsi “normale” allorché agivo all’interno dei parametri tradizionali della vita comune; non appena mi trasferivo ‘idealmente' nella realtà virtuale per ciò che intendevo rappresentare con i miei dipinti, ecco che il mio atteggiamento mutava radicalmente, lasciando all’osservatore il dubbio che potesse essere tollerato e accettato dalla coscienza sociale. Dunque, io come Van Gogh?, pensai. Naturalmente il paragone non reggeva se non dal mio personalissimo punto di vista, e comunque se non nell’ambito di quello che questo straordinario
personaggio avrebbe potuto provare durante la sua esistenza. Ero così rapito da questi pensieri, che non mi accorsi che Cinzia si era allontanata da me e aveva ripreso le sue faccende domestiche. Allora decisi di ritirarmi in camera da letto per continuare in queste riflessioni, ma subito dopo mi addormentai. Feci il sogno seguente: Mi trovavo in una stazione della metropolitana, seduto su una panchina con l’aria stanca e annoiata, gli occhi rivolti verso il tabellone elettronico che indicava i minuti di attesa del treno. Nonostante non fosse molto tardi, intorno a me non c’era nessuno. Dopo pochi secondi ho sentito dal fondo della galleria il rumore del treno, prima quasi impercettibile e poi, con il suo ingresso in stazione, forte e roboante. Il treno si è fermato, le porte si sono aperte ed io sono salito nella carrozza centrale. Anche qui, stranamente, l’intero scompartimento era vuoto. Mi sono seduto su una poltrona laterale e mi sono accorto che entrambe le pareti interne del vagone riproducevano in maniera scomposta, ma ben visibile, i miei dipinti. Erano però disegni caricaturali di soggetti da me creati. Ecco la donna e il bambino, che io avevo raffigurato dietro lo sfondo di un paesaggio di campagna, che mi lanciavano boccacce con i volti vistosamente deformati. E più in là, proprio sopra le porte di uscita, il ritratto del vecchio con il cappello che avevo eseguito davanti ad un enorme specchio rotondo, e che adesso mi appariva con le guance rigonfie d’aria e gli occhi sbarrati. Sono stato preso dal panico. Sono corso verso le porte d’uscita, tentando invano di aprirle. Allora mi sono messo a correre da uno scompartimento all’altro, sotto il peso degli sguardi dei soggetti dei miei dipinti, che ormai apparivano a iosa da tutte le pareti del treno. Giunto davanti alla cabina del macchinista, ho aperto la porta e ho visto una piccola stanza quadrata dalle pareti grigie, spoglie e scrostate. Qui ho visto mio padre seduto davanti ad un cavalletto mentre ritraeva Cinzia sdraiata sul divano, completamente nuda. Mio padre mi stava alle spalle, ma riuscivo a vedere il suo volto da uno specchio collocato tra la parete e la soffitta. Ed era un volto spossato, carico di tristezza e di malinconia. Mio padre non era molto dissimile dalla realtà: stempiato, fronte alta, capelli tirati all’indietro, occhi piccoli e scuri, guance molli e rugose, naso camuso e bocca dalle labbra appiattite. Ho guardato il foglio poggiato sul cavalletto, sul quale ho scoperto non la figura di Cinzia, ma la mia, anch’essa deformata. A un tratto il treno si è fermato e l’altoparlante ha annunciato l’arrivo a Roma. A quel punto, mi sono svegliato.
Cinzia era ritta in piedi, davanti a me, che mi guardava con il corpo avvolto soltanto da un asciugamano. -“Che stai facendo?”-, chiesi. -“Non volevi che ti fi da modella? Ora sono pronta. Dove mi metto?”Mi alzai a sedere stropicciandomi gli occhi, ancora tra la veglia e il sonno. -“Hai una faccia! Stai bene?”-, domandò preoccupata. -“Ho fatto un sogno stranissimo. Stavo su un treno della metropolitana completamente vuoto. Tutte le carrozze erano tappezzate dei miei dipinti, che però assomigliavano piuttosto a delle vignette umoristiche. Sono corso da una carrozza all’altra fino ad arrivare alla cabina del macchinista. Qui mi sono trovato in una stanzetta ed ho visto te che posavi per mio padre. Sulla tela, però, non c’era il tuo ritratto, ma la caricatura del mio. Alla fine il treno si è fermato a Roma.”Dovevo avere il volto stravolto. Infatti Cinzia, subito dopo il mio racconto, si avvicinò a me e mi strinse la mano, come una madre premurosa intenta a consolare il proprio bambino svegliatosi da un incubo. -“È stato solo un brutto sogno!”-, disse rassicurandomi, -“Per fortuna sei qui, a Firenze. E i tuoi quadri sono belli e intatti.”Notai subito che Cinzia stava proseguendo nella sua opera di persuasione, spostando tutta l’attenzione su ciò che aveva finora sottovalutato o ignorato, ossia il mio amore per la pittura. In altre parole, mia moglie voleva farmi intendere che il mio posto era lì, a Firenze, e non a fianco di mio padre. Per convincermi, si stava servendo del mio punto debole, come un’esperta seduttrice che la vedeva ora nei panni della modella, pronta a eseguire il progetto che le avevo proposto alla Galleria degli Uffizi. Devo essere sincero, in quel momento non m’importava granché indagare oltre misura sulle ragioni che avevano spinto Cinzia a fare quel o. Volevo, come dire?, cogliere al volo l’occasione che mi si era presentata e calarmi subito nella situazione che avevo per lungo tempo atteso: provare e condividere con mia moglie la malinconia della Venere di Botticelli.
Prima di raccontare quello che avvenne dopo, voglio descrivere lo stato d’animo in cui generalmente mi trovo quando sono dedito alla pittura. Questo, forse, aiuterà a capire l’atmosfera che quel giorno si era creata tra me e Cinzia. Dunque, nei momenti in cui sono seduto davanti ad una tela mi sento completamente estraniato dalla realtà, o almeno da quella che io chiamo effettiva. Non ho, cioè, alcuna percezione delle cose che mi circondano, ed è come se mi sentissi proiettato in una dimensione del tutto astratta e immaginaria. Qualche volta ho anche paragonato questa mia condizione a quella del medium, solo che a differenza del contatto coi defunti, io cerco di collegarmi, attraverso un viaggio trascendentale, con quanto di più profondo la mia spiritualità intende esprimere. In secondo luogo, prima di dipingere non ho mai in mente un’idea precisa. Poggio il pennello sulla tela, aspettando che la mia mano si muova da sola e mi conduca in quel percorso interiore che ho appena descritto. Insomma, la mia ispirazione nasce e si sviluppa attraverso questa particolare predisposizione del mio stato d’animo che non sempre, tuttavia, sortisce gli effetti sperati. Può capitare, come è capitato, che la mia mano non si sposti nemmeno di un millimetro dal punto di partenza o che le cose che dipingo non mi convincano. E allora strappo i fogli, li appallottolo, li getto a terra. Questo mi accade soprattutto quando non sono completamente distaccato dalla realtà e la mia immaginazione appare, in qualche misura, deficitaria. Quel giorno con Cinzia mi trovavo, invece, in una condizione del tutto atipica. Da un lato mi sentivo interiormente pronto a interrompere, sia pure momentaneamente, ogni contatto con la vita reale; dall’altro c’era Cinzia, che invece questa realtà me la faceva sentire ancora presente. In altri termini, avevo il desiderio di portare mia moglie nel mio viaggio immaginario verso la malinconia, ma nello stesso tempo, avvertivo la percezione che Cinzia non fosse ancora pronta o che, addirittura, non mi capisse. Intanto si era seduta ai piedi del letto, proprio di fronte a me, e aspettava che le fi segno di incominciare come un bambino buono e paziente. A quel punto le chiesi: -“Vorrei vederti con i capelli bagnati. Potresti accontentarmi?”-“I capelli bagnati? E perché?”Scesi dal letto e infilai la vestaglia; poi presi una delle tele appoggiate sotto la finestra e la collocai sul cavalletto. -“Non intendo eseguire la riproduzione della Venere di Botticelli. Oltretutto non
ne sarei capace. Quando ti ho portata alla Galleria volevo semplicemente che tu capissi l’idea che mi ha ispirato questo dipinto.”-“La malinconia…”-“Esatto! Botticelli l’ha voluta rappresentare recuperando i valori della mitologia classica, sotto l’influenza della sua cultura umanistica. Devi sapere che Botticelli convisse con la malinconia praticamente per tutta la vita. Si direbbe che questa particolare condizione d’animo sia stata una costante della sua esistenza e, alfine, l’abbia in un certo senso consumato. Ma nel mio caso rappresenterò la malinconia in maniera molto ‘moderna’, e tu sarai l’interprete principale.”-“Io?”-“Sì. Vorrei vedere in te la donna che sei stata un tempo.”-“Ma io non sono cambiata! Forse sei tu che mi vedi diversa.”-“Può darsi. Vorrà dire che questo quadro servirà soprattutto a me che, evidentemente, non riesco a vederti come una volta.”Cinzia stette un attimo in silenzio, poi mi chiese di nuovo se era proprio necessario bagnarsi i capelli. Notai che ci teneva in modo particolare alla sua acconciatura, come se temesse seriamente di vederla stravolta dalla mia richiesta. Risposi ancora di sì, aggiungendo che a lavoro finito si sarebbe capito il motivo. Senza più protestare, Cinzia andò in bagno e ritornò qualche minuto dopo con i capelli sciolti, completamente bagnati, sempre avvolta dall’asciugamano. -“Adesso, per favore, potresti toglierti l’asciugamano e coprirti con le mani i seni e il ventre?”Mi ero seduto sullo sgabello e avevo già iniziato a dipingere lo sfondo: un cielo grigio, appena interrotto da un’apertura da cui sprigionava la luce riflessa del sole. Anche questa volta Cinzia eseguì la mia richiesta senza fiatare. Proprio come la Venere di Botticelli, mia moglie si era coperta con il braccio destro i seni ampi e lattiginosi, e con la mano sinistra teneva nascosto il ventre. Aveva la pancia che, nonostante la gravidanza, non era molto prominente ma
lasciava intravedere ugualmente la forma circolare che dal busto si estendeva fin sotto il bacino. Sul fianco destro era ancora visibile il segno di una cicatrice dovuta ai postumi di un intervento all’appendice. Adesso Cinzia mi guardava un po’ impacciata e aspettava che io le indicassi il punto esatto dove posare. -“Mettiti lì, all’angolo tra la porta e il comò. Ti avverto che questo lavoro sarà solo una bozza. Lo completerò poi nei colori e nei dettagli. Cercherò di non farti stancare molto.”Ripresi a dipingere con gli occhi ora rivolti alla tela e ora puntati su Cinzia. Di tanto in tanto le parlavo domandandole, ad esempio, che cosa fosse per lei la malinconia e se si era mai trovata in questo stato d’animo. Diversamente dal solito, non ero pienamente avulso dalla realtà, e il fatto che in quel momento interloquissi con mia moglie me ne dava ulteriore conferma. Sentivo però il bisogno di coinvolgere Cinzia, almeno con le parole, in quel percorso interiore che altrimenti non avrebbe capito. Del resto per lei si trattava di un’esperienza nuova e non potevo pretendere che, di punto in bianco, condividesse spontaneamente quelle sensazioni che, grazie alla mia naturale predisposizione, ero abituato a sentire. Quindi, la interrogavo per guidarla o dopo o nel mio mondo. -“Prova a descrivermi che cos’è per te la malinconia.”Avevo finito con il contorno del viso ed ero ato a tracciarne i lineamenti. -“Non saprei proprio. A volte si è malinconici, a volte no. Credo che sia un fatto naturale.”-“Senza volerlo l’hai appena definita: la malinconia è, in un certo senso, una condizione naturale, direi umorale.”-“È un po’ come la tristezza.”-“Non è la stessa cosa. Ci si sente tristi sempre per un motivo specifico, per un fatto che è avvenuto e che ci ha fatto dispiacere. La malinconia, invece, è una condizione dell’animo effettiva, ma quasi mai causale. Si può essere malinconici e stare bene lo stesso.”-“Allora ti dico che non sono mai stata malinconica!”-
Fu una affermazione coerente con il carattere di Cinzia e perciò non mi sorprese. Mia moglie non aveva bisogno di essere malinconica, semplicemente perché non era portata a esserlo. Sempre attenta a guardare le cose sul piano esclusivamente pratico, mia moglie non amava ‘sentire' la vita, ma preferiva viverla attraverso le azioni dettate dal luogo comune. Per lei parole come ‘bello’, ‘brutto’, ‘buono’ o ‘cattivo’, erano aggettivi dal significato puramente lessicale, che servivano a qualificare una cosa o una persona sotto l’accezione più comune e tradizionale. La malinconia, invece, è un qualcosa che richiede una definizione concettuale e introspettiva, e come tale, ben lontana dal modo di pensare di Cinzia. Per converso, io mi trovavo in una situazione del tutto opposta: non vivevo la vita, ma la sentivo e perciò non agivo se non per le sensazioni che la vita stessa mi trasmetteva. Mi rendevo conto che il mio tentativo di portare Cinzia sulla mia stessa lunghezza d’onda era improbo e disperato. Contro di me si opponevano la diversa tradizione, cultura e formazione etica di mia moglie. Ciò nonostante la mia mano non se la sentì di ‘abbandonare' il pennello ed era arrivata adesso a dipingere i fianchi di Cinzia. In un certo senso, mi sentivo come un eroe che affronta un’impresa già votata al fallimento. Ma non mi persi d’animo e continuai con le domande: -“Mi hai detto che non sei malinconica. Questo vuol dire che sei soddisfatta della vita che fai?”-“Potrei esserlo di più. Ma mi accontento.”-“Ti accontenti?”-“Stiamo per avere un figlio. E questa è la sola cosa che conti. Scusa… possiamo fare una pausa? Sono un po’ stanca!”-“Solo un attimo… Ecco, adesso puoi muoverti.”Cinzia abbandonò subito la posa, ed io ebbi come la visione che tutta la sua figura uscisse dal quadro che stavo dipingendo e cominciasse ad animarsi. Adesso si era seduta sul bordo del letto e si toccava i capelli per controllare se erano ancora bagnati. -“Devo ancora tenerli così, o me li posso asciugare?”-
-“Veramente preferirei vederti così, ma se ti dà noia possiamo sospendere e ricominciare domani.”-“No, no. Dicevo così per dire.”-“Davvero te la senti? Guarda che sono disposto anche a rimandare a un altro giorno.”-“Invece penso che sia giusto continuare. È così importante per te.”-“Perché, per te non lo è?”-“Ci tenevi così tanto ad avermi come modella, che alla fine mi sono convinta anch’io.”-“Allora l’hai fatto per me?”Mi ero seduto accanto a lei prendendole la mano, ma Cinzia la ritirò subito e si alzò di scatto. Senza voltarsi, rispose: -“Uffa con queste domande! Non ti basta sapere che sono qui, ben felice di fare una cosa che ti fa tanto piacere?”In realtà era profondamente turbata e forse già pentita per essersi prestata a fare qualcosa che le procurava grande imbarazzo. Mi alzai anch’io e mi misi di fronte a lei. Era effettivamente nervosa; i suoi occhi lasciavano trasparire una tristezza cupa e rassegnata, si direbbe, quasi malinconica. -“Se per te questa cosa è un sacrificio, al punto da farti stare così a disagio, allora è meglio interrompere subito.”-“Scusami,”- mormorò, -“ma il fatto è che fai troppe domande, e questo m’imbarazza. Adesso, se anche per te va bene, sono pronta a ricominciare.”Senza attendere risposta mi baciò sulle labbra, ma con tutta fretta che le sfiorò appena. Quindi si mise nuovamente in posa e aspettò che riprendessi il mio posto. Tornai a sedermi sullo sgabello e afferrai il pennello: -“Non ci vorrà molto.”-, le assicurai, -“E poi ti prometto che non ti farò più domande.”-
Cinzia aveva capito che stavo andando oltre e temeva di rivelare, sotto la spinta del mio interrogatorio, che il suo unico scopo era di tenermi lontano dall’idea di accettare la proposta di mio padre. Mi bastava però averle procurato quel disagio che tanto somigliava alla malinconia a cui volevo condurla. So che era soltanto una mia illusione, ma nella metafora di questo viaggio immaginario, che avrebbe dovuto approdare alla riscoperta delle antiche emozioni di un amore che si stava spegnendo, io vedevo Cinzia come un bambino dispettoso che si rifiuta di tendere la mano per salire sull’autobus della scuola. Questa reticenza, che in quel momento ascrivevo a un atteggiamento logico e naturale di mia moglie, rafforzava ulteriormente la mia convinzione di proseguire in un progetto che io sapevo, invece, illogico e innaturale. Ma nello stesso tempo venni assalito dal dubbio che qualsiasi altro mio tentativo di stabilire con Cinzia quel rapporto sintomatico cui aspiravo, non sarebbe servito a niente. Erano due facce della stessa medaglia: da un lato volevo giustificare Cinzia in tutti i modi possibili, anche aggrappandomi a ragionamenti illativi e privi di qualsiasi riscontro concreto; dall’altro, mi pareva di essere arrivato ai limiti di questa illusione e mi sentivo un po’ come colui che, dopo l’ennesimo tentativo di far partire la macchina, si trova sul punto di estrarre definitivamente la chiave dall’accensione. Nei meandri di questi pensieri, tra loro contraddittori e concorrenti, ero giunto all’apice della mia disperazione e, riprendendo l’esempio dell’azione eroica, adesso toccavo con mano gli effetti del suo fallimento. Questo stato d’animo mi spinse ad accelerare la conclusione del mio dipinto, così che dopo alcuni minuti mi rivolsi a Cinzia dicendole che il lavoro era finito e che poteva rivestirsi. -“Posso vederlo?”-“Come ti ho detto è solo una bozza. Dovrò completarla nelle finiture, ma non preoccuparti. Non sarà più necessaria la tua presenza.”Dissi questo non dissimulando un atteggiamento che era, insieme, di delusione e di dispiacere per come si stavano mettendo le cose. In cuor mio speravo che Cinzia mi confermasse, quanto meno, la propria disponibilità a posare di nuovo, se mai ne avessi avuto bisogno. E invece si avvicinò al dipinto e lo esaminò come uno spettatore che, di fronte alla locandina di un film, s’interroga per capire se possa piacergli davvero. Ma il film che avevo ‘realizzato’ era un pezzo della nostra vita che se ne stava
andando e che io avevo voluto afferrare e imprimere sulla tela perché vi rimanesse per sempre: si trattava di un paesaggio marino, col cielo ricoperto di nuvole grigie che lasciava intravedere la luce del sole da un piccola apertura in alto sullo sfondo. Il mare, dal colore bluastro si apriva al centro come un vortice in cui sprofondava la figura di Cinzia, simile alla Venere di Botticelli, ma dai capelli bagnati per la pioggia e dallo sguardo cupo e malinconico. -“È un quadro bellissimo,” osservò, “ma è molto triste!-“Come la nostra storia!”-, mormorai. Ma Cinzia fece finta di non sentire e proseguì: -“Mi hai fatto anche più bella di come sono. Davvero mi vedi così?”Avrei voluto rispondere che se solo avessimo usato di più la nostra immaginazione, ci saremmo visti non soltanto più belli ma anche più disponibili l’uno verso l’altro. E invece mi girai verso la finestra con le mani in tasca, in un atteggiamento che voleva dire resa più totale. Senza voltarmi le ripetei che era il caso che si rivestisse, tanto non c’era più motivo che rimanesse così. Cinzia, invece, si avvicinò alle mie spalle e cominciò ad accarezzarmi. Quello che avvenne dopo lo ricordo ancora come se fosse ieri, forse perché fu la prima volta in cui io e mia moglie ci amammo con la consapevolezza che dopo non sarebbe stato più lo stesso. Cominciammo a baciarci con quella avidità tipica di chi si appresta a un lungo digiuno e per questo mette in serbo tutto il carico di emozioni, sperando che possa bastare durante l’astinenza. In pochi attimi rotolammo sul letto e Cinzia salì sopra di me, nella posizione a lei congeniale, fino a congiungersi in un rituale misto di piacere e di dolore. Dalla finestra filtravano i raggi del sole di quel tardo pomeriggio che si perdevano nei capelli di Cinzia e che la facevano apparire ancora più bella e desiderabile, proprio come la Venere di Botticelli. Alla fine, Cinzia piegò la testa e si rovesciò su di me per l’ultimo e struggente abbraccio, mentre intorno a noi aleggiava quella malinconia che da lì in avanti non ci avrebbe più abbandonato.
Capitolo 7 Il Gallerista
Uno di quei giorni mi telefonò Venanzio, un ex compagno del liceo che avevo rivisto alla mostra per giovani pittori di Scandicci. Anche lui si era trasferito a Firenze e aveva, come me, la ione per l’arte. Ma a parte queste analogie, null’altro avevamo in comune. Per Venanzio la pittura era qualcosa di indistinguibile dalla sua professione di disegnatore pubblicitario, nel senso che si dedicava ora all’una ora all’altra attività con lo stesso impegno ed entusiasmo. Inoltre, diversamente da me, Venanzio lasciava intuire già dall’aspetto di essere un’artista: capelli lunghi, portati con il codino, viso sfilato con barbetta caprina, occhi dallo sguardo sempre trasognante e abbigliamento anticonvenzionale, con jeans scoloriti, magliette e giacche larghe, e persino un tatuaggio a forma di aquila che si era fatto imprimere sul braccio sinistro. Insomma, era quel che si dice di una persona molto visibile nelle apparenze e nel modo di essere. Quando c’incontrammo a quella mostra, mi salutò con queste parole: -“Ma guarda come è piccolo il mondo! Anche tu qui, vecchio cialtrone! Non dirmi che sei partito da Roma per partecipare a questa specie di baraonda di artisti illusi e incompresi?”Lo tranquillizzai spiegando che non avevo fatto molti chilometri dal punto in cui mi ero trasferito e che, quanto alla baraonda, poteva considerarsi in buona compagnia. Mi aveva telefonato per invitarmi, guarda caso, a un’altra mostra dove avrebbe esposto alcune delle sue ultime “fatiche”. -“Il proprietario dei locali”-, spiegò, -“mi ha concesso un apposito stand. Forse lo conosci anche tu. Ha una galleria proprio al centro.”-“Come si chiama?”-“Renato Lattanzi. Ma tutti lo chiamano semplicemente ‘Lattanzi’. È un gallerista molto conosciuto.”-
-“Non per me.”-.
Ed era vero. Poco convinto del fatto che le mie qualità artistiche potessero essere barattate alla stregua di qualsiasi altro prodotto di scambio, avevo sempre evitato di propormi, - fatta eccezione della breve parentesi di Scandicci -, nella veste del pittore al servizio di un pubblico che io giudicavo disattento e fortemente condizionato da una società consumistica. In altri termini credevo, forse a torto, che la gente acquistasse quadri soprattutto per un bisogno di decorare le pareti delle proprie case, piuttosto che per apprezzare il loro contenuto intrinseco. E in verità non ho mai creduto di poter onorare gli ambienti dell’arte sfoggiando dipinti che raccontavano la parte di me più intima e nascosta. Venanzio, invece, la pensava esattamente all’opposto. Diceva che un vero pittore doveva ‘rivelarsi’ e sottoporsi continuamente al giudizio del pubblico. Secondo lui, la messa in vendita dei propri lavori non era altro che, per restare nel tema, la cornice di un meccanismo di scambio che vedeva nella sua centralità la capacità di esprimersi e di saper suscitare nel potenziale compratore determinate emozioni. Alla fine accettai il suo invito e mi recai, la sera stessa, alla galleria del Lattanzi. Si trovava proprio a poche centinaia di metri da Piazza del Duomo, all’imbocco di via DÈ Martelli, e un po’ mi sorpresi per non averla mai notata. Prima di entrare, indugiai qualche minuto per esplorarla attraverso le vetrine che davano direttamente sul fronte strada. Era una galleria non molto grande, con tre sale divise da pareti a scacchi in vetro murano. Piuttosto moderna, ma scarsamente arredata con panche di legno chiaro e, nella sala centrale, una grande scrivania in cristallo e ferro battuto, la galleria era illuminata da faretti disseminati agli angoli dei soffitti e nelle vicinanze dei dipinti esposti. Finalmente mi decisi a entrare e a mescolarmi tra la gente che, in quell’occasione, era davvero tanta. Notai però quasi subito Venanzio che parlottava con qualcuno e che, alla mia vista, alzò una mano per salutarmi, si congedò dal suo interlocutore e avanzò verso di me. Era vestito anche stavolta in maniera molto sportiva, con jeans chiari, un giubbotto marrone in pelle e un maglione verde su cui sfoggiava una catenina
d’oro col crocifisso. -“Sono contento che tu sia venuto.”-, esordì, -“Adesso mi sento molto più incoraggiato.”-“Quanta gente!”, commentai, -“Ma allora sei proprio diventato famoso!”-“Scherzi? Non è mica tutta per me! Come ti ho spiegato al telefono, mi è stato concesso solo questo spazio.”-, e indicò la parte adiacente della vetrina della prima sala dove erano sistemati, quasi in fila indiana, i suoi quadri-“Vieni che ti faccio vedere le mie creature”-. Fin dalle prime occhiate ebbi la conferma che Venanzio aveva uno stile molto diverso dal mio. Forse influenzato anche dalla sua attività di disegnatore, i suoi quadri sembravano piuttosto degli slogan pubblicitari, con colori molto accesi e appariscenti. In un dipinto, ad esempio, era raffigurato un televisore in fiamme, mentre sul lato destro in basso c’era il volto terrorizzato di un bambino con le mani sulle guance e gli occhi sbarrati. Il tutto accompagnato da chiazze di colori variegati, che somigliavano a delle orme gigantesche In un altro, la tecnica dei colori dalle tonalità forti era ancora più evidente: si trattava dell’urlo di un uomo simboleggiato da un grande arcobaleno che fuoriusciva dalla bocca spalancata per perdersi, poco più in alto, dietro a una vecchia radio degli anni cinquanta. Anche qui aveva usato colori più disparati, che in alcuni tratti apparivano piuttosto accentuati. Stavo per fare un primo commento quando alle mie spalle sentii delle voci. Mi girai e vidi un uomo e una donna che si scambiavano le proprie impressioni su questo dipinto. Era una coppia di mezza età, dall’aria molto attenta e concentrata, come se si sforzasse di comprendere il significato di quell’opera. -“Sembra il grido di Munch.”- disse lei. -“Non so,”- fece lui, -“ci sono delle analogie, ma solo per alcuni tratti.”A questo punto s’intromise Venanzio. Riporto la conversazione che avvenne con i due visitatori perché rivelò in maniera molto marcata la personalità del mio collega che era, come ho detto, decisamente diversa dalla mia.
-“Il grido di Munch? Permettetemi che mi presento: sono Venanzio Cortesi, l’autore di questo dipinto.”-“Oh!”-, esclamò la donna, -“Dicevo a mio marito che è un quadro molto particolare”-“Già!”-, confermò lui, -“Ma non credo che sia rassomigliante all’opera di Munch.”-“E ha ragione.”-, approvò Venanzio, -“I colori di Munch sono cromatici e più uniformi. Forse quello che ci accomuna è un certo simbolismo che io però ho voluto rappresentare in maniera più diretta e contemporanea.”-“Sì.”- convenne l’uomo ma con tono dubitativo e mettendosi una mano sul mento, -“Però quella radio sospesa nel cielo, non so davvero cosa voglia rappresentare.”-“Vuole significare la comunicazione al tempo in cui venne inventata la radio. L’urlo dell’uomo è un richiamo a questa forma mediale che, come si sa, non si manifesta con l’immagine ma solo con la voce. L’arcobaleno vuole dare forza e spessore al valore delle parole o, se vogliamo, alle voci di dentro che provengono da quella scatola di transistor.”-“Molto interessante.”-, disse l’uomo, -“E… quale sarebbe il valore di questo quadro?”Qui Venanzio dimostrò tutte le sue qualità di affarista e di promotore di se stesso. Mi stupiva il fatto che lui potesse essere un artista e nello stesso tempo un abile venditore, conoscitore delle regole di mercato come il più consumato degli esperti di marketing. Era una contrapposizione che io ritenevo incompatibile se non antitetica, ma che evidentemente Venanzio riusciva a far coesistere con molta disinvoltura. -“Il valore? Potrei dirle che questo quadro non ha prezzo, come i sentimenti, le emozioni. Non è come andare al mercato e scegliere la frutta o la verdura che ci piace di più. Le cose che mangiamo, una volta assaporate, vengono metabolizzate e disperse nel nostro organismo. La sensazione del gusto provato dura pochissimo e ben presto ce ne dimentichiamo. Avere a disposizione un quadro non è la stessa cosa. Se piace, piace sempre. Come si fa ora a stabilire il valore? Potrei dirle che il valore lo stabilisce il compratore in base alla quantità
di emozioni che può ricevere. Ma allora se di mercato si può parlare, è solo quello estemporaneo delle sensazioni che ciascuno di noi è in grado di avvertire e di soppesare. Io credo che lei possa stimare da solo il valore di questo quadro.”L’uomo si rivolse alla moglie bisbigliando qualcosa. Poi comunicò la somma di denaro che era disposto a versare. Dall’espressione soddisfatta di Venanzio capii che il cliente non era andato molto lontano dalla cifra che il mio amico si aspettava. In pochi attimi la trattativa si concluse con la promessa a vendere e con una stretta di mano ai nuovi acquirenti che se ne andarono visibilmente soddisfatti. -“Devo farti i miei complimenti,”-, commentai, - “li hai praticamente ipnotizzati!”Venanzio mi diede una pacca sulla spalla e rispose trionfante: -“Amico mio, in questo mestiere se vuoi farti strada devi saper vendere le emozioni che proponi.”Si accorse che lo guardavo un po’ perplesso e subito si affrettò a chiarire: -“Vedi, io faccio il disegnatore pubblicitario e in un certo senso sono abituato a interpretare i gusti della gente. Ho capito immediatamente che quei due avevano interesse per il mio quadro. Volevano soltanto essere sollecitati.”-“Vuoi dire che ti sono sembrati affascinati dall’opera ma non al punto da essere convinti di acquistarla?”-“Esatto. Avevano bisogno di una motivazione che confermasse le loro impressioni. In questo campo, il più delle volte, si teme di ricevere una fregatura. Allora diventa importante dare autenticità al prodotto che stai vendendo. E chi meglio dell’autore stesso può farlo?”Non aspettò la mia replica. Mi disse di scusarlo per qualche minuto perché doveva sbrigare una certa cosa ma che sarebbe ritornato presto. Rimasi con lo sguardo apparentemente concentrato sui quadri che avevo davanti. In realtà riflettevo sull’atteggiamento di Venanzio che, ancora una volta, mi sembrava contraddittorio. Ho sempre creduto che un artista, in quanto tale, non
abbia mai in mente dei prototipi come interlocutori, nel senso che le sue creazioni sono sganciate da qualsiasi sondaggio preliminare di un possibile gradimento di chi si trova a giudicarle. Venanzio, invece, agiva in maniera controcorrente rispetto al mio pensiero. Persino nel linguaggio, usava termini come “mercato”, “contrattazione”, “prezzo”, “prodotto”, come se si trovasse a un tavolo di lavoro con esperti dell’alta finanza. In altri termini, quell’autenticità che lui pretendeva di assegnare alle sue opere veniva in un certo senso sminuita, sia nella forma che nel contenuto, attraverso richiami impropri a questa sorta di mercanteggio che era ben lontana da ciò che io intendevo per il mestiere dell’artista. Mentre ero assorto in questi pensieri, sentii a un tratto la voce di Venanzio che da dietro le spalle annunciò: -“Leo, vorrei presentarti Renato Lattanzi, il proprietario di questa galleria.”Mi girai di scatto e per poco non mi venne un colpo nel riconoscere l’uomo che avevo visto con Cinzia a Piazza della Signoria. Era vestito in abito scuro, con giacca a doppio petto, capelli tirati all’indietro e imbrillantinati, viso dalla fronte alta e rugosa che rivelava una bellezza datata, molto simile a un attore degli anni trenta. Ci stringemmo la mano ed ebbi subito la percezione che non dovevo sembrargli uno sconosciuto. La cosa mi sorprese dal momento che ero convinto che quella volta, a Piazza della Signoria, non poteva avermi visto dalle vetrine del bar. Lattanzi, però, riuscì bene a nascondere il proprio imbarazzo e si mostrò subito interessato alla mia conoscenza. -“Così anche lei è un pittore!”- Poi rivolgendosi a Venanzio disse: -“Leo… Leonardo… ma allora è lui il Leonardo Ferretti di cui mi parlavi.”-“Sì, ed è anche molto bravo.”- rispose questi lanciandomi un sorriso. -“Veramente,”- tenni a precisare, -“faccio il pittore solo per atempo.”-“Giusto.”-, approvò Lattanzi, -“Fare il pittore non è mai una professione vera e propria. Sono gallerista da diversi anni e ho conosciuto gente di ogni tipo: pittori che si reputano tali pur non avendo nessuna esperienza significativa; altri che lasciano intuire un grande avvenire e che invece si perdono per strada; altri
ancora che operano con discrezione ma con ottimi risultati.”-“Non credo di appartenere a nessuna di queste categorie.”-, obiettai, -“Sono semplicemente un apionato dell’arte che qualche volta si diletta con il pennello, ma niente di più. “-“Leo è sempre stato molto modesto.”- fece Venanzio, -“In realtà i suoi quadri sono molto interessanti. Solo che non è convinto di volerli mostrare agli altri.”-“Non è per questo.”- replicai ancora, -“Se ricordi bene, Venanzio, ho già partecipato a qualche mostra. Diciamo che è una questione di interpretazione di questo mestiere, che per me è avulso da una reale necessità di avere il riscontro della gente.”Lattanzi mi fissò con quegli occhi che mi sembravano minuscoli rispetto al viso grande e quadrato, e ancora una volta ebbi la sensazione che volesse scrutarmi, ma in maniera, come dire?, comparativa rispetto a una certa idea che si era fatta su di me. E non credo neanche che questa idea provenisse dai discorsi propagandistici di Venanzio, dato che l’argomento di discussione sulla pittura mi sembrava piuttosto accidentale rispetto a quanto Lattanzi voleva sapere di me. -“Va bene.”-, disse questi, -“ma mi farebbe ugualmente piacere dare un’occhiata ai suoi quadri, sempre che non le dispiaccia.”-“Non c’è nessun problema. Magari uno di questi giorni la inviterò a casa mia per un caffè.”-“Sarà un piacere. Ora se permettetemi…”-. Fece un breve cenno di saluto e dopo una giravolta, come un perfetto maggiordomo, si avviò nelle altre sale confondendosi tra la folla. -“Che te ne pare?”- chiese Venanzio. -“Come l’hai conosciuto?”-, domandai a mia volta. -“Qualche anno fa Lattanzi aveva bisogno di pubblicizzare una serie di mostre a Trento con alcuni pittori emergenti. Quindi si rivolse al direttore della mia agenzia che ci presentò. Tra le altre cose parlammo anche dei miei quadri, ma l’idea di esporli in questa galleria è nata solo di recente. È un tipo in gamba, ha
un sacco di conoscenze. Possibile che non hai mai avuto modo di incontrarlo?”Stavo per dire che l’avevo conosciuto, eccome, ma in circostanze del tutto particolari. Invece risposi: -“Non sapevo nemmeno che ci fosse questa galleria!”-“Leo!”-, mi rimproverò affettuosamente, -“Sei rimasto lo stesso dei tempi del liceo. Distratto, pensieroso, con la testa sempre tra le nuvole. Forse tra noi due, il vero pittore sei proprio tu.”La testa tra le nuvole, ripetei mentalmente. Venanzio aveva ragione. Avevo sempre vissuto nella dicotomia tra la realtà e l’immaginazione. E forse questo mi aveva fatto perdere di vista il senso della mia appartenenza a un mondo che non accettavo e da cui volevo fuggire, ma senza mai decidermi di farlo veramente. Era un po’ come un tira e molla: da un lato ero perfettamente consapevole di avere i piedi ben piantati sulla terra e di essere una persona con tutte le funzioni organiche attive: respiravo, mangiavo, dormivo, lavoravo, facevo l’amore e persino ricordavo l’ultimo film che avevo visto con mio padre al cinema. Dall’altro c’era qualcosa in me che mi portava molto lontano da queste cose, che me le faceva osservare come se fossero successe a un’altra persona. E questo continuo oscillare nell’uno e nell’altro verso non mi portava a comprendere quello che le altre persone pensavano e agivano a loro volta. In altre parole, per colpa della “mia testa tra le nuvole” io non ero molto presente, per esempio, nella vita di mia moglie e questo fatto mi aveva portato a sottovalutare, se non a ignorare, il rapporto, la relazione, l’interesse che Cinzia poteva avere per una persona come Lattanzi. Rimasi ancora per qualche minuto con Venanzio, poi mi congedai perché avevo il treno per Sesto Fiorentino. -“Ma come? Non sei venuto in macchina?”-“Ho voluto evitare. Lo sai che arrivare qui in centro storico è sempre un problema.”-“Leo…”-“Sì?”-
-“Ti ringrazio per essere venuto. E volevo anche scusarmi. Forse sono stato un po’ invadente parlando di te a Lattanzi.”In realtà, più che per l’invadenza di Venanzio, i miei pensieri erano concentrati sull’altra questione, decisamente più importante, che riguardava il tipo di relazione che legava Lattanzi a mia moglie. -“Non devi scusarti,”- risposi, -“anzi, ti dirò che molto presto inviterò questo Lattanzi a casa mia.”Frase pronunciata con una punta di ironia che Venanzio, naturalmente, interpretò come una mia apertura a una possibile collaborazione professionale. -“Magnifico! Fammi sapere come sarà andata.”Uscii dal locale dirigendomi molto lentamente alla stazione di Santa Maria Novella. Ero piombato nello stesso stato d’animo, carico di dubbi e di angoscia, in cui quella mattina a Piazza della Signoria avevo sorpreso Cinzia con l’uomo che ora avevo identificato in Lattanzi. Da quel momento avevo voluto archiviare in qualche parte della mia memoria il ricordo di questa scena, nel tentativo di recuperare il rapporto con mia moglie attraverso il suo coinvolgimento nella mia dimensione di artista. Quasi la figura di Lattanzi l’avevo confinata nell’anonimato, ma adesso l’aver scoperto le sue generalità e soprattutto la sua appartenenza al mio stesso mondo, me la faceva apparire nuovamente reale e minacciosa. Aveva cominciato a piovere ed io mi strinsi nell’impermeabile, avanzando spedito con le braccia conserte verso l’ingresso della stazione. Nella sala d’attesa c’era soltanto una donna seduta su una panca e accanto a lei un bambino, forse suo figlio, con la faccia tuffata in una busta di patatine. Mi sedetti di fronte a loro dando un’occhiata all’orologio sulla parete in alto che segnava le 22 e 35. Ancora dieci minuti, pensai, e il treno per Sesto sarebbe arrivato. Nel silenzio si udiva soltanto lo scricchiolio delle patatine che il bambino masticava un po’ svogliatamente, unica risonanza di vita di quell’atmosfera soporifera e di calma assoluta. A un tratto il bambino corse verso di me porgendomi una patatina. Rifiutai ringraziandolo e accarezzandogli i capelli.
-“Non ti piacciono le patatine?”-, chiese stupito. -“Moltissimo, ma adesso non ne ho tanta voglia.”-“Io invece le mangerei sempre, ma la mamma dice che fanno male.”A quel punto intervenne la donna che richiamò il bambino intimandogli di venire da lei. La sua voce, anche se non molto forte, risuonò ridondante in quella sala vuota e quasi mi fece trasalire. Il bambino ritornò al suo posto e ascoltò ubbidiente le parole della madre che a bassa voce, ma perfettamente udibile, gli andava rimproverando che non doveva avvicinarsi a degli estranei. Subito dopo i due viaggiatori si alzarono e uscirono dalla sala per andare alla piattaforma della stazione, ma prima la donna si girò verso di me lanciandomi una occhiata di indignazione. Perplesso e sconcertato, guardai la mia immagine riflessa sulla porta vetri della sala e a quel punto capii che il mio aspetto non doveva essere per niente rassicurante. Avevo la barba di qualche giorno, gli occhi cerchiati e lo sguardo cupo che denotava una stanchezza più mentale che fisica. Le goccioline di pioggia che scendevano lente sulla vetrata, conferivano alla mia immagine una versione ancora più dimessa. Non avevo insomma l’aspetto di una persona perbene, e quella donna col bambino aveva pensato bene di tenersi alla larga da certe facce sospette come la mia. In realtà l’immagine di me che offrivo all’esterno non era altro che lo specchio della mia inquietudine, resasi ancora più forte dopo l’incontro con Lattanzi. Pensavo di trovarmi così per la velocità con cui i pensieri affollavano la mia mente, con un meccanismo che ne favoriva una prematura ed estemporanea senilità, resa più evidente dal mio aspetto fisico. Forse stavo male perché pensavo troppo, ma sapevo anche che questa frenetica attività di pensiero mi veniva del tutto spontanea ed era, come tale, incontrollabile. Allora ripresi a pensare senza riserve, sollecitato soprattutto dagli avvenimenti di quella sera. Così, una volta in treno, mi chiesi di nuovo che tipo di relazione c’era tra Lattanzi e mia moglie, mentre osservavo dal finestrino lo scorrere veloce delle case e delle strade di Firenze. Cosa c’entrava mia moglie con un personaggio che faceva parte di un mondo a cui Cinzia non aveva mai mostrato interesse? Forse avrei accettato di più una relazione con l’uomo della porta accanto o comunque con una persona che
avesse interessi più vicini al modo di essere di Cinzia. Spesso associamo le persone e le loro amicizie a un unico denominatore comune rappresentato da certe affinità elettive o di pensiero. Ma poi si poteva davvero parlare di relazione, e per giunta amorosa, tra queste due persone? La scena di Piazza della Signoria che avevo volutamente archiviato, si ripresentava adesso in tutta la sua attualità perché avevo scoperto quanto fosse reale, nella mia concezione della realtà, il personaggio di Lattanzi. Quello di cui temevo maggiormente era l’incapacità di gestire e risolvere una situazione che non avrei mai voluto affrontare ma che, a quel punto, sapevo di non dover più ignorare. Il treno arrivò a Sesto con qualche minuto di ritardo rispetto al previsto. Scesi alla fermata puntando lo sguardo sulla finestra della cucina di casa che si affacciava, poco lontano, proprio su quella stazione. Era illuminata e pensai che, malgrado l’ora tarda, Cinzia doveva essere ancora sveglia. Che cosa l’avrei detto? Che avevo fatto conoscenza con il suo amico e che adesso avrei voluto sapere di più da lei? O più semplicemente avrei fatto finta di niente lasciando, ancora una volta, che gli eventi decidessero per me? Mi affidai al caso. E il caso volle che, una volta rientrato in casa, trovai Cinzia tutta intenta a rimirare e a sistemare le scatole del corredino disposte sulla tavola del soggiorno. -“Ciao.”-, mi disse, -“Non avevo sonno e ho pensato di mettere in ordine il corredino. E tu? Tutto bene con Venanzio?”-“Benissimo. Ti ho forse detto che ha esposto i suoi quadri in una galleria del centro?”-“Davvero?”-“Mi ha anche presentato il gallerista.”-“E chi è?”Mi parlava senza mai distogliere lo sguardo da quei piccoli capi di abbigliamento che tante volte avevo visto riporre, disfare e riporre nuovamente nei loro involucri. -“Adesso, veramente, ho un vuoto di memoria. Però credo che approfondirò la sua conoscenza invitandolo una di queste sere a casa.”-
Avevo di proposito simulato questa improvvisa amnesia, come un esperto giocatore di scacchi che si guarda bene dal rivelare le proprie mosse. Ma di fronte a me c’era un “avversario” che a questo gioco sembrava non partecipare o non capire. Alle mie ultime parole Cinzia replicò semplicemente che per lei andava bene ma che preferiva essere avvertita prima, se non altro per farsi trovare nelle migliori condizioni che il suo stato di gravidanza le poteva permettere. Era arrivata al sesto mese abbondante e, per la prima volta, mi parve di trovarla veramente ingrassata come constatai più tardi nella camera da letto. Cinzia si era spogliata per mettersi la camicia da notte ma, a differenza delle altre volte in cui non aveva mostrato alcun imbarazzo nel farsi vedere nuda da me, si era girata di spalle, seduta sulla punta del letto, infilandosi in tutta fretta quell’indumento. Pur nella celerità di questi movimenti, potei notare il profilo della pancia, adesso piuttosto prominente, e la larghezza dei fianchi e delle cosce che era quasi raddoppiata rispetto al giorno in cui aveva posato per me. Si guardò allo specchio andosi le mani sul viso ispezionandolo minutamente. -“Sono veramente ingrassata.”-, disse alfine con un po’ di dispiacere, -“Adesso mi si vede persino il doppio mento!"Avrei voluto confortarla con parole gentili e rassicuranti ma, spinto dal risentimento, riuscii a malapena ad osservare che era normale trovarsi così in quelle condizioni. Quindi mi girai dall’altra parte, spensi il lume e mi addormentai.
Capitolo 8 Indovina chi viene a cena?
Quella notte non riuscii a dormire. Ero così preso dall’ansia e dall’agitazione, che mi giravo e mi rigiravo tra le coperte senza riuscire a trovare la posizione giusta. Accanto a me Cinzia sembrava, invece, tranquilla e serena e per tutto il tempo in cui è durato il mio dormiveglia l’ho vista muoversi soltanto una volta, quando si è girata verso di me tirando su il lenzuolo fin sotto il mento e riprendendo subito dopo il respiro lieve e regolare. Avevo cercato in tutti i modi di mettere da parte i mille pensieri che occupavano la mia mente, provando persino ad immaginare le cose più belle che mi potevano essere capitate, ma purtroppo queste divagazioni, tanto effimere e pretestuose, sfumavano così come apparivano. Fu una notte piena di azioni ripetitive: accendevo il lume, davo un’occhiata all’orologio, mi alzavo e andavo alla finestra per scrutare distrattamente quello che c’era fuori, uscivo dalla stanza per andare in cucina, fumavo una sigaretta, tornavo a letto, e prima di spegnere il lume controllavo di nuovo l’orologio per costatare, a malincuore, che erano ati soltanto pochi minuti. Mi rassegnai allora al fatto che qualsiasi tentativo di vincere l’insonnia sarebbe stato inutile, e così ripresi a pensare con tutta la lucidità che mi potevo permettere. Ricostruii nuovamente gli avvenimenti che mi erano accaduti recentemente e provai a fare due ipotesi distinte: 1) Cinzia mi aveva tradito e forse il figlio che aspettava non era mio. 2) La relazione tra Cinzia e Lattanzi era di altra natura e, per un motivo misterioso, mia moglie aveva preferito tenermi all’oscuro. Delle due ipotesi propendevo nettamente per la seconda, e ciò per una serie di valutazioni circostanziali. Innanzitutto, dopo un rapido calcolo a ritroso di quello che poteva essere stato il momento del concepimento, ero quasi sicuro che
Cinzia, a quel tempo, non poteva essere interessata da altre “distrazioni”: era il periodo in cui facevamo l’amore anche due volte al giorno e si sa che certe sbandate trovano terreno fertile soprattutto quando c’è astinenza sessuale. Ho già ricordato che il nostro rapporto, pur dando i primi segni di cedimento si era assestato, ad un certo punto, in una posizione di stasi contemplativa, reggendosi soprattutto sulla floridezza della nostra intesa sessuale. Era il bisogno di entrambi di cercare concretezza negli affetti, e che ci vedeva un po’ come due naufraghi sotto una tempesta che da lì a poco si sarebbe abbattuta sul nostro matrimonio. In secondo luogo, era ormai assodato che Cinzia aveva con la mia ione per l’arte lo stesso rapporto di idiosincrasia che si potrebbe avere per le fragole. In un certo senso era allergica a qualsiasi aspetto che poteva procurarle anche indirettamente questa ione e si guardava bene dall’esserne coinvolta, fatta eccezione della breve parentesi, del tutto meditata e interessata, in cui aveva accettato di farmi da modella. Per questa sua predisposizione mi ero convinto che Cinzia non poteva essere attratta da una persona che, bene o male, aveva i miei stessi interessi, sicché una relazione sentimentale dello stesso tipo sarebbe stata per lo meno incomprensibile. Rimaneva da analizzare la natura del rapporto con Lattanzi. Potevo indovinare una certa familiarità con questa persona, se non altro per la gestualità, tutt’altro che convenevole, con cui Cinzia si era rivolta a Lattanzi, tanto che mi aveva fatto pensare ad un conoscenza tra i due più datata che recente. Ma le mie supposizioni si fermavano qui e qualsiasi altra ipotesi poteva essere tanto attendibile quanto infondata. Decisi allora di sperimentare ancora una volta la reazione di mia moglie invitando Lattanzi a casa mia con la scusa di mostrargli i miei dipinti. Non andavo certamente fiero di questa messinscena, ma volevo dissipare qualsiasi dubbio anche facendo uso di certi stratagemmi cui, del resto, avevo già fatto ricorso quando, quella mattina a Piazza della Signoria, mi ero fermato con Cinzia davanti al bar per simulare l’incontro con Lattanzi. In quella occasione mia moglie aveva, a sua volta, finto di stare poco bene ed io, soprattutto per il timore di affrontare una verità che non ero pronto ad accettare, mi ero aggrappato all’idea della malinconia come possibile soluzione alla nostra crisi coniugale. Ma questa volta sapevo che non avrei cercato altro rimedio se non quello che da questo confronto ne sarebbe scaturito: divorzio o rivalutazione del
mio rapporto coniugale. Ritornai a letto rassicurato da questo proposito, ma forse più per la stanchezza che a quell’ora della notte cominciò a farsi sentire. Che cosa potevo aspettarmi dall’incontro con Lattanzi? E poi come avrei reagito se mia moglie si fosse finalmente decisa a darmi conto di questa relazione? Il sonno sopraggiunse annientando gli ultimi residui della mia lucidità, e così mi addormentai profondamente.
La mattina dopo decisi di telefonare a Lattanzi direttamente dalla scuola. Non volevo dare a Cinzia il tempo di prepararsi a questo evento, convinto com’ero che se l’incontro che volevo combinare fosse sembrato un’improvvisata dell’ultima ora, avrei potuto capire qualcosa di più almeno dall’immediatezza delle loro reazioni. Mi alzai di buon ora e mi dedicai ai soliti preparativi del mattino: doccia, barba, caffè, vestizione e preparazione della valigetta da lavoro, il tutto con una meticolosità solita e rituale avendo cura di non svegliare Cinzia. Una volta in strada, andai all’edicola davanti a casa mia per prendere il giornale. L’edicolante, un uomo basso e panciuto, mi porse il mio quotidiano salutandomi con una faccia seria e preoccupata: -“Buon giorno professore. Ha saputo la notizia?”-“Quale notizia?”-“C’è stato un attentato stanotte al centro di Firenze. ” Diedi subito un’occhiata alla prima pagina del giornale che riportava l’esplosione di un’autobomba in via dei Georgofili. Più in basso del titolo si raccontava che vi erano stati dei morti e gravi danni all’antica Torre del Pulci, praticamente distrutta, alla Galleria degli Uffizi, al Palazzo Vecchio, alla Chiesa di Santo Stefano, al Ponte Vecchio e al museo di Storia della Scienza. -“Non ha sentito niente stanotte? Non siamo molto lontani da Firenze.”-
-“No.”- risposi senza distogliere gli occhi dal giornale. -“Nemmeno io. Sa, professore, quando dormo non mi sveglierebbero nemmeno con le cannonate. Però, poveretti quei morti…”Più tardi avrei saputo che i morti erano stati cinque, e fra questi, una bambina di appena nove anni e un ragazzo nel fiore della sua adolescenza. Provai un forte sentimento di sdegno, accompagnato da una rabbia muta e impotente. Il mio pensiero era rivolto sia a quelle povere vite umane che al grave scempio compiuto nei confronti di opere d’arte dal valore inestimabile. Consideravo Firenze la città d’arte per eccellenza, culla di una civiltà dalle incomparabili tradizioni storiche che per se stesse la rendevano, ai miei occhi, invulnerabile da qualsiasi azione violenta e prevaricatrice. E invece l’attentato terroristico di quella notte me la fece apparire così fragile e indifesa, e come tale, così profondamente umana a dispetto del tentativo disumano di chi aveva voluto colpirla proprio nel cuore della sua civiltà. Spinto dalla necessità di rendermi conto personalmente di quello che era successo, telefonai alla scuola da un telefono pubblico per chiedere ad un mio collega di sostituirmi. La segretaria mi avvertì, invece, che quel giorno non ci sarebbero state lezioni e che il sindaco aveva già proclamato il lutto cittadino. Mi recai alla stazione per prendere il treno per Firenze, ma anche qui quelli della biglietteria mi fecero presente che le fermate per il capoluogo erano state momentaneamente sospese. Tutte queste notizie mi confermarono la gravità della situazione, più di quanto non ne avessi già avuto sentore. Potevo scegliere di prendere la macchina, ma pensai che avrei avuto molte difficoltà ad avvicinarmi al centro e, soprattutto, a trovare un posteggio. Decisi allora di prendere un taxi e fortunatamente ne trovai uno libero fuori della stazione. Vi salii con il giornale spiegazzato a metà, aperto sulla prima pagina. Il tassista gli diede un’occhiata dallo specchietto retrovisore e iniziò a dire: -“Gran brutta cosa questa qui. Se vuole sapere la mia opinione, penso che ci sia di mezzo la politica e i suoi sporchi affari.”Infatti il giornale ipotizzava la matrice mafiosa dell’attentato con il coinvolgimento dei servizi segreti e di logge massoniche. Era l’epoca della grave
crisi politico- istituzionale, culminata con i processi per tangentopoli che avrebbero segnato il aggio dalla prima alla cosiddetta seconda Repubblica. -“È quello che pensa anche la stampa.”-, risposi-“Già! Ma perché attaccare una città tranquilla come Firenze?”-“Più che per la sua tranquillità, credo che abbiano voluto colpire quello che questa città rappresenta per l’Italia e per il mondo intero”-“Si riferisce alle cose che sono state abbattute?”-“Sono centri dell’arte.”-, corressi io, -“Del resto, quale maggior richiamo si poteva ottenere se non colpendo l’emblema di questa città?”-“Sì, ma perché colpire anche vite umane? ”-“Ce l’ha presente la via dei Georgofili? È così stretta che è impensabile non aver calcolato anche il rischio che potevano essere colpite delle persone! ”Il tassista annuì non molto convinto, poi sentenziò: -“Alla fine, quello che ci va di mezzo è sempre il popolo! ”- Frase da comizio, di grande effetto, che pur basandosi su una verità incontrovertibile non spiegava, purtroppo, le ragioni più profonde e distorte di quell’azione eversiva. Guardai fuori dal finestrino e chissà perché mi venne in mente l’esplosione della bomba atomica di Hiroshima. Quel grande fungo nero che avevo visto sui libri di storia, adesso mi appariva in fondo alle campagne che fiancheggiavano la statale che ci stava portando a Firenze. Questa immaginazione improvvisa e distruttiva mi procurò un brivido su tutto il corpo, ed istintivamente mi strinsi nelle spalle come per proteggermi dai detriti che in quella mia visione vedevo colare a picco dal cielo. L’assimilazione fra queste due catastrofi mi fece sentire, prima ancora di rendermene conto personalmente, l’orrore che in tutte le stragi si doveva provare nei confronti di un nemico vile ed invisibile. Giungemmo al quartiere Rifredi e dopo un po’ ci trovammo in viale Strozzi. Nei pressi della stazione di Santa Maria Novella, il tassista mi consigliò di scendere
poiché a quel punto sarebbe stato difficile proseguire. Si vedevano, infatti, le auto della polizia che andavano verso il centro e si udivano le sirene delle ambulanze e dei vigili del fuoco. Scesi dal taxi e mi guardai intorno come un turista approdato improvvisamente su una terra sconosciuta. Avvertii nell’aria un odore forte e acre, simile a quello che si sente dopo i botti di fine anno. Purtroppo quell’odore nulla aveva a che vedere con un momento di festa e di allegria essendo dovuto agli effetti stagnanti e residuali del tritolo esploso in quella notte. Notai, nonostante la folla, il vociare quasi silenzioso dei anti, i cui volti erano affranti e abbattuti e finanche commemorativi di un momento di grande tristezza e costernazione. Avanzai tra di loro con le orecchie tese, cercando di raccogliere un commento, una informazione ulteriore di quanto lo spettacolo che mi si presentava davanti non fosse già di per sé eloquente. Qualcuno parlava di tragedia immane che si era abbattuta sulla città e sugli abitanti in maniera subdola e perversa, come i giochi di potere di una criminalità forte e organizzata, e per questo, non disgiunta dagli ambienti della politica. Qualcun altro raccontava al proprio vicino i particolari più raccapriccianti delle povere vittime estratte dalle macerie. Tutto questo mi fece ricordare, stranamente, un o de: I Promessi Sposi, e precisamente quando Renzo si trovò al Lazzaretto per cercare Lucia tra gli ammalati colpiti dalla peste. Ancora una volta, com’era accaduto poco prima con la bomba di Hiroshima, la mia immaginazione si aprì al sillogismo fra le due catastrofi: la peste, in questo caso, era rappresentata dagli effetti dell’azione terroristica; gli ammalati, invece, le vittime non solo effettive di questa azione, ma anche di tutta la popolazione fiorentina che nelle strade della città si muoveva come appestata e disorientata. Nell’opera del Manzoni la peste era stata provocata dall’arrivo dei Lanzichenecchi che approfittarono della debolezza dei governanti dell’epoca; parimenti l’attentato terroristico di Firenze aveva trovato terreno fertile nella grave instabilità delle istituzioni politiche e nella profonda crisi ideologico culturale che il Paese stava attraversando. Mi dicevo che la storia dell’umanità è piena di questi corsi e ricorsi che si alternano tra loro sia pure in epoche diverse, ma con lo stesso denominatore comune rappresentato dall’incapacità, da parte di coloro che dovrebbero decidere dei destini delle genti, di assumersi le proprie responsabilità. Lasciai da parte queste riflessioni socio-politiche e mi calai nuovamente nella realtà giungendo nei pressi di Piazza della Signoria.
Tutto il bordo della piazza era circondato dalle transenne per impedire alla gente di accedervi e per consentire alle forze dell’ordine di effettuare le operazioni di sorveglianza e di soccorso. C’erano fotografi, giornalisti, operatori della tv, oltre che volontari e vigili del fuoco. La Galleria degli Uffizi sembrava un cantiere, ed io ebbi l’impressione che il via vai degli uomini di soccorso che si susseguivano lungo il porticato, avesse sancito per sempre la perdita della sacralità di quel museo. Era come se mi fossi trovato di fronte ad una chiesa bombardata ed ora spoglia di quella religiosità che soltanto un attimo prima ne costituiva l’emblema. Questo accostamento dei centri dell’arte con quelli di culto, che naturalmente associavo e accomunavo in una sola identità, mi pareva adesso ancora più forte ed indissolubile: l’azione terroristica aveva compiuto una vera e propria devastazione sul sentimento di fede e di speranza e su quello, altrettanto qualificante, della bellezza interiore espressa con le opere d’arte. Arrivarono alcune personalità politiche e qualcuno gridò tra la folla: “Venduti! Venduti!”. “È una vergogna!”. Qualcun altro si faceva raccontare dal vicino i capolavori della Galleria che erano stati danneggiati. “Pare che siano andati perduti L’Adorazione dei pastori di Delle Notti e Giocatori di carte del Manfredi. ” “Sì”, fece l’altro, “ma dicono che ci sono tante altre opere danneggiate. È un vero peccato!” “Già!”, commentò il primo, “E pensare che soltanto ieri mattina ero alla Galleria e proprio nell’ala che pare sia stata maggiormente colpita. ” Erano commenti che ebbero su di me il duplice effetto di fornirmi, da un lato, le prime informazioni sullo stato di fatto delle opere custodite nel museo e, dall’altro, di rendermi conto ulteriormente della gravità della situazione. Intanto la folla aumentava sempre di più, rumoreggiando e spingendosi anche bruscamente. In questo marasma generale urtai con il gomito la persona che mi stava accanto. Mi girai per chiedere scusa e mi accorsi che si trattava di una ragazzina sui
quindici anni, dai lunghi capelli biondi e lisci che fissava con occhi assenti la piazza davanti a sé. Aveva tra le mani una specie di diario completamente aperto, sulla cui pagina destra c’era scritta la frase seguente: Oggi la bellezza ha smesso di esistere! Notai la latente contraddizione tra questa frase così particolare e significativa, e l’espressione del viso della ragazzina che sembrava, invece, come impietrito e refrattario a qualsiasi tipo di emozione. Ma era una contrapposizione, come mi resi conto subito dopo, soltanto apparente poiché il volto della ragazzina voleva esprimere semplicemente la struggente delusione per qualcosa che pareva ormai compromesso dalla brutalità di quell’evento. Mi sentii profondamente turbato e così vicino al pensiero di una adolescente che, malgrado la giovane età, era riuscita a spiegare con parole semplici ma efficaci un dramma interiore di forte impatto. Stavo per rivolgerle la parola quando la giovine si fece largo tra la folla e si dileguò fino a scomparire del tutto, tanto da lasciarmi il dubbio di averla vista davvero. Mi stropicciai gli occhi come per svegliarmi da un incubo, quasi ad illudermi che una volta riaperti avrei rivisto davanti a me la piazza degli Uffizi sgombra dalle forze dell’ordine e di soccorso e di nuovo tranquillamente popolata come lo era stata il giorno prima. Invece la scena era sempre la stessa: la folla che lambiva le transenne ora sembrava ancora più numerosa, mentre i mezzi di soccorso si susseguivano a iosa nel tratto che portava all’ingresso della Galleria e verso l’Accademia dei Georgofili. Alcune telecamere della televisione erano state appostate non molto lontane da me ed io potei ascoltare il commento di una giornalista che forniva le ultime informazioni: “È sempre più probabile che l’attentato terroristico di questa notte sia opera della mafia. Purtroppo la piccola neonata di appena cinquanta giorni, estratta dalle macerie da un vigile del fuoco, non ce l’ha fatta…” La giornalista proseguì con ulteriori ragguagli sui monumenti che erano stati colpiti citando, tra gli altri, alcuni che si trovavano non molto distanti dalla galleria del Lattanzi. ‘Già, il Lattanzi!’, pensai, ‘forse avrà subìto anche lui dei danni!’. L’uomo di Cinzia, per il quale avevo ato la notte in bianco e che invece gli avvenimenti di quella mattina mi avevano fatto dimenticare, adesso ritornava
nella mia mente ma in maniera sicuramente meno apprensiva. Mi sentivo come colui che, dopo una disgrazia, si rende conto improvvisamente della relatività della vita e di certe cose che non hanno più la stessa importanza. Con questo non voglio dire che avevo perso del tutto l’impulso di sapere cosa c’era tra mia moglie e Lattanzi, ma la tragedia cui avevo assistito mi aveva reso in qualche modo più preparato ad affrontare certe conseguenze che altrimenti avrei fatto fatica ad accettare. Decisi di are dalla galleria del Lattanzi e mentre mi avviavo verso Piazza del Duomo mi chiesi se era più forte in me il desiderio di sondare gli atteggiamenti dell’uomo, o piuttosto la curiosità, diciamo professionale, di rendermi conto dello stato di fatto dei locali e delle opere che vi erano custodite. Con mia stessa sorpresa dedussi che il sentimento di ansia e di disperazione che mi aveva accompagnato durante la notte in bianco, si era non soltanto attenuato ma oltremodo ‘pianificato’ e ‘dominato’ dal rancore più profondo e contingente verso l’attentato terroristico. Insomma, fra i due "mali" avevo scelto sicuramente quello che per me era il maggiore e il più importante. Finalmente giunsi alla galleria e dalla vetrina centrale vidi il Lattanzi seduto dietro la scrivania che parlava al telefono. Si accorse di me e con la mano mi fece segno di entrare. Era vestito anche questa volta in abito scuro, con la cravatta grigia in tinta con il fazzoletto che gli spuntava dal taschino della giacca. Pensai che doveva aver indossato anche gli slip e i calzini dello stesso colore. I capelli imbrillantinati gli conferivano l’aspetto di un boss della malavita ma era un paragone che il Lattanzi, per la gravità del momento e per le ipotesi di colpevolezza avanzate dalla stampa, non avrebbe di certo gradito. Parlava al telefono come un perfetto uomo d’affari, dondolandosi di tanto in tanto sulla poltrona girevole e scrivendo su un blocchetto appunti e annotazioni. Alla fine lo vidi accomiatarsi dal suo interlocutore e rivolgersi verso di me con un sorriso che avrebbe fatto invidia alla pubblicità dei dentifrici più famosi. -“Oh signor Ferretti! Come mai da queste parti? Ha visto che brutta cosa è accaduta? ”Era la seconda volta che quella mattina avevo sentito l’espressione ‘brutta cosa’: anche il tassista si era servito di queste parole per commentare l’efferatezza
dell’attentato terroristico. -“Vengo proprio dal piazzale degli Uffizi.”-, spiegai, -“Dicono che ci sono diversi monumenti colpiti. La sua galleria non si trova molto lontano dal punto dell’attentato, e così ho pensato di are di qui.”-“È stato molto gentile.”- Poi alzò lo sguardo sul soffitto della sala e disse: -“Vede quelle crepe lassù? Devono essersi formate a causa della bomba. Credo, però, che non si tratti nulla di grave.”In effetti i locali della galleria non sembravano aver riportato serie conseguenze dall’esplosione, a parte alcune striature che apparivano qua e là sotto il cornicione del soffitto. Anche le tele esposte figuravano in perfetto stato, ciascuna al solito posto come se il tempo da lì non fosse mai ato. Lattanzi mi fece accomodare di fronte a lui, alzò la cornetta del telefono e mi chiese se desideravo qualcosa dal bar lì vicino. Rifiutai ringraziando. Ripose il ricevitore prima ancora che terminassi la frase, incrociò le mani e mi fissò in atteggiamento di attesa. Allora ripresi: -“Pare che agli Uffizi ci siano diverse opere danneggiate.”-“Lo so. ”, disse annuendo: -“A dire il vero, quelli della Galleria sono chiusi nel più stretto riserbo. Ma ho i miei informatori. Guardi qui.”Mi ò un foglio contenente l’elenco provvisorio delle opere che avevano subìto danni più o meno gravi. Come avevo già sentito dire in piazza, i dipinti di Delle Notti (L’Adorazione dei pastori) e di Manfredi (Giocatori di carte) risultavano con l’annotazione "difficilmente recuperabili". Altri degli stessi autori erano citati con un punto di domanda, nel senso che di queste opere, come spiegò il Lattanzi, non si conosceva ancora l’entità del danno. Con l’indice facevo scorrere l’elenco dei dipinti come colui che, avendo i propri cari in guerra, si augura di non trovarci il loro nome. Tra gli altri affreschi seriamente danneggiati c’erano alcune opere del Botticelli ma non anche le più famose come La nascita di Venere e la Primavera. Tirai un sospiro di sollievo per non averle trovate nell’elenco, ma era una magra consolazione rispetto a molte altre opere che riempivano la lista. -“Sembra un vero e proprio bollettino di guerra!”-, commentai amaramente.
-“Già!”-, fece il Lattanzi, -“E di questo dovrò presentare una relazione a Parigi fra poche ore.”-“Parigi? ”-“Qualche tempo fa avevo assunto con il Ministro della cultura se l’impegno di tenere in una importante università della capitale, alcune lezioni sulla pittura del Rinascimento. Adesso con i fatti di stanotte dovrò rivedere questo programma, ma mi hanno invitato ugualmente per un primo resoconto della situazione. Sa, i ‘cugini’ d’oltralpe ci tengono particolarmente alle nostre opere d’arte.”-“Così sta per partire…”-“Ho l’aereo esattamente alle quindici e dieci ma sinceramente signor Ferretti…”-. Si concesse una pausa spostando da un punto all’altro della scrivania un fermacarte dalla forma di una conchiglia con le sfumature, guarda caso, di colore grigio. -“Sinceramente, dicevo, farei volentieri a meno di questo viaggio. E poi non so davvero cosa dire. Siamo in piena emergenza e prima che le indagini si concludano ci vorrà ancora del tempo.”-“Bè…”-, feci io alzandomi,: -“Allora le auguro buon viaggio.”Lattanzi si alzò anche lui e mi strinse la mano che gli avevo teso. -“Grazie signor Ferretti. E si ricordi che quando questo terribile momento sarà ato, avrò sempre il piacere di ammirare i suoi dipinti”Sorrisi ma sembrò più una smorfia, quindi uscii dalla galleria. Era quasi mezzogiorno. Ritornai alla stazione e da lì presi un taxi per Sesto. Ormai non c’era più motivo per restare: le cose che avevo visto mi avevano turbato abbastanza per pensare di prolungare ancora di qualche ora il mio soggiorno in città. A differenza del collega che lo aveva preceduto, il tassista di turno non era di molte parole. Si fece ripetere l’indirizzo di casa e ripartì imperturbabile, tenendo il braccio sul finestrino e brontolando di tanto in tanto per le manovre azzardate
di automobilisti indisciplinati. Ripresi a pensare provando a riordinare le idee e soprattutto a ristabilire con me stesso una serenità di giudizio, per quanto fosse possibile dalla drammaticità di quel momento. Ricordai il breve incontro con Lattanzi ma non riuscii a trovare nel suo comportamento alcun elemento fuorviante dell’interesse puramente accademico con cui mi aveva fornito i primi ragguagli sulla situazione agli Uffizi. Forse anche a causa dell’attentato, Lattanzi si era dimostrato del tutto distaccato dalla mia persona, nel senso che rispetto alla sera in cui Venanzio ci presentò non aveva manifestato il benché minimo imbarazzo. Anzi, si poteva dire che la conversazione che c’era stata tra noi, sia pure concisa e di circostanza, avesse impresso alla nostra relazione un alone di complicità professionale che in qualche modo me lo faceva sentire molto più vicino al mio mondo, piuttosto che a quello semplice e scontato di Cinzia. Addirittura ammiravo di Lattanzi la capacità di prendere per mano una situazione delicata, come quella del dopo attentato, riuscendo ad acquisire le prime informazioni sulle opere degli Uffizi e a partecipare al convegno di Parigi con una disinvoltura che soltanto un apionato di opere d’arte poteva avere. Ancora una volta, com’era accaduto nella notte insonne appena trascorsa, escludevo dal novero dei miei dubbi l’interesse che Cinzia poteva nutrire per un uomo innamorato della mia stessa ione, al punto da diventarne persino la sua amante. Dunque, se Lattanzi si poteva definire molto somigliante a me, e il mio rapporto con Cinzia era entrato in crisi anche e soprattutto per una ione che avevo in comune con Lattanzi ma non con lei, la conseguenza non poteva essere che di segno opposto a quella di un banale tradimento coniugale, tanto più che una relazione del genere non avrebbe di certo sortito in mia moglie il cambiamento da lei auspicato. Decisi che il rapporto tra Cinzia e Lattanzi doveva essere accidentale e ipotizzai una possibile collaborazione di cui mia moglie avrebbe potuto aver bisogno. Ricordai che in quel periodo Cinzia mi aveva rappresentato la possibilità di cercarsi un lavoro dopo la nascita di nostro figlio. Fra le tante ipotesi Cinzia arrivò ad includere anche quella di fare la commessa in un negozio e con tono, che allora giudicai scherzoso, mi disse che avrebbe accettato persino di stare alla Reception della Galleria degli Uffizi. “Così avremo finalmente qualcosa in comune!”, civettò con una risatina stridula emessa con tre note crescenti. Naturalmente non l’avevo presa sul serio, ma adesso questo particolare che mi
era ritornato improvvisamente nella mente, diventava per me l’anello mancante della catena: Cinzia e Lattanzi si erano certamente conosciuti ma soltanto per motivi di lavoro, e forse per l’esito negativo della mediazione richiesta per ottenere il posto alla Galleria, mia moglie aveva ritenuto inopportuno parlarmene. Non avevo la certezza che le cose fossero andate proprio così, ma in quel momento mi accontentavo di ragionare per esclusione, per cui qualsiasi altra ipotesi diversa dalla tresca sentimentale era da me ritenuta accettabile e condivisibile.
A casa trovai Cinzia ancora in pigiama e tutta intenta nei lavori domestici. Mi accolse schioccandomi un lieve bacio sulla guancia, quindi riprese a trotterellare da una stanza all’altra, come quei personaggi che appaiono e scompaiono dalle scene di una commedia teatrale. Poi si fermò al centro della stanza del soggiorno, quasi a voler concedersi una pausa, e si rivolse a me che intanto mi ero seduto sul divano e avevo cominciato ad allentarmi la cravatta: -“Hai saputo la notizia?”-“Vengo giusto da Firenze.”-“Leo è terribile! Alla televisione non si parla d’altro. Dicono che tra le vittime c’è anche una bambina di pochi giorni…”-“Non vorrei sembrarti scortese,- la interruppi: -“ma adesso sono un po’ stanco. Non potremmo riparlarne più tardi? ”In quel momento avevo soltanto voglia di mettermi a letto, chiudere gli occhi e liberare la mente dai tanti pensieri che vi si erano annidati in maniera confusa e ripetitiva. Cinzia accettò la mia proposta senza scomporsi e tornò alle sue faccende accostando con cura le sedie al tavolo del soggiorno. Poi si fermò di nuovo: -“Ah dimenticavo. Indovina chi viene a cena?”Scossi la testa facendo intendere che non avevo la minima idea di chi avesse
potuto invitare. -“La mia amica Erminia. In questi giorni mi ha vista così stanca che è venuta spesso ad aiutarmi. Così ho pensato di invitarla a are una serata con noi. Non ti dispiace, vero? ”Come quando dopo una giornata uggiosa le nuvole si diradano per far posto ai primi raggi del sole, così il mio volto, cupo e spossato, si aprì lentamente ad un sorriso, dapprima timido ed incerto, poi finalmente palese e incontrollato che sfociò in una fragorosa risata. -“Perché ridi? ”- domandò Cinzia incredula. Adesso ridevo a crepapelle e senza più ritegno: -“Scusami… scusami…”-, provai a giustificarmi: -“Tutto avrei immaginato ma non che fossi proprio tu ad organizzare un invito a cena.”Cinzia continuava a non capire e sembrava spazientita: -“Proprio io? Che vuoi dire? Che non sono in grado di invitare gente a casa? ”Naturalmente lo era. Ma quello che mi faceva ridere era la situazione tragicomica che si era venuta a creare e che io attribuivo ad uno strano scherzo del destino. Avevo tanto sperato di combinare, all’insaputa di Cinzia, l’invito a cena con Lattanzi ed invece, sia per l’attentato terroristico che per l’impegno professionale dello stesso Lattanzi, ero stato costretto a rinunciarci. Adesso Cinzia, pensando di farmi una sorpresa, mi annunciava la cena con la sua amica del cuore che io, del resto, giudicavo noiosa e petulante. -“Certo che puoi invitare gente a casa”-, ripresi ritornando serio: -“E ti dico anche che mi fa piacere. Ma sarà che dopo una mattinata del genere, non mi aspettavo proprio che tu invitassi qualcuno.”Cinzia mi fissò per niente convinta della spiegazione e propose: -“Se non te la senti di vedere gente posso chiamare Erminia e dirle di venire un altro giorno.”-
La rassicurai dicendole che non era assolutamente il caso di disdire l’invito e che, anzi, dopo i fatti dell’attentato, poteva essere una distrazione. Cinzia questa volta sembrò più tranquilla e senza aggiungere altro si allontanò in cucina. Indugiai ancora qualche minuto sul divano con lo sguardo rivolto verso la finestra. Vedevo sfilare dai vetri, come i titoli di coda di un film, le immagini di quella giornata particolare, piccoli fotogrammi di momenti che non avrei più dimenticato. Le strade di Firenze imperversate da autoambulanze, macchine della polizia e operatori di soccorso. E poi i monumenti colpiti, le vittime incolpevoli di una tragedia atroce e disumana, e infine il volto di una ragazzina dai capelli biondi che nel suo diario aveva scritto parole che ancora risuonavano nella mia mente come un eco forte e impetuoso: “Oggi, la bellezza ha smesso di esistere!”
Capitolo 9 La caduta degli dei
Mio figlio Giulio nacque bello, sano e forte. A tre mesi mi faceva le boccacce e a sette gattonava per la casa arrampicandosi sulle sedie e sui mobili come il più navigato degli scalatori. Potevo sentirmi in paradiso: avevo un figlio che prometteva una luminosa carriera sportiva e una moglie che, nonostante la crisi coniugale, mi era rimasta accanto. Visti da fuori sembravamo una famiglia perfetta: una moglie e un marito che nella loro prima esperienza di genitori si sforzavano di andare d’accordo per dare al proprio figlio tutto l’amore e la serenità possibili. Soprattutto nei primi mesi dalla nascita di Giulio, ci eravamo dedicati con molta cura ed interesse a quelle incombenze che per noi rappresentavano una piacevole novità: pannolini, poppate, bilance per il controllo del peso settimanale, visite programmate con il pediatra, consultazione di riviste specializzate alla ricerca delle diete più appropriate o di altre notizie utili per la crescita del bambino. Non mancavano poi le eggiate giornaliere al parco giochi, le puntate nei migliori negozi per l’infanzia dalle quali tornavamo sempre carichi di vestitini e giocattoli, e per finire le instancabili ninne nanne che accompagnavano il riposo del nostro erede. Il tutto senza mai mostrare una smorfia di stanchezza ma sempre pazienti e disponibili, tanto che qualche volta, alla fine di giornate estenuanti, ci permettevamo persino di sorridere. Purtroppo questo quadro idilliaco era soltanto apparente. Se da un lato la nascita di Giulio ci spinse ad essere più dediti e responsabili, dall’altro questo stesso evento ci aveva coinvolti in maniera così totale e totalizzante che non avevamo più il tempo di dedicarci a noi stessi. Le nostre esigenze, personali o di coppia, vennero a poco a poco sopite, se non annullate, dal bisogno primario di porci prima di tutto come genitori capaci ed efficienti, che come tali dovevano agire anche a costo di mettere da parte le proprie aspirazioni individuali.
Questa forma di atarassia psicologica che l’uno aveva verso i bisogni dell’altro fu corroborata da due decisioni di Cinzia che, per le sorti della nostra relazione, risultarono determinanti. Con la prima, mia moglie pretese che sgomberassi la camera da letto di tutto ciò che costituiva la mia attrezzatura pittorica: tele, colori, cavalletto, pennelli e quant’altro mi ero dotato per la mia occupazione preferita. Diceva che con un bambino per casa la stanza doveva essere liberata dall’odore stagnante delle tempere e che oltretutto la presenza di quello che lei definiva ironicamente “il laboratorio”, si poneva in contrasto con l’esigenza di dare al nostro pargoletto un ambiente più salubre. Insomma, m’impose un vero e proprio trasloco che io condividevo nella sostanza ma non nella forma. Cinzia, che fino alla nascita di Giulio aveva tollerato, suo malgrado, l’uso promiscuo della camera da letto, adesso aveva un valido motivo per sbarazzarsi di ciò che non l’aveva mai entusiasmata, senza preoccuparsi minimamente di come avrei potuto reagire dal lato emotivo. -“Questa casa adesso è diventata ancora più piccola.”-, spiegò, -“Dovresti trovare un altro spazio per collocare la tua roba. Perché non ti cerchi in affitto uno studio?”-. Così, anziché vagliare soluzioni alternative all’interno della casa, Cinzia mi proponeva addirittura di “emigrare” in altri luoghi e di trascorrere lontano dalla sua vista i momenti in cui avrei avuto voglia di dipingere. Forse queste considerazioni possono sembrare esagerate, ma erano state troppe le volte in cui mia moglie, per un motivo o per un altro, aveva mostrato una certa insofferenza verso questa ione. Alla fine ripiegai per la cantina, nel senso che allestii in questo locale un piccolo angolo per la pittura in attesa di trovare un’altra sistemazione. Cinzia, naturalmente, accolse con favore questa soluzione giudicandola persino migliore della sua: -“Col denaro che avresti speso per un altro affitto”-, osservò come una diligente contabile, -“potremmo pensare finalmente di acquistare un appartamento più grande.”-. Disse queste parole con il viso che le si era tutto illuminato, facendomi intendere, semmai non l’avessi ancora capito, che per lei il problema della casa era e restava prioritario.
La seconda decisione fu scaturita da un comportamento più che da un’azione specifica di Cinzia, che poi in termini di determinazione volitiva voleva dire la stessa cosa. Ho già detto che mia moglie, magrissima per costituzione, non riuscì più a recuperare il suo peso originario dopo i chili accumulati durante la gravidanza. Credo che fosse soprattutto per un atteggiamento psicologico che il suo corpo, come obbedendo ad un misterioso comando, si trasformò a poco a poco in un ampia distesa adiposa in cui le antiche forme sinuose dei fianchi vennero inesorabilmente annullate, così come la snellezza delle gambe e delle braccia, ora molto più rotonde, e il doppio mento che cominciava ad apparire con un solco sottile ma ben visibile. Cinzia era perfettamente consapevole di questo cambiamento, nonostante fe ricorso a diete più svariate che, tuttavia, non davano i risultati sperati. Anzi, era proprio per il fallimento di questi tentativi che alla fine aveva cominciato ad accettare, sia pure ivamente, quanto nel suo aspetto esteriore si stava modificando. In altri termini mia moglie voleva e non voleva dimagrire: per un verso seguiva con scrupolo un regime alimentare controllato come a voler superare quel senso di colpa che, per un altro verso, la spingeva nelle ore dopo i pasti a frugare nel frigorifero o nella credenza e a mettere nello stomaco quello che vi trovava. Ma la sua era una “fame” soprattutto psicologica, che inutilmente cercava di soddisfare e che la poneva sullo stesso piano di un alcolista o di un fumatore incallito alle prese con un vizio che non li appaga mai abbastanza. Credo che alla base di tutto questo ci fosse la profonda insoddisfazione di Cinzia per la vita che conduceva e che solo apparentemente offriva quegli ingredienti, diciamo tradizionali, per essere felici: un marito fedele e dedito al lavoro, e un figlio che cresceva con tutte le prerogative che una madre potrebbe augurarsi. Ma il marito non era più l’uomo che amava e il figlio rappresentava, piuttosto, un surrogato di felicità che non la faceva sentire completamente realizzata. L’accondiscendenza di Cinzia verso il mutamento delle proprie forme fisiche era resa ancora più evidente dal suo modo di vestire, sgraziato e non più curato come una volta. Al posto di pantaloni attillati, magliette aderenti e camicette dell’ultima moda, ecco che subentravano gonne e giacche ampie o abiti lunghi e larghi per nascondere quelle forme del corpo che un tempo, a motivo della sua vanità, venivano esibite senza alcuna reticenza. Oltre che nell’abbigliamento, Cinzia era cambiata anche nella cura della propria persona. Si truccava il meno possibile, andava di rado dal parrucchiere ed aveva del tutto rinunciato alle visite
periodiche dall’estetista. Erano proprio lontani i tempi in cui mia moglie se ne stava ore intere a rimirarsi allo specchio, facendomi persino spazientire quando dovevamo uscire! Adesso, invece, le bastavano pochissimi minuti per prepararsi, tanto che una volta le chiesi se non era il caso che si mettesse un po’ di trucco in più. Eravamo in ascensore, entrambi rivolti verso lo specchio ed io notai, forse anche per i riflessi della lampada al neon, che il viso di Cinzia appariva stanco e provato. -“E perché mai?”-, protestò, -“Sto bene così. E poi il troppo trucco mi fa sembrare più vecchia.”- In realtà era chiaro il tentativo maldestro di Cinzia di sconfessare, almeno a parole, quanto il suo corpo rivelava, purtroppo, in maniera eloquente. Naturalmente anche a letto i nostri rapporti intimi subirono una caduta di desiderio, decisa e marcata. Cinzia, sotto questo aspetto, fu ancora più esplicita. Se ne andava a dormire con pigiami o tute sportive che le imprigionavano il corpo come se avesse fatto voto di castità, a dispetto di una femminilità e di una sensualità che, in altri tempi, sapeva esprimere con naturalezza e con qualsiasi indumento. Devo dire che le accresciute proporzioni fisiche di Cinzia finirono con l’incidere negativamente sul mio comportamento sessuale, nel senso che le mie prestazioni da quel punto di vista sembravano risentire dell’imponenza corporea di mia moglie, al punto da crearmi dei problemi di ordine psicologico. Ebbi modo di toccare con mano questa sgradevole sensazione quando, in una delle rarissime volte in cui facemmo l’amore, mi girai casualmente verso l’anta a specchio dell’armadio ed ebbi l’impressione che il mio corpo stesse sprofondando in quello ampio e predominante di Cinzia. Era una posizione che, anche a causa delle gambe incrociate di Cinzia sul mio fondoschiena, mi faceva sentire come attanagliato in una morsa in cui tutta la mia persona sembrava potesse sparire da un momento all’altro per ritornare, con un percorso a ritroso, nel nulla prenatale. Ma l’elemento psicologico pungente era dato da una sorta di ridimensionamento della mia stessa capacità erotica, attestata dalla sensazione che il mio membro fosse divenuto improvvisamente di proporzioni inadeguate rispetto all’ampiezza del ventre di Cinzia. Questa immagine credo di averla impressa così fortemente nella mente che ho cominciato ad evitare inconsciamente possibili occasioni di amplesso e il più delle volte, quando mi coricavo, davo le spalle a Cinzia fingendo di addormentarmi subito. Il risultato di questo stato di cose fu un allontanamento totale e destabilizzante
che travolse persino quello che, fino a poco tempo prima, costituiva il mio punto di evasione. Invero, dopo il "trasloco" non persi l’abitudine di are il mio tempo libero a dipingere. Solo che l’accentuato clima di freddezza che si era instaurato tra me e Cinzia mi aveva fatto perdere del tutto l’ispirazione. Così che le cose che provavo a realizzare sulla tela non erano altro che dei bozzetti che disfacevo e rifacevo senza alcun criterio informatore. Per la prima volta vedevo vanificata la mia volontà di are nella realtà "virtuale" per accettare meglio quella effettiva, proprio come il tentativo di Cinzia di servirsi del cibo, e cioè di un’azione di segno opposto, per dimenticarsi della sua condizione di donna grassa e non più desiderabile. Non erano poche le volte in cui rimanevo seduto davanti al cavalletto aspettando, come per incanto, che la tela si riempisse di forme e di colori. Ma purtroppo il biancore che persisteva davanti ai miei occhi faceva accrescere la mia disperazione e la mia incapacità di avere un qualsiasi rapporto con la realtà. Fu proprio durante uno dei miei tentativi catartici di ritrovare l’ispirazione perduta, che un giorno presi il pennello e cominciai a arlo sul foglio bianco del cavalletto lasciandomi guidare come un automa. Ma anziché disegnare delle immagini, mi resi conto che stavo scrivendo delle parole, e precisamente una frase che si ripeteva dall’inizio alla fine del foglio: Io non amo più Cinzia… Io non amo più Cinzia… Io non amo più Cinzia… Sì, io non amavo più mia moglie e questa rivelazione fu per me sorprendente quanto dolorosa. Sorprendente perché, per la prima volta, ammettevo la fine di un sentimento che avevo a lungo provato per Cinzia. Dolorosa perché, per quanto scontata dall’involversi della nostra relazione, era comunque una verità difficile da accettare e da affrontare. Cominciai a pensare a quella che poteva essere la mia vita senza la donna con cui, compreso il periodo del fidanzamento, avevo convissuto per oltre cinque anni. Ma la presenza di Giulio complicava ancora di più le cose, giacché temevo che potesse risentire gli effetti della nostra separazione. Inoltre, abitudinario com’ero, non mi sentivo del tutto pronto a prendere una quantità di decisioni che avrebbero radicalmente cambiato la mia esistenza.
Mi rendevo conto che nella vita non si è mai preparati a niente, nemmeno davanti alla fine di un amore in cui avevo fortemente creduto ma che, per una serie di circostanze, si era inevitabilmente dissolto. Alla fine propensi per la soluzione che ritenevo più giusta, ossia quella di parlare a Cinzia della nostra separazione nella maniera più lucida e serena possibile. Intanto dibattevo con me stesso sulla forma di questa comunicazione. Pensai addirittura di scriverle una lettera e di andarmene la mattina presto come avevo visto fare in certi film. Ma scartai quasi subito questa ipotesi, se non altro per un dovere di lealtà verso la donna con la quale avevo pur sempre diviso una parte importante della mia vita. Il problema era trovare il momento più opportuno, ed era difficile propiziarlo in quei giorni in cui ricorreva il primo compleanno di Giulio. Fu proprio in questa occasione che accadde qualcosa che mi fece recedere, almeno momentaneamente, dal proposito della separazione. Per festeggiare il primo anno di Giulio avevamo pensato di dare una festicciola, ma c’era sempre il problema della casa, troppo piccola per ospitare gente, e poi alcuni amici comuni si trovavano in quel periodo fuori città. Decidemmo alla fine di are la serata in un Fast Food del centro. Cinzia si era vestita per l’occasione in maniera molto eccentrica, con un abito lungo, rosso porpora, i capelli sciolti che le arrivavano fin sopra la schiena ed un trucco che giudicai troppo pesante. Quando glielo feci notare mi rimbeccò come se si fosse già preparata la risposta: -“Hai sempre detto che dovrei curare di più il viso. Adesso l’ho fatto! E poi oggi è un giorno speciale: è il compleanno di mio figlio e voglio essere bella per lui.”Non potei fare a meno di notare, anche questa volta, che il compiacimento di Cinzia, marcatamente simulato, faceva pensare piuttosto all’atteggiamento di un bevitore abituale il quale, per non essere rimproverato di questo vizio, vuole far credere di non aver bevuto affatto ma di essere perfettamente lucido. Preferii non replicare. Ci mettemmo in macchina in silenzio e dopo pochi minuti arrivammo al locale. Era il classico ritrovo di giovani e di famiglie con bambini. C’erano tavolini disposti a fila orizzontale in una sala grande e colorata, che terminava con un lungo bancone dietro il quale ragazzi sorridenti, vestiti allo stesso modo con
camicia, cravatta e berretto da boy-scout, prendevano le ordinazioni. C’era molta gente, ma trovammo un tavolo libero all’angolo tra l’uscita del locale e l’ingresso al centro commerciale e così ci accomodammo. Fin dall’inizio ebbi la sensazione netta che ci stavano osservando, ma dopo alcuni secondi realizzai che al centro dell’attenzione non eravamo noi in quanto famiglia, bensì Cinzia. Accanto al nostro tavolo stavano seduti, l’uno di fronte all’altro, un ragazzo e una ragazza che si tenevano per mano e che al aggio di mia moglie si guardarono negli occhi scambiandosi un sorriso d’intesa. Feci finta di non badarli e andai al bancone per le ordinazioni: una fetta di torta per Giulio e panini per noi. Iniziammo a mangiare ma subito dopo la coppia di giovani, piuttosto impertinente, prese a discutere di un argomento che aveva chiaramente a che fare con il fisico di Cinzia. Lui, lentigginoso, con capelli biondi a caschetto, baffetti mefistofelici e un numero imprecisato di catenelle che sfoggiava dalla camicia semiaperta, rimproverava bonariamente lei, piuttosto minuta, con lunghe trecce nere e un aspetto da squaw, di essere già arrivata alla seconda coppa di gelato: -“Di questo o rischi di diventare una cicciona. E le ciccione, lo sai, mi spompano!”-“Non temere. "-, lo rassicurò la ragazza, -“Non diventerò mai grassa come certe persone.”-“Alludi agli esemplari che ci sono qui intorno?”-, fece lui e subito dopo scoppiò in una risata. A questo punto guardai Cinzia. Aveva entrambe le mani sul panino, vi rimase ferma per qualche secondo, poi lo appoggiò lentamente sul tavolo dichiarando che non aveva molto appetito. Provai grande comione per lei e fu proprio per questo sentimento che mi vergognai a mia volta di aver pensato di lasciarla. Le allusioni inopportune e screanzate di quei due ragazzi che avevano indotto Cinzia ad interrompere il pasto, sortirono in me l’effetto di un improvviso quanto inaspettato senso di solidarietà verso mia moglie, che mi spinse ad una reazione altrettanto immediata. Strinsi le mani di Cinzia invogliandola a riprendere la consumazione e mi alzai per dirigermi verso il tavolo dei due ragazzi. Mia moglie mi trattenne per un braccio pregandomi di lasciar perdere ma io mi divincolai e raggiunsi gli improvvidi avventori. Questi ultimi mi guardarono dal basso verso l’alto visibilmente sorpresi, ma lo furono ancora di più quando
iniziai a parlare: -“Forse siete troppo giovani per comprendere le regole della buona educazione, ma abbastanza “vecchi” per essere già sfacciati e insolenti!”-“Eeeh?”-, fece il ragazzo rivolgendosi alla sua compagna: -“Ma questo signore ce l’ha con noi?”-“Da quando siamo entrati,”-, continuai, -“non avete fatto altro che lanciare commenti allusivi sul fisico di mia moglie.”-“Hai sentito Lucia? Questo tizio ce l’ha proprio con noi! Deve avere la coda di paglia per…”Non gli permisi di terminare la frase. Lo afferrai per le catenelle che aveva al collo e con tono duro e fermo lo intimai: -“O chiedi scusa a mia moglie, oppure tu e la tua “bella” ve ne andate alla svelta da questo locale!”La ragazza, piuttosto spaventata, disse qualcosa che non capii, poi supplicò il ragazzo di lasciar perdere e di andare via. -“Ehi, calma, calma. Ce ne andiamo subito.”-, disse lui con un ampio gesto delle mani che invitava a lasciare la presa. Tutto si svolse nel giro di pochi secondi. I due ragazzi si alzarono e se ne andarono l’uno dietro l’altro borbottando. Io ritornai al mio posto sentendomi addosso gli occhi delle altre persone del locale che avevano assistito alla scena, muti e sorpresi. Cinzia mi guardò con evidente imbarazzo, poi commentò: -“Non era proprio il caso che intervenissi. E poi hai fatto spaventare il bambino.”Guardai Giulio che con la bocca sporca di cioccolato mi fissava come se avesse visto un marziano. Era la prima volta che mi vedeva così arrabbiato e per giunta nella veste del giustiziere che non mi si addiceva per niente. Mi scusai con voce sommessa e mia moglie si sentì in dovere di aggiungere: -“Comunque, grazie.”Mi strinse forte la mano ed io mi commossi non tanto per il gesto quanto per
l’espressione con cui Cinzia aveva accompagnato questa carezza. Era uno sguardo di malinconica gratitudine, di struggente riconoscenza per quanto avevo dimostrato di comprendere e di condividere una condizione psicologica di cui soffriva terribilmente. Ancora una volta provai quel sentimento di comione che poco prima mi aveva indotto a rivedere la mia decisione di porre fine al nostro matrimonio. In un certo senso mi ero calato nella sua solitudine pur sentendomi, a mia volta, profondamente solo ed infelice. Finimmo di mangiare provando a sorridere con Giulio, che intanto si era ato il cucchiaino tra i capelli pasticciando con le briciole di torta che gli si erano attaccate sulle guance. Ma per quanto ci sforzavamo di essere tranquilli e disinvolti, sentivamo che l’atmosfera intorno a noi, quella sera, non era più la stessa. Così decidemmo di lasciare il locale e dopo nemmeno mezz’ora eravamo già a casa.
Capitolo 10 Santa Maria Novella
Così avevo deciso di rimanere con Cinzia nonostante non ne fossi più innamorato. Provai a spiegarmi questo improvviso ripensamento e mi sforzai di tenere da parte il sentimento di solidarietà comionevole che Cinzia mi aveva ispirato la sera dell’incidente al Fast Food. Arrivai anche a pensare che la soluzione della separazione potesse essere, in realtà, una forma di reazione verso una convivenza divenuta incompatibile, piuttosto che la logica conseguenza di un progressivo quanto inevitabile disamoramento. ‘Vediamo,’ mi dicevo mentre ero seduto a tavola con Cinzia indaffarata a portare le vivande e a preparare le porzioni, ‘che cosa provo ancora per questa donna? Amore? Amicizia? Comione?’. Purtroppo, pur sforzandomi di ritrovare in qualche parte di me un sentimento che somigliasse, anche vagamente all’amore che avevo a lungo provato per mia moglie, non riuscivo a cogliere da questo esame introspettivo nessun elemento positivo, se non una tiepida e neppure tanto significativa affettività ‘fraterna’. È vero, c’era stata la mia reazione spontanea e irruente alle offese dei due ragazzi del fast food, ma tutto si era risolto in una doverosa presa di posizione verso un comportamento che ritenevo ingiusto ma non anche ispiratore di un sentimento di gelosia protettiva, che normalmente si prova quando si è innamorati. In altri termini ero rimasto turbato dalla reazione emotiva di Cinzia ai commenti poco lusinghieri dei due ragazzi, culminata con la brusca interruzione del pasto che in quel momento le aveva fatto ricordare la sua grassezza, ma avevo a mia volta reagito più per un bisogno di essere partecipe al disagio di mia moglie che per un vero e proprio trasporto sentimentale. Scartai anche il possibile sentimento di amicizia che qualche volta rimane tra due persone quando l’amore svanisce. L’amicizia, infatti, presuppone una comunanza di interessi che nel nostro caso mancava del tutto. A parte la mia ione per l’arte, che Cinzia aveva bandito con atteggiamenti più o meno espliciti, non condividevamo nemmeno l’interesse per i atempi più comuni. A me piaceva, ad esempio, un certo tipo di musica, a Cinzia un altro. Io adoravo
il teatro mentre Cinzia preferiva andare al cinema. E nemmeno su questo punto eravamo d’accordo: io trovavo interessanti i film del genere impegnato, Cinzia invece quelli polizieschi, e così via e così via. Riguardo poi al mio lavoro di docente, mia moglie si limitava, e neppure tutte le volte, a domandarmi com’era andata la giornata, senza mostrare grande interesse per ciò che le raccontavo. Una volta, ad esempio, le esposi un metodo didattico che intendevo adottare ai miei studenti. Si trattava di raccogliere, attraverso un lavoro di gruppo, le esperienze personali di ognuno rispetto alla teoria machiavellica del fine che giustifica i mezzi. L’aspetto innovativo del metodo consisteva nella trasposizione trascendentale dell’esperienza in termini di interscambio dell’elemento tautologico (il fine) con quello strumentale (il mezzo) rispetto ad una determinata situazione concreta. Gli studenti avrebbero dovuto assumere sia il ruolo di giudicanti che quello di giudicati, provando ad ipotizzare una possibile soluzione legale alla loro vicenda personale. Avevo anche pensato al tema conduttore dell’esperimento: la gelosia come possibile scusante di una vendetta d’amore, prendendo spunto dal personaggio di Alfio che nella Cavalleria Rusticana ammazza Turiddu per il tradimento con la moglie Lola. Ero così entusiasta di questa proposta che ci tenevo a sentire anche il punto di vista di Cinzia. Ma mia moglie, anziché ascoltarmi, faceva le cose più insensate o inopportune: si mordicchiava le dita con lo sguardo palesemente assente, si alzava dalla sedia e andava alla finestra per tirare le tende, poi tornava a sedersi, si controllava le unghie e riprendeva questo rito maniacale aspettando che finissi di parlare. Ad un certo punto, forse anche per deformazione professionale, mi interruppi e la interrogai come un professore severo di fronte all’alunno distratto: -“Allora? Cosa stavo dicendo?”-“Cos’è questo? Un modo per controllare se ero attenta?”-“Sembravi più interessata al tuo manicure personale che alle cose che dicevo.”-“E invece ti ho ascoltato benissimo.”-, disse con tono così risentito che mi confermava invece di non averlo fatto per niente. -“Davvero? Allora dimmi, cosa ne pensi della mia proposta?”-“Non credo che sia una buona idea.”-“E perché mai?”-
-“Non vedo cosa c’entri la gelosia con… come l’hai chiamata? Ah sì, la teoria machiavellica.”-“Ma la gelosia fa parte dei nostri sentimenti. E i sentimenti guidano le nostre azioni che sono sempre preordinate a delle finalità. E a volte, per raggiungere certi obiettivi, siamo disposti a ricorrere a qualunque mezzo.”-“Sarà come dici, ma per me resta una proposta incomprensibile.”Mi ricordai che una risposta del genere Cinzia me l’aveva già data qualche tempo fa. Fu quando le mostrai il mio dipinto delle “Quattro stagioni” che mia moglie giudicò “un agglomerato di colori” respingendo qualsiasi altro significato che volevo attribuirgli. Questa rievocazione mi confermava che Cinzia concepiva le cose esclusivamente sulla base delle proprie conoscenze e, fatto ancor più grave, riteneva inammissibile o improbabile tutto ciò che non sapeva. Così, sia in occasione del dipinto che del metodo didattico, Cinzia si era rifiutata di prendere in considerazione elementi di valutazione ulteriori o alternativi per il semplice fatto che li riteneva, secondo il suo modo di pensare, oscuri e perciò inattendibili. In seguito evitai di parlarle del mio lavoro, se non per gli aspetti meramente marginali e comunque adeguati alla persona della mia interlocutrice. Dunque, rimaneva la comione. Ma come ho detto, si trattava di un sentimento, come dire?, discontinuo e circostanziato, nel senso che si manifestava in casi specifici e sempre dopo aver cumulato un certo rancore. Mi spiego meglio. Finito l’amore e l’attrazione fisica, alcuni comportamenti o azioni di mia moglie, che prima trovavo adorabili, adesso cominciavano a darmi fastidio. Un tempo, quando rincasavo e andavo in soggiorno a leggere il giornale, mi piaceva saperla in cucina a preparare la cena. Con la coda dell’occhio la vedevo che si arrabattava tra i fornelli per prepararmi i pranzi più saporiti, che io giudicavo eccellenti anche se non era sempre vero. Poteva cucinarmi, mettiamo, carne al forno bruciacchiata che l’avrei riempita ugualmente di complimenti. Adesso, invece, trovavo insopportabile persino il trambusto che provocava quando doveva estrarre pentole e tegami dalla credenza ed avevo sempre qualcosa da ridire sul risultato delle pietanze: -“La pasta è troppo scotta.”-; -“Qui ci hai messo poco sale.”-;
-“Il pollo non era ben rosolato.”E così via. La sera capitava che guardavamo insieme la televisione: io seduto sul divano e lei appoggiata ai braccioli con una busta di patatine o di biscotti che soleva tenere con sé durante un film o uno spettacolo. Ogni tanto mi giravo verso di lei quasi a volermi rassicurare della sua presenza e una volta, complice anche i riflessi della luce del lume che parevano disegnare sulla sua testa una specie di aureola, arrivai persino a pensare: “Sono fortunato. Ho per moglie un angelo!” Adesso invece, nella medesima circostanza, anche se eravamo seduti l’uno distante dall’altro, trovavo irritabili la sua presenza e il suo continuo sgranocchiare di patatine o di altre cose simili che quasi sempre si premurava di avere a portata di mano. Tutte queste insofferenze si accumulavano dentro di me confluendo in un contenitore immaginario che, una volta riempito, doveva essere per forza di cose svuotato. E lo ‘svuotamento’ avveniva grazie alla comione che immancabilmente provavo quando vedevo mia moglie disperarsi allorché, per la sua grassezza, quel certo vestito non le andava più bene, o semplicemente quando la sera la vedevo a letto tutta rannicchiata con l’ampio rigonfio del suo corpo sotto le coperte. Mi dicevo che anche lei non doveva essere felice e che forse, proprio come me, si era fatta una ragione per tenere in vita una relazione che invece si reggeva solo per la forza dell’inerzia. Ma fin quando sarebbe durato, almeno da parte mia, il sentimento di comione che avrebbe svuotato, usando la metafora precedente, il contenitore delle mie insofferenze, decisi di accantonare, almeno per il momento, qualsiasi proposito risolutorio della nostra unione. Del resto avevo tanto amato Cinzia che potevo benissimo continuare nel ricordo di questo amore, sia pure in maniera molto indiretta e sbiadita. Giunsi però ad una sorta di compromesso con me stesso: per rendere più sopportabile la nostra convivenza avevo deciso di rimanere in casa il meno possibile e di limitare le occasioni di stare solo con mia moglie a quelle convenzionali del pranzo o della cena. Così avevo preso l’abitudine, dopo i pasti, di andarmene in giro per Firenze, il più delle volte, in visita a musei e a monumenti. Venutami a mancare del tutto l’ispirazione artistica, ne andavo alla ricerca di un’altra, indiretta e induttiva, che servisse in qualche modo a compensarla come chi, stanco di respirare la stessa aria pesante e inquinata, avverte il bisogno di ‘purificarsi’ in luoghi diversi e a lui più congeniali.
Per evitare i soliti problemi di traffico e di parcheggio avevo deciso di viaggiare in treno e di munirmi di un abbonamento mensile per la tratta Sesto Fiorentino Firenze. Mi sentivo un po’ come uno studente o un lavoratore pendolari, impegnati ogni giorno a fare lo stesso percorso per raggiungere la scuola o la sede di lavoro. I miei viaggi, però, erano tutt’altro che una costrizione poiché altri e più piacevoli rappresentavano i miei scopi. Il treno era diventato per me un ritrovo abituale nel quale mi sentivo al riparo da certe inquietudini, e questo sollievo cominciavo ad avvertirlo non appena lasciavo la stazione del mio paese, quasi che con il movimento della locomotiva io volessi scrollarmi di dosso le tensioni accumulate. Ormai conoscevo ogni punto del mio percorso e arrivai a memorizzare, come un orologio svizzero, i tempi di percorrenza alle stazioni successive: dodici minuti per Firenze Rifredi, otto per S. Maria Novella. Proprio alla stazione di Santa Maria Novella incontrai, uno di quei pomeriggi, l’amica di Cinzia, Erminia. Erminia era una di quelle donne di cui si fa molta fatica a ricordarsi della loro esistenza. Bassina, corpo esile, viso minuto, occhiali tondi con montatura nera, capelli dello stesso colore, corti e con la frangetta, insomma una specie di Harry Potter in gonnella. Eravamo scesi quasi contemporaneamente dalle porte delle due carrozze attigue, così che incrociammo gli sguardi all’ultimo scalino prima di mettere piede sulla piattaforma. Mi salutò con la mano e si avvicinò a me con un sorriso che io giudicai eccessivamente caloroso: -“Leo! Che ci fai da queste parti?”-“Potrei dire la stessa cosa di te.”-“A Firenze ci abita mia madre, lo sai.”-“Già!”-“Allora?”-“Allora cosa?”-“Allora che ci fai qui?”-
-“La cosa più semplice e naturale: mi è venuta voglia di fare quattro i, e così ho pensato di venire qui a Firenze.”Volevo farle credere che la mia era stata una improvvisata anziché, com’era vero, un’abitudine che coltivavo da tempo. Erminia, pettegola e invadente, si sarebbe sicuramente insospettita e avrebbe giudicato le mie frequenti divagazioni come una maniera per evadere dal ménage familiare. Ed infatti, come se non fosse troppo convinta del motivo della mia presenza, mi domandò se a casa le cose andassero bene. La rassicurai che tutto procedeva per il meglio e che consideravo Sesto Fiorentino ancora carino e accogliente. -“Se non hai niente da fare”-, propose, -“perché non mi accompagni a Ponte Vecchio? Domani è il compleanno di mia madre e ho pensato di regalarle un gioiello.”Senza aspettare che accettassi, mi prese sottobraccio e così ci avviammo all’uscita della stazione come due amici di vecchia data. Intanto mi raccontava di com’era stata contenta quando l’ultima volta, più di un anno fa, era venuta a cena a casa mia e un po’ si lamentava del fatto che la vita quotidiana ci distoglieva troppo spesso da simili occasioni di svago. Aveva pronunciato la parola “svago” con una leggera ma significativa pressione della mano sul mio braccio, strizzandomi l’occhio come a voler sottintendere una complicità tacita e maliziosa. Allora mi venne da pensare alla serata che Erminia aveva ricordato, nel corso della quale, più o meno esplicitamente, l’amica di mia moglie aveva cercato di sedurmi. Si era presentata tutta gioiosa e festante, grata per averla invitata a are una serata diversa dal solito. Erminia, che aveva quasi trent’anni e non era sposata e neppure fidanzata, viveva in un monolocale a pochi isolati dal nostro. Il tentativo di seduzione iniziò prima a livello verbale e poi con esternazioni, diciamo, fisiche. Erminia sapeva della mia ione per l’arte e pensò bene di attirare la mia attenzione parlandomi, per tre quarti della cena, di un suo amico restauratore che aveva ricevuto l’incarico di curare gli affreschi di un antico palazzo di Firenze. Così mi formulò delle domande sulle varie tecniche di restauro usando termini come “parchettatura”, “iniezione di collanti”, “imbarcamento” e “svergolamento”, facendomi capire chiaramente di averli imparati di recente e di avere perciò tutto l’entusiasmo del neofita. Io rispondevo spiegando che la difficoltà principale per un restauratore è quella di preservare la
superficie pittorica, compito non sempre agevole quando la pellicola appare particolarmente deteriorata a causa dell’infiltrazione e della condensazione dell’umidità. Parlavo con enfasi, con gli occhi che mi si brillavano, si direbbe, per una sorta di godimento mentale che però agiva anche sul piano fisico procurandomi un benessere dei sensi. E sapevo anche che il mio godimento veniva assecondato dalla sapiente regìa di Erminia la quale, con lo sguardo malizioso, approvava con il battere delle ciglia qualsiasi cosa che le dicevo, anche se le riusciva poco comprensibile. Inutile dire che in tutta questa conversazione Cinzia era rimasta praticamente esclusa, intenta com’era a curare gli aspetti pratici e formali della cena: la distribuzione delle portate, il ricambio del pane, il riversamento nella brocca di altro vino fresco, il tutto come una perfetta ed efficiente padrona di casa. Avvertivo anche che Erminia provava un non so che di compiacimento nel vedere la sua amica emarginata dalla nostra discussione. Me ne accorsi quando ad un certo punto si scusò con Cinzia per aver parlato poco con lei, precisando subito dopo con una risatina maliziosa, come a dire “questi sono discorsi impegnati”, che ci teneva molto a sentire l’opinione di un esperto come me. Fin qui la seduzione che ho chiamato verbale. Ora bisogna sapere che Erminia aveva un attributo fisico che contrastava con la sua figura complessivamente piccola e minuta: il petto enorme e sproporzionato rispetto al resto del corpo. Era questo un particolare che la faceva sembrare ancora più goffa e che le causava una leggera ma visibile incurvatura della schiena, dovuta alla protuberanza dei seni. Sta di fatto che Erminia non esitò a farmi intendere che, semmai l’avessi voluto, sarebbe stata disposta a concedersi con quanto aveva di meglio da offrirmi. E così durante la discussione sul restauro, con la scusa che aveva caldo, si tolse la giacca mostrando una camicetta gialla e trasparente dalla quale si vedeva il reggiseno bianco di merletti; si chinò per raccogliere il tovagliolo che aveva deliberatamente fatto cadere, apparendo subito dopo con la camicia sbottonata di quel tanto per farmi intravedere la consistenza dei suoi seni. Inoltre, quando cominciai a parlare della superficie pittorica, Erminia mi fece l’occhiolino verso questa parte del suo corpo per farmi intendere che, come un restauratore, ne potevo disporre in qualsiasi momento. Non dico che i tentativi di Erminia mi avessero lasciato del tutto indifferente, ma non era il genere di donna che preferivo; e poi quella sera ero già abbastanza turbato per i fatti dell’attentato e per il nuovo incontro con Lattanzi.
Adesso Erminia mi parlava a braccetto riproponendomi la sua disponibilità per un’avventura extraconiugale che con il termine “svago” aveva voluto alludere. Feci finta di niente e ci incamminammo per la basilica di S. Maria Novella e da qui svoltammo in direzione di Ponte Vecchio. Durante il tragitto sentivo la voce gracchiante di Erminia che mi parlava del regalo che voleva fare a sua madre, cambiando idea ogni dieci secondi. Ecco che si fermava davanti alla vetrina di un negozio di abbigliamento, dava un’occhiata alle ultime novità esposte e, non convinta, proseguiva ando da un altro negozio, questa volta di articoli per la casa, per poi cambiare nuovamente idea ritornando alla scelta iniziale del gioiello. Finalmente, dopo aver lasciato gli Uffizi, imboccammo per i portici alti e stretti che precedevano Ponte Vecchio. Svoltammo a sinistra e appena oltreammo il monumento di Benvenuto Cellini, Erminia mi invitò ad entrare in una delle tante gioiellerie che si trovano in quella via. Il gioielliere, un tipo alto e robusto, accolse Erminia con particolare riguardo come se si trattasse (e dopo scoprii che lo era) di una cliente abituale. -“Oh, signorina Visconti, che piacere rivederla di nuovo! In che cosa posso esserle utile?”Aveva la erre moscia e un tono di voce esotico, molto simile a quello di un se della Provenza, dolce e raffinato, ma curiosamente artefatto. E difatti Bernardi (questo era il nome con il quale Erminia lo aveva salutato), sembrava piuttosto un cerimoniere abituato ad usare espressioni protocollari, scelte con cura da un vocabolario che teneva bene impresso nella mente. Erminia gli chiese consiglio sul regalo che voleva fare a sua madre aggiungendo un “mi affido al suo buon gusto” che al gioielliere fece molto piacere. -“Ho proprio quello che fa al caso suo.”-, disse Bernardi mostrando una perfetta dentatura che sembrava più finta che vera, e con una giravolta sparì tra le tende color pesca che si trovavano alle sue spalle. Erminia si rivolse a me domandandomi: -“A proposito, ti è piaciuto l’accendino d’oro che Cinzia ti ha regalato?”-“L’accendino? Quale accendino?”-“Come sarebbe quale accendino? Siamo venuti proprio qui la settimana scorsa.
Cinzia mi ha chiesto di accompagnarla perché conosco il gioielliere e…”- Non finì di completare la frase e si portò una mano sulla bocca, come chi si rende conto immediatamente di aver commesso una gaffe. Infatti non avevo ricevuto nessun accendino; evidentemente era un regalo destinato ad un’altra persona. Stavo per replicare quando Bernardi riapparve dalle tende con un astuccio rettangolare di velluto blu; sollevò la levetta laterale e di colpo l’involucro si aprì mostrando un bracciale di perle grigie unite da un sottile filamento d’oro: -“Ecco. Questo è davvero un regalo speciale che farà sicuramente piacere alla sua mamma.”- Poi, come se improvvisamente si fosse ricordato di qualcosa, disse: -“Ah, dimenticavo! Ha presente quell’accendino che lei e la sua amica avete preso la settimana scorsa? Purtroppo è stato qui il signor Lattanzi che mi ha pregato di restituirlo. Non conosco l’indirizzo della sua amica ma contavo di chiamare lei per avvertirla. Adesso glielo porto subito.”- Così dicendo s’infilò nuovamente tra le tende. Erminia mi guardò più imbarazzata che mai. Poi si giustificò con un tono di voce che mi sembrò sinceramente addolorato: -“Ti giuro, Leo. Io non lo sapevo. Pensavo che il regalo fosse per te.”Ancora Bernardi riapparve dalle tende e questa sequenza di continue sparizioni e apparizioni del gioielliere mi suonò in quel momento tragicomica, nel senso che mi sembrava di assistere ad un teatrino nel quale Bernardi si muoveva attraverso i fili di un misterioso burattinaio. -“Ecco l’accendino.”- fece il gioielliere aprendo una scatoletta di legno marrone. Riportava in basso la scritta C. R. che riconobbi come le iniziali di mia moglie. -“Se permetti,”- intervenni guardando Erminia e subito dopo Bernardi, -“questo accendino lo prendo io. Sarò ben lieto di consegnarlo alla legittima proprietaria.”Erminia fece un cenno affermativo con la testa che coincise con la mia contemporanea presa dell’oggetto. Non dissi altro e uscii in fretta dal negozio. Rifeci quasi correndo il percorso da cui ero venuto e dopo pochi minuti mi trovai di nuovo alla stazione di S. Maria Novella.
Capitolo 11 La resa dei conti
Lattanzi abitava nel quartiere Rifredi. Sapevo che la galleria di via DÈ Martelli era chiusa per lavori, così pensai di prendere il primo treno e di scendere alla fermata di Firenze Rifredi. Andai a sedermi su una panchina della stazione e attesi che l’altoparlante annunciasse il binario dal quale il treno sarebbe partito. Contrariamente a quanto si poteva supporre, mi sentivo calmo e rilassato, come se finalmente mi fossi liberato di un peso che per troppo tempo mi ero portato dentro. Fin quando avevo amato Cinzia, mi ero costruito un castello di giustificazioni, anche improbabili, sulla sua relazione con Lattanzi, al punto da convincermi che fosse marginale e accidentale rispetto al nostro rapporto coniugale. Ma una volta finito l’amore, avevo smesso di fare ulteriori indagini preferendo archiviare nella mia memoria l’idea che mi ero fatta su questo legame. Poi, per una sorta di autolesionismo, avevo deciso di rimanere ugualmente con Cinzia condividendo con lei il fallimento del nostro matrimonio, che per me voleva dire rinuncia suprema e definitiva ad una vita diversa. Ora la certezza del tradimento di mia moglie, mi aveva sollevato dal senso di colpa che avevo a lungo provato e che, puntualmente, la grassezza di Cinzia mi faceva ricordare come un monito silenzioso ed implacabile. Finalmente la voce dell’altoparlante, fredda e sterile, annunciò l’arrivo del treno ed io mi avviai al binario segnalato assieme ad una folla di pendolari. Le carrozze si riempirono in un baleno, ma decisi di rimanere in piedi accanto alle porte d’uscita con la mano sulla sbarra di sostegno. Dopo alcuni secondi le porte si chio, il treno partì ed io mi guardai intorno. C’erano gruppi di lavoratori con borse, valigette e cartelline sotto braccio che si scambiavano le proprie impressioni sulla giornata trascorsa; studenti con gli zaini a tracolla che ridevano e scherzavano; signore con i sacchetti della spesa e
bambini un po’ annoiati aggrappati alle gonne delle loro madri. Mi parve di vedere la faccia di Lattanzi in tutti gli sguardi che incrociavo, persino in quello di un’anziana signora che parlottava con una vicina. Mi fece uno strano effetto scambiare il viso di questa donna, dai capelli bianchissimi e lanosi, con quello del mio antico avversario, quadrato e muscoloso, ma che sapeva tanto di carnevalesco. Ad un tratto la donna interruppe la conversazione e, sempre con le sembianze del Lattanzi, si girò lentamente verso di me facendomi l’occhiolino. Scossi la testa come per ripararmi da quella curiosa visione e concentrai la mia attenzione sui finestrini delle porte d’uscita, da dove vidi apparire, qualche minuto più tardi, i cartelli con la scritta ‘Firenze Rifredi’ e subito dopo la piattaforma della stazione. Il treno rallentò con qualche sussulto fino a fermarsi del tutto. Senza neanche aspettare che le porte si aprissero completamente, scesi in tutta fretta e andai diritto alla piazzola dei taxi. Ce n’erano tanti disposti in fila indiana che avanzavano lenti lungo il marciapiede, in un carosello rituale che mi faceva pensare a quelle giostre del Luna Park pronte a raccogliere gli avventori di turno. Scelsi un taxi a caso, salii e comunicai al tassista l’indirizzo del Lattanzi aggiungendo: -“Faccia presto per favore!”-. Non so perché avessi tanta fretta di arrivare, probabilmente stavo perdendo quella sicurezza che pensavo di mantenere allorché avrei rivisto Lattanzi. Analizzai per un attimo questo stato d’animo e convenni di non sentirmi più sicuro non tanto dell’azione che stavo per compiere, quanto dell’imparzialità con cui questa azione stessa doveva essere sorretta. In altri termini, ero convinto di quello che facevo ma non di come l’avrei fatto. Temevo che certi rancori, che cominciavano a riaffiorare dentro di me, potessero condurre la mia ferma convinzione di chiudere con Cinzia in una direzione poco vicina al mio modo di essere, e cioè in quella del vittimismo o, peggio, del dramma popolare. Sicché avevo sollecitato il tassista per liberarmi rapidamente di questa incertezza come colui che, non sapendo nuotare, decide suo malgrado di buttarsi in acqua pur di raggiungere l’approdo più vicino. Il taxi imboccò il viale alberato in fondo al quale si erigeva la villa del Lattanzi, distinta e imponente rispetto ad un gruppo di case a schiera che, a confronto, parevano mestamente asservirla.
Si trattava di una costruzione in pietra, dalla forma allungata e quadrangolare, con due torrette laterali che mi ricordavano gli antichi castelli dei signorotti all’epoca del feudalesimo. Una volta sceso dal taxi, mi avvicinai quasi con timore riverenziale al grande cancello nero in ferro battuto, sorretto ai lati da due colonne di marmo sulle quali poggiava la testa di un leone di bronzo. All’interno si vedeva un ampio giardino, ben curato, con aiuole che tracciavano il percorso verso il patio d’ingresso costituito da tre grandi arcate. Intorno vi erano magnolie, pini, oleandri e due palme giganti allineate su un sentiero che curvava verso il retro della villa. Suonai il camlo e dal citofono una voce femminile chiese chi fosse. Risposi che ero un collega di Lattanzi e che avevo urgente bisogno di parlargli. Dall’altro capo ci fu silenzio assoluto. Attesi qualche secondo, poi la porta in fondo all’arcata centrale si aprì e una donna avanzò verso di me. Strano a dirsi ma la prima cosa che notai era la sua figura giovanile che tuttavia, man mano che si avvicinava, rivelava un aspetto più maturo. Da lontano la donna sembrava una ragazzina, con jeans attillati, maglietta a V di color rosa con la scritta “Aborto libero”, che mi fece istintivamente pensare alle giovani contestatrici del sessantotto. Aveva i capelli di un biondo lucente, portati con un codino che le arrivava fin sopra le spalle piccole e magre. Ma da vicino, ecco che la donna mostrava il viso di una signora dall’età più avanzata, con rughe ben visibili ai lati degli occhi scuri e a mandorla, naso aquilino, bocca dalle labbra consumate e guance molli e ispessite nonostante la grande quantità di cerone. Giunta al cancello, la donna mi domandò con aria annoiata: -“È un collega di Renato? ”-“In un certo senso sì. Mi chiamo Leo Ferretti.”-“Ferretti? Ah, sì, ora ricordo. È un pittore vero? Mio marito mi ha parlato di lei. Prego, la faccio entrare subito.”Così dicendo tirò dal taschino dei jeans il telecomando, lo puntò verso il piccolo cancello laterale che con uno scatto si aprì immediatamente. La donna abbozzò un sorriso di circostanza e si presentò: -“Io sono Olga. Mio marito in questo momento è sotto la doccia, ma la
raggiungerà subito.”Percorremmo il vialetto del giardino in silenzio. Olga mi precedeva con o lento e attardato, forse per dare tempo a Lattanzi di prepararsi. Io la seguivo riflettendo sulle sue parole “Mio marito mi ha parlato di lei” e mi ricordai che anche il mio amico Venanzio aveva fatto altrettanto quando mi presentò Lattanzi. Era un fatto curioso che io fossi noto a queste persone senza che lo sapessi, quasi che la vita che avevo finora vissuto, mi avesse portato ad isolarmi da tutto ciò che avveniva intorno a me. Mi riusciva però difficile comprendere i motivi per cui Lattanzi si era confidato con la moglie parlandole proprio di me, ossia del marito della sua amante. Mi sembrava di cogliere in questo suo comportamento qualche cosa di mellifluo, come se Lattanzi avesse voluto vantarsi di proposito delle sue imprese amorose. Intanto eravamo entrati nella sala d’ingresso, ampia ma sobria, con un grande specchio, stile Luigi XV, che si trovava di fronte alla porta e più in basso un ripiano in marmo bianco su cui poggiava un telefono rosa, di quelli antichi, con la ruota e i bordi della cornetta rigati d’oro. Ho guardato lo specchio incrociando lo sguardo di Olga che proprio in quel momento si era fermata al centro della sala, e allora ho capito. Ho capito, prima di una vera e propria confessione ufficiale, che Olga sapeva della relazione di Lattanzi con Cinzia ma ciò nonostante aveva preferito tollerarla per qualche oscuro motivo. Adesso, rivolgendomi uno sguardo comionevole e di rassegnazione, mi faceva intendere, più delle parole, di esserne pienamente al corrente offrendomi tutta la sua solidarietà. Ho abbassato lo sguardo sul suo fondoschiena e per un momento ho avuto l’impulso di afferrarla da dietro costringendola all’amplesso proprio lì, in quella stanza, fino a che Lattanzi non ci avesse sorpresi. È stato però solo un momento. Il o deciso di Olga verso il corridoio mi fece ritornare alla situazione iniziale, sicché la scena della mia vendetta a sfondo sessuale si dissolse così come era apparsa. Olga mi fece entrare nel salotto e qui vi indovinai tutto il tocco e lo stile del Lattanzi. Più che un salotto, la stanza mi sembrava una galleria in miniatura, con quadri sparsi su ampie pareti colorate di grigio. Riconobbi il dipinto de: “L’abbraccio”di Schiele che troneggiava sopra il divano in stile vittoriano e più in basso, verso le due poltrone laterali, “Le muse inquietanti” di De Chirico e lo “Scolabottiglie” di Duchamp. Sulla sinistra vi erano altri dipinti che affiancavano una grande libreria con ripiani in ferro cromato, e davanti una
scrivania col piano in marmo nero, una poltrona girevole e un lume in vetro murano. Dal lato opposto, ancora quadri, un mobile basso con due candelabri d’argento e all’angolo una Kenzia gigante. Olga mi invitò ad accomodarmi, poi si scusò dicendo che sarebbe andata a vedere se il marito era pronto. Rimasi in piedi davanti al quadro di Schiele e per un attimo mi parve di vedere nella figura de L’abbraccio i volti eccitati di Cinzia e di Lattanzi. Pensai, spinto dall’illogicità della mia immaginazione, che la scelta di questo dipinto non doveva essere stata, per il mio rivale, edonica o casuale, bensì ponderata secondo un piano strategico in cui io e sua moglie Olga dovevamo essere gli unici infausti spettatori. Poi udii la voce di Lattanzi ed io mi girai verso la porta. -“Signor Ferretti, che piacere rivederla! ”Lattanzi era in abbigliamento sportivo, con pantaloni scuri e un pullover rosso. Fece qualche o avanti e aggiunse: -“Ad essere sincero, sono sorpreso e nello stesso tempo felice di riceverla in casa mia. Tuttavia, se lo avessi saputo prima, mi sarei presentato nelle migliori condizioni.”Feci finta di non badare a queste parole che in verità volevano dire di non aver gradito affatto la mia improvvisata. Tirai fuori dalla tasca della giacca l’astuccio che avevo prelevato dalle mani di Bernardi e lo depositai sulla scrivania: -“Sono venuto a restituirle questo accendino. Non è carino rifiutare un regalo, anche se si tratta di un regalo fatto da mia moglie.”Lattanzi non si scompose per niente. Si avvicinò alla scrivania, guardò l’astuccio, poi domandò: -“Come ne è venuto in possesso? Glielo ha dato sua moglie? ”-“Non direttamente. Diciamo che ho risparmiato al suo amico Bernardi il tempo di farlo recapitare a Cinzia.”Lattanzi si affrettò a spiegare: -“Vede, signor Ferretti. Non è come sembra. Sua moglie Cinzia voleva trovare un impiego alla Galleria degli Uffizi. È stata da me perché conosco la sua amica Erminia. Le ho solo promesso che mi sarei interessato della cosa. Forse sua
moglie ha pensato di ringraziarmi facendomi questo regalo che però non ho voluto accettare.”Era una spiegazione apparentemente logica e lineare. C’era però un piccolo particolare che stonava con questa versione: -“La sua generosità è molto commovente. Mia moglie ha voluto esserle così grata da far incidere sull’accendino le proprie iniziali.”-“Senta, signor Ferretti, io non so che cosa avesse in mente sua moglie. Questo regalo non l’ho neanche aperto.”Per la prima volta Lattanzi era visibilmente turbato e un po’ mi sorpresi nel vederlo così a disagio, lui che in altre circostanze si era sempre mostrato flemmatico ed equilibrato. -“Così vorrebbe farmi intendere che si è trattato di un’iniziativa del tutto personale di mia moglie?”Lattanzi annuì ma senza guardarmi. Era così imbarazzato che pensai che sarebbe bastato poco perché crollasse da un momento all’altro. Stavo per incalzare con le domande quando, ad un tratto, il mio sguardo si posò su un dipinto che era seminascosto dietro la poltrona della scrivania e per questo non l’avevo notato prima. Spostai il capo per guardarlo meglio. Si trattava di un quadro che raffigurava una donna nuda dai lunghi capelli biondi ma senza volto, nel senso che si vedeva solo la forma ovale del viso ma non anche i caratteri che lo contraddistinguono, ovvero gli occhi, il naso e la bocca. Il resto del corpo era invece ben visibile e mostrava una nudità a me familiare: seni ampi e lattiginosi, fianchi sinuosi e sulla parte destra, appena sopra il ventre, il taglio diagonale di una cicatrice. Mi resi conto immediatamente che la donna del ritratto, sia pure senza volto, non poteva che essere mia moglie Cinzia. Devo essere sincero. La visione di questo quadro mi fece più male di qualsiasi altra prova tangibile del tradimento di mia moglie. Voglio dire che mi ero ormai preparato al fatto che Cinzia avesse un amante, ma mai avrei immaginato che questo adulterio si fosse perpetrato anche attraverso una forma così intima e particolare. Forse Lattanzi aveva voluto immortalare la sua relazione con Cinzia realizzando un dipinto che, grazie all’anonimia del volto, poteva appendere liberamente nel salotto di casa senza che Olga si insospettisse. E d’altra parte la donna del dipinto rivelava tratti inconfondibili, quale la particolare conformazione del fisico con il taglio della
cicatrice sul fianco destro, che potevano essere noti soltanto a chi la conosceva bene. -“E sarebbe anche una iniziativa di mia moglie quella di posare nuda in quel ritratto? ”-, dissi indicando con gli occhi il dipinto appeso dietro la scrivania. Il volto di Lattanzi si fece prima rosso, poi paonazzo. Mosse le labbra per replicare qualcosa ma in quel preciso istante udimmo una voce alle nostre spalle: -“Perché non gli dici la verità?”Ci girammo e vedemmo la moglie di Lattanzi avanzare verso di noi con le mani in tasca, sorridendo amaramente. -“Credo che sia giunto il momento di mettere le carte in tavola, vero Renato?”Olga si fece subito seria, guardò freddamente il marito, poi si rivolse a me e proseguì nel discorso: -“Visto che mio marito non ha il coraggio di ammetterlo, devo purtroppo confermarle, signor Ferretti, che la donna del ritratto è proprio sua moglie Cinzia.”-“Piantala Olga!”- tuonò Lattanzi. -“Piantarla io? Ma se ho appena iniziato! Vede, Ferretti, mio marito è un grande gallerista, forse il migliore di tutta Firenze, ma ha un “piccolo” difetto: le donne! Se questo può consolarla, sua moglie non è stata la prima e nemmeno l’ultima. Credo che la loro relazione sia finita da un pezzo, anche se sua moglie, con la storia dell’accendino, pare non voglia proprio rassegnarsi.”-“Ma cosa stai dicendo? Ferretti, la prego, non le dia ascolto.”-“Taci.”- lo rimbeccò Olga -“Credevi di potermi abbindolare con il dipinto della donna misteriosa? Sa Ferretti che cosa mi disse mio marito quando si presentò con questo “capolavoro”? Disse: “È il regalo di un pittore che ho conosciuto alla mostra di Padova”. Solo che questa mostra, e chissà quante altre, non c’è mai stata. Lo scoprii per caso quando la segretaria di mio marito, non riuscendo a rintracciarlo, mi telefonò per avvertirmi che gli organizzatori di Padova avevano annullato la manifestazione. Ma non è stata soltanto questa circostanza a farmi
capire che quel dipinto era stato eseguito proprio da mio marito.”Olga si concesse una pausa. Andò alla scrivania, tirò fuori dal cassetto laterale un pacchetto di Marlboro, poi aprì l’astuccio contenente l’accendino che Cinzia aveva acquistato dal Bernardi e se ne servì per accendere una sigaretta. Tutto questo avveniva mentre Lattanzi ed io la osservavamo muti e attenti, come se stesse compiendo un’operazione delicata e difficile. -“Sono quasi trent’anni che frequento gli ambienti dell’arte.”- riprese, -“Ho conosciuto pittori, galleristi, critici, letterati e un po’ di esperienza me la sono fatta. Di ogni dipinto saprei indovinare la tecnica, lo stile, e persino la personalità dell’autore. Ma c’è qualcosa che ho particolarmente sviluppato nel corso di questi anni: l’olfatto. Potrebbe sembrare strano, ma saprei riconoscere l’autore di un dipinto, specie se di recente realizzazione, dall’odore delle tempere utilizzate. È un odore che può essere forte, dolce, tenue, aggressivo, pieno, sfumato o anche solo impercettibile a seconda dell’intensità e dei toni dei colori. Credo che ogni pittore sia particolare anche in questo. E mio marito ha, diciamo, il “suo” odore, che è quello che sento quando entro nello studio sopra la galleria di via DÈ Martelli dove tiene i suoi dipinti. Ebbene, è stato per me del tutto naturale associare l’odore del ritratto di sua moglie con quello che ristagna nello studio di mio marito. In altre parole ho avuto la percezione e la prova olfattiva che mio marito mi tradiva.”Di nuovo silenzio. Lattanzi andò a sedersi alla scrivania con le mani giunte in evidente imbarazzo. Olga gli lanciò uno sguardo glaciale tenendo le braccia conserte e portando di tanto in tanto la sigaretta alla bocca. Mi sentii in dovere di intervenire ma più per un bisogno di dare un senso alla mia presenza lì tra loro, che per una effettiva necessità di approfondire un discorso che mi sembrava già di per sé chiaro ed esaustivo. -“Davvero singolare questa spiegazione sull’odore dei dipinti. Non mi ha detto però come ha fatto a scoprire l’identità della donna del ritratto. Dopo tutto poteva trattarsi di una donna qualsiasi e non necessariamente di mia moglie.”-“Semplice.”-, rispose Olga, -“Alla fine è stato proprio mio marito a confessarmelo, vero Renato?”-“Senta Ferretti”-, s’intromise Lattanzi, -“Ormai è una storia ata. Sono stato sincero quando le ho detto che Cinzia si è presentata da me per avere un impiego
alla Galleria degli Uffizi. Poi abbiamo cominciato a frequentarci, sua moglie mi diceva di sentirsi sola e che non era molto contenta della vita che faceva. Ora lei sarà padronissimo di non credermi, ma quello che è successo tra noi è stato quasi per caso. Certe cose accadono perché devono accadere.”“Accadono perché devono accadere”, ripetei mentalmente. -“Anche il ritratto è stato qualcosa che “doveva” accadere?”- domandai ironicamente. -“Cinzia mi parlava spesso di lei, della sua ione per la pittura. Però non riusciva a capirla. Diceva che lei aveva sempre la testa tra le nuvole e che questo suo atteggiamento la portava ad estraniarsi dalla vita reale. Ma dopo che eravamo stati a… letto, mi disse di non essere più tanto sicura di continuare la relazione. Così, una volta, volle provare a posare per me. Mi disse che solo così poteva rendersi conto se le sarebbe piaciuto far parte del mondo nel quale lei, Ferretti, si era rinchiuso, o se invece sarebbe stato meglio mettere una pietra sopra sul suo matrimonio e continuare la storia con me.”-“Ma perché farsi ritrarre senza volto? Potevate tenere il quadro per voi, nessuno l’avrebbe mai scoperto.”-“Cinzia non si sentiva pronta a concedersi, almeno spiritualmente. Era attratta da me ma allo stesso tempo si sentiva ancora legata a lei, Ferretti. Facendosi ritrarre senza volto le sembrava di mantenere ancora questo legame. Una donna senza volto, diceva, è una donna qualunque, non una moglie infedele!”-“Però la cicatrice sul fianco destro poteva svelare un’identità inconfondibile.”-“Questa della cicatrice è stata una sorta di compromesso tra la volontà di Cinzia di rimanere nell’anonimato, e quindi ancora legata al suo matrimonio, e il desiderio di violare la sua fedeltà coniugale permettendo che si mostrasse una particolarità del suo fisico che doveva essere nota soltanto a me.”-“Invece, non è stato così.”- commentai. -“Già! Non è stato così!”- ripeté Olga che poi proseguì: -“Mio marito mi confessò quasi subito di avere avuto una storia con la donna del ritratto. Ma mi disse anche che era finita. Gli ho voluto credere e ho accettato che quel quadro rimanesse in questa stanza. Ho pensato che se l’avessi tolto non avrei avuto
alcuna certezza che tra loro era davvero finita. In un certo senso sono scesa anch’io ad un compromesso: la presenza di quel quadro ha voluto significare un monito per quanto era successo, ma nello stesso tempo un modo per valutare l’autenticità della decisione di mio marito di interrompere la relazione.”-“E questa prova l’ha ottenuta?”-, domandai. -“Mi sono detta che ormai il tradimento c’era stato. Se il nostro matrimonio poteva reggersi ancora, non sarebbe stata la presenza di quel quadro a metterlo in discussione. Ed infatti la prova che la storia con sua moglie era proprio finita l’ho avuta non molto tempo dopo la confessione di mio marito.”-“Vale a dire?”-“Una mattina li ho sorpresi a Piazza della Signoria mentre litigavano. Ero andata alla galleria di mio marito ma mi avevano detto che non l’avevano ancora visto e che forse l’avrei trovato agli Uffizi. Così sono ata per la piazza. Mio marito e sua moglie si trovavano davanti al bar. Non ho sentito quello che si dicevano, ma dai gesti si capiva chiaramente che stavano litigando.”-“Cinzia”-, spiegò Lattanzi, -“non voleva accettare la fine della nostra storia. Ma io non me la sentivo più di continuare. Quella è stata l’ultima volta che ci siamo visti. Poi, una settimana fa, ho ricevuto il regalo dell’accendino e un biglietto con il quale sua moglie mi diceva di accettarlo come il dono di una “vecchia amica”. Ma io, come le ho detto, non l’ho fatto e così ho restituito l’accendino al Bernardi.”Lattanzi mi guardò come per dire che non aveva altro da aggiungere. Avrei potuto chiedergli contezza di tante altre cose, come ad esempio se la relazione era iniziata prima della gravidanza di Cinzia. Ma a quel punto il desiderio di accertare la mia paternità era ato in secondo piano rispetto alla consapevolezza del tradimento ideologico di Cinzia perpetratosi attraverso il ritratto del Lattanzi. Poteva darsi che mia moglie avesse iniziato la relazione prima di sapere di essere incinta o che, viceversa, avesse creduto per un certo periodo che il figlio che aspettava fosse del suo amante. L’episodio di Piazza della Signoria, attraverso il quale, per una strana coincidenza, sia io che Olga avevamo assistito alla fine della relazione dei nostri consorti, era avvenuto non molto tempo dopo l’annuncio della gravidanza, sicché qualsiasi ipotesi era possibile. Il fatto invece che Cinzia si era concessa ad un uomo apionato
dell’arte come me, fino a posare nuda in una sorta di sfida ideologica verso un mondo che aveva sempre ripudiato, era un dato incontrovertibile che segnava ufficialmente la fine del mio matrimonio. Così, senza chiedere altro, lasciai i Lattanzi e mi avviai alla stazione dei taxi.
Capitolo 12 Il giorno dopo
Ore 8 e 45. Mi sono svegliato e ho guardato il soffitto della mia stanza. Sono rimasto così per un po’, incuriosito dai riflessi del sole che dalle fessure delle persiane proiettavano su quel punto strane ed indecifrabili figure. Ho abbassato lo sguardo e ho visto quello che c’era intorno a me: una libreria con una scrivania ad incasso, un grande specchio ovale all’angolo della porta e, dal lato del letto, un mobile basso con dei libri sparsi e qualche giornale. Ho trattenuto il respiro provando una sensazione mista di stupore e di incredulità. L’ambiente era per me familiare, ma sembrava appartenere ad un tempo che credevo di aver già vissuto. Mi sono alzato a sedere e ho ricordato che mi trovavo nella casa dei miei genitori, e che quella era la mia cameretta. Sono sceso dal letto e sono andato a guardarmi allo specchio: avevo un viso giovane senza nemmeno una ruga, la barba incolta con qualche brufolo e i capelli ondulati sulla fronte, come li portavo quando avevo vent’anni. Mi sono pizzicato le guance per accertarmi che fossi proprio io la persona riflessa. Sentivo al tatto delle mani la peluria della barba e i capelli che si muovevano al tocco delle mie dita, con un sincronismo che non lasciava adito ad alcun dubbio: quella persona ero io e non stavo affatto sognando. Ho guardato il giornale piegato a metà sul mobile basso che riportava a caratteri cubitali la notizia dell’uccisione del presidente della Dc Aldo Moro e più sopra la data del 9 maggio 1978. A fianco c’era un libro di storia dell’arte con la copertina che riproduceva il dipinto della Venere di Botticelli. Questi oggetti stavano ad indicarmi la dimensione del tempo in cui mi trovavo. Il giornale non poteva che essere di recente, forse del giorno prima, e il libro dell’arte era il testo che stavo studiando per un corso di pittura. Sentivo però che era un tempo presente e non uno spezzone di vita vissuta. Sono nato nel 1958 e se quel giornale era stato stampato da poco, come sembrava dall’odore ancora fresco della carta, io avevo appena compiuto vent’anni.
Ho sentito ad un tratto una voce dal corridoio, anch’essa familiare, che ogni tanto s’interrompeva come di una persona al telefono. Ho aperto la porta, mi sono affacciato fuori e ho visto mia madre. Era girata di spalle e parlava proprio al telefono, con il busto piegato sul tavolino dell’ingresso in una posizione curiosa che avevo visto tante altre volte. Mia madre ha posato il ricevitore, si è girata e vedendomi sulla porta della camera mi ha detto: -“Finalmente ti sei svegliato! Ma oggi non avevi lezione all’università?”Non ho risposto. Mia madre aveva i capelli con la fila di lato, ancora nerissimi nonostante l’età avanzata. Le guance erano gonfie e arrossate, il volto affaticato ma reso vivo dalla brillantezza degli occhi grandi e lucidi. Mi sono avvicinato e le ho toccato il viso andando su e giù con la mano come se volessi ispezionarlo. Ho avvertito fin dal primo contatto un rinnovato e nostalgico calore ed ho fatto fatica a trattenere la commozione. -“Ma… tu non sei morta?”-“Leo ma che dici? Sei impazzito? Certo che non sono morta, anche se alla mia età tutto è possibile. Tu piuttosto. Ti senti bene? Hai una faccia!”L’ho abbracciata ed ero così felice che non fosse morta davvero che quasi volevo sollevarla e portarla in giro per la casa. -“Leo smettila che mi soffochi. Su, vieni che ti ho preparato il caffè.”Mia madre si è diretta in cucina ed io l’ho seguita con lo sguardo tenendo gli occhi bene aperti, per accertarmi che quello che avevo appena visto era veramente accaduto. All’improvviso ho ricordato: Cinzia, Lattanzi, Olga Erminia, Venanzio, personaggi su cui avevo costruito la mia storia, il mio possibile percorso futuro che in realtà non avevo mai intrapreso. Mi sono detto: “Ma allora ho sognato! Ho sognato la mia prossima vita!”. Io conoscevo Cinzia ma soltanto da una settimana. L’avevo incontrata all’università durante una lezione di filosofia e alla fine ci siamo scambiati i numeri di telefono per arci gli appunti. Conoscevo anche i Lattanzi, ma erano i nostri vicini di casa: Olga faceva l’insegnante alle elementari e Renato l’antiquario in una galleria di via Veneto, al centro di Roma. Quanto ad Erminia e Venanzio, fatto
curioso, erano i figli di un collega di mio padre che lavorava all’agenzia pubblicitaria di via Salaria. -“Allora Leo, lo vuoi il caffè si o no?”Sono entrato in cucina e ho visto mia madre che preparava con cura la tavola per la colazione. Non mancava niente di quello che ero solito vedere tutte le mattine: una brocca con il succo d’arancia, un’altra più piccola con il caffè, un bicchiere di latte, una tazzina, un piattino con le fette di pane tostato, del burro e un vasetto di marmellata. Mi sono seduto ancora frastornato e ho cominciato a mangiare senza mai distogliere gli occhi da mia madre, che intanto si è seduta accanto a me e mi guardava amorevolmente. Come poco prima l’avevo seguita con lo sguardo per convincermi che non fosse una visione, adesso ribadivo questo mio atteggiamento e, attraverso il cibo, mi sembrava di riscoprire il gusto di antichi sapori di un tempo. Così bevevo il caffè, mangiavo il pane tostato e sorseggiavo il succo d’arancia, ma in realtà era dell’amore di mia madre e della mia ritrovata giovinezza che mi stavo nutrendo. Adesso mia madre si è ata una mano sulla fronte come se si fosse ricordata improvvisamente di qualcosa e ha detto: -“Ah dimenticavo. Sai chi era al telefono? Una certa Cinzia. Mi ha pregato di riferirti che ti aspetta davanti all’università per consegnarti certi appunti.”-“Ma oggi che giorno è?”-“Mercoledì.”-“Intendo dire la data.”-“Oggi ne abbiamo 10.”-“10 maggio 1978?”- dissi riferendomi al mese e all’anno del giornale che avevo trovato nella mia stanza. -“Leo, sei sicuro di star bene? Oggi è il 10 maggio 1978 ed io sono tua madre. Da come mi guardi sembra quasi che tu abbia visto un fantasma!”-“Forse ho dormito male.”- provai a giustificarmi.
-“Lo vedo. Allora, cosa hai deciso per oggi? Vai all’università?”-“Penso proprio di sì.”-. Ho finito di mangiare, sono andato in bagno e mi sono messo a cantare sotto la doccia. Ho sentito il getto dell’acqua calda spargersi su tutto il mio corpo e ho provato una sensazione piacevole di ristoro che non era soltanto fisico. Mentre m’infilavo l’accappatoio ho immaginato la scena di un bambino appena nato, che dopo essere uscito dal ventre materno, viene raccolto e lavato dalla levatrice. Mi è sembrato che questo rito si stesse adesso ripetendo, in una sorta di sublime rappresentazione di quella che era per me una vera e propria rinascita. Sono andato nella mia stanza, mi sono vestito in fretta e ho preso la valigetta di studio. Quindi ho salutato mia madre e sono sceso in strada. Ho riconosciuto il quartiere dove abitavo: grandi palazzi tutti uguali, con file di alberi di platani che fiancheggiavano lunghi marciapiedi, negozi di ogni genere tra i quali la salumeria di donna Teresa dove mia madre si riforniva per la spesa quotidiana. Sono andato alla fermata dell’autobus e durante l’attesa ho alzato lo sguardo sul balcone di casa. Ho visto mia madre che dai vetri della finestra mi ha sorriso salutandomi con la mano. Lo faceva tutte le volte che uscivo di casa, ma in quel momento ho provato una gioia nuova, come se quel gesto l’avessi visto fare per la prima volta. La corriera è arrivata con qualche minuto di ritardo, affollata come sempre. Sono salito e ho percorso l’intero tragitto tenendomi alla sbarra e guardando dal finestrino le strade di Roma che mi conducevano all’università della Sapienza. Ecco Villa Ada, il Foro italico, la via Flaminia, il grande parco di Villa Borghese, luoghi che scorrevano ai miei occhi come flash della memoria e che mi restituivano sicurezza e tranquillità, ma soprattutto l’appartenenza ad un tempo reale ed attuale. Sono disceso dall’autobus e mi sono diretto all’ingresso dell’università. Ho visto Cinzia che mi aspettava seduta sul muretto di fianco, con una cartellina tra le mani e le gambe accavallate. Era bella come nel sogno: capelli lunghi e biondi, viso sfilato e delicato, corporatura esile ma formosa che le conferiva, nell’insieme, l’aspetto di una donna matura e di una ragazzina. Appena mi ha visto, Cinzia si è alzata e mi è venuta incontro: -“Ciao. Ti ho chiamato a casa ma tua madre mi ha detto che dormivi. Ti ho
portato gli appunti della lezione di filosofia dell’altro ieri.”Cinzia mi ha consegnato la cartellina poi ha aggiunto: -“Se vuoi, uno di questi giorni possiamo vederci a casa mia per studiare insieme.”- Così dicendo ha tirato fuori dalla tasca un foglietto. -“Ecco, questo è il mio indirizzo.”- Ho preso il foglietto, l’ho ringraziata ma le ho spiegato che dovevo andare all’accademia e che quindi non potevo trattenermi. -“All’accademia?”-“Sto frequentando un corso di pittura. Oggi danno una lezione sulle opere di Botticelli.”-“Guarda, guarda. Non mi dire che sei anche un pittore?”-“Conosci Botticelli?”-“Quello della ‘Primavera’? Sì, ma non m’intendo molto di pittura.”-“BÈ, adesso devo proprio andare.”-“Va bene. Allora aspetto che mi chiami?”-“Magari la prossima settimana.”Ci siamo salutati. Cinzia è rientrata all’università mentre io mi sono diretto verso Trastevere. Ho percorso poche decine di metri, poi ad un incrocio mi sono fermato. Ho tirato dalla tasca il foglietto su cui Cinzia aveva scritto il proprio indirizzo, l’ho appallottolato e l’ho gettato nel cestino porta rifiuti. Ho atteso che il semaforo tornasse sul verde e ho attraversato la strada. Non mi sono chiesto il senso di ciò che avevo appena fatto ma sapevo che, da quel momento, non avrei sentito più alcun dolore.
L’episodio della strage di Firenze, pur riferito a fatti realmente accaduti, è stato liberamente raccontato dall’autore.
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