La Corona Del Re 6l5o5e

A Chiara

“Il regno di Dio è come un uomo che abbia gettato il seme sopra la terra; che dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme spunta e cresce, senza ch’egli sappia come.

Poiché la terra produce da sé, prima l’erba, poi la spiga, poi il grano pieno nella spiga. E quando il frutto è, tosto egli vi mette la falce perché la messe è matura”

(Marco 4, 26 – 29)

I

Tirava una brutta aria quel mattino, ma nella sua perversione voleva comunque affrontare il vento contrario quale che fosse la sua forza.

Anzi più forte diventava e più lui ne traeva piacere come uno scommettitore incallito poteva trarre godimento dall’alzare la posta.

La sua ricerca di una sfida continua e sempre più ardua lo aveva sempre accompagnato nella sua vita anche nel modo di affrontare le difficoltà, le peripezie e i pregiudizi di ogni sorta al punto da renderlo schiavo dei suoi stessi comportamenti.

Lui ormai agiva e pensava credendo di essere libero da preconcetti ed autonomo nei suoi giudizi. Non si rendeva conto di essere totalmente asservito a quell’oscura forza che lo spingeva, di più, lo costringeva a lottare sempre per abbattere tutti i muri che credeva la società gli costruisse intorno.

Pensava fermamente che ogni limite, imposizione ed ogni etichet-ta morale che la società si ponesse comunque fosse indirizzata a lui anche se in senso lato, allora si buttava a capofitto come un novello Don Qujiote contro i mulini a vento.

Certo quel gelido inverno, così ostinatamente freddo e ven-toso, gli pareva uno dei più brutti che avesse visto in tutta la sua vita al punto da pensare che, forse, anche il clima congiurasse contro di lui.

Non poteva dirlo con sicurezza poiché fino a quel momento non si era mai

curato particolarmente del tempo essendo sempre troppo impegnato nelle sue sterili discussioni e nelle sue battaglie a sfondo sociale che, invero, non gli avevano procurato altro che sconfitte.

Era diventato vecchio ando la vita di sconfitta in sconfitta, senza mai demordere, convinto com’era che l’importante non era vincere, ma risaltare fra le masse come indiscusso portatore di incor-ruttibili ideali.

Ora di tutte quelle battaglie, apparentemente compiute per illuminare le coscienze gli apparivano ora invece paragonabili a degli schizzi di vernice buttati disordinatamente sulla sua esistenza per coprire le sue insicurezze, restavano solo ricordi che scivolavano lentamente via dalla sua memoria come un placido fiume.

Di quei ricordi che a mano svanivano dalla sua mente aveva un retrogusto amaro, non certo come di qualcosa che si ricorda con orgoglio.

Erano come delle sentenze di condanna senza appello di una vita ormai quasi tutta scritta di cui non poter certo andare fieri: non aveva solo perso delle battaglie, non voleva ancora ammetterlo, ma capiva di aver perso anche se stesso, inesorabilmente.

Questa intuizione era per lui troppo sconcertante perché potesse davvero prenderla in considerazione e, tuttavia, l’aveva messo di cattivo umore.

Pensare di essere troppo vecchio per cambiare la sua vita signi-ficava ammettere di essere vissuto per niente illudendosi del contrario inoltre la sua solitudine non lo aiutava di certo, lo avrebbe dovuto spingere a confrontarsi con se stesso ma

questa era la battaglia che più temeva.

Perché aveva così paura di affrontare se stesso ?

In fondo di battaglie perdute ne poteva vantare più di chiunque altro, cos’altro poteva capitargli più di trovarsi perdente per l’ennesima volta?

Eppure aveva qualcosa nell’animo che stava erodendo le sue certezze, un vuoto che lo spaventava più di qualunque sconfitta e non pensava che fossero né la sua solitudine, ne la sua vetustà.

Non voleva affatto aprire il vaso che da anni teneva chiuso nel suo cuore, non più, forse era più disposto a morire portandosi tutto dentro piuttosto che farlo emergere quando non era più in grado di porvi rimedio.

Non appena questo pensiero aleggiò nella sua mente ebbe un moto di orgoglio,quasi d’ira, nel tentativo di reprimere l’idea di essere un uomo insulso, inutile e inconcludente.

Di più!

Un insignificante uomo che aveva vissuto la vita di un altro non riuscendo neppure a farlo con dignità.

In preda a questi pensieri negativi quel mattino si era deciso a scendere la rampa

di scale della palazzina dove abitava invece di prendere l’ascensore come aveva fatto per anni.

Viveva in quello stabile da una dozzina d’anni ormai e, uscendo dal portone, lo squadrò con attenzione e, pensava sorpreso per la prima volta, da quando era li non aveva mai visto fare alcun lavoro di ristrutturazione. Quel palazzo così trascurato sembrava gli assomigliasse: nemmeno lui in quei dodici anni si era curato minimamente della sua coscienza.

Certamente, avendo provato disgusto per quella casa fin dal primo momento, era comprensibile che non si fosse mai interessato del suo aspetto esteriore; inoltre il colore delle mura era di un verde pisello, che invece di sposarsi con la natura, facevano a cazzotti col cielo, né aiutava la caligine provocata dall’intenso traffico e dalle industrie limi-trofe.

Continuava a guardare, non più con disprezzo ma piuttosto con una rinnovata comione, i balconi spigolosi e resi irregolari dall’in-tonaco venuto via a causa delle troppe piogge, del vento eccessivo e delle innumerevoli vibrazioni dovute al traffico.

Il tempo era ato anche per lui come per la palazzina e sentiva che la sua pelle lentamente si staccava dal suo corpo proprio come l’intonaco e raggrinziva vistosamente giorno dopo giorno, anche la sua carne si disfaceva e diventava via via meno soda, i suoi occhi e la sua voce lentamente si opacizzavano come i vetri del suo stabile.

Queste considerazioni gli facevano sentire il suo destino indis-solubilmente legato a quello della palazzina e questo lo aveva indotto ad avere per essa una certa comione.

Proprio come quella palazzina, anche lui per anni aveva ascoltato le confidenze e fatto propri i problemi di amici e conoscenti salvo poi non aver ricevuto un minimo di riconoscenza. Lo disgustava l’idea di fare la stessa fine di quella casa, di essere dimenticato da tutti, per questo motivo aveva accettato la sfida di quel vento così impetuoso ed era uscito anche se si muoveva a fatica.

Ciò lo riportava alle sfide impossibili in cui s’era ficcato nella sua giovinezza, esaltato com’era nella sua ricerca del dominio morale sugli altri: pensava che le idee e il sapere gli avrebbero fornito le leve per condurre gli altri dove voleva lui.

Pensava a tutto questo mentre il vento gli si opponeva contro comprimendo con forza il suo petto ma lui, pur con grande affanno, cercava di tenere un o deciso, determinato a dimostrare a se stesso che non era ancora un vecchio rudere pronto per la demolizione, ma che il suo spirito indomito avrebbe condotto il suo corpo dove voleva: ancora una volta la mente doveva dominare sulla carne.

Mentre compiva le sue riflessioni fu distratto dal fogliame autun-nale che, sotto la sferza implacabile del vento, si spandeva e si ritraeva come un enorme polmone che tentava di riempire le distanze tra i filari di alberi ai lati della strada.

Il suo incedere si fece via via più difficoltoso a mano che i muscoli delle sue gambe si andavano affaticando mentre il vento mostrava la sua fermezza nella determinazione a voler arrestare la sua impresa.

Cercò di persuadere sé stesso che, non era tanto il vento a mettergli i bastoni fra

le ruote, quanto la polvere sollevata, la quale, entrando nelle narici e nella gola gli rendeva ostica la respirazione e lo soffocava. Sapeva bene che la diminuita ossigenazione avrebbe accelerato l’affaticamento muscolare.

Si accorse del suo respiro affannoso al punto da sembrare una locomotiva e del suo cuore che si agitava furiosamente nel petto fino a fargli sentire dolore.

Preso tra il dolore da compressione e la mancanza di respiro che gli dava quella specie di “tempesta di sabbia”, alzò supplichevolmente gli occhi, semichiusi a causa della polvere, sull’orizzonte cercando di scorgere qualcosa, oltre ai filari d’albero, che potesse offrirgli un riparo temporaneo per riprendere forze e proseguire.

Vedeva gli alberi piegati, forse anche più di lui, stretti nella morsa del vento quasi come se un gigantesco piede invisibile fosse sul punto di calpestarli e pensò che stavolta aveva preteso troppo da se stesso, che aveva osato sfidare il clima in una battaglia persa, l’ennesima e forse anche fatale.

Ad accrescere il senso di morte e di paura che rapidamente cresceva dentro di lui contribuiva anche la visione di quegli alberi così spogli, violentati dal vento.

Provò molta rabbia di fronte alla sua impotenza, all’impossibilità di opporsi agli strattoni del vento e al soffocamento indotto dal pulviscolo e provava frustrazione per non essere capace di scorgere alcun riparo proprio ora che ne aveva bisogno.

Un altro pò e gli sarebbe scoppiato il cuore, sarebbe morto d’infar-to in una strada desolata, in mezzo al vento e senza nessuno accanto.

Un modo davvero idiota di finire la vita - pensava - ma forse era il modo adeguato a quella vita inutile.

Probabilmente il suo corpo sarebbe rimasto esanime, esposto alla furia degli elementi e dei parassiti, a decomporsi in quella strada poco trafficata per alcuni giorni prima che qualcuno si degnasse di curarsi del cadavere.

Se poi si fosse successivamente messo a nevicare, sarebbe stato certo che sarebbe ato pure molto tempo prima di essere rinvenuto, ma tutto questo non importava ora che il suo corpo gridava di dolore.

Era allo stremo, pronto ad alzare bandiera bianca, ad inginoc-chiarsi e ad accettare il suo misero destino quando i suoi occhi, che non avevano mai perso le speranze, scrutarono avanti a sé per un ultima volta per tentare di scorgere qualcosa e finalmente si rese conto che era più vicino al posto in cui voleva arrivare di quanto non avesse creduto.

Improvvisamente ogni suo dolore cessò e la fatica scomparve quasi del tutto, forse non stava così male, probabilmente la sua sensazione di essere sul punto di morire era stata frutto della sua mente.

Non voleva indugiare oltre in quei pensieri, doveva solo agire e mettere un o avanti l’altro e sarebbe stato sano e salvo.

L’edificio era ad una ventina di metri davanti a lui e portava in alto una grossa scritta proprio sopra l’entrata, non era mai stato così contento di essere arrivato

al supermercato.

Si coprì come meglio poté il naso e la bocca dopo aver fatto profondi respiri usando un fazzoletto come filtro e iniziò a correre verso la sua salvezza.

Giunto innanzi all’ingresso si voltò a guardare il viale con un misto di sollievo e orgoglio, sapeva che aveva scampato un pericolo mortale e tuttavia si sentiva già pronto per un’altra sfida fiero com’era per essere riuscito a portare a casa la pellaccia quando tutto congiurava contro.

Coltivava la consapevolezza che quella poteva essere solo una vittoria di Pirro perché il riparo era solo temporaneo e sarebbe dovuto tornare verso casa prima o poi e di nuovo si sarebbe ritrovato in mezzo a quella battaglia per di più carico di sacchetti della spesa, tuttavia si sentiva rinfrancato da quella sensazione di onnipotenza che dava l’aver superato i propri limiti, inoltre aveva del tempo da are in un posto riparato fino a che le condizioni non fossero migliorate.

Non si ricordava nemmeno quanto tempo fa aveva smesso di provare simili sensazioni, probabilmente quando era un giovane uomo con le sue speranze intatte, prima che tutta la sua vita precipitasse nel baratro, in un punto ben preciso, dal quale non era mai più riemerso fino ad oggi.

Non aveva mai ammesso di essere troppo vecchio per rischiare di perdere le sfide in cui si cacciava d’impeto.

Fin da giovane aveva rischiato la stessa vita nelle sfide in cui s’era cimentato e la cosa gli era parsa normale e giustificabile come il prezzo che un ragazzo paga per farsi largo nella società.

Ma quelle sfide le aveva perdute tutte.

Sebbene oggi gli fosse riuscito di mettere in salvo la propria vita, prima di farcela aveva accettato la sconfitta nel suo cuore.

Si era rassegnato perfino a morire, ma proprio oggi che aveva accettato l’inevitabile litania della sua vita gli era stata offerta una piccola vittoria.

Poteva essere un segno del destino ?

Al di là di una sorte apparentemente beffarda forse la vita voleva comunicargli che non era mai troppo tardi perché la fortuna potesse girare nel verso giusto. Tornò ad essere realista e pragmatico nel non volersi illudere ora che era solo e vecchio.

Si domandava a chi oltre lui potesse mai interessare quella sua prestazione, a cosa poteva mai portargli quella competizione.

Un qualunque giovane avrebbe sicuramente vissuto la stessa esperienza come una eggiata e non avrebbe avuto alcun bisogno di lanciarsi in una goffa corsa al riparo.

Lui aveva vinto una sfida con se stesso ma questo era tutto, alla sua età non doveva più coltivare false speranze perché tutto ciò che contava l’aveva irrimediabilmente perduto tanto tempo fa.

II

Varcata l’ampia porta vetrata, che da fuori lasciava intra-vedere la folla che si agitava come un enorme serpente, restò per un po’ immobile a fissare con un misto di sorpresa e paura tutta quella folla che disordinatamente si accalcava nei vari reparti alimentari.

Erano tutti intenti a portare a termine la loro spesa col massimo scrupolo, molti guardavano l’aspetto della merce e cercavano i prodotti che parevano meglio conservati, altri si dedicavano alla caccia al prezzo più basso e per la verità, notava, questi componevano il gruppo più numeroso.

Si sentiva un pesce fuor d’acqua in tutta quella calca e il vociare confuso gli metteva ansia, non si era più ritrovato in mezzo a tanta ressa da parecchio.

Soleva infatti andare al supermercato ad inizio settimana e preferibilmente all’apertura quando i lunghi corridoi che s’insinuavano tra uno scaffale e l’altro erano luoghi tranquilli in grado di sostenere il peso dei propri pensieri e lenire il tormento dei propri rimpianti fornen-dogli al contempo una gelida intimità.

Gli piaceva, inoltre, fermarsi ai banconi dei salumi, dei formaggi, della carne e dei prodotti da forno per poter scambiare qualche parola con gli inservienti, in particolare amava raccontare di tutte le disgrazie che, in modo freddo e distaccato, erano state sbandierate dai telegiornali della sera prima.

Era diventato come certe donnette troppo loquaci che avevano fatto del pettegolezzo un’arte, uno studio filosofico come lo era la dialettica e lui riconosceva che questa cattiva abitudine gli era nata a causa della sua vita solitaria consumata tra quattro mura.

Tuttavia lo disgustava anche solo l’idea di essere catalogato come pettegolo e diventava come quelle donne isteriche e pettegole se qualcuno si azzardava a schernirlo in tal senso.

Chi mai poteva solo pensare una cosa del genere di lui ?

La realtà, tuttavia, era ben diversa da simili osservazioni superficiali: aveva instaurato un rapporto d’amore e odio coi tre inservienti con cui s’intratteneva abitualmente.

Non che fossero belle persone, anzi, piuttosto alimentavano un meccanismo di sfida che scattava in lui ogni volta che veniva ferito moralmente con parole allusive e frasi taglienti, allora doveva tornare alla carica per far vedere che le parole su di lui non avevano effetto.

Il suo rapporto con loro, la quantità di scambi d’idee che potevano tenere era direttamente proporzionale ai prodotti da com-prare, al tempo che perdevano per preparare le confezioni, in tal senso era meglio andare quando c’era poca gente almeno potevano fare tutto con una certa flemma e lui poteva così condividere con loro un maggior numero di sfide dialettiche.

Era assolutamente sottinteso il senso di reciprocità, un atto quasi sessuale, quel modo di fare la spesa intervallato da chiacchiere futili e contrasti ideologici.

Per ognuno di quei giovani che, da dietro il loro rassicurante bancone, dovevano comunque sottostare all’intimità imposta era un rito che si ripeteva ogni volta

che lui li avvicinava.

Dovevano fingere di avere un’aria assorta ed essere distratti dalle normali occupazioni di riordino e improvvisamente alzare il capo assumendo un’espressione di completa disponibilità unita ad un sorriso di compiacenza mentre lo salutavano col loro miglior “Buongiorno”.

Ogni tanto qualcuno di loro che riusciva a tornare a casa non troppo stanco dal lavoro, guardava con più attenzione i notiziari in modo da poter avere maggiori argomentazioni qualora il suo cliente più loquace lo avesse interrogato.

A volte poteva capitare che uno di loro la buttasse lì prima di lui in modo da dirigere la discussione sulla notizia su cui era più preparato e dare battaglia su un terreno più favorevole e recuperare lo svantaggio dialettico derivante dal concetto che il cliente ha sempre ragione e che quindi non si potevano sostenere le proprie idee fino a perdere un’acquirente.

Tuttavia lui non voleva assolutamente are per un insicuro che bisogno di farsi ragione a buon mercato, voleva solo dare un gesto di affetto e solidarietà, attraverso il confronto, verso quelle persone che credeva sole come lui.

Pensava che doveva essere davvero dura are anni della propria vita dietro quei banconi ad accettare di buon grado di tutti i pettegolezzi che portavano in dote i vari clienti, almeno lui non spet-tegolava ma, piuttosto, faceva cultura.

Guardava quei banconi per lo più realizzati tutti in una sgraziata lega metallica e quei ripiani di marmo dove si completava l’opera senza apparente valore di quei poveri individui.

Era forse pensabile un’esistenza più squallida di quella ata a tagliare, affettare e incartare ?

Ecco che proprio lui sentiva di avere l’importante ruolo di ristorare le loro anime con i suoi discorsi sui vari ideali politici e religiosi, permet-tendo loro un diversivo dalla solita monotona routine e una crescita spi-rituale e culturale.

Desiderava ardentemente che il suo – “Bisogna sempre per i propri sogni” – solerte conclusione di ogni suo sermone, potesse insegnare agli altri quello che lui stesso non aveva appreso al momento opportuno.

Avrebbe potuto dire a se stesso che aveva razzolato tanto male quanto ora predicava bene e avrebbe voluto ammettere che, in fondo, tentava di salvare se stesso e la sua dignità mettendo gli altri in con-dizione di salvarsi.

Tuttavia sapeva bene che, coloro coi quali aveva a che fare, erano uomini dalla vita e dalle coscienze alquanto comuni che fingevano sempre sorpresa e partecipazione ai suoi discorsi tentando di illuderlo di essergli come fedeli soldati di un saggio e canuto re in procinto di organizzare una strenua difesa per il suo regno: ma lui era solo un vecchio, non era regale, non era saggio e nemmeno stupido al punto da non capire certe dinamiche.

Fra una rosetta, un cornetto con crema, un etto di prosciutto e due di taleggio si sperdevano nell’aria parole e osservazioni in un lungo cicaleccio fatto di gesti affettuosi, seppur formali e di intese silenziose e complici che intrecciavano quell’amore morboso che si sviluppava tra cliente e venditore.

Frasi sempre sull’orlo di una crisi dialettica che riuscivano a supe-rare la china dei silenzi soltanto grazie all’assenza di clienti in grado di turbare irrimediabilmente il già precario equilibrio.

In effetti gli risultava piuttosto fastidioso alternare i suoi discorsi con le necessità degli altri clienti e riprendere a parlare dopo che l’inserviente si era dedicato ad altri.

Di tanto in tanto capitava che lui cercasse di riprendere l’argomento senza aspettare che l’altro cliente andasse via usando magari una sorta di codice per parlare col suo interlocutore, ma spesso per disattenzione le sue parole non venivano capite.

Avrebbe voluto sapere se era una disattenzione consapevole per evitare di discutere su argomenti che non interessavano, questo pensiero lo turbava parecchio, oppure solo vera e propria distrazione dovuta alla fatica di seguire più cose contemporaneamente.

Era Sabato mattina e lui era più che sicuro che sarebbe stato pressoché impossibile in mezzo a tutta quella folla scomposta, rumorosa e con la prole intenta in pianti nauseanti riuscire ad intavolare una qualche sorta di discussione, figurarsi pensare di arrivare a delle conclusioni.

Guardava con un certo sdegno le facce delle persone che attorniavano i banconi, vedeva persone ciondolanti come appena riprese da una sbornia, falsi sorrisi di circostanza che mal celavano un certo cinismo, volti corrucciati di narcisi insoddisfatti.

Sembravano tutte facce già viste in altri luoghi, pensava che in fondo tutti gli uomini sono uguali a se stessi.

Tutte copie mal riuscite di una buona idea!

Mentre rifletteva si sentì picchiettare sulla spalla e mentre si girava potè udire uno - “scusi” - rivoltogli da un signore infastidito quanto lui da tutta quella folla nel tentativo di are attraverso quel fiume umano.

Quel contatto lo aveva riportato in quella realtà brutalmente concreta fatta di sordida indifferenza e squallida cafonaggine. Si ren-deva conto, però, che in quel dato frangente il cafone era stato lui che, essendosi posto giusto al centro dell’entrata aveva reso più difficoltoso il fluire della folla.

Si era completamente immerso nelle sue divagazioni che, per quanto profonde, non sarebbero state di alcun interesse per tutte quelle persone che lo vedevano piuttosto come un ostacolo da scansare, inoltre immaginava quanto doveva essere ridicolo alla vista degli altri per via del suo rimanere impalato nel bel mezzo della marea umana con una faccia talmente estraniata da sembrare un pesce lesso.

Ma se a quelle persone non interessava fare discorsi così profondi, si domandava quale potesse essere il motivo di fiondarsi in massa in un grande supermercato come quello: la spesa la potevano fare anche a piccole dosi durante i giorni feriali.

Se avesse davvero ammesso a se stesso che, piuttosto, la loro presenza si poteva giustificare con la ricerca di riempire un vuoto interiore e che la necessità di far

la spesa era solo una scusa per socializzare avrebbe anche dovuto accettare che lui era uguale a loro.

Ma poteva ammetterlo così candidamente ?

Poteva giustificarsi affermando che preferiva fare i suoi acquisti quando il posto era abbastanza deserto, ma bastava questo per renderlo davvero diverso dagli altri ?

Era meglio non continuare su questa china, perché se lo avesse fatto avrebbe dovuto mentire sulle sue conclusioni e lui non amava mentire, al massimo era meglio argomentare con qualche sterile teoria da psicologo nullafacente.

In quel dato momento si rese conto che erano tutti vittime di uno stesso male: l’incapacità di comunicare i propri sentimenti e al con-tempo mossi da un ardente bisogno di un contatto umano.

Poteva negarlo a se stesso ?

Era un modo di vivere frustrante, sarebbe stato molto più semplice ammettere questi concetti per vivere meglio, ma nessuno aveva il co-raggio di ammettere i propri limiti quasi che fosse una colpa: proprio come lui.

Era un solitario, non perché lo volesse, ma perché non riusciva a dare quel che avrebbe voluto:non ne era capace.

Solo con alcune persone ben disposte riusciva ad aprirsi seppure difficoltà, mettendo un sacco di protezioni fra la sua fragilità e il mondo: questa sua tendenza all’isolamento lo accompagnava da sempre.

Ricordava tutti i tramonti goduti in solitaria meditazione quando ancora era ragazzo e la sua vita era in una Sicilia fresca e solare e non in una fredda e nuvolosa città del nord Italia.

Riviveva nella sua mente e nel suo cuore le chete giornate ate col naso all’insù a guardare il cielo mentre diveniva del colore della spiaggia quando sopraggiungevano le nubi dello scirocco tra le quali giocava a nascondino un sole lattescente.

Quell’atmosfera un pò ovattata, il cui silenzio era rotto solo dal ritmico rincorrersi delle onde del mare che carezzavano le rive sabbiose, lo faceva sentire come dentro ad un grembo materno in cui i rumori sono soffocati ma costituiscono la prima melodia di cui un bambino si trova a godere.

Il paesaggio, poi, aveva un aspetto singolare e quasi cinematografico, in particolare notava quanto straordinariamente i con-torni del paesaggio si fondessero con quelli del cielo al punto che non fosse possibile dire dove finisse l’uno e cominciasse l’altro e quanto spettacolari fossero i contrasti cromatici delle alghe cariche di verde che venivano scaricate su dei piccoli faraglioni e si stagliavano vittoriose contro il cielo.

Lui in quella straordinaria atmosfera in cui parlava solo la natura, conversava spesso con le entità invisibili che animavano il paesaggio.

Era un dialogo fatto di sentimenti e emozioni inespresse cui il più delle volte seguiva uno stato di commozione, nel quale le lacrime si sperdevano nel vento e costituivano il suo dono personale alle forze della natura che lo avevano omaggiato di un tale spettacolo.

Tornò al suo presente e alla sua presenza in mezzo a quella bolgia per rendersi conto che lì non poteva trovare né pace, né dialogo.

Non oggi - pensò.

Capì che il trovarsi in quel posto in quel preciso giorno fosse a causa del suo desiderio di darsi un’opportunità di riscatto prima di giungere con tutti i suoi rimpianti nella fossa.

Era anche una sorta di prova del nove per verificare fino a dove si spingesse l’affetto dei suoi cari inservienti e quanto invece fosse una cordialità di facciata.

Sperava che essi si sarebbero sforzati di essere presenti nel dialogare con lui sia pure in mezzo a quella ressa, sormontati dalle più disparate richieste dei clienti altrettanto insofferenti del dover aspettare.

Allora si che si sarebbe potuto definire affetto e sarebbe stato certo di avere con loro un rapporto speciale e privilegiato.

Non era interessato tanto al prendere qualcosa e neppure alle quantità.

Fosse stato per lui si sarebbe limitato a parlare semplicemente proprio come si fa tra buoni amici quando ci si incontra piuttosto che obbligarsi a comprar qualcosa che non gli serviva per comprare la loro attenzione.

In cuor suo sperava di essere amato e apprezzato per quello che aveva da dare invece di esserlo per quello che aveva da prendere.

Si fece forza confidando nella benevolenza che si era sprigionata dalle parole al suo cuore fin dai precedenti incontri.

Si avvicinò ai banconi rassicurandosi che quei tre uomini, che potevano anche essergli come dei figli sebbene lui non avesse mai sperimentato la paternità, lo avrebbero accolto con più di un sorriso di affetto.

Padre - pensò con dolore - forse la sola cosa che avrebbe dato importanza alla mia vita.

Eliminò quel segno di debolezza emotiva dalla sua mente e si fece coraggio.

D’altro canto riteneva se stesso un rassicurante faro in mezzo a tutta quella tormenta di gente acida, falsa e insofferente.

E così doveva apparire.

Fissò per un pò le persone che, ordinavano con voce altezzosa, con fare

arrogante, spesso senza alzare gli occhi dai prodotti, mostrando indifferenza.

Gesti che denotavano un atteggiamento di superiorità e di disprezzo verso l’altro.

Era contento di essere li adesso perché consapevole di poterli liberare dal peso del disprezzo, di quella fastidiosa sensazione di sentirsi mal giudicati, nudi e derisi da gente che non aveva niente in più di cui vantarsi.

A parte i soldi - fece una smorfia.

Li avrebbe rasserenati e distratti con le sue chiacchiere e coi suoi sorrisi che sapevano di buono e avrebbe saputo ascoltarli e leggere fra le righe i loro discorsi per recepire ogni eventuale richiesta di aiuto.

III

“Prego?”

Chiese la donna mostrando un sorriso compiaciuto e comionevole di fronte a quello che le appariva come un uomo vecchio e marcio.

“Dov’è Carlo?” - lui era in preda al disorientamento.

Avrebbe dovuto trovarsi di fronte un uomo invece che una donna.

“Beh oggi è la sua giornata di riposo” - si limitò a rispondere lei con l’aria indifferente e un po’ scocciata di chi è ansioso di ritornare ai propri compiti.

Gli sembrava quasi che cercasse qualcuno fra la folla.

Si voltò per intercettare il suo sguardo e vide che, in effetti, c’era dietro di lui una coda che gli faceva capire che non era certo il momento di mettersi a discutere con quella donna a meno di non voler esasperare gli animi di coloro che avevano la fretta e l’impazienza dei ritardatari.

“Riposo?” - ripeté meccanicamente la frase, quasi balbettando, non sapendo come venirne fuori.

“Si.”

L’inserviente era decisa a tagliare corto mostrando sempre il sorriso assurdo di chi si finge a completa disposizione dell’interlocutore ma in realtà preferirebbe essere altrove.

Ogni Sabato ha il turno di riposo, gliel’ho detto.”

Era alquanto infastidita dalla sua presenza, ma lui non sapeva spiegarsi il perchè.

“Allora in cosa posso servirla?” - insistè.

Non si era mai sentito così imbarazzato, soprattutto perché tutto di fronte a tanta gente della quale percepiva l’insofferenza nei suoi confronti.

Ancora un'altra frase e si sarebbe potuto aspettare qualche improperio da coloro che stavano dietro di lui.

“Solo due rosette, per piacere.”

Fece una richiesta qualsiasi anche per evitare di andarsene a mani vuote, nel qual caso si sarebbe sentito gli sguardi feroci degli altri clienti puntati sulla sua schiena come dei mitra.

Il senso di vergogna lo aveva fatto sudare copiosamente e gli aveva fatto arrossare le gote, si sentiva completamente nudo e questa sua incapacità di celare le sue emozioni al mondo diventava ulteriore fonte di imbarazzo.

Si disprezzava profondamente per questo.

“Grazie” - disse pagando senza alzare gli occhi.

“Prego” - rispose la donna, che gli diede il resto come fosse ele-mosina.

Si avviò mestamente al bancone dei salumi.

Intendeva rilanciare la sorte come un giocatore di dadi che non intende darsi per vinto anche di fronte ad una serata sfortunata, ma quando vi giunse vide con dispiacere e preoccupazione la lunga coda che si era formata.

Non era mai stato uso a cercare mezzucci per superare situazioni difficili ma stavolta decise di approfittare della sua anzianità per riuscire a are avanti.

Si avvicinò alla fila e chiese gentilmente di poter saltare il turno recitando un po’ ed esagerando sui suoi malanni, ma qualcuno gli rispose in modo piccato.

“Tutti aspettiamo, impari ad aspettare anche lei” - si levò una voce dalla fila a cui seguì qualche mormorio.

Tutto quell’astio che trapelava dalle parole e dagli sguardi lo mise ulteriormente in imbarazzo.

Se avesse saputo prima la reazione alla sua richiesta, per quanto gli sembrava esagerata e dettata piuttosto dalla frustrazione che rivolta direttamente a lui, non si sarebbe mai sognato di provare un simile approccio.

Provava una certa rabbia nell’essere trattato così male, con assoluto disprezzo, soprattutto perché si sentiva trattato come l’incallito furbastro di cui le persone non sopportano più i reati tentativi di fregare il prossimo, mentre lui era sempre stato educato e rispettoso delle regole.

Mentre continuava a pensare anche altri clienti in fila pensarono che fosse il caso di dare man forte a quella voce che s’era levata contro di lui giusto per assicurarsi che l’ordine venisse preservato.

“Solo perché è anziano, ci vuol prendere in giro” - disse qualcuno.

“Siamo tutti in coda” - ribadì qualcun altro e infine altri obiettarono che era ora che la fila si muovesse.

Altro che aggiungere un altro minuto di attesa!

Tutta l’aggressività latente che quel gruppo di persone gli vomitò addosso lo convinse che era meglio desistere ed allontanarsi.

Mentre andava via, guardò Giovanni il salumiere con uno sguardo supplichevole, in cerca di un aiuto o di un’assoluzione davanti a quella folla.

Cercava un amico in lui che potesse tirarlo fuori dai guai. “Si metta in fila per cortesia, così fa perdere tempo a tutti” - fu la sentenza del salumiere.

Quella frase fu tutto quello che volle comunicargli quell’uomo i occhi mostravano compiacimento.

Perchè questo livore? - si domandò - sono davvero così di peso per chiunque?

Lo fissò mortificato, era mortalmente ferito dal quel gesto di indifferenza e di cattiveria gratuita.

Si erano parlati tante volte, avevano scherzato e sorriso ma ora c’era più altro che un rapporto formale.

Si prostrò di fronte agli altri andando a mettersi all’ultimo posto restando in silenzio nell’attesa di essere dimenticato; poi senza dare nell’occhio lasciò la fila per andare via.

Non si sarebbe fatto servire nulla da quell’uomo che lo aveva tradito con assoluta facilità.

Si diresse deciso verso il banco dei formaggi.

Non voleva dare a vedere il timore che si faceva ogni attimo più quasi al punto da indurlo a desistere, ma ora che era li pensava che non avrebbe dovuto rinunciare e fare un ultimo tentativo anche se questo significava bere ostinatamente l’amaro calice che gli si prospettava.

Voleva verificare di avere ancora almeno un amico in quel posto.

Guido era un uomo tarchiato, dalle folte sopracciglia e con degli occhiali vistosi ma, nonostante questo, non appariva davvero rozzo, quanto invece ben curato nell’aspetto.

Era sicuramente l’unico dei tre inservienti al quale piaceva dav-vero il lavoro che faceva, d’altronde un sardo come lui abituato alla campagna non poteva non amare il formaggio.

Lui ne era persuaso perché Guido amava sempre ripetere la stessa frase.

“La pastorizia in Sardegna è un’arte immutata, mica come qui in Lombardia dove tutto è preconfezionato, prefabbricato e già pronto da buttare.”

S’interrompeva come se cercasse il filo del suo discorso.

“Tutto pre e qualcosa.”

Concludeva le sue frasi sempre allo stesso modo.

Guido viveva a Milano da 12 anni ma attraverso quel prefisso lui la disprezzava con tutto il cuore perché non gli andava giù quello stile tipicamente nordico dell’usa e getta che si rifletteva anche nei giudizi della gente e in particolar modo dell’idea che avevano di lui, catalogato e bollato come umile lavoratore proveniente dalla campagna in una guerra combattuta a furia di luoghi comuni.

Questo lo faceva sentire frustrato ed impotente nei suoi sforzi di apparire diverso da com’era visto.

Per questo trovava Guido caratterialmente simile a lui e nei suoi confronti nutriva una solida empatia.

Tuttavia diversamente da lui, Guido si era comunque ambientato in qualche modo e si era fatto delle amicizie.

Ma non voleva parlare di tutte queste cose, voleva solo guardare il solito sorriso stampato sulla faccia del suo amico, almeno sperava di poterlo considerarlo tale.

I discorsetti sulla Sardegna e sulla cantilena dei suoi “pre e qualcosa” li avrebbe lasciati per un’altra occasione.

Preferiva non creare l’occasione per avere dissapori anche con lui altrimenti in quel posto sarebbe diventato come uno straniero.

Si salutarono, ma lo sguardo di Guido non incontrò mai il suo, sembrava freddo nei modo di salutare e come se avesse una certa fretta anche se conservava la sua classica tirata di naso.

Quella mattina, però, c’era qualcosa di diverso nella ritualità dei gesti e lui se ne accorse e ne fu fulminato, capiva che Guido era seriamente influenzato e che per la sua infausta gioia sarebbe certamente stato poco lucido e piuttosto indolente.

Avrebbe reagito in modo abbastanza infastidito a qualunque tentativo di dibattito.

Pensava che un sardo come lui, infastidito, era una persona assolutamente intrattabile, peggio di una zitella col ciclo, e riteneva perse in partenza le speranze di condurre con lui una piacevole e vivace conversazione.

Era alquanto sconsolato per com’erano andate le cose nei banconi a cui s’era avvicinato e sembrava che in quel frangente valesse il proverbio “non c’è due senza tre”.

Non voleva certo che il loro rapporto di conoscenza venisse distrutto da un banalissimo raffreddore per cui il buonsenso gli avrebbe dovuto imporre di prendere solo ciò che gli serviva evitando ulteriori confronti verbali.

Dall’altro lato, però, non voleva credere che il loro legame fosse così fragile da incrinarsi per un banalissimo raffreddore.

“Che hai? stai male? Sembri pallido” - disse sperando di non apparire strafottente. Era evidente a chiunque si soffermasse a guardarlo che fosse raffreddato, voleva solo attaccare bottone.

“Zono ravvreddado, non zi zende?” - rispose col tono un pò infastidito di chi si sente oggetto di scherno.

“Già, scusa” - fece una pausa, non aveva affatto iniziato col piede giusto.

“lo sento eccome, ma ti senti del muco nei polmoni?” - chiese.

Cercò di sdrammatizzare sorridendo lievemente, sperava di apparire sinceramente interessato.

“Zcuzi.”

Gesticolò alla ricerca di un fazzoletto.

“Dod bi ero aggordo ghe mi golava il dazo.”

Aveva una sincerità disarmante e faceva quasi tenerezza al punto che lui si sentiva inibito nel continuare a parlare.

Si rendeva conto che gli veniva già faticoso concentrarsi a lavora re, figurarsi essere obbligato anche a parlare.

Provò ugualmente ad abbozzare un discorso, aveva assoluta-mente bisogno del calore di un amico.

“Sai non so ancora se credere a quel che hanno detto alla tv iersera.”

“Ah zi?”

Rispose con noncuranza soffiandosi ancora il naso, evidentemente la sua testa era concentrata su altro, poi andò nello stanzino retrostante per lavarsi le mani scusandosi ancora.

Lui sentiva salire dentro di se un certo nervosismo, un’isteria che cercava di reprimere, aveva lo stomaco in subbuglio come se avesse mangiato pesante.

Le nevrosi giocavano gran brutti scherzi a chi ne soffriva e lui non era immune.

Quando Guido riapparve non erano più da soli, ma era sopraggiunta una signora bassa e coi capelli rossicci.

Indossava un tailleur di un rosa molto carico e lui pensava che sembrasse una

fragola gigante, aveva dei seni prosperosi ed era formosa, forse troppo secondo i suoi canoni.

Invece la donna sembrò attirare l’attenzione di Guido il quale, per quanto raffreddato, sembro rianimarsi alla vista di quel seno che sembrava sul punto di far esplodere i bottoni della camicetta bianca, probabilmente messa fuori stagione al solo scopo di attrarre gli sguardi.

“Azpedda ud addibo.”

Gli intimò accingendosi a servire prima la signora.

Questa reazione non gli avrebbe creato alcun disagio in un altro frangente in quanto entrambi si sarebbero liberati di una scomoda ascoltatrice e avrebbero potuto continuare la loro conversazione privata in santa pace.

Ma ormai lui ne aveva abbastanza di trascorrere altro tempo in quel supermercato inoltre coglieva anche il particolare modo in cui Guido la guardava.

Quella mattinata era foriera di rimpianti per le delusioni patite e quella di sentirsi messo da parte da uno che voleva solo fare colpo su una sconosciuta era solo l’ultima in ordine di tempo.

Era seccato, anzi furioso per non essere stato trattato da cliente, ma messo da parte come una inutile seccatura.

Non aveva più senso restare ancora un po’ con Guido cercando di pazientare finchè la signora non avesse finito, era chiaro che a lui piaceva fare le cose con calma allo scopo di restare con la donna più tempo possibile.

Vedendo che sopraggiungevano altre persone, decise che era il momento di concludere quella orribile mattinata pentendosi di non essere rimasto a casa invece di dover lottare col clima e con se stesso per nulla.

Si congedò garbatamente.

“Torno subito.” - pronunciò a bassa voce, ma il raffreddato Guido non si accorse nemmeno della sua frase o della sua assenza e continuò a flirtare incurante del suo raffreddore.

IV

Uscì dal supermercato cercando di non dare nell’occhio, in particolare non voleva lasciar trasparire la sua delusione, non voleva in alcun modo che la gente lo vedesse come un uomo triste: non voleva essere compatito.

Si allontanò dalla porta a vetri e pensò che non gli era parsa mai così arida, del resto l’intera struttura gli dava un senso di squallore.

Tirò un sospiro di sollievo solo quando si sentì sufficientemente lon-tano, fu quasi come sentirsi uno scampato ad una tragedia e provò questo senso di liberazione anche perché non doveva più fare i conti col vento che nel frattempo era cessato.

Tuttavia sentiva che dentro di sé qualcosa si era spezzato, era stato umiliato, calpestato, dimenticato e viveva queste sensazioni come una sorta di morte spirituale.

Era sempre stato un guerriero ma si sentiva improvvisamente e irrimediabilmente indebolito, trattato come il perdente che era sempre stato.

Era ben conscio che tutta la sua insignificante esistenza si era sempre impegnata a mostragli la sua inutilità ed ora era troppo vecchio e stanco per continuare a lottare nel vano tentativo di dimostrare il contrario.

Quel giorno aveva rappresentato per lui il degno coronamento di una vita ata tra fallimenti e rinunce e probabilmente, era stato l’ultimo segno che Dio gli aveva mandato per aprire definitivamente gli occhi su quanto era stato incapace

prima di chiudergli gli occhi per sempre.

Il suo incedere si era fatto molto più tranquillo grazie alla presa coscienza della realtà dei fatti, sebbene sentisse a livello viscerale un certo turgore da imputare alle frustrazioni patite, ormai sapeva di non avere più nulla da perdere.

Aveva raggiunto il suo abisso.

Ora che il vento si era calmato poteva anche osservare l’ambiente circostante e, vedendo rami abbattuti e oggetti sparsi lungo la strada, si rendeva conto delle difficoltà superate per arrivare fin li.

Forse non era stato così incapace come aveva pensato, ma aveva saputo lottare per qualcosa.

Tuttavia quel disordine esterno aveva una certa affinità col suo disordine interiore, così credeva.

Arrivò alla sua palazzina e vi entrò senza più curarsi dei dettagli, all’opposto di quando l’aveva lasciata.

Prese l’ascensore eseguendo movimenti meccanici come li fareb-be un sonnambulo e, giunto al suo piano, aprì la porta di casa scoprendo per la prima volta quanto fosse orribile l’ingresso: era sempre stato così, ma qualcosa era cambiato in lui e iniziava a vedere le cose in modo diverso.

L’odore acre del suo appartamento: erano dodici anni che lo inalava e non ci faceva caso.

Adesso invece era persino fastidioso.

Provava disgusto anche per quello e, se fosse stato un ospite, avrebbe giurato a se stesso che non avrebbe mai più messo piede in quella casa.

Si sentiva impotente per quel lezzo che gli saliva su per le narici ma non poteva fare a meno di respirare.

Era la stessa sensazione di impotenza che aveva provato al supermercato tentando di gestire le relazioni coi suoi conoscenti, la stessa impotenza che lo aveva perseguitato per tutta la vita.

A pranzo non avrebbe mangiato, perlomeno nulla di solido, ma si sarebbe limitato a prendere una bella tazza di cioccolata bollente che apprezzava particolarmente per la densità e la granulosità al palato.

Alla luce di una ritrovata saggezza gli riusciva di capire il perché del suo morboso attaccamento alla cioccolata e perché diventava più nevrotico e intollerante a mano che la cioccolata nella tazza si esauriva, fino a giungere a graffiare la tazza stessa col cucchiaino nel tentativo di raccoglie-re rabbiosamente le ultime gocce della bevanda che, attaccandosi allo smalto, non si lasciavano prendere.

Questa sua nevrosi acquisita con l’età dipendeva dall’incapacità di cogliere le giuste occasioni della vita, dagli sberleffi e dagli insulti subiti, dalle prevaricazioni alle quali non aveva potuto, o forse è meglio dire voluto, reagire.

A tutte queste cose ora tentava di porre un tardivo rimedio con comportamenti puerili come quello di accanirsi con la cioccolata.

Si sentiva davvero stupido soprattutto perché darsi una simile risposta per spiegare i suoi gesti era qualcosa che lo umiliava ancora una volta poiché.

Se davvero aveva capito la loro inutilità, queste reazioni puerili di-mostravano comunque che lui non sapeva ancora adottare dei comportamenti maturi ed in grado di dare una svolta agli eventi della sua vita.

Cercò di non pensare più a quella stupida tazza di cioccolata e si concentrò sul suo ato.

Voleva rivedere la propria vita tentando di visualizzare nella mente le occasioni che avrebbe dovuto raccogliere con la stessa avidità delle gocce di cioccolato sulla tazza: era un parallelismo che lui trovava romantico.

Cominciò dal ato più recente e si rese subito conto che, an-che al supermercato proprio quella mattina, aveva perso delle occa-sioni.

Di questo non se ne rammaricava più di tanto perché in ogni caso aveva provato a curare i rapporti con quei tre conoscenti con la stessa dedizione per le piante di

un giardiniere.

Certamente si sentiva troppo categorico e pieno di pregiudizi nel suo modo di inquadrare le persone.

Di solito una volta valutata una persona secondo la sua scala di valori difficilmente questa avrebbe potuto indurlo a modificare la sua opinione nei suoi confronti e, a sua memoria, non ricordava che fosse mai capitato.

Osservò con un certo distacco il convulso avvicendarsi nella sua vita di conoscenti e sconosciuti che, in talune occasioni, gli avevano procurato un certo panico proprio perché avevano ingannato il suo giudizio: d’al-tronde il mondo esterno non era perfetto come quello nella sua mente.

Ora non provava più vergogna per l’umiliante trattamento ricevuto al supermercato, non si sentiva poi così deluso perché alla fine tutto quello che aveva perduto era solo un barlume di rapporto umano, una semplice e breve chiacchierata per distrarsi.

Era sempre libero di andare da qualche altra parte, alla ricerca di qualcosa di più di quel che era riuscito a strappare dalle persone incontrate finora: quantunque sul suo ato fosse necessario stendere un velo pietoso, il suo futuro non era ancora interamente scritto.

Sulla base di queste ultime considerazioni fece tacere improvvisa-mente tutti i suoi pensieri e si guardò attorno immerso in un silenzio com-posto, quasi funerario.

Si guardò le mani, scabre e raggrinzite e con vistose macchie di

vecchiaia ed a quella visione gli si bagnarono gli occhi.

Era un dolore che non poteva più essere trattenuto, ricordava quando un tempo quelle mani erano state giovani e morbide, quando erano state in grado di trasmettere forza e sicurezza, ma soprattutto amore incondizionato.

Amava pensare di essere stato capace di amare davvero.

Ora queste sensazioni, che a suo tempo gli avevano procurato be-nessere ma alle quali non aveva dato il giusto valore illudendosi di restare giovane per sempre, gli mancavano come l’acqua per un asse-tato.

Si era sentito un re in gioventù.

Ma ora il re era morente e la sua coscienza lo condannava ad abdicare al silenzio dell’oblio.

Era solo un vecchio abbandonato a se stesso e senza veri amici, i quali avevano dovuto e voluto farsi una vita ben più concreta della sua raggiungendo le più disparate posizioni sociali e occupandosi delle loro famiglie.

Lui era un fallito e dall’alto dei suoi sessant’anni sentiva il peso di una vita aggrovigliata di fallimenti.

Senza una famiglia, dei figli o dei nipoti, tirava a campare in soli-tudine con la sua pensione sociale e sarebbe andato avanti così fino a che avrebbe avuto le forze per essere autosufficiente.

E poi?

Sapeva che ben presto anche quelle ultime residue forze lo avreb-bero abbandonato e allora il suo destino sarebbe stato quello di lasciarsi morire in un letto.

Sicuramente il suo cadavere sarebbe stato scoperto dopo alcuni

giorni perché qualche vicino, infastidito dal tanfo della decompo-sizione, avrebbe chiamato le forze dell’ordine e così sarebbe perfino stato assunto agli onori della cronaca locale.

Catalogato come anziano abbandonato - pensò serrando i denti – che morte infame.

Lo stesso senso di inutilità lo aveva accompagnato anche nel mondo del lavoro nel quale, fra l’altro, non si era mai mostrato ambizioso pur avendo avuto dalla sua intelligenza e spirito d’intuizione.

Si era ritrovato infine a barcamenarsi con lavoretti semplici e poco gratificanti che pure svolgeva con minuzia e con la proverbiale pigno-leria che lo contraddistingueva, cambiando spesso occupazioni e cos-truendosi una precarietà che non lo aveva aiutato per la vecchiaia.

Aveva sempre lavorato per mantenersi con lo stretto necessario e questo atteggiamento gli aveva precluso tutte le occasioni per tentare un’arrampicata sociale, inoltre, la sua remissività lo aveva indotto ad accettare lavori in nero precludendosi per questo i contributi necessari ad una pensione più dignitosa.

Adesso sentiva pressante la necessità di assumersi tutte le respon-sabilità a cui aveva volentieri rinunciato nel ato, se non altro per provare a se stesso che i suoi ideali e i suoi discorsi non erano stati frutto di un modo di vivere ipocrita.

Aveva sempre covato un infantile desiderio di portare pace, amore e ragionevolezza nel mondo, almeno nei luoghi della sua giovi-nezza.

Ma non si era mai ispirato a Cristo, a Buddha o a Gandhi: il suo modo di vedere la pace era stato sempre tutt’altro che pacifista.

Aveva sempre ritenuto che questi tentativi fossero tutti destinati al fallimento perché era la gente a doversi adeguare a idee preconcette di pace e non viceversa secondo le necessità del caso e lo dimostrava il fatto che prima o poi questi “santoni” venivano traditi o abbandonati al loro destino.

Vedeva in loro il fallimento del messaggio stesso alla lunga.

Piuttosto lui preferiva recitare con le persone la parte del buon Iago di Shakespeariana memoria, parlando cioè, di volta in volta nelle orecchie degli ingiuriosi, degli iracondi e dei malvagi in genere al fine di dissuaderli dal compiere delle azioni malevole, ben diversamente dal personaggio delle tragedie, e spronarli a fare il bene al prossimo o quello che lui intendeva come bene.

Li avrebbe dissuasi dalla vendetta con una logica convincente, inducendoli a vedere in quella sua idea di bene anche un certo tornaconto personale in modo da far apparire conveniente ai loro occhi anche un sacrificio disinteressato.

Era persuaso che la stragrande maggioranza della gente fosse stupida, miope e mossa solo dall’attaccamento alle cose materiali per cui, mostrando che si poteva con un certo comportamento far leva anche sulla gratitudine per ottenere successivamente vantaggi di tipo materiale, li spronava alla bontà come mezzo per conquistargli favori presso coloro che beneficiavano della loro magnanimità.

La sua dialettica gli consentiva di conquistarsi gli animi con la persuasione delle belle parole.

A volte bastava usare un vocaboli altisonanti senza curarsi del fat-to che, ad un ascoltatore sufficientemente intelligente, il suo discorso sarebbe apparso senza capo né coda.

Ma le persone comuni amavano essere adulate e finivano per sposare qualunque logica le mettesse in condizione di godere il più a lungo possibile di quell’adulazione.

Un simile approccio avrebbe dovuto rendergli la vita facile e la gente avrebbe dovuto pendere dalle sue labbra.

Al contrario la realtà della vita gli era sempre stata ostile ed inve-ce di farsi asservire dalla gente aveva finito lui per servire gli altri che lo avevano utilizzato per ricevere consigli e suggerimenti per quello che ne-cessitavano.

Poi l’avevano lasciato in balia del turbinio degli eventi con buona pace delle belle parole spese a far capire che il perdono e la mano tesa nei confronti del colpevole era la peggiore e più umiliante vendetta.

A lui era toccata solo l’indifferenza come ricompensa per i suoi buoni servigi.

Chi è stato il vero stupido in questa vita? - sapeva la risposta.

Di fronte a questo, però, non si era mai tirato indietro tentando di accontentare tutte le richieste, anche quelle più superficiali dei cosiddetti falsi amici, dai quali sapeva bene ancor prima di esaudirle che non avrebbe avuto la minima gratitudine.

S’adoperava sempre e comunque sperando che avvenisse un miracolo nelle coscienze e che si aprisse una breccia in cui insinuare la propria morale.

Alla lunga però questo altruismo gli era stato fatale, rovinandogli tutte le speranze di una vita organizzata e resa felice dagli affetti a cui teneva.

Si era comportato come un cacciatore di chimere anche se il paragone che gli piaceva di più era quello di un bambino che, inseguendo una farfalla nel tentativo di prenderla usando troppa forza arrivava ad ucciderla e a piangerne la morte.

Lui era quel bambino e sapeva che sarebbe morto in solitudine di li a poco.

Mentre lavava i piatti della sera prima ripensò alle parole di sua madre.

“E’ il mio gioiello.”

Glielo aveva ripetuto spesso per fargli capire quanto lo amava, ma allora era piccolo e a certi gesti d’amore non aveva dato la giusta importanza, li aveva dati per scontati perché li aveva tutti i giorni.

In certe occasioni lo avevano anche nauseato.

Pensava soltanto al suo mucchio di sogni da realizzare e si comportava con l’arroganza di un Dio per il quale essere amato è un obbligo per le sue creature.

Ora invece si scherniva e pensava che, se sua madre fosse stata li adesso, avrebbe riso di lui, di quel figlio ridotto ad una vecchiaia molto triste, senza affetti, con un carico di lavoro eccessivo sulle spalle e costretto a provvedersi di ogni cosa indipendentemente dal suo stato di salute.

Sarebbe certamente rimasta delusa nel vedere che l’amore che lei aveva profuso in quantità non aveva permeato la vita del figlio, forse avrebbe pensato che tutto quell’amore era stato immeritato.

Avrebbe avuto ragione a pensarla così.

Nonostante tutto, dentro di se sapeva che sua madre non era lui e non avrebbe mai accettato di amarlo di meno.

L’amore è dono perchè nessuno lo merita - gli avrebbe risposto.

Era stanco e senza nessuno su cui potersi appoggiare, così, decise di mettersi a letto anche per dare un pò di conforto alla sua povera schiena peraltro già molto provata dall’inizio della giornata.

Era sicuro che avrebbe dormito per tutto il pomeriggio e, probabilmente, anche tutta la notte.

Come si stese mentre la sua mente autonomamente cominciò a vagare per quel supermercato rivivendo gli eventi della mattinata, la sensazione di inadeguatezza e il suo comportamento goffo e stupido.

Immaginava che agli occhi della gente doveva esser sembrato come un tentativo mal riuscito di comicità, un clown incapace di far ridere quanto piuttosto istigante alla pietà.

Mentre il sonno gli toglieva lucidità lui ricadeva nella disperazione.

Aveva sempre lottato contro un mondo che non comprendeva e

dal quale non si era sentito compreso o accettato

Un mondo che al massimo si era servito di lui.

Sperava che il sipario sulla sua vita sarebbe calato al più presto perché preferiva la morte piuttosto che quei pensieri angosciosi.

V

Si risvegliò il mattino presto del giorno seguente.

Capì che aveva dormito tanto proprio dal fatto che era troppo buio rispetto all’ora segnata sulla sveglia, le cinque esatte.

Se fosse stato pomeriggio, dato che era fine Febbraio, dalle fine-stre sarebbe dovuta entrare ancora abbastanza luce, per cui in assenza di guasti alla sveglia doveva pensare che aveva dormito per oltre quindici ore.

Non aveva mai dormito così tanto e non se n’era nemmeno reso conto.

Era intontito per aver dormito per così tanto tempo e sarebbe rimasto ancora a letto nella sua prova generale di sonno eterno dato che non si sentiva per nulla capace di fare alcunchè, ma decise di dar fondo a tutta la sua forza di volontà.

Se non voleva cadere in un’apatia senza rimedio doveva alzarsi quanto prima e scrollarsi di dosso quel torpore.

Scelse comunque di concedersi altri cinque minuti per darsi la carica necessaria restando fermo e premendo leggermente l’indice e il pollice alle estremità delle sue palpebre socchiuse.

Quel tocco lieve gli dava una bella sensazione di calore e confor-to, quasi materno, che gli provocava dei brividi in tutto il corpo.

La sua attenzione poi fu richiamata da uno scroscio provenire dal-l’esterno.

Pioveva probabilmente molto forte e sicuramente il vento del gior-no prima era la causa di quel cambiamento climatico.

Se lo ricordava bene quel vento, perché ancora si sentiva spossato e indolenzito per aver messo a dura prova il suo fisico.

Probabilmente era quella la causa del suo sonno così profondo e prolungato.

Si affacciò alla finestra per guardare e notò che la pioggia era molto fitta e insistente e batteva sul vetro come a formare delle piccole onde che, dall’alto, scendevano copiose fino alla base marmorea del piccolo davanzale.

Tutta questa acqua contribuiva a rendere il panorama notturno di una monotonia latente, con le nuvole che si fondevano senza soluzione di continuità con qualunque luce del paesaggio.

C’erano alcuni dettagli in quell’oscurità che gli ricordavano certi spettacoli offerti dalla sua Sicilia, tuttavia anche il grigiore di certe albe nella sua terra non dava quel senso di desolazione col quale adesso doveva convivere.

Nella sua terra aveva sempre scorto un qualcosa di vitale che ren-deva meno oziosa l’attesa di un miglioramento mentre in Lombardia, per quel che ne sapeva, quel cielo plumbeo e quella pioggia avrebbero potuto continuare anche

per giorni e giorni.

Quel clima pareva in sintonia col suo decadimento e la cosa lo irri-tava, avrebbe voluto godere almeno di un po’ di sole prima di morire.

Se sulla sua vita inconcludente stava per calare il sipario avrebbe voluto almeno riabilitarsi in qualche modo prima di morire.

Voleva essere in pace con la sua coscienza e in quel momento sentiva di essere tutt’altro che sulla strada giusta.

Voleva essere ricordato da qualcuno.

Voleva che la morte gli desse dignità invece di un terrore dovuto allo sconforto di non essere vissuto.

Aveva maturato queste idee probabilmente mentre dormiva ma non sapeva dire esattamente quando, nè come o perché.

L’unica cosa di cui si sentiva sicuro era quella ritrovata determina-zione a darsi un’altra possibilità, forse l’ultima, di essere l’uomo che ave-va sempre desiderato: l’eroe che sapeva sempre cos’era giusto e che lottava indomito per i suoi sogni e per i suoi ideali.

Ma soprattutto il campione che vinceva ogni guerra.

Voleva realizzare sé stesso tanto più apionatamente ora che

sentiva incombere la morte.

Ambiva senza tentennamenti alla redenzione della sua coscienza perché non tollerava più una morte piena di rimpianti e avrebbe fatto carte false per togliersi tutti i pesi e sentirsi finalmente in pace.

Se doveva cominciare una vita eterna voleva che almeno quella fosse scevra dai sensi di colpa che lo avevano accompagnato in quella vissuta fin lì.

Della stima o della condanna con cui il mondo avrebbe salutato la sua dipartita non gli importava granché e, d’altronde, non aveva più altri interessi se non sé stesso.

Aveva aiutato tante, troppe persone senza pretendere nulla per sé, non ne ricordava nemmeno il numero.

Lo aveva fatto per il piacere di aiutarle a ritrovare il sorriso, a volte sacrificando irrimediabilmente i suoi sogni, ma nessuno di loro, una volta ritrovato il proprio benessere, si era ricordato di lui.

Nemmeno lei.

Ebbe un sussulto quando si ritrovò a recriminare sulla donna che aveva amato più di ogni cosa.

Quando aveva iniziato a dimenticarla? - si domandò.

Da ragazzo sognava il suo futuro con lei ed era consapevole che lei faceva altrettanto.

Avevano entrambi la certezza di essere predestinati e di essere stati creati da un qualche Dio per essere indissolubilmente legati l’uno all’altra.

Poi un fato invidioso li aveva separati per sempre condannandoli ad un’esistenza incompleta.

Ma tutto questo faceva ormai parte di un ato che non poteva più essere modificato.

Un ato fatto di rinunce, di rese, di feste ate da solo come fossero funerali e animate da assoluto sconforto.

Poteva agire solo sul presente e fare in modo, con la stessa ostinazione che aveva in gioventù, che il futuro, quel pò di futuro che ancora gli restava, fosse sostanzialmente diverso dal ato.

Voleva piacersi e voleva poterselo dire con convinzione davanti ad uno specchio.

“Sono grande” - avrebbe voluto ripetersi in tante occasioni, ma avendole fallite non aveva di che vantarsi.

Forse non aveva saputo, più che potuto, dare una svolta alla sua vita.

Adesso si ripiombava nel panico perché all’euforia si era sostituita la paura di non sapere come dare un taglio alla sua vita precedente.

Rimase immobile in silenzio per un momento a riflettere, consape-vole che farsi prendere dalle sue paure per l’ennesima volta non avrebbe certo contribuito a migliorare il suo stato.

Comprese che doveva muoversi, doveva fare qualcosa, qualun-que cosa, se voleva ancora un’occasione dal suo destino sicuramente non l’avrebbe avuta restando in casa immobile.

Decise che sarebbe uscito.

Andrò dove mi porta il destino - pensò ridendoci sopra.

Poi si ricordò che prima avrebbe dovuto guardare la posta perché era da qualche mattina che non controllava la sua cassetta delle lettere e, forse, il suo destino avrebbe potuto cambiare piega proprio attraverso una lettera.

Andò giù, nell’androne, sentendo addosso una sorta di eccitazione.

Era quasi come se si aspettasse qualcosa di importante, aveva una sorta di presentimento.

Per scendere non prese nemmeno l’ascensore, non voleva aspettare, scese le scale due gradini alla volta come un bambino felice e incosciente di poter inciampare.

Era scarmigliato e semi svestito, ma poco gli importava se fosse stato visto da altri condomini in quelle condizioni.

Aprì la sua cassetta delle lettere e vi infilò la mano andando a presa sicura.

“Bingo” - esclamò tutto contento.

Estrasse una lettera giallastra e un po’ sgualcita.

Si sentiva miracolato per quella sorta di preveggenza che gli ave-va ridato speranza e fiducia.

Di solito, guardava sporadicamente la posta la quale peraltro era priva di una targhetta con il suo cognome.

Sapeva che, bollette a parte, i suoi amici più fidati erano tutti mor-ti e quanto agli altri era inutile dire che aveva perduto ogni speranza e interesse ad avere contatti con un ato che non meritava di essere ricordato.

Girò e rigirò la busta.

Poi guardandosi attorno, capì che era meglio ritornare sopra.

Non voleva condividere questa sua speranza di rinascita con qual-cuno che potesse covare il desiderio di spegnere sul nascere le sue gioie per invidia.

Corse su per i gradini con la stessa grinta con cui era disceso.

Non sembrava più un vecchio in procinto di tirare le cuoia quanto piuttosto un bambino che, dopo aver ricevuto il regalo tanto sospirato, cerca con foga un posto tranquillo dove scartarlo in santa pace.

L’ansia di aprirla se lo stava letteralmente mangiando vivo.

Non aveva mai provato una simile sensazione in tutta la sua vita e

questo gli forniva ulteriore carica.

Aveva sempre ricordato con invidia i compleanni dei suoi amici d’infanzia perché vivevano quei momenti, l’apertura dei regali, con l’intensità che a lui era sempre stata negata.

Aveva sempre creduto che fosse per il numero e la qualità dei doni che ricevevano, ma ora sapeva che tutto ciò che aveva creduto era sbagliato e che la felicità dipende solo da dalla misura in cui le nostre aspettative vengono realizzate.

Capiva solo ora che lui sentiva di aver avuto solo i regali e le atten-zioni sbagliate.

Per lo stesso motivo odiava le carezze che i genitori dei suoi com-pagni facevano loro per il giorno del loro compleanno e di più odiava il fatto che loro si beavano di quell’amore.

Lui non aveva mai ricevuto carezze di quel tipo, né tanto meno frasi dolci e quindi poteva solo immaginare quel tipo di esternazione, l’effetto che gli avrebbe fatto ricevere l’amore che desiderava.

Invece aveva avuto solo l’amore di cui erano capaci i suoi genito-ri, un amore che non aveva mai corrisposto alle sue aspettative e per questo motivo era cresciuto come un infelice.

Arrivò al pianerottolo di casa, smise di pensare e si lasciò letteral-mente prendere dalla foga, violentando e strappando il lato della busta per tirare fuori la lettera.

Non aveva la minima idea di chi potesse essere il mittente perché su di essa non vi era, a parte il suo, alcun indirizzo e il bollo postale era piuttosto confuso, era una busta volgarmente anonima e schifosamente stropicciata.

Provava quasi ribrezzo nel tenerla in mano.

Chiunque gliel’avesse spedita avrebbe dovuto avere maggiori ri-guardi nel comunicargli qualcosa che poteva cambiargli la vita e cer-care di assicurarsi che il messaggio fosse giunto con sicurezza e in migliori condizioni.

Lesse subito il contenuto, la lettera iniziava in un tono molto for-male e quasi commerciale con un “Caro Sig.” e successivamente il suo cognome, come a stabilire immediatamente delle distanze.

Questo formalismo lo urtò abbastanza e quasi si sentì deluso dal-l’affidare i suoi sogni di riscatto al latore di questa missiva.

Stava riflettendo se continuare a leggere o meno quando l’occhio gli cadde sulla frase seguente.

“Sono il figlio della signora Marilena, per volontà testamentaria di mia madre le invio la presente per annunciarle la sua recente scompar-sa.”

Restò immobile con l’occhio fisso su quella frase mentre la sua mente vagava sbattuta in un vortice di ricordi.

Le sue labbra si schio e si misero a tremare.

Quella donna che lui prima aveva colpevolizzato non si era mai dimenticata del suo grande amore e nemmeno alla morte aveva permesso di separarli, si sentiva un verme per aver pensato al male nei suoi confronti.

Continuò a leggere.

“Desidero invitarla, se la cosa non la disturba, ospite nella mia resi-denza al fine di consegnarle alcuni suoi effetti personali ivi compreso un diario scritto di suo pugno, così come stabilito nelle sue ultime volontà, troverà allegato un biglietto aperto, mi faccia sapere il giorno e l’ora di arrivo per farla venire a prendere.”

Non riusciva più a leggere perché le lacrime gli sgorgavano copio-se e non c’era nulla che potesse fare per impedirlo.

Si trovava di fronte ad un fatto compiuto, ora sapeva che la sua Marilena, amava chiamarla Lena, non c’era più e in questa vita non avrebbe più avuto modo di vederla qualunque cosa avrebbe fatto per risorgere dalle sue ceneri.

Avrebbe voluto essere contattato per poterla vedere almeno un’ultima volta da viva e si chiedeva perché mai avevano voluto negargli perfino una telefonata, avrebbe viaggiato a sue spese pur di arrivare in tempo.

Per lei, per il suo perdono avrebbe fatto carte false.

Era persuaso che avevano voluto farlo apposta, dargli una punizio-ne del genere per vendicarsi di eventi che avrebbero dovuto essere sepolti col ato e per punire lui avevano fatto soffrire una volta di più quella donna che lo aveva tanto amato.

Al punto da rovinarsi la vita.

Ritrovò il contegno e riprese la lettura, vi era un post scriptum che

ancora non aveva letto.

“Qualora ve lo stiate domandando, mia madre ha espressamente richiesto che lei non fosse presente al suo capezzale nei suoi ultimi giorni, né ha voluto che la contattassimo per i funerali: del motivo di queste sue volontà non sono a conoscenza, le saranno spiegati nel suo diario e, se vorrà farmene partecipe, ne sarò lieto.”

La lettera si chiudeva con dei saluti ossequiosi nonché una serie di date e orari per gli eventuali treni da prendere.

Quello che gli interessava di più era capire perché la sua Lena non

lo avesse voluto vedere un’ultima volta, perché non avesse voluto la sua partecipazione.

Ormai non aveva scelta, aveva accettato la sfida della sua redenzione e non poteva far altro che continuare per quella strada.

Doveva ritornare nella sua terra e confrontarsi ancora una volta col suo ato, quel ato che in gioventù non aveva avuto le forze di contrastare e a causa del quale era dovuto andar via.

Come poteva ora che era vecchio e stanco lottare con più tenacia di quando era ragazzo?

Pensava che forse era il momento giusto per soccombere.

Arrivare nella sua terra e perdere anche l’ultima battaglia della sua vita ma almeno morire nella sua terra il più vicino possibile alla sua Lena.

Doveva partire il più presto possibile, anche l’indomani se riusciva a prepararsi.

Ormai era preda dell’agitazione e voleva assolutamente cono-scere tutti i segreti della sua donna e vedere com’era il figlio che aveva cresciuto, il figlio che avrebbe voluto da lei.

Era rimasto per tutta la lettura della missiva sul pianerottolo e se ne accorse solo nel momento in cui riemerse dai suoi pensieri, sapeva di essere abbigliato in maniera indecente e se ne vergognò.

Rientrò dentro velocemente prima che occhi indiscreti potessero vederlo, era meglio non tentare la buona sorte che fino a quel momento lo aveva riparato da brutte figure.

Era tempo di risorgere o di morire in pace.

VI

Il mattino seguente, di buon’ora, si era recato alla stazione per prendere il treno diretto alla capitale.

Da lì sarebbe giunto in Calabria e, attraverso il traghetto, sarebbe arrivato a Palermo.

Infine avrebbe concluso il suo viaggio con destinazione nel paese in cui aveva conosciuto l’amore e che, con la stessa noncuranza, lo aveva esiliato circa quarant’anni prima.

Ora si sentiva un ragazzo pieno di energie e con la sensazione di

essere alla scoperta del mondo tant’è che non aveva nemmeno chiuso occhio.

In quarant’ anni - pensava - saranno cambiate tante cose e di certo nessuno penserà più a vendicarsi di quel vecchio che un tempo era stato un giovane scapestrato.

Soprattutto perché la sua condanna, l’aver dovuto abbandonare il suo paese e perdere per sempre la donna della sua vita, avrebbero costituito per chiunque una punizione sufficiente.

Covava questa speranza di tranquillità perché desiderava poter congedarsi da Lena godendo, almeno per quella volta, del silenzio dovuto.

Desiderava una sorta di onore al merito agli sconfitti.

Poi, sperava che il suo ritorno asse in sordina perché l’artefice delle sue disgrazie, il suo persecutore, era morto da molti anni.

Tuttavia sapeva che l’odio è l’unico sentimento che riesce a tra-mandarsi di generazione in generazione.

Dunque poteva aspettarsi qualche colpo basso dagli eredi, più giovani e con più tempo ed energie per vendicare il torto subito dai loro avi.

Preferì tuttavia lasciare da parte queste considerazioni e concen-trarsi sul viaggio.

L’aria era frizzante e portava un presagio di primavera, Marzo si era fatto preannunciare vigorosamente, ben diversamente dal tempo dei giorni precedenti.

Tuttavia l’anticipo di primavera vissuto nel Milanese sapeva sem-pre molto di smog e non aveva nulla a che vedere con quello carico di profumi e di colori della sua meravigliosa terra.

Ah se non fosse per le persone che la abitano! - pensava tra sé.

Si era portato poca roba, il minimo indispensabile, perché sapeva che si sarebbe trattato di una trasferta lampo.

L’unica accortezza che aveva preso era stata di prendersi un bel librone di narrativa giusto per far are il tempo durante il viaggio anche se era convinto che il panorama mutevole goduto dal finestrino avrebbe rappresentato un racconto inedito molto più interessante.

Un racconto in cui il protagonista era proprio lui.

Sperava in cuor suo che alla fine di quel viaggio ci fosse un lieto

fine, probabilmente il primo di tutta la sua vita.

Cercò il binario di partenza del suo convoglio e osservò che la sta-zione non era sostanzialmente cambiata rispetto al suo arrivo molti anni prima.

Certo erano cambiati i negozi e i prodotti smerciati, ma riusciva ancora a sentire gli odori di quella città che lo aveva accolto con la stessa carità di un prete che dà ospitalità ad un profugo.

Avrebbe dovuto essere grato a quella gente eppure gli riusciva ancora difficile tollerarli, accettare il loro stile di vita.

Quando arrivò il treno salì su una delle carrozze di seconda classe e vi si

accomodò con la nonchalance di un abitué scegliendosi un posto accanto al finestrino proprio per poter osservare tutto quello che avveniva all’esterno.

Si sentiva come un bimbo alla scoperta del mondo e aveva sulla faccia lo stesso stupore di chi prova tutto per la prima volta ma non se ne vergognava affatto.

Pensava che se la gente avesse vissuto con la sua stessa sem-plicità avrebbe trovato una felicità duratura e a buon mercato.

Poteva vedere il tramestio delle persone intente ad armeggiare coi bagagli e a salutare i parenti sulla banchina.

Allungando un po’ lo sguardo, vide qualche binario più in là un altro treno ben più moderno e luccicante di quello su cui avrebbe viaggiato.

Posava le natiche su un treno vecchio e, probabilmente, stanco di quella vita quanto lui e la cosa lo fece sorridere.

Mai avrebbe pensato di provare affinità con un oggetto.

Probabilmente gli sarebbe pure mancato una volta sceso a Roma e questo lo immalinconiva.

Era stanco di perdere qualcuno o qualcosa nel suo peregrinare in questa vita e la causa di quelle sensazioni era il pallino di trovare sempre punti in comune tra sé

e il resto del mondo.

Cercò di pensare in termini diversi e ipotizzò l’invidia di quel vec-chio ammasso di lamiere nei confronti di quel treno ultramoderno fatto di plastiche e leghe leggere.

Ma la cosa non funzionò.

Voleva smettere di percepire l’invidia per ogni cosa.

Si rendeva conto che l’invidia era il peggiore dei mali dell’uomo e la bibbia stessa la citava come causa dell’entrata della morte nel mondo.

Che stupidaggini! - pensò.

Conscio delle sue falle mentali e del suo approccio negativo alle cose, aveva la sensazione che il treno volesse rattrappirsi sotto il suo sedere, farsi piccolo dalla vergogna per quello che lui provava fino quasi a sparire.

Come egli stesso aveva desiderato sparire quando si era trovato al supermercato.

“Mal comune, mezzo gaudio” - pensò riguardo alla vergogna attribuita al treno.

Allo stesso tempo, però, percepì che al di fuori di lui e del treno, regnava la superiorità del mondo immutabile, nel quale tutto sboccia, decade e poi rinasce sotto altre forme.

Il mondo è l’unica cosa che resta perenne - pensava - solo i detta-gli come le cose e gli esseri umani sono eggeri.

Questa consapevolezza gli tornava a provocargli al contempo nausea e invidia.

Soprattutto la prima proveniva da un senso di impotenza: avrebbe voluto decidere lui come andarsene da questo mondo, ma non aveva scelta.

Mentre era ancora immerso nei suoi pensieri fu riportato di sopras-salto alla realtà dal fischio del capostazione che, da lontano, dava al treno il permesso di lasciare la stazione.

Dopo poco vide le numerose file di binari che andavano congiun-gendosi sotto le ruote del treno in lenta accelerazione.

Poi fu il turno delle case della periferia farsi piccole e sparire nella distanza per lasciare spazio alla campagna e alle cittadine limitrofe, al traffico che intasava le arterie stradali, ai cumuli di rifiuti e ai fiumi di smog che tentavano di intralciare il placido vivere di una natura indifferente.

Lui sperava che il panorama di cui sarebbe stato spettatore nella sua terra sarebbe stato ben differente da quello che aveva sotto gli occhi.

Cercò di concentrarsi su altro.

La sera prima aveva telefonato al figlio di Lena, Enrico, per avver-tirlo del suo arrivo e durante la telefonata era venuto fuori che era un giovane avvocato di 39 anni.

Questo spiegava il tono così formale e distaccato della lettera.

A quell’uomo aveva anche chiesto delle informazioni sul paese, naturalmente cercando di essere il più vago possibile per non fornire indi-cazioni riguardo a ciò che desiderava sapere.

L’uomo si era limitato a dirgli che era un piccolo paese con delle fattezze tipiche dei paesini del meridione ma situato su una collina che gli dava una conformazione a mo di coppola con stradine ripide e numerosi dossi.

Erano tutte cose che lui sapeva bene avendoci vissuto.

Si era sentito trattato da idiota.

Gli fece notare che aveva abitato in quel paese per anni.

Ma il giovane uomo, lungi dallo scomporsi, aggiunse che riteneva

non fosse poi così cambiato perché i giovani avevano finito per abbandonarlo preferendo la città o altri paesini più vicini al mare capaci di sfruttare il turismo in maniera più incisiva.

“Sicuramente il posto non era mai stato agevolato dal fatto che, per arrivare al mare, occorre comunque fare un bel po’ di strada.”

Pensò fra se con una certa nostalgia.

“Troppa per pensare di arrivarci a piedi.”

Al di là delle considerazioni che lui sapeva essere vere ma che de-notavano un senso di resa, lo disturbava il tono molto freddo che aveva usato.

Il suo distacco emotivo lo induceva a pensare ad un’accoglienza poco amichevole.

Ad ogni buon conto gli interessava principalmente poter pregare sulla tomba di Lena e leggere le sue memorie.

Sperava potessero mettere sotto una luce diversa i loro ultimi quarant’anni e rinsaldare con la sua memoria un legame spirituale che avrebbe dovuto essere eterno.

Lena se la ricordava bella come un fiore esotico, splendida come un tramonto estivo e dolce come la manna di cui era stato ghiotto in gioventù.

Era come la descriveva fino al giorno in cui si erano dovuti separa-re, ovvero proprio poco prima del suo matrimonio.

Poi non si erano mai più rivisti.

Aveva annusato ogni parte del suo corpo.

Le sue labbra lucide e carnose, il suo seno prosperoso e modellato che valorizzava qualunque capo indossato, i suoi fianchi formosi ma al contempo come dolci declivi, i capelli biondi e vaporosi ma docili alle carezze.

In particolare ricordava i suoi occhi azzurri, brillanti come stelle del mattino, che lo avevano sempre ammaliato per le loro caratteristiche particolari.

Di giorno infatti erano come il cielo, ma con intensi riflessi di un azzurro elettrico e di notte invece assumevano una tonalità di grigio quasi lunare.

Amava are le serate con lei eggiando sulla spiaggia, gli dava piacere sentire la sabbia fina come il talco sotto i piedi.

Sceglievano di allontanarsi dagli occhi indiscreti dei loro compae-sani per evitare le solite dicerie.

Soprattutto per evitare di avere a che fare col fidanzato di Lena, Umberto, che probabilmente avrebbe avuto tutte le ragioni di questo mondo per diventare geloso.

Lei usciva di casa e aspettava il suo amante in un posto sicuro, poi si facevano una lunga cavalcata sulla sua moto fino alla costa.

Ritornavano a notte fonda sempre stando bene attenti a non farsi scoprire.

Quel paese era tanto piccolo quanto grande era la cattiveria e l’invidia dei paesani e se fossero stati visti insieme a eggiare questo avrebbe dato come risultato di far arrivare delle voci sul loro conto ad Umberto.

Umberto, l’uomo che aveva rovinato la vita ad entrambi - pensò digrignando i denti.

Agli occhi dei paesani Umberto era il giovane rampollo, alquanto stupido, di una rispettabile e potente famiglia di latifondisti.

Erano una di quelle famiglia, nelle quali l’arroganza appariva co-me il vento che pretende di are per ogni fessura.

Lui non aveva mai sopportato che la loro rispettabilità come fami-glia provenisse dal fatto che era ricca, trovava davvero vile il potere coercitivo del denaro.

Umberto poi era veramente odioso perché si atteggiava per darsi un carisma e un potere che non avrebbe mai avuto di suo, ma che gli derivava solo dal nome della famiglia.

Come fidanzato era decisamente patetico perché trattava Lena non come una compagna bensì come un oggetto di sua proprietà.

Lui pensava che avrebbero fatto meglio a regalargli un cane per poter comunicare con qualcuno al suo livello.

Era un vero cafone, prepotente quanto inetto allo svolgere qua-lunque attività che non fosse di bassa manovalanza e dal gergo volgare.

Sovente aveva alzato le mani sulla ragazza considerandola alla stregua di una schiava, obbligandola a sottostare a tutte le sue volontà, anche quelle sessualmente più disgustose.

Lei, in quanto promessa dalla sua famiglia, aveva dovuto sot-tostare ed inghiottire i bocconi più amari della sua giovinezza.

Come avesse potuto continuare a vivere per tutta la vita con un si-mile mostro, dopo che lui era dovuto andar via, restava un mistero che sperava venisse svelato in quel suo diario.

Lui stesso aveva dovuto tollerare le angherie e le percosse di Umberto per-

petrate ai danni di Lena.

Aveva sopportato in silenzio i suoi soprusi solo perché la ragazza che amava glielo aveva implorato per evitare uno scontro tra i due che, sicuramente, sarebbe stato deleterio per il loro amore.

Tuttavia non poteva fare a meno di sentire una fitta al cuore quan-do, nelle loro lunghe eggiate notturne, intravedeva al chiaro di luna alcuni lividi sul volto e sugli arti di lei e sapeva che dietro il suo sorriso c’era un dolore immenso.

A volte, se la toccava come accadeva quando facevano sesso distesi sulla sabbia, lei faceva per ritrarsi in preda a smorfie di dolore, ma subito dopo tornava a sorridere.

“Non è niente.”

Mentiva ma sapeva che lui fingeva solamente di crederle.

Certamente era cosciente che un giorno sarebbe accaduto che Umberto asse la misura e lei sarebbe finita in qualche pronto soccorso.

Non ci voleva pensare, voleva solo stare con lui in quei momenti e godere di un amore che dava pace dopo aver vissuto una carnalità liberatoria.

Lui voleva rispettare quella sua ostinazione nel non rovinare quei fugaci

momenti di gioia e non le chiedeva nulla.

Ma non poteva fare a meno di pensare con rabbia a quell’uomo così meschino e insignificante che, tuttavia, si permetteva di infierire in quel modo contro una così meravigliosa donna.

Pensava che se vi fosse un Dio doveva essere davvero vigliacco, almeno quanto Umberto, nel permettere simili dolori.

Il dolore fisico non era che la punta dell’iceberg.

Lui era conscio anche del dolore spirituale provato Lena.

Lei era consapevole di essere impotente di fronte a quella situazione e di doversi rassegnare ad una vita da vittima predestinata soccombendo alle scelte, principalmente di tipo economico, della sua famiglia che la voleva maritata ad un uomo così spietato.

Come potevano permettere i suoi che lei subisse un simile destino?

Con quale cuore abbandonavano la figlia a simili crudeltà?

Lui pensava tutto il male possibile di quei genitori.

Erano due ragazzi disperati, consapevoli entrambi di amarsi come Romeo e Giulietta e di non poter vedere il loro amore riconosciuto dal mondo.

Avrebbero desiderato amarsi per tutta la vita, ma sapevano che il

loro amore galeotto si sarebbe dovuto concludere in un modo o nell’altro a causa della promessa di matrimonio di lei.

Il padre di Lena aveva contratto un debito troppo oneroso con la famiglia di Umberto e, non riuscendo a sdebitarsi, piuttosto che vendere la sua proprietà aveva scelto di dare in dote la figlia.

Così Lena era diventata una merce di scambio.

VII

Un giorno, però, la misura delle angherie subite da Lena fu colma ai suoi occhi, così decise di affrontare Umberto una volta e per tutte e fargli capire con le buone o le cattive che lei non era un oggetto da maltrattare.

Una donna per cui altri perdevano il sonno e per la quale avrebbero pagato oro.

Lui di certo avrebbe pagato pure in suolo lunare se ciò fosse bastato per averla.

Era un assolato giorno di fine Giugno e si trovavano proprio su quella stessa spiaggia dove lui e Lena si erano amati ed erano stati uniti in una stessa carne sotto una Luna vestita da sacerdotessa silenziosa.

Umberto poteva essere goffo e stupido per certi ambienti culturali, ma di certo sapeva menare le mani ed il fatto che fosse corpulento lo avvantaggiava perché poteva usare il suo maggior peso per affondare il colpo.

Lui sapeva bene che nel corpo a corpo avrebbe dovuto usare l’in-gegno altrimenti avrebbe avuto la peggio.

Era quasi come affrontare un toro infuriato.

Lui però aveva il coraggio di prenderlo per le corna, la prontezza di non farsi cogliere impreparato da un attacco frontale e l’astuzia per colpirlo da dietro come un bravo torero.

Tutto cominciò con delle offese verbali che Umberto gli rivolse per mostrare il proprio coraggio di fronte alla fidanzata presente.

Umberto era li, con la donna che amava e questo lui lo sapeva

Proprio quello era il motivo per il quale si era presentato: voleva provocarlo con la sua presenza e disturbare il suo momento di intimità con la futura moglie.

Nei giorni precedenti, inoltre, si era curato di mettere in giro dicerie sulla presunta relazione tra lui e Lena per cui in quel momento era certo che la sua presenza avrebbe dato più che fastidio ad Umberto.

Sperava di fargli saltare i nervi ma intendeva farlo senza are per un provocatore.

Voleva che apparisse agli occhi di tutti che Umberto e solo lui avesse dato inizio a quella lite.

Lui si sarebbe limitato a difendersi o almeno voleva che tutti si convincessero di questo.

Contava sul fatto che il fidanzato di Lena era in compagnia dei suoi amici i quali avrebbero testimoniato sull’esito di quello scontro.

Si persuase che avrebbero riportato fedelmente quanto avvenuto.

Quando Umberto lo vide cominciò ad insultarlo ma Lena reagì male alle sue offese e lo ammonì di comportarsi educatamente.

Umberto visse quella situazione come una cattiva figura di fronte ai suoi amici e per la vergogna si irritò.

Di certo non poteva permettersi di are come lo zimbello di una donna senza reagire, altrimenti nessuno lo avrebbe più temuto.

Decise quindi di darle un bel ceffone intimandole di tacere.

Mentre lei era ancora a terra, stordita dal colpo, lui la copriva dal sole con la sua enorme mole e le gridava contro tutte le peggiori imprecazioni.

Probabilmente lei era troppo stordita per rendersi conto delle offese nei suoi confronti e su sua madre.

“Sei solo una puttana, figlia di una troia.”

Lui, invece, quelle parole poteva udirle bene e stavano colmando rapidamente la misura della sua pazienza.

“Sei solo una sgualdrina” - aggiunse con un espressione malevola.

La sua cadenza denotava il desiderio di gustare appieno ogni singola parola pronunciata.

Quello di Umberto era un cinismo senza confronti, non poteva es-sere tollerato oltre.

Così gli balzò addosso come un felino, talmente rapido che nemmeno i suoi amici ebbero il tempo di avvertirlo di quanto stava ac-cadendo.

Gli assestò un pugno allo sterno con tutte le sue forze.

“Sei solo un vigliacco che sa prendersela con i più deboli, ora fagli le tue scuse.”

Finalmente poteva dirgli pubblicamente quello che pensava di lui.

Era una soddisfazione indescrivibile.

Lui, pur piegato in due, ebbe giusto un filo di voce per ribattere.

“Lei è mia, ti pentirai di quello che hai fatto.”

Lo sguardo di Umberto emanava una rabbia indescrivibile.

Se non avesse subito un colpo veramente forte adesso sarebbe una seria minaccia.

Lui invece era solo nauseato dalle parole e dalla presenza del suo avversario, Umberto non avrebbe mai potuto e saputo amare Lena e lei con lui sarebbe sempre stata infelice.

I genitori di Lena le stavano rovinando la vita per le loro incapaci-tà di adempiere ai loro doveri.

Tutti negavano a quella giovane coppia la libertà e la felicità solo per denaro.

Si sincerò che gli amici di Umberto non intervenissero in sua difesa.

Gettò loro uno sguardo di sfida per gelare ogni proposito di quelli.

D’altronde lui era pur sempre quello che aveva piegato Umberto

con un solo pugno.

Dovevano farsi bene i conti perché difendere il loro amico avreb-be avuto un costo e loro erano dei pavidi in fondo.

Scelsero di tenersi in disparte, non erano disposti a pagarne il prezzo.

Guardò Lena, ancora seduta in terra e spaventata, immaginò i suoi

pensieri e la sua preoccupazione.

Quel gesto avrebbe avuto delle conseguenze su ciò che sarebbe accaduto tra la famiglia di Umberto e la sua.

Ma non voleva curarsi delle conseguenze in quel momento.

Forse per la prima volta nella sua vita stava davvero lottando per qualcosa di grande.

Per un sogno da realizzare a tutti i costi e che avrebbe dato un senso alla sua vita-

Forse il suo gesto avrebbe dato la scossa ad un paese troppo suddito di quella famiglia e magari le persone, invece di subire i-vamente, avrebbero iniziato a lottare per riprendersi i loro destini.

In quel momento, però, lui voleva pensare solo a quella ragazza spaurita, alla sua donna ferita.

Si chinò verso di lei e le carezzò dolcemente la guancia schiaffeg-giata per rassicurarla col suo amore.

Voleva convincerla col suo gesto che sarebbe andato tutto bene, anche se pure lui pensava intimamente che ciò che aveva fatto avrebbe avuto un prezzo che avrebbero pagato entrambi.

Nella sua testa però balenava solo la pazza idea di una fuga insie-me.

Poi, preavvertito dagli occhi di lei, comprese che alle sue spalle si stava materializzando una minaccia.

Evidentemente Umberto non ne aveva avuto abbastanza!

Si voltò di scatto, chinandosi leggermente sulle gambe e assumen-do una posizione molto plastica ed elegante al punto da rassomigliare ad una di quelle statue greche marmoree raffiguranti degli atleti.

Grazie a questa posizione aveva schivato il colpo sferrato da Um-berto, che si era parzialmente riavuto, e poté contrattaccare tirandogli sul mento il miglior montante che poteva, talmente forte che avvertì una fitta insopportabile.

Pensava di essersi fratturato una mano, ma certamente era consapevole che, in quell’istante, Umberto stesse certamente soffrendo di più.

Il colpo era stato così forte che era letteralmente volato all’indie-tro privo di sensi, gli amici lo raccolsero da terra e tentarono di rianimarlo.

Ora erano visibilmente spaventati.

Seppure in tre, non si sarebbero mai sognati di vendicare il loro amico tentando di aggredirlo, non avevano mai visto nessuno capace di fare tanto male ad Umberto.

Uno solo di essi, Gabriele, mentre gli altri due erano intenti a fargli riprendere i sensi, gli si avvicinò.

“Non vorrei essere nei tuoi panni” - lo guardò con disprezzo.

“Quando la sua famiglia saprà quel che gli hai fatto, non te la farà are liscia”

Gabriele si voltò e ritornò verso Umberto.

Possibile che tutti loro giustificassero un ragazzo così violento?

Che nessuno provasse disgusto verso un individuo che alzava le mani su una ragazza?

Comunque, sebbene non si fosse mostrato spaventato dalla minaccia del ragazzo, lui sapeva che quelle parole contenevano un fondo di verità.

Non l’avrebbe ata liscia e quel suo gesto d’amore l’avrebbe pagato caro.

Quanto caro non ne aveva idea ma sperava solo che ci fosse ancora un futuro tra lui e Lena.

VIII

Il sole appariva come una palla infuocata.

Aveva un colore rosso perlaceo più carico a mano che scendeva verso il mare.

Entrambi stavano li, in silenzio, a contemplare quel momento di pace dopo l’alterco di qualche ora prima.

Rimuginavano in silenzio su quella giornata in un certo qual modo storica mentre lui si rivedeva nel racconto biblico di Davide e Golia.

Naturalmente, si immaginava nella parte del primo.

Tutt’a un tratto lei si voltò verso di lui con gli occhi carichi d’amore e di speranza.

“Lo facciamo?”

“Facciamo, che cosa?” - balbettò con un misto di sorpresa ed imbarazzo.

“Quello che hai capito benissimo” - rispose lei sorridendo.

Certo che aveva compreso il suo invito, anche lui covava lo stesso desiderio ma non voleva forzarla in alcun modo.

“Ma quando vorresti farlo?”

“Questa sera stessa.”

Rimase in silenzio per un po’ fissando il mare.

“Forse sarà l’ultima volta in cui possiamo stare insieme.”

Era pensierosa.

“L’ultima sera della quale potremo approfittare per stare insieme.”

“Forse non ci vedremo mai più” - insistette rivolgendogli lo sguar-do.

Probabilmente aveva ragione lei ad essere così remissiva, la fami-glia di Umberto non avrebbe certo perdonato quel gesto da un figlio di umili contadini.

Aveva dentro un dolore, quasi come vivesse un lutto.

Sapeva che anche lei provava quel dolore ma entrambi non potevano più cambiare il corso degli eventi.

“Va bene.”

Chinò il capo, sapeva che lei aveva maledettamente ragione.

“Questa sera.”

Sarebbe stata la loro indissolubile promessa di amore eterno, quel-la che due anime affini si scambiano per restare legati anche se gli eventi le allontanano a tempo indeterminato.

Lui aveva letto qualche libro in cui soldati prima di andare al fron-te facevano l’amore con le proprie donne per conservare una sorta di filo che li avrebbe protetti durante le battaglie e che avrebbe consentito loro di superare indenni le peggiori traversie per tornare dalle loro amate.

Ripensava alle parole di Gabriele.

Sicuramente la famiglia di Umberto avrebbe esercitato pressioni su suo Zio, l’uomo che lo ospitava e che gli faceva da padre.

Magari gli avrebbe reso impossibile lavorare in quel paese.

Per quanto suo zio fosse un uomo rude e caparbio, nulla quanto i soldi riesce a piegare la volontà di un uomo.

Lui era solo il figlio di umili braccianti, suo padre era stato un in-stancabile zappatore e mugnaio stagionale, ossia quando i campi erano pronti per la mietitura.

Non aveva parentele con professionisti o politici che potessero esercitare un potere in grado di arginare le ire di quella famiglia.

Purtroppo suo padre era deceduto durante la seconda guerra mondiale, morto da eroe come dicevano i compaesani che se lo ricordavano.

Se fosse stato ancora vivo sicuramente avrebbe avuto un alleato capace di proteggerlo.

La madre gli aveva fatto proseguire gli studi, prima grazie al dop-pio lavoro del padre e poi, dopo la guerra, aiutandosi con le rendite, ma aveva infine dovuto vendersi tutto compresa la macina che il padre aveva comprato per il secondo lavoro.

Quando non fu più in grado di mantenerlo lo mandò da suo fratel-lo, lo zio Giacomo, il quale promise si sarebbe occupato di lui come fosse un figlio.

Lui era uno scapolo impenitente, non aveva mai voluto una fami-glia ma non

aveva mai spiegato il motivo ad alcun.

Per questo era suonato strano che fosse disposto ad accogliere il figlio di sua sorella come un secondo padre.

In ogni caso c’era poco da meditare.

“Vai.”

Gli aveva detto sua madre.

“Tuo zio ti aspetta e ti aiuterà a completare gli studi.”

C’era un tono carico di amarezza nella sua voce.

“Io voglio restare qui con te, amo la mia terra, ci manterremo col

mio lavoro” - rispose lui.

“No, sarebbe stata anche la volontà di tuo padre, tu avrai un’istru-zione adeguata e non sarai uno dei tanti cafoni che si vedono in giro.” - rispose perentoria.

Infine andò a vivere dallo zio ove si dedicò con ione allo stu-dio prima di tutto perchè aveva una grande curiosità intellettuale e poi perché intendeva manifestargli la sua gratitudine per i sacrifici.

Terminò le scuole superiori senza mai avere problemi, anzi ebbe sempre lodi ed encomi per le sue capacità e dedizione.

Lena l’aveva conosciuta proprio frequentando la scuola, condivi-dendo lo stesso banco per anni.

Lui l’aveva notata fin dal primo giorno ma era molto timido e, co-sì, finiva per apparire distante e schivo.

Lei era molto dolce ed educata, per questo motivo la vedeva irraggiungibile ai suoi occhi.

Col tempo e con la complicità dei compiti fatti insieme lui si era innamorato sempre più di quella ragazza che sprizzava grazia da tutti i pori.

Lei dal canto suo si era accorta di quel ragazzo così volenteroso e ingegnoso al punto da mettersi da parte per lasciare in mano a lui la ricerca della soluzione migliore negli esercizi matematici nei quali sapeva che lui era migliore di lei senza alcun paragone.

Ritornò con la mente al quel presente.

Sapeva che coi problemi che avrebbero dovuto affrontare non avrebbe avuto addosso la serenità necessaria per fare l’amore con lei tanto intensamente quanto desiderava.

La sera intanto era calata coprendo lividi e lacrime e questo avrebbe concesso loro una pausa emotiva.

Tuttavia era una notte buia latrice di oscuri presagi per il loro futuro.

Il silenzio e la pace che regnavano sembravano alludere alla quiete prima della tempesta.

Era come una cantilena che si ripeteva nel suo cuore: silenzio, tormento, silenzio, tormento.

Si stesero entrambi, baciandosi e sfiorandosi dolcemente mentre l’uno per l’altra si facevano sacerdoti del loro amore ritualizzando i gesti con cui scoprivano poco a poco le loro intimità corporee.

In quel momento ogni ansia in loro si dileguò, esistevano solo le loro anime che offrivano i propri corpi in dono.

Ogni respiro, ogni carezza risuonava come una melodia capace di lenire ogni dolore.

Ogni movimento era una danza per compiacere l’altro.

Quella notte buia li metteva al riparo da occhi indiscreti, solo loro riuscivano a vedersi e potevano vedere oltre i loro corpi.

Sentire le loro anime far vibrare le carni.

I loro occhi esprimevano l’intima creazione che serbavano come un gioiello per l’anima che avrebbe saputo aprire il loro scrigno.

Se anche qualcuno fosse riuscito a vederli e avesse cercato di im-pedire il loro amplesso, non ci sarebbe riuscito.

Erano ormai indissolubilmente fusi l’uno nell’altra e il loro orgasmo non fu quello di due amanti ma di un essere unico che, in quella fusione.

Poteva vedere il volto del suo creatore, avendo il privilegio di aver fatto discendere per un istante un briciolo di paradiso in quell’inferno che è la vita.

Lui la baciò teneramente sul labbro inferiore, poi dolcemente carezzò le labbra di lei con le sue.

Era ancora parecchio eccitato e riprese a dimenarsi sul corpo di lei che, ormai insensibile ai lividi, non emise altro che gemiti di piacere.

Lui non aveva mai provato una gioia così intensa, una completezza sconosciuta le volte precedenti.

Ma la cosa più bella è che aveva la certezza che anche in lei ci fosse lo stesso sentire, altre volte erano stati sopraffatti dai problemi che non erano riusciti a vivere appieno della loro unione.

Questa volta era stato tutto diverso: una magia di origine divina.

Lui tentò di penetrarla di nuovo dolcemente perché era ancora avido di quelle sensazioni provate pochi istanti prima.

Stavolta, però, lei finse un’eccitazione iniziale e poi, gradualmente, i gemiti di piacere lasciarono il posto alle lacrime di un dolore che andava riaffiorando col ritorno alla realtà, nonostante lei tentasse in tutti i modi di trattenerle.

Comprese che quel dolore, era lo stesso che lui voleva annegare nel piacere: uno squarcio nello spirito.

Avrebbe voluto procrastinare le carezze, la fusione, il piacere e provò rabbia nel percepire che l’alchimia si era spenta a causa del male.

Ora piangeva anche lui ed in quel momento di estremo dolore sentì comunque di essere arrivato ad un secondo amplesso.

Non si era accorto di aver continuato a ritmare l’atto sessuale per-ché profondamente immerso nei suoi più dolorosi pensieri.

Fece una profonda espirazione per rilassare il suo corpo, prostrato dalla fatica mentre sentiva ancora il suo membro che rilasciava il seme che confermava la loro promessa dentro di lei.

Si chinò sopra di lei poggiando le proprie labbra sul suo orecchio per parlarle sottovoce.

“Non amerò mai nessun’altra.”

Poi si lasciò andare e poggiò la guancia destra sulla sabbia e fissò il mare, nell’attesa che il maledetto sole fosse sorto portando con se il nuovo giorno e ponendo fine al loro amore impossibile.

Si svegliò così come si era assopito.

Allertato dai sensi che le prime luci dell’alba stavano già schiaren-do l’orizzonte, percepì una deformazione innaturale nel paesaggio, qual-cosa che, pensava, sarebbe scomparsa una volta chiusi e riaperti gli occhi.

Ma quella deformazione era ancora li e la cosa lo preoccupava, cercò di mettere a fuoco nel tentativo di capire se fosse un’allucinazione.

Si rese conto che era Lena che, lasciandosi carezzare le caviglie dal mare, guardava il sorgere del sole, consapevole che non portava alcuna speranza.

Si alzò e le si avvicinò.

“Umberto ed i suoi amici ormai saranno tornati da un pezzo e pro-babilmente la notizia si sarà sparsa per il paese” - finse indifferenza.

“Tu ci scherzi sopra” - Lena era irritata e preoccupata.

Si capiva dal tono con cui pronunciò la frase e contemporanea-mente lo fissava per scrutare oltre la sua apparente indifferenza, per vedere se riusciva a scorgere in lui qualche sintomo della sua stessa preoccupazione.

Lui intuì lo scopo del suo sguardo e, trattenendo le sue emozioni, voltò lo sguardo altrove per non incrociare più i suoi occhi.

Era preoccupato di aumentare il suo turbamento e sperava così di infonderle un minimo di sicurezza.

“Non cambierebbe nulla se fossi serio” - rispose con freddezza.

“Ognuno di noi ha fatto ciò che andava fatto, abbiamo reagito agli eventi come

abbiamo desiderato.”

Ci fu un lungo silenzio.

“Vedi la nostra storia è troppo importante, troppo viva e meravi-gliosa per lasciarla affogare nell’indifferenza” - continuò - “meglio siano gli altri a separarci con la forza, che permettere loro di condizionarci nelle nostre scelte, noi siamo liberi in una società schiavista.”

Ora la fissava con uno sguardo che esprimeva qualcosa che lei non riusciva a definire.

Era un misto di rassegnazione e orgoglio, ma che aveva una sua dolcezza, una pace intima simile a quella che Cristo doveva avere sulla croce quando disse le sue ultime parole.

“Tutto è compiuto.”

Lui aveva vissuto nella rabbia di essere stato un semplice figlio di contadini e di non essere mai stato considerato dai genitori di Lena un buon partito al quale affidare la figlia perché privo di soldi.

A loro non importava se poteva essere intelligente e se poteva essere il cavallo giusto su cui puntare.

Come diceva suo zio - “i cavalli migliori si vedono all’arrivo.”

Per loro contavano solo i soldi e la famiglia di Umberto ne aveva in quantità.

Quando si accorsero che la loro figlia si trastullava con lui ben ol-tre le normali ore dedicate allo studio, decisero di non farlo più venire in casa loro, né vollero che Lena parlasse più di lui.

Lo cancellarono e chiesero alla loro figlia di fare altrettanto per-ché non volevano girassero malelingue in grado di mettere in pericolo il suo fidanzamento con Umberto dal quale dipendeva il loro presente e futuro economico.

Lui era solo un giovane meccanico a tempo perso che cercava di raccogliere i soldi per pagarsi gli studi universitari.

Per loro lui non era niente.

Si prepararono mentalmente fissando un’ultima volta l’orizzonte, si diedero l’ultimo addio con un bacio e poi si rimisero in sella alla vecchia moto.

Lui sapeva che ciò che aveva fatto sarebbe stato fatale per la loro storia.

Ma preferiva così che vivere per sempre nell’ombra e rassegnarsi a fare l’amante col rischio di esporre lei alle violenze fisiche di un Umberto in preda alla

gelosia.

“Anch’io non amerò mai più nessun altro.”

Lo abbracciò più forte che poté.

Speranze.

Vivere di speranze e di promesse era tutto ciò che restava loro e se lo sarebbero dovuti far bastare per tutta la vita.

“Si, lo so” - ricambiò il gesto con tenerezza.

Il sole infine faceva capolino tra le onde, il nuovo giorno era arrivato e con esso iniziava la loro notte.

Una notte che sarebbe durata per sempre.

IX

Erano arrivati al paese nel primo pomeriggio poiché avevano deciso di farsi una eggiata lungo le campagne limitrofe.

Volevano restare insieme e condividere i loro ultimi momenti da amanti il più a lungo possibile.

Erano spesso rimasti in silenzio, ricolmi di ansie, e contavano con la mente i minuti che avano stretti l’uno all’altra.

Sapevano che ogni minuto ato era un minuto in meno di cui

disporre per stare insieme.

Sarebbero voluti scappare lontano.

Lontano dalle loro famiglie.

Lontano dai loro compaesani e da quel paese che stava stretto ai loro cervelli curiosi.

Lontano da quei destini imposti ed ai quali non avevano il corag-gio di ribellarsi.

Questo desiderio frullava specialmente nella testa di lui e, se lei glielo avesse proposto, non avrebbe esitato a sobbarcarsi questo salto nel buio.

Purtroppo immersi nei loro pensieri erano giunti a destinazione senza essere riusciti ad esprimere entrambi i loro propositi.

Alle porte del paese, lei scese dalla moto e si congedò ba-ciandolo sulla bocca con una tenerezza sconfinata, cercando di infon-dersi coraggio e poi, senza voltarsi, prese a camminare verso casa pro-pria.

Entrambi iniziarono a piangere sommessamente.

Entrambi con lo stesso senso di rassegnazione al destino che sareb-be piombato su di loro di lì a poco.

Giunto a casa dello zio, lo vide fuori dall’uscio che lo guardava fis-so con uno sguardo preoccupato e stanco.

Quando questi si accorse del suo arrivo gli si fece incontro muo-vendosi nervosamente.

“Era ora” - lo rimproverò con impazienza.

“Vieni subito dentro.”

Sudava dalla preoccupazione.

Ovviamente capì che la voce era arrivata anche allo zio e, forse, non solo la voce di quello che aveva combinato.

Si immaginava che, magari, il padre di Umberto era arrivato a minacciarlo in casa sua.

Lo zio lo prese per un braccio con una forza che non aveva mai usato su di lui.

Perché hai fatto una simile stupidaggine?”

Lui non l’aveva mai visto così irritato.

“Perché?” - insisté - “rispondi!”

Nemmeno suo padre e sua madre erano stati tanto fuori di loro o, per lo meno, lui non ricordava di aver mai vissuto una scena del genere

Certamente non riusciva ricordare di essere mai stato così sconsi-derato nella sua infanzia.

Era sempre stato un bambino ubbidiente e calmo, molto riflessivo e mai dedito alla violenza.

Per questo motivo non comprendeva, né giustificava il tono usato dallo zio, avrebbe desiderato ricevere un po’ di fiducia riguardo al suo comportamento.

Magari che gli fosse chiesto conto di ciò che aveva fatto in tono più garbato.

In fondo se lui aveva reagito così brutalmente, lui che era sempre stato un mite, doveva pur aver avuto un motivo altrettanto grave.

“Perché lui l’ha picchiata.”

Giacomo sapeva di chi stava parlando.

Continuò a guardarlo, ma stavolta il suo sguardo era diverso.

Adesso lo comprendeva e nei suoi occhi restava vivo solo un senti-mento di sconforto.

“E perché io la amo.”

Una lacrima gli rigava il viso e rimuoveva ogni velo di durezza mes-so per coprire tutte le sue fragilità di ragazzo sensibile.

Dopo un momento di silenzio suo zio riprese a parlare con un tono e delle parole più materne.

“Comprendo il tuo stato d’animo” – disse.

“E vorrei dirti che hai fatto la cosa giusta, un gesto molto caval-leresco ma, come ho imparato anch’io a suo tempo, devi capire che quella ragazza è fuori dalla tua portata.”

Lui rabbrividì nel sentire quelle parole e di domandò fino a che punto la vita dello zio, che gli era sempre stata tenuta nascosta, fosse simile alla sua.

Poi questi, commosso, lo prese a sé e lo abbracciò come non ave-va mai fatto nei sei anni di quella convivenza.

“Mi dispiace tanto, ma non posso fare altro per te” - continuò - “non puoi restare qui.”

Quelle parole furono per lui come una coltellata.

Non immaginava che le cose avessero preso una piega così grave da farlo parlare a quel modo.

“E dove potrò andare?”

Era sconsolato.

“Domani partirai per andare al paese di tua madre per salutarla come si conviene, starai lì per qualche giorno e poi andrai a Milano” - fece una pausa sospirando.

“Mi serve giusto il tempo di contattare dei miei parenti che sono immigrati lì per organizzare il tuo arrivo.”

Lo guardò in modo risoluto, le sue parole risuonavano solenni.

“Vedrai che ti forniranno l’aiuto necessario per inserirti nel mondo del lavoro.”

Restò un momento in silenzio per dargli il tempo di metabolizzare quel che stava accadendo, per abituarlo all’idea di un cambiamento così drastico nella sua vita.

Tutto sommato non era la prima volta che doveva adeguarsi a dei cambiamenti così drastici.

Tuttavia ciò era sempre avvenuto in concomitanza con la perdita o la separazione da coloro che gli erano più cari, prima suo padre, poi sua madre, adesso Lena.

“Lo so che ricominciare da zero sarà dura” - cercò di rassicurarlo - “ma lì sarai al sicuro e avrai tante opportunità per la tua vita.”

Giacomo aveva dimostrato in quei sei anni di amarlo davvero co-me un padre.

Questo rappresentava per entrambi una sorta di miracolo che aveva reso ancor più incomprensibile la sua scelta di essere scapolo.

“Dopo le parole che ti ho detto penso che ti sarà più chiaro il per-ché non mi sono mai sposato.”

Parlò quasi come se avesse potuto leggergli la mente.

“Anch’io ho amato una donna ed anche lei era destinata ad un altro, alla fine ho dovuto arrendermi all’evidenza” – disse.

“Ma non ho mai più amato nessun’altra, sono venuto qui ed ho scelto di restare per sempre da solo.”

Così la storia si ripeteva uguale a se stessa, magari cambiavano i dettagli ma la conclusione era sempre la stessa.

Forse, con un po’ di immaginazione un giorno magari lui avrebbe fatto lo stesso

discorso a qualche suo nipote.

“Dunque dovrò scappare e arrendermi come hai fatto tu?”

Era il suo ultimo tentativo dialettico di evitare di darla vinta ai po-tenti di turno continuando a perpetuare un meccanismo di caste quasi ereditario.

“Dio sa se io non volessi tenerti con me, ma la famiglia di Umberto non farebbe restare nemmeno me in questo paese se mi opponessi.”

Esitò come se temesse di dire ciò che stava per dire.

”La sua famiglia vuole vendetta in un modo o nell’altro, per cui per te questa sarà la soluzione meno dolorosa.”

“Se non posso battermi per le cose in cui credo, se non posso cambiare il mondo che cosa ho studiato a fare?”

Non voleva arrendersi.

“Se nulla cambia allora il mio studio non mi ha liberato dalle cate-ne che sono state imposte a te e a mio padre e ai miei avi.”

Trovava irritante la sua impotenza.

“Dunque l’aver studiato è solo un alibi” - constatò - “conta solo il potere del denaro ed io sarò sempre vittima e schiavo di questa società materialista.”

Come ebbe finito di parlare, si rese conto che quella era e sa-rebbe stata probabilmente la verità della sua vita.

Sentiva che le sue parole lo avrebbero accompagnato per sempre.

Giacomo appariva costernato.

In fondo al cuore poteva capire quello che il suo ragazzo stava ando, e si sentiva inutile a non potergli offrire adeguata protezione.

Ma quando il padre di Umberto si era presentato a casa sua aveva avuto chiara la percezione che mandarlo via era l’unica soluzione per salvargli la vita.

“Il ragazzo deve sparire, da uomo d’onore lascio a lei la scelta non mi faccia pentire della fiducia che ripongo in lei oppure lei si pentirà di avermi sottovalutato” - gli aveva detto senza mai guardarlo negli occhi.

Lui sapeva bene che, se non si fosse premunito a rispondere pron-tamente, non avrebbe potuto proteggerlo in alcun modo - “le prometto che domani stesso sarà sul treno e sparirà dalla vostra vista per sempre.”

Stavolta Giacomo guardò il nipote risolutamente negli occhi.

“Io so che questo mondo cambierà, forse non oggi, nè domani, ma io voglio che tu viva per assistere a questo cambiamento” - cercò di incoraggiarlo.

“Oggi sei di fronte ad un grande dolore, a ciò che vivi come una grande sconfitta ed io ne conosco bene i contorni” – cercò di spiegare il suo punto di vista.

“Ma quando verrà il momento tu mi sarai grato per averti permesso di vivere abbastanza a lungo da cogliere la tua vittoria.”

Avrebbe voluto rispondere qualcosa a suo zio, ma non faceva alcuna differenza farsi ragione e lasciò cadere ogni obiezione.

Se ne andò nella sua stanza a preparare le sue cose.

Fosse stato per lui non sarebbe andato nemmeno a salutare sua madre perché non voleva rivivere altri addii, ma intendeva rispettare i voleri di Giacomo come fa ogni figlio che intende onorare il padre.

Guardò a lungo la sua stanza sapendo che non l’avrebbe mai più rivista e non sapeva dire se la perdita della sua intimità lo toccasse quanto la perdita di Lena.

Entrambe le cose in egual modo - pensò - perché lui avrebbe volu-to trascorrere ancora del tempo in quella stanza dove, assieme a lei, aveva condiviso i suoi momenti più belli.

L’indomani mattina lasciò di buon’ora casa dello zio.

Partì senza salutarlo perché non avrebbe retto al distacco e sapeva nel suo cuore che anche Giacomo sarebbe stato d’accordo sulla sua decisione.

Prese il treno che lo condusse al paese dov’era nato.

Quando il treno giunse a destinazione, scendendo, diede un’oc-chiata furtiva tutt’intorno

Si rese subito conto che, immerso in quel caldo umido che lo faceva sentire come una rana nell’acqua bollente, solo l’umidità di quel luogo era peggio di come se la ricordasse.

Tutto il resto gli pareva immutato rispetto a quando aveva lasciato quei luoghi sei anni prima.

Una sorta di stasi, una ibernazione del vivere e dei costumi che lui odiava e amava allo stesso tempo.

Proprio come al paese dello zio quella stasi, se da un lato forniva una

rassicurante sensazione di stabilità, dall’altro era stata la causa della sua separazione da Lena.

In quel momento, tuttavia, gli riusciva difficile odiare davvero quella gente che trovava così caparbiamente attaccata alle proprie tradizioni sociali e culturali sebbene queste fossero obsolete ed evidente-mente in contrasto coi propri bisogni spiritual.

Preferivano adattarsi alla sofferenza e alla rassegnazione al fatto che le cose non potessero mai cambiare anche se questo non era vero, né volevano lottare per mutare la loro posizione sociale.

Di fatto si era ancorati alla mentalità della rassegnazione denunciata dallo stesso Verga.

Aveva sempre sperato che un giorno quella società arrivasse ad affogare nei suoi stessi mali.

A scuola lo studio della storia lo aveva reso edotto sul fatto che il suo popolo aveva una sua complessità culturale e sociale derivante dalle molteplici dominazioni straniere cui era stato assoggettato.

Si rendeva ben conto che era la paura ciò che frenava il più possi-bile quei cambiamenti che sarebbero stati benefici per la sua gente.

La paura di non saperli gestire e quindi di venirne dominati, quella stessa paura

provata nei confronti degli stranieri che sopraggiungevano in armi nelle loro terre coll’intento di soggiogarli.

La sua gente era restia al cambiamento.

Così profondamente legata al giudizio della collettività ispirato ad annichilire ogni tentativo di mutare i costumi, di sabotare ogni messaggio troppo innovativo, nel timore che il dilagare del nuovo spalancasse le porte ad un incognito ingestibile.

Proprio per questo chiunque sia stato visto come potenziale rivoluzionario è sempre stato preventivamente massacrato dalle male lingue per distruggerne la reputazione.

In modo che, screditando il messaggero, si rendeva il messaggio privo di efficacia.

Tuttavia, nella testardaggine del suo popolo a mantenere le sue tradizioni, lui vedeva il riflesso della propria caparbietà a lottare per tutto ciò in cui credeva mantenendo ostinatamente la propria identità.

Ciò in cui divergevano era l’incapacità del primo ad accettare la necessità di evolversi.

Perfino Darwin sosteneva che la sopravvivenza di una specie è da-ta dalla sua capacita di adattarsi all’ambiente circostante e, che lo volessero o meno.

I siciliani prima o poi avrebbero dovuto confrontarsi con tutto il resto del mondo, il quale, procedeva inesorabile come uno schiaccia-sassi.

Il caldo lo distolse ben presto da quei pensieri e, guardandosi attorno, gettò la sua attenzione sulla lunga strada che portava al paese.

La percorse interamente con lo sguardo.

Era lo stesso viale acciottolato che aveva percorso in senso op-posto quando era partito per andare a vivere dallo zio.

Lo stesso che ricordava nelle eggiate della sua infanzia assie-me al padre, probabilmente lo stesso da sempre.

Il sole colpiva forte e gli intorpidiva i sensi, non lo aveva stancato tanto il viaggio, quanto proprio il caldo e l’umidità spossante.

Era mezzodì e lui vagabondava per le vie lastricate del paese, ab-bandonandosi ad un o smorto e un po’ ciondolante.

Si sentiva quasi ubriaco dal gran caldo, facendosi trascinare dalle leggere raffiche della brezza di scirocco che asciugava il sudore.

Tra una viuzza e l’altra, di tanto in tanto, la sua attenzione veniva catturata dal vociare oppure dai profumi tipici del cucinato che provenivano dai piani superiori delle case che costeggiava.

In particolare gli odori mettevano a dura prova, non solo il suo ol-fatto, ma anche il suo stomaco esausto da ore di digiuno e il tramestio di piatti che gli riportava alla mente l’allegria che si vive in famiglia mentre ci si prepara al pasto non faceva che aumentare il suo bisogno di cibo fino ad ossessionarlo.

Si domandò se non fosse la fame ad acuirgli l’udito dato che senti-va nitidamente anche il tintinnio delle posate che risuonavano come in una melodia celestiale nonché il tonfo pesante di bottiglie e pentole cariche di vivande.

Come sentì anche il rumore dei bicchieri fu pervaso da una sete inestinguibile ed insopportabile.

Si coprì il volto dal sole e dalle raffiche di vento polveroso per ral-lentare la disidratazione.

Aveva tanta sete che la sua attenzione fu catturata da uno sputo.

Sicuramente era stato prodotto da qualche vecchio che, dopo aver vagabondato tutta la mattinata per il paese immerso nel caldo, aveva deciso di liberarsi del fastidio di quella saliva rappresa.

Pensò che anche se non fosse stato affamato o assetato qualun-que posto in cui si

poteva nascondere era sempre meglio di quell’inferno di muri e sassi roventi.

Ciononostante sentiva che i suoi compaesani in qualche modo avevano un gran bello spirito di sopravvivenza.

Sopravvivevano al caldo, alla sua assenza, ai cambiamenti, a Darwin.

Persino la sua casa natale era sempre identica.

La riconobbe alla prima occhiata

Arrivato di fronte il portone poté osservare che era identico a come lo aveva lasciato compresi gli intagli che lui aveva fatto da giova-ne nel tentativo di disegnare dei personaggi immaginari in grado di proteggere la sua casa dai mostri.

Com’era stato ingenuo e stupido a credere di poter essere protetto dal mondo.

Ma tutto ciò non contava più ormai e sperava che almeno sua madre fosse un po’ cambiata in qualche cosa, almeno questo avrebbe alimentato una piccola speranza per il futuro.

X

Come bussò alla porta questa si spalancò prontamente quasi come se sua madre avesse percepito il suo arrivo.

Sua madre, però, non aveva mai mostrato simili doti empatiche.

Era più semplice ritenere che lei, consapevole del suo arrivo, era stata a guardare fuori dalla finestra attendendolo.

Le sue considerazioni vennero stroncate dall’energico moto di af-fetto della donna che gli buttò le braccia al collo e lo abbracciò senza neanche guardarlo.

“Finalmente” - se lo strinse come una bambina col suo orsacchiot-to.

“Lasciati abbracciare, lasciati baciare.”

Aveva sempre il suo classico tono involgarito da paesana senza cultura.

Lui detestava profondamente il dialetto e, soprattutto, il tono in cui spesso venivano pronunciate le parole, gli pareva cacofonico.

Provava fastidio arrivando a sentirsi disturbato fin nell’anima.

Un po’ come il gracchiare della forchetta sul piatto crea delle vi-brazioni fastidiose per qualcuno.

In questo caso la sua anima veniva disturbata dalla violenza del dialetto e del modo in cui il sua madre lo esprimeva.

Avesse potuto parlare altre lingue come il se che avevano sonorità più delicate e gli risultavano più rilassanti!

Quasi come se di nuovo avesse percepito i pensieri del figlio lei se ne distaccò con la stessa foga con la quale gli si era avvinghiata e, invece di guardarlo con l’amore e il desiderio provocati da anni di lontananza, lo squadrò con circospezione come se non fosse più certa dell’identità della persona che aveva davanti.

Un brivido percorse la schiena del ragazzo.

Si domandò se sua madre avesse qualche problema di memoria o di umore, la percepiva scostante nei suoi comportamenti.

Poi lei si risolse in un tranquillizzante sorriso a trentadue denti.

“Come sei cresciuto ti sei fatto uomo” - esclamò con naturalezza.

“Proprio come tuo padre.”

Lui tirò un sospiro di sollievo.

Nulla era cambiato, davvero nulla.

Tutto era stato solo il frutto dei suoi soliti patetici ragionamenti che mal si adeguavano alla realtà dei fatti.

La frase materna gli ronzò in testa per tutta la giornata.

Non sapeva dire se gli avesse fatto piacere oppure lo avesse dis-turbato ma forse aveva buoni motivi per dare credito ad entrambe le sensazioni.

Inoltre non riusciva a scrollarsi di dosso l’ansia per l’accoglienza ricevuta.

Più simile alle feste di un cane!

Probabilmente invece di aver guardato alla finestra e averlo riconosciuto a distanza, ne aveva sentito l’odore, magari identico a quello del padre.

Proprio come fanno le madri delle bestie per riconoscere i propri cuccioli.

Ciò che non capiva era se il suo odore era lo stesso che si portava dalla nascita oppure se era mutato diventando identico a quello del padre.

Quante considerazioni a causa di quella semplice frase.

Sentiva di avere il cervello come un vulcano in eruzione.

“Sei fatto uomo, come tuo padre” - riecheggiavano le parole.

Stimava suo padre ma non voleva diventarne una copia, certa-mente non voleva rivivere la sua vita: quella di un uomo qualunque.

Sapeva bene di esserci riuscito a modo suo e non voleva adesso essere paragonato a lui da sua madre.

Soprattutto non voleva prenderne il posto.

Intendeva restare il figlio e non diventare il surrogato del marito scomparso per sua madre.

Non si sarebbe sognato di prendere il posto di capofamiglia tanto più ora che sapeva di trovarsi lì per poco tempo.

Se sua madre voleva qualcuno che l’accudisse avrebbe dovuto cercarsi un marito.

Nonostante tutto provava un po’ di pena per quella donna così sola come lo era stata per tutta la sua vita.

Aveva dovuto subire la vedovanza del marito che era ancora piuttosto giovane, poi si era dovuta separare da lui pur di offrirgli un futuro migliore, o almeno così sperava.

Ora sapeva di riaverlo con sé solo per poco tempo prima di perderlo di nuovo e, probabilmente, per sempre.

Sotto questa luce gli pareva che il suo attaccamento nei suoi con-fronti fosse comprensibile e perfino giustificabile.

Mentre pensava a tutte queste cose si accorse di essere già a tavola intento a mangiare come un morto di fame.

Si stupì di non essersi reso conto di com’era arrivato fin lì e, soprat-tutto lo preoccupava il fatto di non avere alcun ricordo di ciò che aveva fatto dall’arrivo sulla porta di casa fino a quell’istante.

Sperò che fosse l’estrema stanchezza la causa della sua amnesia e del suo agire meccanicamente.

Sua madre riprese a parlare nel suo solito dialetto detestabile ma con un tono così entusiastico da rendere l’idioma meno antipatico.

“I campi hanno bisogno d’acqua” - constatò - “d’altronde questo

inverno ha piovuto poco.”

“Troppo poco” - aggiunse.

Quella donna era troppo occupata a pensare alle sue cose?

Oppure era solo un modo per solleticare l’interesse del ragazzo?

Si chiedeva se sua madre si rendesse conto che a lui non gliene poteva fregare nulla dei campi, tanto meno adesso che era solo di aggio.

Era l’ennesima volta che si trovava a chiedere se sua madre avesse sviluppato una qualche dote intellettuale che lui non le aveva mai visto

Era incerto se credere al suo intuito oppure se, ancora una volta, il tutto era frutto delle sue elucubrazioni mentali senza alcuna attinenza con la realtà.

Si finse sordo all’argomento e continuò a mangiare come se la co-sa non lo riguardasse affatto.

Di una cosa era ben certo su sua madre: se aveva qualcosa su cui stava rimuginando, non avrebbe taciuto a lungo sulla realtà delle proprie intenzioni, di sicuro il suo silenzio l’avrebbe dissuasa dal girare attorno a quello che realmente voleva dire.

“Domattina andrò in campagna” - riprese - “vuoi venire con me?”

Ci siamo!

Adesso finalmente gli era chiaro dove voleva arrivare.

M lui non intendeva dargli alcuna soddisfazione in merito e decise di rispondergli con irritazione in modo da smontare il suo castello di carte.

“Mamma, non ho mai saputo né zappare, né coltivare, tanto meno innaffiare, perché non sono mai stato portato per questo mestiere” – proruppe.

“Mio padre lo era, non io.”

“Tuo padre ha imparato da suo padre, io da lui” - rispose candida-mente.

“E tu potresti imparare da me.”

Lui non aveva nulla in contrario dall’imparare qualcosa, neppure se gli veniva insegnato da una donna.

Quello che non voleva era diventare la copia di suo padre.

“Non sono nato per essere un contadino” - tagliò corto.

“Non ne ho mai avuto il desiderio e mai lo avrò.”

Sua madre rimase in silenzio e lui notò sul suo volto un velo di tri-stezza che avrebbe voluto far sparire, ma non poteva accondiscendere ai suoi desideri.

“Inoltre se tu stessa avessi veramente pensato che potessi e doves-si diventare un contadino non mi avresti mai mandato dallo zio Giacomo per farmi studiare. “

Le aveva detto una sacrosanta verità.

Questo significava anche che sua madre non poteva volere dav-vero che diventasse un contadino dato che lo aveva fatto studiare e quello era solo un pretesto per farlo restare.

Solo non ne capiva il senso.

Lì di certo non poteva restare a lungo perché comunque la fami-glia di Umberto avrebbe finito col sapere che lui era dalla madre e avrebbe ritenuto la distanza troppo esigua perché non si ripresentasse il rischio di una sua interferenza nella relazione tra Umberto e Lena.

No, non poteva essere così ingenua - pensò - sotto ci doveva pur essere qualcos’altro.

Lui si sarebbe premurato di scoprirlo.

“Pensa che sto pure meditando di scrivere un libro” - aggiunse per rincarare la dose - perché io almeno so scrivere, mio padre no.”

Aveva creato un divario abissale tra lui e suo padre.

Amava tanto la figura paterna ma voleva staccarsi assolutamente dalle vicende che gliel’avevano resa per sempre disprezzabile come ge-nitore e modello di vita.

Successe quand’era piccolo.

Non ricordava bene i motivi che avevano scatenato l’ira del padre nei confronti della madre.

Ricordava benissimo, e non l’avrebbe mai dimenticato, il modo di brandire furiosamente una padella e darla con violenza sulle natiche della moglie.

In quel gesto non vide più il marito amorevole ma una furia scate-nata pronta a tutto pur di sfogare la sua rabbia.

Rivedeva nella sua mente gli occhi della madre, umidi di lacrime, mentre lo guardava e si sforzava di trattenere un gemito serrando i denti per il dolore per poi cadere in ginocchio sul pavimento e inondarlo delle sue lacrime che non riusciva a trattenere malgrado tutti i suoi sforzi.

Lui tornò a fissare il padre.

L’uomo aveva lo sguardo inespressivo e perso nel vuoto, come si fosse prosciugato di ogni volontà una volta scaricata la sua ira.

Ebbe la stessa espressione per tutto il giorno seguente.

Perfino in chiesa mentre stava seduto come un contadino vestito a festa e ripulito della barba e delle altre porcherie con cui si lordava lavorando la terra.

In paese era stato molto stimato, ben prima di morire in guerra, tut-ti lo avevano considerato come un uomo di grandi principi morali.

Forse ignoravano in quale sorta di bestia riponevano la loro fidu-cia.

Magari - pensava - anche se loro intuivano che genere d’uomo fosse.

Non avevano la coscienza così pulita e così diventavano acco-modanti nei loro giudizi.

Non voleva più pensare a simili vicende.

Lo avvilivano.

Lui di certo si sentiva diverso da quella gente, profondamente di-verso, e lo aveva dimostrato coi fatti.

Aveva amato suo padre nonostante quella macchia ma non aveva alcuna intenzione di ripercorrere le sue orme.

Non voleva diventare l’ennesimo contadino violento con la moglie in mezzo ad altri contadini violenti e non voleva che i suoi figli assero quello che aveva ato lui.

XI

Il mattino seguente attese che sua madre si recasse al campo e poi uscì di casa anche lui.

Osservò che il cielo si era schiarito e che, essendo quella l’ora in cui i contadini andavano a coltivare i loro terreni oppure quelli di qualche ricco possidente, ne incontrava parecchi

Tutti avevano l’aspetto di mummie e tutti che gli sorridevano e lo salutavano come se sapessero perfettamente chi fosse.

Tornando a casa dopo quella piccola perlustrazione alla ricerca anche del più insignificante cambiamento, sull’uscio di casa vide ad aspettarlo il postino ed una ragazza dai capelli ricci e bruni.

Il postino si accorse del suo arrivo e, riconoscendolo, gli si fece in-contro e gli consegnò una lettera.

“Questa è per lei.”

Lui la prese e dopo che il postino se ne andò senza salutare, la guardò attentamente rigirandola tra le mani.

Era una qualche genere di bolletta.

Qualcosa che sua madre avrebbe dovuto pagare e si ripromise di metterla sul tavolo della cucina in bella mostra in modo che sua madre l’avrebbe subito vista non appena fosse tornata dal campo.

Poi concentrò la sua attenzione sulla giovane ragazza che stava lì, immobile, davanti casa sua ad osservarlo.

Aveva un sorriso davvero dolce, eppure malizioso, e si domanda-va chi mai potesse essere e cosa potesse volere da lui.

La squadrò cercando nei meandri della sua mente per fare qualche collegamento con i suoi lineamenti e il suo abbigliamento.

Qualcosa gli provocò una certa inquietudine ma non sapeva dire con precisione cosa fosse.

“Ciao” - lei lo salutò con un tono amichevole ed un bel sorriso.

“Ti ricordi di me?”

“Veramente no” - non era nemmeno sicuro di volerlo sapere.

“Sono Agata” - era come se, pronunciando il proprio nome sperasse di provocare

una sorta di incantesimo in grado di ammaliarlo.

Per un istante lui si domandò chi diavolo fosse Agata.

Poi gli sovvenne di ricordarsi una tale Agatina che stava sempre dietro il bancone del panificio del padre e che, ogni volta che lui veniva con la madre a comprare il pane, gli teneva sempre gli occhi addosso mettendolo a disagio.

Pur essendo bambini, l’amore che lei mostrava nei suoi confronti era spesso stato notato dagli adulti i quali, ritenendolo una cotta innocente, ci avevano sovente scherzato sopra aumentandogli il senso di vergogna.

Era soprattutto la madre di lei che ridacchiava con la sua e raccontava aneddoti delle confessioni della piccola Agata.

Di quando, per esempio, a nove anni aveva confidato alla madre stessa che lo avrebbe voluto sposare.

Lui era più grande di un paio d’anni e di certo al matrimonio non ci pensava.

Non ne voleva sapere tanto più che voleva dimenticare ciò che aveva visto fare al padre, preferiva cimentarsi con gli studi piuttosto che pensare alla piccola Agata.

Dopo la sua partenza per andare a vivere con lo zio, cancellò dalla mente quella

bimba goffa, grassoccia, coi capelli unti e le sopracciglia che formavano un unico arco sopra i suoi occhi neri.

Quella bimba per lui era troppo mal tenuta e mal vestita, davvero troppo volgare e priva di attrattiva per lui.

Ora invece la guardava con ammirazione ed un certo interesse.

Era snella, i suoi lineamenti non apparivano più goffi, era ben truccata e pulita ed aveva uno sguardo vispo che esprimeva curiosità intellettuale.

Adesso era davvero una bella ragazza.

Il suo corpo ed i lineamenti del viso avevano subito una radicale trasformazione e di quella Agatina non c’era più traccia, per sua fortuna.

“Allora ti ricordi di me?”

“Sei Agata” - ripetè meccanicamente, non senza difficoltà nel ma-scherare il suo stupore.

“Ti trovo molto cambiata” - si rese conto di aver pronunciato la frase con un tono adulatorio.

“In meglio o in peggio?” - lo incalzò lei sorridendo lusingata, dopo aver letto nei suoi occhi un certo imbarazzo.

“Beh, in meglio direi.”

In effetti poteva assolutamente dire che era avvenuto un mira-colo.

Avrebbe potuto fare qualche complimento in più sulla sua avve-nenza ma non voleva dare l’impressione di corteggiarla.

Non per il momento per lo meno.

Voleva prima sapere se quella ragazza fosse diventata bella anche dentro come lo era fuori.

Cercò di cambiare argomento per metterla alla prova.

“Tu sei cambiata tanto, questo paese invece non è cambiato per nulla.“

Notò una certa delusione sul suo volto, forse lei si aspettava di po-ter continuare quel gioco di ammiccamenti nella speranza di sedurlo.

“E’ vero, purtroppo, non è cambiato niente” - ammise.

“Altrimenti sarebbe un bel paese come me” - ridacchiò - “ora mi corteggiano in tanti.”

Cercò di pavoneggiarsi nella speranza di ingelosirlo e di diventare preziosa ai suoi occhi.

Lui, però, non voleva farsi trascinare in quella trappola tipicamen-te femminile.

Aveva in testa Lena che era sicuramente un altro mondo rispetto a lei.

Preferiva lasciare che i suoi compaesani si dannassero l’anima per quella ragazza belloccia e civettuola mentre lui aveva vissuto la vera unione di anime.

“Mi fa molto piacere” - rispose con un certo disinteresse.

Sapeva che la bellezza esteriore comunque sfiorisce nel tempo e intendeva privilegiare quella interiore.

Se anche Agata era un fiore di ragazza e riusciva a scatenare i suoi ormoni, la sua devozione andava a Lena.

Tuttavia non volle scacciarla né farla sentire disprezzata.

“Avrai un bel da fare nello scegliere quello giusto, tu saresti giusta per molti, ma è pur vero che i molti di qui spesso non hanno nulla da offrirti” - obiettò.

Poi si rese conto che quella frase poteva suonare come un tentati-vo di lusinga e se ne vergognò.

“Scusa, ora devo rientrare in casa” - cercò di congedarsi.

Voleva porre fine a quella conversazione e darsi il tempo di riflette-re e mettere fine a quella lotta tra la ragione e le emozioni, ma non voleva correre il rischio di sembrare scortese.

“Però se ti va potrei are al panificio questo pomeriggio, sem-pre se sei ancora la, e potremmo continuare a parlarne un altro po’, ti va bene ?”

Il suo sorriso amichevole la rassicurò.

“Va bene.”

S’incamminò tutta contenta, si vedeva chiaramente che pensava di aver fatto breccia nel suo cuore.

Mostrava un compiacimento del tutto spontaneo che la rendeva ai suoi occhi

simile ad un’oca giuliva.

Gli pareva comunque strano che, conoscendo la mentalità anti-quata del paese, lei si fosse decisa ad avventurarsi davanti casa sua per avere una chiacchierata solitaria con lui e, per giunta, parlando così informalmente ed in mezzo alla strada senza preoccuparsi di eventuali pettegolezzi.

Forse aveva fatto bene a darle una seconda opportunità.

Più che altro l’occasione serviva a lui per capire se lei era un’oca per davvero o stava solo recitando una parte.

Perchè lo sto facendo?

Era una bella domanda, forse la spiegazione più semplice glie-l’avrebbero fornita i suoi impulsi ormonali.

XII

I giorni in attesa di una risposta dello zio Giacomo trascorsero lenti e assolati, scanditi dalle frequenti visite al panificio dove poteva vedere Agata.

Gli era tornato utile andare da lei dove poteva farsi servire dell’ot-timo pane e grazie al suo ascendente ottenere ogni tanto degli sconti.

Sorprendentemente, però, aveva trovato la compagnia di Agata molto gradevole e scorto in lei una buona conversatrice.

Aveva cominciato col fare domande formali chiedendo notizie sul paese e sui suoi compaesani, in particolare sugli amici d’infanzia.

Con lei si era prefisso di condurre la discussione grazie alle sue ca-pacità dialettiche, ma dovette constatare la bravura di lei nel saper di-rottare ripetutamente il discorso su entrambi.

Era giunto al punto di sentirsi in impaccio nel tirarsi fuori da quegli scomodi dialoghi.

Lo stupiva la sua sorprendente capacità di approfittare della sua lentezza discorsiva e nel suo sapersi incuneare in mezzo ai suoi silenzi tra una frase e l’altra.

Ad un certo punto lui si sentì quasi obbligato a chiederle se avesse proseguito

negli studi perché non si spiegava come lei avesse sviluppato le sue capacità dialettiche al punto tale da riuscire a metterlo alle corde.

Poi ci ripensò e decise di non affrontare l’argomento bensì cercò di sfidarla sullo stesso terreno.

Usò frasi più complesse e articolate per esprimersi in modo da met-terla a disagio.

Più o meno come fanno certi professori per intimidire i propri alunni svogliati e farli vergognare davanti al resto della classe della propria ignoranza.

Lui non aveva mai creduto a quelle pratiche.

Non concepiva l’idea che la paura di essere messi in ridicolo da-vanti alla classe potesse diventare un deterrente per essere spronati a studiare.

Al contrario diventava ulteriore motivazione ad odiare la materia poiché si odiava il professore.

In quel caso invece Agata era perfettamente preparata e a suo agio e così ora quelle pratiche gli tornavano utili come atempo.

Avrebbe giocato con lei come il gatto con il topo per vedere come se la sarebbe cavata.

Nulla di strano, pensava, che lui la colpisse nell’amor proprio per renderla più umile e meno spavalda.

Lei parve leggere nella sua mente.

“Sai a differenza tua ho fatto le scuole medie, ma avrei continua-to” - disse in tono di sfida.

“Sono una persona curiosa e mi piace leggere.”

In un modo o nell’altro lei riusciva a scansare i tranelli e i traboc-chetti che lui le tendeva con la stessa perizia di un ragno che tesse la sua tela.

Lui a sua volta doveva prestare attenzione ai suoi innumerevoli tentativi di smascherare i suoi sentimenti.

Quello che era certo è che lei non lo lasciava indifferente.

Prima di tutto sul piano fisico.

Lei diventava più interessante ogni minuto che ava a chiac-chierare con lui.

Sapeva che la situazione si andava facendo sempre più insos-tenibile e cominciava a pensare che, prima o poi, avrebbe rischiato di capitolare ai suoi impulsi.

Perfino sua madre, ogni volta che rincasava, gli chiedeva come stava Agata, poi partiva coi suoi sermoni che culminavano nella neces-sità di farsi una famiglia invece che restare ad oziare.

Lui ormai aveva compreso la strategia della madre.

Lei non voleva che lui lavorasse la terra ma, piuttosto, la sua ri-chiesta si era rivelata un pretesto per guadagnare tempo.

Lei aveva fatto in modo che Agata sapesse del suo ritorno e spe-rava che si fidanzassero.

Era stata la madre a chiamarla.

Anche se Agata non lo aveva mai confessato, lui aveva capito che le due donne si erano messe d’accordo.

In questo modo, se si fossero fidanzati, la madre avrebbe finalmen-te raggiunto il suo scopo.

Lui non sarebbe più dovuto partire per andare al nord e, se anche

la famiglia di Umberto avesse saputo che lui era rimasto lì in pianta stabile, non avrebbe più visto come una minaccia.

Lui, comunque, evitava di affrontare la madre nei suoi discorsi e si chiudeva nel fatto che intendeva seguire la sua vena artistica.

“Tanto lo so che hai la stessa testa di tuo zio” - era insofferente.

“Ma anche lui si è dovuto piegare alla vita ed inoltre si è sempre dimenticato degli affetti nei momenti importanti a causa del suo ego-ismo.”

Non era sicuro di comprendere l’affermazione di sua madre.

Aveva il dubbio che fosse un’allusione al fatto che lo zio non ave-va ancora scritto nulla e insinuava il dubbio che questi si fosse dimen-ticato del nipote.

La riteneva un’affermazione sconveniente, una sorta di pugnalata alle spalle verso quell’uomo che aveva fatto tanto per lui.

Non dubitava dello zio Giacomo.

Non dopo che si era preso cura di lui per tanti anni e soprattutto non dopo aver messo al corrente il nipote delle loro affinità emotiva.

C’era una profonda vicinanza ed un legame quasi fraterno tra loro, per questo non poteva credere che lui si fosse dimenticato di una cosa così importante.

Sapeva di non poter restare ancora per molto in Sicilia, né voleva prolungare il suo soggiorno.

Non voleva rischiare di cadere in qualche trappola di Agata.

Aveva pensato anche di andare a lavorare con la madre per evitare ulteriori contatti con lei.

Ma era davvero combattuto e di certo si rifiutava di accettare qualcosa che lo avvicinasse in qualche modo al fato del padre.

Non riusciva a vedersi in quell’esistenza che concepiva come squ-allida, un bracciante sposato alla figlia di panettieri.

Non rappresentava certo la sua ideale realizzazione.

Lui voleva di più.

Aveva gustato la conoscenza e voleva poter cre-scere con una donna che lo aiutasse e sostenesse in quell’impresa, non voleva una donna che fosse solo

dedita alla casa.

Una mattina vide ricomparire il postino e gli andò ad aprire.

Quando fu alla porta si ritrovò davanti quel figuro privo di emozio-ni che, imibile, gli allungò una lettera.

“Questa è per lei.”

Lui la prese e, stavolta, decise di vendicarsi per il trattamento subi-to nell’incontro precedente.

“Grazie, arrivederci” - disse sbattendo la porta in faccia al postino.

Poteva immaginare la sua faccia di fronte a quel gesto, ma si sentiva soddisfatto.

In fondo quell’uomo la volta precedente non si era comportato di-versamente.

Poi si sincerò che quella fosse destinata davvero a lui, riconobbe la calligrafia e capì che, finalmente, lo zio aveva mantenuto la sua promes-sa.

Prima ancora di aprirla era contento di sapere che stava per smontare le tende e che si sarebbe liberato di Agata e di sua madre.

Solo aveva un certo rimpianto nel pensare che partendo avrebbe lasciato per sempre Lena al suo destino.

Andò a guardare alla finestra per osservare il postino che andava via.

Voleva il suo momento di totale privacy per leggere il contenuto e, come il postino scomparve dalla sua vista, si recò nella sua stanza.

Sperava che lo zio fosse stato in grado di offrirgli una seconda vita meno disgustosa e frustrante di quella che avrebbe avuto se avesse as-secondato i propositi della madre.

Strappò da un lato la busta gialla e tutta stropicciata e ne estrasse due fogli scritti di pugno.

Si accorse poi dal peso e dallo spessore che essa conteneva qualcos’altro.

Vi sbirciò dentro e scorse delle banconote che però lasciò momentaneamente nella busta senza nemmeno contarle.

Era molto più interessato a quello che Giacomo aveva da dirgli, era felice che l’uomo si continuasse a prodigare a quel modo per lui.

Si sentiva amato con un amore che nessun altro aveva saputo mo-strargli, nemmeno sua madre.

“Caro nipote, finalmente qui tutto è stato messo a tacere.”

Iniziava così.

“Ma nulla è stato dimenticato.”

Su questo nemmeno lui si era fatte molte illusioni.

“Ti ho trovato un’opportunità di lavoro a Milano da certi miei pa-renti di cui ti ho scritto l’indirizzo alla fine” – continuava.

”Puoi partire quando vuoi, ma sarebbe meglio che lo fi al più presto possibile poiché non è sicuro che tu stia ancora in Sicilia.”

Sapeva benissimo che doveva andare via.

Se suo zio lo ribadiva allora voleva dire che la famiglia di Umberto stava cercando di informarsi sul suo conto per accertarsi se davvero se ne fosse andato via dalla Sicilia.

Continuò a leggere e annotò l’indirizzo al quale si sarebbe dovuto recare per incontrare il tizio che avrebbe dovuto assisterlo nell’assun-zione.

Era un capo metalmeccanico, nonchè un rigoroso sindacalista.

Ai suoi occhi quella proposta non sembrava avere nulla di diverso da quella di sua madre di fare il contadino.

Tuttavia almeno per quanto riguardava la mansione che avrebbe svolto, essa era probabilmente suscettibile di un qualche genere di avan-zamento di carriera.

Inoltre sarebbe entrato in contatto con una cultura ben diversa da quella immobilista dei siciliani, una cultura aperta ai cambiamenti e animata da uno spirito di realizzazione personale.

In fin dei conti poteva avere altra scelta?

Suo zio s’era speso come aveva potuto, ora toccava a lui decide-re cosa fare di se stesso.

Avrebbe desiderato tornare da Lena, lei era stata nei suoi pensieri ogni giorno.

Avrebbe lottato fino alla morte se fosse stato necessario, ma sape-va che sarebbe stato tutto vano.

Umberto aveva le spalle ben coperte da una famiglia molto potente che poteva fare i propri comodi senza che alcuno le si potesse opporre.

L’unica scelta era di restare in quella terra e sposarsi Agata, maga-ri il tempo gli si sarebbe mostrato propizio e avrebbe potuto rincontrare Lena.

Si diede dello stupido perché, una volta sposato, incontrarla a-vrebbe creato una situazione ancora più spiacevole, soprattutto dopo che anche Lena si fosse sposata.

Due adulteri scoperti in flagrante sarebbero stati troppo scandalosi e non l’avrebbero ata liscia.

Capì che ormai il suo viaggio non poteva più interrompersi se non una volta arrivato a destinazione e, soprattutto, ormai non poteva più fare ritorno.

Così accolse, a malincuore, la proposta di suo zio e continuò a leg-gere per aver chiaro l’itinerario.

Lui dal canto suo s’era prodigato a mettere in busta il denaro ne-cessario per permettergli il viaggio e mantenersi per i primi giorni.

Questo atteggiamento amorevole lo commosse profondamente.

Era certo che suo zio avesse ancora il desiderio di rivederlo e, co-munque, si augurava che lui gli scrivesse per fargli sapere come sareb-bero andate le cose.

Non poteva più indugiare, né sarebbe servito restare ancora un al-tro giorno, di sicuro non avrebbe fatto bene a sua madre sapere che era arrivato il momento di andar via e lui detestava gli addii.

Si premurò di scrivere alcune righe con cui si congedava dalla ma-dre ringraziandola per tutto e rassicurandola sul suo destino e infine ave-va aggiunto un post scriptum per mandare dei saluti anche ad Agata.

Anche con lei non se la sentiva di salutarla di presenza.

Era la seconda volta che l’avrebbe visto andar via e Dio solo sa-peva cosa non avrebbe provato a fare per trattenerlo oppure sarebbe partita assieme a lui pur di stargli vicino.

Si preparò in fretta i bagagli e si diresse a o svelto alla stazione e fece il biglietto per il primo treno che lo avrebbe portato nel capoluo-go dove avrebbe pernottato nell’attesa del treno per Milano.

Quando il treno arrivò vi salì senza esitare e solo quando fu sull’ul-timo gradino si voltò a guardare il panorama.

In pochi istanti stava dicendo addio a quei luoghi che gli erano stati familiari ma anche a tutte le sue speranze.

Gli occhi stavolta gli s’inumidirono, doveva arrendersi alla vita, a quel potere che in Sicilia aveva un nome molto semplice e chiaro e si chiamava Mafia.

Poche cose avevano un significato così profondo.

Il Sole ad esempio dava un senso di gioia e di vita ogni qualvolta se ne pronunciava la parola.

Cielo invece riportava alla mente la speranza e la libertà.

La parola Mafia riportava alla mente solo paura, dolore e morte al punto che nessuno osava pronunciarla.

Chi si opponeva, ed erano sempre individui animati da grandi ide-ali e scarsi mezzi, faceva sempre la fine del martire circondato dal silenzio della paura.

Tutti gli altri o tacevano o, come stava facendo lui, se la davano a gambe.

Pensava che forse un giorno Dio avrebbe fatto rivoltare i figli con-tro i padri e che la Mafia si sarebbe uccisa da sola anche attraverso faide senza senso.

Ma probabilmente lui non avrebbe mai visto quel giorno nemme-no riuscendo a sopravvivere.

Per adesso gli importava che le persone che amava, grazie alla sua partenza, potessero vivere ancora al sicuro, per lo meno sua madre e suo zio.

Quanto a Lena sperava solo che Dio le tenesse una mano sulla te-sta e la proteggesse dalle violenze di Umberto ora che non poteva più farlo lui.

Il treno iniziò a muoversi.

Guardò i campi in cui aveva giocato farsi più lontani e pensava a quelle due donne, sua madre e Agata, ignare della sua partenza.

Aveva fatto bene a partire all’improvviso.

Si immedesimava nel loro dolore e lui stesso ne provava commo-zione.

Chiuse gli occhi e mandò un bacio ad entrambe con la mente, ma giurò a se stesso che un giorno le avrebbe salutate come si deve.

XIII

Scendendo dal treno si ritrovò catapultato in un mondo com-pletamente diverso, pregno di stimoli, caotico e dirompente.

Era come essere in un torrente che con la sua violenza cercava di spingerlo dove lui non voleva.

Non si sentiva più padrone di sé ma si percepiva come un granelli-no di sabbia in mezzo a tanti altri tutti uguali.

Veniva colpito da ogni direzione dalla gente andava per la propria strada urtandolo come se lui non esistesse e questo lo metteva a disagio, non c’era più nessuno che si curasse di lui.

Fosse anche solo per invidia.

Percepì di colpo tutta la differenza culturale rispetto alla sua Sicilia.

Sarebbe anche potuto morire lì senza che nessuno se ne accorgesse per lungo tempo.

Ad un tratto qualcuno gli afferrò un braccio e lo risvegliò dai suoi pensieri.

Fece per divincolarsi pensando ad un malintenzionato, ma quando si voltò vide un signore brizzolato che lo squadrava per sincerarsi che lui fosse la persona che stava cercando.

“Tuo zio Giacomo ha fatto bene a mandarmi una tua foto” - disse.

“Questi giovani emigranti, arrivano carichi di speranze e quando scendono dal treno sono già sperduti come pulcini.”

“Lei dovrebbe essere il signor Licinetto.”

“Puoi chiamarmi Achille” – rispose.

“Ora vieni con me.”

Lo guidò fuori dalla stazione e lo condusse alla sua auto.

“Sembri un bravo ragazzo” – riprese.

“Tuo zio mi ha parlato bene di te, forse sei solo una testa calda giù in Sicilia, ma qui le cose sono diverse, troverai tanti come te e non sarai più solo.”

Parlava come se conoscesse tutto di lui e del suo modo di pensare, forse era solo

un modo di metterlo a disagio e fargli capire che non era unico, ma lui non si lasciò intimorire.

“Da noi chi lotta è solo e muore” - cercò di giustificarsi di fronte all’uomo - “e io non avevo alternative.”

”Magari da qui posso fare quello che mi è stato negato lì” - aggiunse.

Mentre pronunciava quelle parole ebbe un’illuminazione.

Poteva darsi da fare migliorando la propria vita e rendendosi abbastanza autosufficiente da pensare di poter ridiscendere nella sua terra per riprendersi Lena e risalire con lei al nord.

Finalmente gli veniva offerta un’occasione di realizzare il suo so-gno.

Forse la vita non si mostrava così ingiusta in fin dei conti.

“Qui mio caro, ci sono i sindacati che non permettono ai padroni di fare il bello e il cattivo tempo.”

Achille gongolava alle sue stesse parole.

“Abbiamo lottato duramente per ottenere questi diritti e molti han-no pagato con la vita per ottenerceli.”

Si fece serio.

“Nessuna morte è inutile se c’è sempre qualcuno a raccogliere il testimone e alla fine per quanti ne ammazzino ce ne saranno sempre altri che si leveranno.”

Aveva maledettamente ragione.

“Io credo che la vostra gente sia solo un po’ più sfiduciata rispetto a noi” – continuò.

“Ma un giorno, fosse pure in un futuro lontano, saranno talmente tanti coloro che si alzeranno e che non avranno più paura che anche da voi dovranno arrendersi all’evidenza che non possono ammazzarli tutti.”

“Si ma la gente ha paura di morire nel frattempo.”

“Sei un caro ragazzo, ma non rifletti su una cosa” - fece una pausa.

“La vostra gente non si ribella per paura di morire.”

Lo guardò fisso attraverso lo specchietto retrovisore.

“Di fatto quella gente non vive perché ogni giorno restando in si-lenzio accetta ogni tipo di sopruso e si lascia portare via a poco a poco ogni cosa.”

Fermò la macchina sul ciglio della strada.

“Comprendi cosa intendo?”

Lo guardò fisso.

“Se io ti chiedo i vestiti tu per paura me li dai.”

Sapeva bene dove Achille volesse arrivare e lo seguì nel ragiona-mento.

“Così io saprò che poi potrò anche toglierti il cibo tanto tu per paura non me lo impedirai e così via” - i suoi occhi brillarono,ormai era facile intuire dove volesse arrivare.

“Più tu mostri la tua paura e più loro sanno che possono alzare l’asticella delle loro richieste” – aggiunse.

“Alla fine tu diventi una loro proprietà che tu lo voglia o no.”

“Saranno state tutte le tue rese incondizionate a permettere loro di comprarti senza pagare” – sorrise.

“E il giorno in cui ti accorgerai di avere le spalle al muro e di non avere altra scelta, se vuoi sopravvivere, che rifiutare per forza le loro richieste, loro ti ammazzeranno comunque.”

Aveva ragione da vendere.

“Intanto li avrai foraggiati di tutto quello che necessitavano per continuare a sopravviverti e continuare a fare lo stesso con altri.”

Ripartì e rimise l’auto in carreggiata continuando a parlare.

“Se invece per ognuno che uccidono, le famiglie iniziano a lottare il messaggio che gli arriverà sarà di tutt’altro genere” – incalzò.

“Se in ogni famiglia ci sono quattro componenti saprai che per ognuno che ne uccidi ce ne saranno altri tre che si solleveranno e non ti daranno tregua.”

Ora aveva chiarito il suo ragionamento.

“In questo modo avranno la certezza che, per quando si impegni-no, la loro

guerra sarà persa in partenza.”

“Ho capito perfettamente” – rispose.

”Grazie per la spiegazione.”

“Di nulla, figurati.”

A parole era tutto facile.

Achille non comprendeva la paura dei si-ciliani se avesse provato a spiegargliela per lui sarebbero stati solo dei pavidi irragionevoli.

Non avrebbe capito che in Sicilia la paura era qualcosa di neces-sario per mandare avanti quel sistema di alibi.

Continuarono il viaggio alternando i silenzi a dei brevi racconti sulla Sicilia.

Achille voleva farsi rivelare le vere motivazioni della fuga, proba-bilmente voleva solo soddisfare la sua curiosità.

Poteva anche trattarsi di un interesse sionato per risolvere i suoi problemi, ma preferiva scoprire di più su quel sindacalista così loquace prima di aprirsi

ulteriormente.

Arrivarono a casa sua e lui fece la conoscenza della moglie.

Era una donna simpatica e tanto loquace quanto affascinante.

”Lei è mia moglie Marisa, la cugina di Giacomo.”

Poi si avvicinò ai suoi due figli e li abbracciò.

“Loro sono Piero il mio pargoletto di dodici anni.”

Il maschietto sembrava un po’ imbarazzato dalle affettuose ester-nazioni del padre in pubblico.

“Lei è Linda, la mia primogenita, che l’anno prossimo diventerà maggiorenne.”

Linda era una splendida ragazza coi capelli rossicci.

Fisicamente aveva preso dalla madre.

Tuttavia vide nel suo sguardo vivo e intenso un mare in tempesta e nel suo fare spigliato anche una rassomiglianza col suo spirito ribelle.

“Piacere” - disse con una certa complicità e un fare ammiccante che lo mise alquanto in imbarazzo.

“Sono sicura che a Milano ti troverai bene.”

Doveva essere un peperino.

“Non esitare a chiedere” – continuò.

“Sarò molto lieta di aiutarti a visitare la città.”

Non attese una risposta, ma tornò alle sue occupazioni.

Sicuramente non era davvero un’offerta di aiuto disinteressato, bensì una frase buttata per i suoi genitori, una volontà di congedarsi da loro.

La madre interruppe quel momento di confronto silenzioso portan-do il cibo in tavola e richiamando la famiglia.

Tutti obbedirono con sollievo e si misero in tavola cercando di pensare solo al

cibo.

Mentre mangiava cercava di scrutarli senza essere visto.

Voleva capire meglio le personalità e, soprattutto, i conflitti che c’erano in quella famiglia e che venivano mascherati agli estranei.

Non riuscì a cogliere granché rispetto alle prime impressioni che si era fatto.

“Allora, non appena abbiamo finito e ti sarai riposato” - disse Achille mentre aveva ancora il boccone in bocca.

“Faremo un salto nella fabbrica dove lavoro e dove parleremo con l’incaricato alle assunzioni.”

Bevve del vino per mandar giù il cibo e le ansie.

“Stai tranquillo già sanno chi sei, ho garantito io, vedrai che ti tro-verai bene anche se l’inizio sarà faticoso.”

“Grazie per tutto quello che fate.”

Si vergognava di trovarsi nella posizione di mendicante.

“Ma figurati, sicuramente già domattina inizierai a lavorare” – controbatté.

“Ma ti faranno fare cose semplici e sotto la supervisione di qualcu-no in gamba in modo da non farti male.”

“Nel frattempo” - li interruppe Linda

“Gli mostrerò la sua stanza.”

Era come se lei sfidasse l’autorità del padre.

Lui faceva finta di nulla come se non desiderasse raccogliere la sfi-da.

Finito il pranzo andarono nella stanza che gli era stata messa a di-sposizione e Linda gli indicò l’armadio dove posare i vestiti e tutto il ne-cessario per prendersi cura di sé poi aggiunse.

“Come vedi la mia famiglia pensa sempre a tutto” - aveva il tono infastidito.

“Forse pensa a troppe cose e gli altri non possono pensare e or-ganizzarsi le cose da soli come vorrebbero.”

Lui ne convenne.

“Nemmeno tuo fratello non mi sembra tanto contento.”

Voleva capire cosa cercava di dirgli e le lascio il filo della discus-sione.

“Ovvio” – annuì.

“Mio padre è sindacalista ed è abituato a comandare i suoi colleghi.”

“Fa tanto il comunista ma è solo l’ennesimo dittatore che vanta tanto il popolo e invece lo sottomette” - esternò tutta la sua frustrazione.

“Fa la stessa cosa in famiglia e presto ne renderai conto.”

La cosa gli era parsa talmente palese fin da subito che le parole della ragazza non lo stupivano.

Si era già accorto della personalità dominante dell’uomo durante il tragitto in auto quando, parlando, sembrava sempre avere la soluzione pronta a tutti i problemi del mondo.

“Comunque” – Linda cambiò discorso.

“Ti porterò fuori da questa realtà e ti farò conoscere il mio mondo.”

In cuor suo lui sperava che queste conoscenze non fossero latrici di guai, ne aveva già avuti abbastanza dal posto da cui proveniva e voleva vivere più tranquillo.

“D’accordo” – acconsentì timidamente alla proposta.

Non voleva scontentare nessuno, almeno finchè gli sarebbe stato possibile farlo senza avere guai.

Nel pomeriggio si recò alla fabbrica con Achille dove incontrarono l’addetto alle assunzioni e tutto andò secondo i progetti del sindacalista, il quale ebbe gioco facile grazie alla sua dialettica e al suo ruolo.

Dall’espressione preoccupata dell’incaricato intuiva che Achille era una vera e propria spina nel fianco e lui stesso non faceva nulla per mascherarlo.

Parlava delle morti bianche e di come spesso loro avevano chiuso un occhio per evitare scontri e fidandosi delle loro promesse di condizioni migliori, promesse troppo spesso disattese.

Si rese conto che Achille stava comprando la sua assunzione sulle spalle dei lavoratori morti e a scapito di quelli che lavoravano in situazio-ni precarie.

Avrebbe voluto dire qualcosa ma avrebbe significato mettersi contro di lui e giocarsi ogni aiuto a Milano.

Rimase in silenzio pensando ad una parola, quella stessa che lo angosciava in Sicilia: Mafia.

Mentre tornavano a casa Achille parlava a ruota libera ma lui per-cepiva solo il vociare indistinto dell’uomo e non ne capiva le parole.

Era ancora preso dalle sue riflessioni su quel che era successo.

Si rendeva perfettamente conto che, in fondo, quel dialogo non era stato tanto dissimile da quelli che facevano i mafiosi in Sicilia e tutti per non dispiacere l’altro e perdere qualcosa di importante avevano dovuto cedere al ricatto.

La sera a cena si sforzò di parlare ma non fu granché di compa-gnia e Linda se ne accorse.

“Domani dopo il turno usciamo, ti va?”

I suoi la guardarono senza proferire ma lei non li considerò e conti-nuò il suo discorso.

“Così ti farò conoscere tutti i miei amici di scuola.”

Aveva deciso tutto da sola, senza permettergli di replicare alla do-manda, erano di quelle proposte che non si possono rifiutare.

Lui si accorse che i genitori erano un pò nervosi al sentir parlare di amici di scuola ma avevano ripreso a mangiare.

C’era davvero troppa tensione in quella famiglia e lui temeva di sapere il perché, ma soprattutto presagiva che sarebbe esplosa come una bomba.

E lui era consapevole di avere quella bomba tra le mani.

XIV

Quel pomeriggio uscirono insieme, anche se i genitori di lei non ne erano davvero felici.

Durante il tragitto Linda raccontò un po’ di cose sul tormentato rapporto coi suoi genitori.

Accettavano il fatto che Linda uscisse in compagnia di un ragazzo con le credenziali in ordine piuttosto che con un compagno di scuola che nemmeno conoscevano.

Erano arrivati perfino a pensare che i ragazzi che venivano a studiare con lei non fossero nemmeno suoi compagni ma approfittassero di quel pretesto per stare con lei.

Linda rimaneva sempre riservata sulle sue conoscenze di scuola tuttavia portava a casa ragazzi sempre diversi.

Achille un giorno le aveva fatto una scenata dicendole che il fatto che era un rivoluzionario non significava che lei potesse avere in casa tutti gli uomini che voleva.

Lui non accettava il libertinaggio.

Così lei si aveva risolto asserendo che era più rassicurante per il padre che

andasse a studiare dalle compagne.

I primi tempi la madre l’accompagnava a casa loro.

Ma una volta era capitato che lei telefonasse qualche ora più tardi per sapere quando rincasava e le venisse risposto che lei era andata via già da qualche tempo.

In quel frangente Marisa non volle far sapere nulla al marito poiché pensava che avrebbe dato di matto, ma appena rincasata la figlia l’aveva duramente rimproverata e aveva minacciato di metterla in collegio.

Linda prendeva quei rimproveri alla leggera.

Sentiva che i suoi genitori combattevano una guerra con sé stessi per non essere come i loro genitori e tuttavia non sapevano come educare i figli in quel nuovo mondo culturale che tentavano di creare.

Così lei approfittava dei loro disagi e delle loro debolezze per farsi

la sua vita.

Lei disprezzava i loro tentativi e li riteneva ridicoli.

“Finalmente ci siamo liberati dei vecchi” - disse lei mentre lo conduceva verso una meta che solo lei conosceva.

Lui la fissò e lei parve non notare nulla.

“Perché ce l’hai tanto coi tuoi genitori?” - le chiese.

Continuò a camminare come se non avesse sentito.

Non cambiò espressione sul suo volto nemmeno quando riprese a parlare.

“Perché sono solo dei patetici orgogliosi che vogliono cambiare loro stessi e gli altri secondo schemi di cui non hanno la benché minima idea.”

Parlava come se la cosa non la riguardasse.

“Loro non si accettano per quello che sono e non accettano gli altri” – continuò.

“Diventano delle contraddizioni viventi, parlano di fiducia nei figli e poi pretendono di decidere per noi e non gli va bene che abbiamo i nostri gusti e desideri.”

Si fermò a guardarlo aspettando una sua reazione.

“Oggi ti farò conoscere il mio ragazzo” – aggiunse.

“Mio padre non vorrebbe mai che io frequentassi il figlio di un fascista, nemmeno se fosse l’antitesi del padre.”

Si fermò come se aspettasse che lui replicasse.

“Comprendo i suoi timori” - lui usò un pò di diplomazia.

“Io non lo giustifico per nulla” - riprese lei.

“Tuttavia lui della sua vita ha fatto quel che ha voluto, s’è fatto la sua rivoluzione e ora pretende di restaurare gli antichi costumi solo perché di mezzo c’è la figlia?”

I suoi occhi brillavano di rancore.

“Che andasse a quel paese lui e la sua rivoluzione del cavolo, io ho diritto di amare ed essere amata da chi voglio, tra un anno sarò libera di stare con chi voglio” – vomitò tutta la sua rabbia.

“Io ho diritto di essere felice e lotterò per esserlo, farò qualunque cosa.”

Linda riprese a camminare senza attendersi una risposta.

“Sarò la degna figlia di un rivoluzionario, farò la mia rivoluzione.”

In cuor suo si era già assolta per la rabbia che provava e nemmeno lui si sentiva di darle torto ed era certo che, a tempo debito.

Anche Piero si sarebbe ribellato prima o poi a quei due genitori che non riuscivano a guidare con coerenza nemmeno se stessi.

Arrivarono in una piazzetta poco frequentata e in lontananza videro un giovane che levò uno sguardo su di loro, si alzò dalla panchina e gli si fece incontro.

“Ecco Tommaso” - esclamò lei.

I due si baciarono sulla bocca, poi lei si staccò, si volto verso il suo accompagnatore e fece le debite presentazioni.

Lui raccontò brevemente il motivo della sua venuta a Milano mentre Tommaso dal canto suo si limitò a dire che lo capiva.

Aveva un velo di tristezza negli occhi mentre annuiva.

Evidentemente anche suo padre, come quello di Linda, non avrebbe tollerato una relazione con la figlia di un comunista e quindi doveva rassegnarsi ad una storia clandestina.

Tommaso, poi, fece strada e lo presentò ad un gruppetto di amici

con cui lui poté chiacchierare mentre i due amanti clandestini sedettero appartati scambiandosi effusioni e godendosi un breve momento d’intimità.

Lui ogni tanto li osservava cercando di non farsi notare per non disturbare la loro privacy.

Nella sua testa li invidiava perché, in quel momento, desiderava

trovarsi al loro posto baciando Lena con lo stesso trasporto.

Parlando con quei ragazzi poteva cogliere lo stesso dolore e senso di frustrazione che aveva vissuto lui.

“Milano” - disse tra sé.

“La città moderna.”

In realtà non era poi così moderna e aperta come si voleva far credere se due generazioni contigue non riuscivano a capirsi, ad incontrarsi e finivano con l’odiarsi e disprezzarsi a vicenda.

Alcuni ragazzi del gruppo si accesero delle sigarette il cui odore era diverso dalle altre e se le arono, poi gli offrirono di farsi qualche tiro.

Lui non era mai stato un fumatore, ma aveva gustato solo qualche sporadica sigaretta rubata allo zio.

Quella sera decise che valeva la pena accettare di fare qualche tiro come gesto di fratellanza nei confronti dei suoi simili.

Si accorse subito che quella non era una sigaretta particolare.

Si sentì molto strano e, dopo un primo timore, vedendo anche gli altri molto rilassati continuò a fumare.

Dopo un po’ fu sorpreso da una scena che non avrebbe mai immaginato.

Vide Lena che gli veniva incontro.

Era possibile?

Era un’allucinazione?

Seppure in preda allo stupore lui cercò di alzarsi, ma lei non attese e gli gettò le braccia al collo chinandosi su di lui.

Lo baciò sulla bocca e poi, violentemente, gli tolse i vestiti.

Gli salì di sopra e fece l’amore in maniera animalesca, stendendosi su di lui e graffiandolo in vari punti.

Lui sentiva dolore ma, allo stesso tempo, un piacere profondo.

Quando il piacere divenne intenso lui emise un grido liberatorio e lei lo guardò con tenerezza.

“Io ti amerò per sempre” - disse mentre continuava a guardarlo.

Poi il suo volto prese a brillare fino al punto che scomparve nella luce.

Una luce molto forte.

Abbagliante, al punto che lo costrinse ad aprire gli occhi.

Aveva sognato tutto.

Aveva dormito tutta la notte per terra e sentiva l’indolenzimento in tutto il corpo.

Sbatté le ciglia alcune volte per mettere a fuoco e si accorse che i suoi compagni di sventura, come li aveva definiti, erano tutti li a dormire.

Mancavano solo Linda e Tommaso, probabilmente il ragazzo l’aveva riaccompagnata a casa.

Lui era stato svegliato da un raggio di sole riflesso da una finestra.

Si reputò fortunato di essersi trovato a dormire in quella posizione perché, calcolando l’ora in base al chiarore, si era alzato sufficientemente presto da riuscire ad essere al lavoro in tempo.

Se si fosse trovato al posto degli altri, pensava, il raggio non lo avrebbe colpito e probabilmente avrebbe dormito ancora arrivando poi in ritardo al lavoro.

Fu scosso dai suoi pensieri dalla sensazione di umido che gli veniva dall’inguine, si aprì la zip e vide le sue mutande macchiate.

Si rese conto di essere bagnato di sperma, probabilmente era stata un’eiaculazione notturna dovuta al sogno.

Sapeva che non aveva il tempo di tornare a casa per cambiarsi così provò a darsi una pulita ricorrendo ad una fontanella nelle vicinanze e poi si mise in marcia per fare il tragitto per la fabbrica chiedendo informazioni quando non riusciva ad orientarsi.

Mentre faceva il suo viaggio rifletteva anche su quanto era accaduto e sulle cose che lei e quei ragazzi gli avevano detto.

Gli venne in mente Achille.

Sarebbe stato molto contrariato del fatto che erano tornati a casa separatamente e, vedendolo in fabbrica, lo avrebbe rimproverato per non essersi preso cura della figlia.

Non sarebbe stata una bella situazione.

Avrebbe potuto dire che lei era tornata prima mentre lui, per combattere l’insonnia, si era fatto una eggiata tutta la notte.

La verità era che nessuno avrebbe creduto ad una storia del genere.

Lui non sapeva raccontare storie, qualunque cosa avrebbe detto non sarebbe mai

stato credibile.

Decise di are la palla a quella ragazza così abile nel mentire ai suoi genitori e sperò solo che Linda avrebbe spiegato tutto ai suoi nel modo migliore.

Quando incontrò Achille, questi non gli rivolse la parola, né lo guardò, ma il fatto che uscì prima dalla fabbrica lo costrinse a tornare a casa loro usando i mezzi pubblici.

C’era qualcosa di molto strano nel comportamento dell’uomo – pensò.

Era un silenzio che non lasciava presagire nulla di buono.

Dopo aver perso il doppio del tempo per arrivare a casa, entrando, trovò entrambi i genitori di Linda seduti al tavolo da cucina.

Capì che lo stavano aspettando e sedette di fronte a loro impegnandosi a mantenere la calma di fronte a qualunque evenienza, in fondo quella coppia meritava rispetto dato che lo aveva ospitato e gli aveva dato da mangiare ed un lavoro.

“Dove siete stati ieri?” - chiese la madre.

“Linda non ve lo ha già detto?” – si scrollò le spalle.

“Sapevo che voleva farlo lei.”

Ripeté la formula che aveva concordato con sé stesso.

“Linda ci ha già parlato, volevamo saperlo da te” - ribadì il marito.

“Come hai potuto approfittarti di lei” - la madre assunse un’aria sconfortata.

“Di noi.”

Non riusciva a capire cosa stesse accadendo.

Iniziava vagamente a percepire che Linda lo aveva usato e si stava coprendo le spalle, ma ancora non aveva idea di cosa avesse raccontato.

“Sei stato accolto ed aiutato con tutto il cuore” - riprese il padre.

“Ma non avrei mai pensato che ti approfittassi di mia figlia togliendole la verginità.”

Achille lo fissò disgustato.

Dunque era questo?

Linda lo aveva venduto con questa menzogna per pararsi le spalle?

A cosa le serviva averlo fatto?

Lei che sapeva sempre trovare scuse e inventare bugie non avreb-

be potuto trovare qualcosa che non desse di lui un’immagine così negativa?

Non si dava pace per il male che lei gli aveva fatto gratuitamente.

In fin dei conti lui l’aveva aiutata ad uscire e a stare coi suoi amici e il suo ragazzo permettendole di non sentirsi il fiato sul collo dei suoi genitori.

Lei adesso lo ricambiava tradendo la sua fiducia?

Così danneggiava anche se stessa - pensò - perchè avrebbe dovuto trovare altre scuse per uscire e non si sarebbe più potuta giovare della sua compagnia come alibi per le sue sortite.

Sicuramente sarebbe stata ancora più controllata.

Mise da parte le sue considerazioni sulla vita della ragazza mentre si rendeva perfettamente conto che, qualunque cosa avrebbe detto, sarebbe stata la sua parola contro quella di Linda.

Come si sarebbe potuto difendere?

Dicendo che lei era una bugiarda ?

“Mi spiace aver aperto casa mia ad una persona simile” - disse l’uomo.

“L’ho fatto per il legame col cugino Giacomo e per lo stesso motivo non ti toglierò il lavoro.”

“Ma qui non puoi più stare” - Achille gli ò un foglietto.

“Qua c’è l’indirizzo di un dormitorio” – aggiunse con un tono di disgusto.

“Non è lontano dalla fabbrica e potrai alloggiare lì finché non ti sarai trovato una sistemazione.”

Lui lo prese mentre ancora i suoi pensieri roteavano vorticosamente nella sua

testa allo scopo di incastrare tutti i pezzi del puzzle e capire il perché di quella pugnalata alle spalle da parte della ragazza.

Rifletteva sull’incontro coi ragazzi e si domandava se il fatto di farlo fumare fosse stato ideato per ottenere quel risultato, poi si rese conto che Linda era abituata ad improvvisare e si tolse quell’insana idea dalla mente.

“Bene” - disse il giovane alzandosi.

Adesso sapeva cosa fare.

“Mi vado a preparare.”

Andò nella sua stanza e mise in ordine le cose.

Fece i suoi bagagli in fretta, poi tornò di fronte ai due genitori.

Sapeva che doveva guardarli in faccia, non voleva mostrare alcun timore poiché sapeva di essere innocente.

Ma poteva esserne sicuro?

Improvvisamente si ricordò del suo risveglio, del sogno di Lena e di come si era

ritrovato bagnato.

Era possibile che lei avesse approfittato del suo stato di torpore per scoparlo?

Se fosse stato così, si spiegava come mai i suoi fossero sicuri della sua colpevolezza.

Forse lei si era procurata qualche prova dell’avvenuto atto sessuale.

Iniziava a pensare che la ragazza era veramente diabolica e gli riaffiorava nella mente la convinzione che avesse organizzato tutto con largo anticipo.

In ogni caso, cominciava a pensare, che fosse degna figlia di quella famiglia.

Da grande sarebbe divenuta come coloro che aveva sempre odiato per il semplice motivo che avrebbe visto nelle azioni dei suoi figli lo stesso male con cui lei aveva agito nei confronti dei suoi.

Non avrebbe mai costruito un rapporto di fiducia con loro.

Con nessuno.

“Grazie per tutto” - esclamò uscendo da quella casa.

Lungo la strada rifletté a lungo sulle azioni della ragazza per spiegare le motivazioni di quel gesto crudele e cinico nei suoi confronti.

Solo col are del tempo né capì le ragioni e, soprattutto, gli sovvenne la frase che lei gli aveva detto quella sera.

“Farò qualunque cosa.”

Parole che ben spiegavano le sue intenzioni.

Qualche anno dopo la stessa Linda gli spedì una lettera in cui dava le sue motivazioni: era il suo modo per chiedere perdono.

La perdonò poiché lei era una vittima e quando le vittime vengono messe con le spalle al muro si trasformano in carnefici a loro volta.

Tuttavia non volle risponderle.

Linda lo aveva scopato perché voleva colpire i genitori e le loro scelte.

Sapeva che lo avevano scelto loro come suo accompagnatore piuttosto che i ragazzi che voleva lei, quindi quale cosa migliore di metterli di fronte all’evidenza che le loro scelte erano così fallimentari?

Inoltre la consapevolezza che lei non era più vergine per colpa loro li avrebbe resi più docili alle sue richieste.

Avrebbe potuto vivere la sua vita con maggiore libertà e senza sentirsi soffocata grazie ai sensi di colpa dei suoi.

Certo - pensò - avrebbe potuto aspettare la maggiore età per affrancarsi dalla sua famiglia dato che non mancava molto, ma probabilmente lei non si era sicura che le cose sarebbero cambiate.

Così era ricorsa a lui.

Utilizzarlo per i suoi scopi, per la sua libertà e la sua vendetta contro i suoi genitori.

Colpirli con lo stesso male, usare il loro stesso veleno.

Questo non era il suo modo di fare, lui non era mai stato così vendicativo.

Ma forse era così perché non aveva dovuto subire quello che aveva subito Linda.

Poi pensò a Lena.

Lei non avrebbe mai osato simili cattiverie nei confronti dei suoi.

Non amava la vendetta e, di sicuro, i suoi figli sarebbero stati migliori di quelli di Linda.

Il tempo ò e, pur incontrando il proprio cammino con quello di Achille, i due rimasero come estranei fino al pensionamento di quest’ultimo.

Lui stesso, d’altro canto, era cambiato.

Ora si teneva a distanza dalle persone.

Aveva fatto l’esperienza del male che viene dai cuori marci ed ormai era divenuto un uomo.

Aveva raggiunto la maturità.

Ossia quell’età in cui si smette di dare amore incondizionato per paura di essere feriti.

XV

Aveva vagato tanto con la mente nel suo ato.

Quel viaggio di speranza e di riscatto, per qualche motivo che ancora non capiva, gli era così simile a quello che stava facendo ora in vecchiaia.

Aveva lasciato il suo paese e la donna della sua vita carico di amarezza e di frustrazioni.

Poi la vita l’aveva illuso con un possibile riscatto, gli aveva fornito un miraggio e, infine, gli aveva reso tutto vano.

Quanto cinismo c’è nella vita!

Aveva ato quattro decadi, dapprima lavorando in fabbrica, poi con i licenziamenti e l’età anagrafica troppo grande per essere riassunto in altre aziende di un certo rilievo si era dovuto arrangiare e reinventarsi di volta in volta con lavori che duravano al massimo mezzo lustro.

Questo gli aveva reso difficile anche ottenere una pensione dignitosa.

La vita e quel Dio al quale si era rivolto tante volte in gioventù carico di speranza, lo avevano ampiamente deluso e, a causa delle tante preghiere inesaudite, aveva smesso di pregarlo.

L’ultima volta che si era recato in chiesa era stata proprio per i funerali di Achille.

L’uomo se n’era andato senza conoscere la verità, portandosi nell’aldilà un rancore ingiustificato nei suoi confronti.

Tutto ciò dimostrava solo che non accadeva nulla se non per mano umana.

Che di tutte le sue preghiere, da quelle che aveva fatto da bambino per far tornare il padre dalla guerra, a quelle riguardanti il rapporto con Lena, nessuna di esse era stata esaudita.

Se mai Dio fosse esistito, se n’era fottuto completamente di lui ad esclusione del momento in cui l’aveva fatto venire al mondo.

Si domandava cosa gli avesse davvero donato la vita, cosa gli avesse voluto insegnare attraverso tutto quel dolore, quelle frustrazioni e quella solitudine.

Riteneva che fosse stata una cattiva maestra perché, qualunque cosa avesse voluto insegnargli, non era stata in grado di farlo recepire al suo allievo.

Aveva fatto solo rinunce e sacrifici per arrivare ad essere ora lì su un treno che lo portava sulla tomba della donna che avrebbe potuto renderlo completo.

Che avrebbe dovuto renderlo felice.

Aveva vissuto un incubo lungo una vita dal quale si stava svegliando solo adesso che tornava alle origini.

Pensò che forse lui non aveva meritato quella donna.

Probabilmente non aveva meritato di essere completato da lei proprio perché non aveva saputo difenderla e perché alla fine non era riuscito nemmeno ad organizzarsi un’autosufficienza tale da permettergli di portarsela al nord.

Cercò di perdonare sé stesso ricordandosi che solo qualche anno più tardi, quando aveva raggiunto un discreto tenore di vita, era comunque già troppo tardi per far salire Lena.

Suo zio, solo pochi mesi dopo che lui era a Milano, aveva risposto ad una sua lettera in cui chiedeva notizie di Lena dicendogli che lei si era sposata e che aspettava un bambino.

Lui provò una rabbia enorme per quel suo comportamento, andava in giro per il suo appartamento a darle della puttana.

Stava già diventando madre, pensò che si era consolata presto.

Poi, quando si calmò, capì che lei ormai era sola, senza alcuno che la difendesse

e che probabilmente non aveva avuto altra scelta.

“Forse Umberto deve averne abusato sessualmente” - pensò.

Si diede questa spiegazione per convincersi del fatto che Lena, pur di non subire altre violenze fisiche, aveva dovuto vendere il suo corpo e il suo futuro.

Lei non aveva avuto scelta come non ne aveva avuta lui e per questo non poteva condannarla.

La colpa semmai era di quel Dio che aveva ostacolato il loro amore, quello stesso Dio che aveva fatto il primo miracolo alle nozze di Cana e che a loro aveva negato ogni misericordia.

Guardò fuori dal finestrino e si accorse che il treno aveva percorso già parecchia strada mentre lui stava a trastullarsi tra dei ricordi del suo ato che molti invece avrebbero voluto dimenticare.

Ora il paesaggio era più mediterraneo e questo gli faceva capire che era abbastanza vicino a Roma.

Quasi come se gli avesse letto il pensiero, il treno rallentò in modo brusco ed improvviso.

Vide che, dal binario su cui viaggiava, si dipartivano altri binari e man mano che

procedeva questi si ramificavano a loro volta.

Poi lesse un cartello col nome della stazione e comprese che era di nuovo tempo di rimettersi in moto.

Si alzò, prese le sue valigie e cominciò ad avviarsi verso il corridoio, non appena il treno si fermo ne discese e si diresse verso il tabellone dei treni per trovare la sua coincidenza.

Riuscì a prendere il treno per miracolo dato che quello con cui era giunto aveva portato un certo ritardo e questo lo aveva infastidito non poco dato che si era dovuto fare le corse pur non essendo giovane.

Lo infastidiva, inoltre, la sensazione di essere osservato benché fosse certo che nessuno stesse minimamente facendo caso a lui.

Sapeva che gli psicologi parlavano di certi meccanismi subcoscienti che potevano portare un individuo insicuro a sviluppare delle vere manie di persecuzione.

Probabilmente questi erano i risultati di una vita ata a fuggire dalle proprie speranze.

Si accomodò in uno scompartimento proprio di fronte ad una coppia che lo salutò con un gesto del capo.

Lui ricambiò allo stesso modo e si sedette a guardare fuori dal finestrino per non doversi confrontare con qui due giovani che stavano teneramente abbracciati a baciarsi.

Il treno partì subito.

Lui voleva solo distrarsi guardando il paesaggio e concentrarsi su altri pensieri piuttosto che su un senso di rabbia e di fastidio che gli saliva dalle viscere e del quale non sapeva spiegarsi il motivo.

Solo quando, dopo alcuni minuti e dopo che i due si erano assopiti tenendosi mano nella mano, lui riuscì a fissarli attentamente.

In particolare il suo sguardo si soffermò sulle cosce della ragazza, ben tornite, con dei sandali da schiava e una gonna molto corta che il sedile del treno aveva fatto salire fino ai glutei.

Immaginava che non portasse nemmeno gli slip perché, altrimenti il bordo si sarebbe potuto vedere ai lati della gonna molto aderente.

Probabilmente se avesse aperto un po’ di più le cosce avrebbe potuto vederne il sesso.

Si accorse che non portava nemmeno il reggiseno sotto il top bianco che era senza bretelle, una fascia di tessuto molto leggero che lasciava in bella mostra una scollatura vistosa.

Poteva intuire che il suo seno, nonostante fosse prosperoso, era ben proporzionato e sodo.

A quel pensiero fu colto da una strana eccitazione.

Si alzò di fretta, ma avendo cura di non svegliare i due giovani, e si recò nella ritirata.

Così è stampigliato sulle porte di gabinetti dei vagoni, come vuole la buona creanza si suole ancora chiamare in quel modo un posto che ormai per i più si suole appellare col termine cesso.

Era una sorta di forza bestiale che lo aveva rapito da dentro e lo conduceva a perversioni animalesche che non provava più dalla sua giovinezza.

Come arrivò si chiuse dentro e si calò i pantaloni e le mutande orientandosi verso la tazza del gabinetto.

Guardò dapprima le sue lattescenti e rinsecchite gambe da sessantenne che vibravano ad ogni dondolamento del treno e poi il suo pene che, nonostante l’eccitazione, era il pallido ricordo di quello che aveva in gioventù.

Lo prese tra le mani con gesti decisi e iniziò a masturbarsi tenendo la mano larga come se simulasse il suo movimento dentro ad una vagina, mentre gli frullavano i più strani pensieri erotici riguardanti quella donna in procinto di mostrare

inconsapevolmente le sue nudità in pubblico.

Dentro di sé aveva la convinzione che quella ragazza non fosse poi così innocente e casta, non certo una che veste gonne corte e top che rischiano di scoprire parti intime senza portare indosso un minimo di lingerie.

Avrebbe ancora voluto essere in quel vagone immaginando di aprirle le cosce e abbassarle il top, per poter disporre di lei, del suo corpo e della sua anima.

Mia schiava!

Tutte le sue emozioni più brutali si consumarono nell’ultimo sussulto e sgorgarono nel getto bianco.

Era come se tutto il mondo gli fosse esploso sopra la testa.

Vacillò, le sue gambe erano sul punto di afflosciarsi, la vista si era offuscata, il cuore batteva ad un ritmo impazzito e tutto intorno aveva preso quasi a roteare.

I brevi istanti del suo crepuscolo sessuale arono rapidi, ma gli parvero un’eternità, e solo dopo che ebbe conquistato un briciolo di lucidità mentale si vergognò di quel gesto.

Pensava non fosse normale masturbarsi per un vecchio della sua età e si domandava per quale motivo avesse messo in atto quell’atteggiamento

compulsivo alla vista della giovane.

Ripensò a Lena e alla loro ultima notte d’amore.

Al suo sentimento di misto di tenerezza e rabbia e frustrazione e pensò che anche in quell’orgasmo solitario avesse provato gli stessi istinti negativi.

Si spiegò la cosa dicendosi che la seminudità della ragazza poteva metterla in condizione di subire abusi da altri uomini meno scrupolosi e che il ragazzo con cui stava non sembrava abbastanza nerboruto da difenderla.

L’aver provato una simile sensazione di impotenza doveva essere stata la causa di quel suo moto autodistruttivo.

Aveva praticato l’autoerotismo per ottenere un piacere che nessuno poteva togliergli, mentre con una donna avrebbe sempre corso il rischio di vedersela portare via.

Forse era per questo, più che per la promessa fatta, che non aveva avuto altre relazioni dopo Lena, sebbene avesse potuto conoscere altre donne avvenenti e disposte ad amarlo.

Lui aveva preferito una vita all’insegna dell’eremitaggio sentimentale.

Provava ancora un profondo disgusto al pensiero che Lena avesse dovuto fare

per tutta la vita l’amore con quel maiale di marito che era stata costretta a sposare e, in cuor suo, avrebbe preferito morire durante la masturbazione piuttosto che avvilirsi per queste considerazioni.

Poi il dondolare del treno gli fece ricordare che era ancora in piedi sulle sue gambe tremanti dalla stanchezza e ancora affannato per la fatica.

Aveva quasi i crampi ai polpacci e tuttavia stava ancora tenendo il suo membro in mano quasi fosse ancora pronto a ripetere la tutta la sua brutalità.

XVI

Uno strattone lo fece quasi cadere.

Il macchinista aveva dovuto frenare più bruscamente del solito probabilmente a causa di qualche ostacolo o solo di un semaforo rosso, ma lui a causa della frenata violenta colpì col fianco il bordo del lavandino.

Emise un gemito appena ma sentì le lacrime uscire e si commosse.

Pensò all’espressione della madre quel dì in cui il padre l’aveva percossa e il caso aveva voluto che anche lui assumesse un’espressione simile.

Riuscì a guardarsi nel piccolo specchio e vide, non più la sua faccia, ma il dolore di sua madre.

Si mise a sedere sul gabinetto.

Si sentì pervadere da un senso di vergogna, agli occhi di chiunque sarebbe solo sembrato un vecchio patetico, vittima delle proprie insoddisfazioni, alla ricerca di un piacere effimero quanto umiliante.

Forse proprio sua madre aveva innescato gli eventi che avevano portato il treno a frenare così bruscamente, facendogli battere il fianco e facendogli vedere allo specchio, attraverso il dolore, il suo volto.

Si disse che certamente sua madre non sarebbe stata fiera di vederlo in quello stato e che, se a sessant’anni era solo capace di gesti come quello, aveva meritato la vita vuota che gli era stata offerta.

Lentamente l’affanno e il dolore scomparvero.

Fortunatamente nessuno aveva avuto necessità di andare in bagno e lui aveva avuto il tempo di riprendersi fuorché nella vergogna che lo avrebbe accompagnato per molto tempo.

Era il caso di non sfidare la fortuna e di sistemarsi finché poteva farlo con la necessaria tranquillità.

Si levò in piedi, si tirò su le mutande e i pantaloni e si riguardò allo specchio per accertarsi che non apparisse trafelato e che non mostrasse più alcuna emozione.

In particolare quel dolore che aveva condiviso con sua madre.

Voleva uscire dalla ritirata vestito.

Non solo per quanto riguardava gli indumenti, voleva che le sue nudità emotive non venissero colte da alcuno il suo volto era la tomba dei suoi sentimenti.

D’altro canto, proprio i sentimenti, che gli altri avevano tradito, avevano ucciso ogni forma di amore dentro di lui.

Uscì dal bagno in maniera composta e tornò a sedere nel suo scomparto di fronte ai due giovani con la stessa delicatezza con cui era uscito di lì.

Non voleva svegliarli dato che loro continuavano a sonnecchiare ignari dello sconvolgimento che avevano causato in quel vecchio frustrato.

Guardò il panorama in continuo mutamento e rifletteva sul fatto che la sua vita per decenni, salvo piccoli cambiamenti, aveva mostrato lo stesso panorama.

Ma era stata la vista che lui aveva così fermamente voluto per punirsi di non essere stato capace di vincere le sue lotte.

Non avrebbe mai più riconquistato la sua dignità e l’orgoglio a poco gli era servito se non ad insistere su battaglie ormai perdute e su campi sfavorevoli.

La vita era certamente stata crudele con lui e l’aveva posto innanzi a sfide ben al di là delle sue possibilità anche dopo il suo soggiorno milanese e la sua esperienza in fabbrica.

Aveva subito frustrazioni di ogni genere, sebbene lui le aveva ritenute comunque sopportabili forse perché non riguardavano direttamente la sfera affettiva come era accaduto per Lena.

Achille era stato sostituito da un capo operaio davvero arrogante e dispotico.

Lui stesso avrebbe dovuto prenderne il posto ma, come sempre, i vari interessi particolari si erano sommati ed avevano portato alla ribalta un individuo frustrato al quale si presentava l’occasione per disporre di un piccolo potere con cui rifarsi dei torti subiti.

Il punto era che anche lui, come capita a tanti, si vendicava su coloro che erano vittime come lui, non certo con i suoi carnefici.

Anche lui era stato vittima dei tanti soprusi del successore di Achille che mal digeriva il fatto che lui fosse un diplomato mentre quest’ultimo aveva solo la quinta elementare.

Lui, comunque, non si lasciava turbare dalle piccole angherie in cui si trovava coinvolto anche perché andava alla ricerca di un secondo lavoro che potesse fornirgli maggiori gratificazioni intellettuali.

Soprattutto che gli fornisse maggiori sicurezze economiche dato che si andava profilando all’orizzonte una crisi economica nella sua azienda le cui proporzioni ancora non si potevano valutare.

In un paio d’anni le cose peggiorarono drammaticamente e lui, assieme ad altri colleghi, fu messo in cassa integrazione.

A nulla era servito partecipare ai cortei di protesta e ai vari scioperi della fame.

Si trovò quasi a dar ragione al padre sul fatto che bisogna accettare che la società fosse fatta e gestita dai potenti e che ribellarsi non serviva a nulla.

Alla fine aveva cambiato tante mansioni pur restando dentro una stessa azienda.

Si era reinventato segretario, poi dattilografo, infine si era occupato di contabilità ed aveva seguito dei corsi, poi, quando erano subentrati colleghi più giovani di lui l’avevano scaricato al servizio clienti.

Era un lavoro molto più complicato dell’operaio e gestiva un meccanismo che, nella testa dei suoi superiori, non doveva mai incepparsi.

Era assoggettato ai voleri ed ai capricci dei proprietari, alle loro esigenze, alle loro ambizioni, mentre lui doveva essere impeccabile.

Sempre pronto ad adattarsi a nuovi sacrifici pena la minaccia sempre presente di essere licenziato senza tanti complimenti.

Dopo tanto penare, combattere ed affannarsi quello era il massimo che si potesse aspettare e, in tutta onestà, non se la sentiva più di lottare per ottenere qualcosa che gli veniva sempre negato oppure gli veniva tolto nel tempo.

L’unica cosa che davvero rimpiangeva era l’aver tolto del tempo alla sua attività di scrittore nel tentativo di svolgere tutte quelle mansioni che avrebbero dovuto offrirgli maggiori garanzie di autosufficienza.

Era arrivato a smettere di scrivere, ma si era confortato dicendosi che era il prezzo che aveva dovuto pagare per avere un lavoro stabile e per costruirsi una discreta pensione.

Ma non ci credeva nemmeno lui.

Non credeva nel lavoro che faceva, se non per una crescita che puntualmente non si concretizzava.

Né credeva che sarebbe mai riuscito ad ottenere una pensione sufficiente e il suo pessimismo derivava dalle ferite che la vita continuava ad infliggergli, era sempre più cinica e spietata ogni giorno che ava.

Ora che era divenuto vecchio si amareggiava nel rimpianto di essersi curato più della sua pensione che della propria creatività letteraria.

Se invece di ostinarsi sulle speranze di un futuro solido si fosse lanciato col fervore di un bambino all’inseguimento delle sue chimere probabilmente si sarebbe trovato nella stessa situazione ma almeno non avrebbe avuto rimpianti.

Chissà - pensò - forse avrebbe avuto la possibilità di riscontrare un discreto successo e i suoi libri avrebbero venduto abbastanza da permettergli una vita agiata senza più pensare di doversi per forza alzare prima del sole per lavorare.

Sicuramente si sarebbe trovato a ringraziare quel Dio di cui ormai s’era

dimenticato il nome per averlo ammesso alla schiera dei privilegiati nel mondo.

Forse avrebbe dovuto ringraziare il diavolo dato che sua madre diceva sempre che l’arte e il successo erano i frutti del demonio per corrompere la gente e traviarla dal giusto cammino.

In tutti i casi, pensava che se mai avesse pubblicato un libro nella pagina dei ringraziamenti avrebbe scritto un solo nome.

Quello di Lena, così magari un giorno lei si sarebbe trovata tra le mani una copia del libro e avrebbe saputo che lui non l’aveva mai dimenticata, né lei si sarebbe mai dimenticata di lui.

Ora queste sue riflessioni non avevano più alcun senso, ormai lei era morta ed anche senza dedica del libro aveva dimostrato di non averlo mai dimenticato.

Questo era ciò che contava.

Pensando a Lena si soffermò a ricordare i tramonti della Sicilia che facevano da sfondo al loro amore, quelli che ammiravano spesso in riva al mare e ne condividevano la meraviglia tale che nemmeno un pittore sarebbe mai riuscito a renderne l’idea.

Guardò il cielo fuori dal finestrino.

Da levante, era di un azzurro spento e andava via via trasformandosi in un fucsia, poi in rosa, in arancione e infine in un rossastro molto carico a mano che lui spostava il suo a ponente per ammirare quel tramonto dal treno.

Trovava scenografiche le nuvole striate che avevano il compito di spezzare la monotonia del cielo e coloravano il rosa e celeste del cielo con le loro tonalità di viola, di giallo e di rosso.

Sullo sfondo si scorgeva un piccolo paesello dalle case bianche che andavano facendosi grigie a mano che la luce del giorno scemava.

In parte gli ricordava il suo paese natale, là dove giaceva sua madre, sarebbe potuto andare a trovarla adesso.

Almeno per rimediare al debito che aveva contratto con la sua anima non essendosi potuto presentare ai suoi funerali.

Ricordava di aver ricevuto una telefonata di Marisa che, titubante, lo avvertiva della morte della madre e che c’erano dei cugini di lei in Sicilia che si sarebbero occupati della sepoltura.

Lo mise al corrente della data dei funerali casomai ci fosse voluto andare, ma lui rimase distante limitandosi a ripetere in più occasioni “si”, “certo”, “grazie”.

Dopo quella telefonata non ne ricevette altre dalla donna.

Pianse amaramente per la sua assenza nei confronti della madre in quel momento così importante e provò tutto il dolore di non poter essere stato accanto a lei nei suoi ultimi giorni di vita.

Ma anche se gli fosse stato concesso di scendere in Sicilia senza avere problemi legati ad Umberto, e lui riteneva che fossero ati abbastanza anni perché la sua famiglia dimenticasse, sapeva di non avere il denaro sufficiente in quel momento ad affrontare una trasferta.

Meno che meno di potersi accollare le spese funerarie sostenute da altri.

Si vergognò nel dover ammettere a se stesso che faceva una vita da pezzente anche molti anni dopo che si era trasferito per cambiare le sue fortune.

Se sua madre fosse stata ancora viva in quel momento lo avrebbe rimproverato dicendogli che, se avesse intrapreso il mestiere di suo padre, adesso avrebbe avuto, non solo di che vivere, ma anche il denaro con cui poter sostenere spese impreviste.

Si riebbe dai suoi pensieri a causa del venditore di bibite che annunziava il suo arrivo ando da uno scompartimento all’altro.

Si stupiva di come divagava da un capo all’altro degli eventi della sua vita, pensò che fosse la noia a farlo riflettere così.

La noia era stata la sua unica compagna fedele per tutta la vita e lui per

intrattenerla era divenuto capace di raccontarsi, di volta in volta, storie nuove semplicemente cambiando angolazione sugli eventi già vissuti.

Ora però della noia ne aveva abbastanza e sperò che lo lasciasse in pace nei suoi ultimi anni di vita.

In solitudine si sarebbe potuto preparare spiritualmente ad incontrare Lena nell’aldilà.

Sperava solo che non ci fosse alcun Dio ansioso di ostacolare la loro unione anche nell’alto dei cieli e che stavolta potessero stare insieme per l’eternità.

Chiuse gli occhi e, per la prima volta dopo molto tempo, si addormentò in pace cullato dal dondolio del treno.

XVII

Un sobbalzo, tipico del treno che inizia a rallentare deciso, lo svegliò.

Guardò fuori e vide che era ancora buio, ma qualche raggio schiariva debolmente l’orizzonte.

Dal panorama che riusciva a delineare capiva che era già in periferia e, sebbene molte cose fossero cambiate, ci fossero molte più case e strade e negozi, sapeva esattamente che era a Palermo.

Da lì avrebbe preso l’ultimo treno, quello che lo avrebbe condotto sulla tomba di Lena.

Le luci della città si opponevano alla luce del nascente giorno e la stazione brillava tra gli altri edifici come a voler dimostrare che il sonno era solo un contrattempo, un ostacolo alla vita.

Scese dal treno senza fretta e percorse con calma la banchina cercando di assaporare i suoni, i colori e gli odori come se cercasse un aroma particolare, un sentore che gli rievocasse un ato malinconico.

Si accorse che il tempo aveva mutato le cose oltre le loro volontà e di quel ato che lo aveva cacciato dall’isola non sembrava esserci quasi più traccia.

Vedeva persone affaccendate e turisti convivere tranquillamente come se fosse sempre stato così.

Lui ricordava di quando il suo popolo osservava dalle persiane, con occhio malevolo ed invidioso, le persone che venivano da quei paesi i cui costumi erano più liberi.

Avrebbe voluto approfondire quelle sue sensazioni girando per le strade di Palermo.

Visitare i luoghi dov’era stato con suo padre una volta quando era piccolo ma sapeva che in capo ad un’ora avrebbe dovuto prendere il treno che lo portava a destinazione.

Si risolse a sedersi su una panchina ad osservare quello squarcio di mondo che non aveva mai conosciuto ma che, da ragazzo, aveva sempre immaginato.

Si ritrovò a provare un misto di felicità e dolore.

Era contento di percepire che le cose sembravano cambiate considerevolmente, ma sentiva nel cuore un senso di frustrazione riconoscendo che la società era cambiata senza la necessità della sua presenza.

Anzi forse proprio beneficiando della sua assenza.

Si sentì nuovamente inutile.

Forse aveva sbagliato a imbarcarsi in quell’avventura ma ormai doveva proseguire, aveva dato la sua parola al figlio di Lena e non poteva più tirarsi indietro.

Si fece forza pensando al fatto che lei lo aveva tanto desiderato sulla sua tomba ed anche per la curiosità di leggere le sue memorie segrete.

Si accorse che il sole stava sorgendo e vide nella sua bellezza un segno, un incitamento ad andare avanti.

Salì sul treno e riprese il suo itinerario, sapeva di essere vicino alla meta e che, in ogni caso, qualunque sua sofferenza non sarebbe durata molto.

Se quella terra fosse stata la sua tomba, desiderava fosse in quel momento della sua vita e il più vicino possibile alla donna che amava.

Scese dal treno in quella stazione dalla quale era arrivato carico di speranze, in procinto di iniziare le scuole superiori, ed era partito disperato senza nemmeno salutarsi con lo zio Giacomo.

Sapeva che lo avrebbero cercato ed era consapevole che, né lui, né il figlio di Lena, avevano idea delle reciproche sembianze, quindi si aspettava di leggere un cartello col suo nome e cognome.

Il suo intuito fu premiato.

Vide infatti un uomo che teneva un cartello, era ben vestito, seppure stravagante nell’abbigliamento e nei colori.

Aveva dei pantaloni a coste di un velluto marrone, una giacca color ocra, con una camicia giallo pallido e una cravatta blu con un motivo ad elefantini.

L’uomo era un pò più basso di lui e portava un paio di occhiali semi ovali con la montatura in ferro che gli ricordava certi modelli in uso dai nobili nella fine dell’ottocento.

Fisicamente, nell’aspetto, non sembrava avere alcuna somiglianza con Umberto ma lui non voleva dare credito a quelle considerazioni.

Cercava in quell’uomo qualunque dettaglio che gli potesse dare il pretesto per continuare a ripetersi - “tale porco, tale figlio.”

Era l’unico pensiero che albergava nella sua mente.

“Buongiorno” - disse presentandosi all’uomo.

“Lei dovrebbe essere Enrico.”

“Piacere di conoscerla” - rispose lui fingendo un sorriso, mentre il suo corpo e i suoi occhi mostravano solo indifferenza.

Era capace di leggere le emozioni e capiva che Enrico non provava rabbia nei suoi confronti.

Probabilmente non sapeva nulla della giovinezza di sua madre, era certo che Lena non gli avrebbe mai parlato di quell’uomo che aveva rischiato di allontanarla dal padre.

Ma poteva pensare nello stesso gesto di clemenza di Umberto?

Lui non avrebbe cercato di istruire il figlio a cercare vendetta?

Era così che si tramandavano le faide in Sicilia.

Era anche possibile che un uomo così narcisista come Umberto non avrebbe parlato facilmente di un evento in cui era stato ridicolizzato e qualificato come cornuto.

Pensava che comunque era meglio sopportare l’indifferenza piuttosto che l’odio.

Se non altro sarebbe stato comprensibile che il giovane provasse un certo fastidio nei confronti di un uomo che non conosceva minimamente e del quale la madre non aveva mai accennato nulla.

Tuttavia, proprio a motivo delle sue volontà si trovava lì e al quale dovevano essere consegnate delle memorie scritte del cui contenuto il figlio stesso fosse all’oscuro.

“Mi dia pure del tu” - disse pensando fosse saggio essere accomodante e comportarsi cortesemente.

Era meglio cercare di rompere il ghiaccio - pensò.

“La stessa cosa vale per lei” - rispose Enrico sorridendo questa volta in modo più naturale, senza finzioni e con più coinvolgimento.

Lo accompagnò all’auto portandogli diligentemente la valigia.

Mentre lo osservava, pensava all’ironia della sorte di farsi fare da facchino al figlio dell’uomo che voleva sottomettere chiunque.

“Mia madre mi ha parlato spesso di lei” - accennò lui dissimulando la sua curiosità.

“Spero siano stati commenti lusinghieri” - sapeva che si stava giocando una sorta di partita a scacchi verbale.

Enrico voleva sapere di più da quell’uomo del quale si era fatto un’idea grazie alle parole della madre, probabilmente voleva capire cosa avesse rappresentato lui per Lena.

Lui d’altro canto voleva capire quanto sapesse il giovane sul ato della madre col risultato che nessuno dei due voleva calare subito le proprie carte.

Vedendo che il silenzio lo inchiodava a quell’argomento cercò di parlare d’altro per suscitare l’impressione di non dare troppa importanza ad eventuali racconti della donna.

“E’ cambiato davvero poco questo posto da quando sono stato qui l’ultima volta” - disse fingendo disinteresse, mentre osservava minuziosamente ogni dettaglio dei luoghi della sua giovinezza.

Era consapevole di mentire, sperava di non darlo a vedere.

Rimaneva colpito nel vedere che ogni cosa gli parlasse di un cambiamento profondo, molto più di quanto si aspettasse da quella società statica e monolitica.

In fondo ci poteva stare, erano ati quarant’anni - pensò.

Poi percepì un lieve tremore sulle labbra di Enrico, quasi come se tentassero di liberarsi da un silenzio autoimposto per tentare di pronunciare la loro verità.

Il tutto durò un attimo e poi le sue labbra tornarono immobili come quelle di un morto e gli fecero capire che il giovane non avrebbe più voluto parlare di nulla fino al loro arrivo.

Evidentemente si era sentito frustrato di fronte all’evasività dell’ospite.

Aveva capito che la partita era temporaneamente perduta e si concedeva il tempo di riflettere prima di fare la sua prossima mossa.

Intanto però lui aveva capito che il figlio di Lena non era di per sé una minaccia e si convinse che i suoi segreti erano morti con la donna che amava.

Poteva dunque tirare un sospiro di sollievo.

Tuttavia non voleva perdere l’occasione del vantaggio.

Sapeva che l’unico modo per farlo uscire dal silenzio era quello di prendere l’argomento del padre defunto: Umberto.

Era venuto a conoscenza della morte di quel miserabile da un vecchio amico che a suo tempo era venuto in vacanza a Milano e che lui aveva deciso di ospitare per il breve soggiorno.

Quella di Umberto, pensava, era stata una morte tanto brutta quanto meritata poiché era diventato un ubriacone ed un donnaiolo.

Andava solitamente in cerca di giovani donne, meglio ancora se nubili.

Aveva un alito putrescente e con un tanfo di alcool e si aggirava per il paese per tutto il giorno importunando le donne del paese.

Qualcuno si era preso la briga di chiedere aiuto ai carabinieri i quali, tuttavia, non erano mai intervenuti ma si erano limitati a dissuaderlo in varie occasioni.

Benchè fosse ubriacone la sua famiglia restava ancora troppo influente in quel posto.

Così erano impotenti, sia perché lui comunque non si era mai spinto ad atti di violenza fisica sui suoi obiettivi, sia perché aveva ancora alle spalle la famiglia il cui potere era noto a tutti.

Continuò a condurre quella vita dissoluta fino al giorno in cui il colpo di una carabina gli stronco la vita in una delle tante viuzze del paese in un giorno di festa.

L’omicida rimase ignoto, probabilmente grazie alla stessa omertà che per anni aveva coperto lui e la sua famiglia.

Si pensò a qualche fidanzato preoccupato nel vedere la propria ragazza importunata oppure a qualche padre timoroso di sapere la propria figlia violata nell’onore da quel quarantenne pervertito.

Forse potevano essere stati entrambi dato che un omicidio così ben architettato difficilmente poteva essere stato ideato da una sola persona.

Così moriva un uomo che era stato logorato dallo stesso potere che l’aveva protetto.

Non avendo mai dovuto affrontare le difficoltà del mondo e chiuso sotto l’ala protettrice della famiglia, era cresciuto smidollato e debole, incapace di prendersi le sue responsabilità.

Così la frustrazione di una vita senza stimoli era divenuta perversione, da sfogare sulle donne, e vizio.

Decise di azzardare una domanda scomoda.

“Ti è mai mancato tuo padre in questi anni?”

Era certo che avrebbe suscitato delle emozioni nel giovane e voleva sincerarsi fino a che punto fosse profondo l’affetto del figlio per il padre.

Enrico fermò la macchina e si voltò a guardarlo con gli occhi accesi di rabbia e risentimento.

Lui ne fu molto spaventato perché temeva di essere l’oggetto della sua rabbia.

Tuttavia notò qualcosa di familiare dietro quello sguardo così feroce, c’era qualcosa nell’anima di quell’uomo che lui era certo di riuscire ad interpretare.

Era frustrazione.

Lui stesso aveva provato quel sentimento proprio a causa di Umberto ed era ben lieto che trovasse ora qualcuno con cui condividerla.

Sicuramente la stessa frustrazione che aveva indotto un pugno di persone a mettere fine alla vita di un uomo inutile.

Lui non aveva avuto l’onore di conoscere quelle persone che avevano reso Lena una donna libera, se non altro avrebbe voluto ringraziarle.

Ripensò a come si era sentito il giorno della notizia, felice come un uomo finalmente libero e, al contempo, amareggiato dalla consapevolezza di non poter ricomparire nella vita della sua donna.

Non poteva chiederle di salire al nord perché non era in condizione di mantenerla.

In ogni caso a lei non sarebbe stato permesso partire così vicina al lutto del marito, la famiglia del morto l’avrebbe obbligata a restare minacciando la sua

famiglia oppure le avrebbe sottratto il figlio.

L’alternativa era che lui fe ritorno in Sicilia e che riprendesse in mano l’attività paterna.

In questo modo si sarebbe però messo in condizione di subire ritorsioni dalla famiglia di Umberto che ancora doveva vendicare il suo gesto violento contro il figlio in gioventù e che aveva l’ossessione di trovare un capro espiatorio per la sua morte.

“Meglio parlarne più tardi” - rispose Enrico mentre riprendeva il controllo di sé e si rimetteva in marcia.

Con quella frase l’aveva distolto dal suo solito divagare con la mente.

Anche lui aveva qualcosa di triste da raccontare sul padre, questo era chiaro, ma in quella partita a scacchi nemmeno lui voleva aprirsi anzitempo.

Sorrise ammettendo che il giovane aveva del talento per ribaltare la partita, ma soprattutto considerando che, più che un rivale, poteva essergli complice.

Mentre la macchina percorreva le strade ad andatura allegra lui cercò di controllare i suoi sentimenti e di riflettere sulla strategia da usare quando, più tardi, avrebbero ripreso la loro partita e ognuno avrebbe dovuto scoprire le sue intenzioni.

Prese il fazzoletto e si asciugò le gocce sulla fronte, alcune erano divenute così grandi da scivolare giù dalle sue prominenti sopracciglia e infastidire i suoi occhi irritandoli.

Ma Enrico, a sua volta, non si sentì pago del riconquistato equilibrio.

Lui se ne accorse e intuì che avrebbe agito da un momento all’altro a causa del fatto che il giovane l’aveva osservato di sbieco per alcuni istanti e poi aveva dischiuso le labbra inspirando per dare fiato alle corde vocali.

“Mio padre è morto” – disse.

“E’ sepolto da un pezzo, non capisco perché ci tiene a parlare di lui e del nostro rapporto.”

Si stupì della velocità con cui il figlio di Lena aveva elaborato una risposta così impegnativa da obbligarlo a confessare.

Ma lui non era uno sprovveduto e rispose con altrettanta dialettica e celerità.

“Era tuo padre e, penso, che sentirai la mancanza dei suoi incoraggiamenti e del suo affetto per te.”

Era intenzionato a fare l’avvocato del Diavolo se necessario, ma doveva metterlo con le spalle al muro per scoprire l’intensità del loro legame.

Doveva capire chi aveva di fronte e se poteva fidarsi davvero o prepararsi una difesa per sventare eventuali pugnalate alle spalle.

Lui continuò a guidare con lo sguardo apparentemente perso nel vuoto, come aspettasse qualcosa dinanzi a se, poi mantenendo tutta la sua calma abbozzò un sorriso sarcastico.

“Via” - disse sorridendo con un velo di cinismo.

“Non mi faccia così stupido.”

No, non lo era per nulla.

Non era affatto stupido e lui lo sapeva perfettamente, di una cosa aveva ormai certezza: non aveva preso nulla da suo padre.

“Sono un buon avvocato ed uno scrittore abbastanza conosciuto” - continuò.

“Se vuole possiamo continuare in queste schermaglie che non portano da nessuna parte” – osservò.

“Oppure possiamo calare ognuno le proprie carte e dirci chiaramente cosa pensiamo dell’uomo cui lei apparentemente sembra tenere in grande

considerazione.”

Tacque e poi riprese.

“Si capisce che lei non lo stima affatto.”

Bingo!

Enrico si stava dimostrando un avversario formidabile.

Aveva vinto la sua partita e qualunque mossa avrebbe fatto non c’era più modo di ribaltare il risultato senza giocarsi l’occasione di sapere.

“Va bene glielo concedo, non lo stimo affatto, anzi” – disse.

“Ma mi dispiace dire queste cose al figlio, penso che lei ne sarà un po’ addolorato.”

Enrico lo fissò gongolante per aver capito tutto.

“Mio padre è sempre stato un poco di buono, lo sanno tutti” - disse.

Notò che il giovane non si era ancora esposto a parlare del padre.

Non aveva ancora espresso un suo giudizio personale ma si era limitato ad enunciare quello degli altri, il suo tuttavia si poteva leggere tra le righe.

“Lo sapevano anche i suoi amici più intimi, quelli che non gli stavano accanto per i soldi o per il potere, ma che si sforzavano senza riuscirci di trovare almeno una qualità in quell’uomo.”

Lui si sentì rinfrancato da quelle parole.

Ora aveva la certezza di avere un alleato in quella terra che gli era stata ostile per gran parte della vita.

Tuttavia non si sarebbe mai aspettato di sentire quelle parole che arrivarono improvvise come la piena di un fiume.

“Lo dovrebbe sapere lei meglio di chiunque altro dato che si è ritrovato a dover abbandonare mia madre per colpa sua e dei miei nonni.”

Per un istante che sembrò un’eternità si diffuse un silenzio sepolcrale, mentre lui cercava di riaversi dallo stordimento dovuto a tutta quella verità buttata in faccia.

Nessun altro a parte Enrico aveva la consapevolezza di tutto il dolore provato dai due amanti e questo lo faceva commuovere.

Cercò di reprimere i suoi sentimenti per non mostrarsi debole.

Proprio il figlio dell’uomo che aveva odiato per avergli rubato la vita adesso gli restituiva l’onore e la dignità.

Era proprio un paradosso e gli ricordò le parole di suo padre sul fatto che nella vita debiti e crediti finiscono per compensarsi.

Sperava che la vita da quel momento in poi potesse concedergli un indennizzo per tutto quello che gli aveva tolto.

Era ritornato nella sua terra con la consapevolezza e la volontà di odiare Enrico e di fargli pagare il prezzo del male fattogli da suo padre.

Però le verità che l’avvocato aveva pronunciato con grande disprezzo verso il padre gli impedivano di provare il benché minimo sentimento negativo nei suoi confronti.

Era così corretto da parlare del padre riconoscendone i difetti e si vedeva che il suo rancore nasceva dalla consapevolezza che i misfatti di Umberto avevano legittimato ciò che di più immorale ci potesse essere.

“Togliere alle persone la libertà di vivere la propria vita” - Enrico era in preda al disgusto.

“Senza doverla modellare a causa dei suoi soprusi alle propria volontà, obbligandole alla distanza affettiva e a modelli di vita che non erano nelle loro corde pur di sopravvivere, è stato qualcosa di spregevole da parte di mio padre.”

Era il rancore di chi non accetta che si distruggano le vite degli altri per il proprio egoismo.

Era il rancore che lui stesso aveva sempre provato dal giorno della sua partenza fino ad allora, ma quell’uomo gli stava aprendo gli occhi ed il cuore e lo stava svuotando di tutto l’odio arginato per decenni.

Avrebbe voluto piangere a dirotto e chiese la forza a Lena di sostenerlo.

Mentre lui si trovava preso in quel vortice di emozioni, Enrico, con un gesto di empatia si preoccupò di trovare delle giustificazioni in merito alle sue esternazioni rabbiose.

“E’ stata mia madre a raccontarmi di questa storia assieme a tutte le vicissitudini della sua vita per farmi comprendere perché era sempre stata una donna infelice.”

Tacque un momento.

“Disse che me lo doveva perché da piccolo le domandavo sempre perché avesse il viso triste.”

Lui voleva immaginare il viso triste di Lena, ma gli riusciva difficile perché in tutti i suoi ricordi lei aveva sempre avuto un bel sorriso solare e innocente.

“Io avrei voluto far qualcosa per la sua felicità, soprattutto quando mi raccontò di te” – riprese.

“Ma lei mi chiese di non rintracciarti, perché temeva che il vostro riavvicinamento sarebbe stato fonte di guai a causa della mia famiglia.”

“Io amavo mia madre” - aveva quasi le lacrime agli occhi.

“Non riesco a perdonarmi di non averla potuto rendere felice nemmeno un giorno della sua vita.”

Ad un tratto i suoi occhi brillarono con un bagliore diverso, quasi diabolico.

“Così mi sono vendicato” – continuò.

“Anche se questo non colmerà mai il vuoto interiore.”

Sospirò.

“Grazie ad alcuni miei colleghi magistrati senza dare nell’occhio ho rilevato a poco a poco le proprietà e le aziende di famiglia che erano minacciate dalla confisca per indagini su reati di mafia che riguardavano gli altri membri” – spiegò.

“Ed ora sono delle aziende che si occupano di commercio equo e solidale, mentre tutti i parenti sono solo degli stipendiati.”

Alzò lo sguardo.

“Ora sono dei morti di fame” - disse poi con amarezza.

“Peccato non aver mai potuto dire a mia madre che dietro c’ero io.”

Mostrava ora un rinnovato compiacimento.

Si era come liberandosi dell’ultimo briciolo di quella morale che hanno solo i perdenti e la cui assenza nei paesani del luogo aveva fatto le fortune di famiglie ciniche come quella di Umberto.

“Tutta la loro ricchezza è nelle mani di gente onesta.”

Quel giovane si era trasformato in una sorta di Edmund Dantés solo per vendicare la madre.

Avrebbe dovuto temerlo se gli fosse stato avversario.

Invece ne aveva solo tenerezza ed era felice di sapere che il cielo non aveva lasciato are i torti subiti dalla coppia ma si era premurato di fare giustizia.

Col suo tempo - pensò felice.

Avrebbe voluto fare ad Enrico ancora tante domande.

Ma sapeva in cuor suo tutto quello che c’era da sapere.

Quanto lui odiasse il padre e la sua famiglia di origine e sull’insolito trasporto che lo stava legando ad un uomo che conosceva solo dai racconti della madre.

Sentì di non avere la forza di discutere.

Tutta quella verità lo aveva frastornato e riempito, voleva solo avere il tempo di metabolizzarla e di riflettere sulle cose di cui avevano parlato.

Scelse di rilassarsi sul sedile della macchina.

“Tua madre sarebbe fiera dell’uomo che sei” – esclamò.

“Lei aveva sete la giustizia e tu l’hai dissetata.”

Chiuse gli occhi e si lasciò condurre verso casa del giovane avvocato.

Provava orgoglio per essere accanto a lui ed era certo che altrettanto valesse per il conducente.

XVIII

Giunsero nella villa che era appartenuta da sempre alla sua famiglia.

Era un’enorme costruzione in stile neoclassico.

Enrico fece notare i vantaggi del potergli mettere a disposizione un’intera ala della casa grazie al fatto che ormai lui ne era l’unico proprietario.

Era come una sorta di punizione divina per quella che un tempo era stata una temuta famiglia.

Aver perduto potere e proprietà.

Ora erano finiti nelle mani di un individuo onesto e incorruttibile e che odiava il modo in cui la sua famiglia di origine aveva creato il proprio impero.

Lui l’aveva devastata dall’interno come un cancro ed ora poteva godersi i frutti della sua battaglia per la legalità.

Enrico lo accompagnò nella sua stanza mentre lui osservava gli interni della casa che un tempo era stata il tempio di gente che lui aveva odiato.

In quelle stanze si era amministrato un potere a lungo inattaccabile - pensava quelle mura dovevano aver udito ordini, minacce e trame occulte e ne avrebbero conservato i segreti in eterno.

Si sentiva in imbarazzo ad aggirarsi per quella struttura che aveva sempre visto soltanto dall’esterno, la sentiva in qualche modo ostile.

Una volta lasciato solo nella sua stanza si sistemò le cose personali e poi si mise sotto la doccia per purificare nel corpo e nell’anima.

Più tardi venne a chiamarlo per la cena il maggiordomo che lo pregò di seguirlo.

Arrivò nell’ampia sala da pranzo dove lo aspettavano Enrico e la sua famiglia.

Il giovane avvocato gli presentò la moglie, Clara, una donna snella, dotata di enorme fascino, di gran classe e di modi dolci e garbati.

Poi ò a presentare le figlie, entrambe bionde e bellissime come la madre, Silvia di cinque anni e Carla di tre.

Lui fissò la più piccola con gran trasporto perché rivedeva nei suoi occhi e nel suo sorriso l’anima di Lena.

Le fece una carezza in testa e la piccola gli sorrise.

“Somiglia tanto alla nonna” - commentò.

“E’ vero” - la madre fu d’accordo.

“Purtroppo ho conosciuto nonna Lena per poco tempo” – aggiunse.

“Ma spero che, oltre gli attributi estetici, Carla abbia preso anche le sue qualità interiori, quelle di cui Enrico mi ha sempre parlato.”

“Lo spero anch’io” - rispose Enrico.

“Spero che le somiglino entrambe le bambine, Lena è stata una donna eccezionale.”

Poi invitò garbatamente tutti a sedersi a tavola e fece un cenno al maggiordomo per fargli servire la cena.

“Ma certo, le vostre figlie sono bellissime e si vede che hanno un bagaglio di doti che le renderanno donne speciali.”

Percepiva nell’aria delle belle sensazioni, quelle che può suscitare lo stare in compagnia di persone perbene.

Era molto più sereno e non aveva più il disagio di trovarsi tra quelle mura che erano state la maledizione della sua vita.

Durante la cena si parlò del paese e di come le cose erano cambiate con la fine del monopolio della famiglia di Enrico proprio grazie a lui.

Poi l’ospite raccontò tutta la storia del suo amore tormentato con Lena e dell’esilio.

Sul finire della serata Enrico prese l’argomento del diario.

Si alzò, lo prese e glielo porse.

“Negli ultimi giorni Lena scriveva sempre su quel diario” – disse.

“Era come se avesse fretta di mettere in ordine il ato presagendo la sua fine imminente e non volesse lasciare nulla di incompleto.”

“Pensavo che fosse in preda a quelle manie che hanno gli anziani quando cercano di essere iperattivi pur di non pensare alla morte e invece sapeva benissimo quello che stava facendo” - commentò Clara.

“Ci rivelò le intenzioni del diario poco prima di morire e, soprattutto, ci

raccomandò che fosse destinato esclusivamente a lei.”

Comprese che la donna era spinta dalla tipica curiosità femminile,

quasi morbosa, e che avrebbe voluto sentirgli dire che lui li avrebbe resi partecipi del contenuto.

Ma era troppo geloso del suo rapporto con Lena ed inoltre aveva troppo rispetto per la donna che aveva amato per spargere ai quattro venti ciò che lei voleva comunicagli.

Quel diario era destinato a lui, a lui soltanto.

Doveva restare un segreto per tutti gli altri, lei meritava il suo rispetto come lui aveva meritato l’esclusività del suo amore.

Quale che fosse l’ossessione di Clara di ottenere qualche rivelazione per soddisfare la sua curiosità se ne sarebbe dovuta fare una ragione.

Dietro il suo garbo, la sua affabilità e la sua creanza lui coglieva la donna forte e determinata.

Aveva avuto ciò che voleva sia con la sua professione, sia prendendosi un uomo capace e un professionista di successo.

Una simile donna, se avesse voluto, avrebbe potuto avere il mondo ai suoi piedi e lei ne era pienamente cosciente, ma non aveva sfruttato questo suo carisma per ottenere soldi e fama, non era una donna superficiale.

Si era persuaso che dietro la lotta di Enrico per riportare la legalità nel paese di Lena c’era anche lei.

Scelse di perdonare quella sua debolezza, la sua curiosità, in virtù del buon uso che aveva fatto dei propri talenti.

Dietro ad un grande uomo c’è sempre una grande donna - lo aveva sempre pensato.

Difatti riconosceva di non esser diventato un grande uomo perché dietro non c’era stata Lena e lo stesso si valeva per Umberto il quale aveva corso dietro a così tante donne da non averne nessuna se non una moglie che era tale solo per la legge.

Enrico invece era quello che era proprio grazie all’educazione di Lena prima e alla complicità di Clara ora.

Se Umberto fosse stato un uomo e non un maschio come tanti e fosse stato ancora vivo adesso sarebbe fiero di quel figlio, di quella nuora e delle sue nipotine - pensò con commozione.

Poi si congedò da quella famiglia felice che aveva riempito l’aria e il suo cuore di gioia e di speranza e ritornò nella sua stanza tenendo fra le mani il diario di Lena.

Per la prima volta in tanti anni ringraziò il Signore per avergli fornito quell’occasione di riscatto.

Provava solo una grande pace interiore e ammise a sé stesso che sarebbe stato un peccato mortale non intraprendere quel viaggio.

Baciò il crocifisso sopra il suo letto e si distese con la determinazione di are la notte intera a leggere quel diario.

Sarebbe stato il suo ultimo dialogo con Lena, forse era più corretto parlare di monologo dato che lui avrebbe avuto un messaggio da recepire ma nessuno a cui rispondere.

Ma era felice di poter avere quell’occasione.

“Ad altri una seconda occasione viene negata per sempre” - disse tra se.

“Mentre io sono fortunato ad aver avuto ciò in cui non speravo più.”

XIX

Appena si accinse a leggere richiuse il diario e lo gettò ai piedi del letto, si alzò e si mise a camminare lungo la stanza.

Poi, esitante, si mise a fissare il diario che aveva gettato sul letto.

Nemmeno lui sapeva perché l’istinto gli aveva fatto compiere un simile gesto, forse non voleva farsi coinvolgere emotivamente dal suo contenuto.

Aveva paura?

Che cosa temeva di sapere?

A i lenti e circospetti, quasi fosse una preda che fiuta un eventuale pericolo, si avvicinò al letto.

Rimase seduto per un bel pezzo accanto al diario guardandolo con un misto di timore e di riverenza.

Il suo contenuto doveva certamente essere importante se Lena si era presa la briga di scriverlo.

Non potevano esserci solo dei semplici riferimenti alla loro giovinezza o, comunque, situazioni ed eventi che gli erano già noti.

C’era sicuramente qualcosa di importante che lo riguardava.

Qualcosa di assolutamente cruciale per lui - pensò - e di cui era stato totalmente all’oscuro per tutti questi decenni.

Si domandava come mai, se davvero vi fosse stato qualcosa di così importante, Lena non aveva mai trovato il modo di comunicarglielo.

Rammentò a quale razza di famiglia lei si era legata nel tentativo di comprendere le sue difficoltà.

Comunque era persuaso che, se non poteva più cambiare il suo ato, quel diario era la chiave per riscattare il suo presente e, forse, modificare il suo futuro.

Ripensò ad Enrico.

Si domandò quanto sapesse di tutta la loro storia.

Magari era a conoscenza di quegli stessi dettagli che avrebbe trovato menzionati nel diario della madre.

“No, non può essere” - disse tra sè.

Il fatto che Lena avesse scritto quel diario e avesse intimato di farglielo avere esclusivamente a lui rendeva insensata una supposizione del genere.

“Altrimenti sarebbe bastato delegare Enrico a dire a voce quelle stesse cose e dedicarsi ad altro negli ultimi momenti che le restavano da vivere” - si convinse.

“Enrico” - le sue riflessioni ora riguardavano il brillante avvocato.

Enrico era un bel nome e l’uomo che ne portava il nome, l’uomo che l’aveva ospitato, aveva dimostrato di avere anche una bell’anima.

Avrebbe desiderato tanto avere un figlio da Lena.

Se avesse potuto scegliere, avrebbe voluto un figlio come lui.

Si era rivisto parecchio nel giovane avvocato.

Egli era tutto ciò che avrebbe voluto essere lui.

Un uomo libero nel pensiero.

Capace di grandi azioni e abile nel portarle a termine con successo, ma anche una persona di gran cuore e con un profondo senso della giustizia.

Aveva intravisto le proprie capacità di equilibrio e di controllo anche nel suo modo pulito, preciso ma rilassato, di guidare l’auto.

Aveva ammirato quel suo autocontrollo.

Soprattutto quando aveva avuto l’ardire di porgli la scomoda domanda sul proprio rapporto con il padre.

Molta gente - pensava - subisce la vita ed è costretta, come lo era stato lui, a cambiare il proprio modo di vivere a causa degli eventi.

A causa di questo spesso le persone non desiderano rivangare il proprio ato e cercano di svicolare dalle domande scomode.

Enrico invece non si era tirato indietro e non aveva voluto sotterrare, dimenticandolo per sempre, il suo rapporto tormentato col padre.

Certamente non aveva rievocato i fatti nei minimi dettagli.

Si era tenuto una certa distanza emotiva a lungo prima di esprimere il suo giudizio.

Alla fine, però, aveva lasciato trasparire chiaramente la disistima provata nei confronti del padre, pur se depurata dal fiume di emozioni dolorose che aveva imparato a controllare abilmente.

Era un giovane misurato nelle parole e nelle emozioni, ma a lui i suoi sentimenti e le sue difficoltà nel reprimerli non erano sfuggiti.

Anche lui era un uomo particolarmente emotivo a cui la vita gli aveva imposto quell’autocontrollo.

“Peccato non averlo avuto in tempo per evitarmi l’esilio” - recriminò.

Se fosse stato misurato quanto lo era Enrico all’epoca dei fatti che lo costrinsero a separarsi da Lena, avrebbe agito in modo più scaltro e avrebbe avuto la meglio su Umberto.

Tutta quella risolutezza e quel dominio di sé gli sarebbero serviti per organizzare un piano ben premeditato, teso a guadagnarsi la fiducia della famiglia di Lena e mettere in difficoltà Umberto agendo su di lui alla stregua di un Iago o di un Locki.

Col suo ingegno sarebbe diventato suo amico, ne avrebbe guadagnato la fiducia.

Poi l’avrebbe istigato a comportamenti talmente riprovevoli da suscitare nei compaesani ben prima quell’istinto primordiale alla vendetta contro il rampollo di quella famiglia.

Così sarebbe stato libero di sposare Lena una volta lasciato il paese.

Sarebbero vissuti sereni e tranquilli sapendo che le loro famiglie non correvano più alcun pericolo.

Lui si sarebbe trovato un lavoro più soddisfacente e probabilmente sarebbe diventato uno scrittore come Enrico.

Gli sarebbe piaciuto percorrere le strade battute da Enrico.

In lui vedeva la realizzazione di tutti i sogni e, sebbene non avesse ancora letto nulla del giovane e brillante avvocato, era comunque certo che avesse del talento da vendere.

Aveva dinanzi a lui un giovane che rappresentava il suo ideale, piuttosto che quello di Umberto, e sperava che le sue opere riflettessero la sua voglia di lottare per i sani principi e per abbattere il conformismo culturale.

Di sé stesso non poteva più sperare alcunché dato che, dopo essersi separato da Lena, aveva condotto una vita di rinunce e si era adattato a quello stesso conformismo che aveva giurato di combattere.

Accettando ivamente tutto quello che gli capitava era divenuto proprio quel modello d’uomo che lui aveva sempre detestato.

Per questo, se non per altro, provava disprezzo di sé almeno quanto si sentiva orgoglioso dei risultati di Enrico pur non essendone il padre.

Proprio il figlio di Lena col suo stile di vita gli stava insegnando che non bisognava arrendersi al tessuto sociale.

Soprattutto che, a differenza di quanto si diceva riguardo alla sua terra sul fatto che chi nasceva tondo non poteva morire quadrato, era invece possibile cambiare anche a scapito delle proprie radici.

Lui in fondo non aveva fatto il contadino, diversamente da suo padre.

Ora - pensava - era necessario mettersi di fronte alla realtà che aveva vissuto per quarant’anni, tirare le somme e scegliere come vivere per il tempo che gli restava.

Se fosse stato necessario avrebbe dovuto mandare in pezzi l’universo che aveva tenuto insieme per quasi tutta la sua vita, piuttosto che ostinarsi a restare aggrappato ad un modello di vita che gli aveva fornito solo frustrazione, rimpianto e odio di sé.

Dunque si decise ad aprire il diario di Lena.

Ora era pronto ad accogliere le sue memorie, con la solennità con cui un sacerdote si accinge a leggere il vangelo durante la messa.

Si aspettava soprattutto critiche e sperava in qualche parola d’amore.

Vi era una pagina con una scritta.

“In memoria di Lena.”

Subito in basso, un’altra scritta piccola.

“All’uomo che ho amato finché morte non ci ha separati.”

Gli scesero lacrime di commozione ed ebbe disgusto di sé perché si sentiva un infame ad aver pensato che lei lo avesse dimenticato.

Tra i due quello debole ed insicuro era stato lui, ora ne aveva coscienza.

“Caro Amore della mia vita.”

Così iniziava il brano.

“Quando starai leggendo questo diario, e spero tu sia ancora vivo per farlo, io non sarò più parte di questo mondo ma il mio amore per te vivrà in eterno.”

Si trattenne dal piangere.

“Io spero sia tu a leggere queste righe e non qualcun altro altrimenti vorrà dire che il mio scrivere, questo mio affaticarmi nei miei ultimi giorni di vita, sarà stato vano.”

Si asciugò gli occhi per poter continuare a leggere.

“Tu sai, o dovresti sapere, fino a che punto io ti abbia amato avendoti donato la mia anima per sempre ed il mio corpo ad altri solo per proteggerti.”

“Io sono sempre stata certa del tuo amore fin dalla promessa fattami sulla spiaggia” – continuava.

“Sono sempre ritornata in quei luoghi ove il mare custodisce le nostre emozioni, ogni anno sono andata a far visita alla polvere che ha vissuto con noi i nostri sentimenti e lì il mio cuore era finalmente libero dalle catene, per un giorno all’anno.”

Le lacrime dell’uomo scendevano ormai copiose, non ricordava di aver mai pianto a quel modo.

“Anche se Umberto ha posseduto le mie carni con violenza e senz’amore, il mio cuore e il mio pensiero erano rivolti a te” – ne colse il profondo dolore della rivelazione.

“Ti sono stata fedele finché il respiro è stato in me, ma Umberto lo capiva e ne provava ancora più rabbia vendicandosi su di me, sul mio corpo, pensava che umiliandomi fisicamente imponendomi la propria sessualità e tradendomi con altre sarebbe riuscito ad avvilire la mia fede in noi.”

A quelle parole la sua rabbia tornava in superficie con tutto il suo vigore.

Era come se il tempo non avesse avuto effetto sulle sue emozioni.

“A nulla sono valsi i suoi schiaffi per obbligarmi a fingere di godere con lui, non mi ha mai spezzata perché io credevo, credevo in te profondamente” – asseriva.

“Credevo in noi.”

“Lui invece si è spezzato da solo perché non aveva fede in nulla, nemmeno in sé stesso.“

Smise di leggere perché la rabbia ed il dolore gli offuscavano la vista.

Pensò che Umberto aveva avuto ciò che si meritava e, forse, la sua fine avrebbe dovuto essere più dolorosa.

Cercò di ritrovare la giusta lucidità per continuare a leggere.

“Ti racconto di questa brutale realtà, non per avvilirti, ma per darti la giusta dimensione di quanto io ti sono stata devota.”

“Sono stata per te più che una sposa, sono stata come una suora per il Signore e la mia anima è rimasta vergine solo per te.”

“Ti chiedo di non parlare del padre con Enrico perché è rimasto traumatizzato dall’aver visto che Umberto, in una delle sue notti di rabbia e di gelosia nei tuoi confronti, mi riempiva di botte.”

Si morse la lingua.

“Mettiti nei suoi panni, lui era solo un bambino che aveva sentito dei rumori e, mosso dalla curiosità, si era ritrovato di fronte ad una realtà scioccante.”

Mentre leggeva non faceva che darsi dello stupido per aver fatto domande tanto impertinenti al giovane e per aver cercato di sfogare la sua curiosità senza preoccuparsi delle reazioni suscitate.

Inoltre iniziava a provare un forte senso di empatia nei confronti di Enrico per quella vicenda.

Se non altro perchè gli rievocava la brutalità di suo padre nei confronti della madre.

Pensava al proprio dolore e immaginava che, per aver avuto tanta rabbia in corpo, Enrico dovesse aver provato un dolore simile.

Voleva bene al figlio di Lena, un amore quasi paterno, e profonda stima.

Quell’uomo che aveva vissuto una vita altrettanto triste ma che, lungi dall’abbattersi, aveva trasformato il dolore in riscatto e la disperazione in speranza.

Il ragazzo aveva realizzato il sogno di entrambi.

Riprese a leggere.

“Enrico è cresciuto con l’educazione che gli ho impartito da sola, anche perché Umberto non era quasi mai in casa.”

“Né ho consentito che la famiglia di lui lo influenzasse.”

“Gli ho insegnato la comione e il perdono e, nonostante mi vedesse piena di lividi e avesse rabbia per l’ingiustizia, ha imparato a che l’amore vero vince ogni debolezza e malvagità.”

“La sera prima di metterlo a letto gli insegnavo tutte queste cose – aggiunse.

“Gli ho spiegato il sacrificio che comporta l’amore vero e l’importanza di avere dei valori morali che non possono essere derogati in alcun caso.”

“Gli ho insegnato, portando con fierezza i miei lividi.”

“Mostrandogli come una persona non deve mai arrendersi alle prevaricazioni e alle avversità e come deve lottare per ciò in cui crede.”

“Perché agli occhi del mondo siamo i sogni che abbiamo dentro.”

“Gli ho insegnato tutto ciò che mi hai insegnato tu e che sono sicura avresti voluto insegnare personalmente a tuo figlio.”

Avrebbe voluto farlo davvero, insegnare qualcosa ad un figlio e dargli le opportunità che non aveva avuto lui.

Si sarebbe pure accontentato di insegnare ad un figlio adottivo, fosse pure stato quello di Umberto.

Era dunque contento che il brillante avvocato in qualche modo avesse un debito con lui per essere riuscito nella vita.

Era contento che le sue idee si erano dimostrate vincenti anche se lui non era riuscito a metterle in atto.

Se lui era fallito la colpa era sua e non delle sue idee.

Lena lo aveva fatto vivere come marito e come padre nella loro vita e questo lo faceva sentire appagato e commosso.

Pensava di non aver meritato tutta quella fiducia da parte della donna.

Ringraziava il Signore per avergli concesso la gioia di sapere di essere stato utile per qualcuno.

Il coraggio di Lena aveva sopperito alle proprie debolezze.

Lui sapeva di essere stato bravo e coraggioso solo a parole, ma nei fatti lui non era stato diverso da tanti altri.

Non aveva messo in pratica i suoi stessi insegnamenti.

Lena non lo accusava di questo, lo aveva amato proprio a partire dalle sue debolezze.

Si rese conto che lui non era stato un uomo così buono come aveva sempre voluto vedersi.

Rivedeva il suo cinismo nei confronti dei genitori e della sua incapacità di rispettare i sentimenti degli altri come era capitato con Agata.

Era partito senza nemmeno salutarla quando sapeva bene cosa provava lei per lui.

Immaginava che, di sicuro, la sua partenza l’avrebbe fatta soffrire ma lui non si era curato dei suoi sentimenti.

Non l’aveva fatto durante le loro lunghe chiacchierate e non se n’era preoccupato alla fine quando le aveva tolto la possibilità di salutarlo.

Aveva giocato con la sua sensibilità.

Tradito la sua fiducia e si era meritato di subire la stessa sorte per mezzo di Linda.

Aveva vissuto quel tradimento con vittimismo, ma ora sapeva di essersi meritato dalla vita la stessa lezione di cinismo che lui aveva impartito ad Agata.

Avrebbe dovuto fare ammenda e chiedere perdono, invece si era eretto a giudice e aveva deplorato i peccati degli altri senza guardare i propri.

Doveva semplicemente chiedere scusa.

Non l’aveva mai fatto in vita sua e ora capiva quanto era stato arrogante e presuntuoso.

Lui non aveva mai ammesso a sé stesso di aver sbagliato.

Prese la decisione di are dal paese della defunta madre quando il suo soggiorno in casa del figlio di Lena sarebbe terminato.

Doveva chiedere scusa.

Doveva scusarsi con Agata sperando di essere ancora in tempo.

Doveva farlo per Lena che lo aveva amato, ma doveva farlo soprattutto per sé stesso perché capiva che, fino ad ora, non si era amato.

“Chi chiede scusa non è un debole” - se ne persuase.

“Lo è chi non lo fa.”

Chi si scusa lo fa perché, prima di tutto, ama sé stesso e non vuole portare una macchia sulla propria coscienza.

Nessuno andrebbe in giro con un bel vestito pieno di macchie - pensava.

Ora sapeva perché la sua vita era andata in malora, era lui ad aver sbagliato e non la vita ad averlo colpito ingiustamente.

Anche con Umberto era andata allo stesso modo.

Aveva perso la donna che amava perché non era stato capace di chiedere scusa e di perdonare.

Se fosse stato più mite e comprensivo, non avrebbe colpito il suo rivale in amore e non sarebbe dovuto scappare.

Sarebbe rimasto nella sua terra accettando, per amore, il fato di Lena.

Se avesse saputo perdonare avrebbe fatto il mestiere del padre accettando quel fato.

Ma quello stesso fato gli avrebbe restituito tutto con gli interessi.

Gli avrebbe dato una professione con cui sostentarsi e gli avrebbe restituito la sua donna una volta morto Umberto.

Bastava perdonare e avere pazienza.

Il tempo avrebbe fatto fruttificare quel perdono.

“E magari avrei avuto anche un figlio come Enrico” - disse fra se.

Invece aveva avuto quella vita dolorosa.

Tutto ciò per non aver appreso a perdonare, nè a chiedere scusa al prossimo che non è altro che una forma di perdono - si odiava a causa di quelle sue conclusioni.

“E’ perdonare sé stessi per gli errori commessi” - esclamò.

Doveva ringraziare Lena per quello che lei gli stava trasmettendo con le sue parole, una lezione di vita che lo avrebbe solo potuto rendere felice.

Ora non doveva più recriminare sul ato.

Gli doveva servire piuttosto per apprendere dai suoi errori.

Ma bisognava pensare al futuro per mettere in pratica i frutti di questa sua nuova consapevolezza affinché non risultasse vano ciò che aveva appena imparato.

XX

Doveva riprendere a leggere e portare a termine l’ultimo dialogo con la sua anima affine, andando oltre il dolore e il senso di pietà che gli ispiravano i patimenti della sua donna.

Per la prima volta poteva ammettere di provare pietà anche per Umberto il quale, pur potendo avere ciò che voleva, per la sua stessa incapacità di perdonare aveva vissuto infelice come se fosse stato privato di ogni cosa.

D’altronde aveva sempre vissuto in preda alle sue paure.

Sempre con la consapevolezza che la sua donna avesse donato il cuore ad un altro e che, qualunque cosa avesse tentato, non si sarebbe mai liberato da quel fantasma nemmeno avendone ottenuto l’esilio.

Probabilmente aveva preso a bere proprio a causa delle proprie frustrazioni.

Aveva tanto potere sulle persone che non erano importanti nella sua vita, ma non aveva alcun potere sul cuore dell’unica donna di cui possedeva solo il corpo ma della quale gli era inaccessibile l’anima.

I suoi schiaffi su di lei erano un moto di rabbia infantile dovuta a quella frustrazione, al senso di umiliazione di non essere l’oggetto dell’amore della donna desiderata.

Il fatto di sentirsi chiamato semplicemente Umberto e non “caro” oppure “amore” non aveva contribuito a migliorare il suo umore, erano distanze che lo avevano torturato e lo avevano lentamente ucciso dentro.

Chissà, forse quella morte l’aveva cercata disperatamente.

Forse il giorno in cui si era reso conto di morire aveva provato un senso di liberazione.

Distolse la mente da quei pensieri perché lo tormentava qualcosa.

Qualcosa di più profondo, causato da quel fluire di parole sul diario.

Riguardava Enrico.

Lena lo nominava in continuazione anche solo per spiegargli il tipo di educazione appresa.

Questo continuo metterlo al centro della sua attenzione lo induceva a porsi innumerevoli domande.

Ma le risposte che gli venivano in mente erano tutte scomode.

Perché aveva trasmesso ad Enrico la sua visione della vita?

Perché gli parlava del suo ato doloroso?

In quel diario prima che di loro si parlava di lui.

Tutto poteva essere riassunto in un'unica domanda.

Perché era così importante parlare di Enrico?

Avrebbe potuto anche dare una risposta tutto sommato ragionevole per risolvere il mistero.

Se non fosse che essa avrebbe sconvolto definitivamente la sua anima già turbata dal dubbio.

Quanto c’era di Umberto in Enrico?

E quanto di lui e dei suoi insegnamenti?

Riprese a leggere.

Ormai non poteva tirarsi indietro, lui non era mai stato l’uomo dei dubbi ma delle certezze e in questo frangente non poteva cambiare.

Nè voleva cambiare.

La posta era troppo alta.

“Intendo rivelarti un ultimo segreto che spero porterai con te, ma penso tu sappia di che sto parlando ormai, ti conosco e avrai già pensato che era molto strano ti parlassi di Enrico piuttosto che di noi due.”

Bingo! – pensò, mentre le mani cominciavano a tremagli per l’emozione.

“Non gli ho certo inculcato i tuoi valori per vendetta nei confronti di Umberto o solo perché ti ho amato e nemmeno perché ritenevo che potessero farlo diventare un uomo migliore.”

”L’ho fatto in memoria di quella notte, seppure fugace, nella quale ci scambiammo promesse d’amore eterno e in cui tu mi lasciasti l’unico dono che avevi da farmi.”

“L’unico che io avrei gradito più di ogni altro.”

“Quel dono è Enrico.”

Il suo vecchio universo improvvisamente era andato in frantumi e al suo posto ve n’era uno nuovo, molto più luminoso e colorato.

Di quella vita inutile e gretta di alcuni giorni prima non restava che il pallido ricordo.

In tutti quei decenni lui aveva costruito qualcosa attraverso Lena senza saperlo ed ora ammirava il bellissimo edificio.

Era un padre ed era anche un nonno e non piangeva più di dolore o di rabbia, ma di gioia.

La vita non era più quell’infame nemica che lavora ogni giorno e ogni notte per toglierti ogni speranza o felicità.

Era quella compagna che ti pulisce dallo sporco dei desideri inutili per regalarti quell’unico abito capace di valorizzare la tua anima.

Questo era tutto ciò che sapeva ora e tanto gli bastava.

Voleva solo godersi il momento senza farsi prendere dal rimpianto di non aver potuto crescere suo figlio e veder nascere le sue nipotine.

Provava un pò di vergogna per aver pensato male di Enrico pur vedendolo.

Soprattutto per aver tentato in tutti i modi di provocarlo per far uscire allo scoperto qualche difetto che lo accomunasse ad Umberto e glielo rendesse più disprezzabile.

Ma era andata diversamente e lui, anziché odiarlo, l’aveva amato.

Il suo cuore già sapeva di chi era figlio senza che glielo rivelasse

Lena.

Riprese a leggere le ultime righe.

“Lui è il frutto del nostro amore, è il seme della nostra promessa che ha fatto molto frutto, come un seme di senapa che da piccolo diventa il più grande fra gli alberi.”

“Lui ha trasformato il male in bene compiendo un grande miracolo” - continuò “devi esserne fiero.”

E lo era.

“Spero che non farai parola di tutto ciò ad Enrico” – gli intimò.

“Ha già subito la perdita di un padre, non si darebbe pace nel sapere che non si è goduto il vero padre e che potrebbe goderselo ancora per poco tempo.”

“Ti amerò per sempre.”

“Anch’io amore mio” - rispose sperando che l’anima di Lena, ovunque fosse, potesse udirlo.

Provava insieme gioia e dolore, la vita gli dava un figlio ed un’eredità fertile di valori e di sentimenti.

Purtroppo, dovendo mantenere il segreto, non poteva godersi quel lascito.

Questo lo intristiva.

Si sentiva come Mosè il quale, a causa del suo peccato, poté vedere la terra promessa solo da lontano ben sapendo che, a causa della punizione divina, lui non vi sarebbe mai arrivato.

Ma Mosè aveva accettato la sua punizione.

“Farò come vuoi” - disse tra sé.

“Non dirò nulla.”

Si stese completamente sul letto

“Domani prenderò il pullman e andrò sulla nostra spiaggia” - disse riflettendo ad alta voce, mentre dentro cresceva la sua eccitazione.

Alzò gli occhi al soffitto e spense la luce, quasi volesse vedere oltre il tetto le stelle che immaginava, come avevano fatto una notte di quarant’anni prima lui e Lena.

Poi si girò su un fianco e sussurrò.

“Buona notte amore mio.”

Mentre si lasciava prendere dalle braccia di Morfeo una lacrima sfuggì dai suoi occhi: Lena era lì con lui e finalmente la poteva sentire.

XXI

Si alzò alle prime luci dell’alba e si mosse per la casa facendo attenzione a fare il minor rumore possibile.

Ebbe cura anche di lasciare un bigliettino sul tavolo della cucina per avvertire quella famigliola così deliziosa del suo piccolo viaggio nei .luoghi della sua giovinezza alla ricerca del suo ato e del suo futuro.

Il presente era quel viaggio.

Avrebbe ato una giornata a guardare il sole sorgere e tramontare, aspettando di vedere la sua anima che faceva capolino tra la spuma del mare.

Guardò fuori dalla finestra e i suoi occhi s’immersero nel cielo terso, tipico della prima estate che avanza, l’aria fresca e umida preludeva ad una giornata assolata e decisamente calda, persino per quel periodo.

“Ma siamo in Sicilia dove è quasi sempre estate” - mormorò.

Poi fu distratto da un rumore delicato di i aggraziati alle sue spalle.

Si volto e vide Enrico.

Restò immobile, sorpreso di vederlo lì davanti, emozionato di trovarselo di fronte ora che sapeva chi fosse realmente per lui.

Dopo la confessione di Lena, Enrico era la realizzazione di tutti i suoi sogni e speranze ed anche molto di più.

Era la fine del suo autolesionismo.

Ora non doveva più compatirsi o punirsi per le proprie incapacità.

Sentiva invece di doversi spendere per dare gioia a quella famiglia.

In qualche modo voleva essere utile e desiderava sopravvivere nei loro ricordi come qualcosa di positivo.

Si sarebbe adoperato per questo pur mantenendo il segreto.

Nel frattempo scrutava Enrico per trovare eventuali somiglianze fisiche e comportamentali che sicuramente gli erano sfuggite quando ancora pensava fosse figlio di Umberto.

“Buon giorno, come mai così mattinieri?” - domandò il padrone di casa con un tono gioviale.

Entrambi sapevano che finalmente i segreti di quel diario non erano più celati.

Enrico, da buon avvocato, era conscio che quella levata era frutto di un’agitazione interiore derivante dalla scoperta di quei segreti.

Qualunque fosse quel segreto era pur sempre qualcosa che lo riguardava, ne era certo, e avrebbe trovato il modo di farselo dire dall’ospite.

L’ospite d’altro canto sembrò intercettare i suoi pensieri e lo prevenne.

“Ho pensato di andare per un paio di giorni in una località rivierasca” – disse.

“Non ne abbia a male, ma essendo così tanto vicino ad un posto a me tanto caro non resisto alla voglia di rivederlo.”

“Questo posto per caso è quello dove vi siete fatti la promessa di amarvi per sempre?” - Enrico non usò mezze frasi, era diretto e voleva incalzarlo per ottenere la sua confessione.

Non c’era modo migliore che spiazzare l’avversario, pensò, stupendolo con la conoscenza di eventi abbastanza intimi da costringerlo a credere che il suo interlocutore sapesse ogni cosa e rendesse vano serbare un segreto.

Lui non sapeva quanto Enrico fosse a conoscenza dei fatti e se, eventualmente, fosse a conoscenza di ciò che era scritto sul diario.

Doveva stare bluffando.

era pur sempre un professionista e come tale doveva rispettare le volontà di una morente, inoltre il suo amore per sua madre doveva essere un vincolo abbastanza forte da indurlo ad accettare quelle volontà.

No, certamente non sapeva del contenuto del diario - pensò - quell’insistita voglia di conoscere non poteva appartenere a chi già sapeva tutto.

Stava certamente cercando di estorcergli qualche informazione giocando sporco.

Nel dubbio comunque era meglio comunque continuare a dare per scontato che sapesse meno di quanto voleva far credere.

“Dove vuole andare a parare?” - chiese al giovane avvocato cercando di mascherare un certo imbarazzo.

“Da nessuna parte” - rispose sorridendo.

Forse aveva già ottenuto la sua risposta grazie ai suoi gesti.

“Volevo sapere se andava nel luogo di cui mi ha tanto parlato mia madre.”

Diede molta enfasi a quel “tanto” per far capire al suo ospite che madre e figlio avevano parlato a lungo del suo vissuto al punto che era al corrente di molte cose, anche quelle più intime.

Lui, però, cercò di non farsi intimidire.

Conosceva Lena meglio del figlio, si fidava di lei ed era certo che tutto ciò che aveva scritto sul diario non lo aveva mai confessato al figlio.

Doveva fidarsi del proprio intuito e continuare ad essere evasivo.

“E’ possibile che sia la stessa spiaggia allora” - rispose con una certa noncuranza.

Era meglio una parziale ammissione.

Ma senza darvi troppo peso che continuare a negare mostrando imbarazzo.

Era cosciente che mostrarsi oltremodo imbarazzato sarebbe stato il modo migliore per confermare i dubbi del figlio.

“Comunque adesso è meglio che m’incammini se non voglio arrivare tardi, forse, le racconterò qualcosa al mio ritorno” - tagliò corto.

Sapeva di aver esagerato.

Si era esposto ma non aveva molta scelta.

Doveva dargli qualcosa in pasto per calmare la sua fame di notizie.

Restare con suo figlio avrebbe significato lottare contro qualcuno che aveva una dialettica e delle motivazioni ad ottenere ciò che voleva migliori delle sue.

“Mio figlio” - ancora non riusciva ad abituarsi a vederlo in quel modo.

Inoltre gli era difficile non commuoversi guardandolo.

Provava un enorme desiderio di abbracciarlo, ma sapeva di dover resistere alla tentazione.

Mentre usciva Enrico rimase alla finestra ad osservarlo in religioso silenzio.

Non gli aveva detto più nulla, di certo non si era offerto di accompagnarlo.

Ma non era un gesto di ripicca.

Evidentemente capiva che l’uomo voleva fare il suo cammino da solo.

“Si cresce sempre da soli, ma ci si confronta in due” - pensò Enrico guardando il suo ospite allontanarsi.

Quell’uomo sapeva molto e lui non voleva stare in disparte, sarebbe venuto a conoscenza dei segreti di sua madre in un modo o nell’altro.

In fondo gli appartenevano e lui era pur sempre un ottimo avvocato.

L’uomo invece non si voltò mai per imbarazzo e lungo il tragitto rimuginò sui suoi pensieri finchè arrivò alla stazione dei pullman.

Era ancora piuttosto turbato dal colloquio col figlio.

Se gli avesse concesso ancora qualche minuto del suo tempo lui avrebbe scardinato le sue difese e si sarebbe fatto dire tutto.

Lui era bravo, ma Enrico aveva studiato e si era esercitato, non c’era competizione fra i due e sarebbe stata questione di tempo prima che lui crollasse.

Mentre saliva sul pullman desiderava solo concentrarsi sui luoghi che voleva rivedere.

Se li raffigurava nella mente anche per cogliere le differenze, ansioso di capire che genere di emozioni potessero suscitargli dopo quarant’anni.

Voleva distrarsi ed allontanarsi da tutte quelle rivelazioni, quando sarebbe tornato avrebbe fatto visita alla tomba della sua donna come era in programma.

Ora aveva solo bisogno di ritrovarsi.

Provò una profonda malinconia a rievocare le immagini della spiaggia.

Sarebbe stato da solo a camminare sulla sabbia.

Sperava che guardando distrattamente la campagna dal finestrino del pullman in movimento la sua attenzione si concentrasse su altro che non su quei pensieri tristi.

Poi socchiuse gli occhi e cercò di addormentarsi per interrompere il turbinare di pensieri che gli affollavano la mente.

Sonnecchiò fino a quando il conducente non si curò di svegliarlo giunto alla fermata a cui doveva scendere.

Per sua fortuna, era il capolinea e poté prendersela comoda senza essere di

disturbo ad alcuno.

Giunse sulla spiaggia nel primo pomeriggio e, prima di fare la sua eggiata sulla sabbia, cercò di rendersi ben conto di dove fosse.

Non si stupì nel vedere come quel luogo non assomigliasse più tanto a quello che li aveva veduti amanti quarant’anni prima.

Tra case e piccoli negozi, alberi che non c’erano più e recinzioni di stabilimenti balneari poteva pensare di trovarsi in un altro luogo.

Di sicuro lì difficilmente avrebbe trovato lo spirito di Lena.

Perfino le sue emozioni rimanevano chiuse nei meandri inaccessibili della sua coscienza e non venivano fuori come invece si sarebbe aspettato.

Era alquanto deluso dalla piega che stavano prendendo le cose, perfino quel mare, pur meraviglioso, non gli parlava di nulla.

Si slacciò le scarpe e prese a camminare sulla battigia puntando gli occhi su quel sole che presto sarebbe divenuto di un rosso conosciuto.

Sperava che almeno allora avrebbe percepito una vibrazione positiva.

Una parte di lui disperava e si sentiva prossima all’ennesimo fallimento.

Il mostro che aveva dentro non era ancora morto.

Sentiva la sua umiliazione crescere proprio come era accaduto quando altri, nella sua infanzia, avevano sminuito le sue doti con frasi derisorie.

“E’ quello che vuole scrivere storielle.”

“Scrivi una poesia su di me.”

“Dedicami un libro.”

Il disprezzo mostrato dal mondo nei suoi confronti lo aveva spinto a nascondersi e mettere da parte i suoi talenti.

Lui era stato considerato un nullafacente, dedito ad interessi effimeri e privi di una qualche utilità come la letteratura.

Non aveva certo svolto una mansione faticosa come quella del contadino e questo era per gli altri fonte di disprezzo.

Gli avevano sempre invidiato quel talento che lo rendeva un privilegiato e che lo

esimeva dalla fatica fisica.

Ora che era anziano aveva compreso che la gente mostra disprezzo verso ciò che invidia e che non può ottenere.

Lui aveva finito per comportarsi come loro.

Conosceva la favola della volpe e dell’uva nella quale la volpe, non riuscendo a raggiungere i chicchi d’uva, inizia a disprezzarla per trovarla meno desiderabile e rendere la rinuncia meno dolorosa.

Da giovane aveva sofferto molto per questa sua capacità di cogliere l’invidia degli altri nei suoi confronti .

A parte quando era stato con Lena, era sempre stato piuttosto triste.

Qualcuno era arrivato a domandargli il motivo della sua tristezza pensando che derivasse da qualche malattia psicologica.

Tutti gli altri se n’erano infischiati perché.

Inconsciamente, anzi, vedevano nella sua tristezza la giusta punizione della sua superbia di voler fare lo scrittore piuttosto che accettare umilmente di svolgere il mestiere del padre.

Anche il padre non l’aveva mai capito in fondo.

Si trincerava dietro frasi stereotipate.

“Che sarà mai” - diceva per manifestare la propria insofferenza verso le sue idee.

Certamente, non comprendeva il senso di scrivere o di studiare.

Tuttavia sapeva bene che un pezzo di carta aveva un indiscutibile valore, per questo non se la sentiva di precludergli quel percorso.

Sperava comunque che, prima o poi, il figlio avrebbe apprezzato il suo mestiere.

Per quella gente essere un contadino era anche uno stile di vita.

Una regola che metteva in evidenza le doti del singolo, ma anche l’altruismo e la partecipazione alla vita collettiva.

Tutto questo rendeva i contadini uomini taciturni e calmi, apparentemente saggi.

Il buon contadino doveva recarsi nella sua campagna fin dell’alba e andar via

solo al crepuscolo, con le orecchie tese alle campane della propria chiesa che ne scandivano la giornata.

Il suo sudore e i suoi calli testimoniavano l’amore per la sua terra e la famiglia che sostentava.

Non desiderava produrre molto oltre il suo fabbisogno per non attirarsi le invidie degli altri braccianti perché sapeva che l’arricchimento porta all’avidità.

La rispettabilità era una sintesi tra la bravura nel coltivare e la capacità di non abbondare nei raccolti.

Anzi chi terminava prima di badare al suo terreno poteva magari occuparsi dei propri vicini senza chiedere in cambio null’altro che qualche prodotto della loro terra giusto per non lavorare gratis.

Secondo quella mentalità o si era contadini oppure non si era nulla.

Certo qualche laureato ci doveva pur essere.

Ma erano sempre persone che dovevano servire alla collettività, maestri, notai, medici e così via.

L’arte non era annoverata tra le cose utili.

Lui, invece, era stato un uomo inutile, fuggito via da quella terra portandosi dietro il suo ciarpame culturale.

Ora che era tornato, il mondo era cambiato.

Era un mondo che viveva quasi solo di cose inutili.

Quelle cose inutili che lui aveva sempre saputo fare bene.

In quel mondo avrebbe dovuto trovarsi a meraviglia.

Invece ora rimpiangeva il ato nella misura in cui lo allontanava dai propri ricordi.

Non lo faceva perché pensava che il ato fosse migliore del presente ma perché il presente aveva stravolto i luoghi del suo ato al punto che non esistevano più.

Quella spiaggia non era più capace di creare un’atmosfera romantica, era una spiaggia come tante.

Così come non avrebbe più rivisto Lena.

Né avrebbe mai più eggiato sulla loro spiaggia.

Ormai era la spiaggia di qualcun altro.

Il mondo era cambiato, il ato era morto.

Anche lui era fuori posto.

Anche lui sarebbe già dovuto morire.

XXII

Il sole ormai era una palla rossa che tentava di nascondersi tra le case, tutt’intorno riecheggiavano il rumore delle onde e il canto dei gabbiani.

La brezza non era ancora quella calda dell’estate.

L’unica cosa che non sembrava essere mutata era la consistenza della sabbia sotto i suoi piedi.

Era identica a quella di quattro decadi prima, e questo lo rasserenò al punto che riuscì ad immergersi, per un breve istante, nel suo ato.

Poi le sue mani rugose gli riportarono alla mente il tempo e le esperienze.

Ma soprattutto, i fallimenti e ne sorrise.

Lui non poteva certo dar consigli sul senso della vita.

Né poteva insegnare altro che il modo peggiore di vivere.

Tutto ciò che un uomo non deve fare se vuole avere soddisfazioni dalla vita.

Solo Lena, nonostante tutto, forse proprio in virtù dei suoi errori l’avrebbe ancora ascoltato.

Rapita e innamorata dell’uomo fragile, impulsivo, egocentrico e l’avrebbe seguito in qualunque burrone si fosse gettato.

Chissà se lei da dove si trovava, pensò alzando gli occhi verso la prima stella della sera, poteva ancora dirsi fiera di lui una volta che sapeva il tipo di vita che aveva vissuto.

Nella sua vita era stato come una formica finita in un lavandino pieno d’acqua la quale, tolto il tappo dello scarico, aveva iniziato a girare attorno al vortice che l’acqua forma scendendo nel tubo.

Inizialmente aveva roteato piano nella placida corrente a .

Aveva cercato di sfuggire al risucchio muovendosi verso l’esterno in direzione radiale al vortice.

Ma, a mano che la corrente si era fatta più violenta la formica, sempre più stremata, si era lasciata andare in quel turbinio d’acqua finché spariva alla vista risucchiata nello scarico.

Quella era stata la sua vita.

Ma ora da quel condotto era miracolosamente uscito.

Quando si rese conto di essere stato fermo come un palo per un quarto d’ora, preso dalle sue meditazioni, se ne vergognò.

Cercò di far finta che il suo comportamento fosse naturale.

Riprese a guardare il cielo e poi i colli in lontananza e, pian piano, si rese conto che molti rumori erano cessati, perfino i gabbiani erano spariti.

Ora vagava per la spiaggia solo accompagnato dal vento leggero che, delicatamente, carezzava le creste di sabbia.

Cercava il punto in cui loro due si erano scambiati la loro promessa e, ad un certo punto, pensò di averlo trovato.

A mano che si avvicinava al punto che aveva riconosciuto il presente sembrava svanire e il ato si materializzava.

Gli parve di vedere lui e Lena distesi a scambiarsi effusioni d’amore, intenti a viversi dentro e seminare le loro speranze prima di essere separati.

Il suo volto si era infuocato dall’emozione, perso in quella scena.

Non pensava al pulsare del suo cuore che sembrava un treno.

Sentiva il loro ansimare e, più aumentavano le loro ioni, più lui sentiva scorrergli forte il sangue nelle vene.

Poi ogni suo fremito lentamente cedette il posto ad una fitta via via più intensa.

Si strinse forte il torace con le mani e cadde in ginocchio fissando il punto ove lui e Lena continuavano ad amarsi incuranti della sua presenza.

Avrebbe voluto godere ancora per qualche istante di quella scena, pur sapendo quello che gli stava accadendo e che gli veniva confermato anche dal dolore al braccio.

Solo quando sbattendo le palpebre si accorse che l’immagine era sparita.

Alzò lo sguardo al cielo.

Se non altro per vedere lei che gli tendeva le braccia.

Le fitte intanto gli davano l’orribile sensazione che il petto dovesse aprirsi in due dall’interno.

Sentiva mancare il fiato al punto da non riuscire nemmeno a bisbigliare per chiedere aiuto.

“Dunque tutto è compiuto?”

Era giunto fin là dove tutto era cominciato per pagare il prezzo dei suoi errori, morendo nel rimpianto di non aver potuto rimediare a nessuno di essi?

Dove quarant’anni prima aveva lasciato l’anima, adesso avrebbe lasciato anche il corpo?

Avrebbe voluto dire tutta la verità ad Enrico in quell’istante chiedendogli perdono per non esserci stato.

Avrebbe voluto imparare come si abbraccia un figlio.

Se non fosse stato per quella maledetta promessa l’avrebbe fatto già quella mattina prima di partire.

“Lena perché mi fai questo?” - implorava e gemeva con tutta la sua anima.

“Per la seconda volta mi hai chiesto di farmi indietro e di nuovo sto pagando la mia debolezza.”

Avrebbe voluto una risposta.

“Se avessi fatto di testa mia ora avrei un figlio che sa di avere un padre e sarei il padre che può morire felice.”

Il cielo gli parve girare come una trottola.

Poggiò le mani per terra.

Rimase carponi consapevole che le forze lo stavano abbandonando e che negli istanti successivi avrebbe perso i sensi.

Il suo corpo stava cedendo.

Lottare contro quel decadimento avrebbe solo prolungato la sua agonia.

Solo il rimpianto gli impediva di lasciarsi andare.

“Perdono, perdono da tutti voi” - disse rivolgendo il proprio pensiero a Lena prima di tutto.

Poi pensò ad Enrico e alle sue figliolette, ad Agata, alla propria madre e allo zio Giacomo ed anche a quel padre che lo aveva amato come aveva potuto.

“Io vi ho perdonati e vi amerò sempre.”

Aveva parlato trascinandosi carponi ostinatamente fin sul luogo dove si era amato e dove aveva donato la sua verginità spirituale.

Ora non c’era più nulla che potesse fare.

Le braccia cedevano lasciandolo a terra con la schiena al vento e la faccia rivolta verso il mare.

Ripensò alla mattina di quarant’anni fa quando si era svegliato proprio in quella posizione vedendo lei che aspettava il sole.

Non sarebbe riuscito a dire più una parola, non solo perché ormai non aveva più fiato.

Se anche avesse avuto ancora le forze, sapeva che non era rimasto nulla da dire.

Solo il silenzio parlava ora.

E gli parlava di lacrime e dolore.

Il dolore suo e di Lena lasciava il posto al dolore dello zio Giacomo che s’era adoperato per non fargli rivivere la sua sofferenza.

Il dolore della madre che aveva vissuto di fatiche e solitudine pur di dargli quello che lei non aveva avuto, privandosi di un figlio finanche nel letto di morte.

Il dolore di Agata che immaginava una vita completa e realizzata per sé e per l’uomo che amava.

Il dolore di Umberto che aveva lottato e perduto come lui.

Il dolore di Linda che non aveva saputo chiedere aiuto per paura di non essere capita.

Non era stato il solo a soffrire, ora lo vedeva chiaramente.

Ma era stato un egoista a credere che il suo dolore fosse stato più grande di quello altrui.

Anche se altri avevano dimostrato empatia per le sue sofferenze mettendo da parte le proprie come avevano fatto sua madre, lo zio Giacomo e Lena, lui non aveva ricambiato il loro sacrificio.

Ne aveva vanificato gli sforzi.

Era stato un cinico, egoista e narciso.

Aveva tradito l’amore che gli era stato donato.

Il silenzio ora gli parlava di come avrebbe potuto salvare tutti quanti.

Liberarli dal loro dolore se solo avesse accolto nel proprio cuore le loro sofferenze.

Sarebbe potuto perfino diventare amico di Umberto.

Attraverso il suo amore, avrebbe potuto farlo maturare per trasformarlo in una persona migliore.

Perché l’amore ostinato, prima o poi, genera amore.

Anche nelle persone più refrattarie.

Forse avrebbe potuto sposare Agata e rendere almeno lei una donna felice invece

di ostinarsi con Lena.

Almeno alla prima avrebbe potuto permettere di sentirsi una donne appagata.

“A volte ciò che desideriamo, non è ciò che vogliamo” - pensò in un ultimo sussulto di vita.

Ora che sarebbe morto avrebbe chiesto scusa a tutti quelli che aveva reso infelici.

Ora finalmente avrebbero tutti vissuto in amore e fratellanza.

Su questa terra non poteva fare altro e scelse di lasciarsi andare.

XXIII

Riaprì gli occhi per un istante come per cercare qualcosa, una figura, magari una donna.

“Lena” - avrebbe voluto vedere la sua sagoma come quarant’anni prima.

C’era solo la sabbia che gli entrava negli orifizi e la luce di un pallido sole che si insinuava con determinazione tra le sue palpebre.

Era ancora solo.

Ma era ancora vivo.

Si mise a sedere guardando il mare e la spiaggia.

Era l’alba del nuovo giorno, aveva ato tutta la notte da solo in spiaggia svenuto.

Il vento si era calmato e le acque, così limpide, gli davano una pace a lui sconosciuta fino ad allora.

Il silenzio adesso non gli parlava più.

In qualche modo sentiva che la serenità che aveva sempre animato Lena gli si fosse insinuata nelle ossa impregnando i suoi pensieri.

Era rinato, risuscitato.

E Lena era risuscitata con lui.

Ora era in lui.

Quella spiaggia che era stata la tomba del loro amore ora testimoniava la resurrezione di un uomo.

Adesso non aveva più rimpianti ma provava solo felicità nel sapere che lei non stava più a guardarlo impotente dal cielo, ma poteva operare attraverso di lui.

Ora erano uniti come mai avrebbero immaginato e stavano già coronando il loro sogno d’amore.

Ora sapeva cosa andava fatto.

Decise di alzarsi in piedi e, barcollando, giunse fino alle scogliere dove aveva spesso meditato da solo.

Il suo riscatto dipendeva da sé stesso e così pure la felicità di tante persone.

Doveva darsi al mondo ed il mondo si sarebbe donato a lui.

Intanto aveva un figlio da riabbracciare.

“Perdonami Lena, ma non posso mantenere la mia promessa” - disse sorridendo con gli occhi rivolti al cielo.

Era certo che Lena stesse ricambiando il sorrise dal profondo del suo spirito.

S’incamminò per prendere il pullman ed era già ad una certa distanza dalla spiaggia quando si voltò a guardare il punto dove lui aveva rivissuto il suo ato fin quasi a morirne.

Adesso quella distanza gli pareva incolmabile.

Persa nello spazio e nel tempo, come se non fe più parte della sua vita e tutto ciò che aveva rappresentato fino ad allora fosse morto.

Il baco aveva lasciato il bozzolo.

Lui era divenuto farfalla e quella spiaggia ne era l’involucro vuoto.

Adesso voleva dirigersi verso la fermata senza più voltarsi indietro.

Voleva solo andare avanti scegliendo la vita che più gli aggradavano senza preoccuparsi di altro.

Salì sul pullman che lo avrebbe condotto al suo nuovo destino, sarebbe andato a visitare le spoglie di Lena e poi avrebbe riabbracciato suo figlio e le sue nipotine.

Sarebbe ripartito per andare nel paese della madre per onorare anche lei e per chiedere perdono ad Agata.

“Meglio tardi che mai” - pensava.

Se lei non lo avesse perdonato lui sarebbe stato ugualmente contento di essersi scusato.

Poi avrebbe messo mano a quel libro che non aveva mai avuto la forza di scrivere per il timore di confrontarsi con le sue stesse debolezze.

Sarebbe stato il suo testamento per Enrico.

Con esso lui l’avrebbe accompagnato per tutti i giorni della sua vita.

Sarebbe stato per il giovane quel padre che non aveva avuto e il suo ricordo sarebbe durato per sempre.

All’inizio del viaggio non si curò del panorama, non gli interessava quello che c’era fuori ma ciò che era dentro di se.

Poi concentrò la propria attenzione sui eggeri che salivano e scendevano alle varie fermate riflettendo sulle loro vite e sulle loro .

Sperava che tutti potessero trovare il loro cammino e la loro realizzazione in questa vita proprio come lui era stato baciato dalla grazia del Signore.

Il suo sguardo cadde su un bimbo riccioluto e paffutello che lo scrutava, aveva degli occhi grandi che trasmettevano un senso di curiosità.

Questi non appena si accorse che il vecchio incrociò i suoi occhi gli sorrise privo di ogni malizia.

Lui dal canto suo rispose a tale manifestazione spontanea di affetto con un sorriso altrettanto sincero ma senza invidiare quella fanciullesca ingenuità di cui aveva fatto sfoggio il bambino.

Si augurò che la conservasse intatta fino alla maturità ed anche oltre, fino alla

canizie.

Adorava i bambini, come quello, che non avevano ancora idea di quanto male ci fosse nel mondo e ancora pensavano che tutti i conoscenti fossero buoni.

Buoni lo erano stati tutti davvero.

Almeno da piccoli.

Era crescendo che sviluppavano la paura di soffrire e cominciavano a premurarsi di aggredire il prossimo prima che questi fe altrettanto.

Il bimbo sembrò recepire quel gesto di empatia poiché, pur continuando a sorridere, inarcò per un brevissimo istante le sopracciglia e subito dopo si scrollò le spalle come a volerlo tranquillizzare sul fatto che era meglio godersi il presente senza pensare ai timori del futuro incerto.

Giunto a destinazione, scese senza fretta e si diresse al cimitero camminando con un grande senso di libertà.

Guardando le persone notava che non possedevano la sua stessa sicurezza e ciò lo addolorava perché quel che aveva dentro era qualcosa che avrebbe voluto condividere.

Avevano tutti il volto pallido a causa delle loro ansie e mostravano una nostalgia

per il loro ato e per le scelte personali di cui s’erano pentiti.

Leggeva dai loro occhi che avrebbero voluto ripercorrere i loro i con una consapevolezza nuova.

Questo li rendeva timorosi anche per il loro futuro, così da non alzare mai lo sguardo sulla strada che percorrevano per paura di vedere in fondo ad essa qualcosa che non sapessero come affrontare.

La loro era incapacità di vivere il presente.

Ne aveva sofferto anche lui e, al pari di questi, aveva temuto di non riuscire a realizzare i suoi sogni.

Così aveva atteso inerte un futuro che non era mai arrivato.

Piuttosto il futuro se lo sarebbe dovuto costruire credendoci giorno per giorno.

Come aveva letto nei vangeli era la fede che smuoveva le montagne e lui non aveva avuto fede in sé stesso ne nel futuro che sognava.

Aveva avuto più fede in un futuro negativo e privo di soddisfazioni.

Gli era capitato proprio quello che temeva.

Preso nelle sue meditazioni era giunto al cimitero, così domandò al guardiano dove fosse la tomba di Lena e questi lo guidò fino a lei.

Rimase da solo a fissare la foto sulla lapide, sentiva una grande pace dentro perché sapeva di essere venuto ad onorare solo un mucchio di ossa.

Lena ormai viveva dentro di lui in un legame inseparabile.

Per il resto come per la spiaggia anche quella tomba era un involucro privo di significato.

Volle comunque pregare e ringraziare il cielo per avergli dato questa possibilità di redenzione.

Poi avvertì una presenza alle sue spalle, ma la cosa non lo spaventò, in fondo sapeva che non era qualcuno ostile.

Si voltò e riconobbe il suo osservatore.

I due rimasero in silenzio fissandosi negli occhi cercando nell’altro la consapevolezza del loro legame.

Si parlarono nel silenzio raccontandosi ogni cosa delle loro rispettive vite, delle loro attese, della loro disperazione.

“Ciao, è bello rivederti” - salutò suo figlio.

“Sapevo che ti avrei trovato qui prima o poi e sarei tornato ogni giorno per vedere se venivi” - rispose questi.

“Immagino che tu sappia tutto” - volle lasciare la palla ad Enrico.

“Non potevo non leggere” - al giovane spuntarono le lacrime agli occhi.

“Tua madre voleva restasse un segreto” – obiettò.

“E tu me l’avresti nascosto?”

“No, figlio mio, per nulla al mondo” - si avvicinò al giovane e lo cinse stretto trattenendo un sussulto di emozioni.

Finalmente sapeva come si abbraccia un figlio.

Rimasero legati insieme per lunghi istanti.

Poteva sentire la carne di Lena in quella di Enrico.

Il ragazzo possedeva un po’ della sua anima e così la resurrezione della sua donna fu completa in quell’istante.

Lei era li con loro e li abbracciava entrambi.

“Ora conosco le mie radici, ho un’identità che sento mia” - il figlio aveva la voce rotta mentre parlava.

“Vuoi fare il padre adesso?”

Si staccò da lui e lo fissò in attesa di una sua risposta.

“No” - rispose il padre.

Enrico lo guardò stupito dalla risposta.

“Non potrei più insegnarti nulla” - aggiunse, comprendendo i suoi timori.

“Ti ho già trasmesso tutto attraverso l’educazione di tua madre.”

“Posso solo amarti e tentare di fare il nonno” - disse sorridendo.

“Vedrò di accontentarmi” - Enrico ne fu rassicurato.

Poi i due si avviarono verso casa del figlio.

Quel pomeriggio si preparò i bagagli nella sua stanza.

Sapeva di dover rimettersi in viaggio per mettere ordine nella sua vita e lasciare il mondo avendo portato un po’ di luce.

Si presentò all’ora di cena e, durante il percorso, carezzò il amano immaginando le sensazioni che Lena doveva aver provato toccando quel legno lucido e delicato.

Poi fu accolto dalle bimbe che gli corsero incontro e lo abbracciarono chiamandolo nonnino.

Tutta quella tenerezza lo commosse, non si sentiva degno di tanto affetto ma sapeva che se lo doveva godere fino in fondo perché era quello che aveva sempre desiderato.

Fece alle bambine delle tenere carezze sui capelli.

Quando furono tutti seduti lui prese la parola, non senza un senso di dolore nel sapere che avrebbe tolto il sorriso da quelle facce che godevano di un momento di gioia e serenità.

“Domani parto.”

Fu come una bomba.

La moglie di Enrico chinò lo sguardo e le bambine fecero uno sguardo misto di sorpresa e di sconforto.

“Papà, non ti senti a tuo agio?”

“Non è questo” - rispose solenne.

“Ma io devo rimettere in piedi la mia vita, chiedere perdono a qualcuno e portare a termine un sogno che ho tenuto nel cassetto da troppo tempo, quel libro che non ho mai avuto il coraggio di scrivere.”

Enrico era scosso, triste all’idea di doversi separare da un padre che aveva appena ritrovato, ma voleva mantenere il contegno.

E voleva rispettare le sue volontà, anche se gli faceva male. “Devi pensare che

questa sarà la mia eredità per sempre, mentre come uomo i miei giorni sono quasi al termine.”

Fece una pausa.

“Poi mi sento in dovere di dare conforto a coloro che si sentono come mi sentivo io fino a qualche giorno fa” – continuò.

“E posso farlo solo attraverso la scrittura.”

“Ma perché non lo scrivi qui?”

Cercava di dissuaderlo dal partire.

“Ti aiuterò a pubblicarlo come ho fatto col mio.”

Il padre gli sorrise.

“Immaginavo ti saresti offerto” – ribadì.

“Ma a Milano devo chiudere alcuni vecchi capitoli della mia vita per aprirne di nuovi.”

Rimasero per un attimo in silenzio poi lui riprese a parlare per persuaderlo.

“Cerca di comprendermi.”

“Ma tu torna qui non appena hai finito” - replicò figlio.

“Intesi?”

“Intesi” - l’uomo sorrise, Enrico era proprio come lui, caparbio oltre ogni limite.

Quella notte lui ripensò al suo bisogno di riscatto che anticipava la lettera del figlio, a tutto il viaggio fatto, al malore e all’essere giunto ad un o dalla morte, a Lena.

Gli era stata data una seconda occasione, gli era stato concesso il perdono anche se lui non l’aveva ancora chiesto esplicitamente.

Ora doveva distribuire al mondo quell’amore che gratuitamente aveva ricevuto, aveva un debito da saldare.

Prima di tutto con Agata.

Lentamente si assopì nel morbido letto lasciando le sue membra in balìa di quei pensieri dolci, mentre nel cielo la luna a spicchio teneva banco tra le numerose stelle e di tanto in tanto qualche rumore nella campagna avvertiva della veglia di molte creature.

La vita pulsava senza conoscere limiti di tempo e di spazio.

Questo gli dava una consapevolezza rassicurante.

XXIV

La mattina seguente padre e figlio si recarono alla stazione.

Lui aveva da prendere di buon ora il treno che lo portava nel paese della madre.

Caricò la valigia sulla carrozza e subito dopo ne ridiscese per salutare il figlio.

“Da qui sono partito per emigrare e da qui riprendo la mia vita” - era sorridente.

“Ma stavolta con ben altre speranze e consapevolezze.”

Comprendo ciò che vuoi dire” - gli rispose annuendo il figlio.

“Ora non devi più scappare, ora ciò che pensavi d’aver perduto è tuo per sempre.”

Poi tacque giusto il tempo di cambiare argomento.

“Spicciati a finire il tuo libro, io ti voglio qui con me a fare il nonno delle mie figlie, voglio godermi il padre ritrovato per il tempo che ti resta da vivere” – aggiunse.

“Quel padre che ho sempre desiderato e che immaginavo nelle mie notti di veglia.”

Un’onda di commozione s’impadronì del cuore di entrambi.

L’uomo tentò di reprimerla abbracciando vigorosamente il figlio e tenendolo stretto a sé, quasi soffocandolo.

Enrico, ad un tratto, si divincolò garbatamente e lui, vedendolo paonazzo in volto, si mise a ridere per la comicità della scena.

“Anch’io ho ritrovato un figlio, un figlio che non intendo perdere.”

Lo guardò con un’espressione carica di tenerezza.

“E delle meravigliose nipotine” - esclamò.

Poi si fece pensoso.

“Ma non è che Lena ci ha preso in giro e tu sei davvero figlio di Umberto?”

Enrico prima fece una faccia sorpresa, poi scoppiò a ridere.

“Scemo come ti viene in mente?”

Lui era felice di aver suscitato l’ilarità del figlio.

Era proprio ciò che voleva.

Sdrammatizzare il momento dell’addio.

“Se poi ti credo chi ti pubblicherà il libro?”

Poi Enrico frugò nelle sue tasche in cerca di qualcosa.

“A proposito” – disse.

“Dimenticavo, tieni qua.”

Fece per argli un biglietto.

“Qui c’è l’indirizzo e il numero di telefono del mio editore” – continuò.

“Lui aspetta una tua chiamata per farsi spedire il manoscritto quando sarà pronto.”

“Grazie di tutto” - rispose.

“E’ il minimo per tutto quello che mi hai trasmesso come uomo, anche se non potevi essere presente in questi anni.”

Poi entrambi sentirono il fischio del capostazione e lui salì sui gradini mentre si chiudeva la porta alle sue spalle.

Mise la testa fuori dal finestrino mentre il treno iniziava a muoversi e gli gridò.

“Sei il mio orgoglio, hai coronato i miei sogni non dimenticare mai che io ti amerò per sempre.”

Avrebbe voluto ancora un po’ di tempo da dedicare a quel giovane uomo.

L’avrebbe baciato sulla fronte con la stessa dolcezza con cui si baciano i piccoli mentre dormono.

Ma quello era stato il tempo che Iddio gli aveva concesso e tanto doveva bastargli.

Vedeva gemere e commuoversi il bambino interiore di suo figlio a causa del distacco.

Si sedette solo quando il treno fu abbastanza lontano da non distinguere più le persone sulla banchina.

Anche lui era profondamente commosso da quell’addio.

Lasciava alle sue spalle la sua eredità e tutte le sue speranze per immergersi nella sua ultima missione.

Probabilmente quel briciolo di gioia era tutto ciò che si sarebbe portato nella tomba.

“Meglio questo che niente” – pensò.

Arrivò verso il mezzodì proprio come quarant’anni prima era giunto per andare a salutare sua madre prima di partire per Milano.

Non c’era quel caldo estivo.

Non c’era nemmeno quella strana atmosfera familiare che lo aveva accompagnato con i suoi odori e rumori quando era ragazzo.

Tutto era cambiato.

Arrivò davanti al panificio storico dei genitori di Agata.

Se l’erano tramandato di padre in figlio.

Ora una saracinesca abbassata simboleggiava il cambiamento profondo della struttura sociale.

Ora che il panificio non esisteva più dove avrebbe trovato Agata?

Vagò per il paese in cerca di un bar e ne trovò uno aperto con accanto un negozio di fiori.

Una donna curava le piantine prima di riporle negli scaffali, si stava preparando per chiudere.

Lui si accorse della sua presenza e la fissò, pensava che avesse un volto famigliare.

Imbarazzato, smise di guardarla quando lei voltò il suo sguardo verso di lui.

Entrò nel bar per ordinare qualcosa da bere.

Non appena uscì si trovò quella donna davanti.

“Agata!”

Non poteva sbagliarsi, nemmeno dopo quarant’anni.

“Stavolta non penserai di squagliartela senza dir nulla” - la donna lo redarguì, ma con dolcezza.

Di certo non ne aveva l’intenzione stavolta.

La guardò e s’accorse di quanto era radiosa in volto mentre gli parlava.

“Ti ho aspettato per quarant’anni” - continuò.

“Ed io sono venuto per chiederti perdono, per averti abbandonata allora.”

Lei lo guardò intenerita, l’amore che profondevano i suoi occhi ne illuminava lo sguardo.

“Ti ho già perdonato quarant’anni fa” – ribadì.

“Durante questi quarant’anni ho solo pregato per di poterti rivedere.”

Lui si commosse.

“Sono tornato per scusarmi con te” – disse.

“Poi mi sarei recato sulla tomba di mia madre per fare altrettanto.”

“Anche lei ti ha già perdonato, lo disse prima di morire, io sono stata a servirla fino in punto di morte proprio per restarti vicina col cuore.”

Si sentiva frastornato da quell’amore così comprensivo e remissivo, ne fu commosso e quasi non riuscì a trattenere le lacrime.

Pensava che invecchiando stava diventando emotivamente fragile.

“Dunque non mi resta che andare sulla sua tomba.”

“Andiamo allora” – propose.

“Tanto io ho già chiuso il negozio.”

Lei lo prese sottobraccio.

Si recarono al cimitero e lui s’inginocchiò di fronte alla lapide della madre.

Pregò in silenzio per ricevere il suo perdono e comunicarle quanto, nel profondo del suo cuore, l’aveva amata nonostante i propri limiti.

Poi si alzò e si voltò verso la donna.

“Ora che farai?”- chiese Agata con un pò di preoccupazione.

“Devo tornare al nord” – rispose.

“Per scrivere il mio libro e per mettere a posto la mia vita.”

Sapeva di doverla rassicurare in qualche modo, lei non avrebbe più accettato una sua partenza.

“Poi tornerò dalla mia famiglia ora che ho scoperto di essere padre e nonno.”

“Portami con te.”

Lui la fissò incredulo, tuttavia pensò che si sarebbe dovuto aspettare una simile proposta.

Lei ripeté la sua proposta per essere sicura di essersi spiegata.

“Portami con te” – insistette.

“Ho badato a tua madre, ora lascia che badi a te.”

“Ma perché dovrei accettare?”

Voleva capire fin dove lei si sarebbe spinta.

“Lo sai che io ho amato un’altra donna.”

“Lo so e so che anche lei ha amato te pur essendosi sposata con un altro.”

Tacque per poi riprendere.

“Se vuoi il mio perdono devi permettermi di darti il mio amore, io voglio amarti anche se il tuo cuore è appartenuto ad un’altra” – aggiunse.

“Non ti chiedo nulla in cambio, solo servirti per il resto dei tuoi giorni.”

Era determinata gliene doveva dare atto.

“Non negarmi anche questo.”

Era scosso da quell’amore incondizionato.

“Si” - non poteva tirarsi indietro.

“E per il negozio come farai?” - le domandò.

“Ho raccolto abbastanza denaro nella mia vita” – replicò.

“Dalla mia attività e dalla vendita del panificio, non ho di che lamentarmi e non ho più bisogno di altro ora che ci sei tu.”

Andarono a casa di lei a preparare i suoi bagagli.

Sarebbe andata ad abitare con lui e l’avrebbe assistito fino alla morte di uno dei due.

Non chiedeva altro dalla vita.

Solo amare l’uomo di cui era sempre stata innamorata elemosinando le briciole del suo cuore come un cane fedele.

Lui si domandava il significato di un amore così devoto e quanto realmente lui fosse degno di ricevere tale dono.

“Sono stato amato da due donne” – pensava.

“Con un’adorazione senza pari, due amori che non hanno ricevuto alcun contraccambio e, tuttavia, hanno continuato a sopravvivere oltre il tempo e lo spazio.”

Era venuto a chiedere perdono e lasciava di nuovo la sua terra, stavolta immerso nell’amore.

Non avrebbe potuto ricevere ricompensa più grande.

Entrarono a casa di lei e finalmente poté vedere il suo mondo, era pieno di foto dei suoi genitori ma nessuna riguardo a vecchi fidanzati.

Lei sembrò leggergli nel pensiero.

“Come vedi sono rimasta pura come una suora” - gli sorrise.

“Perché?”

“Perché io ti ho amato davvero e, all’infuori di te, non ci poteva essere altro uomo a cui accostarmi.”

Si sentiva in un certo qual modo sporco.

Quasi maledisse il suo essersi legato spiritualmente a Lena perché non poteva darsi a quella donna la cui fedeltà avrebbe meritato un premio ben maggiore.

Poi l’anima di Lena fece sussultare il suo cuore e trovò la pace nella consapevolezza che quello era un dono inviatogli dal cielo proprio da Lena stessa.

Premiava la sua fedeltà dandogli una donna che si prendesse cura di lui in sua vece.

Mentre lei preparava le sue cose lui vagava per la casa con in testa un sacco di domande e nessun’idea di quale fare per prima.

“Perché hai chiuso il panificio?”

Lei sorrise ancora.

“Perché volevo dare un taglio col ato” – rispose.

“Quel panificio era una fonte di rimpianti, era il posto dove vedendoti facevo progetti per la nostra vita, sicura che prima o poi ti sarei stata al fianco.”

“Lo chiusi in modo definitivo” – continuò.

“Non volevo nemmeno che qualcuno rilevasse l’attività ed esercitasse nello stesso posto, volevo che i miei ricordi restassero miei.”

Restò un po’ in silenzio mentre metteva le cose in borsa.

“Il negozio di fiori è stato un ripiego, la verità è che io avrei voluto lottare contro questo paese e farmi la mia strada.”

I suoi occhi mostrarono un certo sconforto.

“Ma io non ero coraggiosa come te.”

Lui trovò buffa la cosa.

“Se tu sapessi cosa mai ho concluso con tutto il mio coraggio, non mi invidieresti.”

“Quello che conta è che adesso sto realizzando il mio sogno.”

Chiuse le borse.

“Ora andiamo a mangiare qualcosa.”

Rimasero a parlare lungamente tutto il pomeriggio della vita di lui e delle vicissitudini di lei, soprattutto del periodo in cui lei si era dedicata a sua madre, ai sentimenti che ella le rivelò riguardo al figlio.

Lui aveva sempre saputo del grande amore della madre nei suoi confronti ma certamente non ne aveva mai avuti chiari i contorni.

Quella notte dormirono abbracciati nello stesso letto come fossero una carne sola.

Lei si rannicchiò facendosi avvolgere da lui mentre gli teneva le mani fra le sue.

Lui si abbandonò a questa sensazione di armonia e di tenerezza.

Era qualcosa che non provava dai tempi di Lena e che non aveva mai più provato nemmeno quando Linda aveva abusato di lui.

Era rilassato e sereno, ma dentro sentiva un fremito, quel contatto con la sua pelle non lo lasciava indifferente e lei percepiva le sue emozioni.

Le sue mani iniziarono a muoversi compiendo una danza sul suo corpo.

Poi cominciarono a toccargli il membro che divenne grosso, lui sentiva addosso un po’ di imbarazzo ma le lasciò condurre il gioco.

Voleva lasciarle il piacere di godersi l’uomo che per troppo tempo le era stato negato, lui non avrebbe fatto lo stesso con Lena?

E lui aveva il bisogno di lasciarsi amare.

Semplicemente amare.

Lei guidò il suo sesso per farlo entrare nella sua vagina.

Poi cominciò a muoversi, era come ricevere dei baci con una vibrazione che si spandeva nel suo basso ventre.

Entrambi respirarono all’unisono e gemettero insieme.

Poi restarono abbracciati in silenzio e si lasciarono avvolgere dalla pace che le tenebre portavano con se.

XXV

Il mattino seguente lui fu svegliato dal rumore di un cucchiaino che rimestava il caffè.

Aveva un aroma che le miscele di caffè comprate al nord non avevano.

Aprì gli occhi e vide davanti al suo letto la figura di Agata tutta nuda e poté constatare che gli anni non ne avevano rovinato il fisico.

Lei lo guardò intenerita.

“Grazie” - disse.

“E di che?”

“Di quello che mi hai donato, lo so che non sarò mai Lena e nemmeno voglio esserlo, ma mi hai concesso di amarti e di essere la tua vergine.”

Lo baciò sul ventre.

“Per questo ti sono grata.”

Ancora una volta provò un senso di colpa nei confronti di quella donna.

Solo ora poteva godere di quei piaceri e, data l’età, ormai doveva arrendersi all’evidenza di non poter avere figli.

Col suo egoismo aveva reso impossibili i sogni ad un’altra persona.

Stavolta il suo cuore gli negò l’autocommiserazione.

In fondo anche quella donna, proprio come lui con Lena, si era comportata da egoista e si era voluta legare ad un amore impossibile, pertanto aveva pagato anche lei il prezzo del suo egoismo.

Lui non doveva farsi altri sensi di colpa.

Entrambi poi si rivestirono e uscirono di casa per prendere il treno dando inizio al viaggio che lo avrebbe riportato a Milano per chiudere col suo ato definitivamente.

Stavolta, però, non era solo.

Mentre il treno ormai si avvicinava alla periferia milanese lui si affacciò al finestrino per guardare il posto da dove era partito alla ricerca del suo piccolo riscatto.

Nonostante il vento gli asciugasse gli occhi e lo costringesse a strizzarli di frequente, poteva vedere nitidamente tutta l’aridità di quei luoghi in cui aveva speso gran parte della sua vita e dai quali s’era separato solo per un breve periodo.

Pochi giorni che però gli parevano anni.

Vi era, inoltre, un cielo opaco che rendeva possibile perfino guardare il sole, deprimente nelle sue tonalità di grigio, sicché tutta la città appariva spettrale.

Gli oggetti e le persone viste in movimento parevano come fantasmi e il luccicare dei vetri dei palazzi forniva un tono alquanto lugubre.

Ma lui non temeva più di essere sopraffatto da quelle orribili sensazioni.

Dentro si sentiva fuso nell’anima con la donna della sua vita e con lui sedeva una donna che lo aveva fortemente voluto come uomo della sua vita.

Si voltò a guardarla e lei gli sorrise con gioia.

Quando giunsero alla stazione la foschia aveva lasciato campo libero al sole, uscirono dall’edificio e presero un taxi diretto a casa sua.

Stavolta lasciava ad altri la briga di prendersi l’autobus con tutte quelle fermate da fare prima di arrivare alla periferia e stracolmo di pendolari ad ogni ora della giornata.

Voleva affrancarsi per una volta da quello stile di vita da pendolare emigrante di piccola borghesia.

Aveva il diritto di vivere come un essere umano, prendersi cura di sé e rispettare le fatiche che aveva sostenuto durante il viaggio.

Oltretutto si sarebbe risparmiato anche tutti quegli odori sgradevoli che promanano dai eggeri senza riuscire mai capire da chi originassero in modo da mettersi a distanza.

Aprì la porta di casa per fare accomodare Agata e provò un senso di malinconia a pensare che erano ati solo pochi giorni da quando se n’era andato da quella casa.

Era tanto cambiato da allora che quasi non riconosceva il suo vecchio mondo.

“Penso che questa casa non ti rappresenti più” - constatò Agata dandogli sempre la stessa percezione di saper leggere nella sua mente.

“Lo credo anch’io” – annuì.

“Allora saranno opportuni alcuni piccoli cambiamenti” – ribadì.

“Si sente che manca il tocco di una donna.”

Pensò che Agata avesse ragione, ogni cosa appariva quasi sepolcrale nel suo immobilismo e tutto sembrava antico in quell’appartamento.

Perfino al naso gli arrivava un odore sgradevole di stantio.

“Ti lascio carta bianca, io mi concentrerò sul libro” - le sorrise.

Quella notte ò il tempo a scrivere delle bozze per riordinare le idee che gli gironzolavano in testa ed a stendere l’incipit del suo romanzo, si prese solo alcune brevi pause per orinare e bere.

Mentre cavalcava quell’universo di emozioni il suo corpo cercava di riportarlo coi piedi per terra attraverso i suoi bisogni.

Non si accorse nemmeno d’essersi assopito e quando si svegliò vide i raggi del sole che filtravano benevolmente attraverso la tapparella abbassata.

Poi sentì il solito odore di caffè che gli ricordò che non era più solo.

“Questa è la mia condanna” - esclamò sorridendo alla donna che il fato gli aveva consegnato e che ora stava davanti a lui con una tazzina in mano.

Lei ricambiò il sorriso e gli porse il caffè.

“Buongiorno amore.”

Lui trovò quella frase straordinariamente lusinghiera, mai nessun’altra donna gliel’aveva detta.

Pensò che non era mai troppo tardi per lasciarsi amare.

Si alzò dal suo tavolo da lavoro e si andò a lavare la faccia, si vestì ed usci per farsi due i cercando ulteriori spunti di riflessione.

Per la prima volta non si era portato le chiavi di casa.

Non ne aveva bisogno.

Non più.

Mentre si trovava per strada pensò d’incamminarsi verso il supermercato, fece il tragitto senza fretta, godendosi il panorama che ora gli forniva delle sensazioni

positive.

Senza più il vento a tormentarlo si godeva il suo momento di libertà.

Entrò nel supermercato e notò che c’era poca gente.

Capì che non avrebbe avuto alcun impedimento se avesse voluto chiacchierare coi tre banconisti di sua conoscenza.

Se solo avesse voluto farlo.

Vide che anche il panettiere era presente stavolta.

Avrebbe potuto confrontarsi con loro, stavolta da una posizione di forza, ma si rese conto che non ne valeva più la pena.

Era un altro uomo e non aveva più nulla da recriminare loro.

Non aveva alcun interesse a farsi ragione con quegli uomini dai quali traspariva la stessa solitudine e lo stesso senso di fallimento che lui aveva provato per decenni.

Non doveva più dimostrare nulla a nessuno.

Nemmeno a loro.

Per questo stava scrivendo il suo libro.

Voleva aiutare i suoi simili.

Esattamente come si immaginava il primo uomo che aveva scoperto come accendere il fuoco e lo aveva reso disponibile a tutti, anche lui sentiva di dover mettere a disposizione di tutti la sua scoperta.

Comprendeva che anche quelle persone agivano inconsapevolmente perché incapaci di ritagliarsi il loro piccolo pezzo di futuro e restavano in attesa di qualcosa che non sarebbe mai piovuto loro dal cielo vivendo un presente da ignavi.

Anch’essi avrebbero avuto una vecchiaia piena di rimpianti.

Volle graziarli, serbando per loro quella pietà che non avevano saputo o voluto, di questo poco gli importava, avere nei suoi confronti.

E’ questo il primo o verso l’amore - pensava.

Siamo capaci di amare perché qualcuno amandoci per primo ci insegna come si

fa.

Li perdonò come con lui avevano fatto Lena, Agata e sua madre.

Era un dono.

Gratuitamente l’aveva ricevuto e gratuitamente doveva darlo, ma con la consapevolezza che esso agiva come un seme che lentamente germoglia che lo si voglia o no.

Salutò a distanza tutti e tre con un sorriso carico di amore e poi uscì dal supermercato senza comprare nulla.

Quando fece ritorno trovò molti oggetti spostati e numerose piante ad ornare quella casa.

L’aria era profumata come non mai.

Rimase stupito a guardare mentre Agata tutta gongolante gli faceva notare come già la casa stesse cambiando aspetto.

Glielo riconobbe anche lui e le diede un bacio sulla guancia, ma lei non si accontentò e volle baciarlo sulle labbra.

Ora si sentiva un uomo fortunato.

E ne era consapevole.

Nei mesi successivi si dedicò alla sua frenetica attività di scrittore, chiamando di tanto in tanto suo figlio e facendosi are le due nipotine.

Enrico premeva sempre perché scendesse ma lui non sapeva mai indicare una data precisa.

Prese contatti anche con l’editore il quale, in virtù della grande amicizia col figlio, lo rassicurò sul libro e gli chiese che gli mandasse anche una parte del romanzo per valutarne lo stile e i contenuti.

Nel frattempo Agata aveva cambiato i connotati alla casa e aveva anche imparato a destreggiarsi in quella brutta periferia.

Dove fossero a lei non importava, avrebbero anche potuto vivere nelle paludi, a lei bastava vivere ogni giorno accanto a lui.

Con lei la sua vita era cambiata e capitava spesso che nei fine settimana fero delle scampagnate fuori porta.

Ogni tanto pensava a Linda e quello che aveva fatto.

Nemmeno lei era colpevole dei suoi gesti e avrebbe voluto perdonarla.

In effetti - pensò - poteva benissimo farlo su due piedi.

Pregò Dio per augurarle una vecchiaia serena e libera da rimorsi di coscienza.

Dopo si sentì meglio.

Sapeva che il tempo stava per finire e, libro a parte, ormai aveva avuto la possibilità di rimettere tutta la sua vita a posto.

Arrivò anche il giorno nel quale terminò la sua ultima pagina del libro.

Ce l’aveva fatta.

Non doveva far altro che farne una copia e spedirla all’editore il quale gli aveva, nel frattempo, comunicato a riguardo le proprie impressioni positive dallo stralcio che aveva ricevuto.

Si recò nella copisteria più vicina, stampò il suo lavoro in più copie e poi spedì tutto.

Tornando a casa prese anche delle rose bianche per Agata. Le avrebbe sicuramente dato un piacere inaspettato.

Quando tornò a casa presentandosi con le rose, lei si commosse.

“Ti amo”- gli bisbigliò all’orecchio e poi lo baciò sul collo.

Anche lui l’amava e quello era il suo modo di manifestarlo, il suo gesto per farle capire che si prendeva cura di lei.

Le diede un bacio in fronte.

“Ora vado in chiesa.”

Lei lo guardò intenerita.

“Era ora che andassi a ringraziarlo, dopo tutto quello che ha fatto per te.”

“Non vado a ringraziarlo, ma a chiedergli perdono è l’ultimo tassello che mi manca.”

Uscì e eggiò con una calma che non aveva mai avuto.

Sembrava gustarsi ogni o ed ogni sospiro mentre la natura lo accompagnava intonando una marcia silenziosa.

Avrebbe voluto che la vita fosse così per tutti, che fosse una festa quando si a oltre.

Per lui era così e sarebbe stato tutto così perfetto se non si fosse sentito un po’ affannato e se non avesse avuto quel maledetto dolore al petto.

Entrò in Chiesa e si sedette su una panca.

Rimase a guardare il grande crocifisso sopra l’altare, pregando sottovoce.

“Signore tu mi hai tolto quello che io ritenevo importante per ripagarmi con quello che era realmente importante.”

“Ora so che in questa vita non ho perduto nulla, nemmeno gli anni che mi sono serviti per imparare questa lezione e godere di una vita vera.“

Aveva le lacrime agli occhi immaginando la sofferenza che la sua scomparsa avrebbe dato a suo figlio, alle sue nipoti e ad Agata.

Ma sapeva che ognuno di loro avrebbe vissuto la sua lezione e che con essa

sarebbe cresciuto nell’amore.

“Chiedo perdono a te e a coloro che in un modo o nell’altro sono morti non ricevendo le mie scuse.”

Era pronto.

Era in pace.

Ora poteva riabbracciare senza pregiudizi Lena, sua madre, suo padre, lo zio Giacomo e perfino Umberto.

Il suo vecchio rivale se lo immaginava lì, pronto ad accoglierlo senza più rancori perché anche lui aveva imparato l’importanza dell’amore, di quell’amore puro che tutto scusa e che tutto sopporta.

Proprio lui che più di ogni altro aveva cercato di essere amato non poteva che essergli vicino.

Guardò ancora il Crocifisso con le sue braccia distese, sembrava quasi volesse abbracciarlo.

Anche il Cristo portava una corona di spine simile a quella che lui si era sentito addosso per tanti anni.

Ma ora non sentiva più quelle spine.

La sua corona era divenuta come quella di un re.

Era un segno di perdono.

Finalmente Dio lo perdonava di tutte le sue mancanze e lo invitava a venire a Sé per mezzo di quell’abbraccio cortese e delicato.

Lui, seduto sulla panca, ancora una volta fece la sua scelta.

Scelse di lasciarsi abbracciare.

Chiuse gli occhi e si abbandonò a quelle braccia paterne.

Finalmente la pace! - sorrise.

Una calma interiore che si diffondeva dappertutto mettendo a tacere i rumori dall’esterno e le voci dall’interno.

Com’era bello essere pace - pensava.

Non sentiva più nemmeno quel dolore al petto.

Lentamente attorno a lui tutto si fece silenzioso.

Vedeva solo una piccola luce.

Sicuramente lo aspettavano in fondo a quella luce, e lui doveva ancora combattere contro il buio per essere li con loro.

Pensò che, se doveva combattere ancora una volta, lo avrebbe fatto volentieri perchè lui non era mai stato un tipo che si arrendeva.

Sorrise pensando che certe cose non cambiano mai, nemmeno nell’aldilà e, senza timore, s’incamminò verso la luce.

Epilogo

L’uomo stava lì immobile a contemplare la scena tenendo una mano poggiata sulla spalla della donna.

“Avrei voluto are più tempo con lui, andarsene a 62 anni è ancora troppo presto” - la donna riusciva a stento a trattenere le lacrime.

“Per usare le sue parole, meglio questo che niente” - cercò di usare le parole per farsi forza e abbozzò un sorriso.

“Almeno tu hai trascorso con lui i suoi ultimi giorni, ma io non ho potuto riabbracciarlo che una sola volta, avrei voluto che questo trigesimo arrivasse il più tardi possibile” - rispose.

“Adesso è con tua madre, finalmente si è guadagnato il suo premio.”

I due si guardarono cercando di consolarsi a vicenda, poi Enrico riprese a parlare.

“Agata vorrei che ti trasferissi da noi.”

Lei lo fissò.

“Sapevo che me l’avresti chiesto” – rispose.

“Io accetto con gioia, così mi prenderò cura delle sue nipotine.”

“Grazie” - le strinse le spalle.

“Sono certo che lui apprezzerebbe moltissimo il tuo gesto.”

Lei annuì e poi cambiò discorso.

“Della casa di Milano che ne farai? La rivenderai?”

Enrico non si fece cogliere impreparato.

“Penso di comprare l’intera palazzina e farne una struttura residenziale per le mie figlie, d’altronde mi sono informato e so che quella zona è in espansione” – commentò.

“Sarà un ottimo investimento ed inoltre le piccole potranno avere qualcosa che è appartenuto al loro nonno.”

“Già il nonno” - ripeté meccanicamente Agata.

“Chi l’ha potuto conoscere davvero?”

“Mia madre” - replicò Enrico.

“Lei lo ha conosciuto fino in fondo e per questo l’ha amato” - continuò.

“Mi diceva sempre che lui, con tutti i difetti, era l’essenza del buono e avrebbe potuto chiamarsi in qualunque altro modo ma non sarebbe cambiata la sostanza.”

Tacque per un momento e poi riprese.

“Mi raccontava dei semi” - Enrico ne parlava con trasporto.

“Diceva che un seme è un seme ed appare uguale a tutti gli altri ma solo dopo, dall’albero che viene fuori, ne scopriamo la vera sostanza.”

“Ma fino a che matura resta un seme come tanti altri” – commentò lei.

“Quanto aveva ragione tua madre.”

Agata si fece pensosa.

“Certo suona strano leggere solo le sue iniziali sulla lapide.”

“Si in effetti è un po’ strano ma è così che lui voleva, è questo che ha lasciato scritto ed io ho voluto onorare la sua richiesta.”

“Uomo senza un nome, sappi che ci mancherai” - esclamò Agata con la voce rotta.

Poi lei si alzò, si asciugò le lacrime e si voltò a guardare Enrico.

“Tu sei un buono come tuo padre, hai vinto le sue battaglie e lo hai costretto ad essere un uomo ancora migliore” – continuò.

“Non dimenticarti mai da chi discendi, perché ora tocca a te trasmettere quel che ti è stato trasmesso.”

“Si, ma avrò bisogno anche tuo aiuto.”

Lei chinò il capo per assentire.

“Io ci sarò, non temere.”

Poi i due si avviarono verso la macchina dove li aspettavano la moglie di lui e le sue bambine.

La tomba ritornò al suo silenzio e alla malinconia dell’ennesimo autunno che volgeva al termine.

In lontananza si sentiva il rumore di qualche lontano temporale e, nell’aria, un sentore di umidità.

Presto la pioggia sarebbe arrivata anche li, ma alle ossa del defunto la cosa non spaventava affatto, erano certe che un giorno avrebbero rivisto la luce del sole.

Avevano fede.

Fede in quell’anima che le aveva sostenute per oltre sessant’anni e credevano che, un giorno, quell’anima sarebbe tornata indietro da dovunque fosse in quel momento solo per riprendersele.

Lottando come sempre aveva saputo fare il loro re.