Fabrizio Negrini
La casa delle mele acerbe
© 2014 Gilgamesh Edizioni
Via Curtatone e Montanara, 3 – 46041 Asola (MN)
[email protected] - www.gilgameshedizioni.com
Tel. 0376/1586414
ISBN 978-88-6867-058-0
È vietata la riproduzione non autorizzata.
In copertina: Pioppeto, elaborazione grafica di una fotografia di Fabrizio Negrini
© Tutti i diritti riservati
UUID: 978-88-6867-058-0
This ebook was created with BackTypo (http://backtypo.com) by Simplicissimus Book Farm
Indice
1. Il tesoro di zia Evelina 2. Il paese dei camli 3. La Banda Bassetti 4. You are fantastic 5. Sbirciando dal buco della serratura 6. Il gioco della bottiglia 7. La casa del vampiro 8. Tutto è bene ciò che finisce bene 9. La festa dell’uva 10. La cripta 11. Bellezze al bagno 12. La fine del mondo
ANUNNAKI Narrativa ebook 8
Il libro racconta le avventure, i primi amori e le prime esperienze erotiche di un ragazzo di campagna (Ambrogio Bassetti, detto Brogio) e dei suoi sette amici, tutti adolescenti. La storia, ambientata negli anni Settanta, inizia quando Brogio scopre in soffitta il “tesoro” di zia Evelina, morta da poche settimane. Nel baule del tesoro il ragazzo trova un misterioso libro con le pagine vuote: sembra un vecchio album di fotografie, ma a sentire il fantasma di Evelina sarebbe invece un oggetto molto prezioso. Il libro viene rubato da un ingegnere rumeno, Nero Fastu (anagramma di Nosferatu), che abita a Val Nebbiosa in una vecchia casa della golena del Po detta “la casa delle mele acerbe” a causa di uno strano disegno riprodotto sul camino. Brogio e i suoi amici pensano che il rumeno sia un vampiro e architettano un piano per entrare nella casa e recuperare il libro. La spedizione nella casa di Fastu è l’inizio di una serie di avventure tragicomiche che vedono coinvolti vari personaggi, alcuni dei quali assai inquietanti: Brogio e i suoi amici, il presunto vampiro, Alina, una conturbante ragazza handicappata e ninfomane, e due fantasmi: zia Evelina e Torello, un giovane morto da molti anni che un tempo abitava nella casa delle mele acerbe. Tra un’avventura e l’altra i ragazzi trovano il tempo di innamorarsi e di fare le loro prime esperienze con il sesso. Rimanendo nascosti nella dimensione ultraterrena, Evelina e Torello seguono le peripezie dei ragazzi mostrandosi di tanto in tanto. Ma solamente Brogio li vede: sono veri fantasmi o il frutto della fertile fantasia di un quindicenne?
Fabrizio Negrini è nato a Ferrara nel 1957 e nel 1981 si è laureato in Scienze Agrarie a Bologna. Dal 1988 lavora come Curatore dell’Orto Botanico presso l’Università degli Studi di Ferrara. Escludendo i lavori scientifici e divulgativi, la sua produzione letteraria comprende sei libri (romanzi e saggi divulgativi); uno di questi è stato pubblicato nel 2003 da Prospettiva Editrice: La collana di grani di cristallo. Nell’anno 2000 Negrini è giunto finalista al Premio Italo Calvino con il romanzo di fantascienza Strani Universi.
1. Il tesoro di zia Evelina
Tutto ebbe inizio il 29 agosto 1977. Era un lunedì. Brogio arrivò davanti al magazzino alle sette di sera quando il sole era già basso sull’orizzonte. Il portone era aperto e la sua ombra, proiettata sul pavimento di cemento coperto di polvere, ricordava un acrobata da circo con i trampoli ai piedi. I suoi genitori sarebbero rientrati dal frutteto alle sette e mezza e non gli rimaneva molto tempo. Aveva finalmente scoperto dove suo padre nascondeva la chiave della stanza segreta e quella sera, con una scusa, era tornato a casa un po’ prima dei suoi. Sapeva che in soffitta si aggirava il fantasma di zia Evelina, morta da poco più di un mese, ma questo non lo avrebbe fermato: non aveva paura dei fantasmi in generale, figuriamoci se poteva temere il fantasma della cara zietta. La chiave era nel barattolo di grasso da motore, ormai vuoto, sopra la mensola dei lubrificanti. Era da parecchi giorni che la cercava. La sera prima, per caso, aveva visto suo padre uscire dalla soffitta sopra al magazzino e riporre la chiave nel barattolo. Con le gambe che gli tremavano e il cuore che gli batteva un centimetro sotto il pomo di Adamo, Brogio salì la scala che portava in soffitta. Il pianerottolo era in penombra e la vecchia porta di lamiera, sporca e grigia come i muri adiacenti, si distingueva a malapena. Brogio avanzò guardingo, poi, facendosi coraggio, infilò la chiave nella toppa e fece scattare la serratura. Per un po’ restò in ascolto senza muovere un muscolo. Dall’interno non proveniva alcun rumore. «Se qui dentro c’è il fantasma di mia zia, di sicuro è un fantasma molto silenzioso» disse Brogio fra sé e sé. Spinse la porta in avanti e sbirciò dentro, ma il buio era totale. Per paura che entrassero i ladri, magari gli stessi che avevano causato l’infarto a zia Evelina, suo padre aveva sprangato le finestre della soffitta. Senza osare ancora mettere un piede dentro, Brogio tastò con la mano la parete
interna vicino allo stipite della porta e sentì i muri freddi e umidi per la muffa. Trovò l’interruttore e la luce fioca di una lampadina da quaranta watt illuminò una soffitta piena di polvere e ragnatele. Lo stanzone era occupato dai mobili della camera da letto di Evelina che suo padre aveva portato lassù quando lei era morta: un vecchio armadio tarlato, un comodino con un piede rotto, una cassettiera con quattro cassetti, un porta catino in ferro battuto con il catino in metallo verniciato di bianco, il grande specchio in stile liberty della zia, alto come una persona e contornato da una cornice in metallo argentato dalla foggia vagamente floreale, la rete del letto, ritta in verticale e legata a una delle travi di sostegno del tetto, e un sacco di altre cianfrusaglie. In fondo alla soffitta, accanto allo specchio, c’era l’oggetto della sua spedizione: il vecchio baule della cara defunta. Come tutti i bauli costruiti per contenere tesori, anche quello era grosso e di legno massello. Evelina l’aveva comprato a Comacchio, da un rigattiere, subito dopo essersi sposata. Aveva la classica forma dei bauli, con il coperchio curvo e i fianchi lisci. Sebbene sbiadito dal tempo e un po’ graffiato, il mobile era ancora in ottimo stato. Era un oggetto di pregio e più di un collezionista le aveva proposto di comprarlo, ma lei era troppo affezionata a quel baule e aveva sempre rifiutato. A Brogio non interessava il mobile, ma ciò che conteneva. Guardandosi intorno con circospezione si avvicinò al baule. La soffitta era molto lunga e la lampadina da quaranta watt non riusciva a illuminarla tutta, ma lui era stato previdente e aveva portato con sé una torcia elettrica. Mentre ava davanti all’armadio – ancora pieno dei vestiti tutti pizzi, chiffon, lamé, paillettes che la zia adorava indossare quando era in vita – Brogio sentì un rumore provenire dal fondo della soffitta: era come un rapido e leggero ticchettio e sembrava provenire dal baule o dalle sue vicinanze. «Topi!» esclamò con un brivido. Lui odiava i topi quasi quanto i ragni, e l’idea di essere in compagnia di quegli animaletti pelosi lo rendeva nervoso. Ma se non l’aveva fermato il pensiero di incontrare il fantasma della zia, figuriamoci se potevano fermarlo alcuni stupidi roditori e qualche ragnetto. Ancora pochi i e Brogio fu davanti al baule. Solo allora si accorse che la maniglia era stata fermata con un lucchetto. «Accidenti! Questo non riuscirò mai ad aprirlo.»
Si avvicinò al baule e con un gesto di stizza diede un calcio al lucchetto. La maniglia sobbalzò e il lucchetto cadde sul pavimento con un tonfo sordo. «Cacchio! È aperto» gridò mentre prendeva la maniglia con due mani e tirava verso l’alto. Con un sinistro cigolio il coperchio ruotò verso l’alto e andò ad appoggiarsi contro la rete del letto producendo uno scricchiolio metallico. Brogio puntò la torcia verso l’interno del baule e restò deluso. Sembrava che il baule contenesse solo capi di abbigliamento: sciarpe di seta, scialli con lunghe frange, cappelli con piume di struzzo, c’era anche il soprabito color kaki che la zia indossava la domenica quando andava a giocare a bridge con le amiche. Ma Brogio era sicuro che dentro al baule ci fosse anche il tesoro di zia Evelina perché una sera, poco dopo la sua scomparsa, aveva sentito suo padre che ne parlava con la mamma. Brogio appoggiò la torcia sopra a un tavolino di bambù e cominciò a svuotare il vecchio mobile. Via gli scialli, via le sciarpe, via i cappelli, il soprabito, le scatole da scarpe e tutto il resto. Per essere sicuro di averlo svuotato completamente, prese in mano la torcia e la puntò verso il fondo del baule: vuoto. «Le scatole da scarpe!» Aprì le scatole una ad una, ma non contenevano tesori, solo scarpe. Pazientemente rimise tutto a posto cercando di pensare dove la zia avesse potuto nascondere il suo tesoro. Nel rimettere le cose a posto notò un particolare curioso: oltre ai vestiti e alle scarpe il baule conteneva un candeliere d’argento alto una trentina di centimetri. Quando l’aveva tolto e appoggiato per terra si era accorto che il candeliere era più basso del bordo superiore del baule. Una volta rimesso dentro, in verticale, l’oggetto collimava perfettamente con il bordo del mobile. Dunque c’era un doppio fondo. Le superfici del baule erano lisce, ma si scorgeva una specie di griglia disegnata nella parte bassa: le linee curve erano davvero disegnate, ma quelle diritte erano in realtà sottili fessure. Brogio cominciò a tastare la parete del baule in vari punti a casaccio, poi provò a premere sotto alla base. Il mobile aveva quattro piedini che lo tenevano leggermente sollevato dal pavimento. Infilò le dita in quello spazio angusto, prima nella parte frontale poi sotto ai fianchi, e avvertì una specie di piccola cavità di forma circolare. Infilò un dito nel buco e spinse. Si udì un tac, e subito un cassetto largo un terzo della lunghezza del baule si staccò di poco dalla parete
frontale. Sotto al baule Brogio trovò altri due pulsanti che fecero aprire altri due cassetti. Trepidante, infilò le dita nello spazio tra il primo cassetto e la parete del baule e tirò. Il cassetto oppose una certa resistenza, ma lui tirò più forte e riuscì ad aprirlo. E finalmente, dopo tanti sforzi, ecco il tesoro della cara zietta. «Maiàl!» esultò Brogio dopo un rapido esame del contenuto. Con i proventi della sua attività di maga, zia Evelina avevo racimolato una piccola fortuna. Si era fatta un guardaroba degno di Sofia Loren, avevo accumulato una quantità di gioielli da far invidia alla regina d’Inghilterra, aveva posseduto una bellissima collezione di monete antiche, titoli in borsa, proprietà immobiliari, libretti di risparmio e un sacco di altra roba di cui Brogio nemmeno sospettava l’esistenza. Ma a lui non interessavano i gioielli, i titoli o le monete antiche: lui era venuto a cercare i libri della zia. Molti volumi erano ancora in casa, nella stanza a pianterreno che Evelina aveva adibito a studio esoterico, ma quando la zia era morta suo padre aveva portato in soffitta tutti i libri che, a suo giudizio, un adolescente non può leggere: i libri erotici. Brogio cominciò a tirare fuori dai cassetti i libri proibiti e il suo cuore andò in fibrillazione. Aveva sempre saputo di quei libri e qualche volta, di nascosto, ne aveva sfogliati alcuni. Ma non aveva mai potuto esaminarli e leggerli con la dovuta calma. In quei cassetti c’era il meglio della letteratura erotica mondiale: Il Decamerone, L’amante di Lady Chatterly, Fanny Hill, Memorie di una donna di piacere, Lolita, Emmanuelle, Paura di volare, La filosofia nel boudoir, Justine o le disavventure della virtù, Histoire d’O, Teleny, Confessione sessuale, Venere in pelliccia, Vita di una donna licenziosa e molti altri «Porca paletta!» gridò Brogio tirando fuori un vistoso libro con la copertina nera in similpelle istoriata in oro. «Il Kamasutra in edizione integrale. Ed è pieno di figure a colori!» Con le mani che gli tremavano, tirò fuori tutti i libri e li accatastò per terra. Uno di quelli, un vecchio libro con la copertina rossa di cartone e senza titolo, attirò la sua attenzione. Più che un libro sembrava un album di fotografie e a Brogio venne un groppo in gola. Evelina da giovane era stata una bellissima donna e una volta aveva anche vinto il titolo di miss vattelapesca. Prima di darsi alla magia aveva fatto la modella per una rivista di moda e un giorno si era vantata
con la sorella e il cognato di avere posato nuda per vari fotografi. Brogio non riusciva a deglutire all’idea che quello fosse un vecchio album con le foto osé della zia. Si girò verso la porta della soffitta, per accertarsi di essere solo, e aprì l’album. Le pagine erano di cartoncino rosa, come si usa negli album di fotografie per matrimoni, ma di foto nemmeno l’ombra. Brogio esaminò tutte le pagine, una per una, per essere sicuro che qualche foto non fosse sfuggita alla perquisizione – lì c’era sicuramente lo zampino di sua madre – ma alla fine dovette arrendersi all’evidenza: l’album era desolatamente vuoto. Con un sospiro appoggiò l’album per terra vicino agli altri libri e finì di svuotare i cassetti. Adesso il suo dilemma era: doveva portare via tutti i libri e nasconderli da qualche altra parte oppure prenderne solo qualcuno? Entrambe le soluzioni presentavano dei rischi: se li portava via tutti, suo padre poteva accorgersi che i libri erano spariti; lasciarne lì un po’ significava dover tornare ancora lassù, e anche questo era rischioso, senza contare il fatto che suo padre avrebbe potuto nascondere la chiave della soffitta in qualche altro posto. Brogio non ebbe il tempo di prendere una decisione perché in lontananza udì il rumore di un trattore che si avvicinava. In fretta e furia rimise i libri nei cassetti e provò a richiuderli. Il primo e il secondo cassetto si chio senza difficoltà, il terzo, invece, non voleva saperne: buttati alla rinfusa i libri occupavano più spazio di prima e non c’era tempo di rimetterli a posto. Brogio tirò fuori il vecchio album senza foto, che era particolarmente grosso, e riuscì a chiudere il cassetto. Che fare ora dell’album? Non poteva lasciarlo lì, suo padre avrebbe potuto vederlo e insospettirsi. Con l’album in una mano e la torcia elettrica nell’altra, si avviò verso l’uscita. Aveva appena spento la luce e stava per chiudere la porta quando vide la zia. Brogio aveva visto un fantasma per la prima volta cinque anni prima quando era morta la nonna di un suo caro amico. La donna si chiamava Adelaide e lui l’aveva vista una sera che vagava fra gli alberi del frutteto come se stesse cercando qualcosa. Quella volta era scappato via come una lepre, ma poi l’aveva incontrata di nuovo e non era più scappato perché aveva capito che non aveva niente da temere dal fantasma di Adelaide. E nemmeno dagli altri che aveva incontrato in seguito.
Brogio, dunque, si era aspettato di incontrare il fantasma della zia in soffitta, ma non avrebbe mai immaginato di vederlo comparire in quel modo: zia Evelina non apparve sotto forma di ectoplasma, ma attraverso lo schermo del vecchio televisore in bianco e nero. Proprio quell’anno, in febbraio, la Rai aveva iniziato le trasmissioni a colori. Il padre di Brogio aveva comprato un televisore nuovo di zecca a colori e aveva regalato quello vecchio alla cognata. Il televisore funziona ancora benissimo, ma dopo la morte della zia nessuno l’aveva più usato e il papà l’aveva portato in soffitta in attesa di decidere cosa farne. Evelina stava cercando di dirgli qualcosa – Brogio lo capì dalla bocca che si apriva e si chiudeva – ma dal televisore non uscì alcun suono. Lui rimase impalato davanti allo schermo per alcuni istanti finché il rumore sempre più forte del trattore gli mise le ali ai piedi. Uscì dalla soffitta, chiuse la porta, scese di corsa le scale, ripose la chiave nel barattolo del grasso e sgattaiolò fuori attraverso la porta sul retro. Quando sua madre entrò in casa lo trovò seduto in cucina, chino su un fumetto di Tex, con un bicchiere di Coca Cola e il vasetto della Nutella appoggiati sul tavolo.
2. Il paese dei camli
Nel 1977 Brogio abitava ancora in campagna, in una casa rurale di un piccolo paese agricolo del comune di Berra. L’Olanda si chiama quel paesino, proprio con l’articolo, come L’Aquila e La Spezia, solo che, a differenza di quelle due grandi città, questo è un villaggio talmente minuscolo che non è nemmeno segnato sugli atlanti stradali d’Italia. L’Olanda è completamente circondato dalle acque: subito a nord scorre il Po, che da quelle parti è davvero molto largo; a sud c’è uno dei canali principali dell’agro ferrarese; a est e a ovest si estendono per chilometri le risaie della pianura padana orientale. C’è talmente tanta acqua attorno a L’Olanda che il paese è nascosto dalla nebbia per diversi mesi l’anno. È probabile che, quando hanno scattato le fotografie aeree per disegnare le mappe stradali, sul paese gravasse una fitta nebbia e così hanno dimenticato di segnarlo. Un giorno Brogio aveva provato a cercarlo su un atlante e aveva individuato i paesi più vicini: Cologna, Berra e Serravalle in provincia di Ferrara; Crespino, Villanova Marchesana e Braglia in provincia di Rovigo; perfino il minuscolo paesino di Livello, sulla strada per Ariano Ferrarese, era segnato sulla carta. Ma nel punto dove avrebbe dovuto esserci L’Olanda c’era solo una piccola area bianca, forse la nebbia fotografata dall’aereo. Come nell’omonimo paese del Nord Europa gli abitanti di L’Olanda sono chiamati olandesi e il mezzo di locomozione più usato è la bicicletta. Raramente, però, le bicliclette degli olandesi padani sono in condizioni perfette e manca sempre qualcosa: i freni, i fanali, i catarifrangenti; su alcune manca perfino la sella ed è già molto se ci sono entrambi i pedali. Ma un accessorio che nelle biciclette degli olandesi non manca mai è il camlo. A causa della fitta nebbia, spesso presente anche nei mesi primaverili, gli olandesi hanno preso una singolare abitudine: onde evitare incidenti suonano il camlo della bicicletta quasi di continuo. E tanto per andare sul sicuro lo suonano anche quando splende il sole e la visibilità è ottima. Per farla breve, a L’Olanda si usa il camlo come a Napoli si usa il clacson. Per questo motivo la cittadina è ormai da tutti conosciuta come “il paese dei camli”.
Comunque non fu a causa della nebbia che il villaggio, una cinquantina di anni prima, era stata ribattezzato L’Olanda, e nemmeno per il fatto di essere circondato dall’acqua. Il vero motivo nessuno lo conosce, ma da anni nei bar del paese si racconta una strana storia. Forse si tratta solo di una vecchia leggenda contadina, ma in questa terra di coltivatori di riso dagli occhi a ciliegia e di mondine dalle tette a pera tutti hanno sempre dato molto credito a ciò che si racconta, la sera, nelle osterie. Ebbene nelle osterie di L’Olanda, tra una mano di trionfo e una partita di briscola, si racconta la storia di Gigione Culone, al secolo Luigi Colasanti, il ragazzo che, secondo la leggenda, aveva salvato il paese dall’alluvione che nel novembre del 1951 devastò il Polesine. Luigi era detto Culone per via della sua stazza, e in particolare del deretano fuori del comune. Negli anni Cinquanta Luigi Colasanti era un ragazzotto come tanti; lavorava nei campi insieme al padre, e nei periodi di piena del Po si univa alle squadre di volontari che sorvegliavano l’argine per scoprire in tempo e segnalare eventuali tracimazioni o falle. Una sera, mentre controllava la zona di sua competenza, Luigi vide una grossa pozzanghera che si era formata alla base dell’argine. Pioveva a dirotto, e lampeggiava, ma quella specie di piccolo lago non poteva essersi formato a causa della pioggia e nemmeno della piena. Il Po era molto grosso e lambiva la sommità dell’argine; l’acqua, scura, schiumosa e piena di detriti, faceva davvero paura e si vociferava che in alcuni punti avesse cominciato a tracimare, ma in quella zona l’argine era molto alto e l’acqua, pur minacciosa, non stava ancora debordando. La pozzanghera doveva essersi formata per altri motivi. Tenendo alta la lampada a petrolio, Luigi scese lungo l’argine e si avvicinò alla pozza. Proprio in quel momento un lampo squarciò il cielo illuminando a giorno il paesaggio e Luigi vide il fontanazzo: era poco a monte della pozza e non sembrava particolarmente grosso, ma poteva crescere in fretta e minare la stabilità dell’argine. Luigi tirò fuori la pistola lanciarazzi, la diresse verso il cielo e tirò il grilletto. La pistola fece cilecca. Luigi riprovò a sparare due o tre volte, ma senza risultato. Forse l’arma era difettosa oppure troppo bagnata. In ogni caso con quella lui non avrebbe potuto avvertire nessuno.
La pozzanghera, intanto, si allargava sempre di più. Se fosse andato di persona a cercare aiuto, forse non avrebbe fatto in tempo: l’argine poteva cedere da un momento all’altro. Il suo compagno più vicino doveva essere almeno a tre chilometri, e con quel suo culo enorme, per giunta avvolto nella tuta di gomma, non poteva certo mettersi a correre. Luigi maledisse quell’irrefrenabile appetito che lo aveva reso così grasso, ma alla fine si disse che le maledizioni non potevano risolvere il problema e, senza pensarci troppo, fece ciò che il suo istinto in quel momento gli suggerì: si diresse verso l’imbocco del fontanazzo e vi si sedette sopra. Se il suo sedere non gli permetteva di correre, lui l’avrebbe usato in modo più costruttivo. Lo ritrovarono il mattino seguente, esausto ma felice di aver salvato il suo paese da una possibile inondazione. E quando Gigione Culone seppe che il Po aveva rotto gli argini dalla parte di Rovigo e che tutto il Polesine era stato allagato, il suo soprannome non fu più per lui fonte di frustrazione, ma motivo di vanto. Il parroco del paese, per festeggiare e tramandare ai posteri quell’episodio – e memore, dagli anni della scuola, di un evento analogo che aveva avuto come protagonista un ragazzino olandese che, con il suo coraggio e con un dito, aveva salvato i Paesi Bassi dall’alluvione – propose e ottenne che il paese dei camli mutasse il suo nome da La Palude a L’Olanda.
Girolamo Bassetti, il padre di Brogio, era un contadino di vecchio stampo, di quelli che dicono pane al pane e vino al vino. Era un omone grande e grosso, alto, muscoloso e pieno di peli. Aveva una voce forte, baritonale, e chiacchierava volentieri con tutti. Quando andava in piazza, nel giorno di mercato, anche in mezzo alla calca era sempre riconoscibile. Gli amici lo chiamavano Girolimoni, come il fotografo romano divenuto famoso, soprattutto grazie al film interpretato da Nino Manfredi, come “il mostro di Roma”. A lui quel soprannome non piaceva affatto, e aveva provato più volte a cambiarlo, ma senza successo. La moglie, Caterina Bontà, era una santa donna. Oltre che nel nome, aveva la bontà nel cuore e tutti la chiamavano Maria, in riferimento alla Madonna. Ma suo figlio, quando era con gli amici, la chiamava Susan Storm, come la famosa eroina dei fumetti definita “la donna invisibile”. Perché era proprio questo che Brogio pensava di sua madre: che fosse invisibile. Per dirla tutta, Caterina non era né alta né bassa, né grassa né magra, non vestiva mai in modo vistoso,
parlava poco, e quando parlava diceva solo cose di buon senso, non scherzava mai, rideva raramente e mai in modo sguaiato, aveva poche amiche e quando usciva da sola era per andare a messa o a fare la spesa. Con Brogio era una buona mamma, lo sgridava poco e non lo aveva mai picchiato – a quello ci pensava suo padre – nemmeno una sculacciata. Insomma era una donna che, nell’ipotesi inverosimile che si fosse presentata a un concorso di bellezza, non avrebbe preso nemmeno un voto dalla giuria, ma non perché fosse brutta, bensì perché sarebbe ata del tutto inosservata. Se da un lato era invisibile, Caterina era instancabile sul lavoro. Girolamo era vice fattore di una grande azienda agricola. Caterina lavorava insieme al marito e faceva tutto quello che c’era da fare: guidava il trattore, raccoglieva la frutta, faceva i trattamenti antiparassitari, parlava con i commercianti per la vendita del prodotto. Tutto quello che faceva lui, anche lei era in grado di farlo. E a volte lo faceva anche meglio. In più aveva una casa e un figlio a cui badare. Girolamo, invece, come casalingo era proprio una frana. Quando tornavano dal frutteto, al tramonto, mentre la moglie si faceva in quattro per preparare la cena, fare il bucato e dare da mangiare al cane, lui si faceva una bella doccia e poi si spaparanzava sul divano davanti al televisore aspettando che fosse pronto in tavola. Girolamo non aveva una proprietà sua né i soldi per comprarsela. Una decina di anni prima era stato assunto come operaio nell’azienda agricola di Venanzio, un ricco imprenditore di Padova che non aveva né il tempo né la voglia di occuparsi personalmente del podere. La gestione dell’azienda era affidata a un certo Pericle, uomo di grande esperienza ma piuttosto avanti con gli anni. Dopo il pensionamento di Pericle, Venanzio aveva mandato sul posto un nuovo fattore di sua fiducia, tale Pietro Gamba, originario di Cavarzere, che aveva una moglie di nome Enrichetta, signora simpatica e gentilissima, e un figlio diciottenne chiamato Oreste. A L’Olanda non si era mai visto un ragazzo antipatico, bugiardo, ruffiano e attaccabrighe come lui. Brogio e i suoi amici lo avevano soprannominato Gambadilegno. Pietro Gamba aveva preso subito in simpatia Girolamo e lo aveva nominato vice fattore e responsabile dei frutteti. Grazie all’aumento di stipendio, dopo dieci anni di fidanzamento Girolamo aveva potuto coronare il suo sogno d’amore e sposare Caterina. Brogio era nato un anno dopo il loro matrimonio. Ambrogio Bassetti aveva quindici anni, frequentava il secondo anno del Liceo
Scientifico ed era un ragazzo normale: altezza media, magro, con i capelli neri leggermente mossi. Assomigliava un po’ a Charlot, tranne per il fatto che lui non portava i baffi. Andava in chiesa tutte le domeniche ed era credente, anche se un po’ a modo suo. Tranne sua madre, nessuno lo chiamava Ambrogio. In quegli anni tutti avevano un soprannome, e i nomignoli erano talmente comuni che finivano spesso per diventare più formali dei nomi veri. Brogio era felicissimo di questa usanza perché aveva sempre odiato il suo nome di battesimo e pensava che, chiamandolo Ambrogio, i suoi genitori si erano dimostrati davvero perfidi. Difatti quel nome lo si poteva storpiare in mille modi, uno più brutto dell’altro: uno zio che abitava a Milano, cugino di Girolamo, lo chiamava Ambrùs; per la cugina di Forlì lui era Ambròla; la perpetua di Don Giacinto, parroco di L’Olanda, salita al Nord negli anni Cinquanta dalla Calabria, ma che aveva tenacemente mantenuto un forte accento meridionale, lo chiamava Ambroggio, con due gi e una erre che sembrava una pernacchia. Ma il nomignolo che Brogio detestava di più, che lo faceva diventare rosso come un cocomero – la parte dentro, ovvio – e che gli faceva ribollire il sangue e uscire il fumo dalle orecchie, era quello inventato da Gambadilegno. Quel bifolco lo chiamava Brufolo Bill, un po’ perché Brogio, in effetti, qualche piccolo e insignificante brufoletto sul viso ce l’aveva, e un po’ perché da Ambrogio a Brufolo, secondo quel sapientone del figlio del fattore, il o era breve e perciò inevitabile. L’unico nomignolo che lui aveva subito accettato, e che poi era diventato il suo soprannome ufficiale, era quello appioppatogli da Tina, la ragazza di cui era segretamente innamorato. Lei lo chiamava Brogio, e siccome lui assomigliava un po’ a Charlot, talvolta lo chiamava Brogiolini, confondendo Charlie Chaplin con Larry Semon, in arte Ridolini. Lui faceva finta di offendersi e di rimando la chiamava Gelatina, ma in realtà lui non si arrabbiava mai quando Tina lo prendeva in giro. Forse, se a chiamarlo Brufolo Bill fosse stata lei invece di quell’antipatico di Gambadilegno, anche quel nome gli sarebbe piaciuto.
Evelina Bontà, la zia di Brogio, non aveva mai lavorato in campagna, e nemmeno l’aveva mai amata. Lei era un tipo da città e aveva sempre vissuto a Comacchio. Era stata costretta a trasferirsi in campagna tre anni prima dopo che il marito Filippo, rappresentante di elettrodomestici, l’aveva lasciata per mettersi con una donna molto più giovane.
Evelina si era trasferita a L’Olanda con tutte le sue cianfrusaglie e il suo studio di chiromante e indovina, attività che l’aveva resa famosa e discretamente ricca. Evelina era una maga tradizionale, nel senso che organizzava sedute spiritiche, faceva gli oroscopi, leggeva le carte e curava con le erbe i malanni più disparati. Ma la sua fama era dovuta soprattutto al fatto che sapeva evocare gli spiriti di persone morte da molto tempo. La sera dopo la sua spedizione in soffitta, Brogio entrò nello studio della zia. Dopo la morte di Evelina, Girolamo aveva portato in soffitta i mobili della sua camera da letto, ma non aveva toccato quelli dello studio limitandosi a portare via solo i libri erotici. Incuriosito dal modo in cui la zia gli era apparsa in soffitta, il nipote era entrato nello studio per tentare di svelare l’arcano. «Chissà quanti fantasmi avrà già incontrato la zia» disse Brogio chiudendosi la porta dietro le spalle. L’ambiente era un miscuglio originale e vagamente naïf di stili diversi e sembrava un compromesso, non perfettamente riuscito, fra lo studio di un commercialista e il pied-à-terre di un’entraîneuse parigina. Vicino alla finestra c’era una moderna scrivania con telefono, calcolatrice da tavolo e una nuovissima Olivetti Lettera 35; il centro della stanza era occupato da un grande tavolo rotondo di mogano nero con sedie tutt’attorno, mentre sul lato opposto alla finestra stazionavano un mobile libreria, dall’aria un po’ austera, e una vetrinetta piena di bambole, vasetti, ampolle, tazzine, piattini e cineserie varie. Completavano l’arredamento un paravento di tela con la riproduzione di una foresta tropicale, un paio di lampade a muro in stile liberty e un trespolo con sopra una civetta imbalsamata. Le pareti erano quasi interamente ricoperte di quadri e fotografie con ritratti di persone. Lo studio era collocato al pianterreno vicino all’ingresso secondario della casa che dava sul giardino. Tra l’ingresso della palazzina e l’ufficio c’era un ampio corridoio adibito a sala d’attesa. Gli incontri e le sedute spiritiche si svolgevano per lo più di pomeriggio e di sera e chi richiedeva le prestazioni della maga entrava sempre ando dal giardino. Girolamo riceveva dalla cognata un generoso assegno mensile a titolo di affitto e tollerava con pazienza il continuo via vai. Dopo essersi trasferita a L’Olanda, Evelina divenne presto nota come “la maga olandese”, tanto che sul suo biglietto da visita aveva fatto scrivere: “Eva
Goodness, la maga olandese – chiromante, cartomante, medium, esperta di magia bianca”. Evelina non era mai stata nei Paesi Bassi ma, per darsi importanza, diceva a tutti di essere nata ad Amsterdam. A rendere credibile la millantata provenienza estera contribuiva la sua buona conoscenza della lingua se. I suoi clienti, per lo più contadini con la licenza elementare, non facevano molta differenza fra se e olandese. Brogio era entrato nello studio senza un piano preciso. Voleva capire la strana apparizione del giorno prima, quando la zia gli era apparsa nello schermo del vecchio televisore, ma non sapeva esattamente dove e cosa cercare. Pensò che forse poteva trovare qualche indizio nell’archivio, ma il mobile era chiuso e nessuno sapeva dove Evelina avesse nascosto la chiave. Forzandolo, Girolamo avrebbe potuto aprire facilmente il mobile, tuttavia, forse per pudore o, più probabilmente, per paura di disturbare in qualche modo lo spirito della cognata, finora aveva rinunciato. Invece di andare verso l’archivio, Brogio si avvicinò al mobile libreria. I libri della zia erano sempre stati per lui un richiamo irresistibile. Suo padre aveva portato in soffitta quelli proibiti, ma lì c’era ancora un sacco di roba interessante: volumi di magia e occultismo, libri di storia e filosofia, riviste di astrologia, enciclopedie scientifiche, dizionari di lingue, guide turistiche, romanzi d’amore, giornali, fumetti e perfino un album di figurine. La zia era sempre stata un’accanita lettrice e negli ultimi anni aveva trasmesso quella ione anche al nipote. Brogio estrasse a caso qualche volume dalla libreria sfogliandolo distrattamente, ma non trovò niente di illuminante. Cominciava a pensare di essersi solo immaginato quella strana apparizione nella soffitta e stava per andarsene quando, prima in modo sommesso poi in maniera più netta, gli sembrò di udire la voce della zia che lo chiamava. Il ragazzo trattenne il respiro per qualche secondo, per ascoltare meglio, poi guardò dietro al paravento e sotto alla scrivania. Gli sembrava che la voce della zia provenisse dalla scrivania. Aprì il cassetto centrale e trovò la vecchia radiolina a transistor di Evelina. Prese la radio e bisbigliò: «Zia Evelina, sei qui dentro?» «Ciao, Brogio. Finalmente riesco a parlarti.» «Ma… che ci fai qui? Voglio dire… dove sei veramente?»
«Calma, ragazzo. Non ti ho spaventato, vero?» «No, no... È solo che… sì, insomma, non capisco.» Evelina gli spiegò che non riusciva ancora a manifestarsi nel modo tradizionale e quindi doveva usare degli espedienti, tipo televisori, radio e altri moderni strumenti di comunicazione. «Ma… ieri sera il televisore era spento.» «Anche questa radiolina è spenta. Non ho bisogno che lo strumento sia per mostrarmi. L’importante è che funzioni. Ma non posso rivelarmi a tutti: occorre un dono speciale per comunicare con gli spiriti dei defunti. Io lo possedevo, quando ero in vita, e anche tu lo possiedi.» «Perché mi vuoi parlare?» «Ho visto che hai trovato i miei libri erotici.» Sul volto di Brogio fiorì un’espressione di imbarazzo, ma la zia lo tranquillizzò: «Sono contenta che tu li abbia trovati e mi fa piacere se li leggi. Ormai sei abbastanza grande. Però so che hai trovato anche un volume con la copertina rossa.» «Vuoi dire l’album di fotografie? Sì, l’ho trovato, però non c’erano le tue… cioè, non c’erano foto dentro.» «Quello non è un album di fotografie, Brogio, ma un oggetto magico molto prezioso. Ti ricordi dove l’hai messo?» «Io credevo fosse un album di fotografie. Avevo paura che mio padre lo vedesse e capisse dov’ero stato.» «Sì, ma dove l’hai messo? L’hai nascosto?» «Sì… cioè, no. Io non credevo che fosse importante.» «Insomma, dov’è?» «L’ho buttato sul furgone di Leonardo. Ieri sera è arrivato proprio mentre uscivo
dal magazzino e l’ho buttato sul suo furgone, in mezzo ai cartoni.» «Oh, Santa Genoveffa! Sul furgone di Leonardo. Devi andare subito a cercarlo.» «Ma Leonardo oggi sarà andato in cartiera. Avrà già vuotato il furgone.» «Ascoltami bene, Brogio: è di fondamentale importanza che quel libro non vada distrutto. Devi andare subito alla cartiera e cercare fra i cartoni.» «Ma sono già le sei e mezza. Se i miei non mi trovano a casa, finisco nei guai.» «Per me saranno guai ben peggiori se quel libro va distrutto. La cartiera non è lontana. Se fai in fretta, riesci a tornare prima dei tuoi. E al limite puoi sempre inventare una scusa. Puoi dire che sei andato da qualcuno dei tuoi amici a fare i compiti, o qualcosa del genere.» «Ma è davvero così importante quel libro? Io l’ho sfogliato fino in fondo e non c’era niente, solo pagine vuote.» Evelina insisté e disse al nipote che doveva fidarsi di lei. Non aveva tempo di spiegargli i dettagli, ma era molto importante che lui rintracciasse quel libro e lo supplicò di andare a cercarlo prima che fosse troppo tardi. Brogio era indeciso, ma ripensò a tutte le volte che aveva scommesso con lei, e aveva sempre perso le scommesse. Della zia si poteva fidare: se Evelina sosteneva che quel libro era un oggetto prezioso, era certamente così. Il ragazzo si ficcò la radio in tasca, chiuse il cassetto della scrivania e uscì di corsa dallo studio.
I lunghi filari di pioppo coltivato costeggiavano la strada che correva parallela all’argine del Po. I tronchi dritti e allineati formavano una specie di enorme monumento: una sorta di gigantesco tempio con centomila colonne e un grande tetto di foglie. Percorrendo quella strada, che da L’Olanda conduceva alla cartiera, si aveva la sensazione di essere sul fondo di un lungo canyon chiuso da un lato dalla parete obliqua dell’argine del Po e sul lato opposto dal pioppeto. Il sottobosco era pulito e curato più che in certi giardini del paese e gli animali più pericolosi che vi si potevano incontrare erano le volpi e i ratti. Tuttavia, nella luce attenuata della sera incombente, il pioppeto poteva incutere un certo timore
anche a chi, come Tina e Luna, ava da quelle parti ogni santo giorno. Tina e Luna, amiche praticamente da sempre, stavano tornando a casa dopo una eggiata sul Po quando incontrarono Brogio che pedalava come un forsennato nella direzione opposta. «Ciao, Brogio» gridò Tina. «Dove vai così di corsa?» «Ciao, ragazze» rispose Brogio rallentando, ma senza fermarsi. «Scusate se non mi fermo, ma vado di fretta. Si tratta di una faccenda importante. Poi vi spiego.» E si rimise a pedalare come un indemoniato. Tina e Luna si guardarono con aria interrogativa, poi, senza bisogno di consultarsi, girarono la bicicletta e corsero dietro all’amico. «Aspetta, Brogio» gridò Luna. «Veniamo con te.» Brogio non si fermò ad aspettarle e raggiunse la cartiera alcuni minuti prima delle ragazze. Quando Luna e Tina arrivarono nel cortile dello stabilimento, di Brogio non c’era più traccia. L’impianto di L’Olanda era una succursale della cartiera di Mesola. Lo stabilimento secondario era di dimensioni ridotte, ma ben attrezzato, e vi si produceva soprattutto carta da pacchi e da giornale. La carta più pregiata, per rotocalchi e fogli per macchine da scrivere, veniva prodotta nello stabilimento principale di Mesola. Il reparto dove si raccoglieva la carta straccia era un po’ defilato, distava un centinaio di metri dall’edificio principale ed era addossato al muro di confine che separava lo stabilimento dal pioppeto. Più che un vero e proprio capannone era una specie di grande piazzola asfaltata coperta da una vecchia tettoia di lamiera sorretta da tralicci metallici in gran parte arrugginiti. La carta da macero veniva scaricata in mezzo al piazzale dove un operaio la raccoglieva con una pala meccanica e la rovesciava sopra a un nastro trasportatore che la portava dentro a un capannone attiguo. Sul piazzale, accanto al nastro trasportatore, c’era un secondo operaio che aiutava il primo a raccogliere la carta e controllava che nel mucchio non ci fossero oggetti estranei. Quando Brogio raggiunse il piazzale, mollò la bicicletta e corse verso l’operaio che stava in piedi vicino al nastro. «Mi scusi, signore. Posso guardare in mezzo alla carta? Mia madre ha buttato via un…»
Brogio non terminò la frase. L’operaio si era voltato lentamente e lo stava fissando con due occhi che sembravano quelli di un cadavere. Lo sguardo era spento e le pupille erano talmente piccole che si vedevano solo i bulbi oculari, giallognoli e attraversati da una fitta rete di venuzze rossicce. Il viso dell’uomo aveva lo stesso colore dei bulbi oculari, con una leggera sfumatura olivastra. Brogio aveva visto varie volte i fantasmi, e per un secondo credette di trovarsi di fronte a uno spettro. Ma tutti i fantasmi che aveva finora incontrato, con l’unica eccezione di zia Evelina, avevano la stessa consistenza della nebbia e un corpo trasparente. Questo operaio, invece, pur essendo magro e smunto, sembrava vivo e il suo corpo non aveva niente di spettrale. «Chi sei?» chiese l’uomo in un sussurro. «Cosa vuoi?» Se il corpo, almeno in apparenza, era quello di un essere vivente, la sua voce sembrava provenire dall’oltretomba. Quell’uomo lo spaventava, e Brogio avrebbe preferito andarsene, ma aveva promesso alla zia di cercare il libro, e poi lui non era tipo da arrendersi facilmente. «Mi chiamo Ambrogio, signore, e come le stavo dicendo… » Nel frattempo l’altro operaio era sceso dalla pala meccanica e si era avvicinato. Quando lo vide in faccia, Brogio si sentì mancare le forze. Il viso del secondo uomo era pallido e cadaverico come quello del primo, e i suoi occhi erano ancora più gialli e sanguigni. «Scu… scusate» farfugliò. «Non volevo disturbarvi.» E si avviò veloce verso la bicicletta. Con la coda dell’occhio vide che i due uomini si erano fermati e non sembravano intenzionati a seguirlo. Erano quasi le sette. A quell’ora c’era il cambio di turno e gli operai sarebbero andati a casa. Brogio pensò di andare a nascondersi da qualche parte in attesa che il piazzale rimanesse libero. Forse quegli uomini erano solo ammalati, ma quelle facce gli facevano troppa paura e non aveva nessuna voglia di verificare se le loro intenzioni fossero amichevoli oppure no. Si nascose dietro al capannone dove si macinava la carta. Qualche minuto dopo, la sirena che segnalava il cambio del turno di lavoro suonò, ma gli operai che lavoravano sul piazzale rimasero là. Brogio cominciava a temere che non avrebbe mai ritrovato il libro della zia, poi si ricordò della radiolina che aveva in tasca, la prese e l’accostò all’orecchio.
«La finestra» gli suggerì Evelina. «Guarda dalla finestra.» Lungo la parete del capannone, più o meno a metà, c’era un finestrone. Brogio si avvicinò e sbirciò dentro. L’interno era occupato da grossi macchinari e da alcuni operai in tuta blu. Poco lontano dalla finestra un uomo vestito tutto di nero, con un cappello nero a larghe falde, guanti neri e occhiali scuri, stava parlando con uno degli operai. Quel tizio aveva qualcosa in mano e lo stava mostrando all’uomo nero. Era un oggetto quadrato di colore rosso. «È il tuo libro» sussurrò Brogio. «Come faccio a prenderlo?» L’uomo nero prese il libro e si diresse verso una porta sul lato opposto del capannone. «Seguilo» gracchiò la zia. «Prendi la bicicletta e vagli dietro.» Brogio inforcò la bici e fece il giro del fabbricato. Quando arrivò dall’altra parte ebbe appena il tempo di vedere l’uomo vestito di nero che saliva sopra una Land Rover con i vetri oscurati e andava via sgommando. Provò a inseguirlo, ma il fuoristrada attraversò il cancello dello stabilimento e sparì presto alla vista. Quando il ragazzo raggiunse il cancello due biciclette gli vennero incontro. «Ma dove ti eri cacciato?» gridò Tina. «Si può sapere cosa combini?» «Avete visto un fuoristrada con i vetri scuri, con dentro un uomo vestito di nero, gli occhiali da sole e…?» «Vuoi dire il signor Fastu?» lo interruppe Luna. «Non so come si chiama. È un tipo strano, tutto nero.» «Sì, è il signor Fastu, il nuovo direttore della cartiera. L’abbiamo visto andar via in macchina.» «Forse è andato a casa» suggerì Tina. «Sono già le sette.» «Accidenti!» esclamò Brogio. «L’ho perso.» «Hai perso Fastu?» domandò Luna con aria spazientita. «Ci vuoi spiegare, una buona volta?»
Brogio guardò le amiche con aria imbarazzata, poi si voltò dall’altra parte, tirò fuori la radiolina dalla tasca e l’avvicinò all’orecchio. Per non farsi sentire dalle due ragazze bisbigliò: «Cosa faccio, glielo dico?» Ascoltò per qualche secondo, infine annuì e rimise la radio in tasca. «Va bene, ragazze, vi racconterò tutto. Ma adesso è tardi. Luna, possiamo vederci a casa tua domani pomeriggio?» «Certo. Alle cinque, però. Prima ho da fare.» «Okay. A domani, allora.» Brogio saltò sulla bicicletta e partì a razzo verso la strada, seguito dallo sguardo perplesso delle due amiche.
3. La Banda Bassetti
Insieme ad altri sette amici inseparabili, Brogio aveva fondato una specie di circolo le cui principali attività erano organizzare giochi, feste e pedalate in compagnia. Un po’ per via del suo cognome, un po’ a causa del fatto che solo due ragazzi del gruppo – Tommy, il matusa del gruppo, e Ceci La Rossa – superavano il metro e settanta, il circolo era stato chiamato Banda Bassetti. A volte le ragazze usavano l’acronimo BB, ma ai maschietti quel nome non piaceva perché dicevano che ricordava troppo Brigitte Bardot e dava l’idea che nel gruppo ci fossero solo femminucce. I componenti della banda erano quattro maschi – Brogio, Tommy, Edo e Jack – e quattro femmine – Tina, Luna, Gegia e Ceci. Avevano quindici anni – tutti tranne Tommy che ne aveva diciassette – e andavano ancora a scuola. Tra i componenti della banda l’opinione generale era che Ceci fosse la ragazza più bella e Gegia quella più ricca di fascino. Ma per Brogio la ragazza più carina e affascinante era Tina. Forse non aveva il fascino di Gegia né le curve provocanti di Ceci, e nemmeno lo sguardo magnetico di Luna, ma Tina rimaneva la sua preferita. Il capo indiscusso della Banda Bassetti era Brogio, ma non lo era diventato perché fosse più bello o più intelligente degli altri. Edo aveva molto più acume di lui, e Jack, anche se non lo si poteva definire bello, aveva molto più sex appeal. Tommy non faceva testo perché non era né bello né intelligente. Il motivo per cui Brogio era diventato il capo della banda era semplice: lui aveva avuto l’idea e lui aveva messo a disposizione della banda il suo rifugio segreto.
Quella sera – era il 31 agosto 1977 – Brogio arrivò a casa di Luna alle cinque in punto. Lei era in giardino e stava giocando con Bandito, il fedele cagnolino. Lunetta Schioppa, detta Luna, era nata a Mesola ma aveva sangue siculo nelle vene. Il padre, Cosimo, si era trasferito al Nord nei primi anni Sessanta in cerca di lavoro. Dopo aver cambiato occupazione varie volte, Cosimo aveva trovato un impiego stabile nella cartiera di Mesola, come contabile, e là aveva conosciuto
Gisella, sua futura moglie e madre di Lunetta. Luna abitava in una piccola casa di campagna, a ridosso dell’argine del Po, insieme ai genitori, al fratello Tommy e all’anziana nonna. Studiava a Codigoro, secondo anno del Liceo Scientifico, ed era in classe con Tina e con Brogio. Luna era una ragazza semplice, con un viso simpatico, gli occhi vispi e un carattere aperto. La si poteva definire belloccia: aveva i capelli neri, lunghi e lisci, ma quasi sempre raccolti e coperti da un basco, anche quello nero. Il basco era una specie di portafortuna e lei non usciva mai senza: quando faceva caldo portava un basco di cotone, con il freddo ne indossava uno di lana. E quando se lo toglieva, lasciando cadere i capelli sulle spalle, assomigliava un po’ a Isabella Rossellini da giovane. Il colore dei suoi occhi era grigio verde con sfumature celesti e ricordava l’acqua dell’Adriatico in certe giornate di giugno, quando il Po è nella fase di magra e l’acqua del mare è ancora abbastanza pulita. Luna era una sognatrice e aveva un’anima ribelle. In quegli anni il movimento hippy era ormai sul viale del tramonto e l’heavy metal aveva soppiantato l’acid rock, ma lei si sentiva fin nel profondo dell’anima una figlia dei fiori. Sapeva tutto del festival di Woodstock del 1969 e ascoltava di continuo le canzoni di Bob Dylan, Joan Baez, Patty Smith, Janis Joplin e, soprattutto, dei Jethro Tull. Il gruppo di Ian Anderson era orientato più sul blues e il folk rock che sul rock psichedelico e gli altri generi musicali tipici della beat generation, e non poteva essere considerato un gruppo hippy in senso stretto, tuttavia Luna andava in estasi quando ascoltava i Jethro Tull. Conosceva a memoria un paio di loro canzoni – Aqualang e Locomotive Breath – e quando era in casa da sola le cantava a squarciagola, anche se con un accento inglese da far paura. Come tutte le ragazze della sua età, anche Luna aveva un sogno nel cassetto: il suo era quello di andare in India per ritrovare se stessa. E non era un capriccio: lei era profondamente convinta che, prima o poi, sarebbe riuscita a realizzare quel sogno e aveva già cominciato a mettere da parte i soldi per il viaggio. Gli amici le avevano assegnato il soprannome Luna, un po’ perché il suo vero nome era Lunetta e un po’ per via del suo fondoschiena che era, come diceva suo fratello Tommy, tondo come la luna piena. Quando andava in bicicletta, essendo lei non troppo alta e la bici non troppo bassa, muoveva il sedere come se stesse facendo una sfilata di moda e il movimento ondulatorio era particolarmente evidente quando indossava pantaloncini corti e attillati, ossia quasi sempre. Luna
indossava raramente le gonne: portava jeans lunghi in inverno e pantaloncini corti in estate. Un po’ per questo, un po’ per i capelli sempre coperti dal basco, Tommy diceva che lei era il quinto maschio del gruppo. Luna non se la prendeva e replicava che lui, invece, era tale e quale a King Kong. Il suo compagno più fedele era un bastardino bianco e nero, di nome Bandito, che l’accompagnava ovunque. Quando Luna andava in bicicletta, lui se ne stava ritto nel cestello anteriore con le zampe appoggiate al manubrio. Il cane era stato letteralmente “pescato” nel Po l’anno precedente. Era una domenica di novembre e, pur essendo già autunno inoltrato, la giornata era bella e rallegrata da un tiepido sole di sapore primaverile. Luna e altri tre della banda – Brogio, Tommy e Tina – stavano facendo una delle solite scampagnate in bici lungo l’argine del Po. Le abbondanti piogge cadute la settimana prima avevano gonfiato tutti i fiumi della pianura padana. Il Po era in piena e le sue acque limacciose correvano verso il mare trasportando rami abbattuti, pesci morti e rifiuti di ogni genere. I quattro amici stavano correndo in sella alle loro bici quando Luna, fermandosi di colpo, indicò un punto verso il centro del fiume e cacciò un grido. Gli altri si bloccarono e guardarono nella direzione indicata da Luna. Una tavola di legno, forse la porta di una vecchia casa colonica, stava andando alla deriva trasportata dalla corrente. Accucciato sulla vecchia tavola, bagnato, tremante di paura e incapace perfino di guaire, c’era un piccolo cane con il pelo corto, il mantello chiazzato e una vistosa macchia nera che gli copriva la testa, il collo e una parte delle orecchie. La zattera col cane era troppo lontana per riuscire a raggiungerla con un ramo e sarebbe stato da pazzi gettarsi a nuoto nell’acqua scura e vorticosa. «Poverino» disse Tina. «Chissà come c’è finito lassù. Non possiamo fare niente per salvarlo?» «Ah! Per me, quello si annega» replicò Tommy. «No, che non annega!» esclamò Luna girando la bicicletta e cominciando a pedalare come una forsennata in direzione del mare. I ragazzi intuirono le intenzioni dell’amica e la seguirono. Brogio la raggiunse in fretta e le gridò dietro: «Luna, ho capito cosa vuoi fare. Fermati, è pericoloso!»
«Non lascerò che quel cagnolino anneghi!» urlò lei aumentando la pedalata. Seguiti dappresso dagli altri due, Brogio e Luna raggiunsero la zona dove il Po di Goro si stacca dal Po Grande. Il ramo secondario chiamato Po di Goro è stretto e pieno di anse e sfocia in mare parecchi chilometri più a est, nei pressi di Gorino. La zattera con il cane era più vicina alla riva che al centro del fiume e con ogni probabilità avrebbe imboccato il Po di Goro, dove la corrente era meno forte, e avrebbe rallentato la sua corsa. Circa un chilometro oltre l’inizio di quel ramo del Po, le due rive erano unite da un ponte di barche fatto costruire dagli agricoltori della zona per are sull’altra sponda. Il ponte aveva come base galleggiante una lunga fila di barche parallele fra loro. Il piano superiore era realizzato con tavole di legno e i bordi laterali erano provvisti di corrimano in corda fissati all’assito con paletti di legno. A causa della piena, il ponte era stato chiuso e transennato. Luna raggiunse il ponte di barche una decina di minuti dopo l’avvistamento del cane. Lasciò cadere la bicicletta sull’erba dell’argine, e senza un attimo di esitazione corse verso il ponte, subito seguita da Brogio. Gli altri arrivarono quindici secondi dopo. «Luna, torna indietro!» gridò Tina. Ma lei, già a metà del ponte, non ascoltava più nessuno. Le barche sottostanti tremavano e scricchiolavano come velieri sferzati dalla tempesta. L’assito, tenuto insieme da ganci e tiranti in acciaio, vibrava e risuonava emettendo una sorta di sinistra melodia: era come se, invece che su un ponte di legno, Luna stesse correndo sopra un gigantesco xilofono percosso da un grande martello invisibile. La ragazza si fermò vicino al bordo del ponte e scrutò l’acqua scura che correva verso di lei. La zattera con il cagnolino si stava avvicinando rapidamente. Ancora una decina di metri e sarebbe ata sotto. C’era la possibilità che la zattera andasse a sbattere contro una delle barche e si fermasse sotto il ponte, ma Luna la reputava un’eventualità alquanto remota. Le barche erano distanziate fra loro di un paio di metri ed era molto più probabile che la piccola zattera ci asse in mezzo. Dopo aver valutato la traiettoria della zattera, Luna si sdraiò sull’assito sporgendosi oltre il bordo. Brogio e Tommy, che nel frattempo l’avevano raggiunta e non pensavano più a dissuaderla ma solo a salvare il cane, si erano
messi dietro di lei e le tenevano le gambe. Pareva che il cagnolino avesse capito le intenzioni della fanciulla perché si mise a uggiolare, e un attimo prima di are sotto il ponte si alzò sulle zampe posteriori. Mentre la tavola ava veloce sotto di lei, Luna si allungò e afferrò il cane. Purtroppo, a causa del pelo bagnato, non riuscì a trattenerlo. L’animale scivolò giù e scomparve, con un tuffo silenzioso, nell’acqua scura. Luna gettò un urlo, si alzò e corse sull’altro lato del ponte. Il cagnolino era riemerso, e con un gesto istintivo che aveva dell’incredibile aveva afferrato con i denti una canna incastrata sotto il ponte. Nuotando controcorrente e tenendo ben salda fra i denti la canna, il cane stava cercando di avvicinarsi alle barche. Luna capì subito che l’impresa era disperata. La corrente era troppo forte per un cane così piccolo: prima o poi il cagnolino avrebbe mollato la presa e sarebbe annegato. Ed era tutta colpa sua. Se lei non avesse cercato di prenderlo, forse il cane sarebbe arrivato fino al mare, seduto sulla sua zattera di fortuna, e là qualche pescatore l’avrebbe recuperato. Adesso, invece, sarebbe morto. Paralizzata dal senso di colpa, Luna sembrava la moglie di Lot trasformata in statua di sale. Brogio, invece, non si perse d’animo. Aiutato da Tommy, scese nella barca più vicina al cagnolino e andò verso la prua. Poi, dopo aver afferrato saldamente un anello di ferro fissato internamente alla chiglia, si protese verso il cane. Intuendo che quell’uomo stava cercando di salvarlo, il cagnolino si mise a nuotare come un forsennato verso Brogio senza mai mollare la presa sulla canna. Da solo, forse, non ce l’avrebbe fatta, ma evidentemente quello non era il suo giorno predestinato per morire. Un grosso ramo, spinto dalla corrente, spuntò all’improvviso da sotto il ponte e andò a sbattere contro la canna. L’urto disincagliò la canna e la spinse verso Brogio. Se il ragazzo non fosse stato svelto, il cane e la canna sarebbero stati trasportati di nuovo verso il centro del fiume. Ma Brogio si mosse alla velocità del fulmine, e con la mano libera afferrò il cane per la collottola e lo tirò sulla barca. Il cagnolino, infreddolito e impaurito, ma consapevole di essere salvo, cominciò a scondinzolare. Ma non emise un guaito, anche perché aveva ancora in bocca, saldamente stretto fra i denti, il pezzo di canna. Luna adottò il cagnolino e lo chiamò Bandito, un po’ per via di quella macchia nera che gli copriva quasi tutta la testa e che pareva un amontagna, e un po’
perché il cane, con quel pezzo di canna in bocca, le rammentò il brigante Stefano Pelloni, detto il atore, quando alzava lo schioppo per colpire le sue vittime.
Cosimo e Gisella, i genitori di Luna e Tommy, avevano turni di lavoro piuttosto lunghi e rientravano a casa a sera inoltrata. La mamma di Cosimo, per quanto ultrasettantenne, era ancora in gamba e in grado di badare sia alla casa che ai due nipoti. Quel giorno la nonna era andata a Comacchio a trovare una cugina, e a casa con Luna c’era solamente suo fratello. Tommaso Schioppa, Tommy per gli amici, era il componente della banda più anziano e, pur avendo solo due anni più della sorella, sembrava già un adulto. Tommy doveva aver preso più dalla madre che dal padre perché, se Luna aveva le tipiche sembianze da ragazza del sud – mora, bassa e rotondetta – lui aveva un aspetto più nordico: capelli castani, piuttosto mossi, occhi azzurri, mascella larga, testone alla Bud Spencer e corporatura robusta. Luna e Tommy non sembravano nemmeno fratelli, e se i loro genitori non fossero stati quella coppia affiatata che tutti conoscevano si sarebbe potuto pensar male. Tommy era un grande apionato di cucina e studiava ad Adria, in provincia di Rovigo, per diventare cuoco. In settembre avrebbe frequentato la terza classe dell’istituto alberghiero, cioè l’ultima, e contava di diplomarsi l’anno successivo. Il problema era che, se da un lato gli piaceva molto cucinare, non era molto portato per le altre materie, in particolare italiano, storia, matematica e lingue straniere. Quell’anno avrebbe frequentato la terza classe per la seconda volta. Anche Tommy aveva un sogno nel cassetto, e anche il suo aveva a che fare, in un certo senso, con la fuga. Tommy sognava di diventare un grande chef e avrebbe voluto esercitare la sua arte su una nave da crociera. Il suo obiettivo era girare il mondo e raggiungere i paradisi tropicali che vedeva in tv: Bali, Bora Bora, Honolulu, Tahiti, Papeete. Erano quelle le mete che lui sognava di raggiungere, e covava quel sogno fin da quando era bambino. La ione per quelle terre esotiche era nata all’età di dieci anni quando si era innamorato di Inger Nilsson, la bambina svedese con le lentiggini e le lunghe trecce rosse protagonista della serie televisiva Pippi Calzelunghe. Il padre di Pippi, Efraim Calzelunghe, era un pirata, e con la nave corsara Saltamatta solcava i Mari del Sud per depredare le navi di aggio. Efraim era anche il re
dell’isola tropicale Taka Tuka e sua figlia Pippi donava con generosità, a chi ne aveva bisogno, i dobloni d’oro che riceveva regolarmente dal padre. Nonostante avesse solo nove anni e un corpo apparentemente gracile, Pippi aveva una forza prodigiosa. Viaggiava in compagnia di due compagni inseparabili: Zietto, un cavallo bianco a pois neri che lei riusciva a sollevare di peso con un braccio solo, e una scimmietta che rispondeva al nome di Signor Nilsson. Tommy, da bambino, non si era perso una puntata delle mirabolanti avventure di Pippi Calzelunghe. A Pippi piaceva molto mangiare e cucinare e invitava spesso gli amici a Villa Villacolle, la sua coloratissima dimora, per una merenda a base di arrosto di maiale alle prugne, ciambelle alla cannella, cialde dolci, mele fritte e mille altre ricette originali imparate, a sentir lei, nei suoi mirabolanti viaggi intorno al mondo. Le stravaganti avventure della ragazzina svedese avevano affascinato il giovane Tommy a tal punto che lui aveva deciso che avrebbe seguito l’esempio di Pippi: appena avesse potuto, avrebbe cominciato a viaggiare in lungo e in largo per imparare tutte quelle ricette viste nei telefilm. Nel 1977 Tommy non aveva ancora iniziato il suo giro del mondo gastronomico, ma di ricette ne aveva già imparate molte, e quando i ragazzi della banda si riunivano per festeggiare qualche ricorrenza importante, lui si metteva ai fornelli, oppure davanti alla griglia, guadagnandosi ogni volta gli elogi degli amici. Benché lui si definisse “robusto ma non grasso”, pesava quasi cento chili, e quando i ragazzi andavano nel rifugio segreto lui ci entrava con una certa difficoltà. In compenso la sua forza e la sua statura lo rendevano perfetto per certe incombenze. I ragazzi della banda non erano né teppisti né delinquenti, ma nemmeno stinchi di santo, e qualche marachella ogni tanto la combinavano pure loro. L’attività banditesca prediletta dal gruppo era il furto delle ciliegie di Gambadilegno. L’unico appezzamento di terreno delle vicinanze in cui fossero presenti alberi di ciliegio era quello di Pietro Gamba, padre dell’odiato Gambadilegno. Pietro aveva piantato due alberi di Durone Nero di Vignola dietro la casa e ne era gelosissimo. Per evitare le intrusioni dei ladri, aveva fatto costruire tutto intorno alla casa un muro di mattoni alto due metri, e accanto ai ciliegi aveva messo le cucce dei suoi cani da caccia, tre setter irlandesi.
Poiché i cani conoscevano Ceci fin dalla nascita, per Brogio e i suoi amici entrare nel cortile della casa ando da dietro era un gioco da ragazzi. Il padre di Cecilia era il veterinario di L’Olanda e aveva regalato lui i cuccioli a Pietro Gamba, dopo averli fatti nascere e tenuti a casa sua per un anno intero. Ceci aveva giocato spesso con quei tre cani e loro la conoscevano bene. Aiutata da Tommy, Ceci scavalcava il muro di cinta, andava dai cani e li distraeva giocando con loro. Mentre i tre setter si divertivano a rincorrere legnetti e mordicchiare ossi fasulli, i ragazzi della banda entravano nel cortile, salivano sugli alberi e facevano man bassa delle ciliegie. Compito di Tommy era aiutare gli altri a scavalcare il muro di cinta e salire sugli alberi, e poi restare di vedetta. I loro raid si svolgevano per lo più di sera quando Pietro ronfava sul divano, la moglie lavava i piatti e Gambadilegno rincretiniva davanti alla tv. Dopo il aggio della banda, sui due alberi rimaneva sì e no la metà delle ciliegie, e nessuno della famiglia Gamba si era mai accorto di niente. A onor del vero, dopo ogni furto la moglie di Pietro si azzardava a dire che le sembrava che i ciliegi avessero prodotto meno frutti del previsto, ma il marito, fra uno sbadiglio e l’altro, l’apostrofava dicendo che era normale che la quantità di frutta fosse diversa da un anno all’altro: quello era un anno di scarica, l’anno successivo sarebbe stato un anno di carica e gli alberi avrebbero prodotto molte più ciliegie. Ma da un anno all’altro nessuno si ricordava della cosa e i furti si ripetevano ad ogni stagione.
Alle cinque e mezza, Tina raggiunse la casa di Luna, appoggiò la bicicletta contro il muro e raggiunse gli amici seduti in giardino sotto la chioma della grande farnia. Valentina era figlia di Dante Sasso e Stella Bianchini e aveva una sorella, Silvia, di quattro anni più vecchia. I genitori, originari del Piemonte, si erano trasferiti in Emilia alla fine degli anni Cinquanta, subito dopo essersi sposati e poco prima della nascita della primogenita. Gestivano un negozio di macelleria ed erano tipi molto religiosi e all’antica. Capelli biondi, lunghi e un po’ mossi, mingherlina e non tanto alta, Tina non era bellissima ma la si poteva definire carina. Quando portava i capelli sciolti ricordava la Patty Pravo degli anni del Piper, ma senza il trucco eccessivo esibito dalla cantante veneziana. Aveva delle belle gambe, un bel girovita e un seno…
beh, il suo non era certo un seno da maggiorata, però era proporzionato al corpo e bello sodo. Brogio non le aveva mai toccato le tette, ma una volta gli era capitato di trovarsi in stretto contatto con lei tanto da poter apprezzare la consistenza dei suoi seni. Era successo in giugno sulla spiaggia del Lido degli Scacchi. Per fare una penitenza, lui e Tina erano stati legati insieme, faccia a faccia, e fatti rotolare giù da una duna di sabbia. L’esperienza era stata talmente eccitante per Brogio che aveva avuto un’erezione. Tina se n’era accorta, ma aveva fatto finta di niente. E non aveva fatto una piega nemmeno quella volta che lo aveva sorpreso a fare pipì dietro al magazzino. I ragazzi stavano giocando a nascondino e Tina era nel turno del cercatore. Brogio si era nascosto sopra al gelso che cresceva ai margini del frutteto dietro al magazzino. Da diverse ore Brogio non faceva pipì e non riusciva più a tenerla. Convinto di non essere osservato, era sceso dall’albero, si era aperto la patta dei pantaloni e si era messo a farla contro il muro. Quando Brogio faceva pipì, guardava sempre in basso per evitare di bagnarsi i piedi. Aveva fatto tutto con calma, e appena finito aveva dato un paio di scossette per far cadere le ultime gocce. Poi se lo era rigirato fra le dita per controllare se nel frattempo non si fosse allungato un pochino. Come tutti i ragazzi della sua età, anche Brogio pensava di averlo un po’ piccolo e continuava a ripetersi che, con il are degli anni, anche il suo pipino sarebbe cresciuto. Dopo averlo esaminato bene, se l’era ficcato dentro di nuovo e aveva tirato su la cerniera dei pantaloni. Quando aveva alzato gli occhi l’aveva vista. Tina era a due metri da lui, nascosta dietro allo spigolo del magazzino e lo stava guardando con occhi sgranati, senza tuttavia apparire imbarazzata. Brogio era diventato paonazzo. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma non gli era venuto in mente niente di appropriato. Nemmeno lei aveva parlato, ma gli aveva lanciato un’occhiata maliziosa ed era corsa via gridando: «Tana per Brogio! Tana per Brogio!» Tina aveva aria e modi da santarellina, ma sotto sotto era una gatta morta. A Brogio ricordava un po’ Nannina, la protagonista della commedia Na santarella di Eduardo Scarpetta. Accompagnata da Felice Sciosciammocca, l’organista del convento dove lei è educanda, Nannina va a Roma per conoscere l’uomo che suo padre le ha imposto di sposare, ma che lei non conosce. Nannina sa che Felice ha una vita segreta e che scrive operette, e pensa di sfruttare la cosa a suo vantaggio. Arrivati nella capitale, Nannina ricatta l’organista minacciando di svelare alla superiora del convento il suo segreto se lui non farà quello che lei gli chiede. Felice cede al ricatto e accompagna la ragazza nel teatro dove va in scena una delle sue opere. Grazie alla sua avvenenza e ai falsi modi innocenti, Nannina
entra nelle grazie dell’impresario e, alla fine, riesce addirittura a sostituire la protagonista dell’operetta. Un paio di anni prima, con una scaltrezza degna di Nannina, Tina era riuscita a evitare di entrare in collegio. Suo padre aveva deciso di mandarla a Torino, appena avesse finito le medie, per farle frequentare una scuola femminile gestita da suore ritenuta un’ottima istituzione per ragazze cattoliche di buona famiglia. Per le giovani torinesi quel collegio aveva la fama di essere un vero e proprio lager e Tina era ben decisa a non entrarci, ma andare contro i voleri di suo padre era molto difficile. Doveva escogitare qualcosa senza entrare in guerra con i genitori. Tina si mostrò arrendevole e finse accondiscendenza. Verso la metà di settembre Dante, Stella e Tina andarono a Torino. Quando arrivarono nel cortile del collegio, Tina disse ai genitori che voleva prima confessarsi; loro, convinti che la figlia volesse entrare in quella scuola nella pienezza della grazia divina, acconsentirono di buon grado. Entrarono nella chiesetta dell’istituto e Tina chiese al parroco di confessarla. Dopo una decina di minuti, Dante e Stella videro il prete uscire dal confessionale, rosso in viso e visibilmente turbato, e correre verso l’ingresso del collegio. Quando i tre furono ricevuti in direzione, la direttrice disse loro che il collegio non poteva accettare altre iscrizioni: negli ultimi giorni si erano presentate molte ragazze e i posti disponibili erano andati esauriti in breve tempo. La superiora si prodigò in mille scuse e si disse molto dispiaciuta che avessero fatto un viaggio a vuoto, ma fu irremovibile nella sua decisione. Tre giorni dopo, Dante portò la figlia a iscriversi al Liceo Scientifico di Codigoro. Né lui né la moglie sospettarono mai che tra la confessione di Tina e il rifiuto della direttrice ad accoglierla ci fosse un nesso.
Appena Tina si fu seduta sotto la quercia accanto agli amici, Brogio estrasse la radiolina dalla tasca e la mostrò agli altri. «Adesso che ci siamo tutti, posso raccontarvi cosa mi è successo ieri. La vedete questa radiolina? Voi non ci crederete, ma qui dentro c’è il fantasma di zia Evelina. Ve la ricordate, mia zia?» Luna prese la radio, la guardò, la soppesò e la ò a Tina. «Certo che me la ricordo, ma non penserai davvero che noi crediamo a questa cosa.»
«Se è uno scherzo, è proprio uno scherzo scemo» dichiarò Tina. «Non è uno scherzo» replicò Brogio. Tommy si fece dare la radio da Tina e la accese. Dal piccolo altoparlante uscì la voce di Massimo Ranieri che cantava Erba di casa mia. «Beh, la radio funziona. Però questa non mi sembra la voce di tua zia.» «Spiritoso!» fece Brogio. «Spegni quella radio, per favore» disse Luna. «Comunque, cosa c’entra tua zia con Fastu?» «Lo sapevate che lei era una medium, no? Zia Evelina evocava spesso i fantasmi. E adesso lei… sì, insomma… anche lei è diventata un fantasma. E il suo spirito è dentro a questa radiolina.» Tommy scoppiò a ridere. Tina si limitò a sorridere. «Io non credo ai fantasmi» dichiarò Luna in tono serio. «Va bene, ragazzi» affermò Brogio. «Capisco che sia difficile da credere, tanto più che zia Evelina non mi sta aiutando per niente, ma vi assicuro che sto dicendo la verità. Comunque, di fantasmi parleremo un’altra volta. Adesso c’è un problema più urgente da risolvere. Dobbiamo recuperare un libro della zia. Non so ancora il perché, ma quel libro è prezioso. L’ha preso il signor Fastu e io devo riuscire a riprenderlo. Luna, tu lo sai dove abita Fastu, vero?» «Sì, abita sull’altra sponda del Po.» «Sì, ma dove, esattamente?» «A Val Nebbiosa. In una casa isolata.» «La casa di Torello Stella?» «Sì, proprio quella.» «La casa delle mele acerbe!» esclamò Tina. «È un posto orribile.»
«Sì, ma per lui va benissimo» replicò Luna. «Fastu è un tipo strano. Va sempre in giro vestito di nero e coperto dalla testa ai piedi. Vive da solo e le imposte sono sempre chiuse, anche quando lui è in casa. Mio padre c’è stato un paio di volte, per motivi di lavoro, e dice che quella casa fa paura.» «Non vorrai mica proporci di entrare là dentro, vero?» dichiarò Tina. «Io là non ci vengo di sicuro!» «Scusa, ma se il libro l’ha preso Fastu, non puoi chiederglielo e basta?» domandò Tommy. «No, meglio non chiederglielo» dichiarò Luna. «Se il libro è prezioso, come afferma Brogio, Fastu negherà di averlo preso. Oppure potrebbe dire che lo restituisce solo se qualcuno va a prenderlo a casa sua.» «E questo sarebbe meglio evitarlo, giusto?» fece Brogio. «Assolutamente. Io non entrerei in quella casa per tutto l’oro del mondo, figuriamoci per un libro.» Brogio rimase un po’ pensieroso, poi dichiarò che forse aveva trovato una soluzione. Sarebbero andati tutti insieme a Val Nebbiosa quando Fastu era al lavoro. Lui sarebbe entrato nella casa a cercare il libro mentre gli amici sarebbero rimasti fuori a controllare che non arrivasse Fastu. «Non mi convince» rispose Luna. «A me sembra comunque troppo pericoloso.» «C’è una cosa che non ho capito» intervenne Tina. «Cos’ha di prezioso quel libro?» «Non lo so di preciso, però mia zia… sì, voglio dire, il fantasma di mia zia, ha detto che è un oggetto magico.» A Tommy sfuggì una risata sommessa. Tina fece una smorfia che lasciava trapelare tutta la sua incredulità. L’unica che sembrava aver preso la cosa sul serio era Luna. «Io non ci credo ai fantasmi. Ma ammettiamo, per un attimo, che i fantasmi esistano e che tua zia ti abbia parlato. Come fai a essere sicuro che Evelina ti ha detto la verità? Magari ha voluto farti uno scherzo. Oppure, forse, nemmeno si
ricorda più di quello che faceva in vita e dei libri che leggeva. Chissà cosa gli a per la testa, a un fantasma.» «Ammetto che la cosa sembra pazzesca. Però, anche se non riesco a spiegarvelo, io sono sicuro che la zia ha detto la verità. Non pretendo che voi mi crediate, però io… insomma, io sento che la storia è vera. Quel libro è prezioso e io voglio recuperarlo.» «Va bene» affermò Tommy grattandosi il sedere. Quando rifletteva, invece di grattarsi la testa, lui si grattava il fondoschiena. «Io ai fantasmi non ci credo, però il libro possiamo andarlo a prendere. Per me si può fare.» «Ammettiamo pure che il libro sia prezioso» replicò Tina. «Come facciamo a prenderlo? Tu lo sai dov’è, adesso?» Brogio non sapeva dov’era il libro, ma gli sembrava logico supporre che Fastu l’avesse portato a casa sua, altrimenti perché si sarebbe preso la briga di recuperarlo in mezzo alla carta straccia? E questo dimostrava anche che quel libro aveva un certo valore: se fosse stato solo un vecchio album per foto Fastu l’avrebbe lasciato dov’era. Quanto e perché quel libro fosse prezioso Brogio non lo sapeva, tuttavia era deciso a entrare in quella casa. Se gli amici lo aiutavano, bene, in caso contrario ci sarebbe andato da solo. «D’accordo» affermò Tina. «Trovo anch’io logico che, se davvero quel libro è prezioso, Fastu l’abbia portato a casa sua. Il problema è sempre lo stesso: come facciamo a prenderlo?» «È un bel casino» disse Luna. «Se le voci che corrono su di lui sono vere…» «E quali sono queste voci?» domandò Tina. «Credete che anche Fastu sia un fantasma?» «No, non un fantasma» rispose Luna. «Si dice che Fastu sia un… sì, ecco… un vampiro.» Alla parola vampiro Tina impallidì. Luna spiegò che c’era più di un motivo per credere che quelle voci fossero vere: nessuno aveva mai visto il suo volto; indossava sempre una sciarpa che gli copriva buona parte del viso; portava occhiali scuri anche di notte; sulla testa aveva sempre un cappello nero a falde larghe e le mani erano sempre avvolte in guanti neri; anche in estate, con
quaranta gradi all’ombra, lui andava in giro coperto dalla testa a piedi; la sua Land Rover aveva i vetri oscurati e lui si spostava raramente a piedi, e mai in bicicletta; la sua casa aveva sempre le imposte chiuse, anche di giorno, e suo padre le aveva detto che, invece di usare le lampadine, per illuminare le stanze Fastu usava delle candele. Ma la prova definitiva della natura vampiresca di Fastu, Luna la fornì tirando fuori dalla tasca un pezzo di carta e mostrandolo agli amici. Sul foglio c’erano scritte quattro parole: Nero Fastu Nosfe Ratu. «Guardate cosa ha scoperto mio padre: l’anagramma del nome completo di Fastu è Nosferatu.» «Nosferatu!» esclamò Brogio. «Cacchio, è vero.» Tina sembrava non aver colto il nesso. «Scusate, volete spiegare anche a me? Cosa c’entra la regina d’Egitto con i vampiri?» «No, guarda, quella semmai era Nefertari» le spiegò Tommy. «Nosferatu è il nome di un vampiro della Transilvania.» «Ho guardato sulla mia enciclopedia» disse Luna. «Il nome, in rumeno, significa “non morto”. I vampiri, infatti, non possono morire. Si spostano da una nazione all’altra e cambiano nome, ma non muoiono.» «Certo che possono morire» precisò Tommy. «Però bisogna usare degli accorgimenti particolari. Ad esempio, si possono uccidere piantandogli un paletto di frassino nel cuore, oppure delle pallottole d’argento, sempre in mezzo al cuore. Muoiono anche col fuoco, con la luce del sole e se gli tagliano la testa.» «E con l’aglio?» azzardò Luna. «No, l’aglio li fa star male, e anche il crocifisso, ma non muoiono.» «E tu vorresti entrare in quella casa?» esclamò Tina guardando Brogio. «Ma tu sei pazzo! Voi fate come vi pare. Io non ci sto.» Per alcuni istanti i ragazzi rimasero in silenzio. Infine fu ancora Luna a parlare. «Un modo per accontentare Brogio senza che lui rischi la pelle, forse c’è.» Nessuno fiatò, ma tutti si voltarono verso di lei.
«Mio padre mi ha detto che domenica prossima Fastu deve andare a Milano. Dovrebbe tornare alla sera, o forse addirittura lunedì. Comunque domenica mattina non ci sarà di sicuro. Potremmo fare il blitz domenica mattina, prima di andare a messa.» Tina disse subito che quella domenica doveva andare a Bologna con i genitori. «Per me va bene» replicò Tommy. «Però ci andiamo presto, perché alle undici devo assolutamente essere in chiesa. Ah, comunque ti avverto che io nella casa di Nosferatu non ci entro. Io faccio il palo.» «Ah, beh, se è per quello, nemmeno io entro in quella casa» dichiarò Luna. «Però suggerisco di parlarne anche con gli altri. Edo e le ragazze forse non verranno, ma sono sicura che Jack viene con noi. E magari entra anche in casa con te.» «No, nella casa ci entro da solo» replicò Brogio. «A me basta che ci sia qualcuno fuori che controlli la situazione. Potremmo usare i miei walkie-talkie. Se arriva qualcuno, mi avvertite e io esco di corsa. Adesso, però, si è fatto tardi e devo rientrare. Facciamo così: se siete d’accordo, domani ci troviamo ancora tutti qui, così racconto la storia anche agli altri. Poi, chi vuole venire domenica, viene, chi non vuole venire, sta a casa.» «Per me va bene» concluse Luna. «Ci troviamo di nuovo qui domani pomeriggio.» Brogio guardò l’amica. Fino a quel momento non aveva mai pensato a Luna come ragazza: anche lui, come Tommy, la considerava il quinto maschio del gruppo. Solo allora realizzò che Luna, invece, era una femmina, magari non bella come Tina, ma comunque carina. Luna dovette accorgersi dell’interesse di Brogio per lei perché all’improvviso arrossì e si allontanò con la scusa di andare a cercare il cane.
4. You are fantastic
La sera del primo settembre, Jack fu il primo ad arrivare a casa di Luna e Tommy. Appoggiò la bicicletta contro il muro della casa e raggiunse gli amici in giardino. Giacomo Scala, detto Jack, era figlio di Antenore, il barbiere di L’Olanda, e di Livia Marchetti, di professione sarta. Il paesino ferrarese non aveva moderni saloni da coiffeur, ma solo un negozietto da barbiere. La parrucchiera più vicina stava invece a Berra. Antenore, ormai cinquantenne, avrebbe voluto che il figlio un giorno gli subentrasse, e ogni tanto, soprattutto in estate, costringeva Jack ad andare in negozio per imparare il mestiere. Jack studiava da elettricista in un istituto professionale nei pressi di Copparo e aiutava volentieri il padre facendo qualche riparazione nel negozio e spazzando il locale, però agli amici aveva confessato che lui da grande non avrebbe voluto fare l’elettricista e nemmeno il barbiere: lui aveva altri progetti in testa. Di progetti in testa Jack ne aveva parecchi, di capelli, invece, nemmeno uno. A causa di una malattia rara e dal nome altisonante, alopecia universalis, Jack aveva perso tutti i capelli e tutti i peli del corpo all’età di sei anni. A parte quel difetto, spiacevole ma del tutto innocuo, Jack era un ragazzo normale: altezza nella media, figura longilinea, occhi scuri e sguardo magnetico, testa ovale ben delineata e affiancata da grandi orecchie leggermente a punta. Rammentava Yul Brynner da giovane e piaceva molto alle ragazze. Forse perché aveva contratto la malattia quando era ancora un bambino, Jack aveva reagito bene e non aveva mai mostrato segni di insofferenza. Probabilmente, se la malattia fosse comparsa più tardi, si sarebbe sentito infelice, invece aveva accettato la sua condizione con grande serenità. Anzi, per dirla tutta, lui andava quasi orgoglioso della sua alopecia e non mostrava alcun imbarazzo a mostrare la cute glabra, e non si vergognava nemmeno quando, per qualche ragione particolare, doveva mostrarsi nudo agli estranei. Quando andava in piscina, per esempio, mentre gli altri si spogliavano sempre con un certo pudore e nascondevano le parti intime con l’asciugamano, lui si denudava senza
problemi e andava in giro completamente nudo a parlare con Tizio e con Caio. Questa sua totale mancanza di inibizioni a mostrarsi nudo valeva anche nei confronti del gentil sesso. Sembrava che il fatto di non avere peli sul corpo gli conferisse una speciale licenza e che la sua nudità fosse diversa da quella degli altri: nella sua mente, la mancanza di peli lo rendeva simile a un neonato e perciò libero di mostrarsi a tutti come mamma l’aveva fatto. Un giorno Tina era andata a casa di Jack, insieme alla madre Stella, per far allargare una gonna da Livia. Jack stava facendo la doccia al piano di sopra. Livia aveva chiamato il figlio e gli aveva chiesto se avesse già finito; lui aveva risposto di sì e allora la mamma lo aveva pregato di portare giù il metro di tela che era in camera da letto. Jack era andato a prendere il metro e lo aveva portato a sua madre. Jack aveva finito di fare la doccia, ma non si era ancora vestito, e quando era sceso a piano terra l’unica cosa che indossava era il metro di tela della mamma: se l’era avvolto attorno al collo a mo’ di sciarpa. Stella aveva spalancato la bocca e strabuzzato gli occhi, mentre Tina, che l’aveva già visto nudo, si era limitata a sorridere e ad ammirare il suo pisellone. Forse per una sorta di compensazione alla totale mancanza di peli, la natura lo aveva fornito di un organo sessuale insolitamente grande. A guardarlo dall’ombelico in giù, Jack non pareva un ragazzo di quindici anni, ma un adulto particolarmente dotato. Livia aveva rimproverato il figlio senza particolare enfasi e lui, dopo aver salutato Tina e Stella, aveva allungato il metro alla mamma ed era tornato su dicendo che, se non andavano di fretta, sarebbe tornato di sotto dopo essersi vestito. L’ambizione più grande di Jack era diventare musicista. Lui era un vero fanatico della musica, in particolare del rock, e insieme a Esmeralda, un’amica poco più grande di lui, aveva creato un duo musicale dal titolo significativo: Adamo ed Eva. Lui suonava la chitarra e lei cantava. In genere si esibivano alle feste con gli amici, ma un paio di volte erano stati chiamati dal presidente della Pro Loco per dare un tocco di originalità alla festa del patrono. Come artisti erano piuttosto bravi, ma la cosa che piaceva di più al pubblico era il loro costume di scena: una tuta color carne con una foglia di fico disegnata sull’inguine. Jack era un gran mattacchione e una volta, durante un concerto, decise di fare uno scherzo al pubblico. La Pro Loco aveva organizzato una serata danzante sotto le stelle e innalzato un palco di legno nella piazza davanti alla chiesa. Esmeralda aveva indossato il costume di scena, Jack si era presentato sul palco completamente nudo. Essendo coperto dalla chitarra, e totalmente privo di
peli, nessuno all’inizio si era accorto della sua nudità. Quando l’esibizione finì, il pubblico applaudì con calore. A titolo di ringraziamento i due artisti fecero l’inchino, ma subito prima di andarsene Jack alzò le braccia e tutti videro che era nudo. Seduti in prima fila c’erano il parroco di L’Olanda e tutti i personaggi più in vista del paese – il farmacista, il veterinario, il medico condotto, il direttore della filiale della banca, il presidente della Pro Loco e il comandante della stazione dei Carabinieri – con le relative consorti. Alla vista del pendaglio di Jack molte donne sbiancarono in volto e alcune si coprirono gli occhi con le mani. La moglie del farmacista svenne. Quella del direttore della banca, invece, si alzò in piedi e si avvicinò per controllare meglio, poi si voltò verso un’amica e gridò: «Zaira, non è finto. Oh, San Maurelio! Ce l’avesse mio marito un bigolo così…» Alla fine il parroco corse sul palco, si piazzò davanti al ragazzo e allargò la tonaca. Sporgendosi oltre la veste nera, Jack fece un ultimo inchino e corse via, seguito a ruota da Esmeralda che non riusciva a smettere di ridere.
Brogio arrivò cinque minuti dopo Jack insieme a Tina. «Allora, Brogio? Cos’è questa storia di Fastu?» domandò Jack. «Luna mi ha appena raccontato che ieri sera l’hai inseguito. È dura inseguire una Land Rover con una bicicletta.» «Se avessi avuto la tua, non ci avrei nemmeno provato» scherzò Brogio lasciando cadere la bici sul prato. «Comunque, aspettiamo ancora un po’. Appena arrivano gli altri, vi racconto.» «Ecco Gegia» esclamò Luna. Francisca Luiz Serrano, “la spagnola”, non era una ragazza bellissima, ma aveva molto charme. Gli amici la chiamavano Gegia, e qualche volta Topa Gigia, ma mai in sua presenza perché lei si incazzava come una iena. Aveva un viso carino, un naso aquilino, uno sguardo intelligente e due stupendi occhi verdi. I capelli erano lunghi e neri, ma lei si ostinava a tenerli sempre raccolti in uno chignon, come Audrey Hepburn nel film Colazione da Tiffany. E quando lei, per gioco,
faceva finta di fumare una sigaretta infilata in un lungo bocchino, la somiglianza con la celebre attrice era straordinaria. Gegia era nata a Malaga, in Spagna, e suo padre, Manuel Vega Serrano, era stato un grande ballerino di flamenco. Frequentava il Liceo Scientifico di Codigoro – era in classe con Edo e Ceci – ma aveva una ione sfrenata per la danza e nel tempo libero studiava danza moderna. Lei sapeva ballare tutto: tango argentino, valzer, mazurka, salsa, merengue, boogie-woogie e, naturalmente, il flamenco; mettendoci un po’ d’impegno riusciva a ballare anche il rock and roll acrobatico. Quando gli amici organizzavano una festa c’era sempre qualcuno che le chiedeva di ballare. Lei acconsentiva volentieri, ma alla fine ballava solo lei. Il problema era che a Gegia non piacevano quei balli moderni da discoteca dove, invece di ballare, ci si limita ad ancheggiare, saltellare e muovere le braccia più o meno a tempo di musica; così finiva sempre che, mentre il partner di turno stava quasi fermo, lei gli piroettava intorno a o di boogie o rock and roll. Solo una volta Gegia trovò un ragazzo abile quanto lei. Una sera di giugno nella piazza del paese venne organizzata una grande festa con musica dal vivo e balli. Gli olandesi avevano fatto le cose in grande e avevano invitato la famosa orchestra Il Mulino del Po. La piazza era gremita di gente e c’erano perfino quattro giovani avieri statunitensi provenienti da una base americana del Veneto. Interrogati dai vigili urbani, i militari non vollero specificare la loro provenienza e dissero solo di essere in licenza. Per un po’ se ne andarono a zonzo senza una meta precisa, chiacchierando fra loro e bevendo birra, poi si sedettero nella piazza dove si esibiva l’orchestra. Poiché non davano fastidio a nessuno e se ne stavano per conto loro ascoltando la musica e guardando gli altri ballare, dopo un po’ la gente smise di osservarli. Tutti tranne Gegia: lei fu subito colpita dall’avvenenza dei quattro e di uno di loro in particolare. Dopo aver suonato un po’ di liscio, l’orchestra attaccò un frenetico boogie-woogie, forse in omaggio ai militari americani. Vedendo che nessuno dei presenti era intenzionato a esibirsi in un ballo tanto difficile, i quattro salirono sulla pedana allestita davanti all’orchestra e si misero a ballare in coppia fra loro. Gegia non riuscì a resistere: si avvicinò alla pedana e iniziò a muovere le mani e i piedi seguendo il ritmo della musica. Uno dei quattro americani – proprio quello che piaceva a Gegia – si accorse di lei, smise di ballare con il compagno e
le fece segno di unirsi a lui. Gegia divenne rossa e fece un ampio gesto con le mani per dire che non voleva ballare. Ma quello che dicevano le mani era in netto contrasto con quello che dicevano i suoi occhi e il suo sorriso. Il soldato lo capì, andò verso di lei, le prese una mano e, con gentilezza, la tirò verso la pedana. Inizialmente lei si irrigidì e oppose resistenza, ma si arrese subito, per paura che qualcuno dei presenti interpretasse male le intenzioni del militare, e si lasciò condurre sulla pista. Dopo un po’ gli altri tre militari si fermarono e scesero dal palco, lasciando la scena tutta per il commilitone e la sua compagna di ballo. Totalmente presa dalla musica e dagli occhi scintillanti del bellissimo yankee, Gegia non si era accorta di essere al centro dell’attenzione. Continuò a ballare, dimentica di tutto, per un buon quarto d’ora. L’orchestra suonò anche un rock and roll e lei si lasciò trascinare e sollevare dalle abili braccia del ballerino. Quando il ballo finì, i ragazzi della Banda Bassetti le corsero incontro, la sollevarono di peso e la portarono in trionfo lungo le vie del paese. Gegia fece di tutto per liberarsi, ma ci riuscì solo dopo diversi minuti. Appena messi i piedi a terra, tornò di corsa verso il palco. L’orchestra stava suonando una mazurka e la gente era tornata in pista a ballare. Dei militari americani nessuna traccia: svaniti come i sogni quando ti svegli al lunedì mattina per andare a scuola. Nessuno aveva visto dove fossero andati e nessuno sapeva da dove fossero venuti. Alla fine, l’unica cosa che Gegia riuscì a conservare di quell’incontro fu una frase che il bell’americano le aveva sussurrato all’orecchio mentre ballavano: «You are fantastic!»
Gegia appoggiò la bicicletta sopra a quella di Jack e si unì agli amici sotto la quercia. «Hola, chicos. Edo e Ceci hanno detto che oggi non possono venire. Ceci deve andare a Codigoro a comprare non so cosa e Edo l’accompagna.» «E ti pareva!» brontolò Brogio. «Da quando stanno insieme, quei due sono sempre uccel di bosco.» «Hai detto bene» scherzò Jack. «Lui è l’uccello e lei il bosco.»
«E che bosco!» gongolò Tommy. «E tu che ne sai?» fece Luna. «Lo so, lo so. Non preoccuparti, che lo so.» «Ragazzi, ho proprio un fratello scemo!» «Allora, Brogio, perché ci hai fatto venire qui?» domandò Gegia mentre si sedeva accanto a Jack. «Vi ricordate che vi avevo parlato dei libri di mia zia? Quelli erotici, voglio dire?» «Brrr! I libri proibiti di zia Evelina!» esclamò Tina mentre faceva il gesto di coprirsi gli occhi con le mani. «No, io non mi ricordo» dichiarò Jack. «Che libri sarebbero?» «Ma… sono solo romanzi o anche fotoromanzi?» domandò maliziosamente Tommy. «Non so se mi spiego.» «Sei il solito depravato» sibilò Luna. «No, solo romanzi» rispose Brogio. «Ma non è questo il punto.» «E allora qual è il punto?» fece Gegia. «Vuoi arrivarci, al punto, per favore?» Brogio raccontò tutti gli avvenimenti dei giorni precedenti: l’esplorazione in soffitta, il ritrovamento del libro della zia, la corsa in bicicletta fino alla cartiera, gli strani operai che lavoravano nella parte vecchia dello stabilimento, Fastu che andava via in macchina portando con sé il libro e le apparizioni di zia Evelina. Al termine del racconto, Jack e Gegia furono messi al corrente della progettata incursione a Val Nebbiosa. Il primo a rispondere fu Jack: «Mia mamma dice sempre: “da lontano, una pecora sembra un cane”. Per me, le voci su Fastu sono tutte stronzate. Io non avrei il minimo problema a venire con te nella casa delle mele acerbe. Anzi, sarei proprio curioso di vederla dentro, quella casa. Però domenica non posso proprio. È l’ultimo giorno della sagra del riso e il sindaco di Jolanda ci ha
chiesto di cantare. Viene anche Gegia con noi. Lei si esibisce come ballerina. E domenica mattina abbiamo le prove.» «Confermo» disse Gegia. «Domenica è impossibile. Magari un altro giorno. Comunque nemmeno io credo che Fastu sia un vampiro. Per me, è solo una gran fesseria.» «Okay, raga. Nessun problema. Andremo io, Luna e Tommy». «Poca brigata, vita beata» commentò Tommy. «Comunque dobbiamo chiedere ancora a Edo e alla Ceci.» «Mah! Su quei due non ci conterei troppo» replicò Brogio alzandosi in piedi e andando verso la bicicletta. «Lui ha paura anche della sua ombra e lei… beh, lo sapete com’è lei, no? Sono sicuro che non verrà, ma non per paura dei vampiri. Sarebbe terrorizzata all’idea di impolverarsi le scarpe e di ritrovarsi la testa piena di ragnatele. Beh, raga, adesso devo proprio andare. Devo are dal droghiere a fare un po’ di spesa. Se domani venite a casa mia, andiamo nel rifugio e vi mostro un gioco nuovo che mi ha prestato mio zio Olimpio. Un gioco arcistrafigo.» «Cioè, che gioco?» domandò Jack. «È una sorpresa. Gegia, per favore, dillo anche a Edo e Ceci. Sono sicuro che il gioco piacerà anche a loro. Soprattutto a Edo. Allora vi aspetto domani alle cinque.» Con un ultimo gesto di saluto, Brogio inforcò la bicicletta e corse via, lungo la strada che costeggiava l’argine del Po diretto al paese dei camli.
5. Sbirciando dal buco della serratura
2 settembre 1977, venerdì. Luna e Tommy arrivarono a casa di Brogio alle cinque in punto, appoggiarono le bici contro il muro del magazzino e andarono verso il salice piangente sotto al quale stava seduto Brogio. Fino a pochi giorni prima Brogio non si era accorto di quanto Luna fosse carina. Certo, Tina era più bella, ma Luna non era affatto un maschiaccio, tutt’altro. «Ciao, Brogio» disse Tommy sedendosi accanto a lui sul prato. «Siamo i primi?» «Ciao, raga» rispose Brogio senza smettere di guardare Luna. «Sì, siete voi i primi. Ma gli altri stanno arrivando. Mi ha appena chiamato Jack. Lui e Tina vengono insieme. E Gegia arriva fra dieci minuti con Edo e la Cecilia.» «E allora, cos’è questo nuovo gioco?» domandò Tommy appoggiandosi al tronco dell’albero. «È un gioco… no, aspettiamo anche gli altri. Non voglio ripetere le stesse cose tre volte.» Tommy non replicò e iniziò a giocherellare con un ramo di salice. «Ecco Jack e Tina» esclamò Luna alzandosi in piedi e andando verso il cancello della casa colonica. I due sfrecciarono sul vialetto pedalando come pazzi furiosi. Il ghiaietto del cortile scricchiolò sotto le ruote delle biciclette e alcuni sassolini vennero lanciati sul prato e contro l’albero. Un sassolino saettò pericolosamente vicino all’orecchio di Tommy e andò a sbattere sul tronco dietro di lui. «Vigliacchi! Un centimetro più in qua e perdevo un occhio.» «Primo! Paghi penitenza» urlò Jack frenando la sua bicicletta e arrestando la ruota anteriore a due centimetri dal ginocchio di Brogio. Lui non si scompose e si spostò appena un po’ più indietro. «Ma neanche per sogno!» protestò Tina fermandosi in mezzo al prato e lasciando
cadere a terra la bicicletta. «Sei partito dal Ponte del Diavolo che non ero ancora montata in sella.» «Però mi sono fermato al bivio del cimitero ad aspettarti.» «Ma sei ripartito che ero ancora a dieci metri…» «Erano sì e no cinque metri. E tu eri in velocità mentre io sono ripartito da fermo.» Brogio si intromise nella discussione un attimo prima che Tina replicasse. «Okay, adesso basta, voi due. La gara non è valida. Lo sapete che le gare si fanno solo in presenza di testimoni e seguendo le regole. «Infatti non era una gara» precisò Tina. «Però la penitenza la paghi lo stesso» sentenziò Jack. L’amica non replicò a parole, ma il gesto che fece con la mano destra sbattuta sulla parte interna del gomito sinistro e la pernacchietta con cui accompagnò il gesto erano più che eloquenti. Jack appoggiò la sua bicicletta contro il muro del magazzino e andò a sedersi sul prato vicino a Brogio. «Quante storie!» esclamò Jack. «Se voglio, ti batto anche con le mani legate dietro la schiena.» «Tu puoi battermi solo se parti dieci metri davanti» ribatté lei. «Adesso basta, però» s’intromise Tommy. «Senti, Brogio, a proposito di penitenze… e quel gioco famoso?» «Uffa, ma sei proprio impaziente! E va bene. Dopo, però, lo spieghi tu agli altri. Mio zio mi ha prestato un gioco della bottiglia in versione… sì, insomma, è una versione modificata.» «In che senso modificata?» domandò Tina. «Nel senso che, invece di fare le solite penitenze, tipo baciare o cose del genere, ci sono delle prove da superare.»
«Prove di che tipo, scusa?» si intromise Luna. «Sono prove scritte su delle schede…» «Dai, non fati pregare» lo esortò Tommy. «Okay. Io, comunque, non lo ripeto più. Ci sono vari tipi di prove e… sì, insomma, alcune sono piuttosto spinte.» Tina sembrava non aver ancora afferrato il concetto, ma Luna aveva capito benissimo. «Stai dicendo che quello di tuo zio è un gioco della bottiglia per adulti?» «Beh, sì, però…» «Grande!» esultò Jack. A parte la totale assenza di peli e la mancanza di pudore nel mostrarsi nudo, Jack era un ragazzo del tutto normale: gli piacevano le ragazze e le donne nude lo eccitavano molto. «Andiamo nel rifugio?» «Se gli altri sono d’accordo…» «Io sono assolutamente d’accordo» dichiarò Tommy già con la bava alla bocca. «Purché non si esageri…» disse Luna. «Io non partecipo ai vostri giochi da adulti» affermò Tina stizzita. «Ma le prove non sono troppo spinte» puntualizzò Brogio. «Al massimo… ci si deve spogliare.» «Io non mi spoglio davanti a delle lumache bavose» replicò Tina guardando Tommy. «Ma, esattamente, quali sarebbero queste prove da superare?» domandò Jack. «Puoi farci qualche esempio?» «Beh, per esempio, c’è la prova detta “La ciliegina sulla torta”. Servono delle ciliegie candite e della panna montata. Ci si deve spogliare dalla cintola in su. Lui spruzza della panna montata sulle tette di lei e ci mette sopra due ciliegine. Lei fa lo stesso sul petto di lui. Poi i due devono mangiare la panna e le ciliegine
senza usare le mani. Uno alla volta, naturalmente.» Nessuno degli amici disse niente, ma le loro espressioni erano più che eloquenti: Tina era esterrefatta, Jack e Tommy avevano gli occhi che brillavano, Luna si limitò a sorridere e fare no con la testa. La prima a rompere il silenzio fu proprio Luna: «Io direi che, prima di decidere, ne parliamo con gli altri e sentiamo cosa ne pensano.» «Io ho già deciso» dichiarò Tina. «A quel gioco ci giocate voi e io vi guardo.» «Brava furba» fece Tommy. «Io mi metto nudo e tu mi guardi. No, carina. O ci spogliamo insieme o nisba.» «Io la penso come Luna» disse Brogio. «Aspettiamo a decidere. E poi, volendo, le prove si possono sempre adattare. Se una prova ci sembra troppo spinta, la modifichiamo e la rendiamo più… digeribile.» «Giusto» eclamò Jack. «Invece della panna e delle ciliegine, sul petto di Tina ci mettiamo due crème caramel.» «Così può far finta di avere le tette anche lei» concluse Tommy. Il commento di Tina: «Stronzi!»
Annunciati da un assordante scamlio gli ultimi tre amici del gruppo – Gegia, Edo e Ceci – fecero il loro trionfale ingresso attraverso il cancello del podere. I tre appoggiarono le bici contro il muro del magazzino e andarono a sedersi sul prato accanto agli altri. «Allora, questa storia del gioco fighissimo è una cosa seria o è un’altra delle tue invenzioni per farci venire qui a giocare alle penitenze?» esordì Gegia rivolgendosi a Brogio. «L’una e l’altra cosa» rispose lui. «No, spiegati meglio» intervenne Ceci mettendosi davanti a Brogio a braccia conserte e guardandolo dall’alto in basso. «Io avevo capito che questa era una
riunione importante, cioè che dovevamo recuperare un oggetto prezioso… o qualcosa del genere. E adesso tu mi dici che siamo venuti qui per giocare alle penitenze. Se lo sapevo… Avevo un sacco di cose da fare a casa.» Cecilia, detta Ceci – oppure La Rossa per via dei capelli color carota – era la figlia del veterinario di L’Olanda, Danilo Boniver. Come tutti i giovani della sua età, anche Ceci amava gli animali, ma seguire le orme del padre non era la sua massima aspirazione. Il sogno segreto di Ceci – non tanto segreto, in verità – era diventare attrice. Cecilia era una ragazza con i piedi per terra e perfettamente consapevole che, prima di arrivare a calcare le scene del cinema, avrebbe dovuto fare un po’ di gavetta. L’idea di iscriversi a qualche scuola di recitazione dopo le superiori non la sfiorava nemmeno, un po’ perché immaginava quelle scuole molto faticose e un po’ perché riteneva che, affidandosi solo allo studio, al massimo avrebbe potuto darsi al teatro. Per Ceci le doti richieste per approdare nel mondo del cinema erano altezza, bellezza, sfrontatezza e spregiudicatezza, e lei era convinta di possedere già una buona parte di quelle doti. Con il suo metro e settandue, Ceci era la più alta delle femmine. I capelli rosso naturale, gli occhi color nocciola, un viso ovale ben proporzionato, un po’ di lentiggini sul naso e sulle guance e due deliziose fossette sotto gli zigomi facevano di lei la vamp del gruppo, e quando si lavava i capelli e si dava un po’ di lacca diventava tale e quale a Milva. Era una ragazza decisa e per nulla timida e se un ragazzo le piaceva sapeva farglielo capire chiaramente. Pur ancora quindicenne, Ceci aveva già avuto tre fidanzatini, ed era stata sempre lei a lasciare loro, senza ripensamenti né rimpianti. Non aveva mai fatto sesso con nessuno, ma solo perché fino ad allora non si era mai presentata una vera occasione. Ceci non aveva paura di fare sesso, ma nemmeno aveva fretta di sperimentarlo. Era sicura che, quando ne fosse valsa la pena, non avrebbe avuto titubanze e si sarebbe concessa al suo uomo senza problemi. Anzi, considerata la generale imbranataggine dei suoi coetanei, probabilmente sarebbe stata lei a fare il primo o. «Ceci, siediti, per favore» la esortò Brogio in tono serio. «Non vi ho fatti venire qui solo per giocare, ma per una cosa davvero importante. Dopo andiamo nel rifugio e racconto anche a voi quello che mi è successo martedì sera. Ciò non toglie che, dopo aver parlato di cose serie, se rimane un po’ di tempo possiamo anche giocare. Mi pareva che anche a te pie il gioco delle penitenze, o no?»
Prima che Ceci potesse rispondere, Tommy si intromise nella discussione. «Altro che penitenze! Brogio si è procurato un gioco strafigo, una vera porcata.» «Una vera porcata? Cioè, che gioco sarebbe?» «Ma niente» rispose Brogio. «Il gioco è come quello della bottiglia, solo che i due di turno devono superare delle prove…» «Sì, prove per adulti sporcaccioni» intervenne Tina. «E tu vorresti farci giocare a un gioco per adulti sporcaccioni?» esclamò Gegia che fino a quel momento era rimasta in silenzio. «Tu sei pazzo!» «E quali sarebbero le prove da superare?» domandò Edo in piedi accanto a Ceci. «Tu è meglio che ti metti buono e stai chieto» lo zittì Ceci. «Tanto a questo gioco noi non ci giochiamo.» «Perché no?» piagnucolò Edo. Edoardo Spina, detto Edo, era il figlio unico di Giuseppe, fotografo del paese. Tutti i servizi fotografici di L’Olanda e dintorni – dai battesimi ai matrimoni, dalle feste del patrono alle sganzeghe, dalle nascite dei vitelli alla macellazione dei maiali – erano immortalati da Giuseppe Spina. Poiché era prevedibile che un giorno Edo avrebbe ereditato la gestione del laboratorio fotografico, Giuseppe aveva preteso che anche il figlio cominciasse a far pratica con la macchina fotografica. Edo non solo aveva fatto pratica, ma in poco meno di un anno era diventato talmente bravo che il padre, oberato di lavoro, durante la Pasqua lo aveva mandato in parrocchia da Don Giacinto a fare un paio di servizi fotografici. Nella banda, Edo era il più basso fra i maschi e almeno quindici centimetri più basso di Ceci. Aveva i capelli castano chiaro, un po’ mossi e perennemente arruffati, gli occhi erano di colore marrone, non particolarmente belli, ma sempre vivi e guardinghi, e quando sorrideva assomigliava vagamente a Johnny Dorelli. Ma lui non sorrideva spesso: era un tipo intelligente e curioso, ma schivo e molto distratto, almeno in apparenza. Sembrava sempre che avesse la testa fra le nuvole, in realtà la sua mente era costantemente vigile e pronta. Quando parlava con qualcuno, dava l’impressione che non lo stesse nemmeno ad ascoltare. L’altro parlava e lui guardava un aereo che volava ad alta quota oppure salutava
un amico che ava in bicicletta oppure ascoltava distrattamente la radio. Ma appena l’interlocutore smetteva di parlare, lui tornava a guardarlo negli occhi e rispondeva alle sue domande o ribatteva punto per punto alle sue affermazioni o lamentava qualche sua inesattezza. Sembrava altrove e invece era sempre presente, pienamente consapevole di ciò che gli accadeva intorno. Fisicamente era tutt’altro che attraente, ma la sua mente acuta lo rendeva un tipo interessante; Edo parlava poco, ma leggeva molto ed era sempre informato su tutto e in grado di sostenere una discussione con chiunque sui più disparati argomenti. «Comunque, il gioco non prevede sesso» dichiarò Brogio. «Al massimo… uno spogliarello o cose così.» Jack e Tommy emisero grida e ululati di approvazione. Gegia e Tina ribadirono la loro ferma contrarietà con frasi del tipo “ma voi siete tutti pazzi!” o “io di sicuro non mi spoglio!”. Ceci andò a prendere la bicicletta e fece per andarsene, ma poco prima di arrivare al cancello ci ripensò e tornò indietro, rimanendo però seduta sulla sella. Luna continuò a sorridere e a scuotere la testa. «Allora, posso andare a casa?» fece Ceci. «No, aspetta. Prima devo raccontare a te e a Edo la storia del libro di zia Evelina.» «Okay, allora andiamo nel rifugio?» ribatté lei tornando ad appoggiare la bicicletta al muro del magazzino. «Ma no, per quello possiamo rimanere anche qui. Nel rifugio ci andiamo un’altra volta.» «E perché aspettare?» disse Jack. «Andiamoci lo stesso nel rifugio.» «Nude! Nude!» esclamò Tommy. Gegia gli fece il segno dell’ombrello, Ceci gli rivolse un’occhiataccia, Tina fece una pernacchia particolarmente rumorosa e Luna lo prese sotto braccio e gli diede un pugno nello stomaco. Tommy non fece una grinza. «Brogio, tu vai a prendere il gioco» disse Jack. «La storia del libro la racconto io
alla Rossa e a Edo.» «Ma le ragazze non ci vogliono giocare.» «A convincere le donne ci pensiamo noi» dichiarò Tommy mentre fuggiva dalla sorella che cercava di dargli un pugno in testa. «Sì, tu vai in casa a prendere il gioco» concluse Jack. «Intanto io parlo con i due fidanzatini.» Edo e Ceci stavano insieme da circa un mese. Chi non conosceva Cecilia avrebbe potuto pensare che lei, nonostante la scarsa avvenenza dell’amico, avesse scelto Edo come filarino per la sua mente brillante. Ma i ragazzi della banda la conoscevano bene e sapevano che a lei non interessava un fico secco di cultura e menti brillanti. Ma Edo, proprio in virtù della sua intelligenza, poteva essere molto utile a Ceci. Per raggiungere la meta che si era prefissa, un intelligentone come Edo, esperto di fotografia e discreto conoscitore della lingua inglese, le sarebbe stato di grande aiuto nel momento in cui le fosse stato chiesto di compilare questionari, presentare book fotografici e partecipare a casting. Ma c’era anche un altro motivo per cui Ceci aveva accettato la corte di Edo – in realtà i ragazzi sospettavano che fosse stata lei a sedurre lui – e cioè la grande timidezza del ragazzo e la sua propensione alla sottomissione. Fino a un mese prima, lui non aveva mai tentato avances e lei non aveva mai dato segni di particolare interesse nei suoi confronti. Pur frequentando la stessa classe, non studiavano insieme, non uscivano da soli e alle feste lei non accettava quasi mai di ballare con lui. E quando accadeva che dovevano baciarsi, ad esempio nel gioco della bottiglia, lei lo baciava sempre in modo frettoloso, mostrando quasi un leggero fastidio. Di punto in bianco e con grande meraviglia di tutti, all’inizio di agosto le cose erano cambiate. Luna e Tina li avevano visti una sera camminare lungo l’argine del Po, poco lontani dalla casa di Edo, mano nella mano. Le due amiche stavano per raggiungerli quando avevano visto la coppia che si fermava e lei che prendeva fra le mani la testa di lui e gli dava un bacio sulla bocca. Luna e Tina si erano guardate stupefatte ed erano scoppiate a ridere. Dopodiché avevano deciso che, per quella sera, era meglio non disturbare i due piccioncini. Nelle settimane seguenti i due erano stati oggetto di continui interrogatori, ma sembrava che Edo e Ceci si fossero messi d’accordo per fornire una versione
univoca e volutamente annacquata della vicenda. In verità era sempre lei che parlava, lui ascoltava e annuiva. Ad ogni modo, avevano raccontato che lui le aveva fatto capire che lei gli piaceva e lei aveva detto che la cosa era reciproca. Poi lui, quella sera sul Po, aveva provato a baciarla e lei lo aveva lasciato fare. Alla contestazione di Luna e Tina che a loro era sembrato esattamente il contrario, Ceci aveva risposto che sicuramente avevano visto male, probabilmente a causa del buio. Alla replica delle due ragazze che la sera era appena iniziata e c’era ancora moltissima luce, Ceci aveva ribattuto che loro erano troppo lontane per poter vedere bene e che le cose erano andate esattamente come aveva detto lei. Per dirla tutta, oltre al fatto che lui poteva esserle utile nella carriera, Ceci si era messa insieme a Edo proprio a causa dei loro caratteri opposti. Lei era una dominatrice, una ragazza forte e decisionista, teutonica e possessiva, bella e volitiva, con una netta inclinazione al sadismo. Edo era timido e introverso, intelligente e sensibile, carino ma un po’ efebico e con una certa predisposizione al masochismo. Insomma, i due erano complementari uno all’altra, come la vittima e il carnefice.
I ragazzi della Banda Bassetti si incontravano a casa di Brogio almeno una volta alla settimana. Quando il tempo era bello si sedevano sul prato all’ombra del salice piangente, se il tempo era brutto, oppure quando volevano giocare senza essere disturbati, andavano nel rifugio segreto. Le riunioni settimanali servivano per discutere di cose che loro ritenevano importanti, come ad esempio organizzare le escursioni in bicicletta o decidere come trascorrere la domenica, ma il più delle volte gli incontri erano un modo per stare insieme e giocare lontano da sguardi indiscreti. Erano molti i giochi che i ragazzi facevano nel rifugio segreto: Monopoli, Cluedo, Scarabeo, Dama Cinese, Tombola. Brogio aveva una ventina di giochi di società in camera sua. Uno dei più gettonati era il Risiko che piaceva tanto alle femmine quanto ai maschi. Luna, in particolare, era un’ottima stratega militare. Ma il gioco a cui i ragazzi tenevano di più, e al quale si dedicavano con più frequenza, era il gioco della bottiglia. Le regole sono molto semplici: ci si mette seduti in circolo e si fa ruotare una bottiglia messa in orizzontale; la persona che viene indicata dalla bottiglia deve baciare colui o colei che l’ha lanciata. In genere si usa accoppiare un maschio con una femmina, ma questa non è una
regola tassativa. I ragazzi della banda avevano apportato una modifica al gioco classico: i due di turno non dovevano semplicemente baciarsi, ma sottoporsi a una penitenza stabilita dagli altri partecipanti. Le penitenze consistevano, per lo più, in carezze superficiali o sberle leggere oppure in azioni più impegnative, tipo scambiarsi le scarpe e camminare dentro al rifugio, sculacciarsi a vicenda, farsi legare dagli amici uno contro l’altro e cose del genere. Una volta Brogio aveva inventato una penitenza molto particolare: la coppia doveva andare nel pollaio, rubare un paio di uova e berle crude; se nel pollaio non c’erano uova, la penitenza era condonata. Col are del tempo i ragazzi avevano immaginato penitenze sempre più audaci ed era stato grazie al gioco della bottiglia modificato che Brogio aveva baciato Tina con la lingua.
Il fatto accadde un pomeriggio di maggio. La bottiglia fatta girare da Brogio si era fermata su Tina. Dopo essersi consultata con gli altri, Luna aveva emesso il verdetto: «Dovete darvi un bacio alla se». Lì per lì Brogio non capì il significato della frase e non fece una grinza, ma poi, guardando Tina, si accorse che l’amica lo stava fissando con uno sguardo malizioso e le labbra strette in una strana smorfia. Di colpo realizzò e divenne rosso come un peperone. «Tina, se tu non vuoi… possiamo cambiare penitenza» balbettò. «Vero, raga, che possiamo cambiare?» Ma i ragazzi, dopo una sonora sghignazzata, cominciarono a gridare in coro: «Bacio, bacio, bacio…» «Dì la verità: sei tu che non vuoi» replicò Tina. «Te la stai facendo sotto.» «No, è solo che…» farfugliò Brogio. «O forse ti fa schifo baciarmi? Se ti fa schifo, posso fare la penitenza con un altro. Chi prende il posto di Brogio?»
La risposta degli altri tre maschietti fu unanime: «Io, io, io…» Cercando di mostrarsi calmo, anche se la cosa era tutt’altro che facile, Brogio dichiarò: «No, no. Sono io che devo fare la penitenza, non voi.» Dopodiché si alzò in piedi e si avvicinò a Tina. Prima di allora non aveva mai baciato una ragazza con la lingua e non sapeva da che parte cominciare. Tina, invece, sembrava sapere il fatto suo: la “santarellina” accostò il suo viso contro quello di Brogio, gli prese la testa fra le mani e premette le labbra contro quelle dell’amico. A Brogio era già capitato di baciare una ragazza sulle labbra, ma erano sempre stati baci superficiali, a labbra chiuse, quella era la prima volta che baciava una donna sul serio. Intuendo che fra loro due era Tina la più esperta, Brogio chiuse gli occhi e lasciò che fosse lei a condurre il gioco. Per qualche istante Tina si limitò a strofinare le labbra sulle sue, poi cominciò a spingere la lingua per entrare. Le labbra di Brogio, tremanti più per la paura di fare una figuraccia che per l’eccitazione, rimasero serrate. Lei spinse con più forza, lui resistette ancora qualche secondo, ma alla fine si arrese e allargò un poco le labbra. La lingua di Tina guizzò dentro. Brogio avvertì una specie di scossa attraversarlo da capo a piedi, poi un’ondata di calore gli scese fino allo stomaco, e anche un po’ più giù, le orecchie cominciarono a ronzare, le gambe divennero molli e dovette fare uno sforzo per reggersi in piedi. La lingua di Tina si intrufolò sempre più in profondità; quella di Brogio, inerme di fronte all’irruenza, quasi violenta, dell’intrusa, venne spinta verso il palato, poi spostata da una parte all’altra della bocca e infine risucchiata dalle labbra vogliose dell’amica. Brogio teneva gli occhi chiusi e la bocca spalancata. La saliva, abbondante e mescolata a quella di Tina, gli colò lungo il mento e gocciolò sul pavimento. Quando Tina, dopo circa un minuto, si staccò, Tommy prese un fazzoletto di carta e, ridacchiando, lo appoggiò sulla bocca dell’amico per fermare l’emorragia di saliva. Brogio rimase inebriato da quell’esperienza e, allo stesso tempo, sbalordito: non avrebbe mai pensato che Gelatina fosse capace di performance tanto audaci. Fu allora che Brogio cominciò a pensare a Tina come alla “sua” ragazza. Tecnicamente loro due non stavano insieme, ma Tina non poteva avergli dato un
bacio così apionato solo per gioco: probabilmente anche lei era innamorata di lui, ma non aveva il coraggio di dirglielo. E poi, di regola, è l’uomo che deve fare il primo o. E lui, prima o poi, quel o lo avrebbe fatto, doveva solo trovare il modo e il momento giusto.
Brogio ricordava bene quel bacio e allora gli era sembrata la cosa più eccitante che avesse mai sperimentato. Ma adesso, mentre si alzava dal prato per andare in casa a prendere il gioco della bottiglia versione hard, si accorse di qualcosa che lo eccitava ancora di più. Non riusciva a spiegarselo, ma ciò che lo stava elettrizzando in quel momento, addirittura più del bacio di Tina, era un gesto che più innocente non poteva essere: la mano di Luna che stringeva la sua per aiutarlo ad alzarsi. Mentre Brogio era in casa, Jack raccontò a Edo e a Ceci la storia del libro di Evelina e la progettata spedizione in casa di Fastu. Edo rispose che, se non fosse dovuto andare a Venezia con sua madre, lui avrebbe accompagnato volentieri Brogio e gli altri a Val Nebbiosa. Ceci non era così sicura che le voci su Fastu fossero infondate, e comunque, anche se avesse voluto, quella domenica non poteva proprio andare con loro perché suo padre le aveva chiesto di accompagnarlo a Ferrara per vedere dei cani. Quando Brogio tornò sul prato, Tommy non era ancora riuscito a convincere le ragazze a giocare al gioco della bottiglia. Delle quattro amiche, Luna sembrava la più bendisposta: aveva la schiena appoggiata al salice piangente, le gambe allungate sul prato, le braccia conserte e osservava i maschietti con aria di sfida. Tina ripeté che, se gli altri volevano giocare, potevano farlo: lei sarebbe rimasta, ma non avrebbe partecipato al gioco. Ceci dichiarò che non aveva intenzione di giocare a un gioco per sporcaccioni, ma nemmeno lei diede segno di volersene andare. Anzi, a dispetto delle parole appena pronunciate, il suo sguardo lasciava trapelare una certa curiosità. L’unica che sembrava veramente imbarazzata era Gegia: non voleva fare la figura della solita rompiballe, ma non se la sentiva di giocare a un gioco in cui si sarebbe dovuta spogliare o peggio. Il gioco delle penitenze le stava bene, okay se doveva baciare qualcuno, non aveva problemi nemmeno a intraprendere qualche bizzarra penitenza – tipo bere le uova crude, farsi sculacciare e, al limite, essere legata come un salame insieme a un maschietto – ma di spogliarsi non se ne parlava proprio. Quello non lo avrebbe mai fatto.
Jack cercò di convincerla che non c’era niente di male a spogliarsi. Lui lo faceva sempre, di fronte a chiunque, e non era mai successo niente di irreparabile. Anche Edo provò a convincerla ricordandole che, in fondo, tutti l’avevano vista, al mare o in piscina, in bikini, ma Gegia rispose che mettersi in costume al mare e denudarsi in una casa di campagna erano due cose ben diverse. Vedendo che la cosa andava per le lunghe e intuendo che l’amica non si sarebbe lasciata convincere facilmente, Tommy intervenne a modo suo: «È inutile che fai tanto la preziosa, tanto ti abbiamo già vista nuda. Anzi, per essere precisi, vi abbiamo viste nude tutte e quattro.» Tommy era noto per le sue fanfaronate e lì per lì Gegia pensò a uno scherzo. Anche le altre pensarono a una delle solite spacconate dell’amico e risposero con una serie di fischi e sberleffi. Poi Gegia guardò gli altri ragazzi, e dalla loro espressione imbarazzata capì che Tommy non stava affatto scherzando. Gegia impallidì. Le altre fanciulle, invece, non apparvero particolarmente sconvolte dalla notizia. Tina sembrava più incuriosita che arrabbiata e probabilmente si stava chiedendo quando fosse successo. Luna si limitò a guardare Brogio e l’espressione del suo viso, invece di apparire un rimprovero, sembrò una specie di tacito riconoscimento di destrezza, come a dire: “E bravo Brogio, così mi hai vista nuda”. Nemmeno Ceci si scompose e, rivolgendosi a Edo come se l’ideatore di tutto fosse lui, gli domandò: «E quand’è che ci avreste combinato questo scherzetto?» Edo arrossì, tossicchiò e sputacchiò poche parole incomprensibili. Anche Tommy, dopo il precedente exploit, sembrava aver perso la baldanza iniziale. Si girò verso il salice e avviò una meticolosa indagine su una crepa nella corteccia. Brogio aveva la testa da un’altra parte: stava annegando negli occhi color Adriatico di Luna e aveva dimenticato tutto il resto. Visto che nessuno degli amici sembrava in grado di rispondere a una domanda così semplice, fu Jack a intervenire: «È successo a metà giugno, appena finita la scuola.» In pochi secondi le guance di Gegia arono dal color budino di crema, al rosa fragola, al kaki maturo, per attestarsi, infine, sul peperoncino di cayenna. Fissò Tommy e gli altri, dopodiché, come se temesse che gli sguardi degli amici avessero il potere di attraversare i vestiti, incrociò le braccia al petto e piegò giù la testa fino ad appoggiarla sulle ginocchia.
Dopo alcuni istanti di silenzio, dove nessuno osava nemmeno respirare, Gegia si tirò su e, sforzandosi di sorridere, replicò: «Bueno! Non sarà stato un gran spettacolo… cioè, almeno per quanto riguarda me. E come avete fatto a vederci nude?» Fu di nuovo Jack a rispondere. Raccontò che le avevano spiate l’ultima volta che erano andate nel capanno da pesca dello zio di Tina a Panarella. Il capanno era costruito con travi di legno e fra una trave e l’altra c’erano molte fessure, alcune delle quali larghe un dito. Le ragazze si erano spogliate per provare i bikini nuovi e i maschietti avevano spiato attraverso le fessure. All’obiezione di Ceci che il capanno era sull’argine del Po e sospeso su palafitte, Jack spiegò che anche il pavimento aveva le fessure e che sotto al capanno c’era una erella che girava tutt’attorno e che serviva per la manutenzione dei pali di sostegno. Da là sotto si vedeva bene l’interno del capanno senza essere visti perché, mentre l’interno era illuminato dal sole che entrava dalle finestre, la erella sotto al pavimento era in ombra, soprattutto nella parte vicina all’argine. Jack aggiunse che si erano divertiti molto perché le ragazze non si erano limitate a spogliarsi e a provare i costumi, ma avevano giocato a fare le modelle. eggiando nude o in mutande dentro al capanno, si erano scambiate i bikini e la biancheria intima: Gegia aveva indossato le mutandine di Tina e Luna aveva provato il costume di Ceci; Tina, che aveva il seno piccolo, si era messa il reggiseno di Ceci dopo averlo imbottito di carta igienica; Luna e Gegia avevano fatto la erella indossando solo la camicetta e la T-shirt. E mentre le ragazze, di sopra, giocavano a fare le piccole star, i ragazzi, sotto, sgranavano gli occhi e andavano in estasi. Camminando avanti e indietro, le ragazze erano ate più volte sopra alla postazione dei maschietti e loro, da là sotto, avevano colto tutti i più piccoli dettagli. Ceci era la più matura dal punto di vista fisico: seno grosso, gambe lunghe e affusolate, pelle liscia e rosata; ma quello che aveva letteralmente sconvolto le giovani menti dei ragazzi era stato vedere che il pelo del pube di Cecilia era dello stesso colore dei capelli: rosso carota. Era la prima volta che Brogio vedeva una ragazza nuda da distanza ravvicinata e quando Ceci, indossando solo la camicetta, si era fermata sopra di lui, era mancato poco che svenisse per l’emozione. La più immatura del gruppo era Tina: il suo seno stava ancora germogliando e le tettine sembravano due limoni tagliati a metà; la curva lieve dei fianchi, la pelle liscia, di colore rosa pallido, e i radi peli del pube le conferivano un aspetto da bambina. Gegia era una via di mezzo fra Ceci e Tina: facendo danza quasi ogni giorno, i suoi muscoli erano tonici e robusti; il seno era ben sviluppato, ma un po’ più piccolo di quello di Ceci, e i peli del
sesso erano neri e folti, ma non molto lunghi. Luna aveva una maturità fisica paragonabile a quella di Gegia, ma i muscoli erano meno sviluppati, tranne quelli del sedere e delle gambe che, a causa dell’uso frequente della bicicletta, erano belli sodi; il seno non era molto grosso, ma le areole erano larghe e scure con due deliziosi bottoncini scuri al centro; il sesso era ricoperto da una fitta peluria nera.
Quando Jack terminò il suo racconto, le ragazze sembravano sotto choc. L’unica che appariva più divertita che scandalizzata era Luna. «E così ci avete viste nude sbirciando dal buco della serratura» disse. «Che branco di sporcaccioni!» «Non dal buco della serratura» puntualizzò Tommy. «Dalle fessure del pavimento.» «Era un modo di dire, cretino!» Ma l’accondiscendenza di Luna era solo apparente e la sua vendetta fu terribile: «Anche noi, una volta, vi abbiamo visti nudi. Una scena repellente, da far venire il vomito. Facevate schifo, tutti. Sì, anche tu, Jack. Ti ho visto nudo molte volte, ma quel giorno mi hai fatto proprio schifo.» Jack non replicò subito. L’affermazione di Luna lo colpì come una scudisciata in viso e dovette fare un paio di respiri profondi prima di riuscire a rispondere: «E cosa avresti visto di tanto… schifoso?» Luna non si fece pregare e raccontò tutto con dovizia di particolari. Verso la fine di luglio, la Banda Bassetti al completo era andata a fare un giro a Villanova Marchesana sulla riva veneta del Po. A metà pomeriggio i ragazzi si erano fermati a bere un’aranciata in un bar del paese. Mentre i maschi giocavano a calcio balilla, loro, stufe di aspettare, erano andate a farsi una pedalata sull’argine del fiume. Quando erano tornate, dopo circa mezz’ora, i ragazzi erano spariti. Subito avevano pensato a uno dei loro stupidi scherzi, ma poi, vedendo che il tempo ava e gli amici non tornavano, si erano preoccupate ed erano andate a cercarli. Da quelle parti c’era solo un posto dove i ragazzi potevano essere andati: alle vecchie fornaci.
Costruite nell’Ottocento, la fornace Totti e la fornace Etna erano state chiuse e abbandonate una quindicina di anni prima. Pur essendo in rovina, le fornaci erano ancora in piedi e molte strutture si presentavano in un discreto stato di conservazione. Naturalmente era vietato entrare nelle fornaci, per motivi di sicurezza, ma il loro fascino era irresistibile e nessuno dei ragazzi della zona si era mai preoccupato dei divieti sparsi lungo la golena del Po. Le fanciulle avevano raggiunto in breve tempo la fornace Etna, la più vicina al paese. Non trovando nessuno, avevano percorso il sentiero in mezzo al bosco che costeggiava il Po fino alla fornace Totti, più grande e maestosa della precedente, ma anche più isolata. Le biciclette dei ragazzi erano appoggiate al muro di una palazzina bassa poco distante dal corpo principale. Circolavano strane voci sulle vecchie fornaci di Villanova Marchesana: qualcuno diceva che fossero abitate dai fantasmi degli operai che erano morti nelle fornaci; qualcun altro sosteneva che ci vivessero gli zingari; molti raccontavano che fossero frequentate da delinquenti e prostitute. Probabilmente tutte quelle voci erano vere, ma le fornaci erano meta anche di molti curiosi e spesso ci avano le guardie forestali, quindi il pericolo era rappresentato più dal crollo di muri e soffitti che da incontri ad alto rischio. I ragazzi entravano raramente dentro al corpo principale della fornace, alto cinque piani, e in genere si limitavano a esplorare i magazzini esterni e la palazzina degli uffici. Un po’ intimorite dal luogo, le ragazze si erano avvicinate in silenzio all’edificio dove c’erano le biciclette degli amici. Il fabbricato era ancora in buono stato: mancavano porte e finestre, i muri erano scrostati e dal tetto mancavano molte tegole, ma la struttura portante era integra. Tutto intorno alla palazzina crescevano arbusti e piccoli alberi e l’ingresso principale era ingombro di detriti e spazzatura. I ragazzi dovevano essere entrati attraverso una delle finestre. Le quattro amiche avevano lasciato le biciclette sul prato e si erano avvicinate alla palazzina nel punto dove la vegetazione era più fitta. Guardandosi più volte intorno, Luna era andata a posizionarsi accanto a una finestra restando nascosta nel fitto fogliame di un salice bianco. Aveva sbirciato dentro ed era rimasta impietrita, dopodiché si era girata verso le amiche e aveva cominciato a fare gesti con le mani per invitarle ad avvicinarsi. L’espressione del suo viso era un misto di ribrezzo e di meraviglia. Le altre si erano avvicinate quatte quatte. Tina aveva raggiunto Luna, mentre
Gegia e Ceci si erano portate davanti a un’altra finestra nascosta dai rami di un grosso sambuco. Dopo aver guardato dentro, Tina si era portata la mano alla bocca per non urlare. Con una espressione di disgusto dipinta sul volto, Gegia si era voltata prima verso Ceci e poi verso le altre due amiche e aveva fatto cenno di volersene andare. Ceci aveva replicato a gesti, facendo capire che voleva rimanere, ed era tornata a spiare l’interno della palazzina. Il luogo che ospitava i ragazzi era un ambiente lungo e stretto, con ampie finestre e un soffitto spiovente. I muri interni erano in parte crollati, ma le travi del soffitto erano robuste e praticamente intatte. Nello stanzone c’erano alcune seggiole di plastica piuttosto sciupate, diverse casse di legno e un paio di materassi dall’aspetto poco invitante. Doveva essere l’abitazione di qualche senzatetto o, più probabilmente, lo era stata fino a poco tempo prima. I ragazzi erano nudi dalla vita in giù e indossavano solo le scarpe da ginnastica e le magliette. Le fanciulle avevano già visto degli uomini nudi e non si sarebbero scandalizzate se avessero semplicemente visto i loro amici senza vestiti. Ciò che aveva creato tanto imbarazzo era stato assistere alle performance erotiche dei ragazzi. In modi differenti e curiosi, i maschietti erano intenti a giocare con i propri gingilli. Brogio era seduto su una cassa e se lo stava misurando con un righello. Era chiaramente insoddisfatto del risultato e continuava a spostare il righello da sopra a sotto e da un fianco all’altro, ed era anche chiaro che non sapeva esattamente da quale punto prendere la misura. Effettivamente, non sembrava che Brogio fosse particolarmente dotato da quel punto di vista: se le fosse stato chiesto un parere, Tina avrebbe detto che, anche così in erezione, il sesso di Brogio non superava i dieci centimetri. Jack e Tommy erano in piedi, uno di fronte all’altro, dietro a una cassa che copriva loro le gambe fino a metà coscia. Nonostante fosse più giovane di due anni, Jack aveva un pene più sviluppato di quello di Tommy. Tenendo i loro arnesi stretti fra le dita, i due li sbattevano ritmicamente uno addosso all’altro. In un primo momento Luna pensò che i due amici stessero simulando un duello all’arma bianca, ma poi, osservando la scena con più attenzione, comprese il significato di quella sorta di battaglia intima. I gingilli dei due ragazzi erano coperti da un cappuccio di stoffa, o forse di plastica: quello di Jack sembrava sormontato da un berretto da Pulcinella, mentre il pene di Tommy pareva avesse in testa un cappello a zuccotto, tipo quello di Pierrot. I due non stavano duellando, ma giocando ai burattini: la cassa era il palcoscenico e i due amici usavano i loro arnesi come fossero Sandrone e Fagiolino intenti a darsele di
santa ragione. Di Edo, Ceci riusciva a vedere solo la parte alta del busto e la testa. Lui era seduto o inginocchiato dietro a una grossa cassa su cui era steso un giornale, probabilmente un fotoromanzo a colori o qualcosa del genere. Mantenendo lo sguardo fisso sul giornale, l’amico era intento in qualche bizzarra operazione che lo faceva fremere e vibrare come un pesce intrappolato in una rete. Dopo quasi un minuto di intensa agitazione, Edo si era calmato, aveva emesso un profondo sospiro e assunto un’espressione idiota. Infine si era alzato in piedi e aveva lasciato la postazione per andare verso Brogio. Ceci era rimasta sbigottita: il pene di Edo era enorme, addirittura più grande di quello di Tommy, e poco più piccolo di quello di Jack che batteva ogni record. Brogio aveva guardato l’amico con invidia, poi, dopo aver messo via il righello, aveva tirato fuori dallo zaino un pacchetto di fazzoletti di carta e l’aveva ato a Edo. Alla vista di quella scena, Gegia era stata pervasa da un senso di nausea ed era tornata sconvolta verso le biciclette. Luna e Tina erano rimaste ancora un po’ a guardare, poi avevano raggiunto l’amica. Ceci era stata l’ultima a lasciare la postazione. Cecilia era sempre stata attratta dagli uomini più grandi di lei. Una volta, un amico dei suoi genitori – un certo Alfredo, trentenne e sposato – con la scusa di insegnarle a cuocere la carne sul barbecue, si era messo dietro di lei. A un certo punto, per non ungersi con le costolette sfrigolanti, Ceci era indietreggiata e si era involontariamente strusciata contro di lui. Alfredo si era scostato con un certo ritardo, e lei aveva fatto in tempo a sentire il suo affare che si ingrossava. Era la prima volta che Ceci percepiva con il proprio corpo un pene in erezione e si era molto meravigliata del fatto che il sesso di un uomo potesse ingrossarsi così rapidamente. La vista del pene particolarmente sviluppato di Edo le aveva riportato alla mente l’episodio del barbecue e ri il desiderio. Fino ad allora, Cecilia aveva sempre pensato a Edo come a un ragazzino intelligente, ma scarsamente dotato dal punto di vista fisico. Dopo quell’avventura, Ceci aveva cominciato a vedere l’amico sotto una luce nuova, e pochi giorni dopo, lei e lui erano una coppia. Dopo il colorito resoconto dei fatti – da cui era stato omesso solo l’episodio del
barbecue, che Ceci a suo tempo aveva raccontato alle amiche – Luna accennò un sorriso conciliante: la sua vendetta era compiuta e poteva permettersi un piccolo gesto di amicizia. Brogio, che dei quattro maschietti appariva il più imbarazzato, non disse nulla. Nemmeno Edo replicò, ma guardò Ceci con un’espressione strana, quasi malinconica, che lasciò confusa la ragazza. Tommy bofonchiò qualcosa in dialetto ferrarese che nessuno capì, tanto era stato pronunciato a voce bassa. Jack, che sembrava rincuorato dopo il racconto di Luna, dichiarò: «Okay, visto che ormai ci conosciamo tutti molto a fondo, non dovrebbero esserci problemi a giocare al gioco della bottiglia. Giusto?» Il sorriso di Luna e la ritrovata baldanza delle amiche scomparvero di colpo. Fu Gegia a rispondere per prima: «Bueno. Dato che pensate che sia io la più vergognosa e imbranata, dirò sinceramente quello che penso. A me sta bene giocare a questo gioco, ma ad alcune condizioni. Prima di tutto, niente sesso. Cioè, se mi chiedete di fare delle porcherie, io me ne vado. Secondo: se uno non vuole fare una certa prova, non la fa. Fa una prova diversa oppure salta il turno. Terzo: se per superare la prova, una si deve spogliare, può decidere se spogliarsi completamente oppure rimanere in mutande e reggiseno. Quarto…» Fino a quel momento i ragazzi erano rimasti muti, acconsentendo tacitamente alle condizioni poste da Gegia, ma prima che l’amica potesse dettare la quarta condizione Tommy intervenne: «Eh, no! Così non vale. Noi non ce l’abbiamo, il reggiseno.» Gegia tentennò un secondo, ma poi convenne: «D’accordo, se la prova lo richiede, niente reggiseno. Però vale sempre la seconda regola.» «Mi sta bene» replicò Tommy. «Ci sono altre condizioni o questa era l’ultima?» «Quarto» aggiunse Gegia enfatizzando la parola «è vietato sghignazzare, fischiare, ululare, bestemmiare e saltare come le scimmie.» «Si può almeno guardare?» «Sì, guardare si può, ma in silenzio e restando seduti.» Poiché il botta e risposta fra Gegia e Tommy sembrava finito, Brogiò prese la parola: «Allora, se siamo tutti d’accordo, possiamo andare nel rifugio.»
I ragazzi scattarono in piedi e guardarono le amiche come per invitarle a fare altrettanto. Luna annuì e si alzò in piedi. Anche Ceci si tirò su, e sembrava ansiosa quanto i ragazzi di cominciare. Tina appariva riluttante, ma alla fine anche lei annuì e si alzò. L’assenso di Tina ebbe l’effetto di un colpo sparato da uno starter e i ragazzi partirono in quarta verso il rifugio. Ma Gegia, alzandosi in piedi per ultima, li gelò di nuovo: «C’è una quinta condizione: giocheremo domani, perché adesso si è fatto tardi. E poi, se proprio devo spogliarmi, voglio almeno indossare sotto qualcosa di pulito. Voi cosa dite, ragazze?» Le amiche annuirono e tirarono un grosso sospiro di sollievo. I ragazzi tornarono indietro con l’aria da cani bastonati, protestando sommessamente, ma Gegia aveva già inforcato la bicicletta. «Ci vediamo qui domani alle quattro» esclamò mentre si allontanava pedalando. «Non preoccupatevi, non vi tiro il bidone. Però dobbiamo esserci tutti, altrimenti ciccia. A domani.» Dieci minuti dopo, Brogio era di nuovo solo, con la bottiglia di Coca Cola vuota sull’erba e le schede con le prove ancora chiuse nella loro scatola.
6. Il gioco della bottiglia
La casa colonica dove Brogio abitava era costituita da due edifici principali, l’abitazione e il magazzino, separati da un’ampia corte con aiuole fiorite e prati alberati. La casa si raggiungeva attraverso un vialetto di accesso in terra battuta e ghiaia lungo un centinaio di metri. L’abitazione disponeva di una decina di stanze: quattro a pianterreno e quattro al primo piano. In più c’erano una grande stanza da bagno al primo piano e una mansarda nel sottotetto usata come ripostiglio. Lo spazio retrostante la casa era abbellito da un piccolo giardino e da un orto familiare. Del giardino se n’era sempre occupata Evelina. Non era il più bello del mondo ma, come lei diceva spesso, quel giardino “aveva un’anima”. Era semplice e un po’ selvaggio, pieno di rose e di bulbose, di arbusti da fiore e rampicanti, e al centro si ergeva un bellissimo prugnolo che ogni anno, sfidando le gelate tardive, annunciava l’arrivo della primavera con un’esplosione di fiori bianchi. Ma ciò che rendeva davvero unico il giardino di Evelina e che, a sentir lei, gli conferiva un’anima, era il fatto che ogni pianta aveva una storia da raccontare: lo stramonio, quella pianta puzzolente che i ferraresi chiamano “erba del diavolo”, era stato piantato in onore del marito dopo la sua fuga con la “svergognata”; il lillà era il regalo di un cliente, a cui era morta da poco la moglie, come ringraziamento per averlo messo in contatto con la cara estinta; l’oleandro Evelina l’aveva trovato nella spazzatura, mezzo secco e quasi senza foglie; la zia di Brogio l’aveva piantato in giardino in febbraio, convinta che sarebbe morto, invece, non solo l’oleandro si era salvato, ma in estate aveva prodotto cinque bellissimi fiori rosa. L’orto, invece, era il feudo di Caterina ed era sempre molto curato. Girolamo non ci metteva praticamente piede e lasciava fare tutto alla moglie: lei vangava, zappava, toglieva le erbacce, seminava gli ortaggi, concimava, innaffiava e raccoglieva i prodotti quando erano pronti. Come la mamma trovasse il tempo per fare tutto, dal momento che lei lavorava anche nel frutteto, teneva in ordine la casa e cucinava, per Brogio era un mistero. Una volta gli era perfino sembrato di vedere sua madre che andava nell’orto in piena notte, ma forse era stato
solamente un sogno. Ad ogni modo, in tavola c’era sempre verdura fresca e alla sera si mangiava spesso il minestrone. Il magazzino era un grande edificio diviso in vari stanzoni adibiti a ricovero attrezzi, officina meccanica, deposito di materiali, garage e cantina. Nella parte restrostante era stato costruito un capannone dove venivano accatastate le cassette per la raccolta della frutta. Nell’azienda si usavano solo cassette di legno del tipo classica, vignolese e plateaux. Le cassette classiche, più numerose, venivano infilate le une nelle altre in pacchi da tre e accatastate all’inizio dell’estate. Il fattore si faceva mandare le cassette che servivano per tutta la stagione di raccolta e Girolamo le ammucchiava nel capannone. A mano a mano che la raccolta procedeva, le cassette piene di frutta venivano caricate sui camion e conferite ai grossisti. A fine raccolta, nella struttura ormai vuota era usanza festeggiare con una bella sganzèga, festa contadina tipica di quelle parti, ma per tutta l’estate il capannone era pieno di cassette che formavano un cumulo compatto alto fin quasi al soffitto. Infilate fra loro in pacchi da tre, le cassette erano talmente robuste che ci si poteva camminare sopra senza pericolo di romperle, ed era proprio là, dietro alle cassette accatastate, che Brogio aveva creato il suo rifugio segreto. A ridosso della parete di fondo del capannone c’era uno spazio angusto occupato da un tino e da alcune botti che Girolamo usava per fare un po’ di vino ad uso familiare. La vigna del fattore era piccola e il vino prodotto in azienda, di qualità mediocre, era consumato quasi tutto da Girolamo e Giampietro. L’angolo del tino, che fino alla vendemmia era nascosto dalle cassette, era diventato il rifugio segreto della Banda Bassetti.
Quella sera, sabato 3 settembre, rincasando un po’ prima del solito, Girolamo aveva notato le biciclette appoggiate al muro del capannone, ma non si era preoccupato non vedendo nessuno in giro: sapeva benissimo dov’erano i ragazzi in quel momento. Il rifugio segreto della Banda Bassetti era in realtà ben poco segreto. Girolamo era a conoscenza che i ragazzi usavano l’angolo del tino come luogo di ritrovo, ma la cosa lo lasciava del tutto indifferente perché sapeva che in fondo al capannone Brogio e i suoi amici non correvano pericoli. Andare a pesca di rane di notte lungo la riva dei canali, arrampicarsi sui rami di un albero,
giocare agli indiani usando i raggi delle ruote di bicicletta come frecce, andare a pattinare sulla superficie ghiacciata di uno stagno erano tutte attività molto più rischiose che infilarsi fra le casse di un magazzino. Se suo figlio si rintanava con gli amici in un buco in fondo al capannone, lui era contento: i ragazzi non facevano niente di male e non rischiavano di annegare o di rompersi l’osso del collo cadendo da un albero. Se lui avesse impedito a suo figlio di usare quel luogo per incontrare gli amici, lui avrebbe trovato un altro posto, magari più pericoloso. Brogio non sapeva che suo padre conosceva il rifugio segreto, e ogni volta che la banda si riuniva, prendeva un sacco di precauzioni e faceva tutto di nascosto. Con la scusa che doveva mettere in ordine la sua stanza, quel pomeriggio non era andato nel frutteto con i genitori, e verso le tre si era messo a pulire l’angolo del tino. Era da una settimana che i ragazzi non si incontravano nel rifugio e, com’era facile immaginare, là in fondo c’erano già milioni di ragnatele e quintali di polvere. Ogni volta Brogio si meravigliava della velocità con cui i ragni ricostruiscono le loro tele e la polvere si deposita. Dopo una veloce spazzata, Brogio era tornato in casa a prendere un po’ di lattine di Fanta e di Coca Cola e qualche biscotto. Istintivamente aveva preso i biscotti al latte perchè sapeva che a Tina piacevano molto, ma ora, mentre scendeva nel rifugio con la borsa piena di vettovaglie, Brogio si sorprese a pensare che i biscotti al latte non erano quelli preferiti da Luna. Lasciò la borsa nel rifugio e tornò in casa per prendere una confezione di biscotti alla cioccolata, poi, temendo che sua madre si accorgesse della sparizione di tutti quei biscotti, tornò in fretta nel rifugio, lasciò i biscotti al cioccolato, riprese quelli al latte e li riportò nella dispensa. Dopo aver fatto per ben quattro volte la spola fra il rifugio e la casa, Brogio andò a sedersi sul prato ad aspettare gli amici. Aveva una gran paura che qualcuna delle ragazze trovasse una scusa per non venire mandando tutto a monte. Alle quattro e un quarto, cinque degli amici erano seduti con Brogio sotto il salice piangente: mancavano ancora Tina e Luna. Che Tina potesse dare buca all’ultimo momento poteva anche starci, ma Luna non era il tipo da tirare bidoni, almeno così sperava Brogio, e avrebbe convinto l’amica. Gegia disse che avrebbe aspettato altri cinque minuti e poi sarebbe andata a casa. Alle quattro e venti, quando Brogio cominciava a disperare, il festoso abbaiare di Bandito annunciò l’arrivo delle due amiche. Mentre i maschietti tiravano un grosso sospiro di sollievo, Gegia assunse l’aria di una nobildonna se in procinto di salire sulla ghigliottina.
Luna e Tina appoggiarono le biciclette contro il muro del capannone e lasciarono che Bandito andasse in cerca di fagiani. Riunita tutta la banda, i ragazzi andarono nel capannone, salirono sulle cassette usando una scala a pioli, camminarono carponi sulla catasta e infine, grazie a un’altra scala che Brogio aveva posizionato strategicamente all’inizio dell’estate, si calarono nell’angolo del tino. L’ambiente era stretto, ma aveva il vantaggio di essere lungo una decina di metri e di avere uno spazio vuoto sufficientemente ampio. Non potendo formare un circolo, i ragazzi si sedevano in due file usando come sedili le cassette rovesciate. Il pavimento era in cemento, ma Brogio aveva foderato l’angolo del tino con cartoni e carta da imballaggio. Mentre i ragazzi andavano a sedersi sulle cassette, Brogio tirò fuori una scatola da una sporta di plastica e la appoggiò sul pavimento. Poi aprì la scatola, tirò fuori un mazzo di cartoncini e lo mise sopra una cassetta che fungeva da tavolino. Infine, dalla sporta di plastica prese una bottiglia di Coca Cola vuota e la diede a Ceci. «Devo cominciare io?» domandò La Rossa. Visto che nessuno rispondeva, prese la bottiglia e la fece ruotare sul pavimento. La bottiglia si fermò in direzione di Luna. «La coppia deve essere formata da un maschio e una femmina» puntualizzò Brogio. «Tira ancora, Ceci.» Questa volta la bottiglia si fermò nella direzione di Tommy. «Prima coppia: Ceci e Tommy» annunciò Brogio come se stesse presentando i concorrenti di una gara di ballo. «Cosa dobbiamo fare?» domandò Tommy. «Per ora niente. Prima dobbiamo formare le quattro coppie. Ceci e Tommy sono già abbinati. Chi gira la bottiglia, adesso?» Edo prese la bottiglia e la fece ruotare. La bottiglia si fermò su Tina. «Seconda coppia: Edo e Tina.»
Con altri due giri di bottiglia si formò la terza coppia: Gegia e Jack; Brogio e Luna furono abbinati d’ufficio. Mentre i ragazzi cambiavano posto per andare a sedersi ognuno vicino al proprio partner di gioco, Brogio tirò fuori dalla scatola il regolamento del gioco e spiegò le regole. In base al tipo di prova svolta e al tempo impiegato per completarla, a ogni coppia veniva assegnato un punteggio; le coppie dovevano fare lo stesso numero di prove; se una coppia decideva di saltare il proprio turno prendeva zero punti e il gioco proseguiva con le altre coppie; non c’era un numero prefissato di prove e quando tutte le coppie avevano fatto almeno un turno, il gioco si poteva sospendere; alla fine vinceva la coppia che otteneva il punteggio più alto. «Okay, per me va bene» sentenziò Luna. «Proviamo pure. Chi fa il primo turno?» Brogio rispose che avrebbe deciso il caso e fece girare la bottiglia. Il primo turno toccò alla coppia Edo e Tina. «Ora cosa dobbiamo fare?» chiese Edo. «Prendi una scheda dal mazzo e leggi cosa c’è scritto dietro.» Edo prese un cartoncino e lesse: «La mummia». Brogio consultò di nuovo il regolamento e lesse le istruzioni relative a quella prova. A mano a mano che Brogio leggeva, la preoccupazione di Tina aumentava. Per superare la prova i due dovevano spogliarsi, in parte o del tutto, e poi, dopo essersi abbracciati, dovevano essere bendati da capo a piedi con un rotolo di carta igienica e restare così avvinghiati per un tempo variabile da uno a dieci minuti. Il punteggio variava in funzione del tempo trascorso come mummie e a seconda di quanto i due si fossero spogliati: meno vestiti tenevano addosso più alto era il punteggio. Il regolamento prevedeva che i due iniziassero la prova con lo stesso numero di capi di abbigliamento e che, prima di essere bendati, si togliessero lo stesso numero di indumenti. Edo dichiarò che, dal momento che il suo corpo non era più un mistero per le ragazze, a lui andava benissimo denudarsi completamente. Tina tentennò, poi decise che non se la sentiva di spogliarsi del tutto: voleva tenere almeno le mutandine. Edo assunse un’aria delusa, ma disse che andava bene anche così. Mentre i due discutevano su come affrontare la prova, Brogio corse in casa a
prendere un rotolo di carta igienica. Quando tornò nel rifugio, Edo cominciò a spogliarsi. Tina si guardò intorno come a cercare una possibile scappatoia; ma infine, vedendo che anche le amiche sembravano divertite e ansiose di osservare l’insolita performance, si rassegnò e iniziò a spogliarsi. Tolto il reggiseno, Tina cercò di coprirsi il seno con le mani, ma Edo le si avvicinò, la abbracciò e la strinse a sé. Lei rimase immobile qualche secondo, poi ricambiò l’abbraccio. Aiutato da Luna, Brogio cominciò ad avvolgere i due con la carta igienica. Tina sentì il corpo dell’amico che aderiva sempre di più al suo e avvertì distintamente, attraverso la stoffa delle mutande, il sesso di Edo. Il pene era moscio e Tina pensò che forse doveva sentirsi delusa e anche un po’ offesa: qualunque altro ragazzo, in quella situazione, si sarebbe eccitato. Questo fu ciò che pensò la sua mente razionale, ma nella parte più profonda del suo cervello, dove albergano le pulsioni primordiali e l’istinto, i pensieri di Tina erano di tutt’altro tipo: in quel momento il suo subconscio le stava suggerendo di non fare nessun movimento che potesse eccitare il suo compagno perché quel contatto fisico, anche se indiretto, era la cosa più repellente che lei avesse mai sperimentato in tutta la sua vita. Appena terminata la bendatura, Brogio fece partire il cronometro. Gli amici che assistevano alla scena erano molto più eccitati dei due avvolti nella carta igienica e se fosse stato possibile vedere i loro pensieri, il rifugio sarebbe stato un caleidoscopio di immagini e di colori. Pur essendo quasi nudo e incollato al corpo di una bella ragazza, Edo non era per nulla eccitato e attese con pazienza la fine della prova. Tina, invece, sentiva che non avrebbe resistito per dieci minuti. Spostando lo sguardo vide Ceci, e l’espressione di gelosia dipinta sul volto dell’amica le fornì la scusa per interrompere la prova anzitempo. «Okay, Brogio. Basta così. Ci puoi sbendare?» Edo ci rimase male, ma la sua delusione era dovuta principalmente al punteggio che sarebbe stato piuttosto basso. Brogio fermò il cronometro e, aiutato questa volta da Tommy, cominciò a togliere la striscia di carta che avvolgeva i due. Edo e Tina erano rimasti bendati per sei minuti e Brogio, dopo aver consultato il libro delle istruzioni, emise il responso: la prima coppia aveva ottenuto cinquantacinque punti su un totale di cento.
Gli altri non stavano più nella pelle e non vedevano l’ora di giocare; anche le ragazze nascondevano a stento l’impazienza. «Adesso a chi tocca?» domandò Ceci. Brogio fece girare di nuovo la bottiglia e dichiarò: «Secondo team: Tommy e Ceci». Tommy non aspettò l’invito di Brogio e prese una scheda dal mazzo. «Dipinto di Ligabue» annunciò ando il cartoncino a Brogio.
Tommy e Ceci incrociarono lo sguardo. L’espressione di Ceci era di divertita curiosità, sul volto di Tommy si poteva leggere una forte delusione. Ma come? Edo si era strusciato quasi nudo addosso a Tina e lui, insieme a quella gran gnocca della Ceci, doveva fare un disegno? Tommy protestò e chiese se potevano cambiare prova, ma Brogio gli disse di avere pazienza e di aspettare che lui leggesse le istruzioni. Il regolamento spiegava che il titolo si riferiva ad Antonio Ligabue, il famoso pittore pazzo, ma la prova non consisteva nel fare un dipinto su tela, bensì sulla pelle. Mentre Ceci e Tommy si scambiavano occhiate perplesse, Brogio spiegò loro che, per superare la prova, avrebbero dovuto spogliarsi e infilarsi le mutande sulla testa. Chi non voleva spogliarsi integralmente, poteva simulare la pazzia mettendosi in testa uno scolapasta oppure un altro oggetto strano; in quel caso, però, il punteggio veniva sensibilmente ridotto. Ceci stava per replicare qualcosa, ma Brogio la fermò dicendo che non aveva ancora letto tutto. Dopo essersi così acconciati, i due ragazzi avrebbero dovuto fare i pittori ossia, usando possibilmente dei colori lavabili, lui doveva dipingere due cuori sul seno della compagna, e lei doveva fare lo stesso sui glutei maschili; forma e dimensione dei cuori erano ininfluenti ai fini del punteggio. Tommy aveva la lingua di fuori e gli occhi lucidi per l’emozione; Ceci, invece, aveva perso la baldanza iniziale e questa volta fu lei a chiedere a Brogio se potevano cambiare la prova. Dopo essersi consultato con gli altri, lui rispose che le regole erano chiare: se volevano, potevano saltare il turno, ma avrebbero ottenuto zero punti.
Lei guardò prima le amiche e poi Edo, cercando solidarietà. Non trovandola, alzò le spalle e annunciò spavaldamente che non le fregava niente di spogliarsi, però non voleva che Tommy le imbrattasse il seno con della vernice indelebile. Brogio la tranquillizzò e disse che avrebbero usato i suoi colori a tempera lavabili, e appena conclusa la prova potevano andare in bagno a lavarsi. Avuto l’assenso da Ceci, Brogio corse di nuovo in casa a prendere la scatola dei colori. Quando la prova ebbe inizio, Tommy si spogliò in un batter d’occhio tenendo addosso solo le mutande. Ceci fu più lenta e, a osservare le facce dei maschietti, anche molto più sexy. Rimase con le mutandine e sembrò indecisa se continuare o meno, poi, con un gesto rapido, si tolse anche quelle e se le infilò in testa. Tommy sembrava paralizzato: non era chiaro se a impietrirlo fosse la visione angelica del corpo di Ceci o la vergogna di mostrarsi interamente nudo alle ragazze. Infine anche lui si decise: si tolse le mutande e se le infilò sulla testa. La tensione nel rifugio era alle stelle. Gli amici guardavano Ceci e Tommy senza muovere un muscolo; Edo sembrava particolarmente a disagio. L’unica che aveva riacquistato tutta la padronanza di sé era Ceci: come se niente fosse, prese la scatola dei colori di Brogio e la aprì; poi afferrò il tubetto del rosso e spalmò un po’ di colore sulla tavolozza; dopodiché, tavolozza nella mano sinistra, pennello nella mano destra e mutandine rosa sulla testa, si avvicinò a Tommy. Il fratello di Luna sembrava una statua. Ceci lo fece voltare, gli disegnò due bei cuori rossi sulle chiappe, infine, dopo aver messo giù tavolozza e pennello, con un gesto da attrice consumata si sdraiò sulle cassette in mezzo agli amici. Con i piedi sulle gambe di Jack, la schiena appoggiata a Edo, le braccia sollevate e le mani unite dietro la testa sembrava la maya desnuda di Goya. Tommy iniziò a sudare, ma non si mosse. Brogio gli ò la tavolozza e il pennello e lo spinse verso Ceci. Nudo come un verme, tremante come un pupo che sta imparando a camminare e con le mutande infilate sulla testa, sembrava davvero un pazzo fuggito dal manicomio. Con mano malferma, iniziò a disegnare i due cuori sul seno di Ceci. Vuoi per il tremore delle mani, vuoi perché Ceci, respirando, sollevava e abbassava ritmicamente il seno e gli impediva un lavoro tranquillo, i cuori di Tommy vennero una schifezza: più che cuori, parevano due patate deformi. Ceci lo lasciò fare mostrando una calma stupefacente. Sembrava perfettamente a suo agio anche in una circostanza che dire bizzarra era poco. Ma la sua mente, in
quel momento, non era lì nel rifugio con Tommy e gli altri; la sua calma derivava dalla consapevolezza che quella sarebbe stata la sua vita: se lei avesse finito per diventare modella o attrice – e di questo era più che convinta – situazioni come quella sarebbero diventate routine. Chissà quante volte si sarebbe dovuta spogliare di fronte a uomini e sottostare a pratiche bizzarre, ma con la fondamentale differenza che a guardarla e a giocare con lei non ci sarebbero stati dei ragazzini, ma attori strafighi e registi affermati. Terminata la prova, mentre Ceci e Tommy si pulivano alla bell’e meglio e si rivestivano, Brogio consultò il libro delle istruzioni e diede il responso: cento punti. Tommy dimostrò la sua felicità saltando come una cavalletta, Ceci si limitò a sorridere e a stampargli un bacio sulla guancia. Gli amici applaudirono ed emisero fischi di approvazione. L’unico che sembrava infastidito era Edo: quando Ceci gli si sedette sulle ginocchia e tentò di dargli un bacio sulla bocca, lui la respinse. Interpretando quel gesto come uno scatto di gelosia, Tommy gli diede una manata sulla spalla, si complimentò con lui per la fortuna di avere una fidanzata così carina e gli disse che poteva stare tranquillo perché nessuno voleva portargliela via. Edo non rispose, ma rifletté sulle parole di Tommy: davvero era fortunato ad avere Ceci come fidanzata? Lui non ne era tanto convinto. Quando tutti furono tornati al loro posto, Brogio fece girare di nuovo la bottiglia e dichiarò che era il turno di Jack e Gegia. A differenza dell’amico, chiaramente ansioso di cominciare, Gegia appariva piuttosto preoccupata, ma attese con coraggio e rassegnazione di conoscere la propria sorte.
Jack prese una scheda dal mazzo e lesse il titolo: «I manichini». Nessuno fiatava in attesa di conoscere quali bizzarre operazioni prevedesse la terza prova. Jack non stava più nella pelle, Gegia aveva l’aria di una condannata a morte. Manco a dirlo, i due partecipanti dovevano spogliarsi, ma non insieme, bensì uno alla volta. Poteva cominciare prima lei o prima lui – ai fini del punteggio questo dettaglio era irrilevante – e quando uno dei due era denudato doveva assumere una posizione eretta e plastica e cercare di mantenerla, come se fosse un manichino. Mentre la persona che fingeva di essere un manichino doveva restare il più possibile immobile, l’altro la doveva rivestire. Al manichino era concesso alzare i piedi per permettere all’altro di infilare gli indumenti. Non
c’erano tempi da rispettare, il punteggio variava solo in funzione del grado di nudità raggiunto; se entrambi si spogliavano completamente, la coppia otteneva cento punti. Non ci fu bisogno di decidere chi cominciava per primo a spogliarsi. Appena Brogio terminò di leggere le istruzioni, Jack si denudò in quattro e quattr’otto, dopodiché assunse la posizione dei bronzi di Riace e attese che Gegia cominciasse la vestizione. L’amica si avvicinò e prese le mutande di Jack con due dita, come se stesse manipolando un oggetto contaminato da radiazioni. Tenendo le braccia più distese che poteva, si inginocchiò davanti all’amico e gli infilò le mutande. Per quanto non volesse avvicinarsi troppo, per eseguire l’operazione Gegia dovette per forza accostarsi al corpo di Jack. Mentre eseguiva il suo compito, guardava da un’altra parte, ma quando le mutande raggiunsero l’inguine, si incepparono contro qualcosa e lei fu costretta a voltarsi e guardare di fronte a sé. Il sesso di Jack era a un palmo dal suo naso, e pur essendo a riposo era incredibilmente grosso. Gegia trattenne il respiro e rimase immobile per alcuni interminabili secondi. Non riusciva a distogliere lo sguardo da quel coso e, suo malgrado, se ne sentiva morbosamente attratta. Infine, con un gesto brusco tirò su le mutande. Poi, con calma, completò la vestizione dell’amico. Jack lasciò il posto a Gegia e assunse una posizione di attesa, con le mani chiuse a pugno appoggiate alle anche. Lei tentennò e si guardò intorno cercando una scusa qualsiasi per fermare il gioco. Non la trovò, e gli sguardi delle amiche erano più che eloquenti: adesso toccava a lei e non poteva sottrarsi. Gegia cominciò lentamente a spogliarsi. Arrivata al reggiseno si fermò, poi, con un gesto lento e aggraziato che, seppure involontariamente, apparve molto sensuale, si tolse il reggipetto e lo lasciò cadere a terra. Quindi portò le mani alle mutandine per togliersi anche quelle, cominciò ad abbassarle, ma si fermò ancora. Pensò a Ceci, al suo corpo perfetto e alla sua fragolina rossa, e non poté evitare di fare il confronto fra il corpo dell’amica e il suo, tutt’altro che perfetto. I ragazzi l’avevano già vista nuda al capanno, è vero, ma una cosa è essere spiati attraverso una fessura e in penombra, altra cosa è mostrarsi nudi, spudoratamente, in posa davanti a tutti. Gegia lasciò le mutande al loro posto, assunse la posizione della Venere di Botticelli, con una mano davanti all’inguine e l’altra all’altezza del seno, e attese di essere rivestita.
Jack parve deluso, ma non protestò: non era nella sua indole cercare di convincere qualcuno a fare qualcosa che non vuole fare. Se Gegia aveva deciso così, lui avrebbe rispettato la sua decisone. Si avvicinò all’amica e raccolse il reggiseno. Era la prima volta che gli capitava di mettere un reggipetto a una donna e appariva impacciato. Lei, un po’ perché le regole del gioco prevedevano che il manichino non si muovesse, un po’ perché, dopo l’iniziale imbarazzo, stava cominciando a divertirsi, non fece nulla per aiutarlo. Dopo aver studiato un po’ la situazione, Jack capì cosa doveva fare: infilò le spalline prima su un braccio e poi sull’altro e avvicinò le coppe al seno. Capì subito che aveva infilato il reggiseno al contrario, ma fece finta di non essersene accorto, dopodiché spinse le coppe contro il petto di Gegia, e con la scusa di provare se le coppe si adattavano alle mammelle, le diede una bella strizzata. Lei fece una smorfia e lo incenerì con lo sguardo. Jack, allora, decise di fare il bravo ragazzo: le sfilò il reggiseno dalle braccia e lo infilò di nuovo dalla parte giusta, poi si avvicinò a Gegia e la abbracciò. Lei lo guardò ancora storto, ma capì che la manovra serviva per allacciare il reggiseno dietro e lo lasciò fare. Lui ci mise un po’ per eseguire l’operazione, e nel frattempo ne approfittò per stringere a sé l’amica e accarezzarla sulla schiena. Lei aveva capito che quella era una scusa per abbracciarla e toccarla, ma decise di stare al gioco e aspettò paziente: quell’abbraccio e quelle carezze cominciavano a piacerle. Terminata la complicata operazione, Jack si staccò da lei e finì di vestirla abbastanza in fretta. Poi, con il profumo della pelle dell’amica ancora nelle narici, tornò a sedersi.
Jack e Gegia totalizzarono un punteggio di ottantacinque. Adesso toccava all’ultima coppia, Brogio e Luna, e per quella prova Jack sostituì Brogio nella lettura delle istruzioni. Il titolo della quarta prova era bestiale: «Salame all’aglio». Luna era visibilmente a disagio e gli amici pensarono che anche lei, come le altre, si sentisse imbarazzata per il fatto di doversi spogliare. La preoccupazione di Luna era proprio quella, ma non a causa della timidezza: se quello fosse stato un giorno qualsiasi lei non avrebbe avuto problemi a denudarsi. Il grado di
intimità raggiunto dal gruppo era ormai molto alto e in condizioni normali Luna si sarebbe mostrata nuda senza problemi. Ma quello non era un giorno normale: quel giorno lei aveva le mestruazioni e se fosse rimasta in mutande tutti avrebbero notato l’assorbente. E dopo che le amiche si erano spogliate completamente, o quasi, tenere addosso i pantaloncini sarebbe stato ancora più imbarazzante che restare nuda. Per fortuna Jack la salvò dal terribile dilemma: l’amico aveva iniziato a leggere le regole della quarta prova e specificò subito, senza nascondere la sua delusione, che i componenti dell’ultima coppia non dovevano spogliarsi. Luna emise un grosso sospiro e Brogio, interpretando quel gesto come una specie di affronto personale, assunse un’aria delusa. Lei non voleva dirgli delle mestruazioni, ma non voleva nemmeno fargli credere che era felice per non essere costretta a fare giochini erotici insieme a lui. Per rincuorarlo e cercare di fargli capire come stavano le cose, gli spedì un’occhiata maliziosa e gli strinse le mani nelle sue. Con quel gesto e quello sguardo Luna voleva dirgli che, anche se non si sarebbe spogliata, avrebbe accettato tutto quello che la prova le imponeva di fare. Forse lui capì, o forse no, ma l’atteggiamento complice dell’amica lo galvanizzò e il suo viso si illuminò di felicità. Tina si accorse dello scambio di moine fra i due e il sorriso svanì dalle sue labbra. Proseguendo nella lettura delle istruzioni, Jack disse che per quella prova serviva uno spicchio d’aglio e un rotolo di spago. Brogio e Luna dovevano mettersi in piedi uno di fronte all’altro con le mani stese lungo i fianchi, ma senza abbracciarsi; gli altri dovevano legare la coppia con lo spago da salami e in modo che i loro corpi rimanessero a stretto contatto, poi dovevano tagliare a metà uno spicchio d’aglio e spalmarlo sulle labbra dei due a mo’ di rossetto. Cercando di non perdere l’equilibrio, i due sottoposti alla prova dovevano baciarsi – potevano farlo a fior di labbra oppure con la lingua – e restare legati fino a un massimo di cinque minuti. Se uno dei due fosse stato allergico all’aglio, si poteva evitare l’uso dell’ortaggio senza penalità; se nessuno dei due era allergico, il rifiuto dell’aglio avrebbe comportato una penalità di venti punti. Erano previste altre penalità qualora i due avessero perso l’equilibrio e fossero caduti; il punteggio massimo si otteneva usando l’aglio e scambiandosi un bacio con la lingua ininterrotto per cinque minuti senza cadere. Era consigliato, ma non obbligatorio, eseguire la prova sopra qualcosa di morbido. Appena Jack terminò la lettura, Brogio corse in casa a prendere l’aglio e lo
spago. Sia lui che Luna mangiavano il salame ferrarese e nessuno dei due era allergico all’aglio. Brogio era euforico: per la seconda volta nella sua vita avrebbe baciato una ragazza con la lingua, e questa volta quella ragazza era Luna. Avere il sapore dell’aglio sulla bocca non era un problema, anzi poteva rivelarsi un vantaggio: quel giorno Brogio stava facendo un sacco di corse e puzzava un po’ di sudore; l’aroma dell’aglio avrebbe mascherato l’odore del sudore. Tornato nel rifugio con il necessario, Brogio si accostò a Luna. Gli amici spinsero i due uno contro l’altra senza tanti riguardi e cominciarono a legarli con lo spago. Lei continuava a fissarlo e lui faticava a sostenere il suo sguardo, ma non voleva darle l’impressione di essere un timido e continuò a guardarla negli occhi finché gli amici non terminarono la legatura. I due erano talmente stretti che Brogio faticava quasi a respirare. Premuto contro il petto di Luna, sentiva il seno dell’amica che si alzava e si abbassava seguendo il ritmo del respiro. Poi Tommy gli prese il mento fra le mani e gli spalmò l’aglio sulla bocca. Ceci fece lo stesso con Luna. Finalmente Jack disse che i due potevano baciarsi e fece partire il cronometro. Nel suo primo bacio alla se, era stata Tina a prendere l’iniziativa; questa volta Brogio non aspettò e spinse le labbra contro la bocca di Luna cominciando subito a premere con la lingua per entrare. L’aroma dell’aglio si mischiò con il sapore della saliva. Lei si ostinava a tenere la bocca chiusa e i denti stretti e Brogio interpretò quella chiusura come un rifiuto: Luna stava lì perché il gioco lo prevedeva, mica perché lui le pie. Ritrasse la lingua e allentò la pressione delle labbra limitandosi a tenerle appoggiate sulla bocca chiusa di lei. Luna intuì che la rapida marcia indietro di Brogio era colpa sua. Lei aveva voglia di baciarlo, ma l’aglio le aveva sempre fatto schifo e quel sapore forte sulle labbra le dava quasi il voltastomaco. Tuttavia aveva già avuto una fortuna sfacciata a beccare una prova in cui non doveva spogliarsi e adesso non voleva dargli l’impressione che lo stava respingendo. Per mantenersi meglio in equilibrio, Luna mosse in avanti le mani fino a incontrare quelle di Brogio e gliele strinse. Poi, sforzandosi di pensare che in fondo quello era solo aglio, e lei il salame all’aglio ogni tanto lo mangiava,
allargò le labbra e spinse la lingua dentro la bocca dell’amico. Dopo un attimo di smarrimento, lui strinse più forte le mani di Luna e iniziò a duellare con la lingua dell’amica. Brogio chiuse gli occhi, e dopo un po’ gli sembrò di non essere più nel rifugio, ma dentro una nuvola di vapore caldo. Sotto i suoi piedi il pavimento di cartone si era liquefatto e l’aria intorno era diventata bollente. Gli girava la testa e gli tremavano le gambe, e la lingua di Luna sembrava un coltello arroventato. Poi si sollevò un gran vento e lui si sentì trasportare lontano: ò da una nuvola all’altra, sorvolò oceani e montagne, infine il vento cessò e precipitò al suolo. Brogio sentì le ossa che si sbriciolavano nell’impatto e aprì gli occhi: lui era lungo disteso e Luna era schiacciata su di lui. Il colpo lo ridestò dal torpore: non era caduto da una nuvola, aveva semplicemente perso l’equilibrio ed era caduto a terra trascinando con sé l’amica. Per fortuna i cartoni avevano attutito l’impatto; le sue ossa erano intatte, ma il suo orgoglio ne usciva piuttosto malconcio.
Tommy e Jack tagliarono lo spago e aiutarono i due a rialzarsi. Gli amici, stretti attorno a loro, ridevano, gridavano e applaudivano. Solo Tina era rimasta in disparte, seduta sulla cassetta, e guardava ora Brogio ora Luna con aria smarrita. Si sentiva ferita, ma non capiva perché. Brogio non era il suo ragazzo e lei non era innamorata di lui. Quella volta che lo aveva baciato in modo così apionato era stato solo per gioco: mentre lo baciava non stava nemmeno pensando a lui. E allora perché vedere quei due che si scambiavano sguardi languidi, si stringevano le mani e si baciavano con tanta ione la faceva stare così male? Il responso di Jack riguardo alla prova fu novantacinque punti. Il punteggio era ottimo, ma non sufficiente a eguagliare quello di Ceci e Tommy. Lo stesso Tommy propose di fare un secondo round, ma Tina disse che era stanca. Il gioco le era piaciuto, ma adesso preferiva andare a casa, e anche Gegia sembrava propensa a non continuare. Jack suggerì di non stabilire subito chi fossero i vincitori, ma di sospendere il gioco e di mantenere il punteggio valido per un altro giorno. Tutti accettarono la proposta e si prepararono per tornare a casa. La prima a uscire dal rifugio fu Tina. Brogio avrebbe voluto chiedere a Luna di
restare ancora un po’, ma poi si disse che non era il caso. Aveva capito di essere innamorato di Luna e sentiva che il suo sentimento era corrisposto, ma si rendeva conto che quello non era il momento migliore per fare una dichiarazione d’amore. Inoltre si sentiva in colpa con Tina: era il destino che aveva formato le coppie e scelto le prove da effettuare, ma lui non si era tirato indietro e aveva largamente approfittato dell’occasione. Brogio era convinto che Tina avesse finito per innamorarsi di lui e che adesso fosse gelosa di Luna. In realtà Brogio non aveva capito come stavano veramente le cose. Il guaio era che nessuno aveva intuito la verità, nemmeno Tina.
7. La casa del vampiro
Per Brogio la domenica era un giorno speciale, anche durante le vacanze estive. Lui lo sentiva “col corpo” che la domenica era diversa dagli altri giorni: cioè alla domenica i suoi cinque sensi erano sollecitati in modo differente, soprattutto al mattino quando si svegliava. Per esempio, la domenica aveva un suono diverso. Nei giorni feriali Brogio si svegliava con il rumore dei trattori che andavano nei campi, con le voci della nonna e della mamma che preparavano la colazione e cominciavano a trafficare per il pranzo e con le galline che iniziavano rumorosamente la loro giornata. Di domenica tutti i suoni erano smorzati: i trattori restavano nei magazzini oppure partivano più tardi, le donne, pur alzandosi sempre presto, facevano meno rumore e le galline erano meno chiassose del solito, come se anche loro sapessero che quello era un giorno di festa. Anche l’odore della domenica era diverso. Dal lunedì al sabato Brogio si svegliava con l’aroma del caffè e l’odore del ragù: a colazione c’era sempre latte e caffè e a mezzogiorno non mancava mai la pasta col ragù. Alla domenica, all’aroma del caffè si aggiungeva l’odore della torta che la nonna cuoceva nel forno e l’odore del ragù era sostituito da quello del brodo di carne. Perfino il sapore della domenica era diverso. Nei giorni feriali si mangiavano biscotti a colazione e pasta col ragù a mezzogiorno; la domenica a colazione si mangiava la torta – la classica brazadèla oppure la torta di tagliatelle – e a mezzogiorno i tortellini in brodo. I colori della domenica erano diversi. Nei giorni di scuola Brogio si alzavo molto presto e, soprattutto d’inverno, sempre col buio. Nella sua camera da letto c’era un comò con uno specchio molato sui bordi, e quando spuntava il sole i raggi di luce che attraversavano le fessure della tapparella si rifrangevano sui bordi dello specchio andando a formare un arcobaleno sulle pareti bianche della stanza. Alla domenica, salvo che non piovesse, Brogio si svegliava con l’arcobaleno in camera da letto.
E per finire, anche il senso del tatto era diverso alla domenica. Nei giorni feriali sua madre aveva sempre fretta: entrava nella stanza del figlio e lo svegliava bruscamente scompigliandogli i capelli, e quando lui tardava ad alzarsi lo scuoteva vigorosamente. La domenica sua madre entrava piano nella cameretta, gli accarezzava i capelli e gli dava un bacio sulla fronte. Lo aveva sempre fatto, fin da quando era piccolo, e aveva mantenuto quell’abitudine nonostante lui avesse già quindici anni, ma solo di domenica. Brogio non ricordava che sua madre lo avesse mai baciato nei giorni feriali. Ma quel giorno, 4 settembre 1977, fu una domenica diversa dalle altre. Lui, Tommy e Luna si erano dati appuntamento alle otto e mezza per andare insieme a Val Nebbiosa. Erano già le otto e doveva sbrigarsi. Senza aspettare che la mamma venisse a dargli il bacio della domenica, Brogio si alzò, andò in bagno a lavarsi e si vestì, poi scese giù in cucina dove c’era la nonna che stava preparando il caffè. «Come siamo mattinieri, oggi. Dov’è che devi andare?» «Ho un appuntamento con Tommy e Luna. La mamma dov’è?» «È andata dalla Pina a prendere delle uova. Le nostre galline sono entrate in sciopero. E tu dove vai a quest’ora?» Brogio non rispose. Prese un paio di biscotti e corse fuori gridando: «Ciao, nonna. Non ti preoccupare. Torno per le undici. Ci vediamo a messa.»
Quando Brogio arrivò al traghetto di Berra, gli amici non erano ancora arrivati, ma non dovette attendere molto. Dieci minuti dopo, i tre erano sul traghetto fluviale diretti a Villanova Marchesana. Una volta arrivati sull’altra sponda, i tre amici percorsero la strada sull’argine e in un quarto d’ora raggiunsero la loro meta. Nella prima metà del Novecento, Val Nebbiosa era un allegro paesino a ridosso dell’argine del Po, ma dopo la rotta del 1951 il paese era stato abbandonato e attorno alle rovine era stato costruito un secondo argine rinforzato. La zona si era trasformata in un’area golenale a forma di lente, lunga circa quattro chilometri. Delle vecchie case del paese erano rimaste poche rovine, e solo una era ancora in
piedi: la casa di Torello Stella, divenuta poi famosa come “la casa delle mele acerbe”. Negli anni Cinquanta, poco dopo la grande alluvione, l’area di Val Nebbiosa era stata presa in concessione dai proprietari della cartiera di Mesola, i quali avevano piantato in zona un pioppeto da carta e comprato la vecchia casa di Torello per adibirla a uffici e magazzino. Verso la fine degli anni Sessanta, la cartiera aveva deciso di aumentare la produzione di carta e aveva aperto la filiale di L’Olanda. A Val Nebbiosa erano stati piantati nuovi pioppeti e per far posto agli alberi erano state demolite tutte le case tranne quella di Torello, che era stata invece restaurata. Verso la fine del 1976 la cartiera di Mesola aveva assunto Nero Fastu, un ingegnere di origine rumena che abitava in Francia, per fargli dirigere la filiale. Fastu non aveva un’abitazione propria e non aveva soldi per comprarne una, perciò aveva chiesto ai proprietari della cartiera se poteva stabilirsi nella casa di Torello Stella. Ottenuto il consenso, dopo aver abitato per un po’ di tempo a Mesola, all’inizio dell’estate aveva fatto il trasloco. Val Nebbiosa aveva un solo accesso carrabile che scendeva in golena dall’argine interno, quello costruito in epoca più recente. Da lì una stradina sterrata, lunga circa un chilometro, attraversava i pioppeti e raggiungeva la casa di Fastu, situata al centro dell’area golenale. La casa sorgeva su un dosso formato da terra di riporto e detriti provenienti da un’antica fabbrica di mattoni scomparsa da tempo, e perciò era fuori portata dalle piene del Po. Tuttavia, quando il fiume era in piena, la strada finiva sott’acqua e il dosso diventava una specie di isoletta, tanto che la casa poteva essere raggiunta solo in barca o con mezzi anfibi. In quei periodi, Fastu restava a dormire nella cartiera. Ma anche quando il Po era in magra, la casa di Fastu era la più isolata della zona, e quindi perfetta per lui. L’ingegnere rumeno era un tipo estremamente schivo e solitario e faticava perfino a salutare i suoi più stretti collaboratori che ormai non facevano più caso alle sue stravaganze. E in quanto a stravaganze Fastu era davvero insuperabile: vestiva sempre di nero, portava sempre cappello e guanti neri e occhiali scuri; viaggiava unicamente sul suo fuoristrada con i vetri oscurati e usava l’auto anche per fare pochi metri; nessuno l’aveva mai visto andare in bicicletta o percorrere a piedi un tratto più lungo di cinquanta metri. La sua vita sociale, poi, era del tutto inesistente. Nessuno, infatti, aveva mai visto Fastu in un bar, in un negozio, al ristorante, in chiesa o semplicemente a eggio. A mezzogiorno non pranzava in ufficio, ma usciva in auto e rientrava dopo un’ora o anche meno: un tempo troppo breve per andare a Val Nebbiosa, pranzare e tornare. Forse mangiava un panino in macchina, ma nessuno, a dire il vero, aveva mai visto Fastu mangiare qualcosa. Molto
raramente ospitava qualcuno a casa sua: uno dei pochi che erano stati nella casa di Fastu era il padre di Luna. Cosimo aveva raccontato alla moglie e ai figli cose raccapriccianti sulla casa di Fastu. I ragazzi scesero lungo lo stradello sterrato che attraversava Val Nebbiosa e furono presto davanti al dosso su cui sorgeva la casa dell’ingegnere. L’edificio era una grande casa colonica con il tetto poco spiovente, una porta centrale e finestre su tre livelli. I lavori di restauro avevano interessato soprattutto la parte interna, mentre la struttura esterna era rimasta pressoché immutata. Nella parte centrale del tetto torreggiava un grande camino di mattoni sulla cui facciata nord erano dipinte, una accanto all’altra, due mele di colore verde. A causa di quello strano disegno gli abitanti della zona avevano battezzato quell’edificio: la casa delle mele acerbe. Le mele erano state dipinte da Torello Stella, un giovane imbianchino che viveva là con la madre all’epoca dell’alluvione del Polesine del 1951. Il giorno della rotta del Po, la signora era morta di crepacuore e Torello si era rifugiato in soffitta, dove l’acqua non era mai arrivata, nemmeno nel momento di massima piena. Fra le cose che Torello era riuscito a portare in soffitta c’erano un barattolo di vernice verde e un paio di pennelli. Per qualche ragione misteriosa, Torello era salito sul tetto e aveva dipinto sul camino le mele con l’unica vernice che era riuscito a salvare. Forse le aveva dipinte per attirare l’attenzione oppure per are il tempo in attesa dei soccorsi. Nessuno lo aveva mai saputo: quando i soccorritori avevano raggiunto la casa, dopo diversi giorni, avevano trovato il ragazzo privo di vita vicino al corpo della madre, al primo piano. Forse Torello aveva cercato di portare il cadavere della mamma in soffitta ed era annegato nel tentativo. Brogio, Luna e Tommy si avvicinarono alla casa portando le biciclette a mano. Il portone e tutte le finestre erano sbarrati, ma il padre di Luna era già stato lì e aveva visto Fastu che nascondeva la chiave della porta in un bidoncino vicino all’angolo destro della casa. Luna frugò nel bidone e con un gesto di esultanza mostrò la chiave agli amici. Brogio la prese con cautela, come se scottasse, e guardò prima Tommy e poi Luna. Sembrava un condannato in procinto di incamminarsi lungo il braccio della morte. Luna si avvicinò a lui e lo baciò sulla bocca: un bacio lieve, appena accennato, ma Brogio sentì una scossa elettrica che lo attraversò da capo a piedi.
«Okay» disse. «Io entro. Tu, Luna, mi aspetti qui. Potrei avere bisogno di chiederti delle cose. Tommy, tu torni all’inizio dello stradello e controlli l’argine. Se vedi che arriva qualcuno, chiami Luna sul walkie-talkie e ti nascondi nel bosco. Luna, se Tommy ti chiama, mi fai un fischio, di quelli forti che fai quando chiami Bandito, poi corri anche tu nel bosco. Non aspettarmi. Vai subito nel bosco e raggiungi Tommy ando in mezzo agli alberi. Poi andate insieme al traghetto.» «E tu?» chiese Luna. «Se sento il tuo fischio, corro fuori, chiudo la porta e scappo verso l’argine. Però ci metterò del tempo. Quindi, per evitare di incontrare Fastu, scappo ando da dietro e vi raggiungo al traghetto.» «Va bene» disse Luna. «Ma vedrai che non ci sarà bisogno di scappare. A quest’ora Fastu è ancora a Milano.» Senza rispondere, Brogio si voltò e si avviò verso la porta d’ingresso. Tommy inforcò la bicicletta e corse giù dal dosso ripercorrendo lo stradello a ritroso.
Brogio aprì la porta della casa ed entrò. All’interno era buio pesto. Cliccando a tastoni lungo le pareti, trovò un interruttore, ma quando lo pigiò non accadde nulla. Aveva immaginato che avrebbe trovato la casa al buio e si era portato una torcia elettrica. Puntò il fascio di luce in avanti e avanzò di qualche o. Appena dentro, la porta si richiuse dietro di lui con un tonfo sordo. Ebbe un sobbalzo e si girò di scatto, ma capì perché la porta si era richiusa da sola e si tranquillizzò: forse Fastu immaginava di avere spesso le mani occupate – per portare dentro le sue vittime? – e aveva fatto montare un chiudiporta a molle. Mentre avanzava lungo il corridoio d’ingresso, Brogio sentì la voce di zia Evelina che lo chiamava. Tirò fuori la radiolina dalla tasca e l’avvicinò all’orecchio «Ciao, nipote. Hai trovato il libro?» «No, zia, sono appena arrivato. Anzi, sarebbe proprio il caso che tu mi aiutassi.» «Io? E come faccio ad aiutarti? Ci sono stata tanti anni fa in questa casa, quando
ci abitava ancora Torello. Io non lo so dov’è il libro.» Brogio rimise la radiolina in tasca e si avviò in perlustrazione muovendo il fascio di luce in tutte le direzioni. Se l’esterno della casa, tutto sommato, appariva normale, l’interno era decisamente inconsueto: le pareti erano scure e decorate con tappeti e arazzi di foggia orientale e sul pavimento era steso un grande tappeto, forse persiano. Nel corridoio non c’erano finestre e le porte erano tutte chiuse. Dal soffitto pendeva un bellissimo lampadario, di vetro o cristallo, con i bracci sottili ritorti a spirale e rivolti verso l’alto, e addossati ai muri troneggiavano quattro grossi candelabri di metallo ognuno dei quali portava cinque candele in gran parte consumate. Gli unici mobili presenti nel corridoio erano un attaccapanni di legno massello e una scarpiera. Brogio controllò la scarpiera, che conteneva solo scarpe, e poi avanzò lungo l’androne, in fondo al quale si vedeva una scala che saliva. Cominciò a pensare che la ricerca del libro sarebbe stata lunga e faticosa e si chiese nuovamente se valesse la pena fare tutti quegli sforzi e rischiare la pelle solo per soddisfare il capriccio di un fantasma. Per un attimo ebbe la tentazione di rinunciare, ma ormai era lì, aveva perfino coinvolto i suoi migliori amici, tanto valeva fare almeno un tentativo. Si avvicinò a una delle porte chiuse e provò a girare la maniglia. La porta si aprì subito, ma prima di entrare Brogio esplorò la stanza con la torcia elettrica. Era la cucina e anche là c’erano dei candelabri con le candele consumate. Ormai era chiaro che Fastu non usava l’energia elettrica per illuminare le stanze, ma solo la luce delle candele. Fastu doveva essere un tipo molto ordinato perché la cucina appariva rassettata e pulita da cima a fondo. Brogio si era immaginato di trovare in quella casa ogni genere di schifezza: coltellacci sporchi di sangue, interiora umane, pezzi di corpi macellati, occhi umani galleggianti in tinozze ricolme di sangue, invece non c’era nulla di tutto ciò. Ma rimanevano ancora i mobili da esaminare. Con la mano che gli tremava, Brogio aprì l’anta di un mobiletto e con enorme sollievo vide che era pieno di piatti e di pentole. Anche gli altri mobili contenevano solo suppellettili di cucina e vivande. L’unica cosa strana era la presenza particolarmente abbondante di roba dolce: c’erano marmellate, caramelle, dolcetti, biscotti, merendine, torte confezionate, succhi di frutta e bevande gassate a volontà e un intero stipetto era pieno di dolcificanti di vario tipo. Il frigo era mezzo vuoto, ma su un piatto c’era una grossa fetta di torta al
cioccolato, almeno così sembrava. La cosa appariva oltremodo strana perché Fastu era un tipo magro e longilineo. A chi era destinata tutta quella roba dolce? Forse alle sue vittime perché avessero il sangue più dolce? In ogni caso, a parte un paio di volumi di cucina dedicati alle torte fatte in casa, quella stanza non conteneva libri. Brogio uscì dalla cucina e si diresse verso un’altra stanza. Nemmeno la seconda porta era chiusa a chiave, e anche lì c’erano diversi candelieri con mozziconi di candele. La stanza, probabilmente il soggiorno, era occupata da un divano, due poltrone, un tavolo con quattro sedie, un televisore, un vecchio grammofono, un mobile porta dischi con centinaia di dischi in vinile, molti dei quali di musica classica e piuttosto vecchi, e un mobile vetrina pieno di bottiglie di liquore, soprattutto dolce: alchermes, amaretto, anisette, cherry, crema di whisky, maraschino, pastis, pernod, rosolio e sambuca. In un angolo, semi nascosto da una poltrona, c’era un mobile libreria con una ventina di libri e qualche rivista. Quello che cercava lui non c’era, tuttavia quei libri e quelle riviste trattavano tutti un solo argomento: la medicina. Era curioso che il direttore di una cartiera si interessasse tanto di medicina, ma la cosa gli apparve meno strana quando notò che la maggior parte di quei volumi era dedicata all’ematologia, cioè allo studio del sangue. Anche in quella stanza, comunque, il libro della zia non c’era, oppure, se c’era, era molto ben nascosto. Brogio uscì dal soggiorno e aprì un’altra porta. Il terzo ambiente era un’enorme biblioteca: le pareti erano occupate da mobili e ripiani pieni di libri. Se l’album di Evelina era in quella casa, non poteva che essere in biblioteca. Anche là dentro c’erano candelieri e candelabri e guardando nei cassetti probabilmente sarebbero saltati fuori anche i fiammiferi. Non voleva accendere le candele, tuttavia con la scarsa luce della torcia elettrica avrebbe impiegato mesi a trovare quello che cercava. Poi, però, si ricordò che il dorso dell’album, di colore rosso scuro, aveva una decorazione dorata di foggia particolare: due cuori intrecciati. Con un simile ornamento non doveva essere difficile scovare il libro perché i due cuori dorati avrebbero riflettuto la luce della torcia e sarebbe stato facile notarli.
Brogio cominciò a illuminare la libreria uno scaffale alla volta, un libro dopo l’altro. Dopo un quarto d’ora aveva guardato dappertutto, e non aveva trovato il libro. Prima di andarsene aprì un paio di stipetti chiusi, ma anche lì non c’era quello che cercava. Nonostante la delusione, Brogio rimase affascinato dalla biblioteca di Fastu. Tranne un paio di romanzi erotici, non sembrava ci fossero libri proibiti ai quindicenni né, tantomeno, riviste pornografiche; in compenso, a parte gli ovvi manuali tecnici di chimica e ingegneria, la libreria era strapiena di romanzi horror, libri di magia e tomi di stregoneria e vampirismo. Forse Fastu era un vampiro o forse no, ma i suoi gusti in fatto di letteratura erano chiari. La quarta stanza si rivelò una vera sorpresa: era una specie di bottega da macellaio con al centro un grande tavolo in marmo e le pareti quasi interamente nascoste da vetrine, armadi, cassettiere ed elettrodomestici di vario tipo, fra cui un frigorifero alto due metri e un grosso congelatore. Il frigo e il freezer erano pieni di animali morti, soprattutto polli e conigli, alcuni dei quali ancora da spennare o da spellare, e negli altri mobili c’erano molti utensili da macellaio tra cui seghe, coltelli e forchettoni. Brogio rabbrividì al pensiero che Fastu potesse usare quegli animali come divertimento invece che come cibo. Dopo una rapida esplorazione, si rese conto che nemmeno lì c’era l’album della zia. Una porticina in fondo al corridoio lo condusse in un grande stanzone adibito a cantina, garage e ripostiglio pieno di bottiglie di vino, taniche di gasolio, attrezzi e materiali di vario genere, ma nessun libro.
Rimanevano da esplorare i piani superiori. Brogio era un po’ titubante a salire le scale e pensò che forse era meglio avvertire Luna. Uscì dalla casa e le disse che non aveva ancora trovato il libro, poi le spiegò che stava per salire al piano superiore e chiese se là fuori fosse tutto a posto. Lei confermò che Tommy non si era fatto sentire, ma lo pregò di sbrigarsi perché non si sentiva tranquilla: aveva la sensazione che da lì a poco sarebbe accaduto qualcosa di terribile. Brogio le assicurò che avrebbe fatto il più in fretta possibile e rientrò in casa. Lungo la parete delle scale, a circa un metro di altezza, c’era uno strano aggeggio metallico. Poteva essere un corrimano, ma la forma ricordava la rotaia
di un binario del treno e nella parte rivolta verso il muro c’era una catena, simile a una catena da bicicletta, ma più grossa e lunga quanto il binario. Brogiò salì al primo piano, e sul pianerottolo inciampò in qualcosa. Puntò la torcia verso terra e scoprì che la cosa su cui era inciampato era una lastra di metallo che toccava quasi il pavimento ed era fissata al corrimano tramite una staffa di ferro. Non aveva mai visto un aggeggio simile e si chiese a cosa potesse servire, ma non aveva il tempo per indagare. La prima stanza in cima alle scale era il bagno. Difficilmente Fastu aveva nascosto là il libro, ma Brogio non voleva trascurare nulla e controllò ugualmente. Una rapida perlustrazione gli confermò che nel bagno non c’erano libri. Le altre stanze erano due camere da letto – una più grande e una più piccola – e un ripostiglio. Le camere da letto avevano un arredamento simile; nella stanza piccola c’era un letto singolo mentre quella più grande ospitava un letto matrimoniale. La cosa era molto strana. Luna aveva detto che Fastu non era sposato, che viveva da solo e non ospitava mai nessuno, soprattutto a dormire. Allora perché tutti quei letti? Ma la cosa davvero strana era che nella camera matrimoniale c’era anche una sedia a rotelle: che Fastu la usasse per portare in giro le sue vittime dopo averle vampirizzate? Nella stanza più piccola Brogio trovò abiti maschili, mentre in quella più grande c’erano un armadio e un comò pieni di gonne, camicette da donna, reggiseni e mutandine di pizzo: appartenevano a qualche amichetta di Nero Fastu o alle vittime di Nosferatu?
L’esplorazione delle camere da letto e del ripostiglio si rivelò infruttuosa e gli rimaneva da controllare solo il secondo piano. Brogio aveva notato che in fondo al corridoio c’era una seconda scala che saliva e che quasi certamente portava in soffitta. Non moriva dalla voglia di avventurarsi là sopra, soprattutto dopo aver visto quegli indumenti femminili – temeva che in soffitta avrebbe potuto trovare le ospiti di Nosferatu, ovvero ciò che ne rimaneva – ma ormai, dopo essere arrivato fin lì, non poteva tornare indietro. Lungo le scale che conducevano in soffitta trovò lo stesso aggeggio misterioso a forma di binario che aveva già osservato al primo piano. Non era ancora a metà
delle scale, quando sentì dei rumori: erano sibili e soffi, fruscii e pigolii, bisbigli e sussurri, gridolini e risatine. Non erano gemiti di dolore o grida di paura, tuttavia Brogio si sentì gelare il sangue nelle vene e dovette fare uno sforzo enorme per proseguire. La soffitta era illuminata da un chiarore lattiginoso, come se l’ambiente fosse saturo di nebbia o di fumo, e prima di arrischiarsi a entrare Brogio sbirciò dentro. La luce entrava da una piccola finestra con il vetro sporco e coperto di ragnatele e rischiarava un ambiente disadorno, con pochi mobili piuttosto malandati e cianfrusaglie di ogni tipo. Al centro della camera c’era un letto, di quelli antichi con la testiera in metallo, con un materasso nascosto sotto una coperta di cotone sgualcita e sbrecciata, di colore verde marcio, e un paio di cuscini malconci. Sdraiata sul letto c’era una donna, all’apparenza non più giovanissima, completamente nuda e con la carnagione molto pallida. La signora voltava le spalle a Brogio che poteva quindi ammirare il suo fondoschiena, ancora bello e sodo nonostante l’apparente età avanzata. A fianco del letto, un ragazzo molto più giovane della donna stava seduto su una sedia: aveva una matita in mano e sembrava intento a ritrarre la donna su un quaderno. Il colore della sua pelle variava dal bianco sporco al grigio topo e i capelli erano lunghi e candidi. Brogio intuì che quella figura spettrale apparteneva a una persona morta da molto tempo. I due sembravano in grande intimità: lei, per nulla imbarazzata dalla nudità, scherzava con lui emettendo risatine e gridolini; lui sembrava affascinato dalla donna, e mentre la ritraeva sospirava e mormorava frasi incomprensibili. A un tratto la donna si alzò in piedi, girò attorno al letto e venne verso di lui. Brogio la riconobbe subito. Aveva visto sua zia molte volte in costume da bagno, e un paio di volte anche in lingerie, ma non aveva mai visto Evelina completamente nuda. Nonostante l’apparente età avanzata e il pallore della pelle, la zia era ancora una bellissima donna: rotondetta, ma non grassa, con un seno florido e ben tornito, appena un po’ ricadente sul torace; i fianchi erano un po’ larghi, ma nel complesso la siluette era armoniosa; i capelli, color grigio perla, erano lunghi e sciolti, leggermente mossi; i peli del pube erano fitti e arricciati, come lana di pecora, e anche il colore era quello della lana naturale; le gambe, lunghe e affusolate, sembravano quelle di una ragazza giovane. La sua condizione di ectoplasma le permetteva certamente di eliminare le rughe e la
cellulite, tuttavia Brogio ricordava bene che, anche quando era viva, la zia aveva una pelle liscia e vellutata da far invidia a una ventenne. Se non fosse stato per il colore della carnagione, Brogio avrebbe pensato che sua zia fosse miracolosamente risorta. «Ciao, Brogio» disse Evelina. «Dai, entra. Ormai ci hai scoperti.» Un po’ per la sua nudità, un po’ per la sorpresa di riuscire a vederla, Brogio era rimasto impietrito. Immaginava la zia chiusa dentro alla radiolina e vedersela davanti, alta e bella come una statua greca, gli impedì di muoversi. Lei ripeté l’invito e lui, finalmente, si decise a entrare nella soffitta. «Io non…» farfugliò Brogio. «Scusa, ma… non potresti rivestirti?» Evelina proruppe in una sonora risata. «Ambrogio, ormai sei grande. Non hai mai visto una donna nuda?» «Sì, però… insomma, non ti senti in imbarazzo a stare nuda davanti a… a quello là?» «Non mi vergognavo di mostrami nuda quando ero viva, figurati adesso che sono morta!» «Contenta te… A proposito, come mai qui posso vederti?» «Questa soffitta è speciale.» «Perché, cos’ha di speciale questa soffitta? E quello là chi è?» Il ragazzo chiamato in causa si alzò in piedi e si presentò: «Io sono Torello Stella, figlio di Giovanni e Agnese, imbianchino di professione e pittore per ione, morto annegato nel 1951 all’età di diciannove anni. Tu sei il nipote di Evelina, immagino. Stai cercando Fastu?» Brogio guardò la zia con aria infastidita. «Veramente, stavo cercando un libro. E non ho ancora capito perché. Cosa se ne fa, un morto, di un libro?» «Ma è proprio perché sono morta che quel libro, per me, è importante. Quel libro contiene i miei ricordi più belli. Vedi, Ambrogio, nemmeno un fantasma dura in eterno. Anche l’esistenza dei fantasmi, per così dire, ha un termine. Può essere
un periodo lungo o breve, ma non infinito. E quando il periodo termina, lo spirito ha davanti a sé diverse strade, alcune belle e altre brutte. Il cammino che un defunto può percorrere nell’aldilà dipende da vari fattori, e tra questi fattori ci sono i ricordi che uno si porta dietro. Se sono concretizzati in oggetti materiali, come ad esempio libri, dipinti, statue, monumenti, strade e così via, i ricordi hanno maggior valore. Tu hai visto solo delle pagine vuote, ma ti assicuro che i miei ricordi più belli sono contenuti in quel libro. Se andasse distrutto, con esso andrebbero perduti tutti quei ricordi e il mio percorso futuro potrebbe essere… sì, insomma, potrebbe essere più brutto. Perciò è importante che tu ritrovi quel libro. Devi trovarlo e conservarlo da qualche parte per evitare che vada distrutto.» Brogio rimaneva scettico, ma ormai aveva fatto trenta, poteva fare anche trentuno. Naturalmente rimaneva il problema di trovarlo, il libro. Secondo Evelina, in soffitta l’album non c’era, ma lui per scrupolo guardò anche lassù. Trovò una porta chiusa, ma non aveva né il tempo né la voglia di cercare la chiave. La zia disse che non sapeva cosa ci fosse dietro quella porta e non aveva idea di dove fosse la chiave. Brogio cominciava a stufarsi: stava facendo tutta quella fatica per lei, ma Evelina non lo stava aiutando per niente. La zia, comunque, era fiduciosa: Fastu non aveva preso il libro per distruggerlo, altrimenti l’avrebbe lasciato dov’era. Forse gli era piaciuto e aveva deciso di regalarlo a qualcuno e probabilmente l’aveva lasciato in macchina. Nessuno, a parte forse il padre di Luna, sapeva se avesse dei parenti, ma era probabile che anche lui ne avesse. Era abbastanza giovane e forse i suoi genitori vivevano ancora; magari l’album era un regalo per l’anziana mamma che sicuramente viveva in Transilvania. Brogio pensò che recuperare quel libro non sarebbe stato per niente facile: avrebbe dovuto trasformarsi in detective, indagare sulla vita privata di Fastu e, chissà, fare un viaggio in Romania. A sentire suo padre, non era facile andare in Romania in quegli anni perché era governata da un dittatore, un certo Ceausescu, e non c’era la libertà come in Italia. Recuperare quel libro si stava rivelando una faccenda molto più complicata del previsto, e se i sospetti di Luna sulla natura vampiresca di Fastu erano giusti, anche molto pericolosa. Brogio disse alla zia che intendeva sospendere le ricerche e riflettere un po’ sul da farsi, ma prima di andare via volle soddisfare una curiosità: «Torello, perché sul camino della casa hai disegnato delle mele?»
«Ognuno ha i suoi segreti» rispose il fantasma. «Evelina ha i suoi, io ho i miei.» Brogio alzò le spalle – in fondo non gli importava un fico secco di quelle mele dipinte – e uscì dalla soffitta.
Luna era in cortile davanti alla porta e appariva molto nervosa e impaziente di andarsene. «Allora, lo hai trovato il tuo famoso libro?» «No, non c’è. Oppure è nascosto bene.» Brogio ritenne di non raccontare a Luna il suo incontro con i due fantasmi. Lei prese la bicicletta e si avviò verso la strada, lui stava per seguirla quando si accorse che non aveva più la radiolina. Quando era salito in soffitta ce l’aveva in mano, di questo era sicuro, ma non ricordava se ce l’aveva ancora quando era sceso; probabilmente l’aveva appoggiata da qualche parte mentre esplorava la soffitta. Brogio gridò a Luna che doveva tornare dentro un attimo. Lei gli chiese se doveva aspettarlo, ma lui le disse di raggiungere Tommy e poi di andare insieme al traghetto. Lui avrebbe fatto in un attimo e li avrebbe raggiunti là, e se il traghetto partiva prima che lui arrivasse, si sarebbero visti in chiesa. Luna tornò vicino alla casa, lo abbracciò e gli stampò un bacio sulla bocca. «Fai presto, mi raccomando. Non farmi stare in ansia.» Brogio rimase lì impalato per qualche istante, poi rispose in un sussurro: «No… faccio prestissimo.»
Luna e Tommy erano andati via da pochi minuti, quando una grossa macchina nera imboccò la stradina in mezzo al bosco che conduceva alla casa delle mele acerbe. L’auto salì lungo il dosso e si fermò davanti alla casa. Un uomo vestito di nero, con cappello nero a larghe tese e occhiali scuri scese dall’auto, aprì la portiera posteriore ed estrasse un corpo avvolto in una coperta: sembrava una ragazzina e aveva tutta l’aria di essere morta o svenuta. Nosferatu entrò in casa
con la vittima in braccio. Brogio aveva visto tutto dalla finestra della soffitta. Aveva appena recuperato la radiolina quando aveva udito lo scricchiolio delle ruote sopra la ghiaia del cortile. Era corso giù in fretta, ma non aveva fatto in tempo a uscire. Aveva avuto solo il tempo di chiudere la porta e di tornare in soffitta. Nel frattempo i fantasmi di Evelina e Torello erano scomparsi. Nascosto sotto al letto, Brogio sentì la porta che si apriva e poi, con un tonfo sordo, si richiudeva. Udì Nosferatu che saliva le scale ed entrava in una delle camere da letto e immaginò, dai rumori che giungevano distintamente in soffitta, quello che il vampiro stava combinando. Nosferatu appoggiò la ragazza sul letto, aprì la finestra, aprì e chiuse più volte le ante dell’armadio; poi entrò in bagno, fece scorrere l’acqua per alcuni istanti, quindi tornò nella camera da letto e ci rimase una decina di minuti. Dieci minuti dominati dal silenzio. Brogio si sforzò di non pensare a quello che Nosferatu stesse facendo alla ragazza. Poi il vampiro scese le scale, uscì in cortile, richiuse la porta, salì in macchina, avviò il motore e ripartì sgommando. Doveva approfittare dell’assenza di Nosferatu e scappare a gambe levate. Scese al primo piano, e ando davanti alla camera da letto più grande notò che era illuminata dal sole. La porta era aperta e Brogio ebbe un attimo di esitazione: doveva fuggire senza preoccuparsi della ragazza o doveva provare a salvarla? Forse era ancora viva, forse Nosferatu non l’aveva ancora vampirizzata. Le gambe e lo stomaco gli suggerivano di fuggire, ma il cuore e il cervello gli dicevano che non poteva abbandonare quella poverina nelle grinfie del mostro. Cuore e cervello ebbero il sopravvento ed entrò nella stanza. La ragazza era distesa sul letto, coperta fino alla vita da un lenzuolo bianco, e con la testa girata dall’altra parte. Indossava un reggiseno bianco di pizzo; era molto magra e pallida, ma il seno si alzava e si abbassava ritmicamente. Respirava. Dunque era ancora viva, anche se, visto il pallore, probabilmente nelle sue vene scorreva ormai ben poco sangue. La ragazza voltò la testa e gli mostrò il viso. Più che svenuta o moribonda quella tizia aveva l’aria di dormire beatamente.
Brogio non aveva mai visto una persona vampirizzata, ma se la immaginava diversa: una ragazza aggredita da un vampiro avrebbe dovuto avere dei morsi o altri segni sul collo e la sua pelle avrebbe dovuto essere molto più chiara. Pur essendo molto magra e di carnagione pallida, quella sembrava una ragazza normale, ed era anche piuttosto carina: capelli neri, lisci e lunghi, pettinati con la riga in mezzo; fronte alta, zigomi e mento prominenti, naso affilato, bocca piccola e sensuale. Anche con gli occhi chiusi, quella tipa ricordava molto Morticia Addams. Negli anni Sessanta era andata in onda la prima serie del telefilm La famiglia Addams. Brogio era ancora piccolo, ma in seguito la Rai aveva trasmesso diverse repliche e perfino una nuova serie a cartoni animati, perciò conosceva bene la pallida signora Addams, sempre vestita di nero, che amava coltivare rose di cui buttava i fiori per conservare gli steli apiti. E quella ragazza sdraiata nel letto assomigliava in modo impressionante a Carolyn Jones, la magistrale interprete di Morticia. Il dubbio continuava a tormentarlo: doveva svegliarla e portarla via, magari di peso, oppure abbandonarla al suo destino? In fondo non era affatto sicuro che Fastu fosse un vampiro e che quella ragazza fosse in pericolo. Ad ogni modo non furono quei pensieri a farlo decidere, ma un oggetto sul comodino. Casualmente, Brogio aveva posato lo sguardo sul comodino dalla parte opposta del letto e sopra c’era il libro di zia Evelina. Nessun dubbio in proposito: la forma, il colore della copertina e le decorazioni dorate erano gli stessi. Di sicuro quel libro non c’era quando aveva ispezionato la stanza. Probabilmente era rimasto in macchina, e Fastu lo aveva portato in casa quando era entrato con la ragazza. Camminando in punta di piedi, Brogio entrò nella camera e si avvicinò al comodino. Prese il libro e fece per andarsene, ma non ci riuscì: qualcosa dentro di lui gli impediva di fuggire. Se Fastu fosse stato davvero un mostro, e se lui fosse andato via e poi avesse scoperto che a quella ragazza era successo qualcosa di brutto, il rimorso non lo avrebbe più lasciato dormire. Brogio si avvicinò alla ragazza e le toccò una gamba con la mano. La fanciulla non si mosse; forse era stata narcotizzata. Le toccò di nuovo la gamba, ma questa volta scuotendola con un certo vigore. La fanciulla fece una smorfia, brontolò qualcosa e girò il viso verso il cuscino. Era stata sicuramente narcotizzata.
Brogiò rimise il libro sul comodino, poi appoggiò le mani sulle spalle della fanciulla, la scosse con una certa rudezza e gridò: «Ehi, sveglia! Dai, svegliati, per favore.» Finalmente lei aprì gli occhi, girò il viso verso l’alto e si guardò intorno con aria confusa e seccata. Quando vide Brogio in piedi accanto al letto, l’espressione del volto mutò istantaneamente: la seccatura divenne sorpresa e la confusione si tramutò in paura. Prese il lenzuolo con due mani, si coprì il corpo fino al collo e iniziò a urlare a squarciagola. Brogiò cercò di calmarla dicendole che lui era un amico e che era lì per aiutarla. Fra uno strillo e l’altro, lei cominciò a gridare frasi incomprensibili, ma non provò ad alzarsi dal letto né tentò di fuggire. Per lo sforzo, il suo viso divenne rosso e le grida si tramutarono in rantoli, infine svenne. In quel momento Nosferatu entrò nella stanza.
Quando Tommy e Luna arrivarono al traghetto, quello era appena partito. «Che sfiga!» esclamò Tommy. A differenza del fratello, Luna non era affatto dispiaciuta di aver perso il traghetto: aveva una buona scusa per aspettare Brogio. La casa di Fastu le metteva addosso una gran fifa, e quando Brogio le aveva detto di andarsene, lei era partita di corsa, ma adesso si era pentita. Aveva aspettato tanto là in cortile, non sarebbe certo morta se fosse rimasta cinque minuti in più. Comunque lui le aveva assicurato che sarebbe rimasto pochissimo nella casa e fra un attimo l’avrebbe visto pedalare sull’argine. «Cos’hai?» chiese Tommy alla sorella che continuava a guardare l’orizzonte. «Sei preoccupata per Brogio?» «Sì. Era tornato dentro a prendere qualcosa e aveva detto che sarebbe uscito subito. Però ancora non si vede.» «Non preoccuparti. Vedrai che adesso arriva.» Trascorse mezz’ora. Il traghetto tornò e cominciò le manovre di attracco, ma
Brogio non si era ancora fatto vivo. Luna era talmente preoccupata che quasi le venivano le lacrime agli occhi, e anche Tommy adesso era nervoso. L’uomo del traghetto alzò un braccio e lo agitò per indicare ai pochi eggeri presenti che potevano salire a bordo. Tommy era propenso a prendere il traghetto sostenendo che Brogio è uno che se la cava sempre e che, magari, aveva solo bucato una gomma della bicicletta. Luna, invece, non se la sentiva di andare a casa come se niente fosse. Se Tommy voleva andare, che andasse; lei sarebbe tornata a cercare Brogio, anche da sola se necessario.
Brogio vide Nosferatu precipitarsi nella stanza e la sorpresa si mutò in orrore. L’uomo non indossava né il cappello né gli occhiali e la sua testa sembrava quella di un diavolo: il cranio, quasi completamente calvo, aveva la pelle giallastra, screpolata e chiazzata di macchie rosse e viola; i pochi capelli ancora presenti erano corti e raggruppati in radi ciuffi di colore grigio sparsi fra le macchie; le sopracciglia erano cespugliose e folte, mentre le ciglia erano corte, rade e irte, simili a spine; gli occhi, semichiusi, avevano lobi oculari giallastri e sanguigni, con l’iride opaca e color cenere; del naso ne mancava un pezzo, come se un cane l’avesse morso; le labbra in pratica non esistevano e i denti, giallastri, sottili e appuntiti, spuntavano da gengive brunastre e raggrinzite; macchie più o meno estese, di colore variabile dal rosso mattone al bruno, gli deturpavano il viso. Paralizzato dal terrore, Brogio attese che il vampiro si avventasse su di lui. Invece, stranamente, Nosferatu andò alla finestra e accostò le imposte in modo da oscurare la stanza, poi si precipitò verso la ragazza svenuta nel letto, la afferrò sotto le ascelle e la tirò su, appoggiandola alla testata del letto. Infine si voltò verso Brogio e gli mostrò il suo ghigno mostruoso. La bocca, priva di labbra, lasciava scoperti i denti che, nella penombra, brillavano di una luce spettrale ed erano straordinariamente lunghi, soprattutto i canini superiori. Poi si girò e si piegò verso la ragazza. Probabilmente aveva deciso di mordere prima lei. Brogio avrebbe potuto approfittare di quel momento e scappare, ma lui non era tipo da lasciare una ragazza giovane e indifesa, e per giunta carina, nelle grinfie di un mostro. Pensando all’eventualità di un incontro faccia a faccia con Nosferatu, aveva preso le sue contromisure, e prima di uscire di casa aveva
indossato una catenella d’argento con un crocifisso. Si sfilò la catenella dal collo, afferrò il crocifisso e si avvicinò al vampiro. Quando fu abbastanza vicino, distese le braccia e gli mostrò la croce. Era davvero piccola, quella croce – purtroppo non ne aveva trovata una più grande – e forse non avrebbe potuto fare molto danno al vampiro, però poteva bastare per spaventarlo e tenerlo lontano. Nosferatu guardò la croce e il suo ghigno si tramutò in un sorriso sprezzante. Senza mostrare il minimo segno di paura, il mostro tornò a rivolgere le sue attenzioni alla ragazza, e mentre si voltava pronunciò una parola che a Brogio parve più di scherno che di rabbia: «Deficiente!» Il comportamento del vampiro era strano. Che Nosferatu non avesse paura della minuscola croce era palese, e anche comprensibile, ma il mostro non sembrava nemmeno intenzionato a mordere la ragazza. Pareva, invece, che stesse cercando di rianimarla. Infatti, mentre con una mano le accarezzava i capelli, con l’altra le dava dei leggeri buffetti sulle guance. Poi andò verso il comò, aprì un cassetto e tirò fuori una bomboletta a cui era attaccata una mascherina di plastica. Tornò verso la ragazza e le applicò la mascherina sul viso facendole are un elastico dietro la nuca, infine aprì la valvola della bomboletta. Nel momento in cui la fanciulla apriva gli occhi e muoveva leggermente la testa, Luna e Tommy irruppero nella stanza. Luna reggeva una croce molto grande, fabbricata con due rami di pioppo legati fra loro, e la protendeva verso il vampiro. Tommy brandiva un lungo bastone acuminato con la punta rivolta verso il mostro. Nosferatu guardò i due nuovi venuti con aria scocciata, rimase seduto sul letto accanto alla ragazza e non si scompose. Strinse a sé la fanciulla, e senza voltarsi esclamò: «Altri due deficienti! Metti via quel bastone prima che qualcuno si fa male.» Per qualche istante fu come se nella stanza il tempo si fosse fermato. Brogio era in piedi a destra del letto con le braccia distese in avanti e le mani che stringevano una piccola croce d’argento. La ragazza che assomigliava a Morticia Addams era seduta sul letto, fra le braccia del vampiro, con la bomboletta di ossigeno in mano e la mascherina di plastica sulla faccia. Il mostro, che più brutto non poteva essere, abbracciava la ragazza, e lei, invece di apparire spaventata da quella creatura demoniaca, sembrava stringersi ad essa in cerca di
protezione. Tommy stava in mezzo alla stanza in una posizione che ricordava gli antichi lancieri in attesa del comando di attacco, e sua sorella, ritta sulle gambe leggermente divaricate, con le braccia protese in avanti che sorreggevano una grossa croce di legno, pareva un’esorcista al cospetto di un indemoniato. Chiunque fosse entrato nella stanza in quel momento avrebbe pensato di essere sul set di un film horror in attesa del ciak. La scena quasi irreale fu interrotta dalla fanciulla: si tolse la mascherina e disse qualcosa in una lingua sconosciuta. Fastu rispose nella stessa lingua e la sua voce suonò rassicurante, quindi, voltandosi verso Brogio e i suoi amici, aggiunse in italiano: «Ragazzi, è tutto a posto. Io non sono vampiro. E questa è Alina, mia figlia.»
In breve fu tutto chiarito. Nero Fastu non era un mostro, ma un uomo a cui la vita aveva riservato un terribile destino. Egli soffriva di porfiria, una rara e tremenda malattia che causa seri problemi al sangue e ai tessuti e una forte fotosensibilità: i globuli rossi vengono danneggiati o distrutti e i malati devono sottoporsi a continue trasfusioni di sangue; i denti si assottigliano e diventano fluorescenti; la cute si gonfia, diventa fragile e si fessura facilmente; talvolta si rende necessario amputare le parti del corpo maggiormente danneggiate; colpita dai raggi del sole, la pelle si ustiona e si riempie di bolle, eritemi ed erosioni cutanee; alcuni alimenti, ad esempio l’aglio, aggravano i sintomi della malattia, mentre altri, come lo zucchero e i dolci in generale, li alleviano. Alina, la figlia di Fastu, aveva diciannove anni e altri problemi: una paralisi motoria agli arti inferiori e una malattia ai polmoni piuttosto grave. Fino a tre anni prima, Fastu abitava con la moglie e due figli a Rosia Montana, una delle zone minerarie più grandi e inquinate della Romania. Lui era ingegnere e sua moglie una casalinga. Fastu avrebbe voluto stabilirsi in un luogo più salubre, ma trasferirsi in un’altra città della Romania significava dover rinunciare a un buon stipendio, mentre andare all’estero in quegli anni era impossibile, soprattutto per una famiglia di quattro persone. Poi, improvvisamente, tutto era cambiato: la moglie e il figlio maggiore erano morti investiti da un’auto, e lui, grazie all’aiuto di un amico, era riuscito a espatriare e a trasferirsi in Francia insiema ad Alina.
Fastu e la figlia erano rimasti a Parigi tre anni, ma l’aria della capitale se non era la migliore per Alina, le cui condizioni di salute peggioravano di giorno in giorno, e così, alla fine del 1976 Fastu si era trasferito in Italia. Grazie all’intercessione di un italiano conosciuto a Parigi, era stato assunto dalla cartiera di Mesola come direttore della filiale di L’Olanda, e qualche mese dopo era andato ad abitare nella casa delle mele acerbe. Nonostante il clima umido della bassa Val Padana, Alina si era ristabilita in fretta: molto meglio l’umidità e le zanzare del ferrarese che i gas di scarico delle automobili di Parigi. Interrogato da Luna, Fastu rispose che quella domenica non era andato a Milano, come aveva raccontato a Cosimo, ma ad Abano Terme per riportare Alina a casa dopo un periodo di cure in una clinica specializzata in malattie dell’apparato respiratorio. Perciò era tornato così presto. Fastu spiegò anche che il suo nome non c’entrava nulla con i vampiri. Lui lo sapeva che l’anagramma del suo nome era Nosferatu, ma si trattava di una semplice coincidenza. Di cognome faceva Fastu e Nero era il nome latino di Nerone: suo padre aveva voluto chiamarlo come l’imperatore romano. Dracula non c’entrava nulla e suo padre non era bravo con gli anagrammi. Seduti sul bordo del letto, i ragazzi avevano ascoltato il racconto di Nero con grande attenzione e una crescente vergogna. L’uomo aveva parlato in un italiano un po’ stentato, ma comprensibile, traducendo di tanto in tanto qualche frase in rumeno perché la figlia non si sentisse esclusa dalla conversazione. A una domanda di Brogio, Fastu rispose che alcuni operai della cartiera erano rumeni con problemi di salute che erano riusciti a espatriare. Li aveva assunti lui, con il benestare dei proprietari, per allontanarli dalle zone minerarie della Transilvania. I tre amici si sentivano dei perfetti idioti e continuavano a ripetere che erano enormemente dispiaciuti per essersi comportati come dei deficienti. Fastu replicò che lui ci era abituato: quando la gente vedeva il suo corpo rovinato dal male si spaventava e il più delle volte fuggiva. Vedendolo imbacuccato dalla testa ai piedi – lui lo faceva per proteggersi dagli sguardi della gente oltre che dal sole – molti si facevano il segno della croce o altri gesti scaramantici, e a volte qualcuno diventava sgarbato e offensivo. Una sera stava camminando in una strada alla periferia di Mesola – cercava sempre strade poco frequentate per non dare nell’occhio – e si era tolto il cappello e gli occhiali. Svoltando l’angolo di
un edificio aveva incrociato un uomo giovane con due bambini. Fastu si era dimenticato di avere il volto scoperto e l’altro, dopo averlo insultato pesantemente, aveva cercato di picchiarlo sostenendo che lui si era travestito da mostro apposta per spaventare i suoi figli. L’unico periodo dell’anno in cui Fastu poteva arrischiarsi a uscire di sera senza la consueta bardatura e senza rischiare il linciaggio era durante il Carnevale. Ad ogni modo si riteneva ancora fortunato quando pensava che nell’Ottocento, in Romania, gli ammalati di porfiria erano accusati di vampirismo e perciò perseguitati e spesso uccisi. «E ora tocca voi dire chi siete e cosa fate in casa mia» dichiarò infine Fastu. Tommy e Luna si voltarono verso Brogio. Lui deglutì a fatica, si guardò intorno cercando di prendere tempo e riflettendo su cosa avrebbe potuto raccontare. Infine si alzò dal letto e andò verso il comodino. Prese il libro e lo mostrò ai presenti. «Ecco. È per questo che siamo qui. Per recuperare questo libro.» «Quello?» si stupì Fastu. «Ma quello, io trovato in carta straccia. Dovevano distruggere. Ho visto libro e ho pensato che Alina forse piaceva. Era tuo?» «Sì… cioè, no. Era di mia zia.» «Io non capisco. È vecchio album per foto. Se tua zia buttato via, perché tu ora vuoi prendere ancora?» «È stato buttato via per sbaglio.» «Capito. Però, se io non prendevo, adesso libro era poltiglia. Quindi adesso è mio.» Brogio non voleva raccontare tutta la storia, però intuiva che se non dava una spiegazione convincente a Fastu, non lo avrebbe mai persuaso a restituire il libro. Perciò decise di raccontare la verità. Non tutta, ovviamente. «Vede, signor Fastu, mia zia è morta un mese fa. Quello era l’album di fotografie dove lei conservava i suoi ricordi più belli. Adesso vorrei riaverlo per metterci dentro le foto di mia zia. Ero molto affezionato a zia Evelina.» Il volto di Nero si distese in una specie di sorriso: la sua faccia era sempre
orribile, ma nel suo sguardo si scorgeva una sorta di commozione. «Adesso capito meglio. Come vi chiamate, voi?» «Ambrogio, ma tutti mi chiamano Brogio.» «Io sono Lunetta, detta Luna.» «E io sono il fratello di Luna, Tommy… cioè, Tommaso.» «Bene, ragazzi, facciamo così. Io restituisco album di zia Evelina, e voi fate qualcosa in cambio per me.» «Cioè, cosa?» «Alina non può camminare. Lei già diplomata in Francia e non va scuola in Italia. Non ha amici italiani e io ho poco tempo per stare con lei. Quindi lei spesso sola. Avevo pensato di prendere una au pair, per fare compagnia, ma Alina non piace. Poi noi molte spese, per le cure, e mio stipendio non tanto alto. Ecco cosa propongo voi. Ogni tanto voi venite qui e fate un po’ compagnia Alina. Non tutti giorni. Una volta a settimana, o anche meno, e anche uno solo di voi alla volta. E intanto che siete qui, insegnate lei un po’ vostra lingua. Siamo in Italia da poco tempo e lei parla solo con me, in rumeno o in se. Voglio che lei impara un po’ italiano, ma io poco tempo per insegnare. E poi io non so bene italiano. Se voi sta bene, io do subito album.» I tre amici si scambiarono una rapida occhiata. Luna disse che sarebbe stata felice di diventare amica di Alina e che sarebbe venuta a trovarla ogni volta che poteva. Tommy e Brogio annuirono in segno di approvazione. Brogio aggiunse che quell’anno la scuola sarebbe iniziata in settembre anziché in ottobre. Con l’inizio della scuola il tempo per venire da Alina sarebbe stato di meno, ma lei non sarebbe mai stata troppo tempo da sola dal momento che la Banda Bassetti era composta da otto ragazzi. Avrebbero potuto venire a trovare Alina molto spesso, anche nel periodo scolastico, sia singolarmente che in due o tre, e qualche volta anche tutti insieme. Alla fine Brogio chiese a Fastu se, quando il gruppo fosse stato numeroso, potevano sistemarsi nella soffitta che era abbastanza grande. Fastu rispose che la riteneva un’ottima soluzione.
Venti minuti dopo, i tre ragazzi attraversarono il Po a bordo del traghetto. Brogio poteva ritenersi soddisfatto: si era innamorato di Luna e aveva capito che anche lei provava qualcosa per lui, aveva recuperato l’album della zia, aveva conosciuto una nuova amica e aveva trovato, forse, una sede invernale per il rifugio segreto della banda. Tutto, dunque, filava alla perfezione, e tuttavia provava una strana sensazione di disagio. Da cosa poteva dipendere? Quella domenica sarebbe arrivato in ritardo a messa, ma di quello gli importava davvero poco. Il problema poteva essere Tina? Forse si sentiva in colpa per lei? No, non poteva essere quello: il suo disagio aveva a che fare con Alina e non con Tina. Poteva essere comione, certo, ma non era solo quello. Durante la discussione a casa di Fastu, Alina aveva seguito i loro dialoghi con un’aria strana. Non conoscendo l’italiano, ovviamente molte cose le erano sfuggite, ma nel suo sguardo non c’era solo smarrimento, c’era molto di più. Nei suoi occhi, che tra l’altro erano bellissimi, c’era ammirazione per quei tre ragazzi giovani e coraggiosi, e anche invidia, probabilmente. Ma c’era anche dell’altro, qualcosa che Brogio cominciava a comprendere solo in quel momento. Mentre lui usciva dalla stanza, Alina lo aveva fissato intensamente e gli aveva sorriso in modo malizioso. In quello sguardo e in quel sorriso, Brogio aveva letto una tacita, ma esplicita, dichiarazione d’amore. Le cose non stavano proprio così, ma quali fossero i pensieri della bella rumena, Brogio lo avrebbe scoperto solo qualche tempo dopo.
8. Tutto è bene ciò che finisce bene
Fino ad allora la scuola era iniziata sempre il primo ottobre, giorno dedicato a San Remigio. Gli scolari della prima elementare erano detti remigini proprio perché, a memoria d’uomo, l’anno scolastico era sempre iniziato per San Remigio. Ma nel 1977 c’era stata una riforma e le lezioni erano iniziate una decina di giorni prima, cioè il venti settembre. A partire dall’anno successivo ogni regione avrebbe deciso in autonomia quando far partire l’anno scolastico, ma comunque sempre fra il dieci e il venti settembre, perciò c’era il rischio che l’anno prossimo la scuola iniziasse addirittura con venti giorni di anticipo. Quando si dice la sfiga! L’anticipo dell’anno scolastico era stato solo uno degli eventi memorabili accaduti nel 1977, perché quell’anno era successo veramente di tutto. Tanto per cominciare, in gennaio la Rai aveva smesso di trasmettere Carosello. Avevano detto che tutta quella pubblicità, concentrata in un programma di prima serata che durava ben dieci minuti, era diseducativa, così avevano inventato gli spot pubblicitari: piccoli spezzoni di pubblicità, di uno o due minuti, mandati in onda fra una trasmissione e l’altra. Una pubblicità più educativa, avevano detto. La prima conseguenza era stata che bambini e ragazzini non erano più obbligati ad andare a letto dopo Carosello e potevano stare alzati fino a tardi per guardare film e sceneggiati – e la pubblicità – insieme ai genitori. In febbraio, con un ritardo di dieci anni rispetto alle altre nazioni europee, la Rai aveva iniziato a trasmettere a colori. L’annuncio era stato dato ufficialmente da Corrado in una puntata storica di Domenica In. In marzo, grazie a un’altra sconsiderata legge erano state abolite, e quindi trasformate in giornate di scuola, moltissime feste religiose e civili. In aprile la Rai aveva trasmesso Mistero Buffo di Dario Fo. Lo spettacolo, già grande successo in teatro, era piaciuto moltissimo ai telespettatori, molto meno al Vaticano e alla Democrazia Cristiana. E anche Brogio, che ne aveva visto solo un pezzetto, lo aveva trovato noioso. In maggio Enzo Tortora aveva presentato la prima puntata di Portobello; purtroppo il programma andava in onda in seconda serata e Brogio non riusciva mai a vederlo per intero. In giugno il mitico Elvis Presley aveva tenuto un concerto live a Indianapolis. Cantava ancora divinamente, ma era grasso come un maiale,
barcollante e irriconoscibile. Era stato il suo ultimo concerto: Elvis era morto due mesi dopo nella stanza da bagno della sua lussuosissima casa di Memphis. In luglio Brogio era andato in vacanza al mare per la prima volta, a Porto Garibaldi, con il papà, la mamma, la nonna, gli zii di Copparo e una cugina. Era rimasto in vacanza una settimana, poi zia Evelina aveva avuto l’infarto e tutti erano tornati a casa in gran fretta. In agosto era morto Elvis e all’inizio di settembre sco Moser era diventato campione del mondo di ciclismo su strada. Naturalmente nel corso dell’anno c’erano stati avvenimenti anche più importanti e drammatici di quelli che Brogio amava ricordare – un devastante terremoto in Romania, attentati terroristici delle Brigate Rosse, la morte di uno studente a Bologna ucciso dalla polizia, scandali politici e disastri aerei – ma a lui questi episodi interessavano poco e tendeva a dimenticarli.
Con Luna le cose non stavano andando bene. Dopo il bacio all’aglio nel rifugio segreto e l’avventura a Val Nebbiosa, lui e Luna si erano messi insieme, ma il loro rapporto si era rivelato complicato fin dall’inizio. Due giorni dopo la spedizione a casa di Fastu, la Banda Bassetti si era radunata nel rifugio segreto per discutere l’avvenimento. Dopo aver raccontato quanto era successo nella casa delle mele acerbe e aver avuto l’assicurazione che Alina sarebbe diventata amica di tutti, Brogio aveva dato la notizia del suo fidanzamento con Luna. Qualche anticipazione doveva esserci già stata, perché nessuno era sembrato particolarmente sorpreso: Tommy, Edo e Jack avevano applaudito e fischiato, Ceci e Gegia avevano abbracciato Luna e le avevano fatto gli auguri, l’unica ad apparire turbata dalla notizia era stata Tina. L’amica era rimasta immobile, lo sguardo torvo fisso su Brogio – se i suoi occhi avessero potuto scagliare fulmini e saette, lui sarebbe rimasto incenerito all’istante – dopodiché aveva guardato Luna e i suoi occhi si erano riempiti di lacrime. Infine si era voltata ed era scappata. Luna si era guardata intorno, cercando di capire cosa avessero in mente di fare gli altri, poi aveva detto che era meglio se qualcuno le andava dietro, e senza aggiungere altro era sparita anche lei. Dopo alcuni istanti di imbarazzato silenzio anche gli altri avevano detto che si era fatto tardi ed erano andati via. La domenica successiva al loro primo incontro con Alina, la Banda Bassetti al completo era andata a casa di Fastu. Nero aveva concesso ai ragazzi l’uso della soffitta per i loro incontri: era più grande della camera da letto di Alina ed era perfetta per ospitare un gruppo numeroso di teenagers. Il problema delle scale
era stato risolto dall’ingegnere in modo geniale: Nero era avvezzo a progettare sistemi per sollevare carichi pesanti in ambienti stretti e disagevoli e nella casa delle mele acerbe aveva installato, lungo le scale, uno speciale montacarichi elettrico che andava dal piano terra fino alla soffitta. La piattaforma metallica contro cui Brogio era inciampato la prima volta che era stato in quella casa faceva parte del macchinario e serviva a trasportare la sedia a rotelle di Alina. Seduta sulla carrozzina, la figlia di Nero saliva sulla piattaforma e bloccava la sedia, dopodichè, pigiando semplicemente un bottone, il marchingegno la trasportava ai piani superiori. L’aggeggio era lento e perfezionabile, ma funzionava. I ragazzi avevano fatto una colletta e comprato pizza al taglio, torta tenerina e Coca Cola. Nero era uscito per non disturbare e lasciare campo libero. C’era anche Tina e sembrava aver dimenticato l’episodio accaduto pochi giorni prima: era allegra, scherzava e parlava con tutti, cioè con tutti tranne che con Brogio. Lui si rendeva conto che lei aveva bisogno di tempo per digerire la cosa però, allo stesso tempo, non la capiva proprio: quando lui le faceva la corte, Tina manco lo vedeva, adesso che lui si era messo con Luna, la gelosia l’aveva resa acida. Ma solo con lui era acida perché con Luna, invece, era la grande amica di sempre: si tenevano a braccetto, ridevano e si scambiavano piccoli gesti di tenerezza come avevano sempre fatto. Sembravano loro due, le fidanzate. Al momento di mangiare la torta, Tommy e Jack avevano gridato: “Bacio! Bacio!”. Brogio si era avvicinato a Luna e le aveva dato un bacio sulla bocca. Tina aveva applaudito insieme agli altri, ma era rimasta seria. E anche Luna sembrava infastidita: aveva risposto al bacio in modo sbrigativo e freddo. Brogio si sarebbe aspettato maggior calore, ma pensò che, forse, Luna si sentiva in colpa con Tina per averle soffiato il ragazzo. Un atteggiamento comprensibile, ma lui era rimasto comunque deluso. Ed era rimasto ancora più deluso dal fatto che, per tutta la festa, Luna avesse dedicato molto più tempo a Tina che a lui. A conti fatti, a quella festa si erano divertiti tutti tranne lui e Alina: lui per la delusione di vedere la fidanzata sempre attaccata alla grande amica del cuore nonché ex rivale, Alina perché si sentiva spaesata. La bella rumena era contenta di avere tanti nuovi amici, ma evidentemente non era abituata a tutta quella confusione e di sicuro preferiva incontrare le persone poche alla volta.
Nelle settimane successive, Brogio e Luna si erano visti pochissimo, quasi sempre in compagnia degli amici, e quando lui cercava di baciarla, lei ogni volta lo respingeva adducendo una scusa diversa. La cosa che più lo angustiava era non capire perché lei si comportasse in quel modo. Ma il suo assillo non durò a lungo. Martedì 4 ottobre accadde un fatto, apparentemente slegato dalla sua storia con Luna, che contribuì a chiarire la vicenda: Valentina e Lunetta scomparvero. Quella sera cominciava la nuova serie di SuperGulp! Fumetti in TV e Brogio non voleva perdersi una puntata. Era un fanatico di fumetti e cartoni animati e le avventure di Nick Carter erano fra le sue preferite. Aveva visto tutti gli episodi della serie precedente e con gli amici giocava spesso a imitare il detective creato da Bonvi e Guido De Maria. Lui impersonava Nick Carter, Tommy era il fedele e goffo Patsy, Edo faceva Ten il cinese e Jack, parrucca in testa e baffi finti, vestiva i panni del re dei travestimenti e cattivissimo Stanislao Moulinsky. A metà della trasmissione suo padre entrò in casa e gli chiese se per caso quel giorno avesse visto Valentina e Lunetta. Lui rispose di no, e suo padre tornò fuori dove, nel frattempo, si era radunata una piccola folla. Brogio abbassò il volume del televisore e sbirciò dalla finestra. Fuori c’erano i genitori di Tina e Luna che parlavano animatamente con suo padre e sua madre. Le mamme delle due ragazze erano molto agitate e Girolamo stava dicendo che non dovevano preoccuparsi e che le avrebbero ritrovate presto. Brogio capì che doveva essere successo qualcosa di serio e, un po’ a malincuore, spense il televisore e uscì in cortile. Gisella gli corse incontro. «Ambrogio, quand’è che hai visto Lunetta, l’ultima volta?» gli chiese con un filo di voce. «L’ho vista ieri a scuola. Oggi non c’era.» «E la Valentina?» domandò Stella. «Quando l’hai vista l’ultima volta?» «Mi sembra… sì, l’ho vista domenica, a messa. A scuola non l’ho vista né ieri né oggi.» «Infatti non c’è andata a scuola, né ieri né oggi» replicò Stella. «Lunetta ieri c’era a scuola, ma oggi no» disse Gisella. «È tutto il giorno che non la vediamo.»
«Anche la Valentina è sparita» aggiunse Stella. «Questa mattina è uscita presto, con i libri, ma a scuola non c’è andata. Abbiamo parlato con il preside.» «Oggi è San sco» azzardò Brogio. «L’anno scorso era un giorno festivo. Forse hanno dimenticato che la festa è stata abolita e sono andate a trovare Alina.» Con aria perplessa, i genitori di Tina chiesero chi fosse Alina. «È la figlia del direttore della cartiera» rispose Cosimo. «No. L’ho chiesto a Fastu. L’ingegnere dice che sono diversi giorni che Alina non riceve visite dai suoi amici. Ha anche detto che sua figlia è un po’ dispiaciuta per questo.» «Scusate, ma ieri sera c’erano a casa?» domandò Brogio. «Sì, ieri sera erano a casa nostra» rispose il papà di Valentina. «Sono rimaste su in camera fino alle dieci ate.» «Allora è tutto chiaro» dichiarò Brogio con l’aria di chi la sa lunga. «Hanno fatto fuoco e sono andate alla fiera di Serravalle a farsi un giro in giostra. Vedrete che tra poco rientrano. Beh, scusate, ma io torno dentro.» Tornò a guardare la tv, ma non riuscì a gustarsi i cartoni animati. Nonostante la noncuranza mostrata, anche lui era preoccupato: non era da Luna sparire in quel modo senza dire niente ai genitori, e soprattutto non era da Tina marinare la scuola. Per quanto poteva ricordare, Tina non aveva mai fatto fuoco in tutta la sua carriera scolastica, nemmeno quella volta che tutta la banda – tutti tranne lei, per l’appunto – aveva marinato la scuola per andare a vedere una gara di motocross. Comunque non era il caso di farne un dramma, dovunque quelle due fossero andate, di sicuro non avrebbero ato la notte fuori. Invece, Luna e Tina quella sera non rientrarono. Il giorno dopo, i genitori delle ragazze andarono dai carabinieri di Berra e presentarono una denuncia per scomparsa di minore. I militari telefonarono agli ospedali più vicini, alla Polizia Stradale e ai Vigili del Fuoco, ma nessuno aveva notizie delle due ragazzine. Quella mattina Brogio andò nel piazzale delle corriere con un gran peso sullo stomaco e l’elastico dei libri vuoto. Gli altri amici della banda erano già tutti sul piazzale ad aspettarlo e nessuno aveva portato i libri. Quel giorno i ragazzi
avrebbero marinato la scuola per una causa ben più nobile del motocross. Per organizzare al meglio le ricerche, Edo suggerì di dividersi in due gruppi: Gegia e Ceci sarebbero andate lungo l’argine del Po fino al Bosco della Punta, e se non trovavano le amiche scomparse sarebbero tornate indietro fino al traghetto di Berra. I maschietti avrebbero cercato le ragazze sull’altra riva del Po e avrebbero esplorato l’argine e la golena dalle fornaci di Villanova Marchesana fino al capanno da pesca di Panarella, magari ando per la casa di Fastu. Forse le due amiche si erano nascoste a casa di Alina, giusto per fare uno scherzo. Gegia aveva seri dubbi che Tina e Luna avessero architettato uno scherzo del genere, ma convenne che quello di Edo era un buon piano. Gli amici si diedero appuntamento al traghetto per l’ora di pranzo e si separarono. Appena sul traghetto, Brogio disse che, invece di correre avanti e indietro lungo l’argine del Po cercando a casaccio, avrebbero fatto meglio a riflettere su quella strana sparizione e provare a capire cosa poteva essere successo. «Qui ci vuole Nick Carter» esclamò Tommy. «Proprio così» rispose Brogio. «Ma questa volta non è un gioco: stavolta si fa sul serio.» «Dice il saggio…» intervenne Edo imitando la voce del cinese Ten, «…pel fulba che sia, la volpe non può camminale nella neve senza lasciale tlacce.» «E questo che cazzo vuol dire?» bofonchiò Tommy. Lui non aveva bisogno di modificare la voce per imitare Patsy. «Il nostro Ten ha ragione!» esclamò Brogio. E subito dopo spiegò, alla maniera del celebre detective dei cartoons, il significato delle parole di Edo: «Tina e Luna vanno in bicicletta da quando hanno tre anni e conoscono questi luoghi come le loro tasche, e sono anche molto prudenti, soprattutto Tina. È dunque improbabile che siano cadute nel fiume, e i carabinieri hanno escluso che siano state coinvolte in incidenti stradali. Anche gli ospedali non hanno notizie delle ragazze. Dunque rimangono due ipotesi da considerare. La prima è che, per qualche misteriosa ragione, siano fuggite di casa e siano andate a nascondersi da qualche parte. Conoscendo Tina, ritengo molto difficile che siano andate a nascondersi nelle fornaci, e Fastu ha detto a Cosimo che lui non le ha viste. Perciò, se la prima ipotesi è quella giusta, c’è solo un posto dove possono essersi nascoste: nel capanno da pesca dello zio di Tina. Se sono andate là, cosa che io
ritengo molto probabile, e anche nell’ipotesi che siano già andate via, sicuramente hanno lasciato qualche traccia. Perciò propongo di iniziare le ricerche proprio dal capanno.» «E la seconda ipotesi?» chiese Tommy-Patsy. «Se la prima ipotesi è sbagliata, rimane solo un’altra possibilità: che le ragazze siano state rapite.» «Rapite? E da chi?» Questo Brogio non lo sapeva, ma riteneva le due ipotesi, quella della fuga e quella del rapimento, entrambe possibili. All’obiezione di Tommy che sia la sua che quella di Tina non erano famiglie ricche, l’amico replicò che non sempre i rapimenti vengono fatti per estorcere denaro. «E allora perché le avrebbero rapite?» A questa domanda rispose Edo-Ten: «Dice il saggio: il liso fa buon sangue.» «E questo cosa…» attaccò Tommy, ma si interruppe subito. «Sangue? Tu pensi che…? Ma Fastu non è un vampiro. Non può averle rapite lui.» Brogio dichiarò che lui sperava, ovviamente, che fosse vera la prima ipotesi, tuttavia il fatto che Fastu non fosse un vampiro non significava nulla. «Fastu è malato di porfiria e ha sempre bisogno di sangue fresco. Sicuramente va all’ospedale a farsi delle trasfusioni, oppure beve il sangue degli animali, ma possiamo essere sicuri che lui, ad esempio in casi urgenti, non beva anche il sangue delle persone? Nessuno conosce bene Fastu, si sa solo quello che ha raccontato lui, e lui può anche avere raccontato un sacco di balle. Comunque, nella disgraziata ipotesi che le cose stiano davvero così, sono convinto che Fastu non farà del male alle ragazze, ma si limiterà a togliere loro un po’ di sangue con una siringa.» «E secondo te quello non sarebbe fare del male?» urlò Tommy. «Comunque, io sono sicuro che è vera la prima ipotesi. Non so ancora perché, ma quelle due sono scappate di casa. E sono anche sicuro che le troviamo nel capanno da pesca.»
«Bravo, Patsy!» affermò Jack-Moulinsky. «Si va a Panarella, dunque.» Quaranta minuti dopo, i quattro amici erano davanti al capanno da pesca dello zio di Tina. La porta era chiusa a chiave, le finestre erano sbarrate da pesanti imposte di legno e non si udiva alcun rumore provenire dall’interno. E non c’era ombra di biciclette in giro. «Se sono state qui, mi sa che adesso non ci sono più» disse Jack. «Come facciamo a entrare?» chiese Brogio. «Non saprei, capo» rispose Tommy-Patsy. Ancora una volta, il più sagace dei quattro si rivelò Edo-Ten. «Dice il saggio: se le imposte son sballate e dalla polta non puoi entlale, un aggio segleto devi celcale.» «Un aggio segreto!» fece Jack-Moulinsky. «Sì, mi sembra di ricordare che sotto al pavimento, vicino all’argine, c’era una botola.» I ragazzi corsero giù lungo la china dell’argine e andarono sotto al tavolato di legno che fungeva da pavimento. Là sotto c’era una grande botola che serviva, probabilmente, per far scendere al fiume la barca da pesca. Brogio provò a sollevarla, ma non ci riuscì. «È chiusa anche questa. C’è una catena con un lucchetto. Non so se riusciremo ad aprirlo.» «Lascia fare a Stanislao Moulinsky» disse Jack tirando fuori il suo coltellino da boy scout. «Te lo apro io in un secondo, quel lucchetto.» Ci vollero quasi cinque minuti, ma alla fine Jack riuscì ad aprire il lucchetto e a togliere la catena. Poi, aiutato da Tommy, sollevò il grosso portellone di legno. Qualche istante dopo, erano tutti e quattro dentro al capanno. «Adesso dobbiamo guardare dappertutto» suggerì Brogio-Carter. «Anche il più piccolo indizio può essere importante.» Indizi che le ragazze erano state lì di recente ce n’erano molti. Il letto era disfatto e le lenzuola tutte stropicciate. Su un cassettone, vicino ad alcuni mozziconi di
candela, c’erano i libri di scuola delle due amiche ancora legati con l’elastico. Buttati sul letto alla rinfusa c’erano un paio di jeans corti con i cuoricini rosa ricamati sulle tasche posteriori, una maglietta color fucsia, due calzini bianchi col pizzo, un reggiseno macchiato di rosso e un paio di mutandine. Un fermaglio per capelli di metallo con sopra una rosa rossa di plastica e un paio di scarpe da ginnastica bianche con fasce laterali rosa erano sul pavimento ai piedi del letto. Su una sedia i ragazzi trovarono un rotolo di garza quasi tutto consumato, un nastro di cerotto, un paio di forbici e alcuni fazzoletti di carta usati. «Questi sono di Luna!» esclamò Tommy indicando i vestiti. «E anche il fermaglio per i capelli è suo.» Edo-Ten andò verso il letto, prese le mutandine e le annusò. «Cosa fai, cinese?» gli chiese Jack-Moulinsky. «Ti sembra il momento di metterti a fare il feticista?» «Dice il saggio: se la mutanda sa di pipì, vuol dile che da poco è stata tolta e appoggiata lì.» «Giusto!» esclamò Brogio-Carter. «Tutti gli indizi indicano che le ragazze sono state qui e che sono andate via da pochissimo tempo. Ora la domanda è: sono andate via da sole o… con qualcuno?» «Cosa vuoi dire?» fece Tommy. «Pensi ancora a Fastu?» «Secondo te, Luna è andata via tutta nuda di sua spontanea volontà?» «Ma perché Fastu avrebbe spogliato Luna? E la macchia sul reggiseno? Potrebbe essere sangue?» Brogio-Carter raccolse il reggiseno e lo esaminò attentamente. «No, caro Patsy. Per fortuna, questo è solo rossetto.» «Comunque, la domanda di Patsy è legittima» affermò Jack-Moulinsky. «Perché Fastu ha spogliato Luna? E perché non ha spogliato anche Tina?» «Forse i vestiti di Tina se li è portati via» rispose Brogio. «Ma perché?» chiese Tommy con un’espressione molto preoccupata. «E perché
le avrebbe spogliate? Per violentarle?» «Non credo» dichiarò Brogio. «Secondo me, le ha spogliate perché è un depravato, ma non le ha violentate. Non qui, almeno. Se lo avesse fatto, i vestiti di Luna sarebbero tutti strappati. Invece sono intatti, anche il reggiseno e le mutande.» «E allora come spieghi che gli abiti di Tina qui non ci sono?» insistette Jack. «Questo non lo so. Forse il rapitore ha spogliato solo Luna, ma non so dirvi il perché.» «E quella roba là?» domandò Tommy indicando la sedia con le forbici, la garza e il cerotto. «Credi che il mostro le abbia ferite per bere il loro sangue?» Brogio fece di no con la testa e spiegò che quegli oggetti, secondo lui, raccontavano una storia diversa. Che una delle ragazze si fosse ferita durante il rapimento, poteva anche essere, ma perché usare quasi un intero rotolo di garza? E perché, se una di loro si era ferita al punto da dover essere medicata, non c’erano tracce di sangue in giro? Avevano trovato diversi fazzoletti di carta usati, ma nessuno era sporco di sangue. Se una di loro si fosse ferita, il rapitore avrebbe prima tamponato la ferita con dei fazzoletti di carta e solo dopo avrebbe medicato con garza e cerotto. Perché non c’erano tracce di sangue da nessuna parte? Rispose Edo-Ten: «Dice il saggio: se una donna vuoi calmale, con una galza la devi legale e un celotto sulla bocca le devi attaccale.» «Fastu le ha legate e imbavagliate!» urlò Tommy. «Quel succhiasangue!Quel maniaco! Quel depravato! Dobbiamo andare subito a casa sua.» Brogio esortò l’amico a calmarsi. Naturalmente ci sarebbero andati a casa di Fastu, ma prima dovevano studiare un piano e prendere delle precauzioni. Se quello che sospettavano era vero, Fastu poteva diventare pericoloso: vistosi scoperto, il maniaco poteva decidere addirittura di uccidere le ragazze. Per lo stesso motivo era meglio non chiamare i carabinieri, che attaccavano la sirena anche solo per andare al bar. Fastu li avrebbe sentiti arrivare a chilometri di distanza e allora chissà cosa avrebbe fatto a Luna e a Tina. I quattro amici confabularono ancora alcuni minuti fra loro, quindi uscirono dal
capanno, inforcarono le biciclette e partirono a razzo lungo l’argine del Po con meta la casa delle mele acerbe.
Poco prima di arrivare al dosso su cui sorgeva la casa di Fastu, i quattro si separarono: Brogio, Edo e Jack proseguirono verso la casa, mentre Tommy andò a nascondersi nel bosco. Il piano di Brogio prevedeva che loro tre sarebbero entrati in casa attraverso la porta della cantina e Tommy sarebbe rimasto fuori a fare il palo. In caso di pericolo, l’amico sarebbe corso alla più vicina stazione dei carabinieri. Brogio, Edo e Jack fermarono le biciclette nel pioppeto dietro la casa e salirono a piedi verso la casa. Il portone della cantina era chiuso a chiave, ma la serratura era di vecchio tipo, fissata alla porta con quattro viti esterne. Per Jack non fu un’impresa difficile togliere le viti, scardinare la serratura e aprire la porta. I ragazzi entrarono in cantina e da lì scivolarono silenziosi all’interno dell’edificio. Jack tirò fuori la sua mini torcia tascabile e la diede a Brogio. La luce della torcia era appena sufficiente per vedere dove mettere i piedi, ma aveva il vantaggio di essere talmente debole che nemmeno Fastu l’avrebbe notata. Almeno così speravano i tre amici. Brogio, seguito da Jack e da Edo, cominciò a salire le scale. I ragazzi udivano una voce provenire dal primo piano, ma non riuscivano a capire chi stesse parlando e cosa stesse dicendo. Arrivato a metà delle scale, Brogio udì distintamente la voce di Alina. Salì con circospezione gli ultimi gradini, si avvicinò piano alla porta della camera da letto e sbirciò dentro. La fanciulla era seduta sul letto con in mano un libro di grammatica italiana e sembrava del tutto tranquilla. Quando Brogio entrò nella stanza, Alina fece un sobbalzo e gridò, ma si tranquillizzò appena vide l’amico. «Brogio! Tu sei matto! Ho preso grosso spavento. Perché tu arrivi qui come ladro? E perché sei così… serio?» Subito dopo entrarono nella stanza Edo e Jack. «Ehi!» gridò Alina. «Questo gioco non piace a me. Cosa fate qui voi? E come avete fatto entrare?» Brogio si avvicinò ad Alina e le chiese, con modi piuttosto bruschi, dov’erano
Luna e Tina e dov’era suo padre. Alina cadde dalle nuvole. Rispose che suo padre, ovviamente, era al lavoro e che non vedeva Luna e Tina da parecchi giorni. Disse anche, con una nota di risentimento, che non vedeva nessuno della banda da molto tempo. Brogio le chiese se potevano guardare nelle altre stanze e in soffitta. Alina parve offesa dalla richiesta, ma rispose che potevano guardare dove volevano, perché in casa non c’era nessuno oltre lei. I ragazzi fecero un rapido giro della casa e tornarono nella camera da letto. «Qui non c’è proprio nessuno» fece Jack. «E poi, non so se hai notato, ma fuori non ci sono né le bici delle ragazze né la macchina di Fastu. Se sono stati qui, adesso sono andati via.» «Ho detto che qui non sono venute vostre amiche!» urlò Alina. «Perché voi non credete me?» Poi, con voce più calma, aggiunse: «Cosa succede? Posso sapere?» Brogio era troppo scombussolato per rispondere. Jack guardò Alina e capì che l’amica non stava mentendo. «Tina e Luna sono scomparse da ieri. Noi crediamo che tuo padre… cioè, noi crediamo che siano state rapite.» «Rapite? Rapite da Nero? Voi tutti matti. Nero non rapire ragazzine. Mio papa troppo buono. Lui non capace di fare male. Lui non rapire donne!» Con la voce rotta dall’emozione e dalla rabbia, Alina gridò ai ragazzi che loro non erano diversi dagli altri, da quelli che odiavano suo padre per il suo aspetto ed evitavano lei perché paralitica. Gridò che loro erano i veri mostri, non suo padre. Mostri come Ceausescu, come Nicu, come Elena e come la Securitate. «Voi siete vampiri!» concluse la ragazza tra i singhiozzi. «Andate via! Andate via!» Jack fece per avvicinarsi ad Alina, ma Brogio lo fermò con la mano e gli disse che era meglio andar via. Scesero le scale e uscirono dalla casa ando dalla cantina. Mentre Edo e Jack riparavano la serratura, Brogio avvertì Tommy che avevano fatto un buco nell’acqua.
Alina pianse per alcuni minuti, poi si calmò e sentì il rimorso che saliva dallo
stomaco e gli bruciava la gola. I ragazzi avevano pensato male di suo padre, ma lo avevano fatto a fin di bene. Tina e Luna erano sparite, forse rapite, e i ragazzi avevano agito in quel modo non per odio nei confronti di suo padre, ma per cercare di aiutare le amiche. Nelle loro azioni non c’era cattiveria, solo paura per la sorte delle due ragazze. Non erano dei mostri. Il mostro era lei. Lo era diventata alcuni anni prima, dopo la scomparsa di sua madre e di suo fratello che non erano morti in un incidente stradale, come aveva raccontato suo padre ai ragazzi, ma in circostanze ben più tragiche. Era successo da pochi anni, eppure sembrava un secolo. Corneliu, il fratello di Alina, aveva due anni più di lei. Era un ragazzo allegro e spensierato, affettuoso e generoso, ma era gay. Nella Romania di Ceausescu, questa era una grave colpa. Tuttavia il regime non si era mai occupato di lui, nemmeno sapeva che esisteva. Se Corneliu fosse stato più attento, non sarebbe accaduto nulla. Ma lui era un ingenuo e si fidava di tutti. Troppo. Un giorno, Corneliu si era incontrato con un paio di amici gay. Lui e Iorgu, il suo amico più caro, erano andati a casa di un ragazzo conosciuto da poco, un certo Stelian. Iorgu era un biondino effeminato e gli piaceva giocare con le bambole. Quel giorno, per gioco, si era infilato sul pene in erezione il tailleur grigio di una delle sue bambole. Corneliu aveva guardato divertito quel pupazzetto di carne e aveva detto che, così vestito, il pisello di Iorgu gli ricordava quella testa di cazzo di Ceausescu. Poi aveva preso il piccolo tailleur, lo aveva avvolto attorno al pene di Stelian, che invece era a riposo, e aveva detto che quello era tale e quale al figlio Nicu. Sghignazzando aveva aggiunto che gli era venuta un’idea: quando volevano nominare i genitali senza che altri capissero, avrebbero usato i nomi della famiglia Ceausescu. Per indicare il pene in erezione avrebbero detto Nicolae, per il pene a riposo, Nicu e per la fica, Elena. Gli altri avevano riso e si erano dichiarati d’accordo. Il riso di Iorgu era allegro e sincero, quello di Stelian era la risata bastarda della iena ridens. Corneliu e Iorgu ignoravano che Stelian era un poliziotto della Securitate, la polizia segreta di Ceausescu. Pochi giorni dopo, il fratello di Alina e il suo amico erano stati arrestati e portati nella fortezza prigione di Cluj. La loro colpa, oltre a quella di essere gay, era di essersi presi gioco del dittatore e della sua famiglia. Dopo alcuni giorni di sevizie Iorgu era morto. Corneliu, che aveva una fibra più forte dell’amico, era
sopravvissuto ed era stato liberato in attesa del processo. Tornato a casa, era rimasto a letto una settimana. L’ottavo giorno era uscito di nascosto e si era ucciso gettandosi in un laghetto poco distante da casa. La mamma, già ammalata da tempo, era morta di dolore. Poche settimane dopo, Nero aveva raccolto lo stretto indispensabile ed era fuggito a Parigi con la figlia. Per Alina il dolore della perdita del fratello e della mamma era stato atroce. A Parigi era spesso sola. Suo padre aveva trovato lavoro al Louvre, parecchio distante dalla loro abitazione, e i vicini di casa evitavano quella strana coppia. L’unica persona che si era dimostrata amica di Alina fin dall’inizio era Giselle, una prostituta irlandese che abitava nell’appartamento sopra di lei e che accoglieva i clienti nelle ore più impensate, anche in piena notte. Un giorno Giselle era andata a trovare Alina per farsi perdonare il disturbo che le arrecava. Lei aveva risposto che nulla poteva più turbarla, ormai, e dopo averle raccontato la sua storia, le aveva confessato che l’unica cosa che desiderava era la morte, ma che era talmente depressa che non riusciva nemmeno a trovare la forza di suicidarsi. Giselle era rimasta molto scossa, e qualche tempo dopo aveva presentato Alina a un gruppo di giovani artisti del quarto piano dove andava spesso a posare come modella. La figlia di Nero aveva cominciato a frequentare gli artisti e aveva conosciuto Jules, un pittore se molto carino, e aveva fatto l’amore con lui. E anche con Giselle. Quella era stata la sua prima volta, ma non l’ultima. Alina aveva scoperto che il sesso era l’unica cosa che riusciva a farle sopportare il dolore per la perdita della mamma e del fratello. Giselle le aveva insegnato tutto quello che c’era da imparare, e in pochi mesi l’allieva aveva superato la maestra e sperimentato tutte le vie del piacere. Tuttavia Alina non si concedeva mai per soldi, come l’amica irlandese, ma solo per il gusto di fare l’amore e solo con chi le andava a genio, sia uomini che donne. In particolare rifiutava sempre di avere rapporti, anche minimi, con poliziotti e politicanti. Alina non sapeva se la sua ninfomania fosse una perversione innata risvegliata da Jules e Giselle oppure se quel vizio fosse nato in seguito al dolore provocato dalla morte dei suoi cari, ma lo riteneva un dettaglio poco importante. La cosa davvero importante era che il sesso la faceva stare bene. Forse lei era un mostro – e a volte si sentiva tale – ma non se ne dava troppo pena: il sesso era l’unica medicina in grado di curare la sua depressione. E a ben vedere, anche suo padre era considerato da tutti un mostro, e invece era la persona più buona e generosa del mondo. Anche Brogio e i suoi amici erano
ragazzi per bene. I mostri, quelli veri, erano altri: si vestivano in modo ricercato oppure indossavano eleganti divise, proclamavano di fare il bene comune oppure giuravano di difendere gli onesti e perseguire i delinquenti, e invece erano marci dentro. I veri mostri erano i politici e i poliziotti. Alina avrebbe preferito morire piuttosto che fare l’amore con un politico o un poliziotto e stava sempre bene attenta quando sceglieva i propri amanti.
Arrivati al traghetto, Tommy domandò agli amici se fosse il caso di andare alle fornaci. «Io dubito che siano là» rispose Brogio. «Però, sì, forse è meglio andare a dare un’occhiata.» «Posso andarci io a controllare» fece Tommy. «Voi fermatevi a interrogare quelli del traghetto.» «Okay. Però, mi raccomando, se vedi qualcosa di sospetto, non prendere iniziative e vieni subito ad avvisarci.» «Ci puoi giurare» rispose Tommy mentre partiva a razzo verso Villanova Marchesana. Nel chioschetto che fungeva da bar e biglieteria c’era Lucio, un loro ex compagno di scuola che conosceva bene Tina e Luna. Lucio disse che aveva visto le ragazze il giorno prima, verso le dieci di mattina, e che si era anche meravigliato che non fossero a scuola. Non le aveva viste tornare, ma quello non voleva dire niente perché, essendo andate verso la foce, potevano aver deciso di are il Po attraverso l’isola Balutin e il ponte di barche della Punta. Infine, rispondendo a una domanda di Brogio, affermò che non sembravano né spaventate né turbate. Ridevano e scherzavano come sempre, e mentre scendevano dal traghetto con le bici, lo avevano salutato come facevano sempre. In quel momento arrivò Tommy. Alle fornaci non c’era nessuno, perciò i quattro amici salirono sul traghetto e tornarono sulla riva emiliana. Sedute al chioschetto della biglietteria, tranquillamente intente a mangiarsi un gelato, c’erano Ceci e Gegia. Dissero che non avevano visto le amiche, però erano andate alla cartiera e avevano incontrato Fastu il quale aveva confermato che lui le ragazze non le vedeva da giorni. Aveva già saputo della loro scomparsa, ma non era sembrato
particolarmente preoccupato: secondo lui, le due avevano fatto una piccola fuga, magari a causa di qualche giovane spasimante, e sarebbero tornate presto a casa. «Fastu ha detto che alla nostra età le fughe di casa sono frequenti» concluse Ceci, «ma che in genere durano poco.» «Ma lui come vi è sembrato?» domandò Brogio. «Voglio dire, per caso era agitato o nervoso?» «Per nulla» rispose Gegia. «Era tranquillissimo. Ci ha anche offerto una cioccolata calda. Poi ha chiamato Cosimo e ha voluto sapere come procedevano le ricerche. Cosimo ha detto che i carabinieri la pensano allo stesso modo e non hanno dato molto peso alla cosa. Inizieranno le ricerche solo se Luna e Tina non saranno rientrate entro domani.» Brogio stava cominciando a convincersi che Fastu non c’entrava nulla col rapimento, tuttavia era sicuro che le amiche fossero state rapite. Luna poteva anche essere il tipo da fuggire di casa, ma Tina non ce la vedeva proprio. Da sola non andava nemmeno in chiesa e quando i ragazzi uscivano di sera, c’era sempre qualcuno dei suoi che la accompagnava oppure era Luna che andava a prenderla, di solito insieme a Tommy. I ragazzi confabularono ancora un po’, poi Ceci e Gegia dissero che loro andavano a casa e che avrebbero ripreso le ricerche il giorno dopo, sempre che nel frattempo le due fuggiasche non si fossero fatte vive. I quattro maschietti decisero di andare anche loro a casa, ma si accordarono per ritrovarsi nel pomeriggio e continuare le ricerche.
Alle tre, Brogio-Carter, Tommy-Patsy, Edo-Ten e Jack-Moulinsky erano pronti a riprendere le indagini. Dal momento che Ceci e Gegia avevano perlustrato l’argine del Po da Berra fino al Bosco della Punta, loro avrebbero costeggiato il Canal Bianco fino ad Ariano. Lungo la strada c’erano diverse case di campagna abbandonate e i ragazzi contavano di fare una rapida perlustrazione in alcune di esse. Le prime tre tappe si rivelarono infruttuose: le prime due case visitate erano in completa rovina e non avrebbero potuto ospitare due ragazze, né rapite né fuggiasche; la terza era in buone condizioni, ma non c’era alcun segno di
presenza umana. All’altezza di Livello i ragazzi incrociarono Amilcare, un ex compagno delle medie che abitava ad Ariano, e lo fermarono per fargli qualche domanda. Ma il primo a parlare fu proprio Amilcare. «Ciao, raga. State andando anche voi dall’Assunta?» «Assunta, chi?» chiese Tommy. «Quella dell’Hotel Parigi?» «E chi se no?» «Ma il Parigi è un…» attaccò Edo, ma non completò la frase. «Un bordello» affermò Amilcare. «Lo so bene perché è proprio di fronte a casa mia.» Dal 1958, ossia dalla famosa Legge Merlin, le case di tolleranza erano ufficialmente chiuse. Ma si sa: fatta la legge trovato l’inganno. Molti ex bordelli si erano riciclati e trasformati in alberghi, sale da ballo, palestre e saloni di bellezza, e accanto a servizi considerati legali – camere d’hotel, musica e divertimento, ginnastica e massaggi – offrivano altri servizi, meno legali ma più redditizi. «A noi il Parigi non interessa» dichiarò Brogio. «Stiamo cercando Luna e Tina. Per caso, le hai viste?» «Ma è proprio per questo che vi ho chiesto se stavate andando anche voi all’Hotel Parigi» replicò Amilcare con uno strano sorrisetto sulle labbra. «Luna non l’ho vista, ma Tina è in una stanza dell’albergo, al primo piano, insieme a un uomo.» Brogio impallidì. Amilcare abitava nell’immediata periferia di Ariano, in una casa lungo il Canal Bianco, e l’Hotel Parigi era un edificio a tre piani situato sulla riva opposta del canale, giusto di fronte a casa sua. Poiché lui era un grande apionato di birdwatching, suo padre gli aveva regalato un cannocchiale semiprofessionale. Amilcare andava spesso in giro per la campagna a caccia – si fa per dire – di storni, falchi, taccole e altri volatili; e a volte, quando i suoi erano fuori per lavoro, saliva in soffitta per andare a caccia – si fa per dire – di “ere”. Le finestre dell’albergo che davano sul Canal Bianco erano spesso
aperte e lui si godeva di nascosto le performance di clienti e prostitute. Il cannocchiale era tanto potente che Amilcare riusciva a riconoscere perfettamente le persone che frequentavano l’Hotel Parigi. E giusto una mezzoretta prima, aveva riconosciuto Tina. L’amica era in una stanza al primo piano in compagnia di un uomo, un tipo basso, grassottello e con un paio di baffi piuttosto vistosi. Era anche vestito in maniera buffa, con gli abiti che gli andavano un po’ larghi e un cappello alla Tex Willer che gli copriva la testa fino alle orecchie. Amilcare non lo aveva visto in faccia, ma sospettava che non fosse un adulto, bensì un ragazzo che si era travestito per sembrare maggiorenne. Una volta anche lui aveva provato a entrare nell’albergo spacciandosi per adulto, ma Assunta l’aveva beccato e cacciato via a pedate. Amilcare aveva osservato quei due per una decina di minuti, poi, siccome in quella stanza non succedeva niente di interessante e le altre camere che davano sul canale erano tutte vuote, aveva messo via il cannocchiale ed era uscito per andare a fare un giro in bici. «Vuoi dire che non hanno fatto sesso?» chiese Brogio. «Fin che li ho guardati io, no. Non si sono nemmeno spogliati. Però ogni tanto Tina andava a baciare l’uomo. Badate, non erano baci spinti. Sì, insomma, sembravano più amici che amanti. L’uomo mi sembrava tranquillo, invece Tina era molto nervosa. Camminava avanti e indietro in continuazione e ogni tanto andava da lui e lo abbracciava.» «Tina una puttana!» esclamò Tommy. «Chi l’avrebbe mai detto?» «Forse, la delusione di aver visto Brogio che preferiva Luna a lei, l’ha fatta andare giù di testa» dichiarò Jack. «Ma Luna dov’è finita, allora?» domandò Brogio. «Dice il saggio: se l’amica tladilai, la sua vendetta subilai.» Brogio impallidì. «Vuoi dire che…? No, non posso crederci.» Anche Tommy sembrava sconvolto da quella ipotesi. «Secondo te, Tina si è messa d’accordo con uno sconosciuto per rapire Luna?»
«C’è un solo modo per scoprirlo» concluse Jack. «Andare all’Hotel Parigi e chiederlo ai due amanti diabolici.» I quattro amici salutarono frettolosamente Amilcare e partirono a razzo verso Ariano. Alla reception dell’albergo c’era Assunta, proprietaria e tenutaria del bordello, che faceva buona guardia. Assunta era una donna di mezza età, molto grassa e piuttosto brutta. Una volta era stata una bella mora, prosperosa senza essere obesa, ma il fumo smodato, la vita sregolata e gli eccessi in cucina l’avevano trasformata in una donna cannone. Quando i quattro amici entrarono nell’albergo, li squadrò dalla testa ai piedi con aria sospetta. «Io vè cognósso, fiói» esclamò parlando uno strano dialetto tutto suo che mescolava veneto, ferrarese e italiano. «Nò créo che c’avéte bisogno di una stànza. E par al rèsto vuàltri sì ancóra màssa gióvani.» Brogio si fece avanti per primo. «Cerchiamo un’amica. Sappiamo che è qui e dobbiamo parlarle con una certa urgenza.» «E chi la s’è quésta… amìca?» «Valentina Sasso. Abita a L’Olanda.» «Ah, Tina. S’è mia nipóte. La fióla de mia cugìna Stella. La cognósso bén. Ma s’è da un pò che nò la védo.» Tommy si fece avanti con aria minacciosa. «Senti, cicciona, sappiamo che Tina è qui. Vogliamo solo sapere in quale stanza è. Se non ce lo dici tu, andiamo a cercarla noi. E se ti disturbiamo i clienti, peggio per te.» Assunta divenne paonazza. Uscì da dietro il banco della reception impugnando un bastone. «Sa nò andé via sùito, vè fàgo sajàr quésto» gracchiò. Jack tirò fuori il coltellino da boy scout, ma Edo lo fermò e lo pregò di metterlo via. «Dice il saggio: se la luffiana non ci fa entlale, i calabinieli bisogna chiamale.» Jack afferrò al volo il suggerimento di Edo e lo mise in pratica a modo suo: cominciò a spogliarsi e si avviò veloce verso la porta d’ingresso. Prima di uscire
dall’albergo si tolse anche le mutande e appena fuori si mise a gesticolare e a gridare con la voce in falsetto imitando un gay: «Aiuto! Aiuto! La cicciona mi vuole prostituire! Carabinieri, aiuto!» Il viso di Assunta ò dal rosso al viola, poi divenne grigio e infine verde. Lasciò cadere a terra il bastone e corse dietro a Jack che continuava a fare il pazzo in mezzo alla strada. Tommy non perse un secondo: raccolse il bastone di Assunta e salì di corsa le scale seguito dagli altri due amici. Nella prima stanza al primo piano, Tommy trovò il sindaco di Mesola nudo e inginocchiato a terra. Una ragazza bionda, vestita solo con un babydoll, lo stava frustando. Tommy chiese scusa e richiuse la porta. In un’altra camera Edo trovò una morettina seminuda, seduta su un divanetto e intenta a limarsi le unghie. Appena lo vide, la ragazza gli sorrise e lo invitò a entrare. Lui arrossì, farfugliò una scusa e richiuse la porta. Brogio fu più fortunato: aprì una porta e si trovò davanti Tina.
Appena vide l’amico, Tina impallidì. «Brogio! Come hai fatto a trovarci?» «Ciao, Tina» disse lui gelido. «Posso entrare?» E senza attendere il consenso entrò nella camera seguito a ruota da Tommy e da Edo. Tina sembrava un’altra persona: indossava pantaloni jeans a zampa d’elefante, un gilet rosa shocking, molto scollato e talmente corto che lasciava scoperta la pancia, un cardigan leggero, bianco con fiori variopinti verosimilmente ricamati a mano, e un paio di scarpe di vernice rossa con zeppa altissima. I capelli erano raccolti in uno chignon, e due grandi orecchini di plastica, a forma di anello e con i colori dell’arcobaleno, pendevano dalle orecchie. Il trucco agli occhi e alle guance era molto pesante e le labbra erano pitturate di rosso scarlatto. L’abbigliamento chiassoso e il trucco eccessivo la facevano sembrare più vecchia di almeno dieci anni, al contempo le conferivano il look tipico di una donna di facili costumi. Quando Tommy la vide non seppe trattenersi: «Tina, ma che cazzo combini? Sembravi la santarellina del gruppo e invece… Ma ti sei vista allo specchio?»
Tina non rispose e probabilmente arrossì, ma il trucco impedì agli altri di notarlo. Si sedette su una sedia e iniziò a piangere. Brogio non si lasciò commuovere: «Tina, a me non interessa se vuoi fare la prostituta. Spero solo che tu non abbia fatto questa scelta a causa mia. L’unica cosa che voglio da te è sapere dove avete portato Luna.» Tina si soffiò rumorosamente il naso e fissò l’amico. Il rimmel era colato sul viso, il rossetto si era spalmato attorno alla bocca, e adesso la sua faccia sembrava quella di un clown truccato in modo maldestro. Il suo sguardo era triste, ma denotava anche una grande sorpresa. «Guarda che ti sbagli. Io non sono una prostituta. Io… noi siamo qui perché non sapevamo dove andare. Mia zia ci ospita per qualche notte e poi… ancora non so cosa faremo.» «E perché sei scappata?» la incalzò Brogio. «Ti sei messa con uno sposato? Comunque, questi non sono affari miei. Io voglio solo sapere cosa avete fatto a Luna. Dove l’avete portata? E perché l’avete spogliata?» Tina guardò gli amici con aria inebetita. Poi si alzò dalla sedia e andò verso il letto dov’era seduto l’uomo con il cappello da cow boy. L’individuo misterioso era sempre rimasto in silenzio, girato verso la finestra col cappello calato sugli occhi. Tina gli andò davanti e lo interpellò con lo sguardo e con eloquenti gesti delle mani. Forse l’uomo stava meditando di scappare, pensò Brogio, ma non ci sarebbe riuscito: Tommy, che era ben più alto e robusto di lui, stava davanti alla porta con il bastone in mano e lo avrebbe fermato. Però quello poteva tentare la fuga saltando dalla finestra: erano solo al primo piano e sotto c’era l’argine del Canal Bianco ricoperto d’erba; se l’uomo saltava da lì poteva anche cavarsela. Tenendo d’occhio quello strano personaggio vestito come un mandriano e alto quanto un soldo di cacio, Brogio si avvicinò al letto a o felpato. L’uomo si alzò in piedi. Credendo che il tizio volesse saltare dalla finestra, Brogio fece un balzo in avanti, spinse Tina sul letto e tentò di abbrancare l’uomo per le spalle. Mentre cadeva sul letto, Tina allungò le gambe. Brogio inciampò nelle gambe di Tina e rovinò addosso al misterioso individuo. I due caddero lunghi distesi sul tappeto a fianco del letto, uno addosso all’altro. Nel ruzzolone, il cappello dell’uomo volò via liberando una capigliatura nera e folta, e anche i
baffi si staccarono e caddero sul tappeto. Il personaggio misterioso gridò e imprecò. «Porca miseria! Tirati su, che mi fai male! Si può sapere che cazzo ti è preso?» Brogio sobbalzò. Quello strano tipo, rapitore di ragazze, cliente di prostitute, cow-boy in miniatura, altri non era che Luna in abiti maschili. Nel frattempo anche Tommy e Edo erano corsi vicino al letto con la bocca spalancata per lo stupore. Luna e Brogio si rialzarono in piedi e proprio in quel momento Jack entrò nella stanza, nudo come un verme, seguito da Assunta, sudata e ansimante per la corsa. Vedendo Luna vestita da uomo, Jack intuì come stavano le cose ed esclamò, imitando la voce roca di Stanislao Moulinsky: «Ebbene sì, maledetto Carter, hai vinto anche stavolta.» Ci fu un lungo momento di silenzio, interrotto solo dai rantoli di Assunta, poi Tommy proruppe in una sonora risata. La risata contagiò Edo e lo stesso Jack. Poi anche Luna scoppiò a ridere. Brogio guardò Luna e si mise a ridere pure lui. Tina smise di singhiozzare e sorrise. Infine nemmeno lei riuscì a trattenersi ed esplose in una risata liberatoria. L’unica che non rise, ma solo perché era senza fiato, fu Assunta.
Dopo qualche minuto, quando l’atmosfera era tornata tranquilla, Luna e Tina raccontarono la loro storia. Da quando Luna e Brogio si erano messi insieme, Tina era stata sempre più male. Non riusciva a sopportare di vederli insieme. All’inizio aveva pensato alla gelosia, ma poi aveva capito che non poteva essere gelosa di Luna per il semplice motivo che lei non era innamorata di Brogio. E allora, se non era la gelosia a farla stare male, cosa poteva essere? Ci aveva messo un po’ a capirlo, ma alla fine la verità l’aveva colpita come un pugno nello stomaco: il sentimento che provava per Luna non era solo amicizia, ma molto di più. Non poteva essere amore perché, come diceva sempre suo padre, “due persone dello stesso sesso non possono amarsi”, tuttavia quel sentimento andava molto al di là della semplice amicizia. Tina aveva faticato a convincersene, ma infine aveva realizzato che lei, in un modo che nemmeno riusciva a spiegarsi, “desiderava” Luna, la desiderava come di solito una donna desidera un uomo. E questa cosa la sconvolgeva. Era rimasta intontita per un giorno intero, tanto che non era nemmeno andata a
scuola. Era uscita con i libri, ma aveva vagato senza meta fino al pomeriggio inoltrato – non ricordava nemmeno tutti i posti dov’era stata – e alla fine aveva deciso di confidarsi con Luna. Era sicura che l’amica avrebbe riso di lei, oppure che si sarebbe offesa e arrabbiata, ma la cosa che temeva maggiormente era che Luna le dicesse che non voleva vederla mai più. Invece, con sua grande sorpresa, Luna le aveva confidato che lei aveva già capito tutto. Naturalmente non provava il suo stesso sentimento e non la desiderava, però le voleva bene e sarebbe rimasta la sua amica più cara. La progettata fuga era nata per scherzo il lunedì sera a casa di Tina. «Che ne dici se fuggiamo di casa?» aveva detto Luna. «E dove andiamo?» «Andiamo da tua zia Assunta, ad Ariano. Se glielo chiedi, sono sicura che lei ci ospita. Stiamo là due o tre giorni e vediamo cosa succede.» Tina era sicura che la zia non le avrebbe ospitate e che avrebbe telefonato subito a sua madre. Dopo aver riflettuto un po’, Luna aveva replicato: «Mi è venuta un’idea. Ce l’hai ancora la chiave del capanno da pesca di tuo zio?» «Sì. Perché me lo chiedi?» «Allora senti cosa facciamo. Domani fingiamo di andare a scuola e invece andiamo nel capanno. Dormiamo là una notte senza dire niente a nessuno. I nostri genitori telefoneranno a tutti i parenti. Assunta verrà a sapere che noi siamo scappate di casa, e quando andremo da lei capirà che facciamo sul serio e non ci manderà via.» «E la scuola? Io non ci sono andata nemmeno oggi.» «Non capita nulla se perdiamo due o tre giorni di scuola.» «Sì, ma… se mia zia ci ospita, cosa facciamo quando siamo là?» «Niente. Parliamo e cerchiamo di capire se il tuo sentimento nei miei confronti è qualcosa di serio o solo un’amicizia molto profonda.» «E se fosse una cosa seria?»
«Io non credo che sia una cosa seria. Comunque, se lo fosse… beh, in quel caso te lo trovo io un bel ragazzo che ti faccia dimenticare di me.» «Io non mi dimenticherò mai di te. Comunque, va bene, facciamo come dici tu.» Poi, come se solo allora se ne fosse ricordata, aggiunse: «E mio padre? Cosa dico a mio padre?» «Proprio un bel niente. Non si chiede mica il permesso ai genitori per fuggire di casa.» Luna sembrava molto determinata e Tina, anche se con la mente piena di dubbi, si era lasciata convincere. Aveva messo nella borsa da ginnastica alcuni abiti di Silvia, quelli che sua sorella indossava quando andava in discoteca, e al mattino presto era andata a prendere Luna. Dal canto suo, Luna aveva raccattato alcuni vecchi abiti di suo fratello, un cappello da cow boy, un paio di baffi finti che Tommy aveva usato una volta a carnevale e un cambio di vestiti. Dopodiché insieme erano andate al capanno da pesca ed erano rimaste là a dormire. La mattina dopo si erano travestite per sembrare una coppia di giovani amanti: Luna aveva indossato gli abiti di suo fratello e aveva abbandonato quei vestitini da Barbie che a sua madre piacevano tanto e che lei invece odiava, mentre Tina si era vestita e truccata da ragazza matura, probabilmente esagerando un po’. Lo scopo del travestimento era che, nel caso qualcuno le avesse viste entrare all’Hotel Parigi, dovevano sembrare una coppia clandestina o qualcosa del genere. All’inizio Assunta era stata un po’ riluttante, poi aveva accettato di ospitare le due ragazzine nella sua casa di tolleranza a patto che fossero rimaste là al massimo due o tre giorni; nel frattempo avrebbe pensato a una scusa da raccontare ai genitori dell’una e dell’altra. «Ma noi abbiamo trovato della garza e dei cerotti nel capanno» sbottò Brogio appena intuì che il racconto era terminato. «E anche la tua biancheria intima. Avevamo pensato a un rapimento.» Luna sorrise e squadrò Jack che stava in piedi vicino alla porta, perfettamente a suo agio nella totale nudità, e andò a prendere una borsa vicino all’armadio. La aprì e tirò fuori un paio di jeans lunghi e una camicetta bianca a maniche corte che appoggiò sul letto.
«La commedia è finita» disse rivolgendosi a Tina. «È bene che io torni a essere me stessa.» Luna cominciò a spogliarsi. Il suo strip tease, pur senza che lei lo volesse, risultò molto sensuale. Prima si tolse le scarpe e le calze, poi, con gesti lenti e misurati, si levò la giacca e la camicia e li gettò sul letto. Non portava il reggipetto e il seno era stato appiattito avvolgendolo in una striscia di garza fissata con il cerotto. Luna strappò il cerotto e srotolò la garza rimanendo a seno nudo. Dopo una breve pausa ad effetto, si sfilò i pantaloni mettendo in mostra un paio di mutande da uomo. Sorrise e spiegò che le aveva indossate perché, se per caso avesse avuto bisogno di togliersi i pantaloni, non voleva che qualcuno scoprisse l’inganno vedendola indossare mutandine da donna. A quel punto Luna si fermò. Si stava chiedendo se non fosse il caso di andare in bagno a rivestirsi e si guardò intorno. Tina era alla finestra e osservava il Po. Assunta era troppo impegnata a controllare il proprio respiro per preoccuparsi di lei. Jack, Edo e Tommy sembravano più incuriositi che impressionati dal suo spogliarello improvvisato. L’unico davvero preso, addirittura ipnotizzato, era Brogio. Loro due non avevano mai fatto sesso, ma una volta si erano nascosti sul fienile a casa di lei, si erano spogliati completamente e si erano toccati. Perciò non si vergognava a farsi vedere nuda da Brogio. Alzò le spalle, e con un gesto rapido si sfilò le mutande da uomo e le gettò sul letto, dopodiché tirò fuori dalla borsa la biancheria di ricambio che si era portata e si rivestì. Brogio aveva visto Luna interamente nuda almeno un paio di volte, ma fra loro non c’era mai stata vera intimità. Anche quella volta sul fienile, lei gli aveva concesso solo qualche bacio frettoloso e qualche carezza superficiale. Guardò Luna che si stava rivestendo e sentì un groppo in gola: con ogni probabilità quella era l’ultima volta che la vedeva nuda. A causa di Tina, la loro storia d’amore era finita ancor prima di cominciare. Luna non era lesbica e di sicuro non si sarebbe messa insieme a Tina, ma Brogio intuì che quell’episodio segnava la fine della loro storia. Se Luna fosse stata davvero innamorata di lui, non avrebbe proposto a Tina di fuggire insieme, e se lui non le avesse ritrovate, quasi casualmente, nel bordello di Assunta, chissà quanto tempo sarebbe durata la loro fuga. «E dèsso, tóse?» domandò Assunta che nel frattempo aveva ripreso a respirare in modo normale. «Còssa pensé de fàr?»
«Io, adesso, me ne torno a casa» rispose Luna. Tina sbiancò in volto e corse a implorare l’amica. «E la nostra fuga? E io, adesso, cosa racconto a mio padre?» «Mi dispiace, Tina. Il nostro progetto è andato in fumo. Non hai visto come hanno fatto presto a scovarci? Brogio è un vero segugio.» «Se scopre la verità, mio padre mi ammazza.» «E noi non gliela diciamo, la verità, vero raga?» eclamò Jack. Tutti annuirono e Assunta, nel suo bizzarro idioma, aggiunse: «Intànto che andè a càssa, pensè a na bòna scùsa da contàr a Dante. Io e i tósi dirémo che s’è tùto vér. E pò tò pàre te vól màssa bén, Tina. Àncha sa’l desquèrza la verità, lu’l capìsse e’l te perdóna, ció.» Tina ricominciò a piangere e Luna andò ad abbracciare l’amica per consolarla. Assunta dichiarò che doveva tornare al lavoro, e mentre attraversava la porta disse a Jack di andarsi a rivestire prima che le sue ragazze lo vedessero nudo. «Òstrega! Se védono il bìgolo che te pénzola tra le gàmbe, il se spauràza e il me cànbia mestiér. » Brogio-Carter affermò che il mistero era stato brillantemente risolto e che potevano tornarsene a casa. La cosa importante era che le ragazze non erano state rapite e che stavano bene, dopodiché uscì dalla stanza senza voltarsi indietro, subito seguito da Jack-Moulinsky. Andando dietro ai due amici, EdoTen dichiarò: «Dice il saggio: tutto è bene ciò che finisce bene e…» «E l’ultimo… chiuda la porta» esclamò Tommy-Patsy uscendo dalla camera.
9. La festa dell’uva
Quando il tentativo di fuga delle due ragazze fu scoperto, la Banda Bassetti diminuì di due unità. La debola scusa inventata da Luna – che erano andate a fare un giro nel Boscone della Mesola e si erano perse – era stata smascherata e Tina, messa alle strette, aveva confessato tutto. Dante Sasso l’aveva presa malissimo e nel giro di pochi giorni aveva mandato la figlia a Torino, proprio nel collegio di suore che Tina era riuscita a schivare un paio di anni prima con la sua falsa confessione. Cosimo Schioppa l’aveva presa altrettanto male, ma aveva inflitto a Lunetta una punizione tutto sommato lieve: un mese di arresti domiciliari. Luna aveva il permesso di andare a scuola e in chiesa, ma doveva rientrare a casa subito dopo. E ovviamente niente pedalate, balli, cinema e feste con gli amici. La clausura domestica di Luna doveva essere totale, perciò la punizione coinvolgeva anche Tommy il quale, pur potendo uscire con gli amici, non poteva invitarli a casa sua. Il periodo di detenzione doveva durare un mese intero e Luna sarebbe stata di nuovo libera solo da sabato 5 novembre. Ma lei contava di riuscire a ottenere un considerevole sconto di pena.
Durante l’autunno, in tutti i paesi della bassa padana si svolgevano fiere e sagre paesane: a Jolanda di Savoia si teneva la sagra del riso, a Codigoro quella della patata, a Comacchio quella dell’anguilla, ma per Brogio e i suoi amici la sagra più bella si sarebbe svolta a Mesola domenica 9 ottobre: la festa dell’uva. La festa in sé non era niente di straordinario: le solite bancarelle, le giostre, gli stand gastronomici, il palo della cuccagna. L’attrazione davvero interessante era la pigiatura dell’uva. Nella piazza centrale di Mesola, accanto al Castello Estense e di fronte alla chiesa parrocchiale, si mettevano dei grossi tini riempiti con uva da vino e le ragazze della zona, a turno, vi entravano e pigiavano l’uva con i piedi nudi. L’aspetto attraente della faccenda era che le ragazze, scelte di solito fra le più belle, per pigiare l’uva senza macchiarsi il vestito sollevavano abbondantemente le gonne. Poiché a riprendere l’evento c’erano sempre la
stampa e la tv locale, a garanzia di un miglior effetto scenico le ragazze che partecipavano alla pigiatura dovevano indossare vestiti messi a disposizione dagli organizzatori. Quell’anno ci sarebbe stata un’edizione davvero speciale: la pigiatura dell’uva sarebbe stata ripresa dalle telecamere di Telealtomilanese e avrebbe visto la partecipazione di un olandese, un certo Ernst Thole, che presentava un programma di grande successo: Playboy di Mezzanotte. Thole era un tipo eccentrico e dai modi effeminati – un frocio, aveva detto Tommy facendo una sintesi cruda ma efficace – ma anche un ottimo conduttore. Le riprese in diretta sarebbero iniziate solo alle undici di sera, tuttavia sia al mattino che al pomeriggio erano previste riprese di contorno con le conigliette del programma e provini con ragazze del posto per cercare volti nuovi per l’emittente milanese. Ceci sapeva che, in quanto minorenne, non l’avrebbero mai presa come coniglietta, ma era comunque un’occasione troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. Magari, se qualche regista o qualche produttore la notava, poteva sperare di essere chiamata per fare un film sul genere Lolita di Stanley Kubrick. Non era forse vero che Sue Lyon, la protagonista del film, aveva solo quattordici anni quando Kubrick l’aveva scelta per interpretare la parte di Dolores Haze? Ma Ceci era una ragazza modesta e si sarebbe accontentata anche di una parte minore in qualche film di Pier Paolo Pasolini o di Michelangelo Antonioni. Pur di cominciare, avrebbe accettato perfino una particina in un film di Tinto Brass, un regista poco noto ma di grande talento, almeno a sentire alcuni suoi amici maggiorenni. Di questo e altro Ceci aveva parlato il giorno prima con i superstiti della banda e tutti, tranne Edo, avevano promesso che l’avrebbero accompagnata alla festa dell’uva. Edo doveva andare a Venezia insieme ai genitori a trovare una zia malata e sarebbe tornato solo a sera inoltrata. Ceci non aveva dovuto insistere per convincere gli amici, tuttavia, mentre Brogio e Tommy erano rimasti entusiasti dell’idea, Jack si era dimostrato un po’ indeciso. Per quella domenica, infatti, aveva promesso ad Alina di andarla a trovare e non voleva darle buca. D’altro canto gli dispiaceva perdersi la pigiatura dell’uva e le conigliette di Thole. Tommy, allora, aveva proposto di portare con loro anche Alina. Brogio aveva detto che per lui andava bene, però c’era un problemino: da mercoledì scorso, giorno della sfuriata, non aveva più incontrato Alina e temeva che lei fosse
ancora arrabbiata. E poi, se lei avesse accettato, chi sarebbe andato a prenderla e con quale mezzo? Mesola non era lontana, ma nemmeno a due i. E bisognava attraversare il Po due volte. Il problema era stato risolto da Gegia. Quella domenica, a Mesola, come spettacolo collaterale si sarebbe tenuto uno spettacolo di danza folcloristica organizzato dalla locale scuola di ballo. Il padre di Gegia era uno degli organizzatori e doveva essere a Mesola alle dieci del mattino per le prove dello spettacolo, se Alina era d’accordo, poteva andarci lui a prendere la ragazza. Interpellato dalla figlia, Manuel aveva dato il proprio consenso a patto che Alina fosse stata pronta alla nove di mattina e che fosse poi andato Nero a riprenderla. Jack si era subito offerto volontario per andare a parlare con Fastu e sua figlia. Alina non solo aveva accettato la proposta, ma aveva fatto sapere che non era più arrabbiata e che, anzi, si sentiva un po’ in colpa per come li aveva trattati. Non era la prima volta che lei e suo padre venivano accusati dei peggiori misfatti, o anche solo sbeffeggiati a causa dei loro problemi, e ormai avrebbe dovuto farci il callo. Suo padre accettava quegli “equivoci” – così li chiamava lui – sempre con molta filosofia, ma lei era più sanguigna del padre, e molto più permalosa, e non riusciva sempre a far finta di niente. Per dimostrare che l’episodio era dimenticato e sepolto, Alina aveva chiesto e ottenuto l’aiuto del padre. Non c’era bisogno che venisse il papà di Gegia a prenderla: a Mesola l’avrebbe accompagnata Nero. E siccome la macchina di suo padre era molto grande, se loro erano d’accordo avrebbe caricato tutti sulla Land Rover e sarebbero andati insieme alla festa. Per una volta, Nero se ne sarebbe fregato degli sguardi della gente e sarebbe rimasto anche lui ad ammirare le pigiatrici d’uva.
Alle nove della domenica mattina, Brogio, Jack, Ceci e Gegia erano al traghetto di Berra. Nero e Alina arrivarono mezz’ora dopo. Potendo ospitare fino a sette persone, la macchina di Fastu era quasi un pulmino: Nero e sua figlia stavano davanti; Ceci, Gegia e Jack salirono sui sedili centrali; Brogio e Tommy si sistemarono in quelli posteriori; e nel bagagliaio, Fastu aveva caricato anche la carrozzina della figlia. Alina era euforica. Da settimane non usciva di casa e l’invito degli amici era
stata una piacevolissima sorpresa. Lungo la strada si voltò indietro un sacco di volte e parlò con tutti elargendo sorrisi e mandando baci con la mano. L’italiano di Alina era molto migliorato. L’accento straniero si sentiva ancora, ma la grammatica e la sintassi erano quasi perfette. La bella rumena spiegò che il merito era soprattutto di Jack: nell’ultimo mese era andato a trovarla spesso e l’aveva istruita con la pazienza di un certosino, correggendola ogni volta che lei sbagliava. Jack, che era seduto proprio dietro di lei, si avvicinò per dirle qualcosa all’orecchio, lei fece un largo sorriso e gli stampò un bacio sulla guancia. Brogio intuì che fra i due ci doveva essere del tenero, ma lui non era per niente geloso. Trovava che Alina fosse molto carina, ma lei non era il suo tipo. Lui era per le ragazze acqua e sapone. Tina, ad esempio, l’aveva incantato proprio con la sua semplicità. Scoprire che Tina era lesbica l’aveva sconvolto, ma non per una questione di moralismo, bensì perché ai suoi occhi l’amore lesbico era un amore “complicato”. Ma la vera ragione per cui Brogio non si sentiva geloso di Jack era che, pur trovando Alina bella e affascinante, lui non l’amava. L’amore della sua vita era Luna. Lunetta era una ragazza bella, semplice e sincera. Qualche volta era un po’ maliziosa, ma lo era sempre con grande ironia. Tutte queste qualità, insieme alla sua schiettezza – che poteva essere scambiata per arroganza e invece era espressione del suo grande amore per la verità e la giustizia – l’avevano stregato. Forse ora l’aveva perduta per sempre, ma di una cosa era sicuro: lui non avrebbe mai amato nessun’altra come amava Luna. L’atmosfera allegra e spensierata durò per tutto il tragitto da L’Olanda a Mesola. Solo Nero rimase imibile e concentrato sulla guida. Dopo il primo cortese saluto, non parlò più se non per rispondere, in modo gentile ma sbrigativo, a un paio di domande di Jack. Dal suo punto di osservazione, Brogio riusciva a vedere la testa di Fastu, ma non il suo volto perché coperto da una sciarpa di seta e dagli occhiali scuri. Il padre di Alina non gli faceva più paura e provava per lui una grande comione, tuttavia sentiva che non sarebbe mai riuscito a entrare in confidenza con quell’uomo, come invece stava tentando di fare Jack, anche se con scarso successo. Tra una chiacchiera e l’altra, ogni tanto Gegia e Ceci si avvicinavano l’un l’altra per scambiarsi qualche pettegolezzo sussurrato. Brogio non riusciva ad afferrare
le frasi ma, da alcune parole pronunciate a voce lievemente più alta, intuì che le due amiche stavano parlando di Jack e Alina. Tommy, invece, appariva irrequieto: si guardava nervosamente intorno e si muoveva ritmicamente avanti e indietro. Dopo un po’ Brogio capì che l’agitazione di Tommy non era dovuta alla presenza di Nero o alle moine fra Jack e Alina, bensì alla generosa scollatura di Gegia che sedeva proprio di fronte a lui. Attorno alle dieci, Fastu entrò a Mesola e andò a parcheggiare la macchina in una via periferica poco distante dal Castello Estense, ancora chiuso per restauro. Aiutato da Jack, Nero tirò fuori la carrozzina e vi fece accomodare la figlia, poi il gruppo s’incamminò alla volta di Piazza Santo Spirito dove si svolgeva la festa dell’uva. Alina, spinta da Jack, apriva il corteo; seguivano Gegia e Ceci che si tenevano a braccetto e non smettevano un secondo di ciarlare; dietro di loro camminavano Brogio e Tommy; un po’ staccato dal gruppo, Fastu chiudeva il piccolo drappello. La gente per strada si voltava a guardare quell’uomo vestito di nero e con la testa imbacuccata, e più di una persona, dopo essergli ato accanto, si fece il segno della croce. Alcuni bambini che stavano giocando a pallone poco distante mandarono la palla a rotolare sui piedi di Fastu. Istintivamente Nero fermò la palla col piede e la raccolse. Un bambino corse a riprenderla, ma si fermò, impietrito, a un metro da lui. Fastu allungò le braccia per rendere la palla, ma il bambino scappò via a gambe levate. Nero lasciò cadere a terra la palla, si alzò il bavero della giacca e riprese a camminare. Brogio notò la scena, e stava per andare a prendere la palla per riportarla ai bambini e spiegare come stavano le cose, quando udì Jack che strillava: «Il tuo compleanno? Oggi è il tuo compleanno e lo dici solo ora?» Si scoprì così che quella domenica Alina compiva vent’anni. Non l’aveva detto prima perché non voleva mettere gli amici in imbarazzo facendoli sentire in obbligo di organizzare feste o fare regali, ma Jack sembrava proprio arrabbiato. Disse che per lui il compleanno era sacro, più importante del Natale e della Pasqua, e che non festeggiare degnamente un compleanno era un peccato mortale, e chi trasgrediva rischiava, come minimo, duecento anni di purgatorio. Disse proprio così, e Brogio non era sicuro che stesse scherzando. Nero, insieme ad almeno altre cinquanta persone nelle vicinanze, udì l’invettiva di Jack e lo esortò a calmarsi. Dichiarò che non voleva avere la responsabilità di mandare lui e i suoi amici in purgatorio e che, per evitare quella sciagurata
eventualità, quel giorno avrebbero festeggiato tutti insieme il compleanno di Alina al ristorante. Aggiunse che il pranzo l’avrebbe pagato lui e che, onde evitare anche la più piccola ritorsione ultraterrena nei loro confronti, ci sarebbe stata anche la torta con le candeline. Disse tutto ciò in tono serissimo, dopodiché, senza attendere commenti, si staccò dal gruppo e si avviò veloce verso il lato opposto della strada. Ceci e Gegia fulminarono Jack con lo sguardo, ma lui, anticipando le loro prevedibili proteste, esclamò: «Fermi tutti! Non ci può essere festa di compleanno senza regalo. Voi due andate avanti con le ragazze. Brogio, ti affido Alina. Ci vediamo davanti al palco della pigiatura, al massimo fra mezz’ora.» E senza ulteriore indugio lasciò il gruppo e si allontanò nella stessa direzione di Fastu.
Il palco della pigiatura era un palcoscenico quadrato di legno, lungo e largo circa sei metri, sopra al quale erano stati portati due grossi tini: uno era vuoto, nell’altro tre belle ragazze stavano già pigiando l’uva. Non erano conigliette di Telealtomilanese, ma in quanto ad avvenenza non erano certo da meno. Erano tutte e tre sui quindici o sedici anni, molto carine, e indossavano un abito identico, probabilmente una specie di divisa: camicetta bianca e gonna a campana di colore azzurro, con ricami floreali gialli, lunga fino al ginocchio. Due altoparlanti diffondevano una canzone folcloristica e le ragazze pigiavano l’uva cercando di seguire il ritmo della musica. Per non sporcare le gonne col succo d’uva o, forse, per istruzioni ricevute, le ragazze tenevano sollevate le sottane mostrando allegramente cosce e mutande. Anche la biancheria intima – culotte bianche con grappoli d’uva viola disegnati sopra – doveva far parte della divisa. Più che lingerie, quelle mutande sembravano slip da mare da pochi soldi, tuttavia, essendo elastiche e aderenti, lasciavano intravedere le curve delle fanciulle e risultavano piuttosto sexy. Brogio arrestò la carrozzina di Alina davanti al tino delle pigiatrici per ammirare lo spettacolo. Sia lui che Tommy muovevano la testa seguendo il ritmo della musica e senza distogliere lo sguardo dalle ragazze sul palco. «Guardali» urlò Gegia per sovrastare il volume della musica. «Sembrano due cobra ipnotizzati dall’incantatore di serpenti.»
Ceci chiese all’amica se l’accompagnava dagli organizzatori della festa, e dopo aver avvertito gli altri si avviò con Gegia verso il gazebo delle informazioni. Poco più tardi Ceci tornò da sola e spiegò agli amici che lei si era iscritta per il prossimo turno di pigiatura, mentre Gegia era andata in cerca di suo padre sull’altro lato della piazza e li avrebbe aspettati presso il palco della gara di ballo. Brogio e Tommy erano seduti per terra a fianco della carrozzina di Alina che sembrava serena e divertita. Se si stava annoiando, non lo dava a vedere. Le telecamere di Telealtomilanese non erano ancora arrivate, ma in mezzo al pubblico c’erano già osservatori della emittente lombarda che cercavano ragazze e ragazzi per un nuovo programma televisivo, e intendevano fare qualche provino. In quel mentre arrivò Jack con in mano un misterioso pacchetto di forma quadrata, piuttosto largo e molto stretto di spessore. Alina chiese che cosa fosse e lui rispose che quello, ovviamente, era il suo regalo di compleanno, ma che lo avrebbe avuto solo al ristorante, dopo la torta con le candeline. Alina non insistette, ma si vedeva che era felice come una Pasqua. Brogio prese da parte l’amico e gli domandò cosa avesse comprato e con quali soldi. Jack rispose che l’aveva comprato in una bancarella e che aveva speso pochissimo. «Pochissimo quanto?» «Tremila lire. Praticamente regalato.» «Ma che cos’è?» «È un ellepì dei Goblin. La colonna sonora del film Profondo Rosso.» Brogio parve un po’ dubbioso. «Ma sei sicuro che le piacerà? E se poi non ha il giradischi?» «Il giradischi ce l’ha. Suo padre è un patito di musica classica. E sono anche sicuro che ad Alina piacerà. Questo non è mica un disco qualsiasi: è rock progressivo. Una vera figata. Alina ha vissuto tre anni in Francia, vuoi che non le piaccia il rock?» Brogio non era del tutto convinto, ma non volle infierire sull’amico. «Boh, se lo
dici tu. Ma almeno il disco è originale?» «Certo che è originale. Il venditore mi ha detto che costa così poco perché viene dalla Cina. Infatti era un cinese.»
Alle undici meno dieci un altoparlante annunciò che anche il secondo tino era stato riempito d’uva e invitò le ragazze che si erano iscritte ad andarsi a preparare. Ceci corse via come una lepre, e alle undici in punto lei e altre due ragazze, più o meno della stessa età, entrarono nel tino e iniziarono a saltare sull’uva a piedi nudi seguendo il ritmo della canzone trasmessa dall’altoparlante: L’uva fogarina cantata dal Duo di Piadena,. «Bella questa canzone» esclamò Alina. «Come si chiama?» «Questa è L’uva figarina» rispose Tommy con aria sorniona. «Una canzone folk delle nostre parti.» «Figarina? Sei sicuro? A me sembrava che dicono una parola diversa. Cosa vuol dire figarina?» Brogio e Tommy sghignazzarono, ma Jack li fulminò con lo sguardo. «Mah… è un tipo di uva rossa» si limitò a dire Tommy. «Ma non so bene perché la chiamano così.» Le nuove arrivate vestivano nello stesso modo delle pigiatrici appena andate via. Ceci era la più scatenata e non si limitava a pigiare l’uva a tempo di musica, ma piroettava dentro al tino come una vera ballerina. Le altre due ragazze erano carine, ma Ceci era decisamente più attraente: chioma rossa al vento, gambe lunghe e affusolate e un culo da favola mostrato generosamente. Brogio non le staccava gli occhi di dosso. Lui era innamorato di Luna e non avrebbe mai fatto uno sgarbo a Edo, però aveva spesso fantasticato di andare a letto con Ceci. Sapeva che non sarebbe mai successo, e se anche fosse accaduto, per chissà quale miracolo, lui probabilmente sarebbe rimasto immobile come uno stoccafisso, però era bello anche solo immaginare di essere disteso su un letto accanto a Ceci, tutti e due nudi.
Poco prima che l’esibizione avesse termine, un uomo di mezza età si avvicinò al palco e fece un cenno alla Rossa. Lei si abbassò per ascoltare quello che diceva e annuì con la testa. Appena l’uomo si fu allontanato si scatenò ancora di più: pareva che avesse vinto alla lotteria. Quando l’esibizione ebbe termine, Ceci chiamò i ragazzi e disse loro che quelli della televisione l’avevano scelta per fare un provino. Urlò che sarebbe tornata per mezzogiorno e scappò via, verso la tenda spogliatoio, con la gonna sollevata fino alle spalle e le chiappe al vento. I ragazzi erano felici per lei: finalmente avrebbe avuto il suo momento di gloria e magari presto sarebbe comparsa in tv. Solo Alina non aveva un’aria soddisfatta. All’inizio Brogio pensò che la sua fosse invidia, un sentimento umano e comprensibile, soprattutto per una ragazza handicappata, ma che non le faceva comunque onore. Poi, osservandola meglio, capì che l’amica era davvero preoccupata. Alina chiamò Jack e gli chiese se poteva andare a cercare suo padre. Lui stava per avviarsi quando la sagoma di Nero comparve facendosi largo tra la folla. Appena suo padre le fu vicino, Alina gli disse qualcosa in rumeno; lui rispose nella stessa lingua e lei indicò con la mano la tenda dove Ceci era entrata pochi minuti prima. Spingendo la carrozzina, Nero si avviò verso la struttura indicata dalla figlia. I ragazzi intuirono che Nero e Alina erano preoccupati per qualcosa, ma non capivano bene quale fosse il problema. Erano anni che Ceci attendeva quella occasione e sarebbe stato davvero un peccato rovinare tutto per paura di chissà che. Nessuno di loro, però, ebbe il coraggio di dirlo a Fastu e si limitarono a seguirlo. La tenda spogliatoio era deserta. Dietro alla tenda c’era un prefabbricato di legno con una porta chiusa sorvegliata da un energumeno. Quando vide Nero che avanzava verso di lui spingendo una carrozzina e seguito da tre mocciosi, il tizio si piazzò davanti alla porta a gambe larghe e braccia conserte. Nero si fermò a pochi i dal buttafuori, mollò la carrozzina e si avvicinò a lui senza dire nulla. Giuntogli di fronte, si abbassò il bavero della giacca, sfilò via la sciarpa di seta che gli copriva la faccia e si tolse gli occhiali da sole. Il volto del sorvegliante impallidì di colpo, i suoi occhi si riempirono di terrore e le gambe iniziarono a correre in automatico, senza nemmeno aspettare l’ordine dal cervello. Nero aprì la porta della baracca ed entrò. Jack afferrò la carrozzina di Alina e la
spinse dentro seguito a ruota da Brogio e Tommy. Ceci era in piedi al centro della stanza, in lacrime e completamente nuda, mentre un uomo di mezza età, piazzato dietro di lei, la teneva stretta con una mano e con l’altra la palpeggiava. Un paio di metri più in là, una donna sulla trentina seduta su un divanetto scattava foto con una Polaroid. Nero si avvicinò minaccioso e urlò: «Porci! Andate via, prima che chiamo polizia.» Più che la minaccia, fu il volto di Fastu a mettere le ali ai piedi ai due. Mentre la donna gli ava accanto, Jack fu svelto a strapparle di mano la macchina fotografica e a lanciarla a Tommy che la gettò in terra e la calpestò riducendola in pezzi. Spingendo la carrozzina con le proprie braccia, Alina andò verso il divanetto, raccolse le foto già scattate e le strappò una ad una; poi prese i vestiti di Ceci, che erano sul divano, e li portò all’amica. La Rossa si voltò verso di loro senza smettere di piangere. Non era più la ragazza spavalda che sognava di diventare una diva della tv, ma una bambina di quindici anni impaurita e tremante. Il rimmel le colava dagli occhi e le rigava di nero le guance. Brogio si avvicinò per consolarla e aiutarla a rivestirsi. Lei gli corse incontro, con la gonna e la camicetta in una mano e la biancheria intima nell’altra, gli gettò le braccia al collo e lo strinse a sé, poi attaccò a piangere più forte. Quando Ceci si fu calmata e rivestita, i ragazzi andarono a cercare Gegia. La trovarono che stava ballando un tango argentino con un ragazzo di circa vent’anni. Gegia era davvero portata per il ballo: abbracciata al partner, saltava come un grillo e volteggiava come una libellula, ma con la leggerezza di una farfalla. Si era cambiata d’abito e indossava un body rosa con gonnellino nero, calzettoni al ginocchio dello stesso colore del body e scarpe da ginnastica bianche con ricami dorati. Il ballerino aveva una maglietta verde mela molto aderente, pantaloni di raso blu elettrico e scarpe di tela dello stesso colore dei pantaloni. La musica cessò e i ballerini, dopo un’ultima evoluzione, fecero l’inchino al pubblico che li applaudì fragorosamente. Gegia scese dal palco e Ceci le corse subito incontro e la abbracciò. Tenendo stretta l’amica, che aveva ricominciato a piangere, Gegia si ritirò nella tenda spogliatoio. Gli altri le aspettarono fuori.
Il locale che Fastu aveva scelto per festeggiare il compleanno di Alina era una piccola locanda vicina al Canal Bianco. Si mangiava bene e si spendeva poco e, cosa più importante, la signora Ada, la proprietaria, conosceva bene Nero e lo trattava come una persona normale. Quando Fastu abitava in Francia, il suo luogo di lavoro era lontano dall’abitazione e lui restava spesso fuori a mangiare. Nei primi tempi l’ingegnere aveva avuto qualche difficoltà a farsi accettare nei ristoranti: i camerieri, o i proprietari, lo invitavano spesso ad andarsene per timore di perdere gli altri clienti. Poi aveva trovato una trattoria gestita da un profugo della Gemania dell’Est che non si poneva problemi di quel tipo e Fastu aveva preso l’abitudine di andare sempre da lui a mangiare. In Italia era successa più o meno la stessa cosa, e quando voleva rimanere fuori a pranzo, Nero andava sempre in quella locanda dove sapeva di essere ben accolto. La signora Ada era molto gentile e lo faceva accomodare sempre nello stesso posto: un minuscolo stanzino, senza finestre, adibito a ripostiglio. Ada aveva tolto le scope, gli strofinacci e le ragnatele e ci aveva messo un tavolino con una sedia. Fastu ci si trovava benissimo. Per la festa di Alina lo sgabuzzino era troppo piccolo e Ada aveva riservato loro una stanza intera, non tanto grande, ma abbastanza per ospitare sette persone. La finestra era chiusa, le luci spente e il tavolo da pranzo illuminato con un candeliere d’argento posizionato al centro. Nero si sedette a capotavola e i ragazzi si sistemarono ai lati: da una parte Jack, Alina e Brogio, con Jack seduto accanto a Nero e Alina in mezzo; sull’altro lato Tommy, Ceci e Gegia, con Tommy seduto di fronte a Jack e vicino a Ceci. Appena furono tutti seduti, Brogio chiese a Ceci cos’era successo in quella baracca. Lei aveva una gran voglia di sfogarsi e raccontò che, mentre stava pigiando l’uva, un uomo si era avvicinato al palco e le aveva detto che Telealtomilanese voleva farle un provino per uno sceneggiato di nuova programmazione. Finito il suo turno, Ceci era corsa a cambiarsi e poi era andata nella baracca dietro lo spogliatoio come le era stato detto. Dentro aveva trovato una donna con una macchina fotografica che, con modi spicci, le aveva spiegato che per fare il provino serviva un book fotografico e le aveva chiesto di spogliarsi. Ceci si aspettava una richiesta del genere e si era tolta il vestito e il reggiseno. La donna, che aveva già iniziato a scattare foto, le aveva detto che doveva togliersi
tutto. Cecilia aveva sempre sognato quel momento e aveva messo in conto che per fare l’attrice o la showgirl prima o poi avrebbe dovuto spogliarsi, ma non immaginava che glielo avrebbero chiesto fin dall’inizio. Inoltre non capiva perché, per fare un semplice provino, doveva mettersi tutta nuda. Nondimeno, se quella donna fosse stata un po’ più gentile e quell’altro non le fosse saltato addosso all’improvviso, le mutandine se le sarebbe tolta da sola. Ma non aveva avuto il tempo di farlo: l’uomo era sbucato da dietro una tenda e aveva sbraitato che non aveva tempo da perdere, e mentre lui la teneva stretta, la donna le aveva sfilato le mutande in maniera brutale e poi aveva ricominciato a fare foto. L’uomo aveva una forza bestiale, e mentre con una mano la teneva ferma, con l’altra la toccava in tutto il corpo. Ceci aveva gridato che aveva cambiato idea e che non voleva più fare il provino. Insensibile alle sue grida, la donna aveva continuato a scattare foto e l’uomo aveva continuato a toccarla con quelle sue manacce schifose. Ceci si era messa a piangere e in quel momento, con suo grande sollievo, era entrato Fastu. «Non farò mai più provini in vita mia» concluse La Rossa. Tommy propose di chiamare i carabinieri e di denunciare la troupe di Telealtomilanese, ma Nero suggerì di lasciar perdere. Per fortuna erano arrivati in tempo, e poi lui dubitava fortemente che quella gente lavorasse per l’emittente televisiva: quei tre erano solo delinquenti da strapazzo e avevano approfittato della situazione – e dell’ingenuità di una ragazzina – per scattare foto osé da vendere al mercato nero. Una troupe televisiva non avrebbe mai usato una Polaroid per fare un book fotografico, ma attrezzature ben più sofisticate. «Secondo me, Nero ha ragione» dichiarò Jack. «Quei tre, ormai, sono a casa del diavolo e non li becca più nessuno.» Brogio stava per dire la sua, ma in quel momento entrò la signora Ada con un carrello portavivande e cominciò a servire in tavola. Sette piatti fumanti pieni di cappelleti in brodo misero fine alla discussione.
Alina mangiò tutti i suoi cappelletti e divorò mezza fiorentina di Chianina da un chilo, dimostrando un appetito quasi inspiegabile in una ragazza mingherlina com’era lei. I ragazzi della banda, invece, come secondo presero salamina da sugo con purè. Nero disse che la salamina era troppo salata e piccante per i suoi
gusti e mangiò una porzione abbondante di carpaccio di manzo con rucola e grana e la mezza bistecca rimasta alla figlia. Tra un boccone e l’altro, Fastu spiegò che la carne al sangue, oltre che essere più saporita di quella ben cotta, è ricca di proteine e di ferro, elementi di cui sia lui che la figlia avevano un gran bisogno. Arrivati alla frutta, Alina prese dal vassoio una banana, e dopo averla sbucciata con movimenti lenti e quasi sensuali, cominciò a succhiarla e a mordicchiarla come se stesse gustando un ghiacciolo invece di una banana. Mentre mangiava il suo grappolo d’uva, Brogio guardò l’amica divertito e non potè fare a meno di pensare che quel modo di mangiare le banane, oltre che insolito, era tremendamente sexy. Quando la mano di Alina si appoggiò sulla sua gamba sinistra, Brogio rimase impietrito e un acino d’uva gli si fermò pericolosamente in bilico sulla lingua vicino alla gola. L’acino gli andò quasi di traverso quando la mano dell’amica salì verso l’alto e si fermò sulla patta dei pantaloni. A scanso di pericoli, Brogio deglutì l’acino intero e ci mancò poco che si strozzasse. Mentre la rumena iniziava a massaggiare le sue parti intime, lui si guardò intorno preoccupato: per fortuna l’ambiente era poco illuminato e la tovaglia nascondeva la mano della ragazza. Fingendosi interessata a una barzelletta che Tommy stava raccontando in dialetto ferrarese e di cui non capiva una parola, Alina continuò la sua esplorazione. Con movimenti esperti slacciò tutti i bottoni della patta e infilò dentro la mano. Per nascondere il volto paonazzo, Brogio teneva il grappolo d’uva davanti alla faccia fingendo di addentarlo. La mano di Alina si strinse attorno al pene dell’amico e lo tirò fuori dai pantaloni. Quindi la mano cominciò a muoversi, prima lentamente, poi sempre più veloce. Ma si sa com’è: un bel gioco dura poco. Quello di Alina durò sì e no un paio di minuti. Quando Brogio raggiunse l’acme del piacere, lei non aveva ancora finito di mangiare la sua banana. Alina ritirò la mano e si pulì nel tovagliolo. Per Brogio la soluzione al problema era un tantino più complicata: avrebbe dovuto alzarsi e andare in bagno, ma aveva paura che qualcuno, vedendolo bagnato, pensasse che si era fatto la pipì addosso. La soluzione la fornì, involontariamente, la signora Ada: la locandiera entrò e portò via il candeliere lasciando la stanza al buio per alcuni secondi. Brogio non si lasciò scappare l’occasione e approfittò di quel breve momento di
oscurità per alzarsi e correre in bagno. Mentre lui lasciava la sala da pranzo, Ada tornò con la torta su cui brillavano venti candeline accese. Quando Brogio ritornò, le candeline erano già spente e il candeliere era tornato al suo posto. I suoi pantaloni erano rimasti un po’ umidi, ma se qualcuno glielo avesse fatto notare avrebbe detto che si era bagnato lavandosi le mani. Nessuno notò quel particolare, ma Jack lo rimproverò perché si era alzato proprio nel momento in cui Alina spegneva le candeline. «Scusate, ragazzi» si giustificò. «Ma quando scappa, scappa.» Poi si avvicinò ad Alina, le diede un fragoroso bacio sulla guancia e aggiunse: «Ti auguro tanta felicità e… cento di questi giorni.»
Brogio tornò a sedere al suo posto e attaccò a mangiare la sua fetta di torta. Era felice, ma confuso: a Jack piaceva Alina, questo era sicuro, e tutto lasciava supporre che anche ad Alina pie Jack. Ma lei, pur avendo Jack seduto al suo fianco, si era appena trastullata con un altro. E poi, dopo la loro ultima avventura nella casa delle mele acerbe e la sfuriata di Alina, Brogio tutto si sarebbe aspettato meno che lei lo masturbasse, per giunta con tutti gli amici e il padre presenti. Certo che Alina era un tipo singolare. Chissà cosa avrebbe combinato in futuro. Brogio non dovette attendere molto per scoprirlo: mentre mangiava la sua fetta di torta, aveva portato la mano sinistra sulla patta per controllare che i pantaloni si stessero asciugando. Non fece in tempo a riportare la mano sul tavolo: la mano di Alina piombò sulla sua come un uccello da preda. La figlia di Nero afferrò la sua mano sotto il tavolo e se la portò in grembo, dopodiché tornò a gustare la sua fetta di torta. Il messaggio era chiaro: ora lui doveva renderle il servizio. Una scossa elettrica percorse la spina dorsale di Brogio, dall’osso sacro su fino al cervelletto, e gli uscì dalle orecchie producendo un fischio acuto, come il vapore quando esce dalla valvola di una pentola a pressione. Aveva già scambiato qualche carezza intima con Luna, ma la sorella di Tommy non gli aveva mai concesso niente più che delle toccatine superficiali. L’offerta di Alina sembrava promettere un viaggio nell’abisso profondo della lussuria. Muovendosi lentamente e facendo bene attenzione che nessuno notasse le sue manovre, Brogio allungò il braccio verso le cosce dell’amica e le trovò
leggermente divaricate. Quando raggiunse l’orlo della gonna, lo prese e lo sollevò. Sotto la sottana, Alina indossava un paio di mutande tipo culotte piuttosto larghe, e si domandò se la cosa fosse casuale oppure se lei avesse indossato quel tipo di indumento apposta per l’occasione, sapendo – o sperando – che sarebbe accaduto quello che stava per accadere. Quella ragazza era piena di sorprese e non smetteva di stupirlo. E la sorpresa fu davvero grande quando Brogio infilò la mano dentro le mutande: si era aspettato di incontrare un cespuglietto di peli e si era deliziato all’idea di tirare, torcere e frizionare quel ciuffo. Invece, quando la sua mano raggiunse l’obiettivo, incontrò il deserto: il monte di Venere disegnava una curva deliziosa, ma quel monte non era boscoso bensì totalmente brullo. “Alina si è depilata la fica!” pensò Brogio con un brivido. La scoperta lo deluse e lo elettrizzò allo stesso tempo. Il sesso femminile depilato lo metteva un po’ a disagio, ma aveva anche una voglia matta di ficcare la testa sotto la tovaglia per andare a guardare: in vita sua non aveva mai visto una fica rasata e moriva dalla curiosità. Alla fine si limitò a esplorare la zona con i polpastrelli delle dita: il tatto avrebbe sostituito la vista. E tanto per saggiare la reazione di Alina, le diede dei leggeri pizzicotti. Lei stava parlando con Jack e non si scompose. Allora Brogio appiattì il palmo della mano contro la montagnola liscia e iniziò a massaggiarla compiendo un lento movimento rotatorio. Alina continuò a parlare con Jack senza mostrare alcuna reazione, né di piacere né di altro tipo. L’indifferenza di Alina era frustrante: il sesso delle femmine è troppo diverso da quello dei maschi ed è difficile, per un ragazzo inesperto, immaginare in che modo le ragazze si procurano il piacere da sole. Poi a Brogio venne in mente che i due sessi erano sì diversi, ma complementari: il sesso maschile e quello femminile hanno la forma che hanno perché uno possa penetrare nell’altro, come una punta di trapano che si muove dentro a un buco nel muro. La sua mano scese di qualche centimetro e il dito medio si infilò nella fessura di Alina. Lei ebbe un leggero sussulto. Gli altri non si accorsero di nulla, ma per Brogio quel fremito fu come una scossa di terremoto, ed esitò. Aveva paura che, se si fosse intrufolato di più, la leggera scossa potesse diventare un terremoto di magnitudo sette sulla scala Richter e che gli amici, oppure Nero, si accorgessero di quello che lui stava combinando.
Ma se anche avesse voluto fermarsi e tornare indietro, non poté farlo: la mano di Alina afferrò la sua e costrinse il dito a scendere e a salire dentro a quell’anfratto scivoloso. Pur non essendo un esperto, Brogio ebbe l’impressione che il movimento della mano di Alina fosse troppo lento, perciò prese l’iniziativa e aumentò gradualmente il ritmo. Lei tirò via la mano e lo lasciò fare. La frequenza del respiro della fanciulla aumentò e i suoi gesti si fecero più concitati e leggermente scoordinati. Poi, all’improvviso, portò la mano sulla gamba di Brogio e strinse forte puntando le unghie contro la stoffa dei pantaloni. Se lui non avesse avuto i jeans, lei lo avrebbe sicuramente graffiato. Per mascherare l’eccitazione, Alina si versò dell’acqua nel bicchiere e cominciò a bere. Bevve alcune sorsate, poi afferrò di nuovo la mano di Brogio, ne rallentò il ritmo e la spostò verso l’alto facendo capire all’amico che non doveva più muoversi dentro, ma massaggiare la parte esterna. Manipolato da Brogio, il sesso di Alina si allargò e si trasformò in un fiore: un’orchidea rosea con petali bagnati di rugiada. Nella parte alta di quell’orchidea, Brogio percepì una protuberanza: era lì, nel pistillo di quello straordinario fiore di carne, che Alina voleva essere stuzzicata. Il pollice e l’indice si serrarono sul pistillo e sfregarono, tirarono, strinsero e torsero quel gineceo carnoso. A un tratto la fanciulla si voltò verso di lui: aveva la bocca aperta, le guance rosse, le lacrime agli occhi e le pupille rivolte verso l’alto. Brogio si spaventò e ritirò la mano. Lei cominciò a tossire e a battersi il pugno sul petto, poi prese un bicchier d’acqua e fece finta di bere. Tutti si voltarono verso di lei preoccupatissimi. Alina disse che non era niente: le era andato di traverso un pezzo di torta, ma adesso era tutto ato. Quando tornò la calma e nessuno badava più a lei, la bella rumena si girò di nuovo verso Brogio, gli sorrise e gli strinse la mano sotto il tavolo. I suoi occhi erano lucidi e pieni di miele. Poi voltò la testa dall’altra parte e si mise a parlare con Jack.
Mentre Ada portava via i piatti sporchi, Jack si alzò dal tavolo e uscì dalla sala da pranzo. Tornò pochi istanti dopo con il regalo, avvolto in una carta da pacchi di color beige, e lo appoggiò sul tavolo davanti ad Alina.
«Buon compleanno, Alina. Questo è da parte di tutti noi.» Alina prese il pacchetto, strappò via la carta e rigirò il disco tra le mani. «Bello, grazie» disse con un entusiasmo un po’ forzato. «Ho visto il film. E la musica è davvero… forte.» Gegia si alzò in piedi. «Sono contenta che ti piaccia il regalo di Jack, Alina. Però ci tengo a precisare che quello è il regalo dei maschi. Io e Ceci abbiamo pensato a qualcosa di diverso.» Così dicendo, tirò fuori dallo zaino un oggetto avvolto in un foglio di giornale e lo diede ad Alina. Lei sorrise e parve disorientata. Fino al giorno prima non sapeva nemmeno che avrebbe festeggiato il compleanno, e adesso era andata al ristorante, aveva spento le candeline e aveva ricevuto addirittura due regali. Mentre due lacrimucce facevano capolino agli angoli degli occhi, srotolò il foglio di giornale e tirò fuori un ventaglio di legno finemente intarsiato e riccamente decorato, probabilmente di origine spagnola. «Era di mia nonna» precisò Gegia. «Mio padre lo teneva in macchina da non so quanto tempo. Spero che ti piaccia.» «È bellissimo!» esclamò Alina, e questa volta l’entusiasmo era sincero. «Ma non posso accettare. Questo è ricordo di tua nonna.» «Oh, ne ho degli altri a casa. Se ti piace, è tuo.» Prima che Alina potesse replicare, suo padre tirò fuori dalla tasca della giacca un terzo pacchetto, avvolto in carta a fiorellini e legato con un nastro rosa, e lo consegnò alla figlia. «E questo è mio regalo. So che tu desideravi questo da tanto tempo.» Alina non riuscì più a trattenere le lacrime che sgorgarono copiose rigandole le guance. Il pacchetto di Nero conteneva un orologio da polso con il cinturino bianco, la cassa in acciaio cromato e le lancette dorate. Alina rise e pianse, e lasciò uscire le lacrime senza cercare di fermarle. Lei piangeva spesso, ma quella era la prima volta, per quanto potesse ricordare, che piangeva per la troppa felicità.
10. La cripta
Brogio conosceva la festa di Halloween attraverso i telefilm e i cartoni animati della Famiglia Addams e, soprattutto, grazie ai fumetti di Linus: ogni anno Linus van Pelt, il migliore amico di Charlie Brown, nella notte che chiude il mese di ottobre attende fiducioso l’arrivo del Grande Cocomero nascosto dentro una grande zucca vuota nell’orto di casa. E Brogio sapeva anche che, nella notte di Halloween, i bambini americani vanno di casa in casa, mascherati da mostri, fantasmi, streghe e vampiri, chiedendo dolcetti o monetine e che, in caso di rifiuto, combinano scherzetti. Ma non aveva mai sentito parlare di Samhain: conosceva a malapena i Celti e non sapeva nulla della Ruota dell’Anno e delle feste celtiche. Per lui il primo novembre era la festa di Ognissanti ed era una delle poche festività religiose sopravvissute alla scure della riforma scolastica. Alina, invece, era una grande esperta di cultura celtica. Quel martedì, primo di novembre 1977, i componenti della Banda Bassetti si erano ritrovati nella soffitta della casa delle mele acerbe per festeggiare Halloween. Alina aveva proposto una festa notturna in maschera, come nella tradizione anglosassone, ma le mamme di Luna e di Ceci non avevano dato il loro consenso. Gisella e Adele avevano detto che, se festa ci doveva essere, almeno che fosse per una ricorrenza cristiana e non pagana, senza contare il problema di dover attraversare il Po in piena notte; e così si era optato per una festicciola pomeridiana. Erano tutti presenti tranne Tina, ancora in collegio a Torino. Gli arresti domiciliari di Luna erano terminati, grazie all’intercessione di Tommy e dopo grande insistenza della ragazzina, con qualche giorno di anticipo. Anche Edo, pur di partecipare alla festa aveva rinunciato ad andare a Venezia con la madre. Quel giorno non faceva freddo, ma sulla zona era calata una nebbia talmente fitta che si tagliava con il coltello. Alina era seduta sul letto con la schiena appoggiata a due cuscini e stava raccontando agli amici del periodo in cui aveva vissuto a Parigi, quando aveva tra i sedici e i diciotto anni. Brogio, Luna, Gegia e Ceci erano seduti sul bordo del letto mentre Tommy, Edo e Jack erano stravaccati su un divano nuovo di zecca che Nero aveva comprato per la banda e portato in
soffitta un paio di settimane prima. Nella Ville Lumière, Alina aveva frequentato il lycée général ottenendo un baccalauréat littéraire, ma si era anche iscritta a una scuola serale di stregoneria organizzata da un circolo culturale che si ispirava alla Wicca. Là aveva imparato tutto della cultura celtica e aveva scoperto che molte festività cristiane erano derivate da feste celtiche. La festa di Ognissanti, ad esempio, traeva la sua origine da una festa pagana chiamata Samhain, nota anche come festa dei morti, e non a caso nel calendario cristiano il giorno dei morti si celebra il due novembre subito dopo Ognissanti. Secondo i Celti, durante la festa dei morti il confine fra il mondo dei vivi e quello dei morti diventa molto sottile e i morti possono facilmente attraversarlo. Alina spiegò agli amici che il giorno di Samhain è quello più favorevole per evocare i fantasmi e organizzare sedute spiritiche. I ragazzi della banda pendevano dalle sue labbra e quando lei accennò ai fantasmi, Brogio si piegò verso Luna per sussurarle che lui non aveva bisogno di fare sedute spiritiche per vedere i fantasmi. A metà pomeriggio la festa entrò in una fase di stanca. Per ravvivare il party, Jack propose di fare una seduta spiritica e provare a evocare il fantasma di Torello. Brogio si oppose sostenendo che lui di fantasmi ne vedeva già abbastanza, piuttosto avrebbe giocato volentieri a Monopoli o a Risiko. Tommy replicò che avrebbe preferito un gioco dove ci fosse da muoversi un po’ perché aveva le gambe informicolate, ma subito dopo arrossì e si voltò verso Alina balbettando frasi di scuse. Lei sorrise e disse che avrebbe partecipato volentieri a patto che non ci fosse da camminare troppo. Jack allora propose di ripetere il gioco della bottiglia versione hard, ma Ceci rispose subito che non aveva nessuna voglia di fare quel gioco e suggerì di giocare a “Vedova e vedovo”. Edo replicò che quello era un gioco insulso, per bambini di sei anni, e propose “Obbligo, giudizio e verità”, ma quel gioco non piaceva a Gegia. «Voi maschi siete dei sadici e obbligate sempre noi femmine a fare cose assurde o schifose, tipo mettersi la maionese nelle mutande». Brogio suggerì “Dire, fare, baciare, lettera, testamento”, ma anche quello fu bocciato perché ritenuto troppo infantile. Alla fine fu Luna a scovare un gioco che sembrava accontentare tutti: «Perché non giochiamo a “Mi ami o non mi ami”? Ci si muove un po’ e non è né troppo strambo né troppo infantile.» Jack fece notare che Alina non avrebbe potuto giocare, ma lei rispose che erano molti i giochi a cui non poteva partecipare; quello lo conosceva, e se loro erano d’accordo avrebbe fatto da arbitro. Dopodiché, per rendere il gioco più interessante, propose agli amici di formare due squadre, quella dei maschi e
quella delle femmine, e ogni volta che uno faceva il palo, la sua squadra prendeva un punto di penalità. Alla fine la squadra che accumulava più penalità perdeva e i componenti di quella squadra dovevano fare penitenza. La proposta di Alina trovò tutti d’accordo e, siccome i ragazzi erano superiori di numero alle ragazze, il primo palo sarebbe stato un maschio. Jack si autocandidò come primo palo. I maschietti andarono al piano terra a prendere sei sedie che furono posizionate un po’ distanti fra loro a formare un cerchio. Alina fece sedere i maschi di fronte alle femmine e invitò Jack a mettersi in piedi al centro, poi ricordò a tutti le regole specificando che, essendoci due squadre, la domanda “mi ami o non mi ami?” poteva essere posta solo a un componente della squadra avversaria. Se uno rispondeva “non ti amo”, alla domanda successiva “allora chi ami?” era obbligato a dare una risposta in cui potevano riconoscersi almeno due persone. Tutte le persone che rispondevano ai requisiti dovevano alzarsi in piedi, indipendentemente dalla squadra di appartenenza, e correre a cercare una sedia libera. Ovviamente era vietato alzarsi e sedersi subito sulla stessa sedia. Lei, in qualità di arbitro, avrebbe vigilato sul corretto svolgimento della gara e avrebbe fermato il gioco se qualcuno, volontariamente o per errore, infrangeva le regole. Infine, facendo un cenno a Jack, diede inizio alla competizione. Jack andò verso Luna, seduta fra Gegia e Ceci, e chiese: «Mi ami o non mi ami?» Luna ci pensò un attimo e rispose: «Sì, ti amo.» Gegia e Ceci si alzarono dalla sedia e corsero una verso l’altra per scambiarsi il posto. Jack doveva sedersi su una delle sedie prima delle ragazze. Gegia fu molto veloce mentre Ceci fu un po’ più lenta. Lui aveva puntato proprio sulla sedia della Rossa e riuscì a sedersi un attimo prima dell’amica. «Ceci fa il palo» sentenziò Alina. «Un punto di penalità per le femmine.» Ceci andò da Edo e gli chiese: «Mi ami o non mi ami?» Edo rispose senza esitazione: «No, non ti amo.» Lei ci rimase un po’ male e lasciò are qualche secondo prima di formulare la seconda domanda: «Allora chi ami?»
Edo rifletté un paio di secondi e rispose: «Amo una persona con i capelli neri.» Luna e Gegia scattarono in piedi; avevano già iniziato a correre quando Alina le fermò. «Alt, fermi tutti. Tornate a sedere, ragazze. Nessuno dei maschi si è alzato in piedi, ma Edo ha detto che ama una persona con capelli neri, non una ragazza con capelli neri. Allora ricordo il colore dei capelli di tutti voi: Ceci ha capelli rossi, Gegia e Luna neri, ma anche Brogio ha capelli neri, quelli di Tommy sono castani e quelli di Edo possiamo dire biondi, quelli di Jack… diciamo trasparenti. Ricordo anche che, dopo start, le due squadre possono mescolare fra loro, cioè maschi può prendere il posto di femmine e il contrario. Tutti avete capito bene? Allora Edo può ripetere sua risposta.» «Amo una persona con i capelli neri» ripeté Edo. Luna, Gegia e Brogio si alzarono. Luna e Gegia erano vicine fra loro e si scambiarono facilmente il posto. Brogio era dalla parte opposta e rimase in piedi come un baccalà. Ceci si sedette al posto di Brogio senza nemmeno bisogno di correre. «Ma così non vale» protestò lui. «Certo che vale» replicò Alina. «Tu non stai su sedia a rotelle. Tu potevi correre più veloce. Adesso fai palo. Punto di penalità per i maschi.» Brontolando a mezza voce, Brogio fece il giro del cerchio osservando le ragazze. Si fermò davanti a Luna e la guardò per alcuni istanti, poi cambiò idea e si diresse verso Gegia. Prima di iniziare, Alina aveva stabilito che il gioco sarebbe durato trenta minuti. Allo scadere della mezz’ora, la rumena fermò il match e decretò che la squadra delle femmine aveva battuto quella dei maschi per diciotto a dodici. La penitenza toccava ai maschi. Tommy provò a protestare sostenendo che, poiché i maschi erano più numerosi delle femmine, era logico che loro fossero rimasti più volte a fare il palo. Alina gli ricordò che questo lo sapevano anche prima di iniziare il gioco; avevano accettato le regole e quindi era giusto che ne pagassero le conseguenze. Nessun altro protestò e Brogio chiese ad Alina che cosa aveva in mente come penitenza. «Dobbiamo spogliarci?» domandò Jack.
«Eh, già!» esclamò Ceci. «Sai che penitenza, per te!» «Posso suggerire qualcosa?» intervenne Luna alzandosi dalla sedia. «Io avrei un’ideuzza.» «No, voi avete giocato e io ho rimasto a guardare» rispose Alina. La sua voce si era fatta improvvisamente dura e nei suoi occhi brillava una strana luce. «Adesso tocca me giocare.» Luna rimase impressionata da quella voce e da quello sguardo e tornò a sedersi. Il comportamento di Alina turbò anche gli altri che non aprirono più bocca. «Vedete quella porta?» disse Alina indicando la porta chiusa che stava in fondo alla sala. «Sapete cosa c’è dietro?» Alina sembrava una persona diversa e i ragazzi erano ammutoliti. «Il magazzino delle scope?» rispose Brogio. «Là dietro c’è cripta» esclamò lei. La voce si era fatta cavernosa e gli occhi sembravano di vetro, tanto erano sbarrati e lucidi. Le ragazze, intimorite, si avvicinarono con la sedia agli amici maschi. Dalla finestra entrava una luce fioca dai riflessi verdastri e pareva che la temperatura nella soffitta fosse calata improvvisamente. In tono serio, Alina disse che suo padre aveva raccontato loro una mezza verità: lui era davvero ammalato di porfiria, ma era anche un mezzo vampiro. Il nonno di suo nonno era un vampiro e aveva sposato la figlia di un conte, perciò nelle vene della famiglia Fastu scorreva un po’ di sangue di vampiro, e sia lei che suo padre erano per metà umani e per metà vampiri. Usando le dovute precauzioni potevano vivere una vita quasi normale, ma in talune circostanze la loro natura vampiresca aveva il sopravvento su quella umana. Una di quelle circostanze era Samhain, la festa dei morti. Suo padre risentiva più di lei di quel fenomeno, perciò quel giorno aveva preferito allontanarsi da casa. Quando la sua natura vampiresca aveva il sopravvento, lui perdeva facilmente il controllo e diventava pericoloso. Lei, invece, aveva meno sangue di vampiro nelle vene e riusciva a controllarsi più facilmente. Questo, però, non accadeva quando si trovava nella cripta. La cripta era un tratto della soffitta privo di finestre. Suo padre aveva appeso delle tende nere alle pareti e aveva sigillato la porta in modo che non entrasse nemmeno un filo di luce. Tali accorgimenti avevano anche lo scopo di attutire le
sue grida: a volte il vampiro che albergava in lui diventava talmente forte e la sua rabbia talmente intensa che, per paura di fare del male a qualcuno, andava a rinchiudersi nella cripta dove egli poteva sfogare i suoi istinti bestiali urlando come un lupo mannaro, ma senza pericolo per nessuno. Lei andava raramente nella cripta, perché la sua natura vampiresca era più debole di quella del padre, e non aveva bisogno di isolarsi, però aveva scoperto che, quando era là dentro, i suoi istinti primordiali venivano esaltati e il mezzo vampiro che dimorava dentro di lei diventava più forte. Quando si chiudeva nella cripta, lei diventava pericolosa quasi quanto suo padre, e se fosse stata là dentro insieme a un’altra persona, soprattutto nel giorno di Samhain, avrebbe potuto mordere e succhiare il sangue dello sventurato che era con lei. Quando Alina tacque, gli amici apparvero visibilmente scossi, soprattutto le ragazze. Il primo a parlare fu Jack: «Ma dai! Sta scherzando! Non avete capito che sta scherzando?» «Sarebbe questa la penitenza?» intervenne Gegia. «Vuoi spaventarci? Guarda che la penitenza era solo per i maschi.» Con la voce un po’ meno cupa, Alina rispose che non stava affatto scherzando, ma aggiunse che quello era solo il prologo: doveva ancora spiegare in cosa consisteva la penitenza. Disse che dentro alla cripta c’era un letto, e accanto al letto un giradischi, e sul giradischi aveva messo il disco ricevuto in dono da Jack. Lei si sarebbe stesa sul letto, nuda, e si sarebbe coperta con il lenzuolo come si fa con i morti alla morgue. Una delle ragazze sarebbe entrata con lei e l’avrebbe aiutata a spogliarsi e a stendersi sul letto, poi sarebbero entrati i maschietti, uno alla volta, e si sarebbero coricati sul letto accanto a lei sotto il sudario. Se ne avevano il coraggio, i ragazzi potevano approfittare della situazione e fare con lei tutto quello che volevano. Qualunque cosa. Tuttavia dovevano stare attenti a non esagerare perché avrebbero potuto svegliare il vampiro che era in lei. Se il vampiro si fosse svegliato, lei avrebbe potuto mordere e succhiare il sangue del malcapitato, e chi veniva morso diventava egli stesso un mezzo vampiro. Jack era l’unico che sorrideva, gli altri avevano tutti un’aria cupa. «Io non ci credo che tu sei una vampira» dichiarò Jack. «E non ho paura a entrare nella cripta con te.»
«Io, invece, non mi sento tanto bene» sussurrò Edo, pallido come un fantasma. «Penso che andrò a casa» «Tu, invece, sarai il primo a entrare!» gracchiò Alina. La sua voce era cambiata ancora e da cavernosa era diventata rauca e stridente come quella di un corvo. Edo era terreo. Le ragazze si erano alzate dalla sedia e si erano allontanate dal letto di Alina. Poi anche Tommy si alzò in piedi. «Ohé, raga! Ma vi siete rincoglioniti? È tutta una commedia. Oggi è Halloween, ve lo siete dimenticati? Alina sta imitando Morticia Addams e ci sta prendendo tutti per il culo. Dai, ci entro io per primo, in quella cazzo di cripta.» «No» sibilò Alina. «Prima Edo. Io sono arbitro e io decido. Se voi non siete d’accordo, andate via tutti. Andate via e non tornate mai più.» Gegia, Ceci e Luna si avviarono verso l’uscita, ma Edo le fermò: «Tornate indietro. Lo so anch’io che Alina sta scherzando. È uno scherzo che non mi piace, ma io so stare agli scherzi, anche quando sono cretini come questo. Vado nella cripta.» Sul volto di Alina spuntò un sorriso beffardo. Chiese a Luna se se la sentiva di accompagnarla nella cripta e di aiutarla a sistemarsi. Lei tentennò e guardò gli altri. Siccome nessuno disse niente, rispose che sarebbe entrata. Aiutò Alina a mettersi sulla sedia a rotelle e la spinse nella cripta.
Appena Luna fu uscita, Edo si alzò in piedi e, con forzata spavalderia, entrò nella stanza. Mentre apriva la porta echeggiarono le note di Profondo Rosso dei Goblin. Una lama di luce illuminò un letto su sui era steso un corpo coperto da un lenzuolo nero. Edo chiuse la porta dietro di sé e la stanza piombò nell’oscurità totale. Avanzando piano, Edo si avvicinò al letto e fece scivolare le mani sul lenzuolo. Alina era coperta dalla testa ai piedi, immobile come un cadavere. Con un tono di voce rilassato, lo invitò a spogliarsi e a sdraiarsi accanto a lei sotto il lenzuolo. Intuendo che lui esitava, gli ricordò che nessuno poteva vederli né sentirli e giurò che niente di quello che avrebbero detto o fatto lì dentro sarebbe mai uscito
dalle sue labbra. Edo si decise a spogliarsi e si infilò sotto il lenzuolo. Forse per colpa della suggestione, si era aspettato di sentire il corpo di Alina duro e freddo come una salma, invece lo trovò morbido e tiepido. La mano di Alina andò a cercare l’amico e si appoggiò sulle sue gambe, poi salì verso l’alto e gli accarezzò i genitali. Lui ebbe un sussulto, ma rimase immobile. «Tu ha paura di me?» «No, non ho paura di te, è solo che…» «Non ti piacciono scherzi cretini. Tu ha ragione, io chiedo scusa. È che io sono un po’… matta. Vampira no, ma matta io sono davvero. Mi perdoni?» Lui allungò una mano per accarezzarle le gambe, ma subito la ritrasse. Lei disse che poteva toccarla senza timore. I muscoli erano paralizzati, ma la sua pelle era sensibile ovunque: sulle gambe e anche tra le gambe. Edo prese coraggio e cominciò ad accarezzarla, prima all’esterno delle cosce e poi all’interno. Le sue dita iniziarono a tastare il monte di Venere ma, più che una carezza, la sua sembrava un’indagine esplorativa. «Se stai cercando peli, non ci sono. Mi piace di più così, liscia liscia.» Edo si girò verso di lei mettendosi su un fianco. «Sì, sei proprio matta. E adesso cosa facciamo?» «Prima sono stata cattiva con te. Ho fatto scherzo molto cretino. Ora tu devi perdonare me. Tu puoi fare tutto quello che vuoi. Tutto.» Edo continuò ad accarezzare pigramente il corpo dell’amica. Arrivato al seno, cominciò a titillare un capezzolo come se stesse giocherellando con il bottone di una camicia. Lei sentì con la mano che lui non era per nulla eccitato. «Io non piaccio te, vero?» «Ma sì, invece. È solo che io sono fidanzato con Ceci e…» «A te di Ceci non frega niente. E non ti frega nemmeno di altre ragazze. A te
piacciono i maschi.» Non c’era astio nella voce di Alina e la sua non era un’accusa, ma una semplice constatazione. Tuttavia Edo sentì il viso che diventava paonazzo. Per fortuna erano al buio. «No, a me piacciono le donne, solo che…» Alina lo rimproverò e ribadì che non doveva mentire, soprattutto a lei. L’aveva capito subito che lui era gay. E aggiunse che non c’era nulla di male a essere gay. Suo fratello era un gay e lei aveva conosciuto molti gay a Parigi, tutte persone eccezionali. Per contro aveva conosciuto uomini che si definivano normali e che invece erano delle grands merdes. Era chiaro che Edo non aveva voglia di fare sesso con lei, perciò Alina lo esortò a raccontare le sue esperienze. Poteva parlarle in tutta tranquillità: lei sarebbe stata come un prete in un confessionale e nessuno avrebbe mai saputo nulla. Edo aveva una gran voglia di confidare il suo segreto a qualcuno e non si fece pregare. Una sua zia di Venezia, sorella della madre, da un po’ di tempo non stava bene. Ogni volta che potevano, la mamma e il papà andavano a trovare zia Elvira e lui li accompagnava spesso. Pur senza conoscere i dettagli della malattia, Edo aveva capito che la zia era seriamente malata e che non sarebbe vissuta ancora per molto. Zia Elvira aveva un figlio di diciotto anni, Antonio, detto Tony. Quando andavano a Venezia, lui salutava la zia e poi andava su nella camera di Tony. La zia era ricca e il cugino aveva una mansarda tutta per sé dove ava la maggior parte del tempo ascoltando musica, guardando la tv e giocando. Tony aveva una ricca collezione di riviste porno e quando Edo lo andava a trovare, sfogliavano insieme i giornali e ammiravano le donne nude. Una volta, Tony aveva afferrato il cugino per la vita, lo aveva buttato sul letto a pancia in giù e si era steso sopra di lui. Tony era un ragazzo alto, ma non particolarmente robusto, e se Edo avesse voluto non gli sarebbe stato difficile scrollarselo di dosso. Ma non lo aveva fatto. Tony premeva sulle natiche del cugino. Edo non voleva che Tony si accorgesse che anche lui era eccitato, perciò aveva protestato e aveva cercato di spingerlo via, ma con scarsa convinzione. Sentiva un fuoco che gli bruciava nello stomaco, e non riusciva a muoversi, ma
capiva che a immobilizzarlo non era la debolezza, bensì il desiderio. Lui desiderava con tutto se stesso di lasciarsi andare ed essere sedotto da Tony. All’ultimo momento, la paura aveva avuto il sopravvento: paura di quello che il cugino avrebbe pensato di lui, ma soprattutto paura che quella cosa finisse per piacergli troppo. Aveva urlato e se lo era tolto di dosso girandosi su un fianco. Tony aveva riso e si era messo supino. Edo si era seduto sul letto con il cuore che gli batteva all’impazzata e aveva guardato l’amico. Se avesse seguito l’istinto, si sarebbe buttato fra le sue braccia, invece si era alzato dal letto ed era andato verso la porta. Mentre Edo usciva dalla stanza, Tony gli aveva chiesto se sarebbe tornato la domenica dopo. Lui aveva risposto che non lo sapeva e il cugino l’aveva richiamato con un cenno. Mansueto come un cagnolino, Edo era tornato sul letto. Tony, dopo averlo tirato verso di sé, gli aveva sussurrato in un orecchio: «Lo so che ti piace anche a te. La prossima volta non te la scampi.» Edo era arrossito ed era scappato via con lo stomaco in subbuglio e la testa che gli girava. Dopo quella volta, non era più tornato a Venezia: aveva sempre trovato delle scuse per restare a casa perché sapeva che non avrebbe più avuto la forza di respingere il cugino. «Però tu hai grande voglia di tornare a Venezia» disse Alina. «Non lo so. Forse sì. Ma io non credo di essere davvero gay. A me le donne piacciono. Anche Ceci mi piace. Però… sì, insomma, mi piace anche mio cugino.» «Io dico che devi tornare. Comunque solo tu può decidere. Adesso pensiamo a noi.» «Cosa vuoi fare?» «Io devo ancora farmi perdonare per mio scherzo cretino, ricordi?» «Ma figurati! Ti ho già perdonata.» «No, tu devi perdonare bene. Io voglio che tu hai buon ricordo di me. Tu ora puoi chiedere un desiderio.»
«Un desiderio? Cioè, che tipo di desiderio?» «Tutto quello che vuoi. Se vuoi, possiamo fare sesso. Se non vuoi, puoi chiedere altra cosa. Tutto, proprio tutto. Tu vuoi picchiare me perché io stata cattiva? Va bene.» «Ma va là! Io non ho nessuna intenzione di picchiarti.» «Allora altra cosa. Però tu pensa bene, perché io posso esaudire uno solo desiderio. E solo oggi, perché oggi è Samhain. Oggi si può tutto. Domani niente più desiderio.» «Dici sul serio?» «Certo. Io dico molto sul serio. Tu chiedi e io faccio. Promesso.» Un desiderio da esaudire lui ce l’aveva, ma si vergognava da morire a chiederlo. Sua mamma era stata categorica: domenica prossima sarebbe andato a Venezia anche lui. La zia stava molto male e aveva espresso il desiderio di vedere il nipote prima di morire. Edo avrebbe salutato la zia e poi sarebbe andato su da Tony, dopodiché il cugino ci avrebbe provato e lui non sarebbe riuscito a resistergli. A dire il vero lui non vedeva l’ora, ma aveva anche una fifa nera. «Beh, un desiderio ce l’avrei» bisbigliò. «Però non so se…» «Tu parla con me. Non avere paura.» «Ma mi vergogno!» «Qui nessuno vede, nessuno sente. E nessuno impara mai, promesso.» «E prometti di non ridere, se te lo dico?» «Prometto.» «Va bene. Però te lo dico in un orecchio.» Edo si avvicinò e sussurrò qualcosa nell’orecchio di Alina. Lei rimase seria e rispose che, se quello era il suo desiderio, lei lo avrebbe accontentato. Cinque minuti dopo, la fanciulla gli disse che la penitenza era finita e che poteva
rivestirsi e uscire. Mentre lui si preparava, lei lo pregò di mandargli dentro Tommy, ma senza dirgli niente. Edo salutò Alina con un bacio sulla guancia e uscì dalla cripta.
Quando Tommy entrò nella stanza, Alina lo invitò a spogliarsi e a stendersi sotto il lenzuolo accanto a lei. Lui non se lo fece ripetere. Non aveva paura della vampira e non era timido come Edo. Appena entrato nel letto, Tommy cominciò a toccare Alina. All’inizio le sue carezze furono gentili e lei lo lasciò fare, apprezzava chi aveva spirito di iniziativa. Poi, però, i modi di Tommy si fecero bruschi. Lei gli afferrò il polso e gli intimò di mettersi calmo. Per tutta risposta lui buttò via il lenzuolo, si mise a cavalcioni sopra di lei e iniziò a stringere il seno e a strizzare i capezzoli. Tommy era un bonaccione, un tipo allegro e tranquillo, e per nulla violento, però non era molto intelligente e i suoi orizzonti culturali erano assai limitati. Si era accorto che Alina si era depilata le parti intime e aveva tratto le sue conclusioni: per lui una che si depila la fica non può che essere una puttana. L’idea che Alina fosse una prostituta, il buio totale e la musica ossessiva dei Goblin lo avevano mandato fuori di testa. Tommy non ragionava più con il cervello, ma con un altro organo. Alina tentò di calmarlo, prima a parole, poi cercando di trattenergli le mani. Ma lui era troppo robusto per lei e i tentativi della fanciulla furono vani. Restandole a cavalcioni, mentre con una mano le palpava il seno, con l’altra Tommy andò a frugare in mezzo alle gambe della rumena. Alina provò dolore e rabbia. Avrebbe voluto gridare, ma si trattenne. In fondo era stata sua l’idea della cripta e aveva immaginato quel gioco proprio per fare sesso con i ragazzi. Ma non in quel modo. Se Tommy fosse stato gentile, lei si sarebbe concessa a lui volentieri, ma non accettava di essere presa con la forza. Non riuscendo a fermare Tommy con le mani, Alina usò i denti: gli afferrò un braccio con entrambe le mani e gli diede un morso, non tanto forte da farlo sanguinare, ma abbastanza da fargli male. Tommy emise un urlo e si fermò. «Non preoccuparti, non sono una vampira» sbottò Alina. «Ma se non stai buono, stacco tua carne a morsi. Va bene? Adesso vai a prendere lenzuolo. Ho freddo.»
Il dolore risvegliò Tommy dallo stato di tranche. Belò una scusa e scese a prendere il lenzuolo. «Posso stendermi ancora vicino a te?» chiese con un filo di voce. «Sì, ma tu devi fare come dico io.» Ancora non sapeva se avrebbe fatto sesso con lui quel giorno. L’inizio non era stato promettente, tuttavia, se lui si fosse calmato e si fosse mostrato gentile, forse qualcosa si poteva ancora fare. Per tranquillizzarlo gli disse che, se lui stava buono, dopo avrebbe esaudito i suoi desideri, ma prima voleva parlare un po’ con lui. E tanto per iniziare un discorso, gli chiese cosa pensava di Gegia. «Perché vuoi sapere cosa penso di Gegia?» «Perché ho capito che ti piace. Sei innamorato di lei?» Tommy sospirò. «Beh… sì, ma lei non mi fila per niente.» «Hai detto a lei che sei innamorato?» «Scherzi? Quella mi toglie il saluto.» «No, io non credo questo. Tu prova a fare un po’ di corte e vedrai che lei ti fila.» «La corte? Vuoi dire fare dei regali, portarla in pizzeria e quella roba lì?» «Sì, e anche scrivere lettere, portare fiori, fare complimenti…» «Bah! Roba da femmine.» «Certo. A noi femmine piace quella roba lì.» «Mah!… Sei sicura che anche a te ti piace?» «Perché? Cosa credi che piace a me?» «Boh!… Io, veramente, credevo che a te ti pie un’altra roba. Non so se mi spiego…» Tommy si era spiegato benissimo, e Alina capì che era inutile continuare quella discussione con lui. Era un burinotto e qualche chiacchiera non avrebbe
cambiato il suo carattere. Tuttavia era riuscita nell’intento di farlo calmare e adesso doveva trovare il modo di farlo uscire dalla stanza senza che lui si arrabbiasse. Alina aveva perso del tutto la voglia di fare sesso con lui, ma lui probabilmente aveva in testa solo quello. Disse a Tommy che quello era un giorno speciale e che lei poteva esaudire un suo desiderio. Poteva chiederle qualsiasi cosa purché fosse un unico desiderio. Tommy non stette a pensarci tanto e dichiarò che il suo desiderio era scopare. Alina gli domandò se lui era proprio convinto o se, per caso, non volesse cambiare idea. Lui rispose che era convinto al cento per cento e non avrebbe cambiato idea: il suo desiderio era farsi una bella scopata. «Allora va bene. Se questo è tuo desiderio, io scopo con te. Tu hai preservativo?» Tommy restò di sasso. «Un preservativo? No, che non ce l’ho. Non li vendono mica al bar, i preservativi. Però, in un giorno o due, me lo posso procurare.» Alina replicò che non poteva esaudire il suo desiderio tra un giorno o due: se voleva fare sesso con lei doveva cogliere l’occasione al volo. Allora Tommy propose di farlo senza. Alina sostenne che quella era una cosa impossibile: lei non aveva mai fatto sesso non protetto e non intendeva iniziare quel giorno. Lui domandò se poteva cambiare desiderio, e lei rispose che ormai lui aveva scelto, non poteva più cambiare desiderio. Al massimo poteva chiedere ai suoi amici fuori dalla cripta se per caso avevano un preservativo da prestargli. Se entro un minuto trovava un preservativo, avrebbero fatto sesso, in caso contrario poteva considerare la penitenza già scontata e uscire. Tommy sbuffò. «Di sicuro i miei amici non hanno preservativi in tasca. E comunque, anche se ce li avessero, non posso andare là e chiedere se qualcuno mi presta un preservativo. Con mia sorella seduta là fuori… figurati!» Brontolando che lo sapeva che alla fine sarebbe finita così, Tommy si rivestì e uscì dalla stanza. Mentre usciva, Alina gli chiese se per favore faceva entrare Jack.
Jack entrò nella cripta in punta di piedi. Non aveva paura di Alina, però prima di allora non l’aveva mai vista così alterata. I due che lo avevano preceduto erano ancora in ottima salute – Edo era uscito soddisfatto mentre Tommy pareva uno
che gli avessero appena rubato la bicicletta – però non avevano detto una parola su cosa fosse accaduto là dentro. Nella cripta c’era uno strano silenzio. Mentre entrava, Jack vide il letto con il lenzuolo nero che copriva il corpo di Alina, ma Luna chiuse subito la porta dietro di lui e la stanza piombò nella totale oscurità. Era ancora più buio di quella volta che sua madre l’aveva chiuso per sbaglio nella dispensa: uno sgabuzzino stretto con una finestrella piccola piccola. Era una sera di giugno e lui aveva da poco compiuto cinque anni. Aveva provato ad aprire la porta, ma sua madre l’aveva chiusa a chiave. Non essendosi accorta che il figlio era sgattaiolato nello sgabuzzino, Livia aveva chiuso la dispensa ed era uscita per dar da mangiare alle galline e raccogliere un po’ di verdura nell’orto. Jack non si era perso d’animo: come prima cosa aveva provato ad accendere la luce, ma l’interruttore era troppo in alto e, a parte gli scaffali fissati al muro e lontani dall’interruttore, non c’era nulla su cui salire. Il finestrino era aperto, ma anche quello era troppo in alto per sperare di uscire di là. Allora Jack si era messo a gridare, ma l’orto e il pollaio erano sull’altro lato della casa e la mamma non aveva udito le sue grida. Aveva quindi deciso di aspettare che sua madre tornasse e si era seduto sul pavimento. Dopo mezz’ora la luce che entrava dal finestrino si era ridotta a un grigiore plumbeo, e dopo un’ora il buio era quasi totale. Ogni tanto Jack chiamava la mamma, ma lei non rispondeva. Livia era tornata dopo quasi due ore; si era fermata nell’orto a fare due chiacchiere con la vicina e aveva perso la cognizione del tempo. Appena rientrata, si era accorta che Jack non era nella sua stanza. Aveva cominciato a chiamarlo e a cercarlo in casa e fuori. Ma lui, nel frattempo, si era addormentato. La mamma lo aveva trovato dopo un buon quarto d’ora di ricerche. Quella volta Jack non aveva pianto, ma si era preso un grosso spavento e da allora aveva sempre detestato i luoghi chiusi e bui. Nella cripta si sentiva molto a disagio, e anche l’idea che l’amica fosse lì, nuda e disponibile, non lo faceva stare meglio. A un tratto Jack udì un click, subito seguito da un rumore stridulo, come se qualcuno stesse sfregando un chiodo su un pezzo di carta vetrata. Un attimo dopo, la musica dei Goblin echeggiò nell’oscurità. Jack ebbe un sussulto e si lasciò scappare un grido soffocato. «Non avere paura» cinguettò Alina. La sua voce era completamente cambiata e suonava dolce come quella di un usignolo. «Quello è giradischi automatico, con il tuo regalo di compleanno. Quando disco finisce, riparte da solo.»
Lei lo invitò ad avvicinarsi e gli spiegò che la sua penitenza consisteva nello sdraiarsi accanto a lei, che era nuda sotto il lenzuolo, tenendo i vestiti addosso. Poteva togliersi solo le scarpe. Jack obbedì, e mentre si infilava nel letto dichiarò che la sua era pura crudeltà: per uno come lui, che amava tanto spogliarsi, dover restare vestito vicino a una bella ragazza nuda era una penitenza proprio cattiva. «Davvero tu pensi che io sono bella?» domandò Alina. «Più che bella: bellissima.» «Ma io somiglio a Morticia Addams. Me l’ha detto Brogio.» «E allora? Morticia Addams non è bella, forse?» «No, lei non è bella. Fronte troppo alta, bocca troppo piccola, occhi troppo grossi.» «A me Morticia piace. Comunque, tu sei molto più bella di lei.» Ascoltando la voce di Alina, Jack si era tranquillizzato. Col dorso della mano le sfiorava la gamba, ma non aveva nemmeno provato ad accarezzarla. «Tu sei stato carino con me e meriti un premio» disse lei. A parlare non era più la vampira, ma la ragazza carina e gentile di cui Jack si era perdutamente innamorato. «Tu puoi togliere tuoi vestiti, se vuoi.» Veloce come Superman, Jack si alzò dal letto, si spogliò e tornò a stendersi accanto all’amica. Lei fu compiaciuta che lui non si fosse buttato a pesce sul suo corpo, ma anche un po’ delusa: aveva capito che lui aveva un debole per lei e si era aspettata un po’ più di calore da parte sua. Ma forse lui era solo un timidone, e lei sapeva come trattare i timidi. Per prima cosa ripeté quello che aveva già detto a Edo e a Tommy: quel giorno lei poteva esaudire un suo desiderio, di qualunque tipo. Dopodiché, senza aspettare la risposta, cominciò ad accarezzarlo nelle parti intime. Il pene di Jack era incredibilmente grosso per un ragazzo di quindici anni, e quando Alina lo sentì in erezione ebbe un fremito. A Parigi era facile trovare degli amanti, anche per una paralitica, ma da quando era in Italia non aveva più avuto rapporti sessuali ed era in crisi di astinenza. I ragazzi della Banda Bassetti erano simpatici, ma poco più che bambini, e lei sentiva la mancanza di un vero uomo.
Jack era giovane come gli altri, ma il suo aggeggio era paragonabile a quello di un adulto. Immaginava che l’amico non avesse esperienza di sesso, ma questo per Alina, lungi dall’essere un problema, era un piacevole diversivo: insegnare le raffinate tecniche dell’erotismo a giovani principianti era un aspetto della sessualità che la intrigava molto. E non era necessario che i suoi allievi fossero incantevoli, bastava che avessero un buon strumento. Jack non era certo un adone, ma il suo attrezzo era di prim’ordine. «Puoi chiedere un solo desiderio» sussurrò Alina continuando ad accarezzarlo piano. «Ma puoi chiedere tutto quello che vuoi. Proprio tutto.» Jack si fece coraggio e rispose: «Beh… ecco, il mio desiderio è questo: vorrei baciarti.» Poiché la richiesta di Jack sembrava conclusa, Alina replicò: «Solo baciarmi? Niente altro?» «Sì… cioè, no. Voglio dire… non solo sulla bocca. Cioè… soprattutto sulla bocca, però… non so se hai capito.» «Certo che ho capito. Puoi baciarmi dove vuoi. Ma dopo non vuoi fare l’amore?» «No, cioè… io vorrei tanto fare l’amore con te, davvero, lo desidero tantissimo. Ma non voglio farlo come penitenza. E soprattutto non così, al buio. Voglio farlo in una giornata di sole. Cioè… voglio guardarti mentre facciamo l’amore. Voglio vedere il tuo viso… e anche il tuo corpo, naturalmente. E poi… io non l’ho mai fatto. E nemmeno tu… credo. E allora… non possiamo farlo in cinque minuti. Cioè… serve tempo. Prima ti voglio accarezzare e poi… non so se hai presente… cioè… i preliminari. Lo sai cosa i preliminari, no? Sì, certo che lo sai. Beh, ecco… io vorrei dei preliminari lunghi, cioè… non voglio andare subito al sodo… zac e via. Cioè… hai capito, no?» «Sì, ho capito: facciamo un’altra volta. Dai, baciami e poi esci.» Il cambiamento di umore di Alina disorientò Jack: un attimo prima era dolce come il miele, e l’attimo dopo brusca come un limone acerbo. Di matte ne aveva conosciute parecchie, ma lei le batteva tutte. L’atteggiamento dell’amica gli
aveva anche fatto are la voglia, e la baciò in maniera sbrigativa, prima sulla bocca, ma senza introdurre la lingua, poi sulle braccia, sullo stomaco e sulle gambe. Lasciò il sesso per ultimo, e qui trovò una piacevole sorpresa. Si era aspettato di appoggiare le labbra sopra un affare peloso, invece trovò la pelle glabra e liscia e immaginò che Alina si fosse depilata apposta per far piacere a lui. Lei pensò che, anche se non avesse avuto un rapporto completo, almeno si sarebbe goduta un bel bacio intimo. Ma quella non era l’intenzione di Jack: lui si limitò a sfiorare con le labbra il monte di Venere, dopodiché tornò a baciare frettolosamente le gambe, lo stomaco, le braccia, i seni e, per finire, la bocca, ma sempre evitando di infilare la lingua. Mentre Jack la baciava con la stessa ione di un bimbo di tre anni che coccola la mamma, Alina meditò sul fatto che la sua ultima speranza era Brogio. Jack era dolce e carino, e aveva un arnese notevole tra le gambe, ma era troppo imbranato. Brogio non era dotato come Jack, però era molto più smaliziato: con lui aveva già fatto qualche giochetto erotico al ristorante, e quella volta era anche riuscito a farla godere. Probabilmente nemmeno lui era un grande amatore, ma aveva dimostrato di essere un tipetto sveglio che imparava in fretta. E comunque l’importante era fare in modo che almeno l’ultima occasione non andasse sprecata. Doveva giocarsi bene la sua ultima carta. Quando le era venuta in mente l’idea della cripta, Alina aveva pensato che, grazie all’espediente del desiderio da esaudire, almeno con uno dei quattro sarebbe riuscita a fare sesso. A onor del vero, Tommy ci aveva provato, ma il fratello di Luna era quello che le piaceva di meno, e i suoi modi l’avevano disgustata a tal punto che avrebbe preferito il piacere solitario piuttosto che fare sesso con quell’energumeno. Adesso rimaneva solo Brogio, e con lui avrebbe cambiato tattica: non gli avrebbe detto che poteva esprimere un desiderio, ma l’avrebbe obbligato a fare sesso con lei. L’amico doveva scontare una penitenza? Ebbene, a lui sarebbe toccata come penitenza una bella scopata.
Quando Brogio entrò nella cripta, i Goblin stavano suonando Mad puppet, uno dei brani più inquietanti e suggestivi dell’album, dove il suono ossessivo e ipnotico del basso elettrico fa gelare il sangue nelle vene. Nel film Profondo Rosso il brano fa da sottofondo alla scena in cui Marc Daly, il protagonista, entra per la prima volta nella villa del bambino urlante, la dimora di Marta, l’assassina pazza. Nella villa, disabitata da tempo, una sera di Natale di molti anni prima,
Marta aveva ucciso il marito piantandogli un coltellaccio da cucina nella schiena davanti al figlio adolescente, e aveva poi murato il cadavere in una stanza segreta. Brogio aveva visto il film l’anno prima in un cinema di seconda visione di Codigoro e lo ricordava bene. Riascoltando la colonna sonora, gli tornarono alla mente le scene più angoscianti del film e un brivido freddo gli corse lungo la schiena. Ma ancora più angosciante fu ciò che vide appena entrato: mentre la porta si chiudeva alle sue spalle, Brogio ebbe il tempo di vedere Alina stesa sul letto e coperta interamente da un lenzuolo nero. Quella scena gli riportò alla mente Belfagor, il fantasma del Louvre, che aveva visto quando era bambino nello sceneggiato televisivo interpretato da Juliette Gréco. Il fantasma vestito di nero lo aveva sconvolto, e adesso l’antico terrore si stava materializzando di nuovo in quella stanza buia. Stava per voltarsi e uscire quando la voce tranquillizzante di Alina lo fermò. «Brogio, sei tu? Vieni vicino. Era solo uno scherzo. Non sono una vampira, e nemmeno mio padre. Mi perdoni?» L’italiano di Alina era molto migliorato, ma la pronuncia era ancora esotica e dannatamente sensuale. «Sì, ti perdono. Lo so che non sei una vampira e non ho paura di te.» «Allora perché non mi raggiungi?» «Qui dentro è buio pesto. Non si vede niente.» «Ci sono molti modi per osservare le cose» replicò Alina con la sua voce sexy. «Se non puoi usare gambe, puoi correre lo stesso con la fantasia. Se non puoi usare occhi, puoi esplorare il mondo con le mani. Non vuoi esplorare mio corpo con tue mani?» A un invito così esplicito, Brogio non seppe resistere. Si avvicinò al letto e cominciò a toccare l’amica coperta dal lenzuolo. Sotto la stoffa sottile, il corpo di Alina sembrava il plastico di un architetto paesaggista: le mani di Brogio sfiorarono due irte collinette, poi scivolarono verso sud sorvolando una vasta pianura e una leggera depressione, e infine planarono su una montagnola bassa e tondeggiante alla base della quale si percepiva una spaccatura.
«Sei proprio nuda!» esclamò Brogio. «Io avevo detto, no? Non vuoi farmi compagnia?» «Cioè… anch’io…?» «Dai, togli tuoi vestiti e vieni sotto. Ho un po’ freddo. Voglio che tu scaldi me.» Brogio ebbe un fremito e il suo cuore cominciò a martellare. Mentre si toglieva le mutande, il sangue scese lungo le arterie e raggiunse le parti basse. Quando s’infilò sotto il lenzuolo, ce l’aveva già duro. Senza chiederle il permesso, andò subito a frugare fra le gambe dell’amica. Lei ricambiò la cortesia e cominciò a masturbarlo. Brogio rimase assai deluso nel trovare il sesso di Alina ancora senza peli. Inconsciamente lui paragonava una fica depilata a una testa femminile senza capelli. L’unica donna calva che aveva avuto occasione di incontrare era una ragazza malata di leucemia, e quindi associava istintivamente la calvizie femminile alla malattia. Di conseguenza, una fica depilata gli dava l’impressione di essere meno sana di una tradizionale con i peli. Lo scambio di carezze andò avanti per alcuni minuti senza che nessuno dei due raggiungesse l’orgasmo. A un certo punto, Alina decise di are a qualcosa di più sostanzioso: «Adesso, Brogio, devi fare penitenza.» «Veramente, io pensavo che fosse già questa la penitenza, cioè entrare qui dentro al buio. Comunque, se sei già stanca di fare questo giochino, va bene. Cosa devo fare?» «Per te ho pensato penitenza molto bella: devi fare l’amore con me.» Lui non rispose subito. Alina gli piaceva, ma lui amava Luna. Il suo diavoletto interiore lo incitò a fregarsene e ad approfittare dell’occasione, ma l’angioletto lo esortò a resistere. A chi doveva dare ascolto? Il diavoletto gli ricordò che Luna, in fondo, non era più la sua ragazza, ma l’angioletto gli suggerì che le cose potevano tornare come prima, se lui si fosse mantenuto fedele. Alla fine l’angelo ebbe la meglio. «Mi dispiace, Alina, ma non posso fare l’amore con te.»
«Perché no?» «Perché io non ti amo. Io amo Luna.» Alina imprecò in silenzio. Brogio le era sembrato un ragazzino sveglio, più maturo dei suoi quindici anni, e invece era tale e quale ai suoi amici: una mela acerba. Di quattro non ne aveva trovato uno capace di soddisfarla. A modo loro erano tutti ragazzi piacevoli: Edo era una simpatica checca, Tommy un impetuoso energumeno, Jack un tenero mostriciattolo e Brogio un romantico sognatore. Come compagni di giochi andavano benissimo, ma come amanti erano una vera delusione. Era più che mai urgente trovare un’alternativa virile, uomini con le palle e non ragazzini con i denti da latte, però nel frattempo doveva calmare la sua incontenibile voglia di sesso. Era stufa di arrangiarsi da sola, e almeno con Brogio un po’ di sesso quel giorno doveva riuscire a farlo. «Ma tu sei sicuro che Luna ama te? A me non sembra.» «Luna mi ama. Adesso è un po’ preoccupata per Tina ed è… sì, è un po’ fredda nei miei confronti, ma sono sicuro che mi ama. E se scoprisse che io la tradisco con te…» «Luna non saprà mai, giuro. Resterà un segreto fra noi due.» «Non insistere, Alina. Tu mi piaci molto, ma non posso fare l’amore con te. Davvero, non posso. Però, se vuoi, possiamo accarezzarci e darci qualche bacio. Quello non è un tradimento.» Brogio aveva una strana concezione della fedeltà e del tradimento e lei glielo disse. Lui rispose che il sesso completo si fa con la persona che si ama e che l’atto non coinvolge solo i genitali ma anche, e soprattutto, il cuore. Invece le altre cose si possono fare anche senza coinvolgere i sentimenti. «Scambiarsi baci e carezze è come un gioco, e non tradisci la persona che ami se ti limiti a giocare con un’altra. A te va bene lo stesso se giochiamo e basta?» Alina avrebbe voluto gridare che nemmeno lei amava lui, che aveva avuto amanti mille volte migliori di lui e che la sola cosa che voleva in quel momento era calmare il mostro affamato di sesso che la straziava dentro. Invece rispose, con un sussurro: «Sì, va bene lo stesso.»
Non appena Alina disse che potevano giocare, Brogio ricominciò ad accarezzarla tra le gambe, e la sua mano si fece via via più audace. Anche lei riprese a masturbarlo, ma in modo svogliato. La mano si muoveva con indolenza, ma la sua mente era in gran fermento. Lei non era tipo da arrendersi facilmente ed era convinta che, muovendo le leve giuste, poteva ancora riuscire a fare sesso con quel ragazzino. «A te va bene se cambiamo gioco?» «Cioè? Cosa vuoi fare?» «Io bacio tuo… come dite voi coq? E tu baci mia… chatte.» Brogio deglutì a fatica ed ebbe quasi un singulto. «Cioè… vorresti farmi un… cioè, voglio dire, un…?» «Io non so come si dice quello in italiano. In se è une pipe. Però facciamo insieme: tu sopra e io sotto.» Brogio iniziò a tremare. Tra le mille fantasie sessuali, lette sui libri o viste sui giornaletti porno, quello era il gioco che più lo eccitava in assoluto, e l’idea di praticarlo in coppia, nella posizione che il Kamasutra definisce “congresso del corvo”, ma che tutti chiamano sessantanove, lo stordiva. Al solo pensiero di poterlo fare adesso con Alina, il pene gli divenne talmente duro da fargli male. Alina lo sentì con la mano e sorrise. «Mi sembra che lui è d’accordo.» Per Brogio quella era un’esperienza nuova. Lo disse ad Alina, ma lei lo tranquillizzò e gli spiegò cosa doveva fare. Innanzi tutto doveva allargarle un po’ le gambe, perché da sola non era capace di farlo in quella posizione, e poi doveva salire a cavalcioni sopra di lei con la testa rivolta verso i suoi piedi e le ginocchia all’esterno delle sue spalle. Lui buttò il lenzuolo giù dal letto e seguì le istruzioni alla lettera. Quando fu in posizione, capì di essere troppo avanti e con piccoli movimenti portò il grembo all’altezza del viso dell’amica. Un istante dopo, qualcosa di morbido e umido gli circondò il glande.
Brogio ebbe un capogiro e sentì fischiare le orecchie. Gli venne subito in mente suo zio Adelmo che faceva il donatore di sangue e diceva sempre che, appena finita la donazione, si sentiva come quando andava all’Hotel Parigi a farsi fare… une pipe: la testa girava e le orecchie fischiavano proprio nello stesso modo. Adesso anche Brogio sapeva che effetto fa donare mezzo litro di sangue. Alina ricordò all’amico che anche lui doveva fare la sua parte. Lui obbedì e si piegò verso il basso. Il sapore della chatte di Alina gli ricordò quello dello yogurt magro, ma con una punta di salato. Un giorno aveva mangiato dello yogurt fatto in casa a cui sua nonna, per sbaglio, aveva aggiunto del sale. La fica di Alina aveva un sapore simile a quello yogurt salato. Non che quel sapore fosse cattivo, però si era aspettato qualcosa di più… aromatico, tipo cannella o zenzero o, tutt’al più, noce moscata. Comunque, anche se il sapore non era dei migliori, quel gioco era molto eccitante. All’improvviso intravide un chiarore nell’oscurità. Sollevò la testa e vide due figure diafane che volteggiavano nell’aria. Riconobbe subito i due fantasmi e, sperando che Alina non lo sentisse, bisbiglio: «Evelina! Torello! Cosa ci fate qui?» «Questa è casa nostra» rispose Evelina. «Te lo sei scordato?» «Con chi stai parlando?» domandò Alina preoccupata. «Chi c’è?» «Mia zia e Torello. Tu non li vedi?» «E come faccio a vedere? È buio.» «Ma sono qui, sopra di noi. Bah! Lascia perdere. Probabilmente da te non si fanno vedere.» Brogio si staccò da Alina e si sedette sul letto. L’amica gli chiese quale fosse il problema e lui rispose che non poteva fare quei giochini con due fantasmi sopra la testa che lo guardavano. E poi nel frattempo il suo coso si era ammosciato. Alina gli accarezzò la schiena e disse che, se quello era il problema, lei sapeva come risolverlo. Lui replicò che era inutile. Con quei due che lo guardavano, non avrebbe più combinato niente. «Mi dispiace, Alina. Giocheremo un’altra volta.» E senza aggiungere altro, scese dal letto, si rivestì e uscì dalla cripta incurante delle suppliche dell’amica.
Appena Brogio fu uscito, Luna tornò nella stanza e aiutò Alina a rivestirsi e a mettersi sulla sedia a rotelle. La porta era rimasta socchiusa e la luce era accesa. I ragazzi sbirciarono dentro. «Ma è una camera oscura!» sbottò Edo. «Per sviluppare le fotografie.» «È vero» aggiunse Jack. «Altro che cripta!» «Quella brutta strega!» guaì Tommy. «Ce l’ha proprio messo nel culo.» Edo sorrise, ma non replicò. Brogio guardò per ultimo e constatò che i due fantasmi erano spariti. Spingendo da sola la sedia a rotelle, Alina uscì dalla camera oscura e chiese scusa agli amici per lo scherzo, forse un po’ pesante, che aveva organizzato. Ceci disse che quello era niente in confronto agli scherzi che combinavano, certe volte, i maschi alle ragazze. Gegia guardò fuori dalla finestra e dichiarò che si stava facendo buio e che era meglio andare. Luna chiese ad Alina se voleva che l’aiutasse a scendere le scale. Lei rispose che non era necessario e che sarebbe rimasta ancora un po’ in soffitta, ma pregò gli amici di portare giù le sedie mentre scendevano. I ragazzi salutarono Alina e cominciarono a scendere. L’ultimo ad andarsene fu Jack. Prima di uscire, si avvicinò ad Alina e le diede un bacio sulla guancia. Quando anche Jack se ne fu andato, Alina tornò nella camera oscura, scostò una tenda e prese una scatola da un ripiano da cui tirò fuori delle fotografie. Erano foto di sua madre e di suo fratello. Insieme alle foto, dalla scatola sbucarono fuori ricordi di tempi lontani e felici, e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Alina si asciugò le lacrime e rimise a posto le fotografie, poi andò verso un altro ripiano e prese un’altra scatola che conteneva altre foto: ritratti di ragazzi e ragazze, giovani e belli, con la Torre Eiffel, il Moulin Rouge, il Sacro Cuore di Montmartre, Notre-Dame de Paris sullo sfondo. I suoi occhi si illuminarono e il mostro del desiderio tornò a farsi sentire. Continuando a guardare le foto, Alina fece scivolare la mano sotto la gonna. Anche quel giorno avrebbe dovuto soddisfare il desiderio da sola, ma presto le cose sarebbero cambiate. Aveva già in mente un piano.
11. Bellezze al bagno
Quell’anno l’inverno arrivò presto e tra il 25 e il 26 novembre 1977 buona parte dell’Emilia fu sommersa dalla neve. A Bologna ne caddero quaranta centimetri, sull’Appennino un metro e più; strade, autostrade, ferrovie e aeroporti rimasero bloccati per giorni. Sulla provincia di Ferrara nevicò meno, ma il termometro andò giù di brutto: a fine novembre si toccarono i meno cinque, e un mese dopo la colonnina raggiunse i dieci gradi sotto zero. A Val Nebbiosa nevicò poco e il freddo non impedì ai clienti di Alina di raggiungere la casa delle mele acerbe. Stanca di restare sempre sola o in compagnia di ragazzini, Alina aveva chiesto al padre il permesso di dare ripetizioni di se agli studenti della zona. Nero aveva acconsentito, e per accontentare la figlia aveva allestito una specie di aula scolastica in soffitta con tanto di scrivania, lavagna, mangianastri e televisore. Per integrare l’offerta didattica della fanciulla, Nero aveva comprato l’ultima novità in fatto di diavolerie tecnologiche, un videoregistratore, e si era procurato, chissà dove, diversi film e documentari su videocassette in italiano e in se. Alina riceveva i suoi allievi per lo più singolarmente, ma qualche volta anche a piccoli gruppi, e quando incontrava qualcuno che le piaceva gli proponeva di concludere la lezione con un po’ di sesso. A fine dicembre, a poco più di un mese dall’inizio delle lezioni, si era già fatta tre scopate e un incontro saffico con un’insegnante di lingue che voleva imparare un po’ di rumeno. Alina aveva sospettato che la storia di imparare il rumeno fosse solo una scusa, ma la cosa non le era dispiaciuta affatto. La bella rumena aveva ritrovato, se non la felicità, almeno un po’ di gioia di vivere. Si vedeva ancora con i ragazzi della Banda Bassetti, ed era sempre contenta quando poteva are un po’ di tempo con loro, ma aveva rinunciato a cercare di sedurli. Una sua amica parigina lo diceva sempre: vous ne pouvez pas faire un bon cidre avec des pommes vertes. E aveva ragione, se vuoi fare un buon sidro le mele devono essere mature. In quel periodo la vita di Alina era piena di impegni e di soddisfazioni: lavorava
sodo, faceva sesso con una certa regolarità e in più guadagnava dei bei soldi. Gli amici della Banda Bassetti le avevano fatto un sacco di pubblicità in zona ed erano già molte le mamme che avevano chiesto ad Alina di dare ripetizioni di se ai propri figli. Ma soprattutto si era sparsa la voce che le lezioni di Alina erano “speciali” e arrivavano studenti anche da molto lontano. Tra i suoi allievi c’era perfino qualche giovane operaio a cui del se interessava poco o nulla. Alina era molto selettiva e faceva sesso solo con chi le andava a genio. Con gli altri negava la veridicità di certe dicerie, ma ormai le voci si erano diffuse e per lei era un innegabile vantaggio. Anche suo padre aveva captato quelle voci, ma non sembrava preoccupato: dopo aver ascoltato tante cattiverie su Fastu il vampiro e sulla figlia handicappata, qualche sussurro sulla frivolezza di Alina era come un refolo di vento sopra un pioppo tremulo.
A Val Nebbiosa, poco lontano dalla casa di Alina, c’era una zona depressa dove spesso ristagnava l’acqua e si formava una sorta di piccolo lago: i ragazzi lo chiamavano il lago di Loch Ness. Dopo una piena del Po, quando l’acqua defluiva dalla golena e ritornava nel suo alveo la profondità massima di quella grossa pozzanghera non raggiungeva il mezzo metro, ma la superficie poteva arrivare anche a mille metri quadrati. A fine dicembre il laghetto aveva raggiunto la sua massima estensione ed era completamente ghiacciato. Il pomeriggio del giorno di San Silvestro, la Banda Bassetti al completo si ritrovò a casa di Alina per andare a pattinare sul lago di Loch Ness. Tina era tornata a casa per le festività natalizie e sarebbe rientrata in collegio solo dopo l’Epifania. Alla fine di un’estenuante trattativa con il padre, le era stato concesso di trascorrere il pomeriggio, e anche la notte, insieme agli amici. Il programma prevedeva, dopo il pattinaggio, il cenone di Capodanno e una festa danzante a casa di Alina. Fastu in persona era andato a casa dei Sasso per partecipare al negoziato e alla riunione erano presenti quasi tutti i genitori dei ragazzi. Nero aveva dovuto promettere che sarebbe rimasto in casa tutta la notte e che avrebbe vigilato sull’andamento della festa. Poiché il traghetto di Berra a una certa ora terminava il servizio, e tornare a casa col buio facendo la strada lunga non era consigliabile, i genitori avevano acconsentito a lasciar dormire i propri figli a casa di Nero: i maschi in soffitta e le femmine nella camera di Alina. Fastu si sarebbe procurato un paio di brandine per le ragazze, mentre i maschietti si
sarebbero portati da casa il sacco a pelo. L’accordo tra Nero e Dante Sasso prevedeva che Tina dormisse nel letto matrimoniale con Alina. Dante non aveva udito le voci riguardanti la figlia di Nero ed era convinto che, dormendo insieme a una povera ragazza handicappata, Tina non corresse il pericolo di essere sedotta dalle amiche. Per divertirsi sul lago ghiacciato i ragazzi adottavano due tecniche diverse: Edo, Gegia e Ceci, che schettinavano da quando erano piccoli, sapevano pattinare anche sulle lame, e Nero aveva noleggiato tre paia di pattini da ghiaccio apposta per loro. Gli altri usavano uno slittino di legno costruito dal nonno di Luna e attrezzato con lunghi pattini in ferro battuto: uno della banda si sedeva sullo slittino e altri due o tre lo trainavano. Anche Alina aveva voluto provare, e nella parte anteriore dello slittino era stata fissata una tavoletta di legno per accogliere le gambe della ragazza. A trainarla ci si erano messi Tommy, Jack e Brogio, con Bandito che abbaiava correndo dietro alla slitta. Tina, che non sapeva pattinare e non aveva voglia di salire sullo slittino, si era seduta su un tronco rinsecchito adagiato sul bordo del laghetto. Mentre gli altri giocavano sul ghiaccio, Luna si avvicinò a Tina e si sedette accanto a lei. «Come ti trovi a Torino?» «Bene» rispose l’amica, ma nei suoi occhi c’era molta tristezza. «Però mi mancate molto. Tu, soprattutto.» Luna le prese le mani e si avvicinò per darle un bacio sulla guancia. All’ultimo istante Tina girò la testa e le loro labbra si incontrarono in un bacio lieve e brevissimo. Dopo aver controllato che nessuno le stesse osservando, Tina diede un altro bacio a Luna, più lungo del precedente, ma sempre con le labbra chiuse. Luna la lasciò fare. Condensato dal gelo, il fiato delle due amiche formò una nuvola che avvolse le loro teste e impedì loro di accorgersi che i pattinatori stavano tornando. «Ehi, voi due!» le rimproverò Edo in tono allegro. «Si può sapere cosa state combinando?» «Luna aveva freddo e la stavo riscaldando» rispose prontamente Tina. «Aveva freddo alla lingua?» scherzò Ceci.
«Non ci siamo baciate con la lingua» replicò Luna. «Aveva la faccia tutta ghiacciata» cinguettò Tina. «Gliela stavo scongelando con l’alito.» «Allora spero per Luna che tu non abbia mangiato della cipolla, a pranzo» scherzò Gegia. Tutti e cinque scoppiarono a ridere, e in quel mentre sopraggiunsero gli altri. «Che sta succedendo qui?» fece Tommy. «Perché ridete?» Luna rispose che non era successo proprio niente. Tina era contenta di essere di nuovo a casa e si erano scambiate un bacio innocente, gli altri avevano equivocato e le avevano prese in giro. Brogio avrebbe voluto approfondire la faccenda del bacio, ma fu preceduto da Alina che chiese a Tina come si trovava in collegio. Lei si rabbuiò e rimase un po’ in silenzio prima di rispondere che in collegio non stava malissimo, che però si sentiva spaesata e che le mancavano gli amici della banda, le pedalate sul Po, le scampagnate e perfino la scuola. Aveva fatto amicizia con poche ragazze, ma con una era diventata molto amica. Infine scoppiò a ridere: una risata amara. «Sapete qual è la cosa buffa? Mio padre scopre che sono lesbica e cosa fa? Per punirmi mi manda in un collegio dove, a parte il prete e il giardiniere, sono tutte donne. Mi dispiace dirlo, perché si tratta di mio padre, ma è proprio un deficiente.» La ragazzina quindicenne di pochi mesi prima non c’era più: Tina era diventata una donna. Il collegio l’aveva trasformata in una persona adulta e Alina, che aveva subíto la stessa metamorfosi quando erano morti il fratello e la mamma, se ne accorse subito. «La tua amica come si chiama?» «Anna» rispose lei, e nei suoi occhi iniziarono a brillare le stelle. «Ma… solo amica oppure…?» indagò maliziosamente Tommy. «Vuoi sapere se ci ho fatto sesso?» replicò Tina guardando Tommy negli occhi. Lui non riuscì a sostenere lo sguardo e voltò la testa verso il basso. «Sì, ci ho fatto sesso.»
Nessuno fiatò, ma le loro espressioni erano inequivocabili: volevano conoscere ogni dettaglio, e Tina li accontentò. Anna aveva diciassette anni ed era entrata in collegio quando ne aveva tredici. Le allieve, tutte ragazze tra i dodici e i diciotto anni, si erano organizzate gerarchicamente ispirandosi alle regole goliardiche di un vicino centro universitario religioso. Le ultime arrivate erano le matricole, dopo circa un anno si diventava fagiole, poi colonne, e dal quarto anno in poi anziane. Anna era una colonna e presto sarebbe diventata un’anziana. Il aggio di gerarchia non era automatico, ma bisognava superare una serie di prove. Più alto era il grado, più le prove da superare erano ardue. Anna non sapeva ancora quali prove avrebbe dovuto superare per diventare anziana, ma era sicura di farcela: conosceva vizi e virtù della maggior parte delle suore e aveva un’idea precisa di chi poteva corrompere e chi no. Nella comunità monacale del collegio la corruzione era la norma e non l’eccezione: in cambio di denaro, di regali di vario tipo e, in alcuni casi, di sesso, le suore permettavano alle ragazze di uscire la sera, di bere, fumare, fare bisboccia nel dormitorio e, qualche volta, di incontrare ragazzi in luoghi appartati dell’istituto. Dopo tre anni e mezzo di istituto, Anna era diventata una maestra della corruzione e conosceva le debolezze di molte suore guardiane. Nonostante ciò era stata pizzicata più volte con le mani nel sacco, soprattutto nei primi tempi, e aveva già sperimentato la maggior parte delle punizioni. Le più comuni erano il ritiro spirituale coatto – una specie di cella di isolamento – e le bacchettate sulle dita. Una delle punizioni più dure era la sculacciata in pubblico: le ragazze che si macchiavano delle colpe più gravi venivano portate in refettorio, denudate davanti a tutta la comunità dalla cintola in giù e sculacciate pesantemente. In caso di recidiva, invece delle mani si usava un dolorosissimo frustino. Anna aveva sperimentato il frustino una volta sola. Non aveva smesso di combinare guai, ma da quella volta era diventata molto più prudente. Le ragazze dormivano in grandi camerate in letti a castello e Tina dormiva nel letto di Anna. In quanto colonna, Anna aveva il diritto di scegliere se dormire sopra o sotto, e lei preferiva dormire sopra. Una sera, circa una settimana dopo l’arrivo di Tina, appena le luci si erano spente Anna era scesa e si era infilata nel letto della compagna di branda. Tina aveva protestato, ma l’altra le aveva spiegato che dormire insieme almeno una volta faceva parte del rituale per essere ammessi nell’ordine goliardico, e aveva aggiunto che entrare nell’ordine e godere del favore di una ragazza più anziana le avrebbe facilitato di molto la vita
in collegio. Più che le parole, a convincere Tina furono le carezze e i baci di Anna. Dopo quella volta, Anna si era infilata nel letto di Tina quasi tutte le sere e le aveva insegnato un sacco di cose sull’amore saffico. Prima di entrare in collegio, Tina non avrebbe neanche lontanamente immaginato che due donne potessero fare sesso in tanti modi diversi. «Puoi farci qualche esempio?» chiese Jack in tono semiserio. «Sei proprio scemo!» rispose Luna al posto di Tina. «Peggio di mio fratello.» «Allora, non si pattina più?» esclamò Ceci alzandosi in piedi e andando verso il centro del lago. Edo e Gegia la seguirono a ruota, Bandito cominciò ad abbaiare, e anche gli altri ragazzi si alzarono. Luna fu costretta dal fratello a salire sullo slittino, e i tre maschietti che non pattinavano cominciarono a tirarla preceduti dal cane. Alina era rimasta seduta sul tronco vicino a Tina. «Dai, vai a giocare con gli altri» le disse. «No, preferisco stare qui con te. Mi racconti qualcosa di Parigi?» «Parigi è bellissima. Ho dei ricordi stupendi di Parigi. Se la vedi di notte, in inverno, dalla spianata del Trocadero trasformata in pista di pattinaggio, con la Torre Eiffel tutta illuminata e le fontane del giardino che sembrano spruzzare luce liquida, è uno spettacolo che toglie il respiro.» Alina ormai parlava un italiano perfetto, migliore di quello parlato da molti abitanti della zona. «Pensi di tornarci?» Alla rumena vennero le lacrime agli occhi. «Non lo so, ma spero proprio di sì. Parigi è come me: bella, misteriosa e un po’ puttana. Io paragono le città alle persone e le divido in base al sesso. Parigi è femmina, una bellissima, affascinante, misteriosa e frivola femmina. Altre città, invece, sono maschi. Bucarest, ad esempio. La capitale della Romania è un maschio arrogante, crudele e depravato. Però ci sono anche città maschio simpatiche, come Milano. Ci sono stata un mese, prima di venire ad abitare qui. Milano è così: un maschio piacevole e di bell’aspetto. Un po’ demodé, se vuoi, ma indubbiamente maschio. E Torino, invece, com’è? Maschio o femmina?»
«Beh, non ho mai pensato a Torino in questi termini. Però, adesso che mi ci fai pensare, direi femmina… cioè, per essere più precisi, direi lesbica. Sì, secondo me, Torino è una bella lesbica. È per questo che mi piace.» Le due fanciulle risero di gusto, poi Tina si avvicinò all’amica, la abbracciò e le diede un lungo bacio come si usa a Parigi… e a Torino.
Il cenone di Capodanno era stato organizzato più come un rinfresco che una vera cena: i ragazzi avevano portato da casa panini, focacce, pane, grissini, pizza, salame, prosciutto, pancetta, frittelle di mele, torte, succhi di frutta e bibite gassate, quasi tutto rigorosamente fatto in casa da mamme, nonne e zie. Le ragazze avevano aiutato le mamme a preparare le cibarie, mentre i maschietti erano andati a comprare addobbi, coriandoli, stelle filanti e una scatola di mortaretti. Prima di andare a giocare sul lago di Loch Ness, avevano portato tutta la roba in soffitta. Quando il sole andò a nascondersi dietro agli alberi del pioppeto, i nove amici rientrarono in casa. Al primo piano dell’edificio c’era una grande stanza da bagno arredata e attrezzata in modo originale. In fondo al bagno, dalla parte opposta rispetto alla porta d’ingresso, c’era la doccia. Di fianco alla doccia, separata da una tramezza di mattoni, una stufa a legna serviva sia per produrre acqua calda che per riscaldare l’ambiente. Nella parte centrale, addossata a una parete, Nero aveva messo una grande tinozza in metallo con due rubinetti, uno per l’acqua calda e uno per l’acqua fredda; la vasca non aveva tubi di scarico e per vuotarla bisognava usare un secchio. Il wc e il bidet stavano sulla parete opposta alla tinozza, di fianco al lavandino. Completavano l’arredamento uno specchio, un portasciugamani di metallo cromato, un paio di sgabelli e un armadietto con saponi, profumi e medicinali. Per risparmiare acqua e legna, era stato deciso che quella sera ci sarebbero stati due turni per il bagno: prima i maschi e poi le femmine, e la tinozza sarebbe stata svuotata solo tra un turno e l’altro. Le ragazze avrebbero voluto riservare un turno anche per Alina, ma lei non volle sentire ragioni: avrebbe fatto il bagno dopo di loro usando la stessa acqua. Al limite, nell’ipotesi che l’acqua nella tinozza si fosse raffreddata troppo, avrebbe aggiunto un po’ di acqua calda. Terminato il loro turno, i maschi vuotarono la vasca, misero altra legna nella
stufa e salirono in soffitta per sistemare gli addobbi. Le fanciulle entrarono in bagno e cominciarono a spogliarsi. Gegia e Ceci riempirono la tinozza con acqua calda pulita ed entrarono nella vasca insieme. Luna e Tina, dopo essersi denudate, aiutarono Alina a spogliarsi. La tinozza era stata costruita e attrezzata in modo che Alina potesse fare il bagno anche da sola. Oltre a farla molto grande, Nero aveva aggiunto alla vasca un sedile speciale che poteva essere sollevato e abbassato grazie a un meccanismo ingegnoso. Dopo essersi spogliata – con un po’ di pazienza era in grado di farlo anche da sola – Alina ava dalla sedia a rotelle al sedile collegato alla tinozza; poi, azionando una serie di leve e manovelle, si sollevava oltre il bordo della tinozza, ruotava il sedile e lo faceva scendere dentro alla vasca. Dopo essersi lavata, usciva dalla tinozza con lo stesso sistema. La parte più difficile era asciugarsi e rivestirsi. Aveva imparato a fare anche quello da sola, ma quando faceva il bagno di solito con lei c’era sempre qualcuno: suo padre o l’estetista oppure, da un po’ di tempo, qualcuno dei suoi giovani amanti. Quella sera, ad aiutarla c’erano le ragazze della Banda Bassetti. Mentre le sfilava le mutandine, Tina esclamò: «Cacchio, Alina! Ti sei depilata la fica.» Alina sorrise e le spiegò che lei di natura era molto pelosa. Aveva cominciato a depilarsi le parti intime a Parigi. In genere era l’estetista che le faceva la ceretta perché, non potendo muovere le gambe, le risultava difficile farlo da sola. Arrivata in Italia, aveva mantenuto quell’abitudine. L’estetista veniva a casa sua una volta al mese, le sistemava i capelli, le faceva un massaggio tonificante alle gambe e poi le faceva la ceretta in varie parti del corpo. Già dalla prima volta, Alina le aveva chiesto se per caso se la sentiva di farle la ceretta anche all’inguine, e l’estetista aveva risposto che non c’era nessun problema. «Ma perché te la fai?» chiese Tina. Sembrava più interessata che scandalizzata. «È l’ultima moda di Parigi» cinguettò Alina. «Qualcuna di voi vuole provare? Su di me non riesco a farla bene, ma sono molto brava a farla sulle altre. Potete fidarvi.» Ceci e Gegia, ancora dentro la tinozza, dissero subito di no: a loro piaceva pelosa. Luna dichiarò che le sarebbe piaciuto provare, ma che non poteva proprio: sua madre la vedeva spesso nuda, e se avesse scoperto che si era
depilata, un altro mese di arresti domiciliari non glieli toglieva nessuno. Tina rifletté un attimo e dichiarò: «I miei non se ne accorgono di sicuro. D’accordo, provo io. Voglio fare una sorpresa ad Anna.» Nel frattempo, Ceci e Gegia erano uscite dalla tinozza e si stavano asciugando. Luna e Tina presero il loro posto. Tina afferrò il sapone e cominciò a insaponare l’amica. Si soffermò a lungo sui seni, poi fece alzare in piedi Luna e ò il sapone sulle gambe, sul ventre e sulle parti intime: con una mano insaponava e con l’altra frizionava e massaggiava la pelle. Luna la lasciò fare. «Anche tu avresti bisogno della ceretta all’inguine» disse Tina arruffandole i peli del pube. Luna non rispose e chiuse gli occhi. Nonostante nella stanza fe molto caldo, un brivido le corse lungo la schiena. Lei era eterosessuale e non le piacevano le donne, ma le carezze dell’amica erano deliziosamente eccitanti. Dopo averla insaponata e massaggiata per bene, Tina risciacquò l’amica e le porse il sapone. Luna ci pensò un attimo, ma poi disse a se stessa che per qualche carezza non sarebbe certo diventata lesbica, e prese il sapone. Dopo essersi asciugate, Ceci e Gegia si erano soffermate a guardare la zona intima di Alina. «Io la preferisco pelosa» dichiarò Ceci, «ma… ai maschi piace di più con o senza peli?» «Dipende» rispose Alina. «La tua è meravigliosa, tutta rossa, e i maschi impazziscono quando vedono rosso. La tua ricciolina rossa piace da morire anche a me. Però altri la preferiscono depilata perché la trovano molto sexy. E alcuni dicono che rimane più pulita, senza peli.» «Scusa se te lo dico» intervenne Gegia, «ma io ho sempre pensato che solo le… sì, insomma, solo le prostitute si depilano lì sotto.» «No, ti posso assicurare che in Francia molte donne lo fanno. Donne normali, voglio dire. Alcune si depilano per accontentare i loro uomini, ma altre lo fanno per se stesse, perché senza peli si sentono più affascinati. E poi…» «E poi?»
Alina abbassò la voce e rispose bisbigliando. «E poi, vuoi mettere la comodità? Quando te la leccano, non si fermano ogni tre secondi a sputare i peli.» Ceci e Gegia scoppiarono a ridere. Luna e Tina, che non avevano afferrato la battuta, se la fecero ripetere e scoppiarono a ridere pure loro. Alina fece il bagno per ultima, poi mise sulla stufa un pentolino con la cera depilatoria e pregò l’amica di sedersi su uno sgabello e divaricare le gambe. «Fa male?» chiese Tina preoccupata. «Beh, la prima volta un po’ sì. Ma i tuoi peli sono corti e radi. Non c’è nemmeno bisogno di accorciarli con le forbici. Vedrai, non sentirai quasi nulla.» «Speriamo.» Restando seduta sulla carrozzina, Alina versò un po’ di borotalco tra le gambe di Tina e massaggiò la zona delicatamente, poi si fece dare da Ceci il pentolino e mescolò la cera fusa con una spatolina di legno. Luna era in piedi dietro a Tina e le accarezzava i capelli. Ceci e Gegia erano accanto ad Alina e le facevano da assistenti. Tutte e cinque erano nude. Il bagno era avvolto in una nuvola di vapore caldo e la scena sarebbe stata perfetta come ambientazione per un film erotico. Alina raccolse un po’ di cera fusa con la spatolina, si accertò che la cera non fosse troppo calda e ne applicò uno strato sottile sul monte di Venere di Tina. Dopodiché prese una strisciolina di cotone dal mucchietto che aveva preparato in precedenza e la premette sulla cera. Infine, con uno strattone deciso, strappò la striscia con i peli attaccati. «Cazzo, che male!» urlò Tina. «Non sentirai quasi nulla, avevi detto.» Luna la abbracciò forte e le diede un bacio sulla guancia. «Se vuoi essere bella per la tua Anna, un po’ devi soffrire.» «Tu ci godi a vedermi soffrire, lo so. Perché sei gelosa.» «Io non sono affatto gelosa. Però è vero: ci godo a vederti soffrire.» Tina stava per replicare all’amica con una parolaccia, ma il rimproverò le si
smorzò in gola: Alina aveva appena strappato via un altro po’ di peli. Tina sbuffò forte e piagnucolò. Ceci e Gegia sghignazzarono. Luna accarezzò Tina sui capelli e ridacchiò pure lei. Alina, tutta presa nel suo ruolo, era l’unica a mantenere un contegno serio. Dopo diversi strappi, il monte di Venere di Tina era liscio e depilato. Alina avvertì Tina che adesso avrebbe tolto i peli dall’inguine, e lì faceva male sul serio. «Più male di così? Cavolo! Ma non basta, così? La parte alta è tutta pulita.» «Così fai proprio schifo» esclamò Luna. «Come quegli uomini che si tagliano i baffi e tengono il pizzetto. Sembrano delle capre.» Tina si rassegnò e disse che potevano continuare. Alina le spiegò che adesso doveva alzare di più le gambe e abbassare il busto all’indietro. L’ideale sarebbe stato avere un lettino, ma con l’aiuto delle altre si poteva fare lo stesso. Luna prese uno sgabello, si sedette a gambe divaricate dietro a Tina e fece sdraiare l’amica su di sé. Ceci e Gegia le afferrarono le gambe e le tennero sollevate attorno al corpo di Alina. «Piano! Ma guarda cosa tocca fare per essere alla moda! Mi sembra di essere in sala parto.» Alina applicò un po’ di ceretta nell’inguine e strappò via una strisciolina di peli. Questa volta Tina non urlò, ma il suo viso divenne paonazzo e si contorse in una smorfia di dolore. «Putt…! Merd…! Avevi detto che non avrei sentito nulla!» «Avevo detto quasi nulla. Ancora un po’ di pazienza e abbiamo finito.» La rumena aveva già dimostrato di essere un po’ sadica, ma Tina non si aspettava che anche le altre lo fossero: Gegia e Ceci se la stavano godendo un mondo e anche Luna sembrava divertirsi. E dopo un po’, Tina si accorse che quel gioco cominciava a piacere anche a lei e che, nonostante il dolore nelle parti intime, o forse proprio a causa del dolore, si sentiva stranamente eccitata. Quando Alina disse che aveva finito, quasi quasi le dispiaceva. «Adesso devi girarti.»
«Come, girarmi? Hai appena detto che hai finito.» «Ho finito davanti. Devo toglierti i peli anche dietro.» «Dietro dove? Nel culo?» «Propriò lì. Hai un sacco di peluria attorno al buchetto.» «E lì fa male?» «Meno che davanti.» «Okay. Se proprio devo…» Seguendo le istruzioni di Alina, Tina si alzò dallo sgabello e si mise carponi sul pavimento. Le altre si stavano divertendo un mondo a vedere l’amica sottoposta a quella dolce tortura. Luna le si inginocchiò accanto e le divaricò le natiche con entrambe le mani. «Hai proprio un bel culetto, sai» esclamò Luna al termine dell’operazione. «Voi cosa dite, ragazze? Sarà ancora vergine qui?» E appoggiò l’indice contro lo sfintere anale dell’amica. «Ma sei matta?» urlò Tina alzandosi in piedi con uno scatto felino. Ceci, Gegia e Alina scoppiarono a ridere. «Ma dai! Cosa sarà mai?» esclamò Luna. «Scommetto che la tua amica Anna te lo fa sempre.» Tina rispose con una pernacchia. Alina prese un unguento e lo spalmò sulla pelle arrossata di Tina. All’improvviso Ceci e Gegia afferrarono Tina sotto le ascelle e la tennero ferma. «Dai, Luna: controlla se almeno davanti è vergine.» Tina urlò e cominciò a dare calci, ma poi gli scappò da ridere. Luna allungò la mano e avviò la sua indagine. Tina continuò a protestare, ma smise di scalciare. Non poteva ammetterlo davanti alle amiche, ma quel gioco le piaceva. Luna spinse il dito medio nella vagina e, forse anche grazie all’unguento emolliente, il
dito scivolò dentro con facilità. «No, non è più vergine» dichiarò Luna. Tina emise un suono soffocato, ma era più un sussurro di piacere che un lamento. Luna capì che l’amica apprezzava la sua carezza intima e continuò quel gioco mentre Gegia e Ceci tenevano Tina immobilizzata e ridevano. Alina si era fermata a osservare le ragazze. Provava un po’ di invidia nei loro confronti, ma non per il gioco erotico che stavano conducendo, bensì per la loro spensieratezza e la loro salute: erano ragazze allegre e sane, potevano correre, saltare, ballare, dare calci e fare tutte quelle cose che per loro erano normali, ma che a lei erano precluse per sempre. Tina emise un ultimo sospiro e il suo corpo si rilassò fra le braccia delle amiche. Appena Ceci e Gegia la lasciarono libera, Tina abbracciò Luna e tentò di baciarla, indifferente agli sguardi e alle battutine di spirito delle altre. Lei la respinse, gentilmente, ma con decisione. E subito dopo, le venne in mente Brogio. Luna non aveva ancora deciso se sarebbe tornata insieme a lui, ma sentiva che, nonostante tutto, ne era ancora innamorata. Lo aveva lasciato per stare vicino alla sua più cara amica e aiutarla a uscire da una situazione ingarbugliata, ma adesso Tina non aveva più bisogno di lei. Se Brogio le avesse fatto capire che a lei ci teneva ancora, Luna si sarebbe rimessa con lui, ma non voleva essere lei a fare il primo o perché non era sicura che lui l’amasse ancora. Se lui non le diceva niente, voleva dire che si era stufato. E lei non poteva certo biasimarlo per questo.
La prima parte della serata ò senza infamia e senza lode: i ragazzi ballarono, fecero qualche gioco innocente e consumarono le cibarie che si erano portati da casa. La bevanda più alcolica presente alla festa era una bottiglia di vino rosso che aveva portato Brogio e che solo Alina e Tommy assaggiarono. Nessuno aveva portato sigarette né tantomeno spinelli, e se non fosse stato per le barzellette sconce raccontate da Jack e da Tommy, fino a quel momento la festa si sarebbe potuta tenere in un convitto per educande. Quando mancavano cinque minuti a mezzanotte, Nero salì in soffitta con una bottiglia di Dom Pérignon e una pila di bicchieri di carta. A mezzanotte in punto il tappo dello champagne saltò e tutti gustarono un po’ di vino se, più che
altro per far contenta Alina. Sotto una pioggia di coriandoli e di stelle filanti, tutti si abbracciarono e si scambiarono baci e auguri e perfino Nero si prese la sua razione di effusioni. Dopodiché, imbacuccati dalla testa ai piedi, tutti scesero in cortile per festeggiare l’anno nuovo con i mortaretti. A mezzanotte e mezza i ragazzi tornarono in soffitta. Nero disse che lui sarebbe andato a letto presto e raccomandò agli altri di non fare troppo tardi. A quel punto si accese un vivace dibattito su come proseguire la festa: Gegia avrebbe voluto continuare a ballare, ma si trovò subito in minoranza; il gioco della bottiglia versione hard, proposto da Jack, fu bocciato dalle ragazze; i maschietti respinsero all’unanimità l’idea di Tina di giocare a “Mi ami o non mi ami”, gioco a cui lei non aveva potuto partecipare. Lo stallo fu superato da un’idea di Alina: «Che ne direste del cinema?» «Cinema?» fece Jack. «E come ci andiamo al cinema, in bicicletta?» «Non ho detto di andare al cinema. Il cinema possiamo farlo anche qui usando il televisore e il videoregistratore. E il film lo scegliete voi fra quelli della mia collezione di videocassette.» «E cosa ci fai vedere?» la canzonò Tommy. «La Corazzata Kotiomkin?» «Sì, dai!» esclamò Jack. «E dopo ripetiamo la scena della scalinata.» «E Fantozzi in carrozzina lo facciamo fare a Tommy» sghignazzò Brogio. «E poi lo buttiamo giù dalle scale!» urlò Edo. «Questo film è una cagata pazzesca!» sbottò Tommy imitando la voce di Fantozzi. «Io non lo voglio vedere. Ma soprattutto non lo voglio fare!» «Io, veramente, pensavo a qualcosa di più… spinto» dichiarò Alina con aria furbetta. «Un film vietato ai minori di diciotto anni, per esempio. Sempre se la cosa non vi scandalizza.» Le femmine si limitarono a sorridere, i maschi ammutolirono. Ma dopo il primo attimo di smarrimento, i ragazzi si mossero come formiche impazzite: andarono a prendere il tv e il videoregistratore nella camera oscura, poi spostarono il divano e le sedie in modo da formare una specie di platea, con le sedie davanti e il divanetto dietro, proprio come nel cinema parrocchiale, dove davanti c’erano i
seggiolini reclinabili in legno, per chi voleva spendere poco, e dietro le poltroncine imbottite per i ricconi del paese. Alina tirò fuori quattro videocassette e le mostrò agli amici. In quei nastri c’era il meglio del cinema erotico se degli anni Settanta: Emmanuelle, Histoire d’O, Contes immoraux e Le dernier tango à Paris. Alina disse che le dispiaceva che tutti i suoi film fossero in se, ma i ragazzi replicarono che quello, lungi dall’essere un problema, era anzi un arricchimento culturale. Anche se nessuno della banda conosceva quei film, se non per sentito dire, iniziò un dibattito degno di un cineforum: Brogio insistette per vedere Histoire d’O; Tommy votò in favore di L’ultimo tango a Parigi, perché gli avevano detto che nel film c’era una scena col burro molto appetitosa; Edo avrebbe visto volentieri I racconti immorali di Borowczyk, film di raffinato erotismo, mentre Jack era indeciso fra Emmanuelle e Histoire d’O. Alla fine le ragazze votarono all’unanimità per Emmanuele, perché avevano orecchiato che nel film c’erano molte scene di sesso saffico fra Sylvia Kristal, splendida protagonista, e le sue amiche. Il suggerimento era partito da Tina, ma le altre lo accolsero di buon grado. Si sa com’è: la curiosità è femmina. Alina fece partire la cassetta, poi andò a spegnere la luce e parcheggiò la carrozzina vicino al letto per stare un po’ in disparte. Conosceva quel film a memoria e preferiva gustarsi le espressioni dei ragazzi piuttosto che le performance erotiche di Emmanuelle. Edo, Ceci, Gegia e Tommy erano seduti davanti sulle sedie. Gli altri quattro si erano stretti sul divano dietro, con le femminucce in mezzo e i maschietti sui lati. Tina aveva preso la mano di Luna e la teneva stretta in grembo. Più che guardare il film, le due amiche sghignazzavano e bisbigliavano fra loro. Brogio era interessato al film, ma ogni tanto si girava per guardare Luna. Avrebbe voluto tentare qualche avances, ma non riusciva a trovare il coraggio. Jack guardava il film, ma spesso si voltava per osservare Alina, e quando incrociava il suo sguardo la salutava come se non la vedesse da mesi. Anche Tommy si girava spesso, ma per guardare Gegia; Edo, Ceci e Gegia guardavano il film senza distrarsi. Quando Emmanuelle e suo marito, giunti a Bangkok, fanno l’amore nel letto a baldacchino, prima spiati e poi imitati da una coppia di giovani inservienti dell’albergo, l’atmosfera in soffitta cominciò a scaldarsi. E quando Mariangela, una giovanissima amica della protagonista, comincia a toccarsi, seduta su una
sedia a dondolo di vimini davanti agli occhi di Emmanuelle, prima imbarazzata, poi eccitata e infine compartecipe, i ragazzi iniziarono ad agitarsi sulle sedie e sul divano. Brogio si fece coraggio e prese la mano libera di Luna. Tommy prese quella di Gegia. Jack si voltò verso Alina e le spedì un bacio soffiandolo dal palmo della mano. Tina si strinse di più a Luna. Alina rispose a Jack soffiandogli a sua volta un bacio con la mano; Gegia respinse, con gentilezza ma con decisione, la mano di Tommy. Luna non respinse né Brogio né Tina: si voltò prima verso di lui, gli sorrise e gli diede un bacio sulla guancia, poi si voltò verso l’amica e fece lo stesso con lei. Edo e Ceci continuarono a guardare il film.
Verso le due e mezza, Alina disse che era ora di andare a letto. Mentre le ragazze si preparavano a scendere, Brogio, a nome di tutti i maschietti, chiese ad Alina se potevano guardare un altro film prima di mettersi a dormire. Edo precisò che non avrebbero visto un film intero ma solo qualche spezzone degli altri tre. Alina rispose che a lei andava bene purché tenessero il volume basso. Tommy replicò che il volume lo avrebbero tenuto a zero: «Tanto è quello che fanno che ci interessa, non quello che dicono.» Dopo aver dato il bacio della buona notte agli amici maschi, le ragazze scesero al primo piano. L’ultima a lasciare la soffitta fu Luna. Prima di uscire si voltò verso i ragazzi e bisbigliò: «E non fatevi troppe seghe, che dopo diventate ciechi.» «Ma và in móna» sbottò Edo. Jack si tirò giù i pantaloni e le mostrò il sedere. Tommy alzò il dito medio e Brogio le lanciò contro un cuscino, ma Luna fu svelta a uscire e chiudere la porta dietro di sé. Ceci si lamentò che la camera da letto era più fredda della soffitta. Allora Alina tirò fuori dall’armadio un paio di coperte di lana lavorate a uncinetto e disse che con quelle sarebbero state benissimo. Mise una coperta sul suo letto a due piazze e buttò l’altra sulle due brandine che Nero aveva portato su e che le ragazze avevano affiancato a formare un letto doppio. Nel lettone avrebbero dormito Alina, Luna e Tina, e nelle brandine Gegia e Ceci. Mentre le amiche si spogliavano per mettersi il pigiama, Alina si avvicinò al mangiadischi e infilò un disco nella feritoia. Le note di Je t’aime… moi non
plus, cantata da Serge Gainsbourg e Jane Birkin, si diffo nella stanza. «Fighissima questa canzone!» esclamò Luna. «Come hai fatto a procurarti il disco? In Italia è quasi introvabile.» «Viene dalla Francia. È un disco originale degli anni Sessanta. Si sente che è consumato, vero?» «Da noi era stato messo fuori legge per oscenità. Avevano distrutto tutte le copie del disco, poi due anni fa lo hanno pubblicato di nuovo, ma appena arriva nei negozi va a ruba. Soprattutto dopo l’uscita del film dell’anno scorso. Per caso l’hai visto, il film?» «Sì, l’ho visto a Parigi e mi ha fatto proprio schifo. Praticamente è la storia d’amore tra un camionista finocchio e una cameriera che sembra un uomo e si fa chiamare Johnny. Lui non riesce ad avere rapporti sessuali normali con lei, e glielo mette sempre nel didietro. Un film de merde. Era bella solo la musica.» Aiutata da Tina e da Luna, Alina si mise il pigiama e s’infilò sotto le coperte nel letto grande. «Vuoi già dormire?» chiese Tina con aria delusa. «Certo che no» rispose lei ammiccando. «Non sono neanche le tre. Dai, venite tutte nel lettone. Se ci stringiamo un po’, ci stiamo.» «Facciamo un pigiama party?» cinguettò Tina. «Più o meno» rispose Alina con aria maliziosa. «Di preciso, cos’hai in mente?» chiese Gegia. «Facciamo un gioco: avete mai sentito parlare del gioco della verità?» «Sì, però ci sono molti modi di giocare» rispose Luna. «Tu a cosa stavi pensando?» «Mah! Niente di preciso. Giusto per conoscerci meglio. Facciamo così: ognuna di noi deve raccontare un episodio della propria vita che abbia a che fare con il sesso. Non deve essere per forza il racconto di un rapporto sessuale. Va bene
anche una pomiciata o qualcosa del genere. L’importante è che sia un episodio piccante. E, soprattutto, che sia vero. Non dovete inventare niente. Raccontate quello che volete, ma che sia la verità. Vi va come gioco?» Tutte annuirono, in modo più o meno convinto, e Gegia arrossì in maniera vistosa. «Bene. Allora, visto che il gioco l’ho proposto io, comincio io. Di episodi da raccontare ne avrei molti, ma il più bello per me è sicuramente il primo. Vi racconterò della prima volta che ho fatto l’amore. Avevo sedici anni ed ero arrivata da poco a Parigi…» Il racconto di Alina, pieno di particolari molto intimi, durò una buona mezz’ora. «Mio padre doveva aver intuito che non ero più vergine» concluse la fanciulla. «Un giorno, infatti, mi portò a fare una visita ginecologica. Nero aveva parlato di una semplice visita di controllo, ma io penso che volesse farmi prendere la pillola. Non ce ne fu bisogno, perché risultò che ero sterile. All’inizio piansi molto, ma in seguito capii che quella era invece una grossa fortuna. Con i miei problemi fisici, un bambino da accudire sarebbe stato una maledizione e non una benedizione. Bene, io ho detto la mia. Adesso tocca a voi. Chi vuole continuare il gioco?»
Si fece avanti Tina e raccontò, senza omettere alcun dettaglio, un episodio di sesso saffico con Anna. Dopo di lei Ceci tirò fuori l’episodio del barbecue che le amiche, tranne Alina, conoscevano già. Aggiunse solo qualche dettaglio piccante e concluse dicendo che lei e Alfredo, comunque, non avevano fatto sesso. «Nemmeno con Edo ho mai fatto sesso. Vi devo confessare, purtroppo, che sono ancora vergine.» Poi fu la volta di Luna. Anche lei era ancora vergine, ma la cosa non le dispiaceva. Non aveva tutta questa smania di fare sesso. Però qualche peccatuccio anche lei l’aveva commesso. E raccontò di quella volta sul fienile quando aveva limonato con Brogio: si erano stesi sul fieno e avevano pomiciato per una buona mezz’ora. Nonostante le insistenze delle amiche, e in particolare di Tina, Luna non volle scendere nei particolari.
«Vi posso solo dire che non abbiamo fatto sesso, ma che ci siamo andati abbastanza vicino. E comunque quella è stata l’unica volta in cui mi sono concessa a Brogio così intimamente.» Visto che Luna non sembrava intenzionata a fornire ulteriori dettagli, Alina invitò Gegia a raccontare un suo episodio. Lei apparve titubante, ma alla fine si fece coraggio e disse: «Beh… ecco… io, invece, vi devo confessare che… sì, insomma… io non sono più vergine.» Tina, Luna e Ceci spalancarono la bocca e mitragliarono Gegia di domande. Dopo una raffica di “con chi?”, “quando?”, “come?”, “perché non ci hai mai detto niente?”, Gegia si arrese e raccontò com’era andata. Con grande delusione delle amiche, il suo racconto fu breve e scarno di particolari. Era successo quell’anno in luglio quando, come tutte le estati, era andata in vacanza in Spagna. Una sera, dopo aver ballato il flamenco in un locale di Fuengirola, e dopo aver bevuto un paio di bicchieri di sangria, era andata sulla spiaggia con un ragazzo che aveva conosciuto l’anno prima, un certo Miguel. Lui ci aveva provato e lei, anche a causa dello stordimento provocato dall’alcol, non era riuscita a respingerlo. «Vuoi dire che ti ha violentata?» domandò Ceci. «No, violentata no. Però se non fossi stata ubriaca, non avrei ceduto così facilmente. Ma se devo essere sincera, lui mi piace molto e… insomma, prima o poi sarebbe successo. Appena torno in Spagna, penso che ci metteremo insieme.» «Figurati» disse Tina. «Quello, ormai, manco si ricorda più di te.» «Non credo. Ci sentiamo spesso al telefono, e anche lui ha detto che non vede l’ora che arrivi l’estate. Mio padre si è stufato della nebbia e del freddo e vuole tornare in Andalusia. Partiamo in giugno, appena finita la scuola, e questa volta credo che resteremo là un bel pezzo. Ma questo ve l’avevo già detto, mi sembra.» «Io non lo sapevo» disse Alina. «Tommy ci resterà male.» «Sì, lo so che Tommy ha un debole per me. Dovrà rassegnarsi. E tu, Luna, cosa pensi di fare con Brogio? Anche Brogio dovrà rassegnarsi?»
«Sinceramente non lo so. Io credo di essere ancora innamorata di lui, ma non sono sicura che lui sia quello giusto per me. Io sono una testa matta, ho sempre la testa fra le nuvole, mentre lui è un tipo così precisino.» «Precisino Brogio?» intervenne Tina. «Ti sembra precisino uno che crede ai fantasmi e corre dietro ai vampiri? Se ci sono due persone fatte uno per l’altra, siete proprio tu e Brogio. E guarda che lo dico contro il mio interesse. Se non avessi conosciuto Anna…» «Allora, se proprio vuoi saperlo, a me le donne mi fanno schifo» la interruppe Luna sorridendo. «Riguardo al sesso, voglio dire.» Mentre fra Luna e Tina iniziava una dolce schermaglia fatta di rimproveri, minacce e pizzicotti, Alina si rivolse a Ceci e le chiese ragguagli sulla sua storia con Edo. «Beh, con Edo è finita. Anche se credo che non fosse mai veramente cominciata. Al momento non c’è nessuno che mi fili. Cioè… uno, veramente, ci sarebbe. È un ragazzo di Codigoro che studia al Dams di Bologna. L’ho conosciuto un paio di settimane fa in birreria. Lui ha già la ragazza, però credo di essergli simpatica. Ci dobbiamo vedere dopo l’Epifania.» Anche quella era una novità interessante e le amiche tempestarono Ceci di domande. Ad Alina era ata la voglia di ascoltare pettegolezzi e si rifugiò nei suoi pensieri. Tutto sommato, il 1977 era stato un buon anno per lei, non come gli anni parigini, ovviamente, ma un miliardo di volte meglio del suo ultimo anno in Romania. Con i ragazzi della Banda Bassetti aveva trascorso delle belle giornate, aveva imparato bene l’italiano e si era divertita. Ma il 1978 sarebbe stato diverso. Tina doveva tornare a Torino, Gegia stava per trasferirsi in Spagna e per gli altri nuove amicizie e nuovi amori stavano per nascere. Presto la banda si sarebbe sciolta e i ragazzi si sarebbero dimenticati di lei; tutti tranne Jack, probabilmente. Per fortuna, lei aveva le sue lezioni di se: la noia era scongiurata e il suo mostro interiore sarebbe stato sfamato con regolarità. E poi c’era suo padre che l’adorava e non le faceva mancare nulla. Tutto considerato poteva considerarsi una ragazza fortunata: la vita non era stata tenera con lei, ma ora le cose andavano decisamente meglio.
Brogio non riusciva a concentrarsi sui film erotici: non faceva che pensare a
Luna. Mentre Marlon Brando seduceva Maria Schneider in un appartamento di Parigi, lui uscì di soppiatto dalla soffitta e scese le scale. Si fermò davanti alla camera di Alina e accostò l’orecchio alla porta: le voci delle ragazze che ridevano e scherzavano gli giunsero distintamente mescolati alle note di Je t’aime… moi non plus. Provò a sbirciare dal buco della serratura, ma non vide nulla: qualcosa di scuro era stato appoggiato davanti alla feritoia, e non poteva che essere il basco di Luna. Aveva una gran voglia di parlare con lei, di spiegarsi, di dirle che l’amava, ma non sapeva proprio con quale scusa sarebbe potuto entrare. E se anche avesse trovato la scusa buona, una volta dentro cosa avrebbe fatto? Nulla. Si sarebbe solo fatto ridere dietro. Avvilito, si voltò per tornare in soffitta, ma in quel momento i fantasmi di Evelina e Torello si materializzarono davanti a lui. Non vedeva il fantasma della zia da oltre un mese, ossia da quando era salito nella soffitta sopra al magazzino, a casa sua, e aveva scoperto il segreto di Evelina. Dopo aver recuperato il libro della zia a casa di Fastu, quella sera di settembre, Brogio lo aveva rimesso nel baule. Un pomeriggio di novembre era tornato in soffitta e lo aveva tirato fuori dal mobile. Non aveva ancora capito perché la zia ci tenesse tanto a quel vecchio album senza foto. Per fare luce, aveva portato con sé una candela. La zia aveva detto che quel libro conteneva i suoi ricordi più belli, ma quale fosse il significato di quella frase, per Brogio rimaneva un mistero. Divorato dalla curiosità, Brogio aveva avvicinato la candela a una pagina per cercare qualche indizio che lo portasse sulla strada giusta. Sulla pagina vuota, nel punto più vicino alla fiamma, era comparso uno scarabocchio azzurro. Lui, allora, aveva sfiorato la pagina con la fiamma spostando la candela da un punto all’altro, e come per magia la pagina si era riempita di parole e di disegni blu. Finalmente aveva scoperto il segreto di Evelina: quello non era un album di foto, ma un diario, un diario segreto. E le pagine che sembravano vuote, dovevano invece essere scritte con inchiostro simpatico. In quel momento la zia era comparsa nello schermo del vecchio televisore in bianco e nero. Il nipote si era avvicinato all’apparecchio e aveva alzato il volume. «Ciao, Ambrogio. Vedo che hai scoperto il mio segreto. Adesso ti racconto la storia di questo diario.» Nel 1950 Evelina aveva ventisette anni ed era sposata con lo zio Filippo da tre
anni. Torello, appena diciottenne, andava in giro per sagre e fiere paesane cercando di vendere i quadri che si dilettava a dipingere. Lei si era innamorata subito di quel giovane artista, bello, gentile e dall’aria un po’ ingenua, e lui si era presto arreso alle avances di una ragazza più vecchia di lui, ma molto attraente e seducente. Il marito di Evelina viaggiava spesso per lavoro, e quando lui era lontano lei andava a trovare il suo giovane amante nella casa a Val Nebbiosa con una Fiat Topolino, dono di nozze dei genitori. Il padre di Torello era morto in guerra, la mamma era bracciante agricola e rimaneva fuori casa fino a sera inoltrata. Evelina e il ragazzo trascorrevano giornate intere nella soffitta facendo l’amore e giocando al pittore e alla modella. Un giorno Evelina aveva chiesto a Torello se lui fosse in grado di produrre un inchiostro invisibile che si potesse rendere visibile solo in determinate circostanze. Torello aveva risposto che esisteva una sostanza con quelle proprietà: il cloruro di cobalto. Sciolto in acqua, quel sale tingeva l’acqua di rosa e, usato come inchiostro, soprattutto su fogli di colore rosa, era praticamente invisibile. Riscaldata con una fiamma, la scritta diventava blu, e appena si raffreddava tornava a essere invisibile. Il cloruro di cobalto non era una sostanza facile da reperire, ma Torello aveva detto che in due o tre giorni poteva procurarsela. Qualche giorno dopo, Evelina aveva portato a Torello un album per fotografie con i fogli di cartoncino rosa. Lui si era procurato il sale di cobalto e insieme avevano cominciato i primi esperimenti: usando l’inchiostro invisibile, Evelina raccontava nelle pagine del diario dei loro incontri segreti e lui, impiegando un pennellino sottile, riproduceva le scene d’amore in forma di disegni. Evelina teneva il diario su uno scaffale della libreria della sua casa di Comacchio senza timore che Filippo ne scoprisse il contenuto. Quando andava dal suo amante, portava con sé il libro, e insieme a lui si divertiva a riempire quei fogli con la descrizione minuziosa, scritta e disegnata, dei loro convegni amorosi. «La mia storia con Torello durò solo un anno» aveva concluso Evelina, «ma quello fu l’anno più intenso e più bello di tutta la mia vita. Adesso quel diario è tuo. Puoi leggerlo, se vuoi, ma mi raccomando: conservalo con cura e fa in modo che non vada distrutto. Contiene i miei ricordi più belli, e fino a quando quelle scritte e quei disegni rimarranno nel diario, io esisterò.» E adesso zia Evelina era tornata insieme al fantasma di Torello. «Allora, cosa aspetti a entrare?» lo esortò Evelina. «Non posso, zia.»
«Ma come, non puoi? Luna è là dentro e tu te ne stai qui fuori, al buio e al freddo.» «E a quella ninfomane di Alina non pensi?» infierì Torello. «Se non vai subito a prendere la tua ragazza, quella mezza vampira è capacissima di sedurla.» «Torello, ma sei proprio sicuro che Luna sia la sua ragazza?» domandò Evelina provocatoriamente. «Io ho paura che…» «Adesso basta!» sbottò Brogio a bassa voce. «Mi avete proprio stufato. Tanto lo so che voi non esistete.» Da un po’ di tempo Brogio si stava convincendo che i fantasmi fossero un’invenzione della sua mente. Li vedeva e li sentiva solo lui ed era ovvio che fosse lui stesso a crearli con l’immaginazione. I fantasmi che incontrava non erano reali, ma frutto del suo inconscio che si materializzava in forma di ectoplasmi per indirizzare le sue scelte. Nemmeno la storia del diario di Evelina aveva a che fare con gli spiriti. Sua madre conosceva il segreto di Evelina, e un giorno, quando lui aveva otto anni, aveva parlato con Girolamo del diario. Nascosto dietro alla porta, Brogio aveva ascoltato tutto. In seguito aveva dimenticato l’episodio, ma quando aveva buttato via il libro della zia, dopo averlo trovato nel baule in soffitta, qualcosa era riaffiorato dal suo subconscio e lo aveva spinto a recuperarlo. Tre mesi dopo, la verità era tornata completamente alla sua coscienza e lui era salito in soffitta con una candela invece della torcia elettrica perché sapeva già cosa doveva cercare. Quella sera, a casa di Alina, decise che avrebbe smesso di dare ascolto ai fantasmi. Prima di avventurarsi in una qualsiasi impresa, avrebbe usato la ragione e non l’istinto. Brogio si avviò mestamente lungo il corridoio, sordo alle esortazioni di zia Evelina. Quando raggiunse la scala che portava in soffitta, si fermò e si voltò indietro un’ultima volta. Poi alzò le spalle, poggiò il piede sul primo gradino e salì le scale.
12. La fine del mondo
Il 20 dicembre 2012 Ambrogio Bassetti raggiunse Val Nebbiosa nel primo pomeriggio. ando lungo la strada sterrata che attraversava la golena, notò che il lago di Loch Ness non c’era più, sostituito da un pioppeto di impianto recente. La casa delle mele acerbe, invece, era ancora al suo posto e non sembrava cambiata molto da quando era stato lì l’ultima volta, venticinque anni prima, in occasione del matrimonio di Giacomo e Alina. Ambrogio parcheggiò l’auto nello spiazzo alla base del dosso su cui sorgeva la casa e si avviò lungo il sentiero che saliva verso il portone d’ingresso. Nella spianata non c’erano altre macchine e Ambrogio dedusse che doveva essere il primo. Suonò il camlo e dovette attendere più di un minuto prima che la porta si aprisse. «Ambrogio, mon amour!» gridò Alina seduta sulla carrozzina. «Scusa se ti ho fatto aspettare tanto, ma ero al piano di sopra. Giacomo è ancora fuori. Dai, non restare lì impalato, vieni dentro.» Il 9 ottobre di quell’anno Alina aveva compiuto cinquantacinque anni e, nonostante l’età, era ancora una gran bella donna. Ricordava ancora Morticia Addams, ma adesso assomigliava più all’attrice Anjelica Huston, protagonista del film degli anni Novanta, piuttosto che a Carolyn Jones. I capelli, lunghi e nerissimi, probabilmente tinti, erano impreziositi da alcune ciocche sottili color argento. Il trucco agli occhi era leggero, ma le labbra e le unghie viola denotavano una tendenza al look dark che Alina aveva sempre prediletto. Ambrogiò entrò e appoggiò la valigia a terra. L’esterno della casa era cambiato poco, l’interno, invece, era stato stravolto e sembrava un magazzino: i muri interni erano stati abbattuti e sostituiti con colonne e travature metalliche, e l’ambiente era pieno di mobili accatastati, pannelli in cartongesso, matasse di cavo elettrico e attrezzature di vario tipo. «Auguri, Alina» esclamò Ambrogio consegnandole il ramo di orchidea che aveva nascosto dietro la schiena.
«Grazie! Sei un tesoro. Ti sei ricordato che l’orchidea è il mio fiore preferito: il simbolo della ione erotica.» «Io ricordo tutto di te. Come potrei dimenticarlo? Giacomo dov’è?» «È andato ad Adria a prendere Edoardo e Riccardo che arrivano in treno da Venezia. avano un attimo in hotel e poi venivano qui.» «Non dormono qui anche loro?» «No, l’hotel è più comodo. Qui ci sono solo due camere da letto. Anche Tommaso, Cecilia e Francisca vanno in albergo.» Alina Fastu e Giacomo Scala si erano sposati il 21 dicembre 1987, di lunedì, in municipio. Oltre che refrattaria a politicanti e poliziotti, Alina era allergica anche ai preti. Per festeggiare le nozze d’argento, i due avevano deciso di organizzare una festa nella casa delle mele acerbe invitando tutti gli amici della vecchia Banda Bassetti. Dopo aver preso il diploma da elettricista, Giacomo aveva aperto un’officina da elettrauto a Comacchio e si era fidanzato con Alina. Lei aveva continuato a tenere le sue lezioni di se, ma aveva interrotto il doposcuola erotico, e poco dopo le nozze aveva conosciuto Riccardo, un giovane architetto di Venezia che produceva film porno. Riccardo era il compagno di Edoardo e si era rivolto ad Alina per perfezionare il suo se. Al loro terzo incontro le aveva proposto di diventare una porno star. Per il giovane produttore la rumena aveva una carica sessuale che né Ilona Staller né Moana Pozzi possedevano. Alina riuniva in sé tutte le perversioni erotiche che la maggior parte dei maschi italiani sognava: era straniera, bella, ninfomane, bisex, sufficientemente porca e, cosa più intrigante, paralitica, e dunque forzatamente sottomessa ai desideri del partner. La gente avrebbe fatto a pugni al botteghino per accaparrarsi i biglietti e lei sarebbe diventata ricca e famosa. Alina si era lasciata convincere, ma prima aveva voluto parlarne con Giacomo. Suo padre non aveva mai interferito nella sua vita, e non l’avrebbe fatto nemmeno quella volta, ma Giacomo probabilmente non sarebbe stato d’accordo. Invece, con grande sorpresa della fanciulla, lui era rimasto entusiasta dell’idea e aveva posto come unica condizione di entrare a far parte del cast. Nel giro di pochi anni, Giacomo e Alina erano diventati ricchi e piuttosto
famosi. Lui aveva assunto il nome d’arte Jack Bald, e Alina era conosciuta come Sukia Dragomic, nome preso a prestito dal mondo dei fumetti e ispirato all’omonima vampira transilvana che l’autore aveva voluto somigliante a Ornella Muti. La notizia che la paralisi alle gambe dell’attrice era reale e non una finzione cinematografica attraeva morbosamente il pubblico, e i cinema dove si proiettavano i film di Sukia erano sempre pieni. Diventati ricchi, Alina e Giacomo si erano trasferiti, insieme a Nero, in una grande villa con giardino a Mesola. La casa di Val Nebbiosa era stata trasformata in uno studio cinematografico: il piano terra fungeva da teatro di posa per le scene in interno, il primo piano accoglieva gli uffici, i camerini per gli attori e un paio di camere da letto, fra cui anche quella di Giacomo e Alina, e in soffitta venivano stipate le attrezzature e i materiali necessari alle riprese. «Allora chi dorme qui, stanotte?» domandò Ambrogio. «Io e Giacomo nella nostra camera. Tu, Lunetta e Valentina nella seconda stanza. Se però preferisci dormire da solo, posso telefonare all’albergo e sentire se ci sono ancora camere libere.» «No, no. A me sta bene. Se le ragazze non hanno problemi…» «Ho parlato con loro stamattina. Sia Luna che Valentina sono d’accordo nel dividere la stanza con te. Dai, porta su la valigia. La strada la conosci, no?» Mentre saliva le scale, i ricordi avvolsero Ambrogio come in una nuvola. In quella casa aveva trascorso alcuni dei momenti più belli della sua vita e adesso avrebbe rivisto i ragazzi della vecchia banda. Ma, soprattutto, avrebbe rivisto Luna, la donna di cui si era innamorato a quindici anni e che non aveva mai smesso di amare. Come Alina aveva previsto, nel 1978 la Banda Bassetti si era sciolta e negli anni successivi i ragazzi avevano preso strade diverse: finito il collegio, Tina era rimasta a Torino, prima nella casa degli zii e poi in un appartamento preso in affitto insieme a una ragazza più grande amica di Anna; Gegia si era trasferita in Spagna con il padre e non era più tornata in Italia; Ceci aveva smesso di studiare anzitempo ed era andata a vivere a Milano con la madre, dopo che lei si era separata dal marito; Edo, dopo aver conseguito la maturità scientifica, si era iscritto all’Università di Venezia, Facoltà di Architettura; Tommy non era riuscito a prendere il diploma di cuoco ed era andato a fare l’operaio agricolo in
un’azienda di Rovigo; Jack aveva conseguito il diploma da elettricista, anche se con un po’ di fatica, e aveva aperto la sua officina di elettrauto a Comacchio; Lunetta aveva finito il Liceo Scientifico ed era partita per l’India; Brogio, ottenuto il diploma, si era iscritto all’Università di Ferrara, Facoltà di Lettere e Filosofia. Nel 1978 Lunetta e Ambrogio si erano messi di nuovo insieme, ma la loro storia non era mai decollata. Erano andati avanti a singhiozzo per un paio d’anni: si lasciavano – cioè lei lasciava lui – poi tornavano insieme, e poi si lasciavano ancora. In quel periodo Lunetta viveva in un mondo tutto suo, fatto di sogni e bizzarre fantasie, e quando stavano insieme Ambrogio sentiva che lei aveva la testa da un’altra parte. Lei diceva di amarlo, pomiciava con lui, ma senza mai decidersi a fare sesso, e aveva sempre la testa fra le nuvole. All’inizio Ambrogio aveva pensato che lei avesse un altro, ma poi aveva capito che non era quello il problema. Lunetta si sentiva insoddisfatta della sua vita e la riteneva troppo povera di stimoli. Ambrogio era convinto che fossero i sogni di un’adolescente irrequieta e che presto le sarebbe ata. E invece, appena finite le superiori, Luna si era concessa a Brogio e aveva fatto l’amore con lui, per la prima volta, e il giorno dopo aveva riempito lo zaino con poche cose, se l’era buttato sulle spalle ed era sparita senza dirgli niente. In seguito, Brogio aveva saputo da Cosimo che Luna si era trasferita in India, ad Auroville, la Città dell’Aurora dove, secondo quanto lei stessa aveva scritto al padre, “uomini e donne di ogni nazione, di ogni credo, di ogni tendenza politica possono vivere in pace e in armonia al fine di realizzare l’unità del genere umano”. Dopo essersi laureato in filosofia, Ambrogio aveva trovato lavoro come giornalista al Resto del Carlino di Bologna e aveva iniziato a girare il mondo. Era stato anche sposato, ma aveva divorziato dopo i proverbiali sette anni. Ora abitava a Bologna, era single, non aveva figli e, pur lavorando ancora al giornale, viaggiava molto meno di un tempo. Dopo il matrimonio aveva avuto varie storie sentimentali, ma tutte brevi e di scarsa importanza. Non aveva mai smesso di amare Luna, e non aveva mai amato nessuna come lei, nemmeno la moglie. Alina e Giacomo avevano appena finito di girare un film, e avevano pensato di proiettare l’anteprima quella sera stessa dopo cena. Ambrogio non era un amante del genere porno e non aveva visto nessuno dei film con protagonisti Giacomo e
Alina, tuttavia era curioso di vedere all’opera i due amici, soprattutto Alina. In merito al tema del film, sapeva solo che era ispirato a un vecchio musical degli anni Settanta, The Rocky Horror Picture Show, ma non conosceva i dettagli. Ambrogio era al primo piano quando udì il rumore di pneumatici che scricchiolavano sulla ghiaia. Guardò fuori dalla finestra e vide una macchina scura che si affiancava alla sua e parcheggiava nello spiazzo. Dall’auto scesero due donne: una aveva i capelli rosso fiamma ed era alta e magra, l’altra era un po’ più bassa e rotondetta e aveva i capelli neri raccolti in uno chignon: Cecilia Boniver e Francisca Luiz Serrano erano arrivate. «Ciao, Alina» esclamò Cecilia entrando in casa e andando ad abbracciare la vecchia amica. Anche Gegia abbracciò Alina e le consegnò un mazzo di rose rosse e un pacchetto, regalo di nozze suo e di Cecilia. Poi vide Ambrogio che scendeva le scale. «Ciao… aspetta… tu sei Brogio! Cacchio, come sei cambiato! Quasi non ti riconoscevo. Hai tutti i capelli grigi e una bella stempiatura davanti. Però sei ancora carino, dai.» «Ciao, Ceci. Ciao, Gegia. Voi, invece, non siete cambiate affatto. Siete ancora bellissime.» «Uh, come siamo galanti!» esclamò Cecilia. «Dai, fatti abbracciare.» Dopo i convenevoli di rito, gli amici si sedettero in un angolo dello studio arredato come un salotto. Alina ringraziò le donne per il regalo – un bracciale d’argento – e disse che andava su al primo piano a preparare un po’ di tè. Mentre Alina saliva, Ambrogio notò che il vecchio montascale per disabili costruito da Nero era stato sostituito da uno nuovo molto più comodo e funzionale. «Raccontatemi un po’ di voi, ragazze» attaccò Ambrogio. «Dove vivete, adesso? E cosa fate di bello?» Francisca abitava a Madrid, era felicemente sposata ed era stata una ballerina di flamenco, anche piuttosto brava. Purtroppo, a cinquant’anni anni suonati non si poteva più permettere di fare la ballerina di professione. Ballava ancora, ma solo per divertimento. Dal punto di vista economico, lei e suo marito stavano attraversando un periodo nero – suo marito era stato licenziato da poco – e quindi era venuta al ricevimento solo lei. All’inizio aveva pensato di non venire,
ma suo marito aveva insistito molto: anche se non navigavano nell’oro, un viaggio in Italia per una persona potevano ancora permetterselo. Cecilia abitava a Milano. Si era trasferita nella città della Madonnina molto giovane e aveva intrapreso la carriera di showgirl televisiva. Aveva cominciato nelle tv private meno note, ed era riuscita, “per una vera botta di culo”, ad approdare al famoso programma Colpo Grosso in veste di mascherina. Quello era stato il periodo più bello della sua carriera, purtroppo era durato poco. Poi aveva fatto un sacco di altri mestieri, tutti più o meno squallidi, compresa la escort di lusso. Non si era mai sposata, ma aveva avuto un sacco di amanti, per lo più ricchi. Per anni aveva vissuto come mantenuta, ma non era mai stata una battona, nel senso che non aveva mai battuto il marciapiede. Da circa un anno aveva deciso di “appendere le mutande al chiodo”, cioè aveva deciso di smettere. Il linguaggio e i modi di Cecilia erano piuttosto rozzi, ma Ambrogio fece finta di nulla e si sforzò di sorridere. Ceci era sempre stata una ragazza tanto bella quanto poco intelligente. Ancora adesso, il suo corpo da cinquantenne era splendido, e il viso, incorniciato da capelli fiammanti, che a sentir lei non erano affatto tinti, molto grazioso. Era una donna matura, ma Brogio ci sarebbe andato a letto volentieri. In quel momento si udì il suono di un clacson. Alina, che nel frattempo aveva raggiunto gli altri, disse che Giacomo era tornato e andò ad aprire la porta d’ingresso: Jack, Edo e un terzo uomo entrarono in casa. Erano ati venticinque anni da quando Ambrogio l’aveva visto l’ultima volta, ma Giacomo era cambiato pochissimo: era un po’ più robusto e aveva qualche ruga in più sotto gli occhi, ma la fisionomia di fondo era la stessa di quando si era sposato. Grazie al fatto di non avere peli in nessuna parte del corpo la sua età era pressoché indefinibile. Quando era ragazzo sembrava già adulto e ora, arrivato al mezzo secolo di vita, pareva un giovane sbarbatello. Edoardo, invece, era cambiato moltissimo: aveva perso quasi tutti i capelli, e i pochi rimasti erano bianchi o grigi; portava gli occhiali, aveva il doppio mento e aveva messo su una bella pancetta. Dimostrava più dei suoi cinquant’anni, e assomigliava ancora a Johnny Dorelli, ma più a quello attuale che al giovane protagonista di Dorellik. Il suo compagno, Riccardo, era anche più grasso di lui, ma il volto rubizzo e gli occhi vispi gli davano un’aria da giovanotto. Se Giacomo non gli avesse detto
che Riccardo aveva un anno meno di Alina, Ambrogio avrebbe pensato che quell’uomo fosse parecchio più giovane di Edoardo. Questa impressione era rafforzata dal fatto che Riccardo aveva ancora tutti i suoi capelli in testa, neri come l’ebano, ma probabilmente il colore non era naturale. Giacomo e Edoardo abbracciarono Ambrogio e gli presentarono Riccardo. «Allora, Jack Bald, cosa mi dici del tuo ultimo film?» domandò Ambrogio. «Mancano ancora tre invitati, Brogio. Quando ci saremo tutti, vi dettaglierò sulla nostra ultima fatica.» Gli amici presero a chiacchierare del più e del meno. Edoardo raccontò quello che aveva fatto negli ultimi trent’anni: si era laureato all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, dove aveva conosciuto Riccardo, e insieme a lui, dopo la laurea, aveva fondato un’agenzia di moda, cinema e spettacolo. Unendo i cognomi dei due soci – Riccardo Rosi e Edoardo Spina – l’agenzia era stata chiamata Rosaspina International Agency ed era diventata famosa come Agenzia Rosaspina. La gavetta era stata dura, e se non fosse stato per la morte di una zia di Riccardo – ricca signora, nubile e senza eredi diretti, dell’alta borghesia veneziana – e la conseguente eredità, probabilmente i due giovani architetti avrebbero dovuto chiudere l’agenzia e cercarsi un altro lavoro. Le cose avevano cominciato a girare per il verso giusto quando Edoardo e Riccardo avevano avuto la bella pensata di produrre film pornografici e avevano proposto ad Alina e consorte di diventare porno divi. Il successo strepitoso della coppia Sukia Dragomic e Jack Bald aveva cambiato la vita di tutti quanti. In quel mentre qualcuno suonò alla porta. Giacomo andò ad aprire e gli ultimi tre invitati – Lunetta e Tommaso Schioppa e Valentina Sasso – entrarono in casa. Tommy aveva con sé un piccolo trolley, Luna aveva uno zainetto sulle spalle, mentre il bagaglio di Valentina più che una valigia sembrava un baule. Dopo aver appoggiato le borse sul pavimento, i tre andarono verso gli amici per abbracciarli e salutarli. Quando fu davanti ad Ambrogio, Lunetta lo guardò senza dire nulla. Nel suo sguardo e nel suo silenzio c’era molto più di un semplice “Ciao, come stai?”. Gli occhi lucidi che lo fissavano non erano quelli di una vecchia amica persa di vista da lungo tempo, ma quelli dell’adolescente che in un tempo lontano l’aveva amato, e che forse un po’ l’amava ancora. Dopo un attimo, che ad Ambrogio sembrò un secolo e gli riportò alla mente i ricordi più belli della loro breve storia
d’amore, Lunetta lo abbracciò forte e gli diede un bacio sulla guancia. Appena Luna si staccò da lui, l’incantesimo svanì: Valentina prese sottobraccio l’amica e si riappropriò di lei. Dopodiché, accompagnate da Alina e aiutate da Giacomo, le due donne salirono le scale per portare su i bagagli. Prima di scomparire, Lunetta si voltò indietro e lanciò un’occhiata strana ad Ambrogio. Quella notte avrebbero dormito nella stessa stanza, se solo non ci fosse stata Valentina fra i piedi… «Ma cosa c’ha messo, Tina, in quella valigia enorme?» domandò Cecilia. «Immagino che siano vestiti» rispose Tommaso. «Valentina ha un laboratorio di sartoria a Torino, e credo che Edoardo le abbia chiesto di portargli qualche campione. Comunque, quando viaggia, Tina si porta sempre dietro un sacco di roba. Ha una valigia anche più grande di quella.» Tommy aveva superato i cinquanta, ma anche lui, come Giacomo e Riccardo, aveva un viso da eterno ragazzo. La testa era ancora piena di capelli, solo un po’ ingrigiti, e la barba color sale e pepe, lasciata un po’ incolta, incorniciava un bel viso rotondo. Adesso la corporatura robusta, il collo taurino e un testone enorme lo facevano assomigliare più ad Adriano Pappalardo che a Bud Spencer. Tommaso raccontò che aveva fatto molti mestieri e che da alcuni anni faceva il camionista ed era spesso in giro per l’Europa. Non si era mai sposato e il suo hobby preferito era andare con le prostitute. Raramente andava con la prima che capitava, e aveva una sua lista di preferite in ognuna delle città in cui solitamente faceva sosta. Prima di partire fissava tutti gli appuntamenti e nelle varie tappe del viaggio trovava già il letto pronto e l’amichetta disponibile. «Metà del mio guadagno mi va letteralmente a puttane» concluse Tommy con un sorriso idiota sulla faccia. Nessuno replicò. «E Tina la vedi spesso?» domandò Ambrogio per rompere il silenzio imbarazzato che si era creato. «Sì, quando è in Italia, Lunetta va sempre a trovarla. E qualche volta l’accompagno anch’io.» «È vero che è ricca?» domandò Francisca con l’aria di chi muore d’invidia.
«Oh, sì. Molto ricca.» «E molto lesbica» aggiunse Jack mentre raggiungeva gli amici. «Non essere scortese con gli ospiti» lo rimproverò Alina scendendo dal montascale. «Valentina è innamorata persa della sua attuale compagna. Si chiama Monica ed è una bisex. Qualche anno fa ebbe una storia con un uomo. Valentina le fece una tremenda scenata di gelosia e tentò perfino il suicidio. Lunetta era tornata da poco dall’India e andò a trovarla. È stata lei a raccontarmi la storia.» «E di Lunetta cosa sai?» chiese Ambrogio. «Poco o niente. So che si era messa con un musicista, ma adesso è single. Ha vissuto molti anni in India e in America, e non ha mai avuto figli. Non so altro.» «Comunque, mi sembra di capire che nessuno di noi ha figli» azzardò Cecilia. «Dico bene?» Tutti annuirono. Ambrogio rivelò che lui e sua moglie avevano provato a fare un figlio, ma non era venuto. Poi erano entrati in crisi e si erano separati, e a lui era ata la voglia di avere figli. Francisca raccontò che a lei, invece, sarebbe piaciuto avere un figlio, ma che aveva sempre rimandato, prima per il lavoro, poi per la crisi economica. Alla fine, senza lavoro e senza soldi, aveva riunciato del tutto. Cecilia confidò agli altri che lei una volta era rimasta incinta, ma aveva abortito. Non sapeva nemmeno chi fosse il padre e non aveva nessuna voglia di allevare un figlio bastardo. Alina affermò che lei era sterile, per fortuna. Col mestiere che faceva non poteva permettersi figli, e non aveva mai pensato di adottarne uno. Edoardo e Riccardo la pensavano allo stesso modo, e non solo non volevano adottare figli, ma nessuno dei due si sarebbe mai sottosposto a inseminazione artificiale. Alla battuta di Edo tutti risero. Valentina e Lunetta, che erano appena scese, colsero solo l’ultima parte del discorso di Edoardo. «Chi sarebbe che non vuole fare l’inseminazione artificiale?» chiese Lunetta. «Io» rispose Edoardo. «Mi ci vedi nei panni di Arnold Schwarzenegger?» «Perché, Schwarzenegger ha fatto l’inseminazione artificiale?» domandò Cecilia in tono serio.
Tutti scoppiarono a ridere. «Ma no, signorina, Edoardo si riferiva a un film» precisò Riccardo. «Un film, molto divertente, in cui Schwarzenegger si sottopone a un esperimento e rimane incinto. Si intitola Junior. Credo di avere il dvd su in soffitta. Se viene su con me, glielo regalo.» «Che fai, mi dai del lei? E poi, scusa, tu non eri gay? Perché vuoi che salga su con te in soffitta?» Di nuovo tutti giù a ridere.
Il pomeriggio ò in fretta. Gli amici scherzarono e chiacchierarono fino alle sette di sera riesumando vecchie storie. Nonostante l’insistenza di Tommaso, Giacomo non volle sbottonarsi sul film che lui e Alina avevano appena finito di girare: lo avrebbero visto dopo cena e poi, tutti insieme, avrebbero avviato un bel dibattito. Quella sera avrebbero cenato nello studio cinematografico. Antonia, la loro domestica, era venuta apposta da Mesola, accompagnata dal marito Giovanni, che lavorava anche lui a casa di Giacomo e Alina in qualità di giardiniere e chauffeur, per preparare la cena e il banchetto del giorno dopo. Nero Fastu, ormai quasi ottantenne, era rimasto a casa, ma aveva promesso che sarebbe stato presente al banchetto. Giacomo dichiarò che la cena sarebbe stata servita alle otto e che, se qualcuno voleva farsi un bagno o riposarsi un po’ in camera, quello era il momento buono. Il dopocena sarebbe stato dedicato alla proiezione del film e alla discussione che ne sarebbe seguita. Gli amici si salutarono, si diedero appuntamento alle otto giù nel salone e salirono ai piani superiori. Lunetta, Valentina e Ambrogio andarono nella camera degli ospiti; Francisca e Cecilia potevano usare la camera di Alina; Edoardo e Riccardo per quella volta si sarebbero accontentati della soffitta; Tommaso disse che non era stanco e sarebbe rimasto giù a far compagnia ai padroni di casa. Dopo cena, mentre Antonia e Giovanni sparecchiavano la tavola, il gruppo di amici si accomodò in un angolo dello studio cinematografico, già in parte arredato a mò di salotto, per un drink. Edoardo esordì raccontando com’era nata l’idea del film e il motivo per cui lui e Riccardo avevano ingaggiato attori non
professionisti. Con l’avvento di Internet e del digitale, il cinema tradizionale aveva subito un colpo durissimo ed era entrato in crisi, e per il mercato del porno la crisi era stata profonda. Gli incassi delle case cinematografiche si erano ridotti drasticamente e molte società avevano chiuso i battenti o stavano per farlo. Ai due titolari dell’Agenzia Rosaspina rimaneva una sola alternativa, e cioè chiudere bottega e cambiare mestiere oppure modificare l’offerta: non più pellicole costose con attori strapagati, ma film originali con interpreti dilettanti. L’operazione era comunque rischiosa, ma puntare su un prodotto innovativo poteva salvarli dal fallimento, ovviamente se andava bene. Edoardo era fiducioso, Riccardo un po’ meno, ma aveva deciso che valeva la pena fare un tentativo. Alina era rimasta entusiasta dell’idea e ne aveva parlato con Giacomo, e alla fine i quattro avevano deciso di buttarsi insieme nell’impresa. Negli ultimi tempi avevano preso piede i video porno amatoriali: la gente filmava le proprie performance erotiche in camera da letto e realizzava filmini in streaming da vendere attraverso il web. L’Agenzia Rosaspina avrebbe prodotto film hard di buon livello destinati alle sale cinematografiche, ma utilizzando attori non professionisti – operai, casalinghe, camionisti, imprenditori, giornalisti – ossia una via di mezzo fra il video amatoriale e il cinema d’essai in versione hard. Non ci sarebbe stata la ressa al botteghino come ai tempi d’oro di Jack Bald e Sukia Dragomic, ma ci si poteva ritagliare una buona fetta di mercato, soprattutto nei paesi dell’est. «Ma perché avete scelto proprio The Rocky Horror Picture Show per questo… possiamo definirlo esperimento?» domandò Ambrogio. «Quello è un musical, non un film porno.» «Il nostro film si ispira al musical degli anni Settanta, ma non è proprio la stessa cosa» rispose Riccardo. «La vicenda è ambientata a Venezia, in una casa signorile che sorge su un isolotto della laguna. Abbiamo girato gli interni qui, poi ci siamo trasferiti a Venezia per qualche settimana per girare gli esterni. Pur assomigliando all’originale, il nostro film è una specie di parodia in chiave hard.» «Ma l’hanno già fatta una parodia hard di quel film» dichiarò Tommaso. «Lo so perché l’ho visto qualche anno fa in Germania.» «È vero» confermò Riccardo. «Si intitola Rocky Porno Video Show ed è una pellicola del 1986. Una vera puttanata. Lasciatelo dire a uno che se ne intende. Il
nostro film è molto diverso e un milione di volte migliore di quella porcheria. La nostra opera piacerà molto ai giovani e attirerà il pubblico femminile.» «Ma… è un film musicale?» chiese Francisca. «Non proprio. Nel film c’è una bellissima colonna sonora, ma non è un vero musical.» «Peccato.» «Come fai a dire che attirerà il pubblico femminile?» domandò Lunetta. «Alle donne non piacciono i film porno.» «Questo non è del tutto vero. Anche alle donne piace il porno, se è fatto bene. Quello che le donne detestano è la volgarità e la mancanza di stile. Ci sono registe donne, molto brave, che fanno film porno espressamente per il pubblico femminile. La migliore, secondo me, è Erika Lust. Ma potrei citare anche Emilie Jouvet e Kimberly Kane. E ci sono anche registi maschi che fanno film hard di grande raffinatezza. Il più bravo è certamente l’americano Andrew Blake. Più che pornografici, i film di questi registi si possono definire erotici con scene di sesso esplicito. Quello che abbiamo realizzato noi è qualcosa di simile: un film erotico, con molta musica e numerose scene di sesso. Ma non il sesso rozzo dei vecchi film porno anni Ottanta. Il nostro è un erotismo colto e raffinato, assolutamente non volgare. Abbiamo puntato molto sull’estetica e sui contenuti: la vicenda ha un ruolo centrale nel film, mentre le scene di sesso sono solo un corollario piccante alla storia.» «Detta così, sembra interessante» fece Valentina. «Ci puoi riassumere la trama?» «No, aspetta» si intromise Francisca. «Parlaci prima della colonna sonora. Sono brani inediti o presi dal musical originale?» «Assolutamente inediti e composti appositamente per questo film. I brani sono stati eseguiti da un gruppo rock femminile di Chioggia. Cinque ragazze bravissime che hanno studiato al Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia. Producono un rock sinfonico molto suggestivo che si ispira un po’ al synth-pop di Jean Michel Jarre e un po’ alla musica barocca dei Rondò Veneziano. Una di loro è anche vocalist, e oltre che suonare il violino, canta. Ed è anche molto brava.»
«Scusa, ma… e il titolo del film?» domandò Ambrogio. «Ah, giusto. Non ve l’ho ancora detto. Il film si intitola Rocco Horror Erotic Show. Il titolo richiama il musical originale di Jim Sharman, tuttavia, essendo ambientato a Venezia, abbiamo cambiato i nomi di tutti i personaggi. Frank-NFurter, lo scienziato extraterrestre e transessuale, si chiama Franco Staino, nome che evoca il dottor Frankenstein. Rocky, la creatura costruita in laboratorio, si chiama Rocco ed è interpretato da Jack Bald. Brad e Janet, i due fidanzati, diventano Brando e Gianna. Riff-Raff, il maggiordomo, si trasforma in una governante di nome Raffa, diminutivo di Raffaella. Poi ci sono le due cameriere, Magenta e Columbia, che prendono i nomi di Viola e Colombina. Eddie, il motociclista, si chiama Edo. Ma l’attore, ovviamente, non è il nostro Edoardo. Il dottor Von Scott diventa una donna e prende il nome di dottoressa Scotti. Abbiamo fatto questa scelta perché Von Scott è l’unico personaggio in carrozzina. E immagino avrete capito che la dottoressa Scotti è interpretata da Alina. Infine c’è il Criminologo, il personaggio che racconta le vicende del film, che diventa il Narratore.» «E adesso possiamo vederlo, questo film?» domando Tommaso. «Certo. Venite, andiamo a sederci di là. In fondo al salone abbiamo allestito una saletta per proiezioni. È piccola, ma la faremo bastare.»
Il film durò circa un’ora e mezza, e come aveva previsto Riccardo piacque anche alle donne, seppure con qualche distinguo. Al termine della proiezione, Gegia appariva in leggero imbarazzo, mentre Ceci, Tina e Luna sembravano divertite. Alla fine, comunque, scoppiò un caloroso applauso a cui si unì anche Gegia. «Tutte le scene di sesso che avete visto nel film erano reali» spiegò Edoardo. «Ma come avrete notato, la telecamera non ha mai indugiato sui genitali. Le riprese sono state fatte per lo più in campo totale o in campo medio, e le riprese ravvicinate hanno inquadrando più la pelle sudata e le espressioni del viso piuttosto che le parti intime. Il regista, poi, è stato categorico su una cosa: tutti i rapporti sessuali dovevano essere protetti.» «A proposito» intervenne Lunetta. «Non ci hai ancora detto chi è il regista. Un uomo o una donna?»
«Una donna» rispose Edoardo. «Si chiama Alina Fastu.» La sorpresa fu grande, ma dopo il primo momento di stupore tutti si alzarono per congratularsi con lei. Alina spiegò che negli ultimi anni, tra un film e l’altro aveva avuto il tempo di seguire un corso di regia presso l’Accademia Nazionale del Cinema di Bologna. Quello era stato il suo primo film come regista e il suo ultimo come attrice. Se le cose fossero andate bene e l’Agenzia Rosaspina fosse rimasta aperta, lei avrebbe smesso di fare la porno star e si sarebbe dedicata unicamente alla regia. «Fare l’attrice porno è divertente» concluse Alina. «Ma vi assicuro che è anche una fatica bestiale. Soprattutto per una paralitica ultra cinquantenne.» A quel punto Edoardo invitò gli amici ad aprire una discussione sul film e a commentare con schiettezza l’opera. Lunetta era seduta nelle file dietro, un po’ in disparte. Ambrogio approfittò del fatto che gli altri dedicavano tutta la loro attenzione al dibattito appena iniziato e si sedette accanto a lei. «Non credevo che saresti venuta. Pensavo che fossi ancora in giro per il mondo.» «Infatti ero negli Stati Uniti. All’inizio avevo declinato l’invito, poi ho pensato che qualcuno ci sarebbe rimasto male se non fossi venuta e… eccomi qui. E tu non vai più in giro per il mondo?» «Molto meno che in ato. In questo periodo sono a Bologna. Nemmeno io volevo venire. Troppi ricordi mi legano a questo posto, e non tutti piacevoli. Poi, però, ho cambiato idea. Ma non l’ho fatto per Giacomo, e nemmeno per Alina. Ho deciso solo ieri di venire, quando ho saputo che c’eri anche tu.» Lunetta rimase colpita dalla schiettezza di Ambrogio. «L’hai fatto per me? Perché?» «Perché, nonostante tutto, sono ancora innamorato di te. Non ho mai smesso di amarti, nemmeno quando ero sposato. Forse è per quello che il mio matrimonio è andato a rotoli: pensavo troppo a te e troppo poco a mia moglie.» «Ambrogio, io ho cinquant’anni suonati. Il mio viso è pieno di rughe e…»
«Lunetta, tu sei ancora talmente bella che… sì, un po’ mi intimidisci. Non so nemmeno io come ho fatto a trovare il coraggio di dirti queste cose.» Lunetta aspettò qualche secondo prima di rispondere. Quando lo fece, guardò Ambrogio dritto negli occhi e gli sorrise. «Sei sempre stato un timido. Forse è proprio questo che mi piaceva di te. Solo che tu eri troppo normale per me. E io troppo matta. Mi sono detta: “non può funzionare”. E allora sono scappata. Ma prima di andarmene ti ho donato la mia verginità: è stato il mio regalo di addio. Adesso, però, sono cambiata. Sono una persona matura, e i grilli che avevo in testa se ne sono andati via tutti. Mi sono tolta il basco e ho liberato i grilli.» Lunetta prese le mani di Ambrogio fra le sue e aggiunse: «Devo confessarti una cosa: nemmeno io sono qui per Giacomo e Alina. Non sono venuta per vedere quello stupido film, e nemmeno per le nozze d’argento delle due star. Sono venuta qui per il tuo stesso motivo: perché sapevo che c’eri tu. Ho saputo che non eri più sposato e speravo che tu non mi avessi dimenticata e mi desiderassi ancora.» Ambrogio strinse forte le mani di Lunetta e subito dopo gli vennero in mente i Maya. Secondo un’antica profezia Maya, il mondo sarebbe finito il 21 dicembre 2012, ossia l’indomani. Ambrogio non aveva mai creduto a quelle scemenze, ma quella sera il dubbio si insinuò nella sua mente. E se i Maya avessero avuto ragione? Se il mondo fosse finito davvero entro poche ore? Beh, a lui non importava più. Lunetta era tornata e solo quello contava. Gli rimanevano poche ore da vivere? Ebbene, adesso sapeva come avrebbe trascorso il poco tempo che gli rimaneva: facendo l’amore con Luna. L’avrebbe amata fin che poteva e poi sarebbe morto felice. E se i Maya si fossero sbagliati, tanto meglio: avrebbe diviso con lei il resto dell’esistenza. Adesso rimaneva solo un problema da risolvere: dove appartarsi con Luna? Quella notte Valentina avrebbe diviso la stanza con loro due; in soffitta sarebbero andati Edoardo e Riccardo; la seconda camera da letto era destinata a Giacomo e Alina; al piano terra sarebbero rimasti Antonia e suo marito; fuori faceva troppo freddo e in bagno ci sarebbe stato un gran via vai, visto il gran bere che si era fatto. Ma era sicuro che alla fine qualcosa avrebbe escogitato.
Dopo aver accompagnato gli amici che dormivano in hotel, Giacomo era tornato a casa ed era andato a coricarsi con Alina. Gli altri erano già tutti nelle loro stanze. Ambrogio, Lunetta e Valentina si erano sistemati nella camera degli ospiti. Le due donne dormivano in due letti singoli, Ambrogio si era messo su un divano letto. Aveva pensato e ripensato, ma non era ancora riuscito a risolvere il problema. Qualcuno nel buio cominciò a russare e ad Ambrogio prese il panico: se era Luna che russava, era fregato. Poi sentì la coperta di lana che si sollevava, e un corpo nudo che si infilava nel suo letto e lo abbracciava. Le labbra di Lunetta e il dolce profumo della sua pelle gli fecero dimenticare tutte le preoccupazioni presenti e ate: la ricerca di un luogo dove appartarsi, Valentina che dormiva lì accanto e che poteva svegliarsi, il divorzio, i litigi con la moglie, il figlio che non era mai arrivato, le tante amanti avute e mai veramente amate, gli anni trascorsi nel ricordo di Luna e nel rimorso per non averla mai cercata, la fuga di Lunetta con uno sconosciuto. Nulla di ciò che lo aveva angustiato negli ultimi trent’anni aveva più importanza. Le uniche cose che contavano in quel momento erano il dolce profumo dell’amata, la sua pelle morbida, i suoi baci apionati, i sospiri, i gemiti, le grida di piacere… «Lunetta, non gridare» bisbigliò Ambrogio. «Se Valentina si sveglia…» «Non si sveglia» ansimò Luna. «Ha preso un sonnifero. Dai, ti prego, stringimi!» I grugniti di lui si confo con i sospiri di lei e l’odore di sudore si mischiò al profumo di muschio bianco. L’amplesso fu più breve di quanto Brogio avesse sperato. Madido di sudore, si abbandonò come morto sul corpo di Lunetta e decise che sarebbe rimasto in quella posizione tutta la notte. Avrebbe atteso lì la fine del mondo. Ma Luna si staccò da lui con gesti garbati e scivolò silenziosa in bagno. Dopo un paio di minuti tornò nel letto, si tirò addosso la coperta e si aggrappò al suo uomo come l’edera si avvinghia a un tronco d’albero. Lunetta avrebbe voluto fare ancora l’amore, ma Ambrogio le disse che non era più un ragazzino e aveva bisogno di una pausa. «Altrimenti mi tocca fare una figuraccia.» Lunetta scoppiò a ridere. Lui la zittì con un bacio e corse in bagno. Quando tornò nel letto, lei gli accarezzò il viso e appoggiò la testa sul suo petto. «Cacchio, come batte forte! Spero che non ti venga un infarto.»
«Lo spero anch’io. Comunque, non sono più un giovinetto, ma nemmeno così decrepito. Il mio cuore non sta battendo forte per lo sforzo, ma per l’emozione di averti accanto.» Lunetta sorrise e si avvinghiò di nuovo a lui. «Vuoi sapere una cosa curiosa che mi ha raccontato Alina? Hai presente le mele acerbe, quelle sul camino della casa?» «Le mele dipinte da Torello? Sì, ci sono ancora. Le ho viste quando sono arrivato.» «Non sono mele.» «Ah no? E cosa sono?» «Due cuori. Sembrano mele, soprattutto viste da lontano, perché sono verdi. Ma sono due cuori. Quando hanno restaurato la casa, Giacomo è salito sul tetto e li ha visti da vicino.» «E le foglie?» «Non sono foglie: sono due frecce che trafiggono i cuori. E hai presente quelle che sembravano due macchie scure al centro delle mele? Tutti pensavano che Torello avesse lasciato dei vuoti perché aveva finito la vernice, invece sono due lettere. Da sotto non si riconoscono, ma sono una “T” e una “E”. La “T” sta sicuramente per Torello. Ma non si sa chi fosse la “E”. Probabilmente era la sua ragazza, ma nessuno ne sa niente.» «Perché mi racconti questa cosa?» «Mah… così. Mi è venuta in mente ascoltando il tuo cuore. Ma non è importante, era solo per parlare un po’, per lasciarti il tempo di riprendere fiato prima di…» Lunetta non terminò la frase. Ambrogiò si stese ancora sopra di lei e riprese a baciarla. Ma non fu solo il risveglio del desiderio a spingerlo: Brogio aveva intravisto qualcosa nel buio che prendeva forma sopra la sua testa, qualcosa di evanescente che piano piano si materializzava assumendo sembianze umane. Dopo trentacinque anni, Evelina e Torello erano tornati. Ambrogio decise di
ignorarli. Non gli interessava più sapere se fossero reali o un prodotto della sua mente. In quel momento i due fantasmi erano l’ultimo dei suoi pensieri.
Dopo il pranzo di nozze, durato fino alle quattro del pomeriggio, gli ospiti si erano dispersi: Giacomo aveva accompagnato Edoardo e Riccardo ad Adria; Cecilia e Francisca erano partite insieme a loro; Valentina e Tommaso erano giù al primo piano con Alina. Quando Lunetta e Ambrogio salirono in soffitta, Antonia e Giovanni stavano ancora sparecchiando la tavola. Nella soffitta c’era di tutto: un paio di brandine, un divano, un armadio, poltroncine, sedie, vestiti, matasse di cavi elettrici, lampade, faretti e mille altre cianfrusaglie. «Vieni» disse Ambrogio prendendo la mano di Lunetta e zigzagando fra casse, bauli e stender da cui pendevano variopinti costumi di scena. «Sediamoci su quel divano.» «Non ho ancora capito perché hai voluto portarmi quassù» brontolò Lunetta. «E si può sapere cosa diavolo c’è in quella borsa che ti sei portato dietro?» «Voglio farti vedere una cosa» rispose Ambrogio sedendosi sul divano e invitando Lunetta ad accomodarsi accanto a lui. Nove anni prima, la casa dove Ambrogio aveva vissuto da ragazzo era stata venduta. Girolamo e Caterina, ormai pensionati, si erano trasferiti a Copparo in un condominio dove abitava anche un cugino di Girolamo. Prima di fare il trasloco, i Bassetti avevano venduto tutta la roba che era nella soffitta sopra il magazzino, compreso il baule con i libri di Evelina che Ambrogio, dopo averli letti tutti, aveva riportato lassù. Qualche giorno prima che i facchini andassero a prendere i mobili, Brogio era tornato nella vecchia casa di campagna ed era salito in soffitta. Dei libri non gli importava più nulla, ma non voleva che il diario della zia andasse distrutto. Da tempo aveva smesso di credere ai fantasmi, e si era ormai convinto che la perdita di quel diario non avrebbe recato alcun danno a Evelina, tuttavia aveva pensato che non gli costava nulla recuperarlo. Quando era andato a casa di Alina per le nozze d’argento, aveva portato con sé il diario. Ambrogio lo tirò fuori dalla borsa e lo mostrò a Lunetta. «E quello cos’è?»
«Il libro che Nero aveva trovato in cartiera e che noi, trentacinque anni fa, avevamo recuperato. Il diario di mia zia. Non ti ricordi più?» «Il diario? Sì, mi sembra, ma… cavoli! È pieno di figure e di pagine scritte. Una volta le pagine erano vuote. Questi disegni sono bellissimi. Li hai fatti tu?» «No, sono opera di Torello e di zia Evelina. Un tempo erano amanti. Torello aveva usato dell’inchiostro simpatico, in modo che le scritte e i disegni si potessero vedere solo scaldando le pagine. Anni fa ho portato il diario a un restauratore di libri antichi. Non so che sistema abbia usato, comunque è riuscito a rendere permanente il contenuto delle pagine.» «Sono davvero stupendi, questi disegni. E anche molto realistici. Sembra il Kamasutra. Dì un po’, seduttore, mi hai portata qui perché hai voglia di scopare? Dì la verità.» «No» rispose lui di getto. «Cioè… sì, ho voglia di fare l’amore con te, ma non è per quello che ti ho portata qui.» «E allora perché?» Ambrogio alzò il diario in un gesto quasi teatrale. «Tutto è iniziato con questo. Se io, nel 1977, non avessi trovato questo diario in un vecchio baule, probabilmente non avrei mai conosciuto Alina. E se io non l’avessi conosciuta, non sarei venuto qui a festeggiare le sue nozze d’argento. E tu saresti rimasta a New York, o chissà dove. È grazie a questo libro se ti ho ritrovata. Molti anni dopo, ma ti ho ritrovata.» Dagli occhi di Lunetta sgorgarono due lacrime. «Ma non è tutto» proseguì Ambrogio. «Oggi è il 21 dicembre 2012. Molti dicono che entro la mezzanotte di oggi il mondo finirà. Io non ci credo, tuttavia, se per un macabro scherzo del destino questo dovesse accadere veramente, io voglio essere con te. Ho perso metà della mia vita ad aspettarti. Gli ultimi anni, oppure gli ultimi istanti, se così deve essere, voglio trascorrerli insieme a te.» Lunetta scoppiò a piangere e gli buttò le braccia al collo.
Evelina e Torello si materializzarono sopra di loro. I due amanti erano distesi sul sofà, nudi, e il diario di Evelina era aperto sul pavimento. Sulle pagine rosa, ormai sbiadite dal tempo, un disegno azzurro ritraeva due giovani che facevano l’amore sdraiati sopra un divano. «Guarda, Evelina» esclamò Torello. «Hanno preso il nostro posto. Dai, divertiamoci un po’. Facciamoci vedere da Lunetta e spaventiamola. Lei ancora non ci conosce.» «Ma no! Lasciamoli in pace. Verremo un’altra volta a conoscere Lunetta.» «Ma domani andranno via. E se poi non tornano?» «Oh, vedrai che tornano. Qui hanno troppi ricordi. Non si può rinunciare ai propri ricordi: se uno li perde, ha finito di vivere.» Evelina prese sottobraccio Torello e insieme uscirono dalla soffitta attraversando il tetto.