I Segreti Di Spinello m4n9

Indice

Prologo Capitolo I Capitolo II Capitolo III Capitolo IV Capitolo V Capitolo VI Capitolo VII Capitolo VIII Capitolo IX Capitolo X Capitolo XI Capitolo XII Capitolo XIII Capitolo XIV Capitolo XV Capitolo XVI Capitolo XVII

Capitolo XVIII Capitolo XIX Capitolo XX Capitolo XXI Capitolo XXII Capitolo XXIII Capitolo XXIV Capitolo XXV Capitolo XXVI Capitolo XXVII Capitolo XXVIII Capitolo XXIX Epilogo ...Pronto? Ringraziamenti

Tutti i personaggi di quest’opera sono fittizi e qualsiasi somiglianza con persone reali viventi o defunte è puramente casuale. Copyright © 2014 Barbara Mazzotti www.barbaramazzotti.com Youcanprint Self-Publishing Via Roma , 73 - 73039 Tricase (LE) - Italy www.youcanprint.it [email protected] I Edizione Settembre 2014 Immagine di copertina a cura di Franco Vignazia ISBN 9788891166036

I segreti di Spinello Ad Alberto

Prologo Resto del Carlino Spinello, 14 agosto 2004 Incendio presso il Ristorante “al Lago” di Spinello la sera dei festeggiamenti per la conclusione del Trofeo Olimpia. Nell’incidente perde la vita il figlio del sindaco. Erano le 20.30 quando un incendio improvviso è divampato nella pizzeria del ristorante mettendo in fuga tutti i clienti. Fra di loro le giovani promesse del calcio italiano che stavano festeggiando la fine del Trofeo Olimpia, tenuto presso l’omonimo centro sportivo polivalente, famoso per essere frequentato dai talent scout del mondo calcistico. Tra loro era presente anche il figlio del sindaco che purtroppo è rimasto intrappolato nelle fiamme del rogo. Marco Celli aveva solo diciassette anni ed era uno dei calciatori più promettenti della squadra locale. In seguito alla vittoria in finale infatti, era stato contattato per firmare il contratto con una nota squadra di Serie A. Non sono ancora chiare le dinamiche dell’accaduto. La polizia sta già indagando in loco per capire se si tratta di un incidente o di un atto doloso. I funerali si terranno presso la chiesa di Spinello sabato 14 agosto alle ore 15.00. Il sindaco invita tutta la cittadinanza a partecipare. La cerimonia prevederà una piccola processione che partirà dal centro sportivo Olimpia, per commemorare e ricordare le qualità calcistiche del figlio scomparso.

Capitolo I «Hai preso tutto, vero?». «Sì, Cristina: zaino, acqua, scarponi e giacche antivento» rispose Roberto mentre infilava tutto nel portabagagli. «Come al solito partiamo in ritardo. Non ce la faremo mai a essere a Spinello per le undici. Sono già le nove e trequarti e dobbiamo fermarci anche a Santa Sofia». «Pazienza, tanto cosa credi, che gli altri siano puntuali? Lo sai che se la prendono con comodo, soprattutto Pamela e Andrea, che quando c’è da rimanere cinque minuti in più nel letto, non si tirano mai indietro». «È che non mi piace arrivare in ritardo. Poi sarà possibile che ci si debba ritrovare così tardi per andare a fare trekking? Ora che ci salutiamo e sistemiamo le cose in casa, si farà già mezzogiorno». «Hai ragione, ma ricordati che non stiamo andando a fare una delle nostre solite camminate». Cristina salì in macchina e, controllando nuovamente l’orario nel cruscotto, tirò un profondo respiro. «Lo so, lo so, mi devo mettere l’anima in pace. È solo che non vorrei pranzare alle tre del pomeriggio e sprecare il resto della giornata a oziare nel divano davanti alla televisione». «Fidati che mangeremo prima» la rassicurò Roberto. «Quanto credi che durerà la camminata? Se la facciamo di tre quarti d’ora sarà un miracolo. Non ti ricordi che a San Marino Pamela si era dovuta fermare per il fiatone e aveva dato la colpa all’altitudine?». «Già, è vero. Mi ero dimenticata di questa perla di saggezza. Ho capito dai, meglio lasciare perdere e prendere il weekend come viene». Roberto imboccò la tangenziale e accese la radio. «Sai come arrivare a Spinello da Santa Sofia?» chiese Cristina che non era mai

stata da quelle parti. «Credo di sì. Mi sembra di avere letto un cartello in una delle strade che portano alla piazza. Comunque, se non la troviamo, chiederemo a qualcuno». Cristina osservava la strada tenendo il budino al cioccolato sopra le ginocchia per non farlo rovesciare. Il paesaggio attorno era in continua trasformazione. Le mura alte dei condomini e dei palazzi della città stavano gradatamente cedendo il posto agli ampi spazi della campagna. Il cielo era terso. Dopo tanta pioggia finalmente era arrivato un po’ di sole. L’inverno che stava finendo non era stato molto rigido e l’abbondante pioggia degli ultimi mesi aveva reso la terra verde e rigogliosa. Era quasi primavera e nella natura c’era già aria di rinascita. «Non vedo l’ora che finisca l’inverno» disse Cristina mentre abbassava il finestrino per respirare l’aria pulita di campagna. «Non ne posso più delle giornate fredde ate in casa perché fuori non c’è niente da fare». «Adesso che viene il bel tempo dovremmo organizzare qualche scampagnata nel weekend. Potremmo tornare sulle Dolomiti e ripetere le escursioni dell’anno scorso. Ti ricordi la camminata da otto ore fino ai laghi in Val Venosta? Che meraviglia!» disse Roberto con aria compiaciuta. «Sì, mi ricordo magari. Il giorno dopo facevo fatica anche a salire in macchina. Per fortuna era il giorno in cui avevamo deciso di andare alle terme di Merano. Non sarei riuscita a fare neppure un solo metro in quelle condizioni». «Però è stata una figata. Camminare fra le montagne, in mezzo alle mucche e alle capre libere al pascolo. Quanto ci siamo divertiti attaccati a quelle catene nell’ultimo pezzo di ferrata?». Roberto guidava rilassato per le strade di collina ripensando a tutte le gite avventurose che aveva fatto insieme alla moglie. Aver comprato il Vito era la cosa più azzeccata che avessero potuto fare. Il retro del furgone aveva sempre le assi di legno montate e il materasso appoggiato sopra per le partenze dell’ultimo minuto. Tutto era stato studiato nei minimi particolari. C’era un piccolo lavandino a pompa per lavare i piatti, due fornellini da campeggio e un frigorifero portatile connesso alla batteria della macchina. Ovunque fossero andati, sapevano che avrebbero potuto contare sulla loro piccola casa mobile. Divertendosi a ricordare le esperienze più assurde che gli erano capitate, Roberto

e Cristina arono il tempo e giunsero velocemente al paese di Galeata. «Guarda, Cristina, non è la macchina di Lorenzo quella che sta uscendo dal parcheggio?». «Sì, sono loro. Sono Lorenzo e sca». Cristina tirò giù il finestrino e agitò il braccio per salutarli. La macchina dei due amici si rimise in strada proprio dietro alla loro, ma entrambi, nonostante gli sforzi, sembravano non notarli. Cristina gesticolò più animatamente mentre Roberto rallentò per farli avvicinare. Niente da fare, ogni tentativo sembrava essere inutile. Dopo pochi minuti Lorenzo sorò la loro macchina e a tutta velocità proseguì per la sua strada. «Come hanno fatto a non vederci?» si chiese meravigliato Roberto. «Manda un messaggio a sca, così magari rallentano e ci aspettano». «Che scemi» disse Cristina leggendo la risposta sul cellulare. «sca ha detto che non pensavano fossimo noi e che qualcuno stesse facendo loro segno di rallentare perché c’era la polizia». Roberto scosse la testa pensando a quanto fossero imbranati. «Comunque mi ha scritto che ci aspettano su. Ha detto di fare con calma, tanto devono arieggiare un po’ la casa e accendere il riscaldamento». «Ottimo, così riusciamo a fare il giro anche a Santa Sofia» commentò Roberto felice di fare due i nel paesino dove si erano sposati. Quando giunsero in centro, parcheggiarono la macchina nella piazza principale con il muso rivolto verso il fiume. L’acqua limpida scorreva rigogliosa sotto i loro occhi e le paperelle camminavano avanti e indietro lungo il letto del fiume cercando il punto migliore per fare la traversata. Il paese era bello come sempre: suggestivo, romantico e pieno di bei ricordi. Roberto e Cristina attraversarono la strada e raggiunsero il parco dove si erano sposati l’anno prima. Sedendosi su uno dei gradini del vecchio anfiteatro si abbracciarono e ripensarono alla splendida cerimonia. «Facciamo un giro veloce e poi torniamo alla macchina» disse Roberto inerpicandosi fra le grandi querce e gli aceri secolari.

Risalendo il parco arroccato fino alla cima, i due contemplarono il paese dall’alto. I tetti rossi delle case sembravano piccoli quadratini compatti incastrati nella vallata. I rumori della civiltà si disperdevano nell’aria e il cinguettio degli uccelli annunciava senza sosta l’imminente primavera. «Meglio che andiamo, se no rischiamo veramente di essere in ritardo» disse a malincuore Cristina. I due fecero tutta la discesa tenendosi a braccetto. Una volta ritornati alla piazza principale, chiesero con un vecchietto conferma per la direzione e, saltando in macchina, proseguirono dritti verso destinazione.

Capitolo II «Dai, Lorenzo, aiutami a mettere le cose nelle borse, se no facciamo tardi» disse sca mentre afferrava tutto quello che le capitava dal frigorifero. «Te l’avevo detto che era meglio prepararle ieri sera. Non ci saremmo ridotti all’ultimo minuto oggi» rispose lui indispettito. «Se i tuoi non fossero venuti a romperci anche stamattina, saremmo in macchina già da un pezzo». «Sta a vedere che adesso è colpa dei miei genitori solo perché sono saliti un attimo a salutarci». «Che bisogno c’era che venissero? Neanche dovessimo stare via un mese. Dio Santo, andiamo solo a fare un giro a Spinello! È la solita scusa per venirci a controllare e vedere cosa facciamo. Non se ne può più di averli sempre fra i piedi». «Ti ricordo che loro sono i miei genitori e che la casa dove abitiamo e quella su a Spinello è la loro. Dovremmo dire grazie se ci danno la possibilità di are il weekend lassù. Avrebbero potuto volerci andare loro oggi» replicò Lorenzo sempre più seccato. «Ma dai, non farmi ridere. Se non escono mai di casa. L’unico motivo per cui potrebbero volerci andare è per venire a romperci le scatole. Comunque lasciamo perdere, tanto è sempre la stessa storia. Piuttosto, aiutami con queste sporte e inizia a portarle in macchina». Mentre sca stava finendo di parlare però, Lorenzo si era già allontanato per recuperare il portatile e il tablet. «Non vorrai mica guardare le e-mail del lavoro anche là?» commentò incredula sca mentre appoggiava le borse nel portabagagli. «Tu non preoccuparti di quello che faccio io. Tanto non vengo a fare il giro nel bosco. Lo sai che non mi piace camminare».

sca non rispose. Pensò a quanto fosse idiota, ma preferì far cadere la conversazione. Non c’era tempo per discutere anche su quello. Controllò di aver preso tutto una seconda volta e tirò la portiera verso di sé. Per i primi quindici minuti nessuno parlò. Lorenzo guidava, mentre sca controllava la pagina Facebook nel cellulare. «Bisognerà che ci fermiamo in un forno a prendere un po’ di spianata, non credo che il pane che abbiamo sia sufficiente» disse mentre continuava a fissare il telefono. «C’è un forno a Galeata, se vuoi ci fermiamo lì» rispose Lorenzo serio. «Sì, va bene, così prendo un caffè. Ho bisogno di svegliarmi». «Speriamo ci sia abbastanza legna. Mentre voi fate la eggiata, io accendo il camino e sistemo la casa» disse lui addolcendo un pochino il tono della voce. «Va bene, cucciolo. Però mi prometti che quando scendiamo in paese vieni anche tu». Lorenzo fece un cenno con la testa e sca si accontentò della risposta. La tensione fra i due si era allentata e questo era quello che contava. Giunti a Galeata si fermarono al forno e, mentre Lorenzo ordinò la spianata, sca si affrettò al bar per sorseggiare il tanto agognato caffè. Come tutti i giorni sarebbe stato il primo di una lunga serie. Con la sigaretta già in mano cercò di gustarselo senza fretta, ma Lorenzo era già tornato con i sacchetti di pane e faceva cenno di sbrigarsi. Gettò il mozzicone non ancora finito a terra e, calpestandolo alla meno peggio, lo raggiunse alla macchina. Lorenzo uscì dal parcheggio e a tutta velocità si lanciò in un soro azzardato di tre macchine. sca odiava quando faceva così. Non capiva che gusto ci fosse ad andare così forte in una strada piena di curve dove la visibilità era praticamente nulla. Sarebbe probabilmente iniziata l’ennesima discussione se non l’avesse fermata lo squillo del cellulare. Cristina le aveva inviato un messaggio: – Non vi sembra di fare dei sori rischiosi? Vi abbiamo salutati in tutti i modi possibili, ma niente da fare, siete proprio ciechi! – sca si voltò indietro cercando con lo sguardo la macchina di Roberto e Cristina. Lorenzo era andato però talmente veloce che aveva già seminato tutte

le auto di dietro. Prendendo allora di nuovo in mano il cellulare le rispose: – Ma no, che ridere. Siamo proprio imbranati. Eravate voi. E noi che pensavamo che la macchina davanti ci fe segno per avvisarci di un posto di blocco. Vabbè, noi intanto andiamo su ad arieggiare e accendere il riscaldamento. Fate con comodo, ci vediamo dopo. – sca riferì divertita il fraintendimento a Lorenzo che scoppiò a ridere. Con quella piccola gaffe la tensione fra i due sembrava essere svanita del tutto. Una volta arrivati alla casa, lei sistemò le cose in cucina mentre lui si occupò del camino e cercò le valvole del gas e dell’acqua. Aprirono tutti i rubinetti dei lavandini e provarono insieme ad accendere i fornelli. «Cavolo, i fornelli non funzionano, come facciamo?» chiese sca con tono allarmato. «Calmati, fammi controllare. Magari ho dimenticato di aprire qualcosa…». Lorenzo controllò di nuovo tutte le valvole e girò i pomelli dei fuochi. Niente da fare, non funzionavano. E non funzionava ovviamente neppure il forno. «E adesso, come facciamo? Dovevamo fare i crostini e la pasta per pranzo. Senza stufa non possiamo cuocere niente». Mentre sca si agitava camminando su e giù per la cucina, il telefono le squillò di nuovo. «Pronto Fra, sono Pamela. Mi sa che arriveremo un po’ in ritardo, ci siamo svegliati poco fa, scusa». «Ciao Pami. Non ti preoccupare, venite su con comodo. Noi qui abbiamo già un problema: i fornelli e il forno non funzionano e dovevamo cucinare i crostini e la pasta per pranzo…». «Cavolo Fra. E quindi, come si fa? C’è un ristorante lì vicino? Magari andiamo a mangiare fuori. Dai non preoccuparti un modo lo troviamo. Non moriremo di fame. Allora ci vediamo fra un’oretta, il tempo di raggiungervi, okay? A dopo». «Okay Pami, ci vediamo fra poco. Non vedo l’ora!».

sca appoggiò il telefono sul tavolo e ritornò in cucina. Lorenzo confermò che la stufa non funzionava, ma trovò in una credenza un fornetto elettrico. «Potremmo cuocere i crostini qui. Questo fornetto arriva a duecento gradi». «Sì, ma la pasta? Io ho preso poche cose per fare i crostini, dovevano essere solo l’antipasto». Mentre sca metteva la spesa in frigorifero, l’unica soluzione che le venne in mente fu quella di scendere in paese per comprare degli altri affettati. «Direi che è la soluzione migliore» disse Lorenzo incoraggiandola con un timido abbraccio. sca acconsentì rassegnata, ma fu dispiaciuta di non poter cucinare. Non aveva mai avuto l’occasione di invitare gli amici a mangiare. Dove abitavano loro non c’era abbastanza spazio. La mansarda con l’ingresso indipendente sopra i suoceri riusciva a malapena a contenere due persone. Quello che le scocciava di più però era sentirsi sempre in difetto rispetto a Pamela. Ogni volta che decidevano di cenare insieme, finivano sempre per andare da lei e Andrea. La loro casa era enorme, curata nei minimi dettagli e Pamela faceva sempre rimanere a bocca aperta gli ospiti con le sue ricette tutte particolari. Lei invece abitava nell’appartamento dei genitori di Lorenzo e non si sentiva libera di gestirlo come le pareva. Se anche poi avesse voluto comprare qualcosa per renderlo più carino, avrebbe dovuto fare i conti con lo spazio che mancava. Più volte aveva provato a convincere Lorenzo ad andare in affitto lontano dall’invadenza dei suoi genitori, ma lui si era sempre rifiutato considerando stupido dover buttare via soldi quando avevano a disposizione un posto gratuito in cui stare. Mentre pensava a quanto fosse infelice in quei momenti, sca sentì il rumore di una macchina fare manovra sulla ghiaia. Allungò il collo verso la finestra e vide il Vito nero parcheggiato nel cortile. Roberto e Cristina erano arrivati.

Capitolo III «Andrea sono le nove e tre quarti, svegliati presto» urlò Pamela dopo aver guardato la radiosveglia con un occhio aperto e l’altro chiuso. Di colpo si sedette sul letto e con il cuore che le batteva a mille lo scosse di nuovo: «Dai, svegliati o faremo tardi». Andrea si girò lentamente verso di lei e, invece di scattare in piedi giù dal letto, l’afferrò per le spalle e la buttò sul letto. «Cinque minuti. Cosa vuoi che facciano ormai cinque minuti in più o in meno» disse abbracciandola. Pamela, divincolandosi con le gambe e le braccia, ci pensò un secondo e realizzò che tutto sommato non era una cattiva idea. Andrea le ò una mano sui lunghi capelli rossi, delicatamente li scostò dalle spalle e con le dita le solleticò il collo. Lei emise un mugolio, chiuse gli occhi lentamente e si voltò di schiena per farsi coccolare. Tutto eccitato dall’accondiscendenza della fidanzata, Andrea scostò la spallina sinistra della canottiera, la baciò e le sussurrò nell’orecchio che la desiderava. Con le dita scese lungo i fianchi, le sfiorò la pancia e sollevò l’elastico delle mutandine per insinuarsi fra le sue cosce. Pamela sorrise per il solletico e lo lasciò continuare. Le natiche premevano contro il suo membro duro, mentre le cosce si avvinghiavano attorno alla sua mano. Girandosi lentamente verso di lui per baciarlo, la prima cosa che vide quando aprì gli occhi furono i numeri rossi della radiosveglia che segnavano le undici. «Non possiamo farlo, amore, non adesso» disse tutta allarmata scaraventando la mano di Andrea lontano dal suo corpo. L’atmosfera romantica si era spezzata. Pamela in un balzo fu fuori dal letto e, come aprì la porta, venne assalita da Cleopatra che scodinzolava come una matta. «Ciao Cleo, la mia cuccioletta, come stai? Lo sai dove ti porta la mamma oggi? A fare una eggiata nel bosco. Vedrai come ti diverti». E mentre baciava il cagnolino si allontanò dalla camera lasciando il fidanzato nudo e sconsolato sotto le lenzuola.

Andrea sollevò la testa incredulo e la osservò svanire nel corridoio. Poi si lasciò cadere sul cuscino e per qualche istante fissò il soffitto rassegnato. Aveva appena perso l’occasione della giornata. Per tutto il weekend non gli sarebbe toccato più niente dato che sarebbero stati ospiti a casa di amici. Appoggiati i piedi scalzi sul pavimento, stiracchiò la schiena e si alzò per andare ad aprire la finestra. La luce tiepida di marzo gli scaldava il viso. Chiudendo gli occhi fece un respiro profondo e si godette il cinguettio dei erotti. «Andrea, non sarai mica ancora a letto?» urlò Pamela dal bagno. «Sono qui, cosa urli» le disse avvicinandosi alla porta. «Santo cielo, datti pace! E poi apri quella finestra. Fuori è una bellissima giornata e tu stai chiusa in bagno a truccarti con la luce artificiale. Mah, beato chi capisce le donne!» aggiunse mentre si avviava verso la cucina. «Dove stai andando amore?». «Vado a fare il caffè». «No, non fare il caffè. Lo sai che la domenica mi piace fare colazione al bar. Poi così non perdiamo altro tempo» replicò andosi una seconda volta il rossetto sulle labbra. «Guarda che non stiamo andando a una sfilata di moda. Dobbiamo andare a camminare in mezzo al bosco con i ragazzi» disse lui scuotendo la testa. «Sì, ma lo sai che non posso rinunciare a un po’ di colore sulle labbra e, in fondo, lo so che anche a te non dispiace…». Andrea non perse tempo a rispondere. Erano i soliti giochetti da gatta morta che a lei piaceva fare per ottenere quello che voleva. Questa volta però non ci sarebbe cascato. Sapeva benissimo che non appena le si fosse avvicinato, avrebbe iniziato a dire che era tardi e che si dovevano sbrigare. Prima di uscire misero la pettorina scintillante di strass al pinscher e presero la torta e un paio di bottiglie di vino rosso dal frigo. Pamela avrebbe voluto prendere la sua Mini Cooper, ma Andrea insistette per stare comodi nel Mercedes. La scusa della grandezza della macchina era anche un modo per evitare che guidasse la fidanzata. Era troppo distratta alla guida per i suoi gusti. Un giorno l’aveva addirittura vista mettersi lo smalto sulla mano che teneva il

volante. Per non parlare poi di quella volta che, per sistemare il cane sul sedile di fianco, era finita nel culo del fuoristrada che le stava davanti. Ogni volta cercava una scusa che giustificasse l’incidente, ma di fatto tornava a casa con una nuova ammaccatura nella carrozzeria. Prima di imboccare la tangenziale Andrea accostò vicino al loro bar preferito per fare colazione. Pamela lasciò il cane in macchina e raggiunse il fidanzato che, tenendo aperta la porta d’ingresso, la stava fissando scuotendo di nuovo la testa. «Perché ridi?» disse lei con aria interrogativa. «Rido perché hai i jeans attillati e gli stivaletti con il tacco». «Ho le scarpe per camminare in macchina, scemo. E questi jeans sono comodissimi. Dai, andiamo». «Fammi sentire? Hai ragione questi jeans sono favolosi, riesco a sentire tutte le curve del tuo sedere» replicò lui palpandola con forza nel didietro. «Non fare il cretino. Dai che sono già le undici e io non voglio ingozzarmi». Dopo aver fatto colazione con calma, ripartirono e chiamarono sca per avvisarla del ritardo. «Credo che oggi mangeremo al ristorante» disse Pamela riagganciando il cellulare. «Perché? Non doveva cucinare sca?». «Sì, ma la stufa non funziona e non sanno come cuocere i crostini e la pasta». «Che sfiga. Per una volta che non cuciniamo noi...». «Magari l’hanno boicottata i genitori di Lorenzo per farle un dispetto. Tu cosa dici, Cleo, ci volevano lasciare senza pappa?» disse lei con tono ironico mentre stropicciava il muso del cane. «Ma smettila, non dire sciocchezze. Figurati se i suoi hanno la malizia di fare queste cose. Di sicuro però sca l’ha pensato» commentò lui mentre se la immaginava litigare con Lorenzo in cucina davanti alla stufa rotta.

Capitolo IV Cristina e Roberto furono accolti da sca che, dopo i baci e gli abbracci consueti di benvenuto, ripeté per l’ennesima volta che la stufa non funzionava. «Ma basta con sta storia della stufa! Abbiamo detto che facciamo con il fornetto, che problema c’è? Non si potrà fare sempre un melodramma per tutto» urlò esasperato Lorenzo dall’altra parte della stanza mentre si avvicinava agli ospiti per salutarli. sca, guardando Cristina, alzò gli occhi al cielo e la portò immediatamente in cucina. Insieme controllarono il fornetto e studiarono come poter cuocere i crostini. Aprirono tutte le scansie delle credenze e cercarono di accumulare più utensili possibili per preparare il pranzo. La carta da forno c’era, i piatti, i bicchieri e le posate c’erano, i vassoi fortunatamente li aveva portati da casa. Lorenzo e Roberto si sedettero vicino al fuoco e fecero il resoconto della settimana lavorativa ridendo delle stranezze del capo. Aveva per esempio l’abitudine di farsi il caffè in ufficio con una moka, probabilmente della sua stessa età, sempre alla solita ora. Alle dieci in punto andava nella stanza attigua, riempiva la moka pigiando il caffè macinato nuovo sopra quello vecchio attaccato al filtro e la metteva a bollire. Poi ritornava alla scrivania e riprendeva a lavorare. Solo l’odore di bruciato dieci minuti dopo gli ricordava della moka sul fuoco, quando ovviamente era troppo tardi e il caffè si era già bruciato. Ogni mattina si ripeteva la stessa scena e lui, senza battere ciglio, sorseggiava un caffè imbevibile. Roberto e Lorenzo si guardarono con faccia disgustata e risero così forte che fecero voltare le ragazze in cucina. «Sono sicura che stanno parlando di qualcosa che è successo in ufficio» disse sca tirando un profondo sospiro. «Lorenzo è un po’ monotematico e se lo vedi a lingua sciolta è perché parla di lavoro». «Ma no, dai» rispose Cristina cercando di minimizzare la cosa. «Non è solo Lorenzo che fa così. Quando quei tre sono insieme parlano sempre di quello che combinano in ufficio. Aspetta che arrivi Andrea e vedrai che discorsi faranno». sca tirò un altro sospiro e, aprendo il frigorifero, fece l’inventario delle cose che aveva comprato per i due giorni.

«Dato che non possiamo cucinare la pasta e gli ingredienti per i crostini sono pochi, ho pensato di andare giù in paese a prendere degli altri affettati. Che ne dici, ti va di accompagnarmi? C’è un po’ da camminare, ma intanto facciamo due chiacchiere e usciamo da qui» disse mentre cercava di trovare un posto per il budino di Cristina. «Sì, certo, andiamo pure. Lo sai che io non ho problemi a camminare. Vuoi andare subito o preferisci aspettare Pamela?». «Ah già, dimenticavo. Pamela e Andrea arriveranno in ritardo. Possiamo andare io e te, così quando arrivano facciamo subito la eggiata nel bosco» replicò l’amica con il cappotto già in mano. Le due salutarono e uscirono di casa. Non appena svoltarono l’angolo sca si accese una sigaretta immaginandosi già al bar a sorseggiare il secondo caffè. Camminando lungo le vie del paese commentarono, fra una chiacchiera e l’altra, il paesaggio e le abitazioni locali. Anche se la casa era dei genitori di Lorenzo, sca non aveva l’occasione di are molti weekend lassù. Quella casetta in collina non era mai stata sfruttata appieno. Lorenzo aveva sempre pensato che i genitori potessero volerci trascorrere i fine settimana e per questo non aveva mai proposto di andarci né da soli né in compagnia di amici. Inoltre non lo si poteva di certo considerare un gran romanticone e l’idea di stare qualche giorno da solo con la fidanzata non gli era mai ata per la testa. sca d’altro canto lavorava spesso il sabato e la domenica e di rado avevano il fine settimana tutto per loro. Occuparsi dell’accoglienza degli ospiti al centro studi di Cesena le dava molte soddisfazioni, ma la contropartita era quella di dover lavorare i fine settimana a rotazione, riducendo le uscite con gli amici e i momenti di intimità con il fidanzato. Molte delle case che incontrarono erano villette indipendenti disabitate che venivano utilizzate d’estate come luogo di vacanza per scappare dai rumori e dalla routine cittadina. Altre invece erano abitazioni dove la gente viveva tutto l’anno. Cristina si guardava intorno e si chiedeva perplessa che tipo di lavoro potessero fare quelle persone. Nel paese l’unica attività commerciale era il bar che fungeva anche da negozio e piccolo ristorante. Prima di arrivare ad un centro abitato più consistente si dovevano percorrere diversi chilometri giù per la vallata. «Una volta Spinello non era così» le spiegò sca. «Era un paese pieno di

strutture e servizi. Da semplice realtà rurale si era trasformata in una fiorente cittadina turistica. Molti contadini locali avevano abbandonato l’attività agricola per dedicarsi al commercio, trovando nel turismo una possibilità maggiore di guadagno. Poi sono successi una serie di incidenti strani e in pochi anni il paese è tornato ad essere la semplice realtà rurale di prima. Vedi quei campi da calcio laggiù? Quella è Olimpia, un centro sportivo polivalente che ai tempi d’oro ha attirato moltissime squadre calcistiche e di conseguenza molti turisti. Pensa che diversi giocatori che hanno partecipato al torneo sono poi stati selezionati per entrare a far parte delle squadre di Serie A». Cristina osservò i campi da calcio e si sforzò di vederli pieni di gente nel fervore di un trofeo nazionale. A fatica riuscì ad immaginarseli animati, dato che adesso erano abbandonati a loro stessi, con l’erba alta, in un clima di totale desolazione. Spinello stessa sembrava senza vita. Poche persone in strada che eggiavano, molte case con porte e persiane sbarrate, il tutto in una campagna brulla dove l’unico rumore che si sentiva era quello del vento che agitava la sterpaglia incolta e i rami secchi degli alberi. Probabilmente l’inverno rendeva tutto ancora più desolato, ma la sensazione che provava in quel momento era di totale abbandono e degrado. «Ma almeno questi campi sono usufruibili dalla gente comune? Voglio dire, se ci volessimo andare noi, potremmo?». «No, assolutamente no. A parte quello della chiesa, tutti gli altri sono chiusi. E pensa che non ci sono solo campi da calcio. Sotto quei tendoni ci sono anche dei campi da basket, da pallavolo, una piscina olimpionica e altre strutture che adesso non ricordo». «Ma quindi chi li usa questi servizi?». «Durante l’inverno quasi nessuno. D’estate c’è ancora qualche ritiro di squadre di calcio locali o di arbitri, ma poca cosa rispetto a una volta». «Ma scusa, chi l’ha pagata sta roba?» insistette Cristina sempre più indignata. «Il Comune ovviamente. Era un progetto nato per creare turismo nelle colline forlivesi. E per un po’ ha funzionato. Poi, per una serie di strani eventi, piano piano tutto è scemato». «Quindi, in poche parole, noi abbiamo pagato le strutture con le nostre tasse, le

abbiamo fatte utilizzare a enti privati e adesso le lasciamo marcire senza fare niente. Il solito modo di fare all’italiana. Che schifo!» commentò Cristina mentre scuoteva la testa in segno di disapprovazione. «Esatto. Mi meraviglio che ti stupisci. Lo sai che in Italia funziona tutto così». sca non sembrava essere disturbata dalla cosa e rideva dell’indignazione dell’amica. Di solito non si interessava di politica e in realtà le dispiaceva più per il paese che per le tasche dei contribuenti. Una volta infatti era stata anche lei una frequentatrice abituale di Spinello. Quando era bambina i suoi genitori avevano comprato una villetta a schiera dove aveva trascorso diverse estati, prima che l’avessero rivenduta approfittando del boom economico che stava attraversando il paese. Per diversi anni aveva trascorso i mesi estivi in quell’angolo di paradiso godendosi l’aria fresca e la natura della campagna. Con le amiche si era divertita a correre nei boschi, a fare il bagno nel lago e osservare di nascosto i giovani calciatori che ogni anno andavano a disputare il Trofeo Olimpia. Rammentò come avesse fantasticato con l’amica del cuore su alcuni di loro, facendo finta che fossero i loro fidanzati. Ogni estate ne avevano ne sceglievano uno diverso e ogni estate litigavano per accaparrarsi quello più bello. Mentre sca ritornava con la mente a quei momenti felici di quand’era ragazzina, Cristina riprese con le domande sempre più incuriosita. «Hai detto che sono successi degli incidenti strani anni fa. Che tipo di incidenti?». sca ripensò ad alcune vicende sgradevoli che finirono sui giornali. Restò per qualche istante in silenzio e si sforzò di ricordare quello che aveva sentito nei panni di una ragazzina di tredici anni. Quando girarono l’angolo però, vedendo il bar in fondo alla strada, si dimenticò di colpo della domanda dell’amica e si concentrò esclusivamente sul suo caffè. «Eccoci arrivate» disse eccitata finendo la discesa di corsa. Il bar era l’unico punto di ritrovo del paese. L’insegna era sbiadita e il mobilio al suo interno sembrava rimasto lo stesso di vent’anni prima. Due gruppi di anziani, seduti di fronte al bancone, stavano giocando a carte mentre la televisione trasmetteva i programmi calcistici in preparazione delle partite della domenica. Le due bariste erano una signora sui sessant’anni robusta con gli occhiali a mezzo naso e una ragazza sui venticinque tutta acqua e sapone.

sca ordinò subito il caffè per sé e chiese all’amica se ne volesse uno. Poi, ingolosita dalle paste nella vetrinetta, ne afferrò una al cioccolato. Cristina declinò l’offerta e, guardando la barista giovane, si chiese come potesse sopravvivere in un posto del genere. sca camminò verso il fondo del locale, entrò nella sala attigua adibita a mini market e diede un’occhiata agli affettati in esposizione. Per Cristina avevano tutti un aspetto orribile. Sembrava che fossero della stessa epoca del mobilio, ma non disse niente per non sembrare puntigliosa. Preferiva delegare ogni responsabilità dicendo che a lei andava bene qualsiasi cosa. In fondo era una degli ospiti e non poteva di certo decidere con il portafogli degli altri. Una volta fuori dal locale, sca si sentì più tranquilla e si accese la seconda sigaretta. «Ne approfitto adesso che Lorenzo non mi vede…» disse riparando la fiamma dell’accendino con la mano. Sedendosi sul muricciolo del porticato con il sole che le riscaldava il volto, si gustò la sua paglia lamentandosi della casa dei suoceri. «Sarà possibile che la volta che organizziamo noi, debba esserci qualcosa di rotto? Che strazio quei due, non li sopporto proprio. Ti immagini se venissero su proprio oggi, solo perché sanno che ci siamo noi? Mio Dio, sarebbe il colmo!». Cristina ascoltava l’amica senza prestare troppa attenzione alle sue parole. In quel momento era presa dal paesaggio circostante e non riusciva a pensare a nient’altro. Le faceva davvero strano vedere un paese lasciato decadere in quel modo. Non riusciva a capacitarsi di come le persone potessero lasciar andare a male delle strutture per cui erano stati investiti così tanti soldi. Poi le ritornò in mente che sca le aveva detto che erano successi degli avvenimenti strani e, approfittando del momento di pausa, le chiese di nuovo di cosa si trattasse. «Adesso, mentre torniamo indietro, ti faccio vedere» le rispose aspirando con forza l’ultimo tiro. «Facciamo un’altra strada così ti mostro il ristorante abbandonato». Camminando lungo il bordo di un lago, raggiunsero un edificio che sembrava aver preso fuoco. «Questo è il ristorante “al Lago”. O almeno è quello che ne rimane» disse

puntando con il dito dritto verso la struttura. «Fino a una decina d’anni fa era il ristorante migliore della zona. Pensa che venivano addirittura dalle vallate circostanti per mangiare in questo posto. Si chiama “al Lago” perché, come puoi vedere, di fronte c’è questo lago artificiale dove una volta l’acqua era trasparentissima e si poteva fare il bagno». Cristina osservò l’enorme bacino d’acqua e la recinzione tutt’intorno con i cartelli di pericolo affissi sopra. «Ora ovviamente la balneazione è proibita. Ma non l’hanno chiuso al pubblico per l’acqua sporca. L’hanno recintato in seguito al ritrovamento di un bambino morto affogato». Cristina si fermò a guardarlo osservando l’acqua immobile e putrida. «Credo che fosse ottobre o novembre del 2004. Me lo ricordo perché avevo dato l’esame di terza media. Quell’anno è stato famoso qui a Spinello perché sono successi due brutti incidenti uno dietro l’altro. Per prima cosa è andato a fuoco il ristorante alla fine dell’estate. Non ricordo di preciso come fosse accaduto. I miei avevano già venduto la casa a quel tempo. So solo che la notizia era apparsa su tutti i giornali e la cosa fece molto scalpore. Poi in autunno c’è stato il secondo incidente, quello appunto del bambino affogato». Cristina continuava a fissare il lago e, mentre camminavano, le chiese curiosa di proseguire con la storia. «Mi ricordo che i miei genitori furono molto dispiaciuti del fatto che il ristorante non fosse stato più risistemato. Si mangiava veramente bene. I lavori di ristrutturazione iniziarono quasi subito, ma poi il secondo incidente li fece slittare di parecchi mesi. Per tutta l’estate successiva sia il ristorante che il lago rimasero inagibili. Sembrava che nessuno ci volesse mettere più le mani. Non ti so dire esattamente il perché. Giravano voci che fossero maledetti o roba del genere. Sai com’è la gente: succedono un paio di incidenti nello stesso luogo e si pensa subito che porti sfiga. In ogni modo, da allora il ristorante non è stato più riaperto e nel lago è stata proibita definitivamente la balneazione. È stato un duro colpo per il turismo di Spinello». Cristina ascoltava in silenzio ricreandosi nella mente le scene degli incidenti. «Con l’arrivo dell’inverno successivo il progetto di ristrutturazione venne

definitivamente abbandonato, i turisti se ne andarono e da quella volta niente fu come prima…» aggiunse sca con voce soffusa per farle paura. Cristina sgranò gli occhi e deglutì. Quelle parole, unite al cigolio delle persiane che si muovevano lentamente per il vento, le avevano creato un gran senso di inquietudine. Sconcertata da quello stato di degrado, ma curiosa allo stesso tempo di vedere cosa ci fosse all’interno, continuò a camminarci attorno finché non vide una lastra di ferro accostata al muro laterale. Sarebbe stato eccitante entrare e dare un’occhiata a quella che una volta era stata l’attrazione principale del paese. Scambiandosi uno sguardo, senza dire una parola, entrambe ebbero la stessa idea e si avvicinarono alla lastra. Mentre sca appoggiò la mano al muro per vedere come fare ad entrare, il cellulare suonò e le fece sobbalzare per lo spavento. L’eccitazione del momento unita alla suggestione del racconto le prese talmente tanto da lasciarsi scappare un gemito di terrore. «Che stupide» disse sca, quando realizzò che si era trattato del suo telefono. «È un messaggio di Pamela. Sono arrivati. Forse è meglio se andiamo, altrimenti faremo tardi per la eggiata». Cristina annuì ma, mentre si affrettava con l’amica per fare rientro a casa, si voltò alcune volte indietro con la curiosità che le era rimasta di esplorare il ristorante abbandonato. Per quanto la riguardava il discorso non era ancora concluso: aveva ancora un sacco di domande da fare e non vedeva l’ora di raccontare tutto a Roberto.

Capitolo V sca spalancò la porta di casa e corse verso Pamela per abbracciarla. «Ciao Pami, come state, tutto bene? Che bello che siete arrivati. Oh, guarda, c’è anche Cleopatra. Ma quanto sei carina!». Con una mano cercò di accarezzarla sulla schiena, ma la cagnolina era già scappata, in preda all’eccitazione, verso la porta finestra per azzannare alcune mosche che picchiettavano sul vetro. «Guardate questo cane quanto è scemo» disse Andrea ridendo. «Si sta mangiando tutte le mosche e salta come una matta perché non ci sta più dentro». «Dai Andrea, smettila di prenderla in giro e fa qualcosa» disse Pamela disgustata. «Cosa vuoi che faccia io? Il cane è tuo, pensaci tu. E poi è troppo divertente. sca sarà contenta di non doversi preoccupare lei di quegli insetti schifosi». Pamela fece un profondo respiro e non rispose. Si avvicinò al cane, lo sollevò e, mentre lo rimproverava amorevolmente, andò da Cristina per salutarla. «Voi ragazzi, come state, tutto bene?». Cristina non fece in tempo a rispondere che Roberto interruppe la conversazione per ricordare a tutti che c’era una eggiata nel bosco da fare. «Roberto stai calmo, adesso andiamo» disse Andrea. «Tanto non ti credere che dureremo molto. Lo sai che noi non siamo degli sportivi come voi due. Dopo mezz’ora di camminata cosa credi, quelle due là imploreranno di andare al bar per riposarsi e farsi un caffè, vedrai». Roberto lo guardò rassegnato e, mettendo una mano sulla spalla di Lorenzo, gli chiese se fosse pronto. «Ma sei matto? Io non ci penso proprio a venire. Sono stato in moto ieri e sono tutto indolenzito. Poi lo sai che non mi piacciono le camminate. Andate voi. Io resto qui a badare il fuoco» replicò mentre prendeva un pezzo di legna da

lanciare nel camino. «Dai Lorenzo, non vorrai mica fare l’asociale» disse Andrea. La conversazione andò avanti invano per qualche minuto. I ragazzi insistettero ma, quando Lorenzo si impuntava, non c’era verso di fargli cambiare idea. Le ragazze nel frattempo sparirono in cucina e sca illustrò ancora una volta il problema della stufa a Pamela che propose di nuovo di andare al ristorante. Cristina, non volendo assolutamente spendere soldi per magiare fuori, fece leva sull’abbondanza degli affettati e convinse entrambe a pranzare in casa. Roberto era impaziente e, con un piede già fuori dalla porta, richiamò tutti all’ordine. Andrea si infilò di corsa il piumino e uscì di casa. Le ragazze li seguirono dopo che Pamela mise il guinzaglio al cane e sca salutò imbronciata il fidanzato. Cristina con o felpato corse giù per la collina e raggiunse i ragazzi. Pamela rimase più indietro con sca per parlare sottovoce. «Tutto bene con Lorenzo?». «Sì, sì, tutto come al solito. Lo sai che quando dice che non vuole fare una cosa, neppure il Papa riuscirebbe a smuoverlo. Però potrebbe anche degnarsi di sforzarsi un po’, almeno quando ci siete voi. Ci fumiamo una sigaretta?». «Dai Fra, non ci pensare troppo. È fatto così, ormai dovresti averci fatto l’abitudine. E poi stiamo via poco e possiamo approfittarne per stare un po’ insieme noi ragazze» replicò Pamela nel tentativo di consolarla mentre sguinzagliava il cane. «Allora sappiamo già il percorso da fare? sca, tu che sei l’esperta del luogo, da che parte dici è meglio andare?» chiese Roberto che nel frattempo si era fermato per sistemarsi meglio lo zaino in spalla. «Oddio ragazzi. Fermi tutti! Aspettate un attimo. Devo tornare un secondo in casa. Andrea bada il cane» urlò Pamela mentre correva nella direzione opposta. Tutti si guardarono con faccia interrogativa. L’unico che se la rideva era Andrea che aveva già capito il motivo per cui stava tornando indietro.

«Se non avesse la testa attaccata alle spalle si dimenticherebbe pure quella». Gli altri ancora non capivano. Quando Pamela tornò da loro, Andrea fece cenno versi i suoi piedi e tutti realizzarono che si era dimenticata di cambiarsi le scarpe. «Scusate ragazzi. Dai non rompete, me ne sono accorta subito, non abbiamo perso molto tempo». «Lo credo bene che te ne sei accorta subito. Non so come avresti potuto camminare con un tacco dodici nel bosco» commentò sarcastica Cristina. I cinque risero e ripresero la discesa verso il bosco. Il paesaggio era sempre molto brullo. Solo a tratti si vedeva qualche macchia di verde interrompere la monotonia del giallo paglierino. «Direi che possiamo scendere qui a sinistra. Se non ricordo male, c’è una specie di percorso che porta alla vecchia rocca, poi in qualche modo si dovrebbe riuscire a tornare indietro dalla parte opposta facendo una specie di anello» affermò sca che era l’unica che conosceva il paese. «Okay, allora andiamo. Andate pure avanti voi» disse Andrea a Roberto e Cristina. «Siete voi gli esperti di camminate qui». Prendendo la via laterale uscirono dalla strada e si addentrarono nel bosco. Il terreno era pieno di foglie e gli arbusti si diramavano verso il basso intrecciandosi con i rovi lungo il percorso. «Ahia!» urlò Pamela mentre cercava di oltreare un cespuglio fra gli alberi. «Ma non c’è un sentiero più battuto? Mi sto forando tutte le gambe con questi dannati rovi». «Dai amore, non cedere subito così, se no mi fai fare brutta figura» disse Andrea avvicinandosi per aiutarla a scavalcare il cespuglio. Con un braccio le avvolse la vita e con l’altra mano le scostò i capelli per baciarla sulla guancia. Contraccambiando il bacio, Pamela si fece spostare i rametti di rovo e gli ò davanti. I ragazzi proseguirono la discesa lungo il sentiero che li condusse a un

fiumiciattolo. Il cane si dissetò nella prima pozzanghera, mentre sca si fermò per fare qualche foto di gruppo. Dopo una serie di sali scendi lungo il fiume, arono accanto alla postazione di un cacciatore dove il sentiero si fece più dissestato con i rovi che si infittivano rendendo ancora più ostico il aggio. «Saltelli come una cavalletta Pami» disse Cristina ridendo. «Fai presto a parlare tu con gli scarponi alti da montagna. Io ho le scarpe da ginnastica basse e questi ramoscelli mi stanno facendo impazzire». «Allora Pami, come va con il tuo lavoro? Sei contenta della nuova posizione?» le chiese sca cambiando argomento per distrarla. «Sì, devo dire che sono molto soddisfatta. Adesso ho un ufficio tutto mio e posso gestirmi in maniera autonoma. La mia collega ed io ci siamo divise il portfolio clienti e non devo più dipendere da lei nella loro gestione. Io ho i miei e lei ha i suoi. Inoltre dovrei iniziare a fare qualche trasferta all’estero e lì sì che saranno soldi». «Wow Pami, tu sì che sei una donna in carriera. Io non so se riuscirei a essere come te. Cioè, gestire tutta quella roba, prendere l’aereo e andare in giro per il mondo da sola…». «Ma dai Fra, non dire sciocchezze. Se quello che fai ti piace, lo fai senza problemi. E a me il mio lavoro piace moltissimo. Poi pensa a quante scarpe e borse mi posso comprare con quelle trasferte. Andrea non potrà dirmi niente. Sono una donna emancipata e autosufficiente». Le ragazze si misero a ridere e catturarono l’attenzione dei ragazzi di dietro. «Perché ridete?» chiese curioso Andrea avvicinandosi affettuosamente alla fidanzata. «Niente tesoro. Voi parlate del vostro ufficio che noi ragazze parliamo delle nostre cose». Andrea aveva già capito. Sicuramente l’argomento era lo shopping o qualcosa di troppo femminile per i suoi gusti. Meglio svignarsela prima che alla fidanzata venisse in mente di chiedergli qualcosa. Anche Cristina avrebbe voluto fare lo

stesso: ascoltare le conversazioni maschili sarebbe stato comunque più interessante che parlare in continuazione di scarpe e vestiti. «Tu invece, Fra, come vai al lavoro? Incontrato qualcuno di importante ultimamente?» le chiese cercando di spostare la conversazione su un altro argomento. «Tutto regolare. Adesso abbiamo un ospite americano che deve venire da noi per una conferenza sulla parapsicologia. Non so bene di cosa si tratti, ma credo che sia una sorta di confronto fra la psicologia occidentale come la conosciamo noi in Europa e una un po’ più spirituale. Devo informarmi meglio. Comunque, se ti interessa, posso chiedere un paio di inviti». «Saranno cose che Cristina avrà già sentito un milione di volte all’università» commentò Pamela. «No, in realtà non è proprio così» precisò Cristina. «La parapsicologia è tutta un’altra cosa e non fa parte del piano didattico. È un peccato perché adesso vanno molto di moda le filosofie orientali alternative. Pensate solo alla medicina tradizionale cinese, alla pranoterapia e all’agopuntura. Sono molto efficaci e sempre più persone si rivolgono ai professionisti di queste pratiche per farsi curare». «Sarà, ma secondo me è solo un fatto di testa. Io preferisco rivolgermi al mio medico. Ci sono un sacco di ciarlatani in giro» commentò dubbiosa Pamela. «Sì, quello è vero, però devi ammettere che ci sono persone più o meno competenti un po’ in tutti i campi e nel resto del mondo questi metodi di cura sono già ampiamente riconosciuti. È solo qui in Italia che c’è ancora molta reticenza» disse sca. «Ovviamente. Non avevamo dubbi. Qui in Italia siamo sempre indietro anni luce rispetto agli altri paesi» aggiunse Cristina. Mentre parlavano delle teorie psicologiche, la pendenza del sentiero si fece sempre più ripida e la distanza rispetto ai ragazzi davanti aumentò. Pamela aveva il fiato corto e sca cominciava a sentire male alle gambe. Andrea, in testa al gruppo, non si era accorto di nulla tanto era indaffarato a illustrare a Roberto le qualità meccaniche della moto che si sarebbe voluto comprare. Più si addentravano nel boschetto, più il sentiero si fece fitto e meno delineato. L’erba

alta confondeva il percorso e nessun segnale inciso sugli alberi dava un’indicazione precisa della direzione. «Adesso da che parte andiamo?» chiese Pamela preoccupata. Roberto attraversò con un balzo il fiumiciattolo è si inerpicò su per la collina. «Secondo me, se saliamo là in cima, riusciamo a vedere meglio la strada per andare alla rocca e tornare indietro» disse sca indicando il sentiero che Roberto aveva appena preso. «Non vorrai mica che ci arrampichiamo fin lassù?» chiese Pamela preoccupata per la fatica che avrebbe dovuto fare. «Come, torniamo già indietro?» chiese Cristina preoccupata invece di aver già finito il giro. «Scusate ragazzi, non mi ricordo più tanto bene la strada. L’ultima volta che sono stata qui è stato molti anni fa. Se tornassimo indietro? Non vorrei che ci perdessimo» disse sca. Andrea e Pamela erano d’accordo per fare la strada a ritroso. Roberto invece sembrava sicuro e con l’aiuto di Cristina li convinse a procedere. A metà della salita Pamela e sca erano stremate e chiesero una pausa. Roberto ne approfittò per tirare fuori la bottiglia d’acqua dallo zaino di cui approfittarono tutti per dissetarsi. Lentamente ripresero a camminare e, aggrappandosi alle radici degli arbusti, raggiunsero la cima della collina dove videro la strada che portava alla rocca. «Visto? Ve l’avevo detto» disse Roberto contento di non dover tornare indietro. Cristina lo raggiunse spedita insieme ad Andrea, mentre per ultime arrivarono Pamela e sca che se la presero comoda con la scusa di dover stare dietro al cane. «Ma la strada è tutta in salita» disse sconsolata Pamela che si aspettava di camminare finalmente nella piana. «No, cara, te la devi guadagnare la conquista della rocca» commentò Roberto ridendo.

Per tutta la salita le conversazioni aumentarono e diminuirono a seconda della difficoltà del percorso. Negli strappetti più verticali evitarono di sprecare il fiato e si concentrarono su dove mettere i piedi e appoggiare le mani. Dopo mezz’ora di sofferenza con il sudore che condensava sotto i piumini, arrivarono al rudere della rocca di Spinello. I ragazzi si sedettero sulle rocce e, stremati, fecero una seconda pausa contemplando il panorama. Mentre guardarono verso il centro del paese, a Cristina tornò in mente la storia del ristorante abbandonato e l’accennò sommariamente agli altri. «Vogliamo vederlo anche noi» affermò Andrea interessato. «Potremmo allungare la camminata e fare un sopralluogo» aggiunse Roberto. Tutti sembravano d’accordo inclusa Pamela che pose però come unica condizione quella di fermarsi prima al bar a fare l’aperitivo. «Ottima idea, Pami» disse entusiasta sca allungandole una sigaretta. «Intanto che fumate la vostra robaccia, Roberto e io facciamo un giro qui intorno» disse Cristina che in un lampo era già in piedi pronta per ripartire. Camminando lungo quello che era rimasto delle mura di recinzione, giunsero a un terrapieno. «Chissà cosa c’era qui sotto» disse Roberto spingendo con la punta dello scarpone sul terriccio secco sotto i suoi piedi. «Sicuramente questo è il punto in cui si erigeva la torre. La vista da qui è eccezionale: si riescono a vedere tutte le vallate circostanti». «Considerando quel grosso buco là sotto, adesso ci sarà la tana di qualche animale. Ci dovrebbero essere i cinghiali quassù» replicò Cristina. «Dai, arriviamo fino alla fine del muretto e poi torniamo indietro. Voglio farti vedere quel ristorante e chiedere a sca il resto della storia». Quando tornarono indietro, gli altri erano già in piedi pronti per ripartire. Insieme scesero agilmente la collina tenendo i giubbotti allacciati fino al naso e raggiunsero il centro del paese. Arrivati al bar si sedettero in uno dei tavolini riparati della veranda e ordinarono quattro Spritz e delle patatine. sca raccontò in dettaglio la storia del ristorante caduto in disuso e i ragazzi finirono per parlare di storie di fantasmi che abitano le case abbandonate.

«Le solite cazzate che si dicono per creare tensione prima di entrare in un edificio» disse Andrea sorseggiando dal bicchiere. «Lo sanno tutti che i fantasmi non esistono». «Certo che esistono» replicò sca. «Esistono un sacco di case infestate. Ce n’è una anche a Cesena, come si chiama… ah sì, la casa del Diavolo. Dicono che nelle notti di luna nuova si sentono delle grida di bambini». «Sì, come no». «Ti dico che è così, Andrea. Sono venuti addirittura degli esperti del Paranormal Research Institute che hanno piazzato dei rilevatori di campi elettromagnetici. Sono dovuti entrare dalla finestra del primo piano a più di dieci metri di altezza, dato che al pian terreno tutte le entrate sono murate e sbarrate dall’interno. Dicono che la squadra investigativa abbia percepito una sorta di ondeggiamento della struttura, come se dovesse crollare da un momento all’altro. E ovviamente all’esterno non c’era traccia di nessun terremoto». Roberto e Cristina guardarono sca allibiti. Andrea invece continuava a ridersela considerando la storia della casa del Diavolo come la solita leggenda metropolitana. «Non è finita qui» continuò sca. «Hanno messo nelle stanze anche dei registratori che hanno rilevato l’urlo di una bambina sui dieci anni. E ovviamente fuori dalla casa e nei dintorni non c’era nessun bambino». «Ma tu come fai a sapere tutte queste cose?» chiese Cristina. «Ma dai, la conoscono tutti questa casa. Almeno, noi di Cesena la conosciamo bene. Alcuni dei miei compagni di classe delle medie sono andati là un paio di volte per cercare di vedere cosa c’era all’interno. Solo che non sono mai riusciti a entrare perché appunto non c’è nessun accesso, se non dalle finestre del piano di sopra». «E comunque, Andrea, devi ammettere che queste presenze strane sono state trovate e documentate anche in altri luoghi» aggiunse Roberto. «Pensa al castello di Azzurrina, per esempio. Ti fanno anche ascoltare le registrazioni del pianto della bambina se vuoi». «Com’era già quella storia?» chiese lasciando comunque a intendere di non

essere troppo interessato. «Praticamente in quel castello ci viveva una bambina albina. Una volta ovviamente non si conosceva il motivo per cui si potesse nascere così e l’ignoranza popolare l’imputava a qualcosa di maligno. I genitori, per proteggere la figlia, la tennero sempre chiusa nel castello. Era costantemente sorvegliata da due armati e la madre le tingeva i capelli per cercare di darle un aspetto più normale. Solo che la tinta sul colore bianco creava delle sfumature azzurre. Da qui il nome di Azzurrina». «Poi cos’è successo?» continuò Andrea sforzandosi di essere serio. «Il giorno del solstizio d’estate la bambina scomparve misteriosamente. Stava giocando con la palla che cadde nella ghiacciaia. Nel cercare di afferrarla deve essere caduta anche lei, ma le guardie non l’hanno mai più ritrovata. Da quel giorno ogni anno il ventuno di giugno si sente la sua voce e si vede il suo fantasma aggirarsi per il castello». «Può anche essere vera la storia del problema degli albini ritenuti maligni dal popolo ignorante e che lei sia morta nella ghiacciaia, ma non credo proprio che ci sia il suo fantasma là dentro. È il solito tentativo di fare del business giocando con le paure della gente. A che scopo poi riapparire sotto forma di fantasma, una sola volta all’anno e sempre nello stesso giorno, se non per fare soldi attirando la gente credulona?» disse Andrea compiaciuto del suo pragmatismo. «Io invece credo che un fondo di verità ci sia in queste cose. Insomma, ci sono un sacco di testimonianze sul mondo degli spiriti. Solo perché non li vediamo tutti i giorni, non vuol dire che non debbano esistere» commentò Roberto. «Cristina ed io siamo andati a vedere il castello di Azzurrina e abbiamo sentito quelle registrazioni. Se vuoi sentirle di persona ti fanno andare nella ghiacciaia, anche di notte». «Guarda caso però non avete visto nessun fantasma. Te lo dico io, quelle registrazioni può averle fatte chiunque» replicò Andrea sicuro di averla spuntata. «Sono convinta anch’io che esistano» intervenne sca. «Tra l’altro, proprio qualche mese fa, hanno raccontato in televisione di una casa infestata dallo spirito di una vecchia signora in provincia di Como. I nuovi coinquilini avrebbero sentito dei rumori e visto questa signora aggirarsi per le stanze della casa. La squadra speciale dei Ghost Hunters della trasmissione Mistero si è

recata sul posto e ha effettuato delle registrazioni. Nella prima hanno rilevato un rumore, molto simile al trascinamento di un mobile, proveniente dal piano superiore che in quel momento non era arredato. Nella seconda hanno registrato dei i provenienti dalla stanza accanto che ovviamente era vuota. «Ma non mi dire che credi alle stronzate di quella trasmissione?» la interruppe Andrea prendendola in giro. «Che tu ci creda o no, le prove ci sono e non puoi negarlo» rispose sca stanca della sua strafottenza. «Ti dirò di più: alcuni sono giunti alla conclusione che molti di quegli spiriti rimangono lì o perché non vogliono staccarsi dal luogo in cui hanno vissuto o perché la causa della loro morte non è stata mai scoperta». «Sì, l’ho sentita anch’io questa cosa» la interruppe Cristina. «C’è chi dice che rimangano lì finché qualcuno non scopre cosa è successo loro veramente. E in fondo questa teoria è alla base anche di molti film horror, non trovate?». «Sarà, ma io preferisco rimanere della mia idea» borbottò Andrea incrociando le braccia. «Beh, amore, se sei così tranquillo non avrai nessun problema quando andremo a dare un’occhiata al ristorante abbandonato» disse Pamela con tono di sfida. «Se la mettete su questo piano, io sono pronto. Andiamo e vediamo chi se la farà sotto per primo».

Capitolo VI Era luglio e, come ogni anno, le formazioni giovanili del panorama calcistico italiano si ritrovarono a Spinello per disputare il Trofeo Olimpia edizione 2004. Gli abitanti locali aspettavano puntualmente l’arrivo degli autobus carichi delle persone che avrebbero garantito buoni affari e la sopravvivenza stessa del paese. L’idea di costruire un impianto sportivo nelle colline forlivesi era nato negli anni novanta con l’intento di creare un circuito regionale che prevedesse la partecipazione delle squadre dell’Emilia Romagna ed eccezionalmente di alcune delle regioni confinanti come ospiti. Quello che partì come modesto torneo locale però, si trasformò in breve tempo in un trofeo popolare che coinvolse moltissime squadre giovanili italiane. Ogni anno le richieste di partecipazione aumentarono e la presenza di allenatori e osservatori del panorama calcistico nazionale resero la gara sempre più appetibile. Con la nascita di Olimpia, le strutture sportive e turistiche divennero presto insufficienti a ospitare le squadre partecipanti e i turisti che affluivano sempre più numerosi. Il nuovo sindaco, che nel 2000 si era candidato alle elezioni, colse la palla al balzo e presentò, come punto principale del suo programma politico, un progetto di ampliamento sia degli impianti sportivi che delle strutture ricettive. Con quella mossa si assicurò le simpatie dei compaesani e garantì prosperità alle attività locali. Se non fosse stato per lui, Spinello sarebbe rimasta una delle tante realtà rurali, abbandonata dai giovani alla ricerca di lavoro nelle città circostanti. Anche quell’anno quindi il sindaco avrebbe presenziato il party di benvenuto delle squadre e avrebbe dato il via alla competizione sportiva. I giornalisti si sarebbero appostati in ogni angolo del paese e avrebbero immortalato le strette di mano del primo cittadino con i big del mondo del calcio. I giovani calciatori, scendendo di corsa dagli autobus appena giunti in paese, afferrarono il proprio bagaglio e si precipitarono verso l’entrata dei rispettivi alberghi. Senza prestare attenzione alle parole dei propri allenatori e muovendosi freneticamente come in preda a un’esplosione ormonale, si stavano già gustando la vacanza lontano dalla supervisione dei genitori.

La hall dell’Hotel Amelia in poco tempo si ricoprì di borsoni e valigie. Le urla dei ragazzi sovrastarono qualsiasi altra voce, rendendo difficile ogni tentativo di comunicazione. «Ehi Luca, io sto in camera con te e Marco, okay?» disse Alessandro mentre strappava le chiavi della camera dalle mani della receptionist. «Ovviamente» replicò lui lanciandosi su per le scale. «Vediamo se stare in camera con il figlio del sindaco ha i suoi vantaggi». «Dai raga, parlate a bassa voce. Non mi va che si sappia troppo in giro che io sono suo figlio. Non voglio che quelli delle altre squadre pensino che siamo dei paraculi. In fondo noi giochiamo praticamente in casa e quest’anno abbiamo buone possibilità di vincere il trofeo». Quando i tre entrarono in camera, lanciarono le borse sul pavimento e si precipitarono nel terrazzo per dare un’occhiata fuori. «Speriamo che anche quest’anno ci siano molte turiste» disse Luca spingendo con il gomito sul braccio di Marco che guardava disotto. «Mi ricordo che qualcuno si è dato molto da fare in questo senso l’anno scorso, vero Marco?». «Eh già, bei tempi quelli. Ce la siamo sata di brutto. Quante sbronze poi, ogni sera eravamo disintegrati da quanto bevevamo. Ma quest’anno sarà diverso. Bisogna che ci impegniamo se vogliamo essere notati. Se non sfruttiamo questa occasione adesso, non se ne ripresenterà presto un’altra». «Ecco che inizia a parlare come suo padre. Già ti vedo la sera a letto subito dopo cena, mentre noi andiamo in giro a divertirci con le ragazze» commentò Alessandro con tono di rimprovero. «Smettila! Non ho detto che voglio fare voto di castità. Solo che voglio impegnarmi perché mio padre ha detto che quest’anno ho buone possibilità di entrare in Serie A. Poi quando giocherò là, vedrai come mi invidierai mentre sarò a fare baldoria con le veline». «Parole sante! Così sì che mi piaci. Dai, diamoci una mossa e prepariamoci per il party di benvenuto. Dobbiamo fare ancora la doccia e siamo già in ritardo» replicò Alessandro svuotando la valigia per mettere le sue cose nell’armadio.

Mentre i ragazzi si infilavano la divisa, sentirono bussare ripetutamente alla porta. Era l’allenatore che dal corridoio urlava loro di sbrigarsi. «Dai raga, che il mister è già agitato» disse Luca ridendo. Quando scesero nella hall dell’albergo, i tre ragazzi si unirono ai compagni e insieme alle altre squadre si diressero al centro congressi. Camminando lungo le vie del paese arono di fianco al ristorante “al Lago”. «Ehi, vi ricordate l’anno scorso quando abbiamo rubato le bottiglie di rum dal bar? Che ridere vedere la barista cercarle disperatamente dappertutto» disse Luca compiaciuto. «Quest’anno si ripete» disse Alessandro figurandosi la scena. Percorrendo tutto il bordo del lago, i ragazzi notarono i cambiamenti che erano stati fatti rispetto all’anno precedente. Il numero dei lettini e degli ombrelloni era aumentato e la zona bar in stile hawaiano era stata abbellita con delle palme e un paio di amache appese ai loro tronchi. L’area bimbi fu ampliata aggiungendo nuovi gommoni gonfiabili e un’enorme scivolo partiva da uno dei lati corti del lago per andare a terminare nel centro dove l’acqua era più profonda. Dato che il lago e il ristorante costituivano l’attrazione turistica principale del paese, veniva fatto il possibile per rendere la permanenza dei clienti piacevole e divertente. Nella tipica giornata estiva di Spinello, le strade si riempivano di turisti a eggio, gli alimentari servivano i prodotti freschi a chilometro zero e i negozi risplendevano sotto il sole cocente con gli stand straboccanti di oggettistica e souvenir. Come ogni anno, nel primo pomeriggio di quella giornata di luglio, l’altoparlante catturò l’attenzione dei calciatori e dei presenti in paese annunciando l’inizio del party di benvenuto. Tutti i giocatori e gli ospiti dell’evento erano invitati a recarsi presso il giardino del centro congressi per assistere al sorteggio delle squadre e deliziarsi con il ricco buffet. I turisti si accalcarono attorno alla recinzione per strappare un angolo di visuale, mentre la televisione locale e nazionale riprendeva in diretta l’evento. «Anche per questa edizione 2004, ho l’onore e il piacere di annunciare l’inizio del Trofeo Olimpia» affermò orgoglioso il sindaco, impettito dentro al suo completo a giacca grigio. «Come ormai sapete, questo torneo giovanile è molto più che un circuito calcistico amatoriale. Oltre che un occasione per i nostri

ragazzi di socializzare e mettersi in gioco, è diventato un vero e proprio trampolino di lancio per quelli che dimostreranno di avere le qualità sportive migliori. Anche quest’anno abbiamo l’onore di ospitare i dirigenti della Lega Serie A e molti allenatori e manager di rilievo. Faccio quindi i migliori auguri ai nostri ragazzi perché possano divertirsi e realizzare qui a Spinello il sogno di diventare calciatori professionisti». Seguì un applauso generale e il discorso proseguì con l’estrazione dei nominativi delle squadre di calcio. Le telecamere ripresero l’avvenimento, mentre i flash dei giornalisti illuminavano la giornata di festa del paese. Luca, Marco e Alessandro erano seduti sul prato e osservavano i ragazzi delle squadre avversarie. «Se siamo fortunati con il sorteggio e riusciamo a evitare un paio di squadre forti, non dovremmo avere nessun problema a vincere quest’anno» disse Marco immaginandosi con la Coppa Olimpia in mano sommerso dagli applausi della folla. «Speriamo allora che tuo padre peschi bene dall’urna e ci faccia capitare in un girone facile» commentò Luca. «Non credo sarà un problema…» disse Alessandro a bassa voce. Era sicuro che il sindaco avrebbe trovato un modo per agevolare la loro squadra. Considerando quanto avesse sempre le mani in pasta, non si sarebbe stupito di finire nel girone più facile. Trattandosi comunque del padre dell’amico, preferì tenere le sue convinzioni per sé e non aggiunse nient’altro che potesse ferirlo. La cerimonia si concluse con i ringraziamenti del sindaco che andò a salutare di persona gli allenatori e i ragazzi di tutte le squadre. Dopo averli invitati a seguirlo nella sala congressi per il ricco buffet, raggiunse velocemente il figlio per commentare i risultati dell’estrazione. «Direi che siamo andati bene. Non potevate capitare in un girone migliore» disse avvicinandosi all’orecchio di Marco. «Io ho fatto la mia parte, adesso tocca a te impegnarti per far vedere quanto vali. Quest’anno non c’è tempo per le distrazioni. Vedete di rigare dritto tu e i tuoi amici e la Coppa Olimpia sarà la vostra». Poi, senza neppure aver dato al figlio il tempo di rispondere, lo salutò velocemente e raggiunse i giornalisti che lo stavano aspettando per l’intervista.

Marco lo guardò allontanarsi nella folla, con gli amici accanto a lui che lo prendevano in giro scimmiottando l’autorevolezza del sindaco. «Certo che tuo padre riesce sempre a trovare le parole giuste per essere convincente» commentò Alessandro mentre lo guardava parlare ai giornalisti con fare sicuro e imibile. «Se lo mette il pigiama quando va a letto o rimane con il suo completo a giacca anche in casa?». «Cretino. È fatto così lui, cosa ci vuoi fare. Ha una carica da ricoprire e vuole fare del suo meglio» rispose Marco cercando di convincere più se stesso. «In ogni modo, quello che conta è che siamo nel girone giusto, no?» disse Luca per cercare di sdrammatizzare. «Forza, andiamo al buffet prima che gli avvoltoi finiscano tutto». Alessandro, senza farselo ripetere due volte, aveva messo il turbo ed era ato davanti a tutti per accaparrarsi piatto e forchetta. Marco rimase più indietro e, aspettando in fila il suo turno, rimuginava quello che gli aveva appena detto il padre. Da una parte non vedeva l’ora di mettersi alla prova e dare il meglio di sé per realizzare il sogno della sua vita, dall’altra sentiva il peso di quelle parole sulle spalle e aveva una fottuta paura di sbagliare e deluderlo. Sapeva che si stava facendo in quattro per dargli una mano. In tutti quegli anni lo aveva spronato e aiutato economicamente perché potesse realizzare il sogno di diventare un calciatore professionista. Sapeva anche che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di farlo arrivare. Come sindaco aveva le conoscenze giuste e non sarebbe stato un problema per lui approfittare della sua carica per ricevere dei favori. Marco era convinto di avere delle qualità, ma non sapeva fino a che punto sarebbero state le sue capacità, piuttosto che le conoscenze del padre, ad aprirgli le porte del successo. Questo pensiero lo tormentava e lo poneva in un continuo stato di conflitto. Da una parte sarebbe stato comodo avere una mano per ottenere quello che voleva, dall’altra avrebbe voluto dimostrare al padre che poteva farcela anche da solo. «Ehi Marco, cos’è quella faccia così seria?» disse Luca vedendolo triste. «Te lo dico io cosa c’è» rispose Alessandro abbracciando i due amici. «Non ci sono ragazze qui, solo calciatori in divisa. Sapete cosa vi dico? Andiamocene via e facciamo un giro giù al lago per vedere se anche quest’anno c’è della merce buona».

«Tu non sei normale» commentò ridendo Marco. «In testa hai solo quella cosa, vero?». «E per fortuna che ci sono io. Se no chissà cosa combinereste voi due senza di me. Ve lo dico io, non combinereste proprio un bel niente» rispose Alessandro stringendoli più forte a sé. Quando giunsero al lago erano già le quattro del pomeriggio. I lettini avevano riempito tutto lo spazio circostante e i turisti si godevano la villeggiatura rinfrescandosi nell’acqua sotto il sole cocente. «Facciamo un giro tutt’attorno al lago e diamo un’occhiata sotto gli ombrelloni» propose Alessandro. «Certo che se indossassimo un costume sembreremmo meno deficienti» disse Luca sentendosi un po’ a disagio. «Quali costumi? Così è meglio. Lo sai che le donne non resistono al fascino della divisa. Piuttosto, guarda quelle tre ragazze sdraiate vicino al bar, sembrano carine e stanno guardando proprio nella nostra direzione». «Ale, dove cavolo stai andando?» chiesero gli amici cercando di stargli dietro. Alessandro era già partito per la tangente. Facendo lo slalom fra un lettino e l’altro, sperava di accaparrarsi l’unico tavolino rimasto libero. Con la scusa di andare a prendere qualcosa da bere, si sarebbe avvicinato a loro e avrebbe trovato un modo per attaccare bottone. «Allora ragazzi, quest’anno la nostra squadra è davvero forte e credo che riusciremo a vincere il trofeo senza troppi problemi» disse Alessandro a voce alta. Marco e Luca si guardarono negli occhi e scoppiarono a ridere. Non riuscivano a reggere il gioco dell’amico. Pavoneggiarsi sbandierando ad alta voce le proprie qualità calcistiche era la cosa più stupida che potessero fare per cercare di attirare la loro attenzione. «Ridete, ridete. Intanto si sono girate e stanno camminando da questa parte». Quando Luca si voltò indietro e le vide avvicinarsi al loro tavolo, smise

immediatamente di prenderlo in giro e arrossì. Non si sarebbe mai aspettato che una farsa del genere le avrebbe attirate. Non si sentiva pronto e non sapeva cosa dire. Le ragazze, per loro sfortuna, tirarono dritto fino al bar e ordinarono da bere. Luca tirò un profondo respiro di sollievo e si lasciò sprofondare nella sedia. «Oh guarda, la super tattica di Alessandro non ha funzionato» commentò divertito Marco vedendo la sua faccia delusa. Alessandro non poteva credere che quelle ragazze avessero ignorato un tipo attraente e irresistibile come lui. Farsi prendere in giro da Marco poi era davvero troppo. Doveva trovare un modo per vendicarsi. «Ehi Marco, credo che quella laggiù sia Lucia» disse sforzandosi di sembrare serio mentre fissava un punto dietro le spalle dell’amico. Marco di colpo raggelò e si fece serio. La parola “Lucia” lo aveva pietrificato. «Stai scherzando, vero? È una delle tue solite cazzate. Stavolta non ci casco». «Ti dico che è lei. Chiedilo a Luca se non ci credi». Marco guardò Luca che, stando al gioco, annuì con la testa. «Fate finta di niente, magari non mi vede» disse serio senza nemmeno voltarsi per controllare. «Qui qualcuno mi sembra ancora preso dalla cosa» commentò Alessandro stuzzicandolo con il gomito. «Ma quale preso. Non me ne importa più niente. È solo che abbiamo rotto male l’anno scorso e preferirei non incrociarla. Non voglio distrazioni quest’anno, devo pensare alla carriera». «Sì, sì, come no. Ecco che di nuovo parli come tuo padre. Ma se l’altro anno eravate sempre attaccati come due piccioncini...». replicò Alessandro cercando di baciare Marco scimmiottandola. Marco lo scansò schifato e si girò per vedere dove fosse. Quando realizzò che

era uno scherzo, lo prese a schiaffi e rimproverò Luca per non aver preso le sue difese. Lucia era un tasto dolente che non voleva più toccare. L’aveva conosciuta l’anno prima a metà competizione e se n’era innamorato perdutamente. I due si erano promessi di continuare a sentirsi ma, come spesso succede, la cosa non durò molto. La ripresa della routine invernale, con gli impegni della scuola e degli allenamenti, aveva allentato i contatti che si ridussero ai soli auguri per le festività e i compleanni. Anche se la distanza geografica non era così grande e il padre era quasi sempre a Spinello per svolgere la sua mansione di sindaco, Marco non era mai riuscito a trovare il tempo per andarla a trovare. Per questo si sentiva un verme e credeva che Lucia ce l’avesse a morte con lui. Chissà che reazione avrebbe avuto se l’avesse rincontrato. Chissà se gli avrebbe rivolto ancora la parola. Mentre Marco pensava nostalgico ai momenti trascorsi insieme a Lucia, le tre ragazze si avvicinarono al tavolo e si presentarono. «Ciao, possiamo sederci?» chiese una delle tre afferrando una sedia. «Certo» rispose Alessandro, già saltato in piedi per prenderne altre due e fare spazio. «Io mi chiamo Silvia e loro sono Chiara e Federica». «Piacere» dissero le amiche all’unisono stringendo la mano ai ragazzi. «Di dove siete?» chiese Alessandro. «Siamo di Imola. Voi invece?» replicò Chiara. «Forlì» rispose secco Luca. «Come mai queste divise?» chiese Federica che era la prima volta che andava in vacanza a Spinello. «Siamo calciatori e ci ritroviamo qui ogni anno con le altre squadre per disputare il Trofeo Olimpia» rispose Marco cercando di spiegare alle ragazze come funzionasse la gara. «Wow, allora siete dei professionisti» lo interruppe Silvia guardando eccitata nella direzione di Alessandro.

«Praticamente» rispose confidente Alessandro per fare bella figura. «Durante il trofeo ci saranno molte persone importanti del mondo del calcio. Se ce la giochiamo bene potremmo essere scelti per andare in Serie A». «Cavolo, è fantastico. Allora in bocca al lupo e che vinca il migliore!» disse Federica alzando il bicchiere per fare un brindisi. «Alle partite e alla vostra vacanza» aggiunse Luca finendo in un sorso quello che aveva nel bicchiere. I sei si guardarono negli occhi per qualche secondo e poi si misero a ridere. «Mi dispiace interrompere la conversazione, ma purtroppo abbiamo il coprifuoco e dobbiamo fare rientro in albergo prima di cena» disse Marco mentre guardava allarmato l’orologio del cellulare. Fra una chiacchiera e l’altra non si era accorto che era già ata più di un’ora e aveva paura che l’allenatore li stesse cercando arrabbiato. Alessandro lo fulminò con lo sguardo e in quel momento ebbe l’impulso di ucciderlo. Non avevano fatto in tempo a conoscere le ragazze, che già l’amico pestava per andarsene via. Chi se ne importava dell’allenatore e del coprifuoco. «Marco ha ragione» disse Luca cercando di convincere Alessandro. «Se iniziamo a fare incazzare il mister già adesso, è sicuro che ci giochiamo tutte le prossime uscite. Meglio andare per gradi». Luca aveva ragione e Alessandro dovette arrendersi. «Se vi va possiamo rivederci più tardi» disse Alessandro alzandosi dalla sedia. «Abbiamo tutta la sera libera e potremmo organizzare qualcosa dopo cena». «Certo, alla grande» rispose immediatamente Silvia con il consenso delle amiche. «Noi questa sera veniamo qui a cena» disse Federica indicando con il dito il ristorante di fronte. «Se volete possiamo vederci sulle nove». «Perfetto, alle nove va benissimo» rispose Alessandro, felice come se avesse appena vinto alla lotteria.

I ragazzi le salutarono e ripeterono l’orario dell’incontro tanto per essere sicuri. Camminando verso l’albergo con o felpato, attraversarono un parchetto e scavalcarono una recinzione per cercare di fare il prima possibile. Quando se ne erano andati dal party di benvenuto, non avevano pensato di avvisare qualcuno che si sarebbero assentati per fare un giro in paese. Marco si immaginò l’allenatore a braccia incrociate incazzato nero davanti all’ingresso e velocizzò il o. «Se continuiamo a correre così moriremo prima di arrivare in albergo» disse Luca che non ce la faceva più a stare dietro all’amico. «Rallenta, dai. Con tutto quello che ha per la testa in questi giorni, non se ne sarà nemmeno accorto che non c’eravamo». Alessandro invece camminava spedito dietro agli amici senza sentire la fatica e non preoccupandosi minimamente del ritardo. Era contentissimo di essere riuscito a combinare l’incontro con le ragazze e stava già pensando a qualcosa di avventuroso da fare.

Capitolo VII Alessandro fu il primo a farsi la doccia. Era quello che ci metteva di più a prepararsi. Vanitoso com’era non lasciava nulla al caso, tutto era deciso e curato nei minimi dettagli. Infilò i jeans preferiti, chiari e leggermente consumati sulle ginocchia. Indossò una camicia a quadri, lasciandola aperta sulla t-shirt aderente per mettere in evidenza i pettorali. Mise un paio di scarpe da ginnastica ai piedi e due braccialetti di cuoio nero al polso. I capelli biondi erano mossi e scendevano lungo le orecchie quanto bastava per coprirle. Nonostante sapesse che era meglio per i calciatori essere rasati, non era ancora pronto a rinunciare al fascino del capello lungo che gli conferiva, a suo dire, un aspetto più selvaggio e sensuale. Luca era più spicciativo. Non perdeva molto tempo a prepararsi. Si asciugava i crespi capelli neri senza neppure guardarsi allo specchio e si radeva a malapena una volta a settimana perché gli piaceva tenere la barba leggermente lunga e incolta. Infilatosi il primo paio di jeans che trovò nell’armadio e una polo bianca, era più indaffarato a rispondere ai mille messaggi che arrivavano al cellulare. Seduto sul letto con le gambe incrociate e le scarpe che strisciavano sulla coperta, riferiva divertito ai ragazzi quello che combinavano alcuni amici in vacanza a Ibiza. Marco entrò per ultimo nella doccia e si preparò con calma. Si rasò davanti allo specchio, si mise il dopobarba e districò con le dita i riccioli castani. D’estate soffriva parecchio il caldo quindi preferì indossare un paio di short e una canotta che mettesse in risalto i muscoli e il fisico asciutto. Quando arrivarono nella sala da pranzo dell’albergo, si sedettero fra i compagni di squadra e raccontarono dell’incontro che avevano fatto al lago. Eccitati per la serata che li attendeva, si lanciarono in scommesse su chi per primo sarebbe riuscito a baciarne una. I camerieri intanto servirono il primo e il secondo, annunciando che i dolci sarebbero stati a buffet. «Ragazzi, sarà una gara all’ultimo sangue per il dessert» disse Luca che con il piatto in mano era già pronto a scattare verso il tavolo dei dolci. «Appena i camerieri arrivano con i vassoi ci lanciamo all’attacco» replicò

Marco. «Sì, però vediamo di darci una mossa. Sono già le otto e mezza e voglio are dalla camera prima di andare all’appuntamento» disse Alessandro guardando ossessivamente l’orologio per paura di arrivare in ritardo. Non stava più nella pelle di incontrarsi con le ragazze ma, prima di lasciare l’albergo, doveva assolutamente fare un salto in bagno per darsi un’ultima occhiata allo specchio e spruzzarsi quintali di profumo. Dopo aver fatto incetta di panna cotta e crostata ai mirtilli, i ragazzi corsero in camera per l’ultima sistemata e poi si diressero nel luogo dell’appuntamento. Quando giunsero al ristorante “al Lago”, fecero un giro attorno all’edificio per vedere se le ragazze erano già fuori. «Ma dove cavolo sono?» chiese Alessandro continuando a fissare impaziente l’orologio. «Va a finire che ci hanno tirato il pacco» disse Marco prendendolo in giro. «Dai Ale, sono solo le nove e un quarto. Magari stanno ancora finendo di cenare con i genitori» disse Luca cercando di farlo stare calmo. Non riuscendo più a stare fermo senza fare niente, Alessandro propose di avvicinarsi a una delle finestre per dare un’occhiata all’interno. «State cercando qualcuno?» chiese Federica appoggiando una mano sulla spalla di Luca. I tre fecero un balzo indietro per lo spavento e si girarono lentamente verso le ragazze cercando di sembrare disinvolti. «Stavamo guardando se il locale era ancora come l’hanno scorso» affermò pacatamente Alessandro per non dare a intendere che le stessero cercando. «Sì, come no» replicò Silvia mentre guardava le amiche ridendo. «Allora ragazzi, che si fa? Qualche idea su dove andare?» chiese Federica eccitata.

«I ragazzi ed io pensavamo di andare a bere qualcosa e poi fare un giro da qualche parte, che ne so, magari su per le colline o nel bosco» rispose Alessandro prendendo in mano la situazione. A Luca e Marco andava bene tutto. Quando c’erano di mezzo delle ragazze lasciavano sempre prendere l’iniziativa all’amico. Era lui l’esperto di intorti e quello a cui piaceva essere al centro dell’attenzione. «Wow raga, iniziamo subito con qualcosa di impegnativo» disse Silvia mentre guardava le amiche. «Forse non ho proprio l’abbigliamento più adatto, ma vedrò cosa posso fare…». Silvia era la più appariscente del gruppo e quella sera aveva indossato un vestitino nero e dei sandali con le zeppe. Il fisico non le mancava e le piaceva mettere in mostra le lunghe gambe affusolate. Amava lasciare la schiena scoperta con i lunghi capelli neri che le scendevano sulle spalle e marcare gli occhi verdi con un tocco deciso di eyeliner. «Te l’avevo detto di metterti più comoda» le disse Federica mentre raccoglieva i folti capelli ricci in una coda di cavallo. Lei era molto più pratica di Silvia e adorava stare comoda nei suoi vestiti morbidi in stile indiano. Chi non la conosceva pensava addirittura che non fosse italiana. Aveva la carnagione olivastra, le labbra carnose e gli occhi neri rotondi come due biglie. D’estate adorava vestire con pantaloni larghissimi di lino e top colorati, impreziositi da collane etniche che le scendevano fino all’ombelico. Chiara invece era la classica ragazza acqua e sapone. Preferiva un abbigliamento più sobrio e spesso indossava jeans elasticizzati e t-shirt piene di lustrini per dare un tocco di luminosità. Era la più bassa del gruppo, ma a differenza di Silvia, odiava solo l’idea di indossare i tacchi alti. I capelli castani erano lisci e sottili come lo erano i lineamenti del suo viso e le parti del suo corpo. Le ragazze si riunirono per consultarsi qualche istante e, quando furono tutte d’accordo, dissero ai ragazzi che la proposta era stata accettata. Il bar fu la prima destinazione per sciogliere un po’ l’imbarazzo. Luca Marco e Alessandro stavano davanti, mentre Silvia Federica e Chiara camminavano dietro a qualche metro di distanza. Sembrava che ognuno andasse per conto proprio e che non si conoscessero affatto. I ragazzi continuavano a sgomitarsi andando a zigzag, mentre le ragazze facevano apprezzamenti sull’aspetto fisico dei tre.

Arrivati al bar si accomodarono nei tavolini del porticato e ordinarono sei Mojito. Federica tirò fuori un pacchetto di sigarette e, mentre ne accendeva una, ruppe il ghiaccio facendo qualche domanda ai ragazzi sulla scuola e i progetti che avevano per il futuro. «Io sono al quarto anno di geometri» rispose Alessandro, «mentre loro sono in classe insieme e fanno l’istituto tecnico». «Voi invece, ragazze, che scuola fate?» chiese Luca. «Federica ed io dobbiamo fare il quinto anno del liceo classico» disse Silvia. «Io però ho un anno in più. Sono stata segata il primo anno» precisò Federica. «Io invece ho appena finito il quarto anno del liceo, ma a indirizzo linguistico» disse Chiara. «Cavolo, tutte al liceo. Avete proprio voglia di studiare...» commentò Alessandro. Le ragazze si misero a ridere e continuarono la conversazione parlando dei loro progetti futuri. Silvia voleva iscriversi a giurisprudenza per diventare avvocato, Federica andava matta per il make-up e voleva diventare estetista, mentre Chiara voleva fare un lavoro che le desse la possibilità di viaggiare. «Voi invece, ragazzi, che progetti avete dopo il diploma?» chiese curiosa Federica. «Io andrò sicuramente a lavorare nello studio di mio padre» rispose Alessandro. «Io vorrei iscrivermi a scienze della comunicazione» disse Luca. «Non mi dispiacerebbe lavorare nel marketing. Sono molto estroso e ho sempre un sacco di strane idee per la testa». «Buono a sapersi allora. Ti chiameremo quando avremo bisogno di qualche sbuzzo creativo…» commentò maliziosamente Federica. «Io spero di diventare un calciatore professionista» disse serio Marco, che era l’unico a cui importava veramente la carriera calcistica.

Alle sue parole Luca e Alessandro scoppiarono a ridere. «Beh, cosa c’è di strano? Ho buone possibilità se vinciamo il trofeo. Voi fate come vi pare. Io non ho intenzione di gettare al vento il mio talento. erò in Serie A e poi vedremo chi riderà per ultimo». «Marco ha ragione» aggiunse Silvia. «Dobbiamo credere nei nostri sogni. Un giorno io sarò un brillante avvocato, tu un calciatore professionista, Luca un ottimo… come si può dire…un ottimo comunicatore…e tu…beh, tu, Alessandro, un normalissimo geometra» concluse ridendo. Alessandro ricambiò lo sguardo di sfida e le fece cenno maliziosamente che l’avrebbe sistemata in un secondo momento. «E tu, Chiara? Non ci hai ancora detto cosa vorresti fare di specifico» chiese Marco incuriosito. «Beh, in realtà non ho ancora le idee chiare. Mi piacciono le lingue e mi piace viaggiare, quindi credo che non mi dispiacerebbe lavorare in un’agenzia viaggi o come guida turistica». «Capito Marco? Le piacciono le lingue. Anche a te non dispiacciono, vero?» commentò Alessandro riuscendo a mettere in imbarazzo Chiara. «Allora brindiamo al futuro agente di viaggi, all’estetista, al brillante avvocato, al comunicatore, al geometra e a me calciatore» concluse Marco per non farla sentire troppo a disagio. «Salute» risposero tutti in coro finendo di bere i loro cocktail alla goccia. I bicchieri si svuotarono in fretta e i ragazzi fecero altri due giri di Mojito. Più saliva il livello dell’alcol, più i discorsi si fecero frivoli e leggeri. «Ora che siamo belli carichi direi che è giunto il momento di fare una eggiata nel bosco a cercare il lupo cattivo» disse Alessandro puntando dritto agli occhi di Silvia. Mentre si alzarono dalle sedie Alessandro corse al bar, prese una bottiglia di vino rosso e li raggiunse. «Tu sei matto» disse incredula Chiara. «Non credi che abbiamo bevuto già abbastanza? Guarda Silvia, a malapena riesce a stare in piedi».

Questa volta non erano più allineati in due file distinte, ma camminavano accoppiati sostenendosi a vicenda. Alessandro teneva stretta Silvia in vita, Luca cercava di avvicinare Federica e Marco, in fondo al gruppo, eggiava accanto a Chiara. Una volta arrivati nel bosco Alessandro ò davanti a tutti e si autoproclamò capo della spedizione. Allontanandosi dal centro del paese, tutto intorno a loro era diventato meno nitido e si perdeva nella penombra. Non c’era un solo lampione che potesse illuminare il sentiero. Le ragazze si guardarono non molto convinte, ma i ragazzi sembravano sicuri di sapere dove andare. Con la torcia del cellulare Luca illuminò il percorso davanti a sé e le incitò a proseguire. Impegnati nei saliscendi lungo la collina, l’unico rumore che sentivano era quello dei loro i. Il vociare della gente in paese si fece via via più tenue. Le luci dei locali erano dei puntini sfocati ormai lontani. Non c’era la luna piena che potesse illuminare il sentiero, ma il cielo sopra di loro era tappezzato di mille stelle. La brezza notturna aveva scacciato tutte le nuvole e stava rinfrescando l’aria agitando le chiome degli alberi e i capelli lunghi delle ragazze. Fermandosi per qualche istante ad ammirare quello spettacolo, rimasero con i nasi all’insù sperando di intercettare una stella cadente. «Credo sia giunto il momento di sederci e inaugurare questa bottiglia di vino» disse Alessandro spezzando l’armonia del momento. Federica, che era la più eccentrica, propose di sedersi in cerchio come in una seduta spiritica. «Certo che sei un po’ macabra tu» disse Marco sorridendo. «Poi cosa facciamo, invochiamo la strega di Blair?». Alessandro ebbe un’idea migliore. Propose il gioco della verità con la scusa di rompere il ghiaccio e conoscersi meglio. A turno ciascuno doveva rispondere a una domanda: se si rifiutava o non rispondeva in maniera soddisfacente, era costretto a bere un sorso di vino. Così fino a che la bottiglia non si fosse svuotata. Dopodiché l’idea era quella di fare il vecchio gioco della bottiglia. «Ma quanti anni hai?» chiese ironica Silvia. «Io questi giochi li facevo alle medie». «Dato che sei così “navigata”, perché non proponi qualcosa di più “adulto”? replicò lui squadrandola dall’alto verso il basso.

«Va bene, va bene, non ti agitare. Non mi tirerò di certo indietro per così poco». Si sedettero in cerchio a gambe incrociate, tutti tranne Silvia che con la minigonna aveva qualche problema a trovare la posizione giusta. Era molto buio e a fatica riuscivano a vedersi in faccia. «Cavolo, ci vorrebbe un po’ di luce, è troppo buio» disse Chiara intimorita dal fruscio dei cespugli. Luca accese di nuovo la torcia del cellulare e lo appoggiò al centro del cerchio. «Così però c’è troppa luce, rovina l’atmosfera» disse Alessandro afferrando il telefono per spegnerlo. «Ci vorrebbe qualcosa di più tenue, tipo una candela…». «Aspettate! Ne ho alcune nella borsa» disse Federica frugando con una mano fra le sue cose. «Visto? Ve l’avevo detto che era un po’ strana. Chi non gira con delle candele nella borsa?!» commentò sbalordito Marco. «Cosa credi, le ho comprate prima di cena in un negozio in centro. Le volevo mettere in camera per non usare la corrente elettrica» rispose Federica con una smorfia, mentre le appoggiava per terra ai lati del cerchio. Tirò fuori l’accendino, le accese e poi si rollò una sigaretta. «Bene, ora siamo pronti. Chi comincia?» disse Alessandro sfregandosi le mani. Nessuno rispose. Si guardarono negli occhi per qualche istante poi decisero che avrebbe incominciato a fare la domanda chi era più vicino alla data del compleanno. Toccava a Chiara. Fece un profondo respiro e, guardando Luca negli occhi, gli chiese quante ragazze avesse avuto. Luca, senza pensarci troppo, disse che aveva avuto una storia seria durata otto mesi e che era uscito più o meno con cinque, forse sei, ragazze in tutto. «No, no, non ci siamo» esclamò Alessandro. «Cosa sono queste domandine semplici? Rendiamo la cosa più interessante: faccio io la prossima domanda e la rivolgo a Silvia». Nessuno era stupito. Tutti sapevano che puntava a lei.

«Allora Silvia, cos’è la cosa che ti fa eccitare di più quando sei con un ragazzo? Sii sincera, se no lo sai cosa ti aspetta». Lei ci pensò un attimo e rispose un po’ imbarazzata. «Beh, probabilmente la cosa che mi eccita di più è farlo in un posto dove c’è molta gente con la paura di essere scoperta. Tipo quando sei a una festa e ti imboschi nel bagno che non si chiude a chiave. Oppure nell’ascensore o cose del genere». Alessandro era eccitato all’idea, ma la risposta non lo soddisfò del tutto. Silvia era stata troppo generica. Lui avrebbe preferito qualche dettaglio in più, quindi decise di farle fare la penitenza. Aprì la bottiglia di vino e gliela ò. «Starai scherzando, vero? Ti ho pure risposto. Cos’altro volevi che ti dicessi? A domanda generica risposta generica» disse Silvia rifiutandosi di bere. «Bevi! Bevi! Bevi!» dissero in coro tutti quanti. Silvia era sola contro tutti. Rassegnandosi al suo triste destino, afferrò la bottiglia e ci si attaccò per bere. «Bene, ora questa me la paghi. Adesso tocca a me e quindi credo proprio che farò una domanda a te Alessandro» disse appoggiando già la bottiglia vicino ai suoi piedi. Qualunque risposta gli avesse dato, lo avrebbe fatto bere per vendicarsi. «Vediamo un po’…voglio sapere qual è stata la figuraccia peggiore che hai fatto con una ragazza». Dover parlare di una figuraccia non era certo quello che si aspettava. Sperava che gli fe una domanda che lo avrebbe valorizzato nelle sue qualità di amatore. Invece doveva sforzarsi di trovare un difetto fra le sue doti maschili. Proprio lui che di difetti non ne aveva. «Va bene, dunque… vediamo… considerando che non ho mai avuto problemi… se proprio devo trovarne uno… l’unica volta in cui ho fatto una figuraccia è stata quando siamo andati al Cocoricò e ci ho provato con una ragazza che poi si è rivelata non avere molti attributi femminili… Tutti se n’erano accorti, tranne me

perché ero sbronzo, e ovviamente nessuno mi ha avvertito della cosa. Quando ho allungato la mano, sapete voi dove, mi è venuto un colpo e sono scappato via». «Ma dai! Questa non è una figuraccia. Lo sai cosa intendo io per figuraccia. La risposta non mi sta bene, bevi!». «Bevi! Bevi! Bevi!» dissero gli altri per dare man forte questa volta a Silvia. Alessandro, senza farsi troppo supplicare, afferrò la bottiglia e ne bevette più di un sorso. La domanda successiva venne rivolta a Chiara. Alessandro voleva insistere con Silvia, ma gli altri lo obbligarono a cambiare interlocutore. «Chiara, rendici partecipi delle tue esperienze sessuali: dicci con quanti ragazzi sei stata e cosa ci hai fatto. Non fare la furba però, vogliamo i dettagli». Chiara abbassò lo sguardo e per qualche istante fissò la terra sotto i suoi piedi. Non aveva alcuna intenzione di rispondere alla domanda. Nonostante la supplicassero dicendo che era solo un gioco, preferì are e si attaccò direttamente alla bottiglia. Era meglio buttare giù dell’altro alcol piuttosto che svelare agli altri la propria verginità. Dato che nessuno sembrava voler affrontare discorsi più spinti, fecero tutti un giro di bottiglia e finirono il vino. Federica tirò fuori dalla borsa un sacchettino di plastica e rollò un paio di canne. «La nostra Federica è piena di sorprese» disse Alessandro con il braccio già teso per averne una. «Prima renditi utile e fai dei filtri con questa carta» disse Federica mettendogli fra le mani un vecchio biglietto d’entrata in discoteca. L’alcol l’aveva talmente stordita che ci mise un quarto d’ora buono per rollare le due canne. «Io o, ragazzi» disse Marco facendo cenno con la mano di non volere fumare. «Sei il solito guastafeste» commentò Alessandro che invece aspirava a pieni

polmoni. Quando si trattava della carriera calcistica, Marco diventava paranoico e cercava di evitare qualsiasi situazione che potesse comprometterla. Mentre il fumo rilassava i corpi dei ragazzi e stimolava la parlantina, ciascuno narrò di avvenimenti bizzarri e storie sessuali inverosimili che gli erano capitati. Federica ricordò quando una volta uscì con un ragazzo di cui era follemente innamorata. Faceva il barista in un locale e lei puntualmente andava a bere da lui cercando di farsi notare. Una sera riuscì a strappargli un appuntamento e, quando furono in procinto di farlo, lui non riuscì a mantenere l’erezione. Ovviamente lei perse l’eccitazione e lui, vedendo che non era lubrificata, pensò bene di sputarsi nella mano e inumidirla per darle un aiutino. Da quella volta non rispose più alle sue chiamate e non andò mai più a bere in quel bar. Tutti risero a crepapelle immaginandosi la scena. Alessandro replicò il gesto con la mano avvicinandola al volto delle ragazze che si scostarono inorridite. L’unico indignato era Luca: non sopportava quando le ragazze prendevano in giro i maschi che facevano cilecca. Si vendicò quindi raccontando di quella volta che uscì con una ragazza molto più grande di lui e all’apparenza dal fisico mozzafiato. Aveva il sedere sodo e rotondo, due seni generosi e gli occhi blu come l’oceano. Sembrava incredibile che una così potesse notare un ragazzo semplice come lui. Quando uscirono dal locale e andarono a casa di lei, tutto prese un’altra piega. Luca iniziò a svestirla e quello che nella penombra sembrava sodo e rigoglioso, si fece flaccido e cadente. La tipa aveva contenuto le sue rotondità non proprio perfette con dei pantaloni e un reggiseno molto push-up. Anche gli occhi blu oceano era finti. Una volta arrivata a casa infatti si cavò le lenti a contatto colorate, scoprendo così dei normalissimi occhi marroni. Ovviamente a Luca scese la catena e se la filò a gambe levate senza dirle niente, lasciandola mezza nuda sopra le coperte. Piegati in due dalle risate i ragazzi scimmiottarono la pelle cadente dei seni della ragazza immaginandola come un blob gelatinoso che soffocava Luca intrappolato nel letto. Le ragazze sorrisero, ma non apprezzarono l’ironia sui push-up. Uomini contro donne, uno pari palla al centro. I ragazzi continuarono a parlare a lungo delle loro avventure. Alessandro

ovviamente si lanciò in racconti di conquiste impossibili, mentre Chiara si limitò ad ascoltare i discorsi degli altri fingendo di avere avuto esperienze simili. I toni erano scherzosi e l’atmosfera era diventata frivola e leggera. Gli sguardi si fecero più complici e la luce sempre più fioca delle candele rese l’ambiente misterioso e intrigante. Quando le risate si assopirono e i momenti di silenzio si dilatarono, Alessandro ravvivò l’euforia del momento mettendo la bottiglia al centro del cerchio. La ruotò con forza e, dopo qualche giro, il collo stretto puntò dritto verso Chiara. Anche se la canna l’aveva resa meno rigida, l’idea di baciare un tipo come Alessandro le fece sobbalzare il cuore. Uno esperto come lui avrebbe baciato una ragazza alle prime armi. Aveva il terrore che se ne sarebbe accorto. Invece Alessandro fu spicciativo. Non era Chiara il suo bersaglio. In meno che non si dicesse le si avvicinò, le sfiorò le labbra e ritornò al suo posto. Chiara non fece in tempo a chiudere gli occhi che tutto era già finito. Le sue labbra furono a malapena sfiorate. Tirando un sospiro di sollievo, fece un accenno di sorriso e il gioco proseguì. Sarebbe toccato a lei ma, vedendo Federica che aspettava scalpitante il proprio turno, ne approfittò per are la mano. L’amica, senza esitare, afferrò la bottiglia e la girò lentamente sperando che si fermasse di fronte a Luca. La bottiglia per sua fortuna si fermò fra lui e Silvia. «Dato che non mi interessa baciare Silvia, direi che non ho altra scelta e bacerò Luca». Con fare sicuro gli si avvicinò e lo baciò profondamente. Le loro lingue si incontrarono e ci vollero i commenti e i fischi insistenti degli amici per riuscire a staccarli. Alessandro, senza aspettare il proprio turno, prese in mano la bottiglia e la girò. Chiara aveva saltato il turno e quindi anche Luca poteva farlo. Quando vide che la bottiglia stava andando nella direzione sbagliata, la bloccò di proposito e la direzionò su Silvia. «Non vale, hai barato» disse lei contenta però di farsi avvicinare. I due si baciarono ancora più a lungo di Luca e Federica. Alessandro la strinse a sé per sentire i seni premere contro di lui, mentre lei gli accarezzava i pettorali sotto la t-shirt. Non avevano alcuna intenzione di smettere. La ione cresceva e il desiderio di spingersi oltre li fece alzare per andare ad appartarsi qualche

metro più in là. Era talmente buio che in pochi i uscirono dall’alone di luce delle candele consumate. Fuori dalla vista degli altri, Alessandro appoggiò Silvia contro un muretto e con la mano le sganciò il reggiseno. Lei aprì la patta dei pantaloni e iniziò ad accarezzargli il membro già duro. I respiri si fecero caldi e affannati. Le labbra semiaperte lasciavano spazio alle lingue di muoversi e ai gemiti di uscire per incalzare il ritmo. In un attimo le mutandine di Silvia finirono per terra e le dita di lui si infilarono fra le sue cosce. Silvia cercò un appiglio premendo con la schiena contro il muro. Alessandro con le braccia robuste la sollevò ed entrò dentro di lei. Le gambe di Silvia si strinsero sempre più forte attorno alla sua vita, mentre le mani si perdevano fra riccioli biondi che le solleticavano il collo. I ragazzi si guardarono per qualche istante in silenzio e poi scoppiarono a ridere commentando divertiti i gemiti che sentivano in lontananza. Luca, eccitato dalla situazione, approcciò di nuovo Federica e riprese a baciarla. Dolcemente la fece sedere sopra di lui e fece scivolare il suo top verso il basso. Federica ondeggiava sinuosa con tutto il suo corpo, con le ciocche dei capelli che uscivano dall’elastico per cadere in avanti sui capezzoli turgidi. Marco e Chiara furono gli unici a rimanere seduti al proprio posto. Dato che si sentivano a disagio e non volevano rimanere ad assistere alla scena, decisero di togliere il disturbo spostandosi da un’altra parte. Dopo aver camminato qualche metro lungo il sentiero, si sedettero su due pietre vicino a un fiumiciattolo. Chiara era molto nervosa. L’alcol e la marijuana non erano riusciti a renderla disinibita come Silvia e Federica. Marco tuttavia non aveva alcuna intenzione di saltarle addosso. Chiara era carina, ma non era proprio il suo tipo. Inoltre non riusciva a levarsi dalla testa l’immagine del padre che lo rimproverava per il fatto che stesse facendo tardi. I due non si baciarono neppure e rimasero lungo la riva del fiume a chiacchierare del più e del meno, fino a quando Marco ricontrollò l’orario sul cellulare. Vedendo che era già l’una ata, invitò Chiara a raggiungere gli altri e con lei li radunò dicendo che era giunto il momento di fare rientro. L’indomani sarebbe stato una lunga giornata e non voleva presentarsi distrutto già al primo allenamento. Una volta tornati in paese, i ragazzi si scambiarono i numeri di telefono e, soddisfatti per la bella serata, si misero d’accordo per una seconda uscita. Per tutta la via del ritorno Luca e Alessandro commentarono le loro prodezze sessuali, mentre Marco controllava ossessivamente l’orario e allungava il o

per arrivare più in fretta all’albergo.

Capitolo VIII «Allora, chi entra per primo?» disse Andrea mentre camminavano verso il ristorante costeggiando il lago. «Tu, amore. Sei tu quello che non ha paura di niente e non crede alle storie dei fantasmi. Fai pure strada che noi ti seguiamo» replicò Pamela mentre guardava l’edificio mezzo bruciato farsi più nitido e sinistro ad ogni o. Il lago era grigio e salmastro come lo avevano visto sca e Cristina poco prima. L’acqua si increspava leggermente quando tirava vento, per poi tornare immobile e senza vita subito dopo. La recinzione era storta e arrugginita. Il filo spinato in cima correva irregolare lungo tutto il perimetro. Dove una volta si trovavano i lettini e gli ombrelloni per i turisti, cresceva ora l’erba incolta che a tratti lasciava intravedere pezzi di piastrelle consumate. «Cavolo, questo lago è davvero grande» disse Andrea stupito, mentre cercava di vederne la fine all’estremità opposta. «Pensa che, quando ero bambina e venivo quassù, mi sembrava immenso. Quando si è piccoli le cose sembrano sempre molto più grandi di quelle che sono in realtà e questo per me era il mare di Spinello. Mi ricordo che mia mamma mi prendeva in giro tutte le volte che lo chiamavo così. Credo di non essere riuscita a comprendere veramente la differenza fra lago e mare finché non ho iniziato a studiare geografia in terza elementare» disse sca intenerita dai buffi ricordi. Percorsa tutta la lunghezza del lago, i ragazzi giunsero finalmente di fronte al ristorante. La posizione soprelevata rispetto alle case circostanti lo rendeva più imponente e maestoso di quanto in realtà non lo fosse. Le nuvole grigie stavano intanto lentamente riapparendo in cielo. Scomparendo dietro quello che rimaneva del tetto, conferivano all’edificio un aspetto tetro e inquietante. I muri esterni erano imbrattati dai graffiti e avano dal colore grigio al nero nella parte andata a fuoco. Le persiane scolorite erano semi aperte e lasciavano intravedere le finestre quasi tutte con i vetri rotti. Davanti alla porta d’ingresso principale c’era un enorme veranda di legno. Alla sua estremità una lunga erella conduceva alla zona balneare del lago. I pilastri che la sostenevano erano marci e le tavelle di legno avevano ceduto un po’ ovunque, creando delle

aperture che rendevano impossibile il aggio. In fondo alla erella un cancellino di ferro, bloccato da un grosso lucchetto, impediva l’unico accesso al lago. La porta d’ingresso principale del ristorante era chiusa a chiave e sbarrata dall’esterno con un’enorme trave posta di traverso. Andrea propose di fare un giro tutt’intorno per cercare un’altra entrata. Cristina e sca si ricordarono di aver visto la lastra di ferro sul lato sinistro e gli fecero strada, lasciando più indietro Roberto che stava ancora osservando la conformazione dell’edificio. «Sicuramente questa era la porta della cucina per il carico e lo scarico della merce» commentò Andrea avvicinandosi per capire come aprirla. Con le unghie appena fatte e il cane al guinzaglio, Pamela si tirò indietro preferendo lasciar fare il lavoro duro al fidanzato. Cristina e sca la seguirono, aiutandola a prendere in braccio il cane per evitare che si tagliasse con i vetri sparsi nel prato. Andrea, pensando che fosse pesante, appoggiò entrambe le mani sul bordo sinistro e tirò con tutta la sua forza. La lastra di ferro invece era solo appoggiata e il movimento brusco verso di sé lo fece quasi cadere a terra. «Qualcuno deve essere già entrato qui» disse lui mentre si strofinava le mani per pulirsi dalla ruggine. «Sicuro che qualcuno è già entrato. Quale luogo migliore ci può essere per dei ragazzini che vogliano provare il brivido dell’avventura» replicò sca curiosa di vedere quello che c’era dentro. In quel momento si sentiva esattamente come quei teenager che, dopo aver visto un film dell’orrore, vanno alla ricerca delle case abbandonate per vivere quell’emozione di persona. Roberto era ancora separato dal gruppo. Avendo visto le finestre aperte al piano superiore, stava cercando un modo per salire su uno dei terrazzi. «Guarda che lo abbiamo già trovato il modo per entrare» gli urlò Cristina vedendolo arrampicarsi sulla tettoia più bassa. «Lascia perdere e a di qua» aggiunse Andrea indicandogli la porta che aveva

appena aperto. «Il tetto è pieno di amianto». Quando tutti furono dentro, la prima stanza che videro fu appunto la cucina. Il pavimento era cosparso di vetri rotti e pezzi di piastrelle sollevate da terra. La luce entrava fioca attraverso l’unica finestra ricoperta di ragnatele. Sul lato destro c’era ancora un frigorifero e un banco da lavoro. sca vi si avvicinò e osservò una lunga fila di barattoli impolverati sulla mensola. Le etichette scolorite riportavano il nome di alcune spezie orientali oltre alle classiche sale e pepe. Sollevò alcuni coperchi per vedere se erano ancora lì dentro, ma ovviamente i barattoli erano vuoti. Si spostò davanti al frigorifero, afferrò la maniglia dello sportello e tirò per aprirlo. Era stato chiuso per talmente tanto tempo che le guarnizioni avevano creato una specie di ventosa. Al secondo tentativo e con l’aiuto di Pamela, sca riuscì ad aprirlo e vedere cosa c’era dentro. Come si aspettava, il frigorifero era vuoto, con i ripiani interni mezzi rotti e rovesciati l’uno sull’altro. La tentazione di frugare dentro ai cassetti e aprire gli sportelli colse anche Cristina e Roberto che si avvicinarono a una credenza vicino alla finestra. Lì trovarono ancora tutte le posate e una pila di piatti in ceramica di fianco a una dozzina di bicchieri impolverati. Al centro della stanza la cappa di aspirazione scendeva dal soffitto verso il piano cottura. Un paio di mestoli pendevano dall’alto, mentre su uno dei fornelli poggiava un pentolone in acciaio, sporco all’interno e schiacciato su un lato. Cristina immaginò la cucina piena di persone nel momento del servizio e il cuoco indaffarato ai fornelli che dava ordini a tutti. «Cristina, sbrigati e ami le fettine di pollo al pomodoro» urlò Andrea facendo finta di mescolare, sbattendo il mestolo dentro la pentola. «Tu sguattera, porta quei piatti in sala e muoviti prima che diventino troppo freddi» aggiunse guardando la fidanzata che lo fulminò con un’occhiataccia. Nessuno sembrava voler giocare al piccolo chef. La curiosità di ispezionare l’edificio aveva preso il sopravvento. Roberto si spostò nella stanza accanto e gli altri lo seguirono in fila indiana. La stanza successiva era la sala da pranzo che comunicava con la cucina tramite una porta a spinta e una piccola finestra a muro chiusa da uno scorrevole. «Si chiama questo» disse sca che conosceva bene come funzionavano le cucine. «Ce l’abbiamo anche noi al lavoro. È molto comodo e ti permette di allungare tutti i piatti sporchi al lavapiatti senza dover are dalla

porta principale e rischiare un frontale con i camerieri che escono con quelli pieni». Andrea alzò e abbassò più volte lo scorrevole. Era un’idea geniale che avrebbe potuto funzionare anche a casa loro nella parete che divideva la cucina dalla sala. «Scordatelo!» disse Pamela che aveva già capito a cosa stesse pensando. Senza aggiungere altro raggiunse le amiche che, nel frattempo, stavano già curiosando nella stanza. Ad una prima occhiata, anche la sala da pranzo sembrava un cumulo di vetri rotti e sporcizia. Le finestre erano piene di ragnatele, i muri imbrattati di scritte e graffiti e il poco mobilio rimasto era consumato dai tarli e ricoperto di polvere. «I ragazzini si devono essere divertiti un sacco a spaccare tutto» disse Roberto indicando le sedie ribaltate, un tavolo spaccato a metà e un flipper rovesciato a terra in un angolo della stanza. Cristina e sca proseguirono lentamente verso la stanza successiva, mentre Roberto e Andrea ritornarono in cucina. Pamela era impegnata a cercare di tenere fermo il cane che si divincolava senza sosta fra le sue braccia. Camminando a zigzag per la sala da pranzo, l’unico suo pensiero era quello di non farlo scendere per paura che si fe male. Più volte chiamò il fidanzato perché le desse una mano, ma lui sembrava non sentirla. Le braccia le facevano male e l’energia di Cleopatra stava diventando incontenibile. «Andrea, puoi venire qui a tenere un po’ il cane per favore?» urlò con tono seccato, avvicinandosi alla cucina, senza neppure alzare lo sguardo per vedere dove stesse mettendo i piedi. Andrea e Roberto non le diedero neppure il tempo di aprire la porta, che sollevarono di scatto lo scorrevole e le fecero paura. Pamela fece un salto all’indietro, cacciò un urlo di spavento e si lasciò scappare il cane dalle braccia. Cleopatra in un balzo fu a terra e iniziò a correre in ogni direzione annusando tutto quello che le capitava a tiro. «Siete dei cretini» urlò mentre rincorreva il cane per cercare di bloccarlo. La sua espressione di terrore aveva piegato dal ridere i ragazzi che ritornarono nella sala da pranzo sghignazzando rumorosamente. Pamela si chinò a terra nel disperato tentativo di placare il cane e la sua disperazione fece impietosire

Andrea che corse ad aiutarla. «Dai che te la prendo io» le disse correndo a destra e sinistra cercando di bloccarlo in un angolo della stanza. «Bene, allora arrangiati» gli rispose indignata. Alzandosi a fatica per le ginocchia doloranti, si girò dall’altra parte e raggiunse le amiche nella sala attigua. «Ehi ragazzi, guardate che meraviglia» disse Cristina mentre osservava la bocca del forno a legna. La stanza successiva era la pizzeria del locale. Il forno e il bancone dove i pizzaioli stendevano la pizza erano le uniche cose intatte rispetto al resto del mobilio che era in gran parte bruciato. «Mi sa che l’incendio è scoppiato in questa stanza» disse sca osservando da vicino uno dei muri anneriti. «Giusto, l’incendio. Ecco perché questa parete è nera e quasi tutti i mobili sono rovinati come se avessero preso fuoco» disse Andrea. «Vi immaginate lo spavento? Stare seduti con gli amici a cenare e poi d’improvviso dover correre verso l’uscita per scappare dalle fiamme» commentò inquietata Pamela. «Davvero interessante» aggiunse Roberto mentre osservava la bocca del forno. «Di sicuro l’incendio non è partito da qui. La parete refrattaria non sarebbe rimasta in un così buono stato». «Ecco, è arrivato Sherlock Holmes» commentò divertito Andrea. «Chissà com’è successo…» si chiese Cristina guardando nella direzione di sca. «Non lo so. In verità credo che non l’abbiano mai scoperto» rispose lei mentre frugava fra le pagine di un vecchio giornale appoggiato su un tavolo. «Guardate qua. C’è un articolo sulla morte di due ragazzi avvenuta qui durante il Trofeo Olimpia».

«La data risale al 2004» disse Roberto che con foga le era ato davanti per leggere il trafiletto. «Dice che l’autopsia ha riscontrato la presenza di sostanze dopanti nei loro corpi unite a una gran quantità di diuretici e del lassativo. La causa della morte è stata attribuita alla combinazione mortale di quelle sostanze». «E tre!» commentò Andrea con tono sempre più sarcastico. «Tre incidenti nello stesso anno. Dice per caso dove sono morti i ragazzi? Ve lo immaginate se sono morti anche loro qui dentro? Di sicuro non si potrebbe dire che il ristorante non portasse sfiga...». Mentre Pamela si avvicinò al moroso per riprendersi in braccio il cane, un rumore proveniente dalla cucina interruppe la conversazione paralizzandoli tutti. Sembrava quello di un contenitore di vetro quando cade sul pavimento e si rompe. Pamela afferrò immediatamente il braccio di Andrea e si strinse a lui con il cane schiacciato nel mezzo. Roberto fece cenno a tutti di stare zitti e tese l’orecchio per sentire se qualcun altro fosse entrato nella cucina. «Ragazzi, avete sentito anche voi quel rumore?» chiese Andrea sottovoce sforzandosi di essere serio. «Che dici, sca, ci saranno i fantasmi anche qui?». sca si voltò verso di lui e gli fece una smorfia. Non sopportava quando la prendeva in giro in quel modo. «Se sei così tanto sicuro che i fantasmi non esistono, perché non vai a vedere cos’è successo?» gli rispose bisbigliando. Andrea le fece la smorfia indietro, ma non mosse un piede. Faceva tanto il gradasso, ma da solo in quella stanza non ci voleva entrare. Dopo qualche secondo, non sentendo nessun altro rumore, Roberto si fece coraggio e si incamminò verso la porta della cucina. Gli altri lo seguirono in fila indiana avanzando in punta di piedi. «Ragazzi, ho paura. E se c’è qualcun’altro là dentro?» chiese Pamela piagnucolando sottovoce. «Shhh!» risposero tutti in coro. Quando raggiunsero la porta della cucina si guardarono negli occhi con fare

interrogativo per capire chi per primo sarebbe entrato nella stanza. Andrea, sotto pressione per gli sguardi insistenti delle ragazze, prese l’iniziativa e, invece di aprire la porta, sollevò leggermente lo scorrevole del . Si avvicinò alla piccola fessura e, ruotando velocemente gli occhi a destra e sinistra, cercò di notare se ci fosse qualcosa di diverso. «Visto niente?» chiese a bassa voce sca con il cuore in gola. «Dai che non c’è nessuno» rispose Andrea girandosi verso gli amici. «Ragazzi, io entro» disse Roberto stanco di fare la figura del fifone. Mentre spinse deciso la porta verso l’interno, un colpo di vento attraversò rapidamente la cucina facendo sbattere la lastra di ferro esterna contro il muro dell’edificio. Le ragazze cacciarono un urlo di spavento e si strinsero le une nelle braccia delle altre. «Ragazze, calma. È solo contraria» commentò tranquillo Andrea, vedendo che nella stanza non c’era nessuno. «Ecco cos’è stato» aggiunse Roberto chinandosi sul pavimento. «Uno di quei barattoli porta spezie è caduto a terra e si è rotto. Il vento deve averlo fatto rotolare dalla mensola». «Hai visto? Tocchi le cose e poi le rompi» disse Andrea a sca. «Non ho fatto niente io. Non li ho nemmeno toccati quei barattoli» rispose lei picchiandolo con forza sul braccio. «Sì che li hai toccati. Hai guardato cosa c’era dentro, non ti ricordi?». sca abbassò lo sguardo e non disse più nulla. L’arcano comunque era stato risolto. Nessuno era entrato nel ristorante e niente di paranormale era successo in quella stanza. Tutti tirarono un sospiro di sollievo e, commentando quanto fossero stati stupidi a spaventarsi per niente, ritornarono nella pizzeria. Solo Pamela rimase con i nervi a fior di pelle e, indugiando qualche metro dietro agli amici, propose di tornare a casa. Gli altri però non ne vollero sapere. Incuriositi dalle storie raccontate da sca, decisero a maggioranza di proseguire nell’esplorazione.

Cristina e sca, in testa al gruppo, uscirono dalla pizzeria e arrivarono al vano scala. Roberto e Andrea le raggiunsero camminando a o svelto, mentre Pamela rimase più indietro, impegnata a fare lo slalom fra i tavoli e a tenere stretta Cleopatra che continuava a divincolarsi per scendere. «Noi andiamo a vedere cosa c’è di sotto» disse Cristina tirando per un braccio sca giù per le scale. «Okay, allora noi perlustriamo il piano di sopra» rispose Roberto salendo i gradini insieme ad Andrea. Quando Pamela finì di attraversare la pizzeria e fu a cavallo della porta, guardò verso le scale, ma non vide più nessuno. Girando la testa a destra e sinistra, cercava di indovinare dove gli amici potessero essere andati. «Ragazzi, dove siete?» chiese a voce alta facendo un o in avanti per vedere meglio nella penombra. Nel silenzio del corridoio nessuno rispose. Poi d’improvviso una serie di colpi le fecero prendere un gran spavento. Stringendosi nella spalle e cercando di trattenere Cleopatra, si girò di scatto verso la pizzeria per capire cosa stesse succedendo. Con gli occhi sbarrati e il cuore in gola, vide le pagine del giornale sfogliarsi rapidamente sul tavolo e le persiane muoversi rumorosamente sbattendo contro le finestre e i muri esterni dell’edificio. Il cane impaurito iniziò ad abbaiare contro il vuoto, come se stesse puntando qualcosa di fronte a sé. Pamela cercò di farlo calmare e continuò a guardarsi intorno per paura che ci potesse essere qualcuno. Quando il vento cessò di colpo di soffiare, le persiane smisero di sbattere e si fermarono accostate alle finestre. La luce nella stanza si era fatta talmente fioca che a fatica riuscì a distinguere il mobilio nella penombra. Con il cuore che le batteva forte e le gambe che le tremavano, Pamela camminò all’indietro fino alla tromba delle scale. «Ragazzi, dove siete? Non possiamo andare? Dai che Lorenzo ci sta aspettando» urlò più forte sperando che i ragazzi questa volta la sentissero. Ancora una volta però nessuno rispose. Spaventata a morte di fronte alla scalinata, doveva assolutamente decidere da che parte andare. Preferendo evitare l’oscuro scantinato, optò per il piano superiore e si lanciò di corsa su per le scale.

Cristina e sca nel frattempo erano arrivate a quelli che una volta erano i bagni del ristorante. La luce era veramente scarsa. Il piano era semi interrato e le uniche finestre presenti erano piccole vasistas sul muro di sinistra. A destra due porte separavano i bagni degli uomini da quelli delle donne. Le ragazze avanzarono lentamente lungo il corridoio tenendosi a braccetto. Non riuscendo a vedere bene dove stessero mettendo i piedi, si sostennero a vicenda per camminare meglio sulle piastrelle rotte. Giunte a metà corridoio, in prossimità di una delle finestrelle, scorsero un armadio oltre al quale una grossa coperta ricopriva qualcosa di voluminoso appoggiato sul pavimento. Cristina pensò subito che si trattasse di un corpo. sca, intimorita dalla strana forma, si aggrappò al braccio dell’amica e fissò la coperta dubbiosa. «Secondo te, cosa c’è lì sotto?» chiese Cristina mentre si avvicinava. «Non lo so, ma la cosa non mi piace per niente» rispose sca a fil di voce, non sentendosi affatto a suo agio a perlustrare il seminterrato da sola con l’amica. «È troppo buio qui, forse è meglio tornare dai ragazzi». Cristina era curiosa e avrebbe voluto scostare la coperta con un piede per vedere cosa c’era sotto, ma l’amica la tirò verso di sé e la fermò prima che potesse avvicinarsi troppo. Mentre le ragazze erano immobili e divise sul da farsi, il silenzio dello scantinato venne interrotto improvvisamente da un rumore proveniente dall’ultimo bagno. Il suono metallico, come di un tubo che cade sul pavimento, fu talmente forte da farle correre su per le scale urlando. Senza nemmeno voltarsi indietro, raggiunsero in un baleno il pian terreno e proseguirono verso quello superiore. Sperando di incontrare i ragazzi per potersi tranquillizzare, trovarono invece Pamela che, uscendo da una stanza, stava chiamando disperata il nome del fidanzato. «Ehi Pami, cos’è successo?» chiese sca allarmata con il fiatone ancora in gola. «Non azzardatevi più a lasciarmi da sola» rispose lei correndo loro incontro con le lacrime negli occhi. «Dove sono Andrea e Roberto?» aggiunse Cristina un po’ preoccupata. «Non lo so. Sono corsa di sopra chiamando tutti, ma nessuno mi ha risposto». «Probabilmente i ragazzi sono in una stanza e non ti hanno sentito» replicò

sca cercando di rassicurare l’amica. «Noi eravamo nel seminterrato, per quello non ci siamo accorte che ci stavi chiamando». Le ragazze si guardarono attorno e, camminando velocemente, aprirono le porte di tutte le stanze per cercarli. Il corridoio era molto lungo e una quindicina di camere si distribuivano alternate per tutta la sua lunghezza. Quando videro Andrea uscire da una delle ultime camere, gli corsero incontro gridando all’unisono il suo nome. «Ragazze, cosa urlate? Sembra che abbiate visto un fantasma». Pamela afferrò subito il suo braccio e gli ripeté piagnucolante di voler tornare a casa. «Pamela forse ha ragione» commentò sca che non si sentiva più tranquilla a stare lì dentro. Lo scantinato le aveva messo una fottuta paura e vedere l’amica così agitata non la faceva stare di certo meglio. «Eravamo nello scantinato e abbiamo sentito un rumore…» disse Cristina cercando di spiegare ad Andrea del perché fossero così agitate. «Poi abbiamo visto Pamela uscire da una stanza urlando il tuo nome e ci siamo prese un colpo». «La solita fifona, vero tesoro?» commentò Andrea prendendo in giro la fidanzata mentre la stringeva a sé. «Qua di sopra comunque non c’è niente di particolare. Queste dovevano essere le camere per gli ospiti, ma sono quasi tutte vuote e non c’è un gran che da vedere. Se è per me, possiamo anche andare». «Bene, allora recuperiamo Roberto e andiamo» disse sca che aveva già ripreso a cercarlo dentro le altre stanze. Roberto, gironzolando da solo, si era infilato in una delle poche camere ancora ammobiliate in fondo al corridoio. Al suo interno c’erano due letti singoli senza materasso, un paio di comodini mangiati dai tarli, una piccola scrivania vicino alla finestra e un armadio con l’anta semi aperta che lasciava intravedere uno specchio rotto. Di fianco alla scrivania Roberto stava osservando il tempo fuori dalla finestra: le nuvole correvano veloci nel cielo e stavano minacciando pioggia. Sentendo in lontananza le voci degli amici, si girò verso la porta e vide

un’ombra are velocemente lungo il corridoio. Il contrasto di luce gli impedì di mettere a fuoco in fretta, ma subito pensò che si trattasse di Andrea con uno dei suoi soliti scherzi. Quando attraversò la stanza per avvicinarsi alla porta, una folata di vento la chiuse di colpo facendola sbattere rumorosamente. Roberto afferrò la maniglia per spingerla verso il basso e in quel momento sentì come una forza che dall’esterno tirava nella direzione opposta. «Dai Andrea, smettila con questi scherzi idioti e fammi uscire» disse ridendo mantenendo la calma. Dall’altra parte della porta nessuno rispose. Premendo con più forza sulla maniglia, scosse la porta avanti e indietro per cercare di sbloccarla. «Dai ragazzi, il gioco è bello quando è corto» continuò Roberto insistendo sulla porta. Il vento aveva ripreso a soffiare e una seconda ventata spostò l’anta dell’armadio con lo specchio rotto. Il cigolio dello sportello che si muoveva avanti e indietro lo fece girare per controllare la stanza. Le nuvole all’esterno si erano fatte più grigie e la penombra della camera sembrava voler inghiottire tutto quello che c’era dentro. «Ragazzi, mi avete proprio stufato» disse un po’ agitato girandosi di tanto in tanto per guardarsi alle spalle. Aveva l’impressione che qualcuno si stesse avvicinando e voleva a tutti i costi uscire da lì dentro. Premendo con tutto il peso del suo corpo sulla maniglia, diede uno strattone alla porta che si aprì violentemente facendogli fare un balzo all’indietro. Sicuro di trovarsi di fronte i ragazzi che se la ridevano, rimase stupito nel vedere che fuori non c’era nessuno. Quando girò la testa a sinistra e li vide avvicinarsi, tirò un sospiro di sollievo e corse nella loro direzione. «Sei qui, Roberto» disse Cristina stanca di cercarlo da tutte le parti. «È da un’ora che ti cerchiamo. Non ci sentivi chiamarti?». «In realtà ero io che chiamavo voi». «Come mai sei così agitato?» chiese sca vedendolo in affanno. «Niente, niente. È solo che non riuscivo ad aprire la porta…».

«Ragazzi, per favore, andiamo via da questo posto» ripeté Pamela con tono sempre più insistente. Rimanere ferma nella penombra di quel corridoio non le piaceva per niente. Un paio di tuoni lontani nel cielo le avevano fatto venire i brividi e l’unica cosa che voleva fare era uscire da quel posto il più in fretta possibile. «Okay tesoro, questa volta ti accontentiamo» disse Andrea che voleva fare rientro in fretta per paura che si mettesse a piovere. I ragazzi, senza aggiungere una parola, scesero velocemente le scale e attraversarono a ritroso tutte le stanze. Pamela fu la prima ad uscire dal ristorante, seguita da sca che era sempre più preoccupata di ritrovare Lorenzo a casa arrabbiato per la lunga attesa. Andrea e Cristina uscirono subito dopo, mentre Roberto rimase più indietro bloccato nella pizzeria. Nella fretta di stare al o con gli altri, era inciampato in un mattone che lo fece sbattere contro il tavolo dove si trovava il giornale che avevano letto prima. Nel disperato tentativo di non finire per terra, con una mano si aggrappò allo spigolo, mentre con l’altra premette sulle pagine impolverate per cercare di sostenersi. L’impatto sul tavolo fu talmente brusco e veloce che finì per caderci sopra con tutto il busto. Quando riprese il controllo e si staccò dal giornale, la sua attenzione fu catturata da un’immagine che, a tutta pagina, ritraeva il ristorante che bruciava nelle fiamme. Fissò quella foto per un istante e si immaginò la scena dell’incendio nella sala in cui si trovava. «Roberto, ti vuoi sbrigare?» urlò Cristina a cavallo della porta. Roberto in un balzo la raggiunse in cucina e insieme uscirono dall’edificio accostando la lastra di ferro dietro di sé contro il muro. sca accelerò il o immaginandosi Lorenzo spazientito che camminava su e giù per la casa, mentre Pamela e Andrea rimasero più indietro per assecondare il cane che, finalmente a terra, tirava nel guinzaglio infilandosi da tutte le parti. «Certo che ci siamo prese un bello spavento» disse Cristina mettendosi a ridere. «Già. Forse ci siamo lasciate un pochino suggestionare» le rispose sca ripensando alla corsa che avevano fatto su per le scale. «Però dovete ammettere che il tempo non è proprio dalla nostra parte e questo vento ci ha fatto cagare in mano con tutte quelle porte e finestre che sbattevano»

aggiunse Roberto sorpreso dall’intensa avventura. «Io non ci ho trovato nulla di strano» commentò Andrea girandosi indietro. «A me sembra solo un vecchio ristorante abbandonato». I ragazzi si voltarono e videro l’edificio in lontananza farsi più piccolo man mano che si allontanavano dal centro del paese. «Sarà meglio sbrigarsi però adesso. Conoscendo Lorenzo, credo che dovremmo avere più paura della sua reazione che di una struttura abbandonata» disse sca accelerando ulteriormente il o. I ragazzi scoppiarono in una sonora risata e, impegnandosi a camminare su per la collina, scongiurarono di non aver fatto arrabbiare troppo Lorenzo.

Capitolo IX La prima settimana a Olimpia era sempre la peggiore. C’erano le questioni logistiche da definire, le squadre da preparare in base ai sorteggi e gli incontri fra gli allenatori e i manager da organizzare. Tutti gli anni si ripeteva la stessa storia e tutte le volte le persone si comportavano come se fosse la prima volta: panico generale e tanta tensione nell’aria. L’allenatore di Alessandro, Marco e Luca per i primi giorni della settimana era inavvicinabile e insopportabile. Non lo si poteva disturbare per nessun motivo, mentre quando era lui a chiedere qualcosa, bisognava essere pronti, scattanti e soprattutto obbedienti. Marco era quello che più di tutti avvertiva la tensione. Da una parte aveva l’allenatore che imprecava a ogni minimo errore sul campo, dall’altra il padre che, anche quando era assente, come uno spirito onnipresente gli ripeteva nella testa quanto fosse importante che vincesse il trofeo. Gli allenamenti iniziavano presto la mattina e duravano diverse ore. Poi c’era la pausa pranzo e il pomeriggio si riavano gli schemi di gioco e si studiavano le formazioni avversarie. Solamente il dopo cena e un paio di pomeriggi infrasettimanali rimanevano liberi per potersi riposare, oltre alla settimana di rodaggio prima dell’inizio della competizione vera e propria. Il Trofeo Olimpia sembrava ai partecipanti più un periodo di intenso lavoro che un’opportunità di svago e socializzazione. Anche se ogni squadra avrebbe affrontato le altre al massimo tre volte a settimana, gli allenamenti tecnici e di defaticamento occupavano buona parte delle loro giornate, lasciando poco spazio al divertimento e al tempo libero. Erano le nove del mattino e la squadra di Marco era tutta riunita attorno al mister a bordo campo per le informazioni di routine prima di iniziare l’allenamento. «Allora ragazzi, ormai dovreste sapere come funziona ma, dato che ci sono un paio di persone nuove, vi rispiego tutto brevemente» disse l’allenatore mentre camminava freneticamente sull’erba tenendo una cartellina in mano. «Sono stati creati 3 gironi composti ognuno da 5 squadre, raggruppate secondo un criterio casuale di sorteggio. Ogni squadra affronta le altre una sola volta. Le prime due

vincitrici di ogni girone accedono alla fase seguente, mentre le terze classificate se la giocano in una fase di ripescaggio dove eranno il turno le due migliori. A questo punto si disputeranno i quarti di finale dove parteciperanno otto squadre: le tre migliori prime, le tre migliori seconde e le due migliori terze. Un altro sorteggio stabilirà gli accoppiamenti. Le quattro squadre uscite vincenti da questo turno giocheranno le semifinali e poi ci sarà la finale per le due migliori. Per farla breve, quello che a noi interessa per il momento è riuscire ad arrivare direttamente ai quarti di finale senza are dalla fase di ripescaggio». Bloccandosi rigido sui suoi piedi e fissando uno ad uno i giocatori, concluse il suo discorso. «Siamo capitati in un girone facile, non dovremmo avere grossi problemi ad accedere direttamente alla seconda fase. Detto questo però, non voglio che prendiate le partite sottogamba. È un attimo fare una cazzata e rischiare di essere eliminati subito al primo turno. Comunque, una volta arrivati ai quarti, se saremo di nuovo fortunati con il sorteggio, ci scontreremo al massimo con due squadre toste. Lì dovrete dare il massimo di voi stessi e vedrete che arriveremo tranquillamente in finale». Alessandro sputò la cicca per terra e ripeté le parole dell’allenatore, a modo suo, con fare sicuro e sprezzante. «Quest’anno gli spacchiamo il culo a quei pivellini». «Ci sarà da divertirsi» gli rispose Luca, mentre si pugnava nella mani con i guanti da portiere addosso. «Siamo stati fortunati abbastanza con il sorteggio da poter andare avanti con il minimo sforzo. Non credo sarà un problema are direttamente ai quarti di finale. Così avremo una settimana libera per cazzeggiare, mentre gli altri saranno impegnati nella fase di ripescaggio» aggiunse Alessandro ripensando alla serata trascorsa con le ragazze. «Stasera ci incontriamo di nuovo con Silvia, Federica e Chiara. Altro giro, altra serata alla grande». Marco non disse nulla e nemmeno sembrava essere interessato a quello che i due amici stavano confabulando. Era talmente preso da quello che diceva l’allenatore che l’ultima cosa a cui voleva pensare era quella di organizzare le uscite serali. «Marco? Pronto? Ci sei?» chiese Alessandro scuotendolo. «Vedi di darti una

mossa con quella Chiara. Per il momento sei l’unico rimasto a bocca asciutta». Il fischio dell’allenatore segnò la fine della loro conversazione. Era giunto il momento di scendere in campo e fare le persone serie almeno per la durata dell’allenamento. Durante la prima pausa i ragazzi si sedettero sulle panchine a bordo campo per organizzare le tattiche di gioco. L’allenatore impiegò diversi minuti per spiegare i punti deboli della difesa, così che Alessandro e Luca ebbero tutto il tempo di fare un salto da soli nello spogliatoio. «Metti queste nella borsa e prendine un paio tutti i giorni» disse Alessandro trafugando dentro l’armadietto per non farsi vedere. «Cosa sono anche queste? Non credi che forse stiamo un po’ esagerando?» replicò dubbioso Luca mentre osservava la scatola di fialette cercando di capire cosa fossero. «No, non preoccuparti. Queste non sono come le altre pillole, sono solo diuretici che ti servono per mascherare le sostanze dopanti qualora dovessero fare dei controlli. Al massimo ti faranno fare più pipì. Sono assolutamente innocue, credimi» bisbigliò Alessandro facendo cenno di sbrigarsi a metterle via. «Non mi piace questa storia. Forse faremmo meglio a smettere. Non sappiamo neppure da chi proviene tutta sta roba. E se ci beccano?» continuò Luca preoccupato. «Quello che mi a la roba è un amico, mi posso fidare di lui. Ha detto che sono cose che usano tutti e che sono sicure al cento per cento. Senti, facciamo così, vinciamo questo benedetto trofeo e poi la facciamo finita, okay? Per il momento stai tranquillo, è tutto sotto controllo e soprattutto, acqua in bocca, anche con Marco, meglio che lui non sappia niente. Lo sai come la pensa su queste cose...». «Okay, va bene, ma dopo il trofeo io me ne tiro fuori». Mentre Luca mise la confezione nella borsa, Marco entrò nello spogliatoio. «Ragazzi, cosa combinate qua? Muovetevi, stiamo aspettando solo voi per riprendere l’allenamento».

Alessandro e Luca seguirono di corsa l’amico in campo, scambiandosi lo sguardo di quelli che sono complici e devono mantenere il segreto. Come tutti gli anni l’accordo fatto con le squadre di calcio e gli organizzatori del torneo era quello di cenare al ristorante “al Lago”. L’idea era stata sollecitata dal Sindaco per garantire grosse entrate al fratello che era sia il cuoco che il proprietario del locale. Il ristorante si assicurava così le sale piene e vedeva consolidata la sua popolarità oltre la vallata. Le stanze interne erano riservate ai calciatori e agli ospiti importanti, mentre la veranda esterna veniva lasciata ai turisti perché si potessero godere il paesaggio collinare e la vista sul lago. Ogni sera, al calare del sole, il locale era un brulicare di persone che animavano tutti i tavoli. Il tintinnare delle posate sui piatti e il chiacchierio spensierato riecheggiavano lungo le vie limitrofe per disperdersi verso le case più lontane. Le luci colorate sulla veranda e tutt’attorno al lago illuminavano il centro del paese, mentre la musica in sottofondo lo rendeva vivo e allegro. Sembrava che quel posto fosse diventato il cuore pulsante di Spinello. Era l’ingranaggio principale attorno al quale ruotava tutta l’economia del paese. Alle nove in punto Alessandro, Luca e Marco erano già fuori dal ristorante per incontrare le ragazze. Il sabato sera era la serata del party al lago. La balneazione era possibile fino a tarda notte, due bar aggiuntivi venivano allestiti per servire cocktail ai partecipanti e una band suonava musica dal vivo fino a notte fonda. Appena raggiunsero le ragazze all’ingresso del lago, Alessandro invitò tutti al bar a prendere qualcosa da bere. Le ragazze ordinarono un cocktail alcolico alla frutta, mentre i ragazzi scelsero qualcosa di più forte a base di rum. «Ragazzi, c’è la mia canzone preferita» disse Silvia tirando per un braccio Alessandro per andare a ballare. Con i bicchieri ancora pieni in mano, gli altri li raggiunsero in pista e si scatenarono nella mischia a suono di rock e musica commerciale. Silvia era la più disinibita e ancheggiava nel suo vestito attillato fra le braccia di Alessandro. Luca si dimenava a destra e sinistra con Federica facendo a gara a chi si muovesse nella maniera più stupida, mentre Chiara molleggiava timidamente sulle ginocchia mantenendo i piedi inchiodati a terra. Marco aveva preferito rimanere più in disparte e, posizionatosi sul lato esterno della pista, osservò divertito gli amici sorseggiando lentamente il suo coca e rum. Tutti i calciatori erano presenti alla festa. Alcuni si salutavano e si scambiavano

due parole in amicizia, mentre altri preferivano mantenersi a distanza con atteggiamento di superiorità. Anche se il torneo era nato come circuito amatoriale e pretesto di socializzazione, crescendo di importanza nel tempo, finì per trasformarsi per alcuni di loro in una vera e propria lotta per la supremazia. Oltre alla brama di voler emergere per essere notati, si aggiungeva la rivalità fra regioni che sfociava talvolta in battute e comportamenti razzisti. Per alcune squadre ogni pretesto era buono per rivendicare la loro superiorità sia calcistica che geografica. Fortunatamente i battibecchi, nella maggior parte dei casi, si limitavano al solo piano verbale. Le serate come quelle però, dove girava tanto alcol, erano le più pericolose e gli allenatori dovevano prendersi la briga di tenere a bada i propri ragazzi per evitare azzuffate inutili. «Ehi raga, ma quello non è Matteo, il capitano della squadra del Vicenza? Come cavolo si è conciato?» disse Alessandro mentre squadrava il suo abbigliamento. Con il secondo bicchiere di coca e rum in mano gli si avvicinò ballando e lo guardò con atteggiamento di sfida. «Dai Alessandro, non fare il cretino» disse Marco tirandolo per un braccio. Di sicuro non era il caso di andarsi a cercare delle rogne. Alessandro era un po’ alticcio e voleva solo pavoneggiarsi di fronte alle ragazze. Matteo, che aveva notato l’atteggiamento sbruffone di Alessandro, si stava nel frattempo avvicinando accompagnato da tre amici. «Ragazzi, allontaniamoci da qui prima che succeda un casino» disse Silvia cercando di spingere, con l’aiuto delle amiche, i ragazzi fuori dalla pista. Un po’ d’aria fresca fuori dalla calca avrebbe fatto bene a tutti quanti. Il caldo e la poca ventilazione in mezzo a tutta quella gente aveva surriscaldato un po’ troppo il temperamento di Alessandro. Quando raggiunsero i divanetti accanto ad uno dei bar, Marco si voltò indietro per assicurarsi di non essere seguiti. Fortunatamente i ragazzi della squadra avversaria si erano fermati nel centro della pista e avevano lasciato perdere. La musica continuò a ravvivare il party fino alle tre del mattino e i ragazzi rimasero seduti a chiacchierare nei divanetti fino alla fine, con Alessandro che posticipava continuamente il rientro per godersi la compagnia di Silvia il più a lungo possibile.

«Ragazzi, si è fatta ora di andare» disse Marco controllando l’orologio. Quando si voltò verso i compagni per richiamarli all’ordine, Alessandro si era già allontanato dal gruppo per appartarsi da qualche parte insieme a Silvia. Sdraiandosi in un lettino e coprendosi il viso con il parasole, erano riusciti a ritagliarsi il loro angolo di intimità anche in mezzo a tutta quella gente. «Ecco, adesso chi lo ripiglia più?» commentò Marco, sapendo già che anche quella sera non sarebbe andato a letto a un orario decente. Luca non sembrava affatto preoccupato e, facendo sedere Federica sulle sue ginocchia, iniziò a baciarla intensamente nel collo. Marco e Chiara, come al solito, finirono per rimanere da soli e, seduti l’uno di fronte all’altro, cercarono di trovare qualcosa da dire per ingannare il resto del tempo. Commentando l’abbigliamento della gente che era rimasta fino a tardi, colmarono i momenti di silenzio alla meno peggio, sperando che la serata si concludesse in fretta. Marco continuava a essere preoccupato per il fatto che si sarebbe sentito stanco il giorno dopo, mentre Chiara non vedeva l’ora di riunirsi alle amiche per non sentirsi così tanto a disagio. La prima settimana di rodaggio trascorse tranquilla per i giovani calciatori. Gli allenamenti furono leggeri e venne lasciato loro molto tempo libero per ambientarsi e rilassarsi. Con l’inizio del torneo vero e proprio, avrebbero dovuto impegnarsi tutti i giorni nelle partite e poco tempo sarebbe rimasto da dedicare ai divertimenti. Sarebbero state proibite le uscite serali fra settimana e ridotte quelle durante i weekend. Occorreva che i ragazzi fossero riposati e concentrati sulle partite. Del resto, il motivo principale di quella villeggiatura era quello di partecipare, e possibilmente vincere, al Trofeo Olimpia. I primi giorni a Spinello si susseguirono dunque veloci e la tensione iniziale dei preparativi cedette il o alla routine quotidiana. Il ritmo era stato finalmente preso. Come tutti gli anni gli allenatori cercarono di stabilire delle regole e come tutti gli anni i ragazzi trovarono il modo per riuscirle a trasgredire. Era veramente difficile contenere l’entusiasmo di un gruppo di adolescenti che vedevano il soggiorno a Spinello come una gita scolastica. Per alcuni poteva essere un’occasione per diventare calciatori professionisti, ma per la maggior parte di loro era soltanto un’opportunità in più per fare casino lontano dai genitori. Gli allenatori d’altro canto se ne rendevano perfettamente conto ed evitarono di essere troppo rigidi, non ando mai a controllare le stanze dei

ragazzi ogni sera prima di andare a dormire.

Capitolo X «Ma dove cavolo siete finiti? Cominciavo a pensare che vi foste persi nel bosco... Stavo per chiamare la forestale» urlò Lorenzo impaziente sul ciglio della porta. «Forza che è tardi e ho fame». Le ragazze entrarono per prime e si diressero immediatamente in cucina a preparare il pranzo. Andrea e Roberto rimasero in giardino con Lorenzo per fare scorta di legna. «Allora ragazze, se voi preparate gli ingredienti per i crostini, io affetto il pane e preparo i vassoi da mettere nel fornetto» disse sca da dentro il frigo mentre tirava fuori tutte le cose che aveva comprato. Lo spazio era veramente poco. I ragazzi avevano portato via il tavolo della cucina per unirlo a quello della sala e l’unico ripiano rimasto su cui appoggiarsi era la zona di scolo dei piatti di fianco al lavandino. Cristina tagliò i formaggi e gli affettati mentre Pamela sistemò gli ingredienti sulle fette di pane. «Intanto che le cuoche lavorano, noi apparecchiamo la tavola e apriamo il vino per l’aperitivo» disse Lorenzo spingendo il cavatappi dentro al tappo di sughero. «Noi, in realtà, avremmo già preso l’aperitivo» urlò Pamela dalla cucina. «Ma non si dice mai di no a un buon Primitivo del Salento, quindi vai pure tranquillo che noi ti seguiamo» controbatté subito Andrea tirando fuori i bicchieri dalla credenza. sca versò delle patatine in una ciotola e alzò per ultima il calice. «Alla salute e al buon cibo che queste donne ci prepareranno» disse Andrea scherzosamente, sapendo che la frase maschilista avrebbe mandato su tutte le furie la fidanzata. «Alla nostra e alla pericolosissima esplorazione che abbiamo concluso con successo» aggiunse Roberto, tutto sommato soddisfatto della camminata. «Che pericolosissima esplorazione?» chiese Lorenzo con faccia perplessa, come

se avesse un enorme punto interrogativo sopra la testa. Roberto gli raccontò della spedizione al ristorante abbandonato e gli ripeté quello che sca aveva raccontato loro a proposito delle case infestate e degli incidenti accaduti a Spinello dieci anni prima. «Ma quale? Quel rudere di fronte al lago? Ma che strani avvenimenti. Mi meraviglio che stiate ad ascoltarla e vi facciate suggestionare dalle sue storie» commentò Lorenzo avvicinandosi al fuoco del camino. «Non c’è niente di misterioso là dentro. È solo un locale che ha preso fuoco, punto e fine». I ragazzi si guardarono perplessi per qualche secondo. Roberto approfittò dell’attesa del pranzo e si alzò da tavola per andare in bagno. Sapendo cosa ne pensava Lorenzo di certi argomenti, non si sarebbe perso un granché in quella conversazione. «E il bambino affogato nel lago? Non ti sembra un po’ strano che, quasi subito dopo l’incendio, si sia verificato un altro incidente nello stesso posto?» continuò insistente Cristina. «Cosa ci dovrebbe essere di strano? Il rogo è stato un incidente e il bambino piccolo era meglio se andava a giocare da un’altra parte. È stato solo un caso» replicò secco Lorenzo. «Se proprio vogliamo trovarci qualcosa di strano, potremmo dire che la fatalità ha voluto punire il sindaco corrotto di allora». «Quale sindaco corrotto?» chiese curiosa sca che non si ricordava di nessun sindaco in particolare a Spinello. «Sì, dai, il sindaco che era in carica in quegli anni, non te lo ricordi? Va bene che eravamo piccoli, ma come fai a esserti dimenticata dello scompiglio che aveva creato qui a Spinello? Durante i suoi due mandati il paese si era come spaccato in due: c’erano quelli che lo amavano e quelli che non lo potevano vedere. Me lo ricordo bene perché in quegli anni l’argomento dei miei genitori a tavola era sempre lo stesso. Essendo nati qui e avendo avuto dei campi di proprietà, non facevano altro che commentare le scelte politiche di quell’uomo. Dovevi sentirlo mio padre come urlava incazzato perché diceva che era un venduto e investiva tutti i soldi pubblici per fare piacere a certa gente. Cosa vuoi, i miei erano contadini dalla mentalità arretrata. Si sono visti costruire alberghi, negozi e strutture sportive su quei campi dove si sono spaccati la schiena per una vita. Non riuscivano a capire che il turismo avrebbe portato soldi in paese. A loro

importava solo coltivare la terra e vivere in pace senza troppo casino. Quando d’estate arrivavano i ragazzini per il trofeo e quella marea di turisti, per loro era finita la tranquillità e, invece di godersi l’estate all’aperto, si richiudevano in casa per evitare la confusione». sca lo guardò sbalordita. Avendo vissuto Spinello solo durante i mesi estivi e quando era una bambina, non si era mai resa conto di come il paese fosse cambiato repentinamente in quegli anni. Non si stupì però di come l’avessero presa i suoceri. Figuriamoci poi se al padre di Lorenzo andasse bene qualcosa. Forse era per quello che li vedeva sempre chiusi in casa senza alcuna velleità di uscire fuori. Si erano abituati così negli anni. Stare rintanati in casa non li aveva aiutati a socializzare ed erano finiti per rimanere senza amici anche dopo essersi trasferiti a Forlì. Ecco perché rompevano le scatole a loro due in continuazione. Lo facevano per are il tempo. Più pensava a come si erano ridotti, più li compativa. «Quindi, cosa c’entra il sindaco con le due storie?» intervenne Cristina che non riusciva a capire il nesso del discorso. «Il sindaco c’entra perché nell’incendio è morto il suo unico figlio. Mio padre diceva che era stato punito per quello che aveva fatto ai contadini della zona». «Cavolo» commentò Cristina che non aveva capito l’ironia di Lorenzo. sca invece si era accorta benissimo che il fidanzato li stava prendendo in giro con la storia della fatalità e intervenne per are l’amica. «Magari invece c’è un fondo di verità in quello che diceva tuo padre» disse incredula di star prendendo le difese del suocero. «Se è vero che ha avuto dei giri loschi e non si è comportato bene, magari il Karma è andato a bussare alla sua porta». «Come no. Solo che gli ha aperto la persona sbagliata e il Karma, come lo chiami tu, si è preso il figlio invece che il padre. Ma fammi il piacere!» rispose Lorenzo scuotendo la testa. Stanco di sentire quelle cavolate sulle storie di fantasmi e le strane coincidenze del caso, Lorenzo preferì concentrarsi su qualcosa di concreto e si andò a sedere a tavola. Non aveva mai creduto alle storie soprannaturali e vedere la fidanzata parlare convinta di quegli argomenti lo indispettiva. Per lui tutto doveva avere

una spiegazione logica e razionale. Quello che non rientrava nella teoria scientifica semplicemente non esisteva. Era pura invenzione per manipolare le menti più deboli e credulone. «Vedete come fa? Come si fa a ragionare con uno così?» disse sca portando i crostini pronti in tavola. «E lo dici a noi che ci lavoriamo tutto il giorno insieme?» rispose Andrea afferrandone uno di soppiatto. «Potresti anche aspettare Roberto» lo rimproverò Pamela. «Comunque, tornando al discorso di prima…» disse Andrea per distogliere l’attenzione dal suo furtarello «anch’io non credo alle storie di fantasmi, come non credo che ci sia nulla di strano in quel vecchio ristorante. Però Lorenzo, devi ammettere che è un po’ insolito il fatto che siano capitati tre incidenti, uno dietro l’altro, nel giro di pochi mesi. Di sicuro non si può dire che quel posto non fosse sfigato». «Due incidenti vorrai dire» rispose Lorenzo correggendolo meticolosamente. «Quello dell’incendio e quello del bambino affogato nel lago» puntualizzò serio. «No, in realtà sono tre. Abbiamo trovato un vecchio giornale nella sala da pranzo e un articolo riportava la morte di due ragazzi la sera prima della finale del Trofeo Olimpia del 2004» replicò Andrea. «Ummmh, strano. Questo mi mancava. Avrei dovuto saperlo, dato che i miei facevano sempre la cronaca di tutto quello che accadeva in paese…». «Allora vedi che quel ristorante ha qualcosa che non va?» replicò sca, soddisfatta di aver messo in crisi il fidanzato super razionale. «Tre incidenti nello stesso anno». «Perché, anche quei due ragazzi sono morti nel ristorante?» chiese Lorenzo. «No, in realtà mi sembra di aver letto che li hanno trovati morti in albergo…». «Quindi non è il ristorante che porta sfiga. Il fatto che siano successi tre incidenti ravvicinati è solo una coincidenza» replicò lui soddisfatto di non avergliela data vinta.

«Eccomi, cosa mi sono perso?» chiese Roberto tornando dal bagno. «Niente, solo Lorenzo che fa il guastafeste come al solito» rispose scocciata sca. In quel momento fulminò con lo sguardo il fidanzato e maledisse mentalmente la sua cocciutaggine. Odiava quando voleva avere sempre ragione e non lasciava mai spazio alle opinioni altrui. «A questo punto direi che possiamo iniziare a mangiare» disse Lorenzo ignorandola completamente e allungandosi sul vassoio dei crostini. «Ottimo. Buon appetito» disse Andrea che non vedeva l’ora di mangiare senza il timore di essere sgridato. Dopo il primo giro di crostini la bottiglia di vino era già finita. Andrea ne prese un’altra dalla mensola e si affrettò ad aprirla prima che qualcuno potesse fermarlo. Gli altri non erano dei gran bevitori, questo lo sapeva bene, ma lui non poteva rinunciare a pasteggiare in compagnia con fiumi di vino rosso. Era la sua debolezza. «Comunque, fatti strani o meno, io in quel ristorante non ci rimetto più piede» disse Pamela allungando il bicchiere per fare compagnia al fidanzato. «Amore, sei la solita fifona. È solo un vecchio ristorante. Hai visto anche tu che non c’è niente di paranormale. Solo mobilio vecchio e tanta sporcizia» le disse Andrea riempiendole il calice. «Sarà, ma io ho sentito dei rumori strani e quando tutti voi siete spariti lasciandomi da sola al piano terra, non mi sono sentita affatto sicura» replicò con tono accusatorio. «Le persiane hanno cominciato a sbattere, il giornale ha iniziato a muoversi e…». «Amore, si chiama vento quello, te l’ho già detto. Per forza le persiane sbattono, tira un vento della Madonna là fuori, non te ne sei accorta?». «No, Pamela ha ragione» intervenne sca divertendosi a creare un po’ di suspense nella discussione. «Cristina ed io siamo scese nel seminterrato e c’era un’aria lugubre e di morte. Sarà stato che il corridoio e i bagni erano nella penombra, però quella cosa sotto la coperta aveva tutta l’aria di essere un

cadavere». «Quale cosa sotto la coperta?» chiese Pamela con gli occhi sgranati. Cristina non riuscì a reggere il gioco e scoppiò a ridere. Si alzò dalla sedia e andò in cucina a prendere il budino al cioccolato e la torta alla robiola. «Per me state lavorando un po’ troppo di fantasia» commentò serio Lorenzo. «Sì, dai, si fa per riderci sopra» disse Roberto cercando di ammorbidire l’amico. «Però ti assicuro che, quando mi sono trovato chiuso nella stanza con la porta bloccata, ho avuto un po’ paura e per un attimo mi è sembrato di non essere solo. Poi vedere quel vecchio giornale sul tavolo, con i due articoli sulla morte di quei ragazzi e del figlio del sindaco, mi ha fatto piuttosto impressione». «Quale articolo sulla morte del figlio del sindaco?» chiese stupita sca. «Non abbiamo mai letto della morte del figlio del sindaco. Fino a pochi minuti fa non sapevamo neppure che fosse morto nell’incendio». «Forse mi sono perso qualcosa mentre ero in bagno. Avete parlato della morte del figlio del sindaco? Era una cosa di cui vi volevo parlare, ma nella fretta di tornare a casa mi è ato di mente. Mentre stavamo uscendo dal ristorante sono inciampato in un mattone nella pizzeria e sono finito con la faccia sopra il tavolo dove c’era quel giornale. Quando mi sono alzato, ho guardato per caso sotto di me e ho visto una foto a tutta pagina dell’incendio al ristorante. Ho letto solo il titolo e le due righe in grassetto, ma sono sicuro che parlassero della sera in cui c’è stata la cena di chiusura del trofeo e del fatto che fosse rimasto intrappolato nelle fiamme il figlio del sindaco». «Ma è impossibile. Devi aver letto male» replicò incredula sca. «I due avvenimenti non sono successi nello stesso giorno e in un quotidiano non vengono mai riportati episodi accaduti in date diverse». «Mi dispiace Roberto, ma quando sca dice una cosa sensata lo devo riconoscere» affermò Lorenzo ironico. «Se la matematica non è un’opinione e le morti dei due calciatori e del figlio del sindaco sono accadute in giornate diverse, devi aver visto proprio male». Roberto era indignato. Era sicuro di aver letto bene. La foto era chiarissima e il titolo parlava esplicitamente della morte del figlio del sindaco. Era talmente

indispettito del fatto che gli altri non gli credessero, che avrebbe quasi voluto tornare là dentro per dimostrare che aveva ragione. Sapeva però che nessuno lo avrebbe seguito. Lorenzo era troppo pigro per uscire e Pamela aveva appena detto che non ci avrebbe più rimesso piede. Dovette quindi rassegnarsi e non insistere ulteriormente sull’argomento. Con la convinzione però di non essersi sbagliato, si alzò stizzito da tavola e iniziò a sparecchiare, seguito da Cristina che lavò i piatti. sca preparò il caffè, mentre Pamela e Andrea rimisero a posto il tavolo e diedero da mangiare al cane. Le pance erano talmente piene che ai ragazzi venne presto l’abbiocco della digestione. Persino Cleopatra sembrava avere esaurito l’energia e si godette come gli altri il calduccio del camino, andandosi ad appisolare sulle gambe della sua padrona. L’orologio segnava già le tre e trenta del pomeriggio. Tutti sembravano incantati dallo scoppietto del fuoco, tranne Lorenzo e Roberto che non avevano alcuna intenzione di dormire. Mentre Lorenzo scorreva le vecchie e-mail del lavoro al computer, Roberto pensò a qualcosa di divertente da fare per non sprecare il resto del pomeriggio. Gli venne in mente che aveva portato con sé un gioco di carte da fare in gruppo e lo tirò fuori dalla borsa di Cristina. Il gioco si chiamava storie gialle e riguardava storie di morti singolari di cui si avevano alcune informazioni e si doveva ricostruire la dinamica. Roberto estrasse la prima carta e lesse gli indizi forniti. «Allora, la carta si intitola gelato al cioccolato. La frase di aiuto è la seguente: se Filippo avesse scelto il gelato al cioccolato suo fratello sarebbe ancora vivo». «Il fratello era allergico al gusto che hanno scelto al posto del cioccolato e quindi è morto» provò sca. «Il fratello ha mangiato anche la porzione di Filippo e gli è venuta una congestione» disse Cristina. Roberto poteva solo rispondere sì, no, oppure che l’argomento non era rilevante ai fini della storia. I tentativi andarono avanti per parecchi minuti, ma nessuno riusciva ad avvicinarsi alla soluzione. «Filippo non ha scelto il gelato al cioccolato, quindi deve aver scelto qualcos’altro che ha causato la morte del fratello» disse Lorenzo pensando a cosa potesse essere. Roberto cercò di dar loro qualche suggerimento per aiutarli e svelò che la disgrazia era avvenuta in casa. Dopo ripetuti tentativi i ragazzi si arresero e si

fecero dire la risposta. «Va bene, allora, ci eravate vicini, ma la risposta esatta è la seguente: prima di uscire in giardino per giocare con gli amici, il fratellino di Filippo era andato in cantina per prendere un gelato nel congelatore a pozzetto. Dato che il freezer era praticamente vuoto, quando il bambino si è allungato per afferrare il gelato in fondo, vi è caduto dentro e non è più riuscito a uscire. La mamma, poco dopo, ha chiesto a Filippo se volesse il gelato o una fetta di torta e Filippo ha risposto che preferiva la torta. Se avesse scelto il gelato, la mamma sarebbe scesa in cantina e avrebbe trovato l’altro figlio infreddolito, ma ancora vivo» spiegò Roberto leggendo la soluzione dietro la carta. Il gioco era interessante e, nonostante la stanchezza, decisero di provare con un altro paio di carte. Dopo aver capito come funzionava il gioco, con le storie successive ebbero più successo e le indovinarono quasi tutte. «Ragazzi, che ne dite se facciamo due i fuori?» propose Pamela che aveva le gambe indolenzite per averci tenuto sopra Cleopatra per tutto quel tempo. «Buona idea, così ci fumiamo una sigaretta» rispose sca scattando immediatamente in piedi. Cleopatra alzò un orecchio e, sentendo la parola “fuori” in un balzo fu giù dal divano per seguire la padrona. «Dato che la situazione si sta facendo alquanto sonnolenta, forse sarebbe meglio staccare tutti il culo dal divano e andare a prendere una boccata d’aria in giardino» disse Andrea stirando la schiena con le braccia per aria. «Potremmo fare un giro al bar a prendere un vero caffè» suggerì sca che non aveva apprezzato quello lungo della moka. Il bar era un vizio a cui non poteva rinunciare e non c’era niente di meglio che gustarsi un espresso bollente accompagnato da una sigaretta. Lorenzo la rimproverava sempre per la quantità di caffè che ingurgitava. Con la scusa che l’aiutava a stare sveglia e con il fatto che al lavoro avevano la macchina professionale, finiva sempre per berne cinque o sei al giorno. Quel pomeriggio però non poté dire nulla: fare due i e sgranchirsi le gambe dopo l’abbuffata del pranzo, sembrava un’ottima idea anche a lui che era un pelandrone.

Il cielo fuori era sempre nuvoloso. Alla fine non aveva piovuto, ma il sole non si era visto per tutto il pomeriggio e a quell’ora stava già iniziando a calare. Nel giro di un paio d’ore avrebbe fatto buio. Mentre scesero in paese i ragazzi commentarono entusiasti la loro gita in collina e proposero di farne delle altre i fine settimana successivi. Era divertente ritrovarsi tutti insieme a fare trekking e mangiare del buon cibo davanti al camino. Soprattutto se c’era poco trekking e molto cibo. D’inverno d’altra parte non c’era modo migliore per trascorrere il tempo con la giusta compagnia. Quando raggiunsero il centro di Spinello, si stupirono di trovare il bar pieno di gente. Gli anziani del paese avevano riempito tutti i tavoli, dividendosi fra quelli che giocavano a carte e quelli che seguivano in televisione i commenti tecnici del campionato di calcio. Gli unici posti rimasti liberi erano quelli all’esterno. Roberto si offrì di andare a prendere i caffè mentre gli altri si accomodarono nella veranda. Quando fece per pagare alla cassa però, si accorse che nella tasca posteriore dei pantaloni non c’era più il portafogli. Tornando dai ragazzi con il vassoio dei caffè in mano, chiese a Cristina di controllare nella sua borsa, ma il portafogli non era neppure lì. Pensò subito a dove potesse essergli caduto e, dato che l’aveva usato per pagare l’aperitivo, si tranquillizzò convincendosi che dovesse essere per forza in casa. «Dai, ho capito. È la scusa per non offrirci il caffè» disse Lorenzo alzandosi per andare a pagare. Pamela e sca sorseggiarono il caffè alternandolo ai tiri di sigaretta, mentre Cristina e Roberto osservarono la vita del paese che trovava la sua massima espressione in una partita di carte il sabato pomeriggio. Quando Lorenzo tornò fuori dai ragazzi, vide un anziano signore avvicinarsi in bicicletta. Pedalando lentamente nella loro direzione, si era fermato a fissarli con il piede appoggiato sulla pedana della veranda e la mano aggrappata alla ringhiera. «Salve» disse Lorenzo per educazione rimettendosi a sedere. «Salve» rispose l’uomo continuandoli a fissare. Era da un bel pezzo che non incontrava delle facce nuove e gli faceva strano vedere dei giovani stranieri seduti al bar. La conversazione non sarebbe andata oltre i saluti, se Cristina non gli avesse

chiesto informazioni sulle strutture di Olimpia e la storia di Spinello. Il vecchietto si stupì della curiosità dei ragazzi per l’argomento e fu felice di rispondere alle loro domande. Mettendosi più comodo sulla bicicletta, iniziò a raccontare la sua versione dei fatti, lanciandosi in un monologo di mezz’ora che fece fare loro un salto indietro nel tempo. «Tutto cominciò nei primi anni novanta» disse appoggiando gli avambracci sulla ringhiera e fissandoli uno ad uno. «Il progetto all’inizio fu molto contenuto e riguardava la costruzione di strutture che accogliessero i giovani calciatori locali nei mesi estivi. Si era voluto creare un posto in cui i ragazzini della zona potessero radunarsi per fare gli allenamenti e trascorrere l’estate. Per aumentare la partecipazione e attirare più turisti, il vecchio sindaco ebbe poi l’idea di organizzare un piccolo torneo che attirasse anche i giovani calciatori provenienti dalle città circostanti. In breve tempo si era creato una sorta di torneo regionale, a cui presero parte tutte le squadre giovanili dell’Emilia Romagna. Era più un divertimento che una gara vera e propria, ma la cosa aveva attirato molta gente e fatto girare un po’ di soldi in paese. Poi nel novantasei venne eletto il nuovo sindaco. Ah, sì che quello fu un bravo sindaco! Ci ha visto lungo lui» commentò con tono soddisfatto. «Come ha preso in mano la gestione del paese, ha trasformato Spinello in una cittadina famosa, piena di turisti e persone importanti del mondo del calcio». Lorenzo aggrottò il sopracciglio in segno di stupore. La versione di quel signore era diametralmente opposta a quella che gli avevano raccontato i suoi genitori. Ecco che aveva trovato un’esemplare della fazione sostenitrice del vecchio sindaco. sca, vedendo l’espressione interrogativa nel viso del fidanzato, colpì la sua gamba da sotto il tavolo per fargli segno di star zitto e lasciarlo parlare. «Avrà avuto anche le conoscenze giuste lui», continuò il vecchietto mettendoci sempre più ione, «ma investire tutti quei soldi nelle strutture sportive e turistiche è stata la cosa migliore che avesse potuto fare. Altro che tutti quegli sciocchi che gli sparlavano dietro dicendo che faceva solo i suoi interessi. Interessi o meno, lui sapeva fare di conto e fece girare l’economia di questo paese». «Ma scusi, se Spinello era così florida come dice lei, come ha fatto poi a regredire così tanto da tornare ad essere il paese rurale che vediamo adesso?»

chiese Roberto che non riusciva a trovare un motivo valido per quel declino repentino. «Purtroppo sono successi degli eventi poco felici che hanno contribuito a creare una cattiva nomea del paese. Lo sapete anche voi come funziona, la gente parla, la voce gira e in pochi anni il paese ha perso un sacco di turisti». «Si riferisce al fatto dei due calciatori, del figlio del sindaco e di quel bambino affogato nel lago?» lo interruppe sca che cercava di riunire i tasselli delle storie di cui erano venuti a conoscenza. «Sì, esatto. Siete ben informati. Mi riferisco alla morte dei due calciatori, a quella di Marco, al bambino affogato nel lago e non solo. Quei tre incidenti sono stati i primi di una serie di eventi inspiegabili. Spinello è sempre stata una cittadina tranquilla dove non succedeva mai niente di brutto. A partire dalla morte dei due calciatori invece, si sono susseguite una dietro l’altra quelle disgrazie che hanno contribuito al declino del paese. La voce si è sparsa tra i turisti, il ristorante non è stato più rimesso a posto e le squadre giovanili italiane hanno cominciato a disertare sempre più numerose il torneo». «A quali altri incidenti si riferisce?» chiese Cristina stupita dal fatto che ce ne fossero stati degli altri. Il vecchio rimase in silenzio per qualche istante e poi elencò tutti gli incidenti ricominciando dal primo. «Prima di tutto la morte improvvisa dei due calciatori, seguita dal rogo dove morì il figlio del sindaco. Povero uomo! Lui che ha fatto tanto per questo paese, si è visto strappare dalle fiamme il suo unico figliolo. Poi, pochi mesi dopo, c’è stato l’incidente di quel bambino che hanno trovato morto affogato. Credo avesse all’incirca sei anni. Non lo conoscevo personalmente, ma mi dissero che era di una famiglia che aveva comprato una casa qui a Spinello per trascorrerci le vacanze. Nessuno è riuscito a capire come abbia fatto a entrare dentro al lago. Era già autunno e di quei tempi la balneazione era chiusa da un pezzo. Il cancellino di accesso dal ristorante era sotto chiave e la rete di protezione che circondava il lago era ricoperta da una fitta siepe di alloro. Era piuttosto improbabile che un bambino di quell’età avesse potuto scavalcarla. La polizia tra l’altro non ha mai trovato nessun segno di scasso o aggio abusivo che avesse potuto utilizzare per entrare nella struttura. Sta di fatto che il custode l’ha trovato

a pancia in giù nell’acqua il giorno dopo che era scattata la denuncia di smarrimento. I genitori rimasero talmente sconvolti dall’incidente che in quattro e quattr’otto vendettero la casa e non rimisero mai più piede in paese. Considerando gli avvenimenti accaduti i mesi prima, si erano convinti che l’intera struttura portasse sfortuna e che qualcosa di sinistro avesse attirato il figlio dentro al lago. Da quella disgrazia le chiacchiere iniziarono a girare e finirono per mettere in cattiva luce Spinello». L’anziano signore riprese fiato per qualche secondo e si risistemò sulla sella per cercare una posizione più comoda. Sembrava provato nel rivivere quelle storie. Si riusciva a leggere l’amarezza che provava negli occhi lucidi e nella voce tremante. I ragazzi lo guardarono suggestionati da quelle parole e rimasero in silenzio non sapendo cos’altro dire. Ripensarono all’esplorazione del ristorante e si chiesero se quello che avevano vissuto là dentro non fosse qualcosa di più della loro fervida immaginazione. Considerando il racconto dell’anziano signore, non sembrava più così tanto improbabile che dentro a quel vecchio edificio si nascondesse qualcosa di sinistro. Troppe disgrazie erano accadute, una dietro l’altra, senza un’apparente spiegazione logica. Solo Lorenzo, che non era stato là dentro, continuava a guardare l’uomo con fare circospetto. Aveva sempre creduto alle parole dei genitori e quella versione così fantasiosa gli sembrava a dir poco assurda. «Poi, che altri incidenti sono successi?» chiese improvvisamente Cristina, ricordandosi che aveva accennato anche ad altri episodi. «Ah già, gli altri incidenti...» le rispose il vecchio ritornando con la mente al ato. «In seguito ai primi tre si sono verificati altri due episodi singolari all’interno del ristorante. Dopo l’incendio hanno ovviamente cercato di risistemare il locale per renderlo agibile nella stagione estiva successiva. Durante la ristrutturazione però accadeva sempre qualcosa che faceva sospendere i lavori. Prima di tutto è scoppiato un altro incendio nella stessa sala dove avvenne il primo. C’è chi diceva che avessero preso fuoco dei giornali che dovevano essere usati per coprire il mobilio durante la verniciatura dei muri. I più malfidati diedero la colpa a dei ragazzini che avrebbero appiccato il fuoco per il puro gusto di fare del danno. Io non so come siano andate esattamente le cose, ma di sicuro non credo che si sia trattato di un atto vandalico. I pochi giovani che abitavano qui tutto l’anno erano dei bravi ragazzi e non si sarebbero mai sognati di intrufolarsi di notte nel ristorante per rovinare l’unico luogo di divertimento del paese. Poi, qualche settimana dopo, un elettricista ha rischiato di morire

folgorato. Stava cercando di ripristinare la corrente elettrica, quando un cortocircuito l’ha quasi fatto secco. Anche quella volta non si è riusciti a capire la dinamica dell’incidente. Il quadro generale, controllato dalla polizia dopo l’accaduto, è stato trovato spento e senza alcun segno di danneggiamento. Non c’era modo che l’elettricista potesse aver preso la scossa. Quando stava lavorando ed è successo l’incidente, era ancora impegnato a rifare le tracce nei muri e non aveva toccato alcun filo della corrente. Insomma, per farla breve, dopo questi due nuovi fatti, le malelingue si consolidarono sempre di più, finendo addirittura per far credere alla gente che il ristorante fosse maledetto». «Quindi è da quell’inverno che il ristorante non è più stato ristrutturato» ipotizzò Lorenzo. «Sì, esatto. Il cuoco, che era il proprietario del ristorante nonché fratello del sindaco, si stancò di spendere soldi in tentativi inutili di ripristino del locale. Da quel momento il ristorante non fu mai più rimesso a posto e il lago venne definitivamente chiuso alla balneazione». «Scusi, ma cosa c’entra il ristorante con il declino generale di Spinello? Voglio dire, Olimpia rimaneva pur sempre una meta ambita dalle giovani promesse del calcio e i turisti avranno continuato a frequentare il paese al di là del fatto che non fosse più agibile un ristorante. Ce ne saranno stati degli altri, no?» chiese Andrea incredulo del fatto che delle semplici voci potessero aver determinato le sorti economiche di un intero paese. «Purtroppo, come vi ho già detto, la gente iniziò a parlare e le voci raggiunsero in fretta le orecchie di quelli che di solito venivano qui a trascorrere le vacanze. Nel giro di qualche anno Spinello si è vista ridurre sia le adesioni al Trofeo Olimpia sia le prenotazioni di moltissimi turisti. La morte dei due calciatori aveva inizialmente seminato il panico fra le famiglie dei ragazzi. Per paura che fero la stessa fine, alcuni genitori preferirono tenere a casa i propri figli e non farli più partecipare alla gara. I turisti invece erano calati per via del lago chiuso e il mancato ripristino del ristorante più in voga della zona. Forse il sindaco nuovo non fece abbastanza per rilanciare il turismo nel paese o semplicemente Spinello stessa era diventata una località noiosa che non aveva più niente di interessante da offrire. Sta di fatto che sempre meno persone hanno prenotato case e camere per trascorrere qui le vacanze, compromettendo il giro d’affari dei commercianti e degli albergatori che si sono visti costretti a chiudere. Lentamente Spinello è tornata ad essere il semplice paese rurale di prima, piena

di strutture inutilizzate lasciate decadere nel tempo». I ragazzi lo ascoltavano allibiti. Pure Lorenzo, che era il più pragmatico di tutti, si era fatto coinvolgere dal racconto nostalgico del signore. Nonostante i genitori avessero avuto la casa a Spinello da sempre, non l’aveva frequentata così spesso da potersi rendere conto di come fosse evoluto il paese nel tempo. Adesso però capiva come mai c’erano tutti quei cartelli con scritto “vendesi” appesi alle cancellate di molte case. Quando il vecchietto terminò il suo triste discorso, una folata gelida ricordò a tutti che l’inverno non era ancora finito. Il vento si era fatto più insistente e l’effetto caldo del caffè era svanito da un pezzo. «Ragazzi, è stato un piacere parlare con voi, ma adesso vado dentro al bar prima di congelarmi del tutto» disse l’anziano signore afferrando la sciarpa per fare un paio di giri intorno al collo. Con un piede si diede la spinta per raddrizzarsi sulla bicicletta e lentamente pedalò quei pochi metri che gli mancavano per raggiungere l’entrata del bar. I ragazzi lo salutarono in coro ringraziandolo per le preziose informazioni e abbandonarono a loro volta la fredda veranda per fare rientro a casa dove li avrebbe aspettati il tepore del camino. Sulla via del ritorno Roberto si toccò istintivamente la tasca posteriore dei pantaloni e si ricordò che avrebbe dovuto cercare il portafogli. «Che giornata intensa» disse Cristina mentre appendeva il piumino nell’attaccapanni. «L’incontro di prima poi è stato davvero interessante» aggiunse sca avvicinando le mani al fuoco. «Ragazzi, prima di sederci, datemi una mano a trovare il portafogli per favore» disse Roberto che a testa bassa stava già perlustrando il pavimento sotto il tavolo. «Ah già, perché qui qualcuno lascia le proprie cose e la testa in giro...» commentò ironico Lorenzo. Camminando avanti e indietro nella sala da pranzo e in cucina, i ragazzi guardarono in ogni angolo. sca frugò nel divano fra i cuscini e la seduta,

mentre Andrea controllò fra le gambe dei tavoli e delle sedie. «Qui, ragazzi, non c’è» disse sca dopo aver ato anche le due poltrone. Pamela e Andrea controllarono per scrupolo anche nelle camere da letto, ma ovviamente del portafogli non c’era alcuna traccia. «Prova a pensare all’ultima volta che te lo sei sentito in tasca» disse Cristina mentre ricontrollava nella borsa. Quando Roberto riò mentalmente i luoghi in cui era stato, gli venne in mente di essere inciampato nel mattone dentro la sala da pranzo del ristorante e di aver sentito un rumore come di qualcosa che era caduto vicino ai suoi piedi. Nella fretta di uscire e pensando che si trattasse della sporcizia sul pavimento, non vi aveva però prestato alcuna attenzione preoccupandosi di controllare se gli fosse cascato qualcosa dalla tasca. «Ho paura che mi sia caduto quando sono inciampato al ristorante» disse sottovoce sapendo che avrebbe destato disappunto nei compagni. «Stai scherzando, vero?» disse Pamela con voce allarmata. «Io ragazzi non ci metto più piede là dentro. Soprattutto dopo le cose che ci ha detto il vecchio». «Sei sicuro, Roberto, che ti sia caduto proprio là dentro?» chiese Lorenzo scocciato di dover uscire di nuovo. Roberto non era sicuro al cento per cento, ma non gli venne in mente nessun’altro posto in cui potesse averlo perso. «Ragazzi, fate come vi pare, ma io vi aspetto a casa» aggiunse Pamela per ribadire il concetto. «Dai amore, non vorrai mica fare andare Roberto e Cristina da soli?» le disse Andrea cercando di farla sentire in colpa. «Facciamo in fretta, te lo prometto. Li accompagniamo, diamo un’occhiata veloce nella stanza e, se non lo troviamo, usciamo subito». «Dai che sono tutte storie. Lo ha detto anche il vecchio che la gente chiacchiera» disse Lorenzo che voleva togliersi il pensiero alla svelta prima che fe buio.

Andrea allungò il piumino a Pamela che a malincuore uscì di casa per seguire gli altri. Tesa solo all’idea di rimettere piede là dentro, chiese una sigaretta a sca e sperò con quel gesto di alleviare la sua frustrazione. Camminando giù per la collina, stretti nei loro piumini, furono di nuovo tutti pronti per rientrare nel ristorante abbandonato.

Capitolo XI «Ragazzi, se io vi aspettassi fuori con Cleopatra?» chiese Pamela a fil di voce stringendo il cane fra le sue braccia. L’aspetto dell’edificio, dopo la storia del vecchio signore, sembrava ancora più sinistro di prima. Il cielo imbrunito, con le nuvole che correvano cariche d’acqua, escludeva ogni possibilità che un raggio di sole potesse interrompere per un attimo l’intenso grigiore. «Amore, non fare la fifona. Le altre ragazze vengono con noi, non vorrai mica rimanere qui fuori da sola?». «Se Cristina e sca rimangono qui con me ed entrate solo voi?» propose Pamela sperando di avere il sostegno femminile. Le amiche però erano già vicino alla porta di ingresso pronte ad entrare. Cristina voleva aiutare il marito a cercare il portafogli, mentre sca era curiosa di controllare il giornale per vedere se quello che aveva detto Roberto era vero. Andrea scostò la lastra di ferro dal muro e in un attimo furono di nuovo tutti dentro. Pamela, rimanendo in fondo alla fila, seguì rassegnata gli amici appiccicata al fidanzato. «Vedi, è tutto come prima. Niente di anormale» disse Andrea guardandosi attorno. La pentola era ancora sul fornello, i mestoli tutti appesi, tranne quello che aveva usato per mescolare, e il vasetto di vetro era ancora a terra rotto in mille pezzi. sca ci ò di fianco e gli diede un’occhiata. Nell’avvicinarsi sentì uno scricchiolio sotto i suoi piedi e, sollevandone uno, vide della roba bianca attaccata alla suola. Era caduto il vasetto del sale. Considerando che li aveva aperti quasi tutti, quello doveva essere uno dei pochi rimasti ancora pieno. «Ehi ragazzi, è caduto il sale. Non sarà mica che ci porti sfiga?» disse Lorenzo ridendo mentre si avvicinava alla fidanzata. «Guarda, Lorenzo, che non funziona così. Perché porti sfiga deve caderti sulla

tavola» gli rispose sca sbeffeggiandolo per farlo zittire. Poi però per sicurezza si chinò a terra e, prendendone una manciata, se lo gettò dietro alle spalle prima di seguire gli altri nella stanza successiva. Pamela fissò immobile quel gesto e il pavimento con il sale rovesciato che non si ricordava di aver visto la volta prima. La sua mente aveva cominciato a processare tutte le informazioni come fosse un calcolatore. ando in rassegna tutti gli oggetti della stanza, li vide nella sua testa che ruotavano all’impazzata come in un vortice senza tregua. Senza mettere più a fuoco quello che le stava intorno, si figurò le scene degli incidenti avvenuti in quel luogo, le pagine del vecchio giornale che giravano senza vento e il vasetto del sale che cadeva da una mensola grande come una casa. In quel turbinio di pensieri il respiro si fece più affannato. Era come se tutte quelle storie si stessero impossessando della sua mente. Cleopatra, sentendosi compressa fra le sue braccia, si mise ad abbaiare divincolandosi per scappare. Fu allora che Pamela si staccò da quei pensieri e, rimettendo di nuovo a fuoco la cucina, si accorse di essere rimasta ancora una volta da sola. Un colpo di vento attraversò la porta facendo tintinnare i mestoli appesi sopra il tegame. Presa dal panico, cacciò un urlo di terrore e iniziò a correre verso la sala da pranzo. Un susseguirsi repentino di ventate le mosse i capelli sul collo come se volesse afferrarglieli per non farla andare da nessuna parte. Le gambe si fecero molli e il cuore iniziò a batterle forte. Nel suo affannato tentativo di raggiungere gli altri, con la punta di una scarpa inciampò in una mattonella sollevata e di colpo perse l’equilibrio. Mettendo le mani avanti per pararsi dalla caduta, lasciò andare Cleopatra che prese a correre con foga in tutte le direzioni. In pochi secondi Pamela si ritrovò sdraiata a terra con il cane di fianco che le leccava la faccia. I ragazzi, spaventati dalle sue urla, tornarono di corsa in cucina per vedere cosa le fosse successo. Quando spinsero la porta e furono tutti dentro, la videro piegata sulle ginocchia che cercava di rialzarsi, mentre il cane scodinzolante le saltellava intorno. «Era meglio se tenevi le scarpe da ginnastica» disse Andrea ridendo mentre l’aiutava a sollevarsi. sca, più seriamente, si chinò di fianco all’amica e raccolse la borsetta che, nella caduta, si era aperta sul pavimento lasciando fuoriuscire tutto il contenuto. Quando chiuse l’automatico e fece per rialzarsi, calciò con un piede una bottiglietta che rotolò per un paio di metri. Pensando che si trattasse di un altro

oggetto di Pamela, l’inseguì china sul pavimento e la prese in mano. Girandola fra le dita per leggere l’etichetta, si accorse che era una vecchia boccetta completamente impolverata. Si sforzò di leggere le parole scolorite e le uniche lettere che riuscì a decifrare furono quelle più grandi della scritta Guttalax. «Ragazzi, guardate cosa ho trovato» disse tutta eccitata mostrandola agli altri. «E cosa ci fa del lassativo in una cucina?» chiese ironico Lorenzo afferrandola dalle sue mani per analizzarla da vicino. «Magari era l’ingrediente segreto del cuoco» commentò Andrea con tono sarcastico. La vena umoristica del fidanzato non piacque a Pamela. L’unica cosa che voleva fare era riprendere in braccio il cane e uscire da quel posto sfigato. Lorenzo ò la bottiglietta a Roberto e Cristina che a loro volta la riconsegnarono a sca. «Perché me la ridate? Non me ne faccio mica niente». «Potresti tenerla come ricordo della nostra esplorazione» disse Roberto mentre ritornava insieme al gruppo nella pizzeria. Pamela afferrò la boccetta dalle mani di sca e la posò indispettita su uno dei tavolini della sala da pranzo. «Per fortuna che la testa ce l’hai attaccata al collo» disse Cristina vedendo il portafogli del marito di fianco al tavolo con sopra il giornale. «Bene ragazzi, ora che abbiamo ritrovato il portafogli possiamo andare?» chiese Pamela sollevata di non dover are dell’altro tempo lì dentro. «Un attimo solo, Pami, voglio vedere se è vero quello che ha detto Roberto a proposito dell’articolo sulla morte del figlio del sindaco» disse sca sfogliando il giornale. «Giusto, guardiamoci. Così vedremo chi ha ragione» disse lui avvicinandosi per controllare. Quando sca arrivò alla terza pagina, vide con stupore l’articolo sull’incendio.

«Cavolo, com’è possibile?» si chiese stupefatta. «Roberto aveva detto la verità: qui c’è l’articolo della morte del figlio del sindaco con tanto di foto». Tutti si radunarono attorno al tavolo e fissarono l’immagine del ristorante in fiamme. Roberto, compiaciuto, rimproverò gli amici per non avergli creduto e lesse ad alta voce l’intero articolo. Poi sfogliò le altre pagine e cercò quello che avevano visto la mattina sulla morte dei due calciatori. Con stupore i ragazzi constatarono che l’articolo era sparito. «Non è possibile che sia scomparso» disse Andrea facendosi largo per controllare di persona. «Siete sicuri che stamattina c’era l’altro articolo? Non mi starete mica prendendo in giro...» chiese scettico Lorenzo. Sfogliando avanti e indietro il giornale, controllò che non ci fossero delle pagine mancanti. I numeri però erano tutti consecutivi e nessun foglio era stato strappato. Scrutò le facce degli amici per assicurarsi che non gli stessero facendo uno scherzo, ma vedendo l’espressione seria sui loro volti, rimase interdetto e per una volta sentì la sua razionalità vacillare. Andrea aveva smesso di fare il gradasso e Roberto e Cristina si stavano guardando attorno come per controllare che nella stanza non ci fosse nessuno. La luce stava entrando sempre più fioca dalle finestre e di lì a poco avrebbe fatto buio. «Okay ragazzi, direi che è giunto il momento di tornare a casa. Quello che dovevamo fare l’abbiamo fatto quindi andiamo» disse Pamela cominciando a sentirsi di nuovo a disagio. Quando il gruppo si ricompattò oltre il tavolo per uscire dal ristorante, un leggero odore di bruciato raggiunse i loro nasi. Cristina inspirò più volte e ruotò la testa a destra e sinistra per cercare di capire da dove provenisse. «Lo sentite anche voi questo odore di bruciato?» disse girando per la stanza. «Da qui non viene» rispose Roberto che si era avvicinato al forno per vedere se provenisse da lì dentro.

«Ragazzi, andiamo via?» insistette smaniosa Pamela pestando con i piedi sul pavimento. «Sarà il fuoco dei camini delle case qui attorno. È quasi ora di cena e la gente starà preparando da mangiare» replicò Lorenzo sforzandosi di trovare una giustificazione plausibile. Avvicinandosi a una delle finestre, cercò di scorgere fra le ragnatele qualche comignolo . Nelle immediate vicinanze però non c’era nessuna abitazione. Si doveva oltreare il lago per arrivare al primo gruppo di case. L’odore che sentivano doveva per forza provenire dall’interno. Più indugiavano guardandosi attorno, più si faceva intenso nella penombra che aumentava. Con il giornale che era cambiato e la strana esalazione comparsa all’improvviso, i ragazzi non si sentirono più tranquilli e decisero di assecondare la richiesta di Pamela. Il sole era già tramontato e la luce stava calando molto velocemente. Roberto e Cristina furono i primi a raggiungere la cucina. sca e Pamela, a braccetto di dietro, cercarono di stare al loro o facendo lo slalom fra i tavoli della sala da pranzo. Aiutando l’amica a tenere fermo il cane, sca non ne vide uno e ci andò a sbattere violentemente. Andrea e Lorenzo, che erano dietro alle ragazze, non si fermarono in tempo e le travolsero scaraventandole contro un paio di sedie. «Cazzo» urlò sca che si era impigliata con la tasca nello spigolo del tavolo. «Non è colpa nostra se non state attente a dove mettete i piedi» disse Lorenzo ando davanti per fare strada. «Tutto a posto?» chiese Roberto vedendoli in affanno. «Sì, sì, tutto a posto» rispose Andrea che, uscito per ultimo, spinse la lastra di ferro contro il muro. «Non è successo niente e siamo ancora vivi». «Cavolo, ho rotto il giubbotto» disse sca guardando la cucitura esterna della tasca. «Fammi vedere» chiese Pamela avvicinandosi. «Si è solo un po’ scucita, niente di grave. Due punti e torna come prima».

«Ragazzi, si è fatta ora di ridurci a casa. Le fiorentine e le costolette ci aspettano» le interruppe Lorenzo richiamando tutti all’ordine. «Altro che puzza di fumo: ve lo faccio sentire io l’odore buono!». «Grande Lorenzo. Vedi che quando ti applichi riesci a combinare qualcosa di buono pure tu?» commentò Andrea dandogli una pacca sulla spalla. Le pance erano vuote e l’idea di mangiare della carne alla griglia fece dimenticare il fatto che fossero usciti con un certo affanno. Pamela e sca si accesero una sigaretta, mentre Lorenzo spiegò ad Andrea il modo migliore per cucinare un ottimo barbecue. Roberto e Cristina rimasero in fondo al gruppo e, lasciando le voci degli altri come brusio di sottofondo, li seguirono mano nella mano commentando quello che era successo dentro al ristorante. «Certo che ne succedono di cose bizzarre là dentro, eh?» disse Roberto pensieroso. «La bottiglietta di Guttalax che si materializza improvvisamente sul pavimento, gli articoli di giornale che appaiono e scompaiono e quello strano odore di bruciato che non si sa da dove provenisse». Cristina annuì e rimase silenziosa. Ripensò a tutto quello che avevano visto le due volte che erano entrati nel ristorante e a quello che aveva raccontato l’anziano signore al bar. La giornata era stata lunga e aveva riservato loro un sacco di sorprese. Non si sarebbe mai immaginata che si sarebbe apionata alla storia di un paesino che fino al giorno prima nemmeno conosceva. Più saltavano fuori nuove storie e fatti inspiegati, più cresceva la curiosità di dare al tutto un senso logico.

Capitolo XII «Ciao Marco. Siediti pure, ho già ordinato io la cena» disse il sindaco appoggiando la giacca sullo schienale della sedia. «Dovevamo vederci proprio qui al ristorante, papà?» replicò Marco un po’ infastidito. «Che problema c’è? Hai paura che ti vedano uscire con tuo padre? Cos’è, non ho nemmeno il diritto di cenare insieme a mio figlio?». «No no, dico solo che, visto che sei il sindaco e io sono in gara per vincere il trofeo, sarebbe stato meglio andare a mangiare da qualche altra parte». «Non diciamo sciocchezze. E comunque ho scelto quest’angolo della veranda apposta. Vedrai che non ci noterà nessuno da dentro il locale». Marco fece cenno con la testa e abbassò lo sguardo. Quando si trattava di discutere con il padre sapeva benissimo che sarebbe toccata sempre a lui l’ultima parola. «Parliamo di cose serie piuttosto. Direi che come girone siamo capitati piuttosto bene, non trovi?» chiese compiaciuto mentre girava il vino dentro al calice. «Impegnati figliolo e vedrai che qualcuno ti noterà quest’anno. Abbiamo investito tanto, ma sono sicuro che i risultati arriveranno». Marco annuì di nuovo e non rispose. Fissando il bicchiere di coca cola di fronte a lui, si domandava se ci fosse un motivo preciso per cui l’avesse convocato. Ogni volta che si trovava a tu per tu con il padre, provava uno strano senso di soggezione e non vedeva l’ora di andarsene. Il Marco sicuro e deciso che mostrava normalmente agli altri cedeva il posto a un Marco più fragile e sottomesso. E questo aspetto di sé proprio non lo sopportava. Tutte le volte si riprometteva di affrontarlo deciso, ma puntualmente finiva per cedere di fronte alla sua autorevolezza. Non sapeva se odiare di più il padre, perché prendeva le decisioni importanti al posto suo, oppure se stesso, perché non riusciva a esprimergli quello che pensava veramente. Era come se avesse un nodo alla gola che gli impedisse di parlare. In ogni conversazione si limitava a dire sì e no, rispondendo a monosillabi. Le loro chiacchierate finivano sempre per diventare

dei monologhi: il padre parlava e lui annuiva. Perché con gli amici riusciva a essere spavaldo, mentre con lui si comportava come un rammollito? La sua insicurezza e l’impellente bisogno di approvazione finiva per azzerare completamente la sua personalità. Ripensò a Lucia e come con lei le cose fossero state diverse. Dopo pochi giorni che l’aveva conosciuta, si era sentito libero di esprimere se stesso e le aveva confidato cose che neppure ai suoi migliori amici era riuscito a raccontare. Chissà se l’avrebbe rivista anche quell’anno. In quei momenti di indecisione e totale disorientamento gli mancava tantissimo la sua capacità di farlo sentire speciale. «Mi stai ascoltando?» chiese il sindaco fissando Marco da sopra gli occhiali. «Mi sembra che a volte tu viva nel tuo mondo. Hai capito cosa ti ho detto?». «Sì, papà, ho capito. Cercherò di fare del mio meglio». «Devi fare più del tuo meglio. Lascia perdere i tuoi amici e rimani concentrato sull’obiettivo». Marco guardava le sue labbra muoversi, con le parole che uscivano veloci e acuminate come la punta di una freccia. Aveva la stessa espressione rigida e imibile che esibiva durante tutti i suoi discorsi in pubblico. Sempre impettito nel suo abito grigio, non si scomponeva mai ed evitava di far trasparire ogni minima emozione. Perdendo di nuovo il filo del discorso, pensò ancora a Lucia e all’atmosfera rilassata che con lei si era sempre riuscita a creare. Non si era mai dovuto sforzare di fare bella figura e trovare le parole giuste. Non si era mai sentito giudicato ed era sempre riuscito a dire tutto quello che gli ava per la testa. Forse era per quello che se ne era innamorato così tanto. Aveva trovato qualcuno disposto ad ascoltarlo veramente. Qualcuno che si era interessato più a quello che provava che all’impressione che doveva dare di fronte all’altra gente. Sapeva che suo padre gli voleva bene e che lo faceva per aiutarlo. Solo che a volte avrebbe preferito una carezza in più e qualche pugno sbattuto sul tavolo in meno. Ma quella era la parte che avrebbe dovuto fare sua madre. L’amore tenero e incondizionato, a prescindere da come si comportava, era sempre stato tipico del suo modo di fare. Peccato che non ci fosse più e non potesse sostenerlo in quei momenti di crisi. «Se tutto va secondo le previsioni e ate direttamente ai quarti di finale, vi scontrerete con un paio di squadre toste. Soprattutto il Vicenza è da non prendere sotto gamba. Girano voci che al capitano sia stata già fatta una proposta

interessante. Come noi del resto, ha tutto l’interesse per vincere questo torneo e mettersi in bella mostra. Tienilo a mente e soprattutto cerca di tenere sott’occhio il tuo amico… come si chiama… Alessandro, giusto? Spero proprio che quest’anno si dia una regolata e non si comporti come l’anno scorso. Dato che voi due siete le punte della squadra, non vorrei che ti penalizzasse perché a lui non importa niente della carriera. Spero che pensi un po’ a te e si renda conto che potrebbe rovinarti il futuro». Marco pensò all’amico e gli sfuggì un sorriso. Le parole del padre gli suonarono esagerate, ma dovette ammettere che l’anno prima avesse un tantino esagerato. «Sì, in effetti anno scorso poteva impegnarsi un po’ di più… Quest’anno però sarà diverso, papà. Lo sa che per me è l’anno decisivo e si comporterà meglio, ne sono sicuro. In ogni caso lo terrò a bada. Ci tengo a vincere il trofeo». «Ottimo figliolo. Sono contento che la pensi così. Mamma ne sarebbe fiera». Mentre il padre si rilassò sullo schienale e allentò la tensione muscolare del volto, i camerieri arrivarono con i piatti di pasta. Marco arrotolò le tagliatelle al ragù attorno alla forchetta, immaginandosi sua madre che, abbracciandolo, gli sussurrava nell’orecchio quanto fosse orgogliosa di lui. Nonostante si fossero incontrati presto per evitare la confusione, i turisti avevano già animato la parte esterna del ristorante, mentre i compagni di squadra avevano iniziato a cenare insieme a tutti i partecipanti della gara nelle sale interne. Marco si sentiva a disagio e controllava ossessivamente le finestre per vedere se qualcuno lo stesse osservando. Probabilmente nessuno si sarebbe accorto che nel suo tavolo mancava una persona, ma l’idea di essere visto in compagnia del sindaco non la poteva proprio sopportare. «A proposito...» disse il sindaco con tono più gioviale, interrompendo il suo stato di paranoia. «Sai chi ho visto oggi pomeriggio mentre mi recavo a Olimpia? Quella ragazzina con cui uscivi l’anno scorso, come si chiama… Lucia, se non vado errato…». Marco tossì di colpo e, battendosi forte il torace con il pugno, cercò di far scendere il boccone che gli era appena andato di traverso. Afferrò il bicchiere di coca cola e lo svuotò in un unico sorso. Poi lo riappoggiò rumorosamente sul tavolo e guardò stupito il padre. Erano usciti per talmente poco tempo, che non pensava nemmeno che se ne fosse accorto. Di solito non gli parlava dei suoi fatti

personali e, vedendolo al corrente della sua breve storia amorosa, si chiese come cavolo avesse fatto a ottenere quelle informazioni. Il sindaco, vedendo la reazione impacciata del figlio, non se ne meravigliò e scoppiò a ridere. «Solo perché non dico niente, non vuol dire che non veda le cose…». Marco rimase allibito. Gli faceva strano vedere il padre scherzare in quel modo. Non era quasi mai espansivo e socievole e, le poche volte che accadeva, gli sembrava quasi innaturale. «Ti ha chiesto di me?» replicò dicendo la prima cosa che gli ò per la testa. «A dire la verità non ho avuto modo di parlarle. Io stavo andando verso il centro congressi e l’ho vista camminare dall’altra parte della strada. E comunque, non avendomela mai presentata in modo ufficiale, non credo che si sarebbe aspettata che la fermassi per salutarla». Il padre questa volta aveva perfettamente ragione. Marco aveva la tendenza a escluderlo dalla sua vita quando si trattava di questioni al di fuori del calcio. Non poteva di certo aspettarsi che si fosse fermato a parlarle. Adesso però gli aveva messo la pulce nell’orecchio ed era diventato maledettamente curioso. Moriva dalla voglia di vedere se era uguale all’anno scorso e se gli avrebbe fatto ancora un certo effetto. La cosa positiva era che abitava sempre a Spinello. Se avesse mai preso coraggio per andarle a parlare, di sicuro avrebbe saputo dove trovarla. «Non sarà mica motivo di distrazione anche quest’anno?» chiese il padre vedendo che nel suo volto l’espressione era cambiata. «No, no, ma cosa dici?!» gli rispose immediatamente ricomponendosi sulla sedia. «Ormai è acqua ata, non c’è nessun pericolo che io e lei possiamo tornare insieme. Sicuramente prima o poi finirò per incrociarla, ma questo non interferirà in alcun modo con le partite. Il trofeo prima di tutto». «Bravo figliolo» disse il sindaco allungando la mano su quella di Marco per stringerla in segno di affetto. Marco fissò stupito quel gesto e apprezzò lo sforzo. Quando si decise a girare la mano per ricambiarlo però, il padre aveva già ritirato indietro la sua per afferrare

il calice di vino rosso. La conversazione, dopo quel breve inciso, tornò di nuovo sull’argomento principale. Marco raccontò come stavano andando gli allenamenti della prima settimana e il padre lo ascoltò composto nella sua solita espressione austera. Peccato che nella maggior parte dei casi si discutesse sempre della stessa cosa. A Marco non sarebbe dispiaciuto divagare su qualcosa di più frivolo o parlare apertamente della madre. Dopo l’incidente era come se il padre l’avesse sepolta nel suo cuore e non avesse avuto alcuna intenzione di riaffrontare l’argomento. Lui era invece convinto che, se si fosse levato i panni del sindaco un po’ più spesso, si sarebbe alleggerita la tensione fra i due e sarebbe riuscito a parlargli senza sentirsi costantemente in soggezione. Bastava poco, ma quel o in più sembrava che il padre non lo volesse proprio fare. Guardandolo rassegnato si accontentò di quel gesto e fece un profondo respiro. Dopo che il sindaco chiese al cameriere il conto, il fratello uscì dalla cucina e andò loro incontro per salutarli velocemente. «Ma non vorrai mica scherzare?!» disse Alfredo andando a stringere fra le sue braccia il nipote. «Offre la casa, ci mancherebbe». «Ciao zio» disse Marco ricambiando l’abbraccio. «Come stai? È da un pezzo che non ti vedo. In forma per la gara?». «Sì, sì, tutto a posto». «Mi hanno detto che quest’anno ci sono buone possibilità per fare il salto di qualità» disse guardando il fratello. «Speriamo. Io ce la metterò tutta». «Vedrai che andrà tutto bene, non preoccuparti. Lo sappiamo che sei un bravo ragazzo». Marco sorrise e guardò il padre e lo zio mentre si scambiavano due parole. Diversamente dal fratello, Alfredo era molto più scherzoso ed estroverso. Non pensava due volte a quello che diceva, né si preoccupava dell’impressione che poteva dare agli altri. Era un cuoco e come tale se ne stava tranquillamente in mezzo alla gente con il grembiule sempre sporco. Il viso era rotondo come lo era

la pancia prosperosa. Marco, tutte le volte che li vedeva insieme, si chiedeva se fosse il tipo di professione a determinare la persona che si diventava, oppure, al contrario, se fosse la personalità ad influenzare la scelta professionale. Lo zio sembrava fatto apposta per quel lavoro come pure lo era il padre. Oppure le loro professioni li avevano influenzati a tal punto da trasformarli in quello che erano. In un modo o nell’altro, quello di cui era certo era che lo zio sapeva godersi la vita molto più del padre. Era sempre allegro e non aveva bisogno di indossare nessuna maschera che contenesse le proprie emozioni. In quel momento Marco realizzò che, se non fosse riuscito a diventare un calciatore, non avrebbe mai voluto fare un lavoro come quello del padre. Spesso si era chiesto come la madre avesse potuto sposare un tipo come lui. Lei che era una pittrice e di regole non ne aveva, era finita per stare assieme ad uno che faceva del rigore la sua ragione di vita. Probabilmente valeva la regola degli opposti che si attraggono o la teoria dello Yin e dello Yang per cui dentro ogni estremo occorre un po’ dell’opposto per creare l’equilibrio. Di sicuro lui sapeva di assomigliare di più a sua madre. La sua voglia di uscire dagli schemi e non farsi intrappolare dalla routine quotidiana era lo stimolo che alimentava il suo desiderio di sfondare. Quando correva dietro al pallone, oltreando gli avversari, si sentiva vivo e pieno di energie nella sua corsa verso la libertà. «Scusate, ma devo proprio scappare. Il locale è pieno e la cucina mi aspetta» disse Alfredo salutandoli in fretta. «Mi ha fatto un gran piacere rivederti, Marco. Torna a trovarmi in un orario migliore, così magari facciamo due chiacchiere». «Certo zio» gli rispose mentre lo vedeva allontanarsi ciondolante fra i tavoli della veranda. «Forse è meglio che vada anch’io, figliolo» disse il sindaco rimanendo in piedi. «Ho ancora delle cose da sbrigare per domani e non voglio rischiare di are tutta la serata davanti al computer». «Okay papà, così raggiungo gli altri. Sentivo che parlavano di una party per festeggiare l’anniversario dell’albergo. Stasera serata tranquilla e poi a letto presto» disse convinto per farlo felice. «Ben detto, figliuolo. Noi ci sentiamo comunque domani» rispose salutandolo con una pacca sulla spalla. Marco congedò il padre e se ne andò dal ristorante soddisfatto. La cena era

andata meglio del previsto e la conversazione non era stata noiosa come al solito. Ripensando sulla via del ritorno a tutto quello che si erano detti, gli venne in mente Lucia e decise di fare la strada più lunga per are davanti alla sua casa. Aveva la tentazione di suonare il camlo, ma quando si fermò in prossimità del cancello, non se la sentì e tirò dritto. Indugiando per qualche istante vicino a un albero sul lato opposto della strada, osservò la finestra della sua camera da letto in alto al terzo piano. Una luce tenue come quella di una candela illuminava la mansarda. Marco se la immaginava rannicchiata sul letto intenta a leggere un grosso libro appoggiato sulle ginocchia. Si ricordava che a Lucia piacevano moltissimo le storie fantasy e che trascorreva la maggior parte del suo tempo libero immersa in quei mondi magici. Le strade residenziali a quell’ora erano quasi del tutto deserte. Chi aveva voglia di uscire si era già recato in paese, mentre chi voleva restare in casa si era rintanato da tempo nelle proprie abitazioni. Marco rimase per un bel pezzo appollaiato dietro all’albero ripensando alle serate trascorse con Lucia. Con i pensieri ritornò agli incontri furtivi nella panchina del parco e ai profondi baci che si erano scambiati sotto la quercia secolare. Rievocando i discorsi interminabili in cui si erano persi per ore, non si era accorto che dei i stavano avanzando nella sua direzione. Il rumore della suola che strisciava sull’asfalto riecheggiava nel silenzio del vialetto vuoto. Con le orecchie tese si nascose dietro al tronco cercando di non farsi vedere. Bloccato in quella posizione pregò che non si trattasse di Lucia. I i si facevano sempre più vicini e uno strano ronzio accompagnava la lenta camminata. Quasi sicuramente si trattava di una persona sola e il rumore che sentiva doveva essere quello delle ruote di una bicicletta quando viene spinta a mano. Il quel momento Marco si ricordò che Lucia adorava andare in giro con la vecchia bicicletta del nonno. Un brivido gli attraversò la schiena facendolo andare in paranoia. Doveva assolutamente pensare a una scusa plausibile che giustificasse la sua presenza in quel luogo. Come uno stupido si era illuso che stesse leggendo e non aveva considerato l’ipotesi che qualcun altro potesse essere entrato nella sua camera. Era ormai troppo tardi per scappare. Anche se non si sentiva pronto e non sapeva cosa dire, doveva prendere la situazione di petto e vincere la sua insicurezza. Fece un profondo respiro, rilassò la muscolatura e, quando i i furono proprio dietro di lui, si girò pronto a salutarla nella maniera più spensierata possibile. «Ciao Luci…» disse rimanendo bloccato a metà. Con la bocca ancora aperta fissò inebetito l’anziano signore che portava a so

la moglie in carrozzina. I due si fermarono di colpo e lo scrutarono attentamente per capire chi fosse. «Scusate… mi sono sbagliato… continuate pure e… buona serata» disse cercando di trattenere le risate. Tutta quella tensione per due vecchietti che stavano facendo la loro eggiata serale. Non poteva credere di essersi sentito così agitato per una ragazza che non vedeva dall’estate precedente. Appoggiò una mano all’albero, diede un ultimo sguardo alla casa di Lucia, poi si allontanò lungo il marciapiede prima che lo potesse vedere qualcuno che lo conosceva veramente.

Capitolo XIII Pamela, Cristina e sca erano di nuovo indaffarate in cucina a preparare insalata e macedonia, mentre Lorenzo iniziava a raccogliere la brace nel camino insieme a Roberto e Andrea che alimentavano il fuoco. Erano le otto e mezza di sera e fuori faceva già buio pesto. La temperatura era calata di colpo e il calore del camino aveva appannato tutti i vetri della sala. Cristina si avvicinò a una finestra e con le dita strisciò sul vetro per vederci attraverso. «Certo che, adesso che è buio, è un po’ inquietante il paesaggio là fuori» disse mentre con la mano cercava di farsi ombra sugli occhi per vedere meglio. Attorno alla loro villa c’erano un paio di campi e un boschetto che si inerpicava su per la vallata. Le lampade da giardino accese illuminavano a malapena il aggio dal portico al cancellino. La casa più vicina era in fondo alla strada, ma la pendenza della collina faceva scorgere a malapena il tetto con i suoi due comignoli sempre spenti. La vista da lassù era incantevole durante il giorno, ma di notte creava un senso di isolamento che metteva i brividi. Premendo con la faccia contro il vetro, Cristina muoveva gli occhi a destra e sinistra per contare le lucine. La maggior parte delle case era disabitata e le uniche luci che riusciva a vedere erano lontane e si confondevano con quelle dei lampioni. Roberto le si avvicinò e, schiacciando a sua volta il naso contro il vetro, diede anche lui un’occhiata fuori. Era curioso di vedere se riusciva a distinguere il ristorante abbandonato, ma ovviamente il buio e la lontananza non glielo permisero. «Chissà come sarebbe andare al ristorante di notte» disse mentre continuava a fissare fuori. «Te lo dico io come sarebbe: uno schifo!» replicò Pamela dal divano. Dopo tutto quello che avevano vissuto e imparato dal racconto del signore al bar, non poteva credere che Roberto avesse ancora voglia di entrare là dentro. Non capiva come certa gente potesse essere così attratta dalle cose pericolose. Per lei, che a malapena riusciva a guardare un film dell’orrore, era inconcepibile anche solo l’idea di entrare in un posto del genere di notte. «Però, Pami, devi ammettere che potrebbe avere anche il suo fascino» commentò sca.

«Ma per favore! Vorrei proprio vederti entrare là dentro da sola con la luce di una torcia» disse Lorenzo guardandola con la faccia di uno che ha appena sentito un’enorme cazzata. «Uffa Lorenzo, se sei noioso. Devi proprio pesare tutte le parole? Ho detto solamente che sarebbe eccitante, non che lo farei veramente...» replicò sca. «Comunque, ragazzi, io non vi capisco» aggiunse Pamela. «Siete come i protagonisti dei film che insistono per scendere nel seminterrato quando è palese che sarebbe meglio che se la dessero a gambe levate. Seduti nel divano di fronte alla televisione urlate di non entrare e poi, quando siete voi in quella situazione, fate esattamente la stessa cosa. Non siete mica normali». «Amore, forse siamo noi che non comprendiamo il fascino del mistero. A noi interessano più altre cose…» disse maliziosamente il fidanzato sbaciucchiandola viscidamente. «Sì, le borse di Louis Vuitton e l’aperitivo il venerdì sera a Milano Marittima» completò la frase Lorenzo. Nonostante non credesse alle storie di fantasmi, si era talmente fissato a voler trovare una spiegazione logica agli avvenimenti, che si mise a cercare su internet delle informazioni sui casi di Spinello. «Ehi ragazzi, guardate cosa ho trovato» disse cliccando sul comando per ingrandire a tutta pagina. «In questo sito ci sono gli articoli di giornale sulla morte dei due calciatori e del figlio del sindaco. C’è anche un link ad una pagina con delle foto. Vediamo». Roberto e Cristina staccarono immediatamente le loro facce dal vetro e si posizionarono alle spalle di Lorenzo. sca gli era già accanto mentre Andrea e Pamela si alzarono dal divano per andare a sedersi sui braccioli della poltrona. La prima immagine che si aprì ritraeva l’ingresso di un albergo con l’ambulanza parcheggiata davanti e due corpi che venivano caricati con le barelle. «Questi devono essere i due ragazzi morti di cui abbiamo letto l’articolo e di cui ci parlava il vecchio» disse Cristina osservando dettagliatamente la foto.

L’albergo assomigliava a un edificio che aveva visto quella mattina vicino ai campi da calcio mentre eggiava con sca. Le foto successive ritraevano il ristorante in fiamme, con i primi piani sulle parti annerite della pizzeria. In alcune si vedevano i pompieri intenti a domare il fuoco, mentre in altre c’era l’immagine di un uomo in completo scuro che veniva fatto salire sull’ambulanza. «Aspettate un attimo. Voglio provare a ingrandire questa immagine» disse Lorenzo curioso di vedere chi fosse quell’uomo. L’immagine però era troppo sgranata e non riuscì a distinguere i lineamenti del suo volto. Continuando a sfogliare le foto successive, ne trovò un’altra con in primo piano lo stesso signore in abito scuro. «Eccolo, è lui!» disse tutto eccitato. «Questo è il sindaco di cui mi parlavano sempre i miei genitori». «Quello che dovrebbe essere stato un venduto?» chiese Andrea. «Oppure un benefattore, secondo quello che il vecchio ci ha raccontato» controbatté sca che preferiva vedere il bicchiere mezzo pieno. «Certo che quando scegliamo i politici non lo facciamo di certo in base alla bellezza» commentò Cristina facendo ridere tutti. «Ragazzi, un po’ di ritegno. Sto povero uomo ha perso il figlio in quell’incidente, ricordate?» disse sca. Lorenzo continuò a scorrere le immagini fino a quando Roberto lo fermò per osservarne una. «Da qui sembra che l’incendio sia partito dalla parete in fondo alla sala, quella che abbiamo visto oggi dove c’è anche la porta per accedere alla tromba delle scale» disse indicandola con il dito. «Strano però. Mi chiedo cosa abbia potuto prendere fuoco in quel punto così vicino alla finestra…» disse Lorenzo mentre cercava di trovare una risposta nei trafiletti sotto le immagini. «Magari invece è partito dal forno e qui non si vede» commentò Andrea.

«No, non è possibile. Il forno l’ho controllato oggi e la pietra refrattaria era intatta» rispose Roberto. «Sì, ma chi te lo dice che il forno non sia stato rimesso a posto? Ti ricordo che dopo l’incendio i lavori di ristrutturazione erano iniziati. Solo in seguito agli altri incidenti hanno dovuto interromperli» rispose Andrea convinto della sua supposizione. «Ma ragazzi, vi rendete conto che vi state facendo un viaggio assurdo? Mi meraviglio che stiate a perdere tempo a cercare delle informazioni. Che cavolo ve ne frega del motivo per cui è andato a fuoco quel ristorante?» chiese Pamela stanca di sentir parlare sempre delle stesse cose. «Vogliamo solo vedere se c’è scritto da qualche parte come sono accaduti questi incidenti, tutto qua» le rispose Lorenzo. «Come, adesso ti ci metti anche tu? Ma se hai detto che non ci credi alle storie soprannaturali?». «Infatti non ci credo. Sto solo cercando una spiegazione ragionevole per dimostrarvi che le storie di oggi sono pura fantasia e io avevo ragione. Se hai un argomento migliore comunque possiamo anche parlare d’altro». «Non saprei… qualsiasi cosa purché si parli d’altro» rispose Pamela scocciata. «Te lo dico io amore di cosa parliamo: la brace è pronta ed è ora di cuocere la carne» disse Andrea alzandosi dal bracciolo della poltrona per andare a posizionare i pezzi di carbone rovente sotto la griglia. «Salvata in extremis» disse Pamela alzandosi in piedi in un balzo. La cena era riuscita a distogliere per un attimo l’attenzione da quegli inutili discorsi. Cristina e sca apparecchiarono e portarono in tavola l’insalata mista, il pane e la macedonia. Andrea aprì la prima bottiglia di vino mentre Lorenzo si occupò della carne. «Finalmente si mangia. Avevo una fame!» disse Roberto con la forchetta già in mano. «Allora, Pami?» continuò insistente Lorenzo per darle addosso.

«Cosa?». «Introduci l’argomento, no? Di cosa vuoi parlare?». Pamela osservò i ragazzi uno ad uno e, con il boccone ancora fra i denti, fece finta di non aver sentito e continuò a masticare. «Tesoro, te la sei cercata…» disse Andrea puntando una salsiccia dritto al suo naso. Pamela non rispose. Era stanca di essere sempre presa di mira e le battute di Lorenzo non le trovava affatto divertenti. «Allora vi diciamo qualcosa Lorenzo ed io» disse sca interrompendo quei pochi istanti di silenzio come un fulmine a ciel sereno. Avrebbe voluto tenere il loro piccolo segreto ancora un po’ per sé, ma, dato che non c’era nient’altro di interessante da dire, se lo lasciò scappare dalla bocca come una bomba esplosiva. «Lorenzo ed io abbiamo deciso di sposarci l’anno prossimo». Lorenzo tutto d’un colpo iniziò a tossire per mandare giù il pezzo di carne che gli era andato di traverso. Tutto rosso in faccia cercò di far svanire l’imbarazzo ingurgitando un bicchiere intero di vino rosso. «Cavolo sca, congratulazioni» rispose emozionata Pamela mentre si alzava dalla sedia per andare ad abbracciarla. «Avete già deciso la data?». «In realtà ne abbiamo solo parlato, non è niente di definitivo» aggiunse Lorenzo mettendo le mani avanti. Dato che l’idea del matrimonio piaceva più a sca che a lui, in tutti i modi cercava di rinviare l’argomento mantenendosi sul vago. «Amore, non dire così. L’ultima volta mi avevi detto che forse si poteva organizzare per giugno dell’anno prossimo» disse sca un po’ delusa della reazione del fidanzato. «Dai Fra, non ha mica detto di no. Lo sai che Lorenzo fa così per non apparire

troppo sdolcinato». «Sei fregato caro mio» disse Andrea dandogli una pacca sulla spalla. «I prossimi allora siamo noi, vero, amore?» chiese Pamela facendo gli occhi da gatta. «Con calma, con calma» rispose Andrea immaginandosi la triste scena di vedersi sostituire il suo Ducati Monster con una carrozzina per neonati. «Avete già un’idea del posto dove celebrarlo? Il catering, la villa?» chiese Cristina ancora fresca di matrimonio. «Per quanto riguarda la funzione, non credo che la celebreremo in chiesa. A me piacerebbe moltissimo, ma Lorenzo non è credente e preferisce farlo in Comune. Anche sul Comune poi ci sarà da ridire. Io che sono di Cesena vorrei sposarmi là, lui invece vorrebbe farlo a Forlì. Insomma, ci sarà da litigare su tutto, me lo immagino già». «Fra, non ci pensare. L’importante è che vi sposiate, no? Poi tutti i posti sono belli e quel giorno non ci farai neppure caso, tanto sarai emozionata». «Pamela ha ragione. E comunque adesso dice così poi vedrai, quando sarà il momento di organizzare la cosa, delegherà tutto a te e allora ne potrai approfittare per fare quello che ti pare. Lo sai come sono gli uomini, parlano tanto, ma poi nel momento clou se la svignano e lasciano fare tutto a noi donne» aggiunse Cristina per sdrammatizzare. Roberto e Andrea si complimentavano con l’amico prendendolo in giro, mentre Lorenzo cercava in tutti i modi di cambiare argomento. Gli piaceva tenere le redini della conversazione quando si parlava di lavoro o di moto, ma per il resto, preferiva non essere troppo al centro dell’attenzione. Gli argomenti di coppia poi erano troppo personali. Meglio evitarli per non dare l’idea di essere un rammollito. Andrea approfittò dell’occasione per aprire la seconda bottiglia di vino. «Un brindisi agli sposi e a un addio al celibato con i fiocchi». «Un brindisi ai futuri sposi e basta» corresse Pamela che con un calcio aveva

colpito la gamba del moroso sotto il tavolo. Il fuoco continuava a scoppiettare ardente nel camino, mentre le risate abbondarono fra una forchettata e l’altra. Alla terza bottiglia di vino i discorsi diventarono più frivoli e anche Lorenzo riuscì a lasciarsi andare facendo qualche battuta sul matrimonio. «Sarebbe una figata arrivare in Comune sulla mia moto, invece che dentro alla solita macchina a noleggio. Potrei arrivare in piazza in impennata». «Non pensarci neanche» disse sca preoccupata che lo potesse fare sul serio. «Me l’immagino la Fra seduta dietro con il vestito che le vola da tutte le parti e il casco in testa che le schiaccia l’acconciatura. Direi che è un’idea geniale» commentò ridendo Pamela. «Parliamo piuttosto dell’addio al celibato. Roberto ed io ci dobbiamo organizzare per le spogliarelliste» disse Andrea sapendo che avrebbe mandato su tutte le furie le ragazze. «Bene. Sappiate però che, se la mettete su questo piano, noi ci organizzeremo di conseguenza» replicò Pamela con atteggiamento di sfida. «Ooooohhh!» risposero gli altri in coro. «Battibecco in casa Lugaresi!». Andrea si fece tutto a un tratto serio. Gli piaceva fare lo spavaldo e provocare la fidanzata, ma non era capace di accettare la contropartita. Geloso com’era non sopportava neppure l’idea che qualcuno potesse avvicinarsi a Pamela. «Va bene, ragazzi. Direi che, dopo tutte queste cavolate, caffè e sigaretta sono d’obbligo» disse sca mentre si dirigeva in cucina per mettere la moka sul fuoco. Pamela si alzò di scatto dalla poltrona e la seguì per darle una mano. Una tazza di caffè e una paglia era quello che le ci voleva per smaltire sia la cena che la sbornia. I ragazzi erano d’accordo sul caffè, ma non sembravano avere alcuna voglia di uscire fuori al freddo. «Dai raga, non vorrete mica farci uscire da sole in quel buio» disse sca

infilandosi il piumino. «Su Andrea, così ne approfittiamo per far fare i bisognini a Cleo prima di andare a letto» aggiunse Pamela insistente. La storia del cane lo aveva incastrato. Costretto ad uscire per fargli fare un giro, aveva finito per convincere anche Cristina, Lorenzo e Roberto a prendere un po’ d’aria. «Cavolo che freddo» disse Cristina alitando nell’aria per vedere il contrasto di temperatura. «Sembra che la stia fumando io la sigaretta». La temperatura era scesa sotto i dieci gradi. Nelle colline forlivesi, lontano dai palazzoni della città che bloccavano il vento, la primavera sembrava ancora più lontana. Il fruscio dei rami secchi era l’unico suono percettibile dal giardino della loro casa. Cleopatra abbaiò un paio di volte alla vista di un gatto randagio in strada e il suo verso riecheggiò per qualche secondo con una eco che si perse nei campi circostanti. Camminando avanti e indietro per cercare di scaldarsi, i ragazzi ammirarono la bellezza del cielo stellato sopra di loro. Il vento si era fatto più pungente, ma aveva spazzato via tutte le nuvole che avevano ingrigito buona parte della giornata. «Mi offri un’altra sigaretta, Fra? Ormai te le ho finite tutte…» disse Pamela abbassando la testa nel colletto del piumino. «Non ti preoccupare» rispose lei frugando nel giaccone. Quando mise la mano nella tasca destra, invece di tastare il pacchetto di Camel, sentì fra le dita qualcosa di freddo e arrotondato. Lo tirò fuori e con stupore vide che si trattava della bottiglietta di Guttalax che aveva raccolto nella cucina del ristorante. «Ma che cavolo…» disse incredula senza neppure finire la frase. Gli altri si voltarono verso di lei e, vedendo la boccetta fra le sue mani, le chiesero come mai se la fosse portata dietro. «Non so mica come sia finita qui» disse continuando a tastarsi le tasche. «Non ce l’ho messa io».

I ragazzi la guardarono dubbiosi. sca stessa non sembrava molto convinta di quello che aveva appena detto. «Te lo confermo io che non te la sei messa in tasca» disse Pamela rimproverando gli altri perché non le credevano. «Te l’avevo presa dalle mani e l’avevo appoggiata su un tavolo della sala da pranzo dopo che sono caduta, ti ricordi?». «Già, è vero. Visto?» disse sca compiaciuta di non aver fatto la figura della svampita almeno per una volta. «Forse l’hai ripresa in mano sovrappensiero e te la sei messa in tasca senza rendertene conto» ipotizzò Lorenzo che conosceva bene la sbadataggine della fidanzata. A volte faceva le cose talmente in automatico che non si ricordava neppure di averle fatte. «Un po’ come l’ultima volta che hai ribaltato casa per cercare gli occhiali e non ti sei accorta che ce li avevi sopra la testa» incalzò Lorenzo per prenderla in giro. «Se ti ho detto che non l’ho presa vuol dire che è così». «Forse c’è un motivo per cui te la sei ritrovata in tasca» disse Roberto vedendola da un altro punto di vista. «Ragazzi, non ricominciate per favore» disse Pamela. «Magari avevo ragione io: quello era l’ingrediente segreto e qualcuno c’è rimasto secco per colpa del lassativo» disse ironico Andrea. «Esatto» replicò seria Cristina. «Forse quello è il lassativo per cui sono morti i due ragazzi». «Ma il vecchio ha detto che erano morti per overdose di sostanze dopanti» replicò Andrea. «Sostanze dopanti più diuretici e lassativo» precisò Lorenzo. «Ve l’avevo detto io che la teoria degli spiriti che rimangono nel nostro mondo per riportare a galla la verità era vera» disse sca continuando a fissare la

bottiglietta. «Quindi quale sarebbe la tua spiegazione geniale?» le chiese Lorenzo. «La mia spiegazione è che i due ragazzini sono ancora dentro a quel ristorante e ci hanno dato oggi un chiaro esempio della loro presenza». «Toc toc del Karma quindi per l’incendio?» aggiunse sarcastico. «Esatto, cretino» rispose secca sca. «Sarà, ma io non credo a tutte queste fesserie. E comunque come può del semplice lassativo uccidere due persone?» chiese incredulo Andrea. «Non del lassativo e basta. Quello mischiato alle altre sostanze. Magari il lassativo è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso…» ipotizzò Roberto. «E forse non è un caso che la boccetta mi sia finita nella tasca del giaccone. Forse è un segno» disse sca eccitata. «Ragazzi, sapete cosa vi dico? Niente sigaretta e io me ne torno dentro» disse Pamela interrompendo l’indagine investigativa a suo avviso completamente senza senso. sca si scusò con l’amica e la seguì in casa. Gli altri di dietro continuarono a parlare del Guttalax cercando di capire se potesse centrare veramente con la storia. «Quello che non torna però è il perché sia stato usato del lassativo al ristorante. Chi avrebbe mai voluto uccidere quei due ragazzi?» si chiese Roberto. «Forse è questo che dobbiamo scoprire» rispose Cristina sbadigliando senza mano davanti alla bocca. Quando tutti furono di nuovo in casa, era già mezzanotte ata. L’euforia del vino aveva ceduto il o alla sonnolenza e le congetture sugli incidenti avvenuti a Spinello erano rimaste tutte in sospeso. Mancavano ancora molti tasselli per completare il puzzle e la stanchezza stava cominciando a prendere il sopravvento. Andare a letto sembrò l’unica cosa sensata da fare.

«Ragazzi, ho un’idea. Domattina, quando andiamo a fare colazione al bar, chiediamo informazioni alle bariste. Loro vivono qui, sicuramente sapranno dirci qualcosa di più» disse sca trovando così una scusa per fare colazione fuori. «Ottima idea. Domattina intervistiamo le bariste e poi cosa facciamo?» chiese Roberto sperando di riuscire a organizzare un’altra eggiata. «Ci penseremo domani, Roberto, rilassati e buona notte» rispose Andrea mentre si dirigeva con Pamela in una delle camere da letto. «Ben detto. La notte porterà consiglio. Ci pensiamo domani» disse Lorenzo chiudendo la porta del bagno dietro di sé. Cristina e Roberto, cotti com’erano, furono d’accordo e augurarono a tutti la buona notte.

Capitolo XIV I risultati delle prime partite non soddisfecero le aspettative della squadra di Marco, Alessandro e Luca. Invece di classificarsi nei primi due posti del loro girone, a malapena riuscirono ad arrivare terzi. La prima partita era andata bene: Marco segnò tre goal e Alessandro due. La squadra avversaria non ebbe mai l’occasione di avvicinarsi alla loro porta e fu costretta a rientrare negli spogliatoi a testa bassa per la clamorosa sconfitta. La seconda e la terza partita invece non furono altrettanto eccellenti. Forse i ragazzi si erano montati un po’ troppo la testa dopo la prima vittoria, o semplicemente non si aspettavano che le due squadre avversarie fossero così aggressive. Sta di fatto che il gioco fu statico per quasi tutto il tempo, tranne nel momento in cui gli avversari segnarono due volte nella prima partita e una nella seconda. L’allenatore era su tutte le furie e i ragazzi non riuscivano a credere di essersi fatti battere per due volte consecutive. Sotto la pressione del mister e del sindaco in persona, scesero in campo per la quarta volta con i nervi a fior di pelle. Sapevano che quella sarebbe stata la partita decisiva: o vincevano e avano il turno oppure sarebbero dovuti ritornare a casa senza alcuna speranza di accedere alla seconda fase del torneo. Con la tensione a mille il risultato non fu clamoroso, ma almeno riuscirono a are alla fase di ripescaggio. Nonostante la vittoria avesse alleggerito un po’ la tensione, nessuno però esultò alla fine della partita. Seguendo in silenzio l’allenatore negli spogliatoi, i ragazzi si stavano già preparando per una ramanzina con i fiocchi. «Ragazzi, avete giocato proprio da schifo» urlò il mister. «Avete preso la cosa sottogamba. Con chi credevate di giocare, con delle femminucce? Adesso sperate pure di vincere contro le altre due terze, se no addio trofeo. Bella figura che mi avete fatto fare! Siamo la squadra ospitante e rischiamo di essere eliminati al primo turno. Altro che Serie A, a voi ci vorrebbero due calci nel culo!». I ragazzi ascoltavano ammutoliti le parole pesanti fissando il pavimento dello spogliatoio. Nessuno aveva il coraggio di controbattere. Nessuna scusante poteva giustificare il fatto che avessero giocato così male. «Dato che con voi bisogna usare le maniere forti per farvi fare le cose, da oggi

scordatevi di poter uscire la sera. Dopo cena per voi c’è il coprifuoco ed esigo che nessuno lasci l’albergo. Questo almeno finché non dimostrerete di essere delle persone mature e vi impegnerete a fare il vostro dovere». E così dicendo lasciò lo spogliatoio sbattendo violentemente la porta. Marco non ci poteva credere. In poco tempo aveva visto vacillare il suo sogno di diventare un calciatore. Luca continuava a domandarsi se fosse ancora in grado di fare il portiere, mentre Alessandro non sapeva se essere più arrabbiato per il fatto di aver fatto brutta figura o aver perso la possibilità di uscire la sera. Per un motivo o per l’altro il morale del gruppo era sceso a terra. Il cigolio degli armadietti e il brusio dimesso dei commenti delle partite erano gli unici rumori che si sentivano nella stanza. Marco si alzò per primo da una delle panche e in silenzio si diresse verso le docce. Luca e Alessandro scattarono in piedi per raggiungerlo e dirgli qualcosa, ma lui fece cenno di volere rimanere da solo. Non aveva voglia di parlare con nessuno. A mala pena riusciva a sopportare i mille pensieri che gli frullavano in testa. La sfuriata dell’allenatore non era niente in confronto a quella che si sarebbe dovuto sorbire quando avrebbe rivisto il padre. Come avrebbero poi potuto notarlo in una squadra che aveva rischiato di essere eliminata al primo turno? Mentre l’acqua scorreva sulla sua schiena, i suoi occhi si riempivano di lacrime e disperazione. Rimase lì immobile per parecchi minuti, con il braccio appoggiato al muro e lo sguardo fisso sullo scarico dell’acqua in mezzo ai suoi piedi. Nei rivoli che scorrevano veloci sulle piastrelle vedeva scivolare via il suo futuro da calciatore. Dopo essersi vestito in fretta, senza neppure asciugarsi i capelli, uscì dallo spogliatoio e andò a fare due i per sbollire la rabbia. Alessandro e Luca si guardarono in faccia e realizzarono quanto l’amico dovesse essere disperato. «Mi dispiace un casino per Marco» disse Alessandro afferrando l’accappatoio. «È vero che noi potevamo giocare meglio, ma il problema principale qui è la nostra difesa. Ogni volta che gli avversari si avvicinano alla nostra porta, aspettano fino all’ultimo e non giocano mai d’anticipo. Poi Marco ed io come possiamo andare all’attacco se non ci arrivano mai dei aggi decenti. Noi abbiamo fatto anche troppo». «Parla per te, io ho fatto schifo» rispose Luca sentendosi molto più in colpa

dell’amico. «Mi sono lasciato fare quei goal come un cretino. Avrei dovuto pararli, a prescindere da quello che facevano gli altri». Con un gesto secco appallottolò la divisa e la scagliò dentro la borsa. «Non dire cazzate. Hai fatto come meglio potevi. Non hai visto com’era lenta la difesa quando li chiamavi per chiudere la traiettoria di tiro? Non potrai mica fare tutto da solo». «Sarà, ma sta di fatto che adesso ci tocca vincere altre due partite per accedere ai quarti di finale. Non era certo questo il modo con cui speravo di arrivarci». «A chi lo dici. Potevamo avere una settimana di riposo e divertirci con le ragazze, mentre adesso dovremo lavorare a testa bassa con il mister che ci infamerà dalla mattina alla sera» commentò Alessandro pensando a Silvia. «E comunque dispiace anche a me per Marco. Più per lui che per me in verità. Non che io abbia la velleità di diventare un calciatore professionista, ma lui ha le qualità giuste per sfondare e mi dispiacerebbe se non ci riuscisse per un paio di partite andate di merda» aggiunse Luca. «Non so cosa dire. Bisognerà che ci impegniamo di più e troviamo il modo di chiudere meglio in difesa. Se arriviamo ai quarti e la fortuna ci assiste anche nel secondo sorteggio, ce la possiamo ancora fare a vincere sto benedetto torneo» concluse Alessandro mentre uscivano dallo spogliatoio. Luca annuì con la testa e, senza dire nulla per tutto il tragitto, ritornò in albergo con l’amico. Marco vagava senza meta per le strade di Spinello. Non guardava in faccia a nessuno e le persone che gli camminavano attorno erano solo sagome indefinite. Il sole era alto nel cielo, il termometro segnava trentacinque gradi, ma quello che percepiva era solo un gran senso di vuoto interiore. Si immaginava le parole che il padre gli avrebbe detto la sera stessa e cercava di prepararsi un discorso per non rimanere inebetito come al solito. Nella mente i brutti pensieri sulla fine della sua carriera alimentavano la sua rabbia e un profondo senso di sconforto. Calciando nervosamente i sassi che incontrava lungo il cammino, attraversò a o spedito tutto il paese, oltreando l’albergo e raggiungendo la zona residenziale. Mentre osservava le ville perfette nei loro giardini curati, pensò che

la sua vita non sarebbe mai stata altrettanto perfetta. Si sentiva inconcludente e, svanita la certezza della carriera sportiva, non aveva la più pallida idea di cosa fare da grande. Non aveva mai considerato l’ipotesi di trascorrere una vita normale come tutti gli altri. Era talmente convinto che sarebbe diventato un calciatore, che non si preoccupò mai di valutare un’alternativa qualora il suo sogno non si fosse realizzato. Ripensò ai progetti che avevano Alessandro e Luca e si sentì nel panico per non avere idea di cosa fare. Non sapeva che tipo di lavoro gli potesse piacere né che università avrebbe potuto frequentare. Il suo mondo perfetto era stato spezzato e le alternative intorno a lui erano ignote e senza alcuna attrattiva. Più si figurava se stesso perso nell’indecisione rispetto ai compagni che sapevano esattamente cosa fare, più cresceva dentro di lui quel senso di rabbia che a stento riusciva a controllare. Ad ogni o la tensione aumentava e la voglia di spaccare tutto cercava una via di fuga in qualcosa di concreto da calciare. Fu allora che, sentendo una lattina vuota rotolare al bordo del marciapiede, si lanciò su di essa e con tutta la forza la fece volare nel lato opposto della strada. «Ahia!» disse una voce femminile con tono sconcertato. Marco, senza nemmeno alzare gli occhi, sollevò la mano per chiedere scusa. «Ehi Marco, ciao» continuò la stessa voce facendosi più nitida e vicina alle sue orecchie. Marco si girò e vide Lucia attraversare la strada con la mano che massaggiava la fronte dolorante. «Scusa Lucia» disse con gli occhi sgranati, imbarazzato per il bozzo rosso che si stava materializzando sulla fronte. «Non volevo colpirti». «Voglio ben sperare che tu non l’abbia fatto apposta. Ma a cosa pensavi quando l’hai calciata? Potevi prendermi anche in un occhio». «Hai ragione, sono un deficiente, ti chiedo ancora scusa» rispose Marco sempre più mortificato. Lucia stava ingigantendo la cosa per prenderlo un po’ in giro, ma quando vide che stava quasi per mettersi a piangere, pensò di avere esagerato e smise subito di punzecchiarlo.

«Marco, stavo scherzando. Non è niente, dai. Sto bene». «Lo so Lucia. Scusa, ma oggi non è proprio giornata» rispose girandosi dall’altra parte per non far vedere gli occhi lucidi. Lucia rimase attonita e per un istante non seppe cosa dire. Dopo tutti quei mesi di silenzio non si sarebbe mai aspettata di rincontrarlo in quel modo. Era dispiaciuta del fatto che non avessero continuato a sentirsi, ma si rendeva conto che la distanza e gli impegni quotidiani non avrebbero mai giocato a loro favore. C’era rimasta male per come erano andate a finire le cose, ma non era mai stata arrabbiata con Marco. Quando lo rivide in quella circostanza, non ebbe neppure il tempo di pensare a come comportarsi. Stupita e allo stesso tempo dispiaciuta di vederlo così abbattuto, ebbe l’impulso di volergli stare vicino come se non si fossero mai lasciati. Con una mano gli accarezzò la schiena e lo strinse a sé per fargli capire che lei c’era, a prescindere da come era finita fra di loro. «Hai voglia di fare due i e raccontarmi tutto?» chiese con tono gentile cercando di guardarlo dritto negli occhi. «Mah, non è successo niente di particolare» disse lui tirando su con il naso e sforzandosi di sembrare a posto. «Solo un paio di partite perse, tutto qua…» aggiunse continuando a guardare nella direzione opposta. «Se ti va possiamo comunque andare a sederci da qualche parte e fare due chiacchiere» insistette lei, sapendo benissimo che quando si comportava in quel modo c’era qualcosa che non andava. Marco annuì e la seguì nel parchetto lì vicino. Si vergognava per la figura da fesso che aveva fatto, ma gli faceva piacere vedere che Lucia non l’odiava per il fatto che non si fossero più sentiti. Il parco dove si sedettero era quello che avevano frequentato l’anno prima tutte le volte che si erano incontrati. C’era la solita panchina sotto la quercia e la vista romantica sul laghetto con i cigni. Marco si sedette alla sua destra e per qualche istante rimase immobile chinato in avanti, con i gomiti puntati sulle ginocchia e la testa fra le mani. Aveva bisogno di un momento per concentrarsi e acquietare tutta la rabbia che aveva accumulato. Lucia aspettò paziente appoggiando un grosso libro sulla panchina insieme alla borsa che si era tolta da tracollo.

«Mi dispiace per come sono andate a finire le cose fra noi…» disse improvvisamente lui cercando di prendere coraggio. Lucia arrossì. Si aspettava di parlare di tutto tranne di come era terminata la loro relazione. «Avrei dovuto farmi sentire più spesso, ma poi gli impegni a scuola e le partite e...». «Non ti devi giustificare» lo interruppe lei. «Anch’io non mi sono più fatta sentire». «Sì, ma quello che ha smesso di mandare i messaggi per primo sono stato io» replicò Marco sentendosi in colpa. «Però ci siamo mandati gli auguri di Natale e di compleanno» disse lei sdrammatizzando. Marco si voltò verso Lucia e, fissandola negli occhi, ritrovò in lei la dolcezza e la semplicità che lo avevano fatto innamorare. Non era cambiata affatto rispetto all’anno prima. I lineamenti del suo volto erano sempre rotondi, i capelli castani le si appoggiavano sulle spalle con la frangia che le copriva per metà i grandi occhi marroni. Il naso era sottile come lo erano le labbra rosa che mettevano in evidenza i denti bianchi e perfetti tutte le volte che sorrideva. «Allora, mi vuoi dire cos’è successo da farti diventare così angosciato?». «Te l’ho già detto. Abbiamo giocato male due partite del torneo, tutto qua». «E due partite perse ti fanno reagire così? Non me la racconti giusta, ci deve essere qualcos’altro». «No… cioè… in verità…» tentennò lui facendo fatica a tirare fuori quello che stava provando in quel momento. «Il problema è che, se veniamo eliminati, rischio di giocarmi la carriera…». «Non siete però ancora fuori, giusto?». «No, no, siamo ancora in gara, ma siamo partiti con il piede sbagliato e il mister è incazzato nero. Poi me la dovrò vedere anche con mio padre… sai bene cosa

intendo dire… Se non arriviamo almeno in finale sono rovinato, sia come calciatore che come figlio». «Ma dai, non starai un po’ esagerando? Se vede che ti sei impegnato ed è la squadra che non riesce ad andare avanti, non potrà prendersela con te». «Non conosci mio padre: se si mette in testa una cosa, è disposto a fare di tutto pur di ottenerla. Poi però vuole vedere i risultati…». «Vedrai che comunque ce la farete. Magari queste due sconfitte vi sono servite da lezione per darci sotto nelle prossime partite. Sono sicura che, al di là del risultato finale, le persone che contano sanno riconoscere i talenti, anche in una squadra mediocre» disse Lucia cercando di tirargli su il morale. «Staremo a vedere» rispose Marco sconsolato. «Comunque non parliamo solo di questo. Raccontami piuttosto qualcosa di te. Novità?». «Nessuna novità. Non è ato poi così tanto tempo…». «Dove stavi andando?». «Stavo tornando a casa. Sono ata in libreria a prendere in prestito questo libro». «Sempre fantasy, eh? Non sono cambiati i tuoi gusti» disse osservando la figura di un mago sulla copertina. «No, infatti. Lo sai che adoro questo genere di libri». «Lo so magari. Tu e il tuo mondo immaginario di stregoni e folletti» aggiunse mettendosi a ridere. Lucia in un modo o nell’altro trovava sempre il modo per farlo sorridere. D’improvviso la tensione che aveva accumulato era svanita. Stare con lei lo faceva sentire in pace con se stesso, senza quella costante sensazione di essere messo alla prova. Lei lo apprezzava per quello che era e lui adorava quel modo che aveva di farlo sentire speciale. I due parlarono di come era andato il loro anno scolastico e di come avevano trascorso l’inverno. Marco le raccontò dei suoi progressi sportivi mentre Lucia

gli annunciò il suo nuovo interesse per i metodi curativi alternativi. «Cos’è che stai studiando?» chiese lui che non aveva capito bene di cosa stesse parlando. «Si chiama Reiki. È un po’ difficile da spiegare. Si basa comunque sulla teoria indiana che gli esseri umani possiedono un campo energetico che interagisce con l’energia universale che circonda il corpo fisico. I punti di comunicazione di questi due campi sono definiti Chakra. Secondo questa disciplina, il benessere di un individuo sul piano fisico dipende anche dal corretto equilibrio del piano energetico. In poche parole, nella vita quotidiana le situazioni di stress e forte tensione possono alterare il flusso energetico e bloccare alcuni di questi Chakra. Essendo questi punti energetici in corrispondenza di specifici organi vitali, può succedere che a lungo andare essi si ammalino». Marco la guardò con faccia interrogativa e si sforzò di starle dietro. «Non fare quella faccia» disse Lucia vedendolo perso dopo la prima frase. «Alla fine non è molto diverso dal concetto occidentale di psicosomatica. Somatizziamo lo stress in un punto del corpo e l’organo corrispondente si ammala. Il Reiki mira a guarire il corpo cercando di ripristinare l’equilibrio energetico attraverso la riattivazione del Chakra corrispondente piuttosto che con l’utilizzo dei farmaci». «Ummmh, sembra interessante. Complicato, ma interessante». Lucia lo guardò negli occhi e si mise a ridere. Marco era sempre lo stesso: pragmatico e sicuro negli ambiti a lui familiari, ingenuo e perso in quelli che non conosceva. Marco ascoltò con attenzione tutta la sua spiegazione e si ricordò il motivo per cui le era piaciuta sin dal primo momento. A differenza di molte ragazze della sua età, amava leggere e documentarsi su tutto quello che le interessava. Aveva una predilezione per le cose eccentriche e se ne apionava a tal punto da riuscire a coinvolgere tutti quelli che le stavano accanto. Pur non capendoci niente di quello che stava dicendo, sentiva la sua energia riempirlo di voglia di fare. Vicino a lei, rilassato su quella panchina, era ritornato il Marco carico di sempre. Quando i rintocchi della campana risuonarono nell’aria, Marco controllò

l’orologio e si accorse che erano già le cinque. «Cavolo, è tardi. Mi dispiace, ma devo scappare, Se il mister si accorge che non sono con gli altri mi ammazza». «Non c’è problema, figurati» replicò lei serena. «Ci rivediamo però, vero?» le chiese lui sperando in una risposta positiva. «Credo che sia inevitabile rivedersi. Spinello non è una metropoli e poi sai dove abito. Se ti va, a da queste parti ogni tanto». «Ci rivediamo allora» le sussurrò Marco avvicinandosi per baciarla. «Ci rivediamo. Da amici» precisò lei scostandosi con il volto. Marco la guardò uscire dal parco e rimase a fissarla finché non scomparve dietro a una fila di alberi. Avrebbe voluto che avesse ricambiato quel bacio, ma i tempi erano cambiati e non poteva pretendere che dimenticasse quell’inverno di silenzi come se niente fosse. Il solo fatto però di averla incontrata ed essersi fermati a parlare lo aveva reso felice. Non doveva più sentirsi il solo responsabile della fine della loro relazione e sapeva di poter contare ancora su di lei, almeno come amica. Quando rientrò in albergo la tensione era svanita quasi del tutto e la rabbia aveva ceduto il posto alla calma di cui avrebbe avuto bisogno per affrontare l’allenatore e soprattutto il padre.

Capitolo XV «Allora ragazzi, questo è il piano. Finito di cenare, invece di prendere le scale per tornare di sopra, tiriamo dritto e prendiamo la prima porta a destra. Ho controllato e dovrebbe essere la lavanderia. Una volta dentro troveremo una porta che dà sul cortiletto posteriore. Se c’è un cancello usciremo da lì, altrimenti scavalcheremo la recinzione e il gioco sarà fatto» disse Alessandro tutto eccitato mentre si preparava indossando un paio di jeans strappati e una tshirt bianca attillata. «Speriamo che il mister non i a controllare le stanze. Se non ci trova siamo rovinati» replicò Luca mentre si sistemava i capelli in bagno. «Non è mai ato fino ad ora, non credo che inizierà a farlo proprio adesso». «L’hai sentito però com’era incazzato oggi nello spogliatoio: niente più uscite serali fino alla fine del torneo». «Vai tranquillo. Al massimo mettiamo una coperta sotto il lenzuolo per far sembrare che stiamo dormendo». «Sì, peccato che questi trucchetti funzionino solo nei film però» commentò Luca mentre si infilava una polo nera. Marco rimase fuori dalla conversazione e non disse nulla. Quella sera non sarebbe uscito con gli amici perché doveva incontrarsi con il padre. «Dai Marco, non puoi rimandare l’incontro con il papi e venire anche tu? Così lascerai Chiara da sola. Cosa farà quando io sarò impegnato con Silvia e Luca con Federica?» chiese Alessandro, cercando con quella scusa di convincere l’amico. «Ragazzi, lo sapete che quando mio padre si mette in testa una cosa è quella. Mi dovrà sicuramente rimproverare per come sono andare le partite. Se gli dicessi che non ci sono andrebbe su tutte le furie, più di quanto non lo sia già. Meglio non peggiorare le cose. E comunque non ho molta voglia di vedere Chiara: non è il mio tipo e credo di non esserlo neppure io per lei. Oggi ho anche rivisto Lucia e credetemi: uscire con una ragazza è l’ultima cosa che mi a per la testa».

Marco era sdraiato sul letto con le gambe incrociate e le mani dietro la testa. Il suo sguardo era immobile e fisso sul soffitto. Se avesse potuto, non avrebbe messo piede fuori da quella stanza. Aver sentito suo padre al telefono gli aveva fatto tornare l’ansia, levandogli la voglia di fare qualsiasi cosa. La sua mente continuava a riproporgli da un lato l’immagine di sé mentre sbagliava i tiri in porta, dall’altra quella di Lucia che gli ripeteva che sarebbe stata solo un’amica. Si sentiva un fallito in tutto. Non era capace di gestirsi in campo né di mantenere una relazione che valeva. Luca lesse l’espressione di tristezza nell’amico e si sedette al suo fianco. «Dai Marco, non ti buttare giù così. Abbiamo scazzato le prime partite, ma vedrai che nelle prossime andremo meglio. Esci con noi questa sera, ti servirà per svagarti un po’ e non stare qui a rimuginare tutto il tempo». «Che cooosa?! Hai visto Lucia oggi?» urlò contemporaneamente Alessandro uscendo dalla porta del bagno. «Allora siamo a posto. Chiamala e usciamo tutti insieme. Dai, dai, non farti pregare. Ci divertiremo un sacco». Marco scosse imibile la testa e declinò di nuovo l’invito. Non aveva alcuna voglia di divertirsi e comunque Lucia non sarebbe mai uscita con delle ragazze che non conosceva. Considerando poi come era andato il loro incontro, non avrebbe avuto alcuna speranza di poterci tornare insieme. Con uno sforzo scese dal letto e si preparò giusto per la cena. Luca e Alessandro si guardarono rassegnati e proseguirono la discussione sul piano di fuga. A Marco invece non occorreva sgattaiolare dalla porta posteriore di servizio. L’allenatore sapeva che si sarebbe incontrato con il padre e tutto quello che diceva il sindaco andava bene. «Se dopo cena il mister ti chiede di noi, digli che eravamo stanchi e siamo tornati in camera. Mentre mangiamo fingeremo di sbadigliare e avere sonno» disse Alessandro pensando che quella potesse essere l’unica scusa plausibile. I tre uscirono dalla stanza e si diressero verso la sala da pranzo dell’albergo per cenare con i compagni. Per punizione, quella sera e per tutta la settimana della fase di ripescaggio, non sarebbero andati a mangiare al ristorante insieme alle altre squadre. «Allora Marco, che effetto ti ha fatto vedere Lucia?» chiese Luca mentre

scendevano le scale. «Mah, normale. Niente di che. Abbiamo eggiato e fatto due chiacchiere». «L’hai baciata? Vi siete dati appuntamento?» incalzò Alessandro sperando di sentire qualche dettaglio piccante. «No Ale, cosa credi? Che dopo aver ato tutto l’inverno senza sentirci, vedendomi di sfuggita per strada, mi sia saltata addosso dalla gioia?». «Poteva essere un’idea, perché no». Luca e Marco lo guardarono con compatimento. Ad Alessandro interessava solo una cosa e a volte diventava pesante stare a sentire le sue cazzate. «Va bene, va bene, stavo solo scherzando. Ma almeno vi rivedrete?». «Non lo so» rispose Marco fissando la moquette del corridoio. «Mi ha detto che posso andare a trovarla quando voglio, ma mi ha fatto anche capire chiaramente che fra di noi non può esserci nient’altro che dell’amicizia. E comunque non so se sia il caso di rivederla. Sarebbe un’ulteriore distrazione dal torneo. Devo assolutamente concentrarmi sulle partite…». «Secondo me, minchiate di Alessandro a parte, faresti bene a rivederla» lo interruppe Luca. «Dicevi sempre che era una ragazza che ti metteva tranquillità. Forse ti farebbe bene uscire un po’ con lei». «Sempre che abbia ancora voglia di uscire con me. Proverò a chiamarla uno di questi giorni, non stasera però» rispose risoluto Marco cercando di chiudere la conversazione. Anche se Luca e Alessandro erano i suoi migliori amici, non gli piaceva raccontare le sue cose personali, soprattutto se si trattava di questioni sentimentali. Era un tipo molto discreto e, per certi versi, più introverso e insicuro di quanto non lo desse ad intendere. Alessandro e Luca finsero per tutta la cena di essere stanchi morti. Marco li assecondò ripetendo a voce alta che sarebbe stato meglio andare a letto presto per arrivare riposati all’allenamento del giorno dopo. L’allenatore sembrava averla bevuta o semplicemente era stata una giornata lunga anche per lui e si era

stancato di tenere costantemente sotto controllo i ragazzi. Quando la cena terminò e tutti si alzarono da tavola, Alessandro e Luca non seguirono gli altri nel salotto dell’albergo, ma li congedarono facendo finta di andare di sopra. Arrivati al vano scala fecero un paio di gradini, aspettarono qualche secondo e, appiccicandosi contro il muro, sporsero la testa quel tanto che bastava per controllare che nessuno li stesse seguendo. Assicuratisi che il corridoio fosse vuoto, presero la direzione opposta e si infilarono dentro la lavanderia. Senza accendere la luce per non destar sospetti, attraversarono la stanza a tentoni finché non trovarono la maniglia della porta che dava sul retro. Uscirono nel cortile posteriore e, trovando il cancellino chiuso a chiave, si arrampicarono sulla rete e saltarono dall’altra parte. «Ce l’abbiamo fatta» disse Alessandro tutto eccitato. «Sì, però abbassa la voce se non vuoi che ci sentano» replicò Luca ancora in ansia per la paura di essere beccato. Per tutta la lunghezza della via i due camminarono di soppiatto guardandosi continuamente alle spalle. La stradina per fortuna era una di quelle secondarie con pochi lampioni e scarsamente trafficata. Alessandro raggiunse la strada principale nascondendosi dietro a ogni bidone e macchina parcheggiata, con Luca che cercava di stargli dietro, sentendosi ad ogni o sempre più ridicolo per l’eccessiva messa in scena della fuga. Si erano dati appuntamento con le ragazze in un parcheggio poco lontano dove Alessandro e Luca le aspettarono appostati dietro a un camper. Quando videro l’auto di Federica arrivare, rimanendo piegati sulle ginocchia, aprirono velocemente gli sportelli e si fiondarono nei sedili posteriori. «Ragazzi, ma siete matti?» disse Federica con gli occhi sgranati e il cuore che le batteva a mille per lo spavento. «Ci avete fatto prendere un colpo. È questo il modo di entrare in macchina?». «Dai, dai, parti prima che ci veda qualcuno» disse Luca prima ancora di salutarle. «Scusate, ragazze, ma siamo in missione segreta e non ci deve vedere nessuno» aggiunse Alessandro schiacciandosi sul sedile. Le ragazze si guardarono con aria interrogativa.

«In realtà siamo usciti dall’albergo di nascosto e non vogliamo farci beccare dall’allenatore» precisò Luca dando un’ultima controllata fuori dal finestrino. «Perché di nascosto?» chiese Silvia. «La prima fase della gara non è andata molto bene e il mister ci ha punito proibendoci di uscire fino alla fine del torneo» rispose Alessandro. «Cavolo, quindi come faremo a vederci i prossimi giorni? È un po’ rischioso fare così tutte le sere». «Non preoccuparti. Se ci rifacciamo nel ripescaggio, si tranquillizzerà un po’ e cambierà idea». «Piuttosto, dov’è Marco?» chiese Federica stupita di non vederlo. «Dov’è Chiara, visto che siete solo in due» replicò Luca. «Non è venuta. A lei non piacciono quel genere di feste e ha preferito rimanere a casa» disse Federica. «Poco male, anche Marco ci ha dato buca. Vorrà dire che staremo più larghi» disse Alessandro stravaccandosi sul sedile. «Cosa intendi con “quel genere di feste”? Dove stiamo andando di preciso?» chiese Luca incuriosito. Federica non rispose e continuò a guidare fuori da Spinello con l’aiuto del navigatore. Aveva saputo da un amico che quella sera ci sarebbe stato un rave party in un vecchio fabbricato nei pressi di Galeata e voleva fare una sorpresa ai ragazzi. Il cellulare però non la stava aiutando con le indicazioni stradali e, disperata nel tentativo di trovare la strada giusta, dovette cedere alle loro insistenze e svelare il posto segreto. «Okay, avete vinto. Ditemi da che parte devo andare e ve lo dico» disse mentre cercava di leggere i cartelli sugli incroci. «Volevo farvi una sorpresa, ma se continuiamo così rischiamo di non arrivarci proprio alla festa. È un rave party in una specie di fabbrica dismessa a Galeata». «Un rave party? Fantastico Fede!» disse Alessandro eccitato all’idea di andare in

una festa illegale. «Ma come cavolo hai fatto a sapere di questo party?» chiese Luca stupito. «Non ne sappiamo niente noi che ci abitiamo qui». «Conoscenze caro, conoscenze» rispose Silvia mantenendo un alone di mistero. Alessandro allungò la mano sul pomello del volume dello stereo e a tutto volume iniziò a ballare della musica techno che stava trasmettendo la radio. «Per scaldarci un po’, no?» disse continuando a divincolarsi urlando fuori dal finestrino come un matto. Le ragazze scoppiarono a ridere e lo assecondarono insieme a Luca muovendosi nei loro sedili a ritmo di musica. Erano le nove e trenta e il sole era già tramontato da un pezzo. Le indicazioni di Luca furono chiare e, senza troppi problemi, raggiunsero in poco tempo Galeata. Rimaneva solo da scoprire dove si trovasse esattamente l’edificio. Di sicuro non avrebbero potuto chiederlo agli abitanti del paese. Pensando che dovesse trovarsi per forza lontano dal centro abitato, presero un paio di stradine secondarie e si inoltrarono nella campagna. La luce era molto scarsa: la luna quasi piena e i fari della macchina erano l’unico mezzo che avevano per vedere nell’oscurità della notte. I ragazzi girarono da tutte le parti nel tentativo di trovare un cartello provvisorio. Non vedendone però nessuno, l’unica speranza che avevano era quella di incrociare qualcun altro che andasse nella stessa direzione. Dopo aver guidato nei paraggi per un quarto d’ora buono, Federica vide in lontananza una fila di luci rosse. «Ragazzi, forse l’abbiamo trovato». Più si avvicinarono a quelle lucine, più realizzarono che erano gli stop di una lunga fila di macchine in coda. «Credo proprio che ci siamo» disse Luca mentre abbassava il volume della radio per vedere se si sentiva della musica in lontananza. «Ci siamo, ci siamo. Mi sembra di sentire della musica» aggiunse Alessandro allungando la testa fuori dal finestrino.

Federica seguì le macchine di fronte a lei e in pochi minuti si ritrovò a parcheggiare nel cortile di un vecchio stabile. Considerando il genere di musica che si diffondeva nell’aria e il tipo di persone che scendevano dalle altre auto, i ragazzi capirono subito di essere giunti a destinazione. Mentre Federica cercò un posto sicuro dove parcheggiare la macchina del padre, i ragazzi provarono a indovinare cosa fosse quel posto. La struttura era fatta di mattoni a vista con qualche crepa che scendeva lungo i muri. La forma era rettangolare e lungo le pareti si susseguivano una serie di aperture arcuate ripetute a intervalli regolari. Sul lato sinistro dell’edificio una vecchia stalla era già stata riempita dalle auto dei primi arrivati. Dopo aver trovato un posto nel cortile di dietro, i ragazzi scesero dalla macchina e si appoggiarono per qualche istante al cofano per darsi un’occhiata intorno. «Ce n’è proprio per tutti i gusti» disse Alessandro sbalordito. Per quanto fe l’uomo vissuto che sapeva sempre cosa fare, non era mai stato a un rave party. Osservando la gente che si dirigeva verso l’ingresso, rimase scioccato dall’abbigliamento e dalle pettinature stravaganti. C’era chi aveva creste appuntite dai colori fluorescenti, chi indossava vestiti neri in stile metal pieni di borchie e catene, chi aveva un abbigliamento provocante e decisamente minimalista. «Di sicuro non dovrebbero farci delle storie per come siamo vestiti» commentò Silvia. «Tranquilli, qui non esiste il dress code» disse Federica mentre tirava fuori dalla borsa gli inviti. «Al massimo ti guardano male se sei vestito troppo bene» aggiunse ridendo. Per lei quello non era il primo rave party. Dato che la persona che le procurava il fumo faceva parte dell’organizzazione di molte di quelle feste, la teneva costantemente informata su quelle più belle in cui valeva la pena andarci. «Ragazzi, mi sembrate un po’ tesi» disse Federica guardando Luca e Alessandro che sembravano due pesci fuor d’acqua. «Per allentare la tensione» aggiunse tirando fuori dalla borsa un sacchetto con dell’erba. «Grande Fede!» urlò euforico Alessandro. «Proprio quello che ci voleva». Silvia arrotolò del cartoncino a forma di esse e lo ò all’amica che rollò la

canna. Federica afferrò il filtro con le labbra, avvicinò l’accendino all’estremità opposta della sigaretta e inspirò profondamente. Poi, guardando Luca dritto negli occhi con fare ammiccante, lasciò uscire lentamente il fumo dalla bocca. Silvia si fece are la canna e diede un paio di tiri mentre si sedeva sul lato sinistro del cofano appoggiando i piedi sulla ruota anteriore. Luca diede quattro tiri veloci uno dietro l’altro e ò la sigaretta ad Alessandro che provò a fare dei cerchietti di fumo nell’aria. «Se vuoi che i cerchi vengano bene non devi aspirarlo il fumo» disse Federica mostrandogli come si faceva. «Forse ci conviene entrare» li interruppe Silvia vedendo sempre più gente arrivare nel parcheggio. «Non vorrei perdere troppo tempo a fare la fila». Quando giunsero davanti all’entrata, una trentina di persone stava già aspettando in coda di fronte al buttafuori. L’uomo faceva entrare a piccoli gruppi e si riservava il diritto di rispedire indietro quelli troppo fatti. Non era molto alto, ma la stazza da culturista era più che sufficiente per inibire ogni tentativo di protesta. La carnagione era scura, i capelli erano rasati e le braccia erano ricoperte di tatuaggi che partivano dalla base del collo per scendere fino ai polsi. Vestito con dei pantaloni militari, un paio di anfibi e una canotta nera, aveva tutta l’aria di essere uno con cui era meglio non scherzare. Il suo sguardo era fisso e imibile e gli bastava un solo cenno della mano per comunicare alle persone di entrare. Quando i ragazzi gli furono davanti, l’uomo li squadrò dalla testa ai piedi, strappò i loro biglietti e li fece are. L’interno si presentò ai loro occhi come un’enorme padiglione con numerosi elementi architettonici in ferro arrugginito. La luce era scarsa e qualche faretto colorato illuminava la pista e i lati della stanza. «Ho capito dove siamo» disse Luca rimanendo un po’ perplesso. «Questo è il vecchio mattatoio di Galeata». Le ragazze si girarono verso di lui e lo guardarono sconcertate. Ecco cos’erano tutte quelle travi nel soffitto con i ganci attaccati. «Non potevano scegliere posto migliore» commentò Alessandro. «Sicuri che non è la scenografia di un film dell’orrore?» aggiunse ridendo. I ragazzi proseguirono nella perlustrazione cercando di capire come fosse organizzata la stanza. Sui lati corti erano stati allestiti due bar, mentre su quello

lungo, opposto all’entrata, il dj metteva su i dischi, appoggiato a un vecchio banco da macellazione, illuminato dall’alto da un unico faro rosso. In fondo, sulla sinistra, una porta si apriva e si chiudeva in continuazione lasciando fuoriuscire della musica trance. «Vediamo cosa c’è la dentro» disse Alessandro camminando in quella direzione. «Ci saranno le celle frigorifere con i cadaveri» scherzò Luca. Quando entrarono nella stanza sentirono subito lo sbalzo di temperatura. «Altro che cella frigorifera» disse Silvia. «Si muore di caldo qua dentro». La stanza era molto più piccola e le uniche finestre che c’erano erano piccole fessure disposte orizzontalmente sotto il tetto. L’illuminazione era quasi del tutto assente. Non c’era nessuna luce fissa, a parte un faro blu che illuminava una seconda consolle e lo strobo che faceva intravedere la stanza a intermittenza. Lo spazio per muoversi era praticamente inesistente e la gente aveva occupato tutta la pista e i pochi divanetti disponibili. «Forse è meglio venire qui più tardi» disse Alessandro che si sentiva già soffocare. «Sì, usciamo. Adesso è pieno perché nella sala principale non è ancora iniziata la musica vera e propria. Vedrai che fra poco la gente si sposta» disse Federica facendo strada. «Andiamo a bere qualcosa al bar intanto che aspettiamo?» propose Silvia. «Ottima idea» risposero tutti in coro tirando fuori il biglietto che aveva una consumazione inclusa. Alessandro e Luca sorseggiarono il loro coca e rum osservando la gente che a fiumi entrava nell’edificio. In breve tempo anche la stanza principale si riempì di persone. Federica tirò fuori dalla borsa dell’altra erba e rollò la seconda canna. Del progressive goa cominciò a uscire dalle casse della consolle attirando in pista tutti i presenti. Alessandro e Silvia si lanciarono carichi in mezzo alla mischia, seguiti da Luca e Federica che stavano dando l’ultimo tiro allo spinello. Silvia ballava scatenata sui suoi tacchi a spillo, facendo accorciare ad ogni piegamento verso il basso la minigonna sotto il sedere sodo. Alessandro le stava

di dietro e la tirava a sé per sentirne le curve sul suo corpo. Federica muoveva il bacino a ritmo di musica tenendosi con una mano i capelli ricci dietro la testa, con Luca che l’assecondava afferrandola per i fianchi. L’alcol e il fumo stavano già facendo effetto: i loro corpi erano fluidi, la mente svuotata da ogni pensiero e l’unica cosa che importava era lasciarsi trasportare dalle emozioni. La gente intorno a loro ballava con le braccia alzate e le teste oscillanti a destra e a sinistra. Alcuni di loro erano già a petto nudo per il caldo e un gruppo di ragazze in reggiseno stava dando spettacolo su una specie di cubo improvvisato. Dopo una mezz’ora di ballo ininterrotto, Silvia propose di fare una pausa con il secondo giro al bar. Mentre aspettarono il loro turno in fila, fissarono con lo sguardo due ragazzi che, con atteggiamenti tutt’altro che ambigui, si stavano baciando palpandosi dappertutto. . «Ehi, guardate là quei due come ci danno» disse Alessandro indicando la coppia. «Sono un po’ in là con i lavori» disse Federica facendo riferimento alle pasticche che giravano in quel genere di feste. «Io non ho bisogno delle pasticche per fare quella roba» precisò Alessandro. «Guarda che non prendono le pasticche per farlo» lo corresse Federica. «Lo fanno solo per sentirsi sballati. Ad andar bene, domani non si ricorderanno neppure con chi sono stati». «Bello schifo» commentò Luca disgustato. «Se devo prendere della robaccia per non godermi neppure quello che sto facendo, tanto vale che rimanga sobrio». «Sono d’accordo con te. Purtroppo però certa gente non ci arriva a capire che ci si può divertire anche senza farsi pesantemente». «Silvia ha ragione. Un conto è fumarsi uno spinello ogni tanto, un altro è bruciarsi le cellule del cervello» disse Federica. «Di sicuro se qui fai la cattiva ragazza non se ne accorge nessuno…» aggiunse Silvia avvicinandosi all’orecchio di Alessandro. Appoggiò le punte della dita sul suo mento e girandogli il volto gli mise la

lingua in bocca. Alessandro non perse tempo e contraccambiò quel bacio ionale. La strinse forte a sé e scivolando sulle curve del suo sedere, le infilò la mano sotto la minigonna. Adorava quando Silvia si comportava così. Gli piacevano le ragazze sicure che sapevano quello che volevano e Silvia era perfetta per lui: bella, provocante e dannatamente disinibita. Quando finalmente raggiunsero il bancone del bar e ordinarono il secondo coca e rum, le luci si spensero di colpo lasciando accesa solo quella rossa sulla consolle. «Credo che stia per iniziare lo spettacolo» disse Federica alzandosi sulle punte dei piedi per vedere oltre le teste delle persone. «Che spettacolo?» chiese Luca. «Di solito in queste feste c’è sempre un momento, più o meno a metà serata, dove succede qualcosa di particolare. L’ultima volta ho assistito a uno spettacolo sado-maso». «Cavolo, andiamo sul pesante» commentò Luca. «Ovviamente è tutto finto, una vera e propria messa in scena per intrattenere i partecipanti. Però vi assicuro che i costumi sono bellissimi e ad effetto». Alessandro, Luca e Silvia si voltarono incuriositi verso la consolle. La gente in pista aveva smesso di ballare e immobile ascoltava il dj annunciare lo show con del underground progressive. Del fumo bianco uscì abbondante da sotto le casse annebbiando la parte centrale della pista. Due grossi fari bianchi illuminarono due gabbie appese ai lati del banco di macellazione. «E quelle da dove scappano?» chiese Alessandro stupito. «Probabilmente erano lì da prima, solo che con il buio non le abbiamo viste» rispose Federica ansiosa di vedere cosa sarebbe successo. Due ragazze vestite con biancheria intima di pelle nera e stivali lunghi fino al ginocchio si alzarono lentamente dalla base delle gabbie. Una maschera di pelle lucida nascondeva i loro volti e un paio di guanti lunghi fino al gomito avvolgevano le mani che premevano contro le sbarre. Le labbra color porpora erano l’unica parte colorata del loro corpo. Sensualmente iniziarono a

camminare in circolo, strisciando contro la gabbia un frustino di pelle nero. Quando le luci sopra di loro si fecero soffuse e la macchina del fumo sparò di nuovo in pista, le ragazze si girarono verso la consolle e indicarono con le fruste l’entrata del “Principe”. Un uomo con una vistosa parrucca bianca e degli abiti in stile vittoriano apparve di fianco al dj dando il benvenuto a tutti i presenti. «Ma chi è quel deficiente?» chiese Alessandro che non capiva perché si fosse acconciato in quel modo. «Come chi è? È il famoso Principe. Non lo conosci?» rispose Federica facendo la donna vissuta. «Chi?» risposero Luca e Alessandro in coro. «Ma sì, è uno che viene pagato per stare vestito così e fare scena in questo genere di feste» spiegò Silvia. «A me sembra un coglione vestito da carnevale» replicò Alessandro mettendosi a ridere. «E poi le lenti a contatto bianche fanno schifo. Sembra un morto». «È proprio questo il punto. Il suo scopo è quello di suscitare ribrezzo. Cosa ti aspetti in una festa come questa, l’apparizione dello Spirito Santo?» aggiunse sarcastica Federica. Silvia e Luca erano piegati in due dal ridere. Vedere Alessandro allibito era davvero una cosa rara. Dopo quella breve introduzione, il ritmo della musica aumentò, lo strobo iniziò a pulsare e le ballerine ripresero a muoversi disinibite nelle gabbie. Alessandro e Luca si godettero lo spettacolo immobili, mentre le ragazze tornarono a ballare scatenandosi in pista. Silvia avrebbe voluto salire sul cubo ed esibirsi in mezzo alla folla, ma Federica la trattenne pensando che non fosse una buona idea. Considerando l’alcol e le pasticche che giravano, era meglio evitare di attirare l’attenzione di ragazzi che non avrebbero saputo tenere le mani a posto. Terminata la danza sensuale delle ballerine, le luci puntate sulle gabbie si spensero e tutto tornò come prima. Il dj riprese a suonare musica techno e il Principe lasciò la consolle augurando un buon proseguimento di serata. Luca ebbe un momento di cedimento e guardò il cellulare per vedere che ore fossero. Il display segnava già le due del mattino. Un po’ preoccupato per l’allenamento

del giorno dopo, chiese ai ragazzi che cosa volessero fare. «A noi va bene tutto. Se volete tornare a Spinello, per noi non c’è problema» disse Federica guardando Silvia per la conferma. «Io sarei rimasto volentieri un altro po’» disse Alessandro che, ancora eccitato dallo spettacolo, avrebbe voluto appartarsi con Silvia. «Facciamo così: ci facciamo un ultimo drink e poi andiamo» propose insistendo, sperando che il terzo coca e rum avrebbe fatto dimenticare l’orario all’amico. «Okay, va bene, poi però andiamo» replicò convinto Luca. Le ragazze euforiche erano già scappate verso il bar. La coda era interminabile e ci avrebbero messo minimo mezz’ora prima di essere servite. «Ragazzi, ho un’idea: io faccio la fila e voi tornate a ballare» disse Silvia abbassandosi la scollatura del vestito. «Se mi infilo piano piano non credo che mi romperanno le palle più di tanto». Mentre gli altri l’aspettarono a bordo pista fumandosi un’altra canna, Silvia lentamente si insinuò fra le persone e raggiunse la prima fila. Appoggiandosi sul bancone con le braccia incrociate, catturò l’attenzione del barista con la vistosa scollatura. Il ragazzo le si avvicinò con sguardo complice e, fissandole i seni, le chiese cosa volesse da bere. «Per me un Mojito, mentre per i miei amici tre coca e rum» disse sfiorandogli l’orecchio con le labbra. Il ragazzo si avvicinò al suo volto e guardandola dritto negli occhi le ripeté sensualmente l’ordinazione. In quell’istante un brivido attraversò tutta la schiena di Silvia. Il barista era piuttosto belloccio e quel gesto sfacciato l’aveva eccitata parecchio. Osservandolo maneggiare sicuro le bottiglie di alcol dietro al bancone, Silvia lo squadrava dalla testa ai piedi mordendosi avidamente le labbra. Vestito con dei pantaloni di pelle attillati e una canotta trasparente che aderiva ai pettorali, non riusciva a cavargli gli occhi di dosso neppure per un istante. Quando il barista tornò da lei con i bicchieri in mano, gliene allungò uno più piccolo con del liquido blu all’interno.

«Questo lo offre la casa» disse lui sbattendo il suo bicchiere contro quello di Silvia per fare un brindisi. «Grazie. Alla nostra allora» rispose lei buttandolo giù tutto d’un fiato. Riappoggiando il bicchiere vuoto emise due colpi di tosse secchi che la piegarono sul bancone. «Forte, eh? Vedrai che è una bomba. Scusa, ma devo tornare a lavorare. Spero di rivederti più tardi però…» disse strappandole questa volta un vero bacio sulle labbra. Silvia non capiva più niente. Non sapeva se era stato il miscuglio di alcol e canne o l’eccitazione che aveva provato in quello scambio furtivo con il barista. Si sentiva strana e l’unica cosa che voleva fare in quel momento era soddisfare il prima possibile la sua crescente voglia di scopare. Quando tornò barcollante dagli amici con i cocktail in mano, iniziò a ballare addosso ad Alessandro strusciandosi audacemente contro il suo corpo. «Ehi Silvia, cosa ti è successo al bar?» chiese lui stupito, non riuscendo a tenere a freno le sue dita che fremevano per abbassare la patta dei pantaloni. Silvia finì il suo Mojito e, senza dire una parola, chiuse gli occhi e gli mise di nuovo la lingua in bocca. «Ragazzi, perché non proviamo a ritornare nella saletta blu?» propose Luca stringendo a sé Federica che, annebbiata dall’alcol, rollava a fatica l’ennesima canna. «Andiamo» urlò Alessandro ricordandosi dei divanetti. Quando entrarono nella stanza, lo strobo era ancora l’unica fonte di luce, ma la gente era calata e il dj stava suonando musica più soft. Alessandro puntò alcuni divanetti in un angolo della sala e propose agli altri di andarsi a sedere. Barcollando a destra e sinistra, Luca si lasciò cadere su uno di essi e fece cenno a Federica di sedersi sulle sue gambe. Silvia invece si sentiva carica più che mai e insistette con Alessandro per fare ancora due salti in pista. Avvolta dalla gente, si lasciò andare completamente e ballò strisciando la schiena contro il suo petto e le natiche contro il suo bacino. Lui, eccitato da tanta esuberanza, l’assecondò stringendola a sé e infilando una mano sotto la gonna oltre il perizoma. Silvia si

muoveva a ritmo di musica e, andando su e giù, faceva scivolare le dita di Alessandro dentro di sé. Stare in mezzo a quella calca nel buio della penombra, la eccitava da morire. Si sentiva talmente euforica e con così tanta energia in corpo che avrebbe potuto farsi sbattere sulla consolle senza il minimo pudore. Alessandro seguì il ritmo di quella musica ipnotica e si lasciò trasportare. Muovendo confusamente la testa nell’aria si abbandonò al volere di Silvia e si fece masturbare. Le sue mani premevano contro il sedere di lei che lentamente si scopriva da sotto il vestito. Il desiderio di arrivare all’amplesso era talmente evidente che catturò l’attenzione anche di quelli attorno a loro. Una mano estranea si allungò sul corpo di Silvia per gustarne la carne soda. In quel momento Alessandro si rese conto di essersi spinto troppo oltre e, afferrando Silvia per le spalle, la trascinò fuori dalla pista. Ritornati dagli amici, intravidero Federica seduta a cavallo di Luca che si stava facendo baciare. Con una mano aveva aperto la cerniera dei pantaloni mentre con l’altra si era aggrappata al suo collo per tenersi sollevata e farsi penetrare. La consolle era lontana e la luce blu su di essa a malapena faceva distinguere i volti delle persone. Intravedendo gli amici tranquilli e impegnati nelle loro effusioni, Alessandro cercò un altro divanetto per riprendere quello che avevano iniziato. Silvia lo seguiva eccitata e stuzzicandolo ad ogni o cercava di abbassarsi all’altezza dei suoi pantaloni. «Non qui, Silvia, dai» disse Alessandro smanioso, sperando di trovare un posto più appropriato. Silvia non dava segno di cedimento. Era incontenibile e voleva a tutti i costi farlo lì dentro in mezzo a tutta quella gente. Alessandro fece un ultimo sforzo e, non vedendo altre soluzioni, la trascinò fuori dall’edificio per portarla nel parcheggio. Camminando a zigzag in mezzo alle macchine, raggiunsero l’auto di Federica e si sedettero sul prato. Silvia in un attimo fu sopra Alessandro e gli fece calare i pantaloni. Chinandosi sulle ginocchia si avvicinò con la bocca al suo membro e iniziò a succhiarlo. Alessandro si levò la maglietta, appoggiò la testa contro la portiera laterale e assecondò il movimento afferrandole il volto fra le sue mani. Le labbra di Silvia si muovevano dolcemente lungo tutta la sua durezza. Risalendo lentamente il suo corpo, gli solleticò i lati della pancia, gli mordicchiò i capezzoli e gli leccò tutto il collo. Lui l’afferrò violentemente per la vita e la fece sedere sopra le sue gambe. Lei si sfilò l’abito dall’alto e si sganciò il reggiseno. Afferrando con una mano la maniglia della portiera, scandiva il ritmo dell’amplesso spingendo decisa il membro dentro di sé. Le loro lingue si

toccarono e i gemiti uscirono dalle loro bocche sempre più intensi e affannati. Quando giunsero all’apice dell’estasi, Silvia rilasciò il suo corpo esausto di fianco a quello di Alessandro e, senza nemmeno aprire gli occhi, si appoggiò con la schiena alla portiera della macchina. Alessandro si rilassò per qualche minuto e rimase immobile senza parlare. Guardandosi attorno si era reso conto che il cortile era pieno di gente sdraiata da tutte le parti: alcuni erano cappottati a faccia in giù esanimi, altri si erano abbandonati come loro alle effusioni sessuali. «Silvia, forse è meglio se andiamo a recuperare gli altri» disse cercando di ricoprirla. «Silvia, dai che se no facciamo tardi. Muoviti» ripeté scuotendola per farla svegliare. Silvia non rispose e il suo corpo scivolò lungo la portiera per distendersi completamente a terra. Dopo un paio di tentativi Alessandro si accorse che non stava affatto dormendo. Con la mano le diede un paio di colpetti sul viso e la chiamò di nuovo. Silvia non dava segni di vita. Tiratosi su i pantaloni e rimessosi la maglietta, l’appoggiò seduta alla macchina e le controllò il polso e il respiro. Per fortuna il cuore batteva ancora e i polmoni gonfiavano la gabbia toracica. Non potendo chiedere aiuto a nessuno e non sapendo cos’altro fare, decise di tornare dentro al mattatoio per cercare i due amici. Lasciò Silvia accanto alla macchina senza coscienza e corse di fretta verso l’edificio precipitandosi nella saletta dove li aveva lasciati. Quando raggiunse i divanetti e vide che erano vuoti, si fece prendere dal panico e, camminando freneticamente fra le persone che ballavano, controllò ossessivamente tutti i volti che incontrava. La stanchezza stava mettendo a dura prova la sua resistenza e la luce a intermittenza rendeva più difficile la concentrazione. Preso dalla disperazione e non sapendo più come fare, decise di provare nel salone principale. Quando aprì la porta e uscì dalla saletta, le prime persone che vide furono Luca e Federica che gli stavano correndo incontro. «Ma dove cavolo eravate finiti?» chiese Luca che era da un pezzo che li cercava. «Silvia dov’è?» chiese Federica preoccupata perché non la vedeva. «Eravamo andati fuori. Ragazzi è successa una cosa…» disse spingendoli verso l’uscita. «Cos’è successo? Silvia sta bene?» chiese insistente Federica. «Non lo so. Ha perso conoscenza. Eravamo insieme e tutto andava bene, poi a

un certo punto si è accasciata ed è svenuta». Federica sgranò gli occhi e di corsa seguì Alessandro alla macchina. Quando arrivarono, Silvia era ancora ad occhi chiusi nella stessa posizione. Federica si chinò su di lei e cercò di svegliarla. Luca e Alessandro provarono a chiamarla, ma quello che ottennero fu solo un lieve mugolio. «Ragazzi, questo è il classico collasso da pasticca» disse Federica mentre le ricontrollava il polso e il respiro. «E quando l’avrebbe presa la pasticca?» chiese stupito Alessandro. «Che ne so, forse gliene hanno buttata una nel bicchiere. Bisogna stare attenti a queste cose quando si viene in questo genere di feste» rispose Federica. «Cazzo. E adesso cosa facciamo?» chiese Luca allarmato. «Niente. Adesso andiamo via, la riportiamo a casa e se la caverà con un enorme mal di testa domani». Alessandro e Luca presero Silvia in braccio e la caricarono nella macchina. Federica si mise al volante e guidò fuori dal parcheggio sgommando sulla terra. Per quasi tutto il viaggio nessuno disse una parola. Federica andava spedita per le strade desolate della campagna, controllando dallo specchietto retrovisore che la situazione fosse sotto controllo. Alessandro tenne per tutto il tempo la testa di Silvia fra le braccia, mentre Luca controllava ossessivamente l’orario nell’orologio del cruscotto. Erano le quattro del mattino. Da lì ad un’ora avrebbe cominciato ad albeggiare. Da lì a sei ore Alessandro e Luca sarebbero dovuti scendere in campo per fare l’allenamento. Federica pensò che fosse meglio non portare a casa Silvia in quelle condizioni e decise di ospitarla. La sua stanza aveva un’entrata laterale e sarebbero potute are di lì senza correre il rischio di essere viste dai genitori. «Almeno fatti aiutare a portarla in casa» disse Alessandro preoccupato che da sola non ce la potesse fare. «No, no, ce la faccio anche da sola. Vi scarico qui dietro all’albergo. È meglio che entriate prima che sorga il sole, se no correte il rischio che vi veda qualcuno».

Luca e Alessandro si ricordarono in quel momento che dovevano scavalcare la rete e are dalla lavanderia. «Va bene, però se succede qualcosa e hai bisogno, chiama» disse Alessandro dando un’ultima occhiata a Silvia prima di scendere. «Okay, ragazzi. Buona notte» rispose Federica spingendo sull’acceleratore. Luca e Alessandro la guardarono allontanarsi per qualche istante poi si lanciarono sulla rete. Aprirono la porta della lavanderia con la chiave che si erano tenuti in tasca e di corsa salirono le scale per raggiungere la loro stanza. Spinsero lentamente la maniglia verso il basso ed entrarono in camera in punta di piedi per non svegliare Marco. Muovendosi nel buio a tentoni per non sbattere contro il mobilio, senza neppure levarsi i vestiti, si buttarono sui loro letti e si addormentarono in pochi secondi.

Capitolo XVI La sveglia suonò alle sette in punto e nelle orecchie di Alessandro e Luca riecheggiò come una bomba atomica. Con i piedi fuori dalle lenzuola e le facce schiacciate nei cuscini, sembrava che non avessero alcuna intenzione di alzarsi. «Dai raga, se no facciamo tardi» urlò Marco che con un balzo era già volato fuori dal letto per alzare la tapparella. La luce attraversò di colpo la finestra e illuminò tutta la stanza. Alessandro, mugugnando qualcosa, prese il cuscino e se lo schiacciò sopra la testa. Luca sollevò il lenzuolo e ci si raggomitolò dentro. Marco stava già incominciando a innervosirsi. Vederli ancora vestiti con gli indumenti della sera prima fugò ogni suo dubbio sul fatto che avessero fatto tardi. Afferrò il lenzuolo di Luca e il cuscino di Alessandro e li lanciò lontani dalle loro facce. «Ragazzi, non me ne frega niente se avete fatto tardi la notte scorsa. Fra meno di due ore inizia l’allenamento, quindi vedete di darvi una mossa» disse scomparendo nel bagno. Luca aprì un occhio e rimase quasi accecato dalla quantità di luce che c’era nella stanza. Le orecchie fischiavano ancora per la musica assordante della sera prima e i vestiti puzzavano di fumo. Con una gamba si allungò verso Alessandro e lo scosse. Lo chiamò ripetutamente, ma lui non rispose. Mettendosi seduto ai piedi del letto, si specchiò nell’anta dell’armadio e si rese conto di quanto avessero esagerato. Gli occhi erano gonfi come quelli di un rospo e la faccia pallida come quella di uno che non dorme da giorni. Come uno zombie si trascinò vicino ad Alessandro e lo scosse di nuovo fino a farlo quasi cadere giù dal letto. «Arrivo, arrivo. Cinque minuti e poi mi alzo» borbottò con la voce soffocata nel materasso. In quel momento Marco uscì dal bagno e li fulminò con lo sguardo. «Cinque minuti e siamo pronti» improvvisò Luca sentendosi in colpa. «Io vado a fare colazione. Ci vediamo giù» replicò secco Marco uscendo dalla camera.

Luca entrò in bagno e, con i gomiti appoggiati al lavandino, fece correre l’acqua dal rubinetto. Con le mani piegate a cucchiaio rinfrescò tutta la faccia e si ò le dita bagnate in mezzo ai capelli. «Merda, non mi reggo in piedi» disse picchiettandosi la faccia per svegliarsi. Quando Alessandro lo raggiunse in bagno e vide la faccia che aveva, non riuscì a trattenersi e scoppiò a ridere. «Sarai bello te» commentò Luca indicando la camicia abbottonata storta. «Questa volta l’abbiamo fatto proprio incazzare» disse Alessandro. «Mi sa anche a me. La notte scorsa abbiamo un po’ esagerato. Dai, sbrigati. Abbiamo cinque minuti per cambiarci e scendere a fare colazione». «Cazzo, Silvia!» esclamò Alessandro tornandogli in mente quello che era successo. Mettendosi le mani in tasca e non trovando il cellulare, si precipitò verso il letto e frugò fra le coperte. «Cazzo, non lo trovo. Dove cavolo è finito il mio telefono?». «Stai calmo, ti faccio uno squillo così vediamo dov’è». Alessandro si acquattò per terra e con il braccio si allungò il più possibile per afferrarlo sotto il letto. Compose il numero di Silvia e lo fece squillare per parecchio tempo. Nessuno dall’altra parte rispondeva. Provò allora con Federica, ma l’operatore telefonico diceva che il cellulare era spento o non raggiungibile. «Non preoccuparti» disse Luca vedendo l’amico in paranoia. «Sono le sette e mezza e sicuramente stanno ancora dormendo. Se Federica avesse avuto dei problemi ci avrebbe fatto sapere come aveva detto, no? Stai tranquillo». Alessandro annuì e, levandosi i vestiti della sera prima, si avvicinò all’armadio per prendere la divisa. «Credo che oggi avremo bisogno di una doppia dose di queste» disse tirando fuori dalla tasca della borsa le solite pillole. Luca allungò la mano e ne ingoiò

alcune con una mezza lattina di Red Bull. Quando raggiunsero i compagni nella sala da pranzo, Luca e Alessandro si sentivano già meglio. L’intontimento stava ando e una tazza di caffè nero diede loro la spinta finale per affrontare la lunga giornata. Marco fu sorpreso di vedere gli amici così svegli. Dieci minuti prima sembravano due zombie, mentre adesso erano pimpanti come se avessero dormito tutta la notte. «Allora, cosa avete combinato ieri sera? Vi siete divertiti immagino» chiese loro con tono più tranquillo. «Non sai cosa ti sei perso» replicò Alessandro che si mise a raccontargli tutto quello che avevano fatto. «Tu invece? Come ti sei divertito qui in albergo con gli altri sotto il controllo del mister?» chiese ironico Luca. «Una gran rottura di palle. Ho fatto un paio di partite a biliardo con sco e poi abbiamo guardato un film alla televisione. Per fortuna c’era Sky, se no non avremmo proprio saputo come farcela are». «Oggi pomeriggio, sempre che Silvia si senta meglio, pensavamo di andare a fare due tuffi al lago. Ti va di venire?» gli chiese Alessandro. «Perché, credi che il mister ci dia il pomeriggio per cazzeggiare?». «Non vedo perché no. L’allenamento c’è adesso e il divieto riguarda le uscite serali, non quelle pomeridiane. Cosa cavolo facciamo se no tutto il giorno?». «Luca ha ragione. Mica possiamo morirci dentro questo noiosissimo albergo» aggiunse Alessandro. «Non lo so ragazzi. Oggi pomeriggio avrei un mezzo impegno…» disse Marco rimanendo sul vago. «Non ti dovrai mica vedere ancora con tuo padre?!». «Non oggi pomeriggio, ma purtroppo con lui mi tocca uscire questa sera. Mi sto già preparando psicologicamente».

«Ma non ci sei uscito ieri sera, adesso che mi viene in mente?» chiese Alessandro meravigliato. «Alla fine mi ha chiamato e abbiamo rimandato a stasera. Aveva un impegno che non poteva rimandare…». «Che palle. Certo che tuo padre è un po’ ossessionante» commentò Alessandro. «Comunque se cambi idea sai dove siamo…» aggiunse Luca. «Quindi, dove vai?» insistette curioso Alessandro. Marco cercò di sviare l’argomento provando a cambiare discorso, ma così facendo li fece incuriosire ancora di più. «Marco, non ce la racconti giusta. Cosa nascondi?» incalzò Alessandro. «Va bene, ve lo dico, tanto con voi non c’è verso di spuntarla. Ieri sera ho mandato un messaggio a Lucia e l’ho invitata a prendere un gelato». «Si chiama gelato adesso, eh?» disse Alessandro tirando fuori la lingua e facendo il gesto di leccarlo. «Dai Ale, piantala» disse Luca ridendo. «Allora venite a fare un salto al lago insieme». «Non lo so, vedremo. Non voglio esagerare». «Quindi ci stai provando di nuovo?» chiese Alessandro. «No, cioè… insomma… Comunque sia non credo che avrò molte speranze. Ve l’ho già detto che mi ha espresso chiaro e tondo che vuole solo la mia amicizia». «Sì, sì, dicono tutte così. Tu comunque insisti e vedrai che prima o poi cede. Eravate troppo attaccati l’anno scorso perché possa essere così indifferente adesso» disse Luca. «In ogni modo non vi garantisco niente. Non voglio farle pressioni». «Mamma mia come siamo delicati... Non ti riconosco più. Dov’è finito il donnaiolo che è in te?».

«Veramente quello sei tu, non Marco» precisò Luca. «Comunque, se cambi idea, sai dove trovarci». L’allenatore interruppe la loro conversazione richiamando all’ordine tutta la squadra. Era ora di scendere in campo, riare gli schemi di gioco e affinare le tecniche di attacco e di difesa. I ragazzi si impegnarono per tutta la mattinata e seguirono per filo e per segno tutto quello che l’allenatore diceva loro di fare. L’intenzione di are il turno aveva superato la frustrazione dei giorni scorsi e anche il mister sembrava essere un po’ meno teso. Quando rientrarono in albergo per il pranzo, Marco vide nel cellulare quattro chiamate perse del padre. «Ciao papà, avevi bisogno?» chiese con tono dimesso sapendo che era arrabbiato per i risultati scadenti. «Sì, figliolo. Ti volevo dire che anche questa sera ho un impegno e non riesco a raggiungerti per l’ora di cena». «Non c’è problema, facciamo un’altra volta» rispose contento Marco, credendo di aver scampato la ramanzina del padre. «No, figliolo, non possiamo rimandare ancora. Dato che l’impegno ce l’ho verso l’ora di cena, ho pensato di anticipare il nostro incontro a oggi pomeriggio». A Marco caddero le braccia. Era appena riuscito a combinare un’uscita con Lucia e il padre gli stava rovinando tutto. «Non possiamo fare un’altra volta?». «Perché hai degli impegni più importanti?» chiese il sindaco seccato. «No, no, è solo che…». «Benissimo. Allora facciamo alle tre e trenta sempre dallo zio». Marco non ebbe neppure il tempo di rispondere che il padre aveva già riattaccato. «Fanculo!» urlò scagliando il cellulare contro il muro sopra il letto.

Alessandro e Luca lo guardarono impietriti. «Cos’è successo?» chiese Luca. «È successo che ho un padre del cazzo». «Ti ha già rotto le palle al telefono per le partite?» chiese Luca tirando a indovinare. «No, magari fosse quello. Sai cosa me ne fregherebbe. Ha anticipato l’incontro perché ha degli impegni anche stasera. Come se ce li avesse solo lui gli impegni. Così ci dobbiamo vedere oggi alle tre e mezza e mi salta il gelato con Lucia». «Posticipa l’incontro con Lucia» disse Alessandro cercando di trovare una soluzione. «Quando? Ora che lo vedo al ristorante, ci parlo e me ne libero si faranno le cinque. Alle sei dobbiamo rientrare in albergo se no il mister si incazza, quindi come faccio? La chiamo e le dico che ci vediamo al volo per mezz’ora?». «Secondo me, se le spieghi la cosa, capirà e non farà tante storie» disse Luca. «Io sono sicuro che penserà che le sto tirando il pacco per l’ennesima volta. Alla fine, in un modo o nell’altro, sono sempre io quello che la illude e poi le dà buca». «Chiamala» insistette Luca allungandogli il cellulare. Marco l’afferrò e compose il numero. Fece squillare il telefono finché non si attaccò la segreteria telefonica. «Starà facendo qualcosa e non lo sente» disse Luca per tranquillizzarlo mentre andavano nella sala da pranzo. Quando si sedettero a tavola Marco le scrisse un messaggio di scuse e per tutto il tempo controllò ossessivamente il cellulare. Luca e Alessandro non dissero niente per non turbarlo, ma si erano accorti dall’espressione del suo volto che Lucia non gli aveva ancora risposto. «Che stronza, cazzo. Se la dovrà tirare così per un gelato?» disse Alessandro

sottovoce a Luca. «Povero Marco. Era così contento e adesso ha il muso che gli arriva fino a terra. Poi oggi pomeriggio deve sorbirsi anche la predica del padre. Non vorrei proprio essere nei suoi panni» disse Luca. Marco inviò un secondo messaggio per posticipare l’appuntamento al giorno dopo. «Ancora niente?» chiese Luca. «No, niente. Ve l’avevo detto. Mi sono giocato tutto» rispose rassegnato. Non sapendo cos’altro dire Luca gli mise una mano sulla spalla e gli diede una pacca in segno d’affetto.

Capitolo XVII Mentre Marco camminava verso il ristorante, gli saliva la rabbia per non aver saputo dire di no al padre e aver dato buca a Lucia. Obbedendo ivamente al suo volere, finiva sempre per lasciarsi sfuggire le cose a cui teneva di più. In quei momenti odiava se stesso. Non sopportava quella sua incapacità di prendere posizione e detestava il fatto di non riuscire a tener testa a suo padre. Ovviamente la colpa era sua se non riusciva a dirgli quello che pensava veramente ma, il suo modo di fare era così autorevole e opprimente, che si sentiva ogni volta inferiore e a disagio. Immaginandosi già il motivo per cui era stato convocato, sperò che almeno l’agonia dell’incontro si sarebbe conclusa in fretta. Percorrendo i viali nel centro del paese, Marco infilò di continuo la mano in tasca per controllare il cellulare. Nessuna busta delle lettere comparve sul display. Lucia sembrava non avere alcuna intenzione di rispondergli. Quando salì sulla veranda di legno del ristorante, trovò lo zio sulla porta che salutava il padre e lo faceva accomodare all’interno. Era troppo caldo per stare fuori e l’aria condizionata della sala da pranzo era decisamente più invitante. «Eccolo il nostro Marco» disse vedendolo entrare. Alfredo andò incontro al nipote e gli diede un caloroso abbraccio. «Ciao zio» gli rispose serio mentre cercava con gli occhi il padre nella stanza. Il sindaco si era seduto in uno dei tavolini vicino al bancone del bar e lo stava aspettando senza scomporsi. Marco si avvicinò al tavolo con fare deciso e si sedette bruscamente. Ne aveva abbastanza dei suoi comportamenti altezzosi e si era ripromesso di dire una volta per tutte quello che gli ava per la testa. Stanco di essere trattato come un ragazzino immaturo, questa volta gli avrebbe fatto vedere che anche lui sapeva prendere posizione quando lo voleva. Pensando a cosa dire nei pochi secondi che ebbe per sedersi, venne anticipato dal padre che incominciò la conversazione. «Sono orgoglioso di te, figliolo» disse appoggiando la schiena sullo schienale e incrociando le braccia.

Marco rimase sorpreso e non seppe come reagire. In quel momento si aspettava di sentire di tutto tranne che un complimento. La sua rabbia svanì di colpo e l’indecisione sul da farsi lo paralizzò completamente. «Sono venuto a vedere il vostro allenamento questa mattina» disse riempiendo tre calici con del prosecco. «Avete giocato meglio del solito e mi siete sembrati molto concentrati». Marco continuava a guardarlo senza capire dove volesse andare a parare. Fino al giorno prima era in collera per le partite perse e adesso sembrava completamente un’altra persona. «Lo so, avete fatto pena nella prima fase del torneo e la cosa non mi è piaciuta affatto» specificò vedendo la faccia interrogativa del figlio. «Però ho visto che questa mattina vi siete dati molto da fare e lo ha notato anche Mario Ferri». Marco sgranò gli occhi stupito. Uno degli osservatori era ato a vedere l’allenamento e lui non ne sapeva niente. «Potevi dirmelo che sarebbe ato, mi sarei impegnato di più» disse agitandosi. «Se te l’avessi detto ti saresti innervosito come stai facendo adesso. E comunque è stato un caso. L’ho incontrato mentre stavo venendo da voi e gli ho chiesto se mi poteva fare il piacere di fermarsi cinque minuti per darti un’occhiata». Il volto di Marco rimase imibile e dalla sua bocca non uscì un parola. «Beh, non sei contento?» chiese lo zio stupito di vederlo serio. «Sì, sì, certo che sono contento. È solo che non me l’aspettavo…» rispose cercando di scrollarsi dalla faccia quell’espressione inebetita. «Sarà meglio che tu e i tuoi compagni vi diate da fare nelle prossime partite. Se vuoi uscire da questo torneo con un contratto in mano devi arrivare in finale e dimostrare quello che vali. Ogni lasciata è persa, figliolo. Ci sono un sacco di ragazzi che aspettano di fare il salto di qualità. Vedi di non sprecare la tua occasione». «Lo so papà, vedrai che questa volta sarà diverso. Siamo solo partiti un po’

troppo rilassati» rispose con tono dimesso. «Sarà utile. Se no io cosa lavoro a fare» disse ad alta voce guardando il fratello in cerca di ammirazione. Marco annuì abbassando il capo. Era successo di nuovo: il padre lo aveva aiutato approfittando della sua posizione e lui entrava in crisi facendosi venire mille dubbi sulle sue qualità calcistiche. Chissà se il signor Ferri si sarebbe fermato a guardarlo anche senza l’insistenza del padre. «Dato che era un po’ di fretta, mi ha detto che erà un’altra volta a rivederti» aggiunse il sindaco. «Ma dalla sua faccia come ti è sembrato? Sembrava interessato?» chiese Marco cercando delle conferme che lo rassicurassero. «Gli sei sembrato uno in gamba, ma ha detto che vuole vedere come ti muovi in partita per giudicare bene». «Allora facciamo un brindisi di augurio per le prossime partite» disse Alfredo sollevando il calice. «Salute» rispose il sindaco toccando il bicchiere del figlio e del fratello. «Domani c’è la prima partita di ripescaggio, vero?» chiese Alfredo. «Sì, abbiamo studiato oggi un paio di tecniche per rafforzare la difesa e, se tutto andrà secondo i piani, dovremmo vincere senza problemi». «Mai dare la cosa per scontata, figliolo. Giocate sempre come se vi steste scontrando con la squadra più forte del mondo. È solo così che si vincono le partite: concentrazione e costante impegno» rimarcò il sindaco agitando il dito indice. Marco annuì e non aggiunse altro. La notizia di quella visita inaspettata lo aveva messo in agitazione e il modo di parlare da predica del padre gli aveva fatto are la voglia di continuare quella conversazione. Controllando il cellulare per vedere se Lucia gli avesse risposto, si accorse che da quando era arrivato era ata solamente mezz’ora. Il tempo invece gli era sembrato interminabile e non vedeva l’ora di andarsene.

«Se devi andare da qualche parte, vai pure» disse il sindaco seccato di vederlo sorvegliare continuamente il telefono. «Ma sì, lascialo andare. Ha il pomeriggio libero e vorrà raggiungere gli amici» disse Alfredo cercando di ammorbidire il tono del fratello. «Anch’io ho da fare. Devo finire delle cose in cucina quindi è meglio che mi dia una mossa». «A questo punto, tanto vale che ce ne andiamo tutti» disse il sindaco con aria contrariata. Premendo con le mani sui braccioli, si sollevò dalla sedia e, una volta in piedi, si ricompose l’abito raddrizzando la cravatta. «Ci sentiamo domani dopo la partita, Marco». «Okay papà, a domani» rispose mantenendo lo sguardo sul telefono. Alfredo salutò velocemente il nipote e sparì in cucina accompagnato dal fratello che se ne andò ando dalla porta di servizio. Marco si trattenne qualche minuto in veranda e, camminando su e giù nervosamente, si chiese se fosse il caso di provare a chiamare di nuovo Lucia. Erano solo le quattro. Se le avesse dato appuntamento a quell’ora e non le avesse mandato nessun messaggio, non sarebbe successo tutto quel casino e avrebbe potuto incontrarla. Il padre aveva architettato tutto quel cerimoniale solo per dirgli che il Signor Ferri era ato di lì. Non che a Marco non gliene importasse, anzi. Però sentire Lucia in quel momento era più importante di qualsiasi altra cosa. Anche se era difficile ammetterlo a se stesso, averla rivista lo aveva destabilizzato parecchio. Tutto quello che per lui era sempre stato di primaria importanza, improvvisamente era ato in secondo piano. Bloccatosi sui suoi piedi nel mezzo della veranda, afferrò il telefono e compose il numero di nuovo. Ascoltò nervosamente il susseguirsi di tutti gli squilli e riagganciò deluso quando si attaccò la segreteria telefonica. Non sapendo cosa fare, si guardò intorno e, vedendo il lago in fondo alla erella, si ricordò degli amici che avrebbero trascorso lì il pomeriggio. L’entusiasmo non era di certo quello per fare baldoria in mezzo all’altra gente, ma le alternative erano ancora più deprimenti. Senza pensarci due volte oltreò il cancello d’ingresso e camminò lungo la riva del lago cercandoli in mezzo alla folla. Fra un lettino e l’altro li ritrovò vicino al bar, seduti sotto l’ombrellone di Federica.

«Ehi Marco, hai deciso di unirti a noi?» urlò Luca gesticolando per attirare la sua attenzione. Federica e Silvia lo accolsero baciandolo sulle guance, mentre Chiara accennò un saluto con la mano rimanendo seduta. «Mi sono liberato presto» rispose sedendosi su un lettino. «Solita predica del papi?» chiese Alessandro inarcando le labbra verso il basso. «Non più di tanto, pensavo peggio. Tu, Silvia, invece? Ti sei ripresa? Mi hanno raccontato che sei tornata a casa un po’ sfasciata la scorsa notte». «Maledetto barista! Mi ha fregato alla grande quello stronzo» rispose ridendoci sopra. «Ragazzi che ne dite di andare a rinfrescarci con due tuffi?» propose Luca. «Ottima idea. Gara a coppie per chi cade per primo?» aggiunse Alessandro. «Ragazzi, andate voi, io rimango qui. Non ho il costume e comunque non sono dell’umore…» replicò Marco. «Anch’ io rimango qui» aggiunse Chiara che si era stufata di reggere il moccolo alle due coppie. Vedendo che Marco non aveva voglia di andare a fare il bagno, ne approfittò per cercare di are un po’ di tempo da sola con lui. Ripensando alla serata nel bosco e alla chiacchierata che avevano fatto in riva al fiume, si era resa conto che era un tipo interessante e le piaceva molto. Quando il resto del gruppo si allontanò dall’ombrellone, Chiara cercò un argomento per attaccare bottone. «Alla fine potevamo andarci anche noi a quel party. Mi hanno detto che si sono divertiti molto…» disse sforzandosi di sembrare sicura di sé. «Non lo so. Stamattina c’era l’allenamento e io non riesco a fare tardi e stare su presto il giorno dopo senza accusare il colpo. A dir la verità non so proprio come Luca e Alessandro riescano a essere ancora così svegli e pimpanti» rispose Marco mentre controllava il cellulare.

«Forse è un fatto di abitudine» disse lei. Marco continuò a fissare il telefono senza darle udienza. Era indeciso se mandare a Lucia l’ennesimo messaggio. «Tu invece cosa hai fatto ieri sera?» chiese Chiara cercando di allungare la conversazione. Marco non rispose. Si era deciso a scriverle un nuovo messaggio di scuse ed era tutto concentrato a trovare le parole giuste. Chiara lo guardò nella sua indifferenza e si vergognò. Non sapeva cosa fare e si sentiva tremendamente a disagio a rimanere da sola con lui che non la degnava neppure di uno sguardo. «Credo che andrò a fare una eggiata. Vuoi venire?». «Cosa? Ah, okay, buona eggiata» rispose Marco senza nemmeno essersi accorto che gli aveva esteso l’invito. Chiara si alzò dal lettino e indignata si incamminò lungo la riva del lago. Marco non la salutò neppure e, sempre più nervoso per l’insensibilità di Lucia, provò a chiamarla di nuovo. Quando si attaccò la segreteria telefonica per la terza volta, si fece prendere dallo sconforto. Ripensò alle parole del padre e si sentì uno stupido per non riuscire mai a ottenere qualcosa con le sue sole forze. Non era abbastanza intraprendente da mettersi in evidenza da solo in campo e non riusciva neppure a gestirsi una semplice relazione affettiva. Una sensazione inaspettata di non farcela lo colse all’improvviso. Seduto sul lettino con il cellulare in mano, si sentì solo in mezzo a tutta quella gente. Gli amici si stavano divertendo spensierati, il padre era preso dalla sua brillante carriera, mentre lui era seduto ricurvo su un telefono che non si decideva a squillare. Da solo su quel lettino, con una fottuta paura di non riuscire a combinare niente nella propria vita, si continuava a domandare che cosa avesse fatto per meritarsi tutta quell’indifferenza. Non era colpa sua se non era potuto andare con lei a prendere quel maledetto gelato. Se solo gli avesse dato l’occasione di spiegarglielo. Non riuscendo a darsi pace nell’estenuante attesa, pensò che l’unica soluzione fosse quella di andarle a parlare direttamente a casa. Non poteva continuare a stare a tormentarsi in quell’assurda agonia. Tanto valeva farla finita una volta per tutte affrontandola di persona. Se anche fosse riuscita a evitarlo al telefono, non avrebbe potuto farlo trovandoselo di fronte. Quando arrivò dinnanzi alla casa di Lucia, fece un profondo respiro e asciugò le

mani umide nei pantaloni. Il cuore gli batteva forte e mentalmente si ripeteva qualche frase decente che potesse farle cambiare l’idea sbagliata che si era fatta. Premette il camlo due volte e fissò il portone d’ingresso sperando che si aprisse. «Ciao Marco, da quanto tempo» disse la madre di Lucia andandogli incontro. «Salve signora. Lucia è in casa?». «Sì, è nella sua camera. Siamo appena tornate. Entra pure, te la chiamo». Marco si accomodò imbarazzato nella sala da pranzo. La madre di Lucia fece un paio di urli alla base delle scale per farla scendere. «Non credo che abbia sentito. Vai pure di sopra, così facciamo prima». «Okay, grazie» rispose Marco salendo le scale. Ad ogni o il cuore gli batteva sempre più forte. Quando arrivò davanti alla camera di Lucia aspettò qualche istante prima di bussare. La porta era socchiusa e un filo di luce illuminava debolmente il corridoio nella penombra. La fessura fra la porta e il muro era talmente sottile che non riusciva a vederci attraverso. Accostò l’orecchio e cercò di distinguere qualche rumore. Nella stanza sembrava non esserci nessuno. Abbassandosi all’altezza della maniglia, avvicinò l’occhio al buco della serratura e provò a guardarci dentro. Il pomello dell’intelaiatura del letto era l’unica cosa che riusciva a vedere. Si avvicinò ancora di più e cercò di spostare lo sguardo verso sinistra. In quel preciso istante perse l’equilibrio e si sbilanciò verso l’interno. La porta si aprì di scatto e Marco si dovette appoggiare alla maniglia per evitare di cadere a terra. «Marco, cosa ci fai qui?» urlò Lucia spaventata facendo un balzo sopra il letto. «Stavo per bussare quando ho inciampato nel… nel gatto» disse improvvisando, vedendone uno uscire fulmineo dalla camera. «Cos’hai detto?» chiese lei cavandosi le cuffie dalle orecchie. «Niente, lascia stare» rispose lui arrossendo. «Come mai sei qui? Non avevi detto che eri impegnato con tuo padre?».

«Allora l’hai letto il messaggio. Perché non mi hai risposto?». «Scusa, non pensavo stessi aspettando una risposta. Ero da mia zia quando ho visto il messaggio. Stavamo prranzando e l’ho letto velocemente. Non mi sembrava ci fossero delle domande…». «Ti ho chiamato e poi ti ho mandato degli altri messaggi. Nel secondo ti avevo chiesto se ti poteva andare bene posticipare a domani». «Scusa, ma nella confusione probabilmente non l’ho sentito» disse andando a cercare il cellulare sulla scrivania. «Sì, però te ne ho mandati diversi e ti ho chiamato per tutto il pomeriggio». Lucia girava confusamente nella stanza senza neppure starlo più ad ascoltare. «Cavolo, ecco perché non lo sentivo. Devo averlo lasciato sulla credenza della zia» disse frugando inutilmente nella borsa. Lucia diede un’ultima occhiata in giro e si rassegnò. Si era talmente immersa nella lettura del suo libro che non si era neppure accorta di non avere il cellulare. Marco la guardò incredulo. Si era fatto tutti quei viaggi mentali per niente. Lucia non ce l’aveva affatto con lui, anzi, era lei quella che si stava scusando per avergli fatto credere di essere arrabbiata con lui. Senza nemmeno farla finire di parlare, le si avvicinò e, gettandole la borsa in terra, la prese fra le sue braccia e la baciò intensamente. «Ma sei matto?» disse lei allontanandolo bruscamente. «C’è mia mamma di sotto. Se viene su e ci vede così mi ammazza». Marco era felicissimo. Sapeva che Lucia non lo odiava e quello era ciò che contava. Lucia lo fissò per un attimo e sorrise. Anche se non lo voleva ammettere, quel bacio le era piaciuto moltissimo. Riassaporare le sue labbra le aveva fatto ricordare quanto fosse stata innamorata l’estate precedente. «Visto che qui è campo minato, andiamo a prendere quel benedetto gelato. Adesso.» le ordinò afferrandole il braccio e tirandola giù per le scale di corsa. «Marco, ma così vestita…aspetta che mi cambi almeno».

Marco non la stette neppure a sentire. Era talmente felice di essere lì con lei che, per quel che gli importava, poteva essere anche in pigiama. Insieme salutarono al volo la madre e uscirono per andare in gelateria. Quando furono abbastanza lontano da casa, Marco si fermò sul marciapiede e, afferrandole il volto fra le mani, accostò delicatamente le labbra alle sue. Non gli importava se l’avrebbe respinto subito dopo. Aveva avuto talmente paura di perderla di nuovo, che valeva la pena tentare di strapparle un altro bacio. Questa volta però Lucia non oppose resistenza e lo lasciò fare. Le sue labbra erano troppo calde e avvolgenti. La ione che ci metteva aveva abbassato ogni sua difesa. Con una mano tenne ferma la borsa che le era scivolata dalla spalla, mentre con l’altra si infilò fra i suoi capelli castani. Quando i polmoni furono svuotati e la necessità di respirare si fece impellente, entrambi si staccarono e tirarono un profondo respiro. Marco accostò la sua fronte a quella di Lucia e, baciandole la punta del naso, le fece un enorme sorriso. Lucia lo guardò dritto negli occhi e, presa dall’emozione, si gettò di nuovo fra le sue braccia. «Andiamo a prendere questo gelato prima che si faccia troppo tardi» disse Marco carico di gioia. I due camminarono mano nella mano fino alla gelateria dove si sedettero a parlare. Il tempo a disposizione era poco, ma a Marco sembrò di avere tutta la vita davanti per poter stare insieme alla sua Lucia. Questa volta niente e nessuno lo avrebbe allontanato da lei. Quando si fece ora di rientrare in albergo, Marco si proclamò suo cavaliere e insistette per riaccompagnarla a casa. «Allora ci sentiamo» disse lui guardandola intensamente. «Sì, certo. La prossima volta me lo lego al polso il cellulare» rispose lei ridendo. «Da amici» disse lui. «Da più che amici» replicò lei dandogli un ultimo bacio davanti al cancello di casa.

Capitolo XVIII Domenica mattina i primi a svegliarsi furono Cristina e Roberto. Erano le otto e tre quarti e il sole era già alto. Non una nuvola correva nel cielo. La giornata sarebbe stata ottima per una nuova escursione, se solo gli altri si fossero alzati dal letto. Roberto non sapeva cosa fare. Erano ospiti e non poteva di certo fare come se fosse a casa propria. Uscito con la moglie nel portico per prendere una boccata d’aria, osservava i campi brulli risplendere nel loro giallo paglierino sotto il tiepido sole. L’aria era ancora fresca e, facendosi sentire timidamente con leggere folate di vento, ricordava loro che l’inverno non era ancora del tutto finito. Stringendosi nei piumini sopra il pigiama di flanella, si sedettero sul dondolo e si misero ad aspettare. «Questo posto è davvero strano» disse Cristina ripensando a tutto quello che era successo il giorno prima. «In che senso?» le domandò Roberto. «Nel senso che è un paese sperduto nella campagna come tanti altri e non ti aspetteresti mai di venire a sapere che sono successe tutte quelle cose. Insomma, sembra una di quelle città fantasma sperdute nel far west, all’apparenza tranquille e desolate, dove invece scopri che si nascondono inquietanti misteri. Tutto in superficie tace, ma sotto di essa gli avvenimenti fermentano, pronti a esplodere se qualcuno tocca il tasto giusto». Roberto la guardò per un attimo e tornò a fissare le colline subito dopo. Osservò i campi da calcio in lontananza e si immaginò i giovani calciatori disputare il trofeo Olimpia incitati da quei turisti che per molti anni avevano affollato il paese. Sembrava impossibile che tutte quelle persone avessero trovato Spinello così interessante da volerci trascorrere le vacanze. Mentre si dondolavano dolcemente abbracciati l’uno all’altro, sca aprì la porta e uscì nel porticato. «Buongiorno ragazzi. Siete già in piedi, scusate! Avrei dovuto svegliarmi prima» disse dispiaciuta per non averli anticipati. «Vado a mettere su il caffè così beviamo qualcosa di caldo aspettando che ci raggiungano gli altri». «Direi che ci sta» disse Roberto sfregandosi le mani per scaldarle.

«Abbiamo qualcos’altro da bere e mangiare per colazione?» chiese Cristina un po’ affamata. «Avevamo detto che saremo andati a fare colazione al bar, no? Così con la scusa di dover mangiare usciamo e facciamo due i» rispose sca. «Dobbiamo anche fare le domande alle bariste, non dimenticatevelo» aggiunse Roberto. «Sì, è vero. Allora ne approfittiamo e facciamo entrambe le cose» disse sca facendo cenno di seguirla in cucina. L’odore del caffè che riempiva la moka aveva svegliato Lorenzo che, con un occhio ancora chiuso e il o trascinato nelle pantofole, si avvicinò ai tre dando loro il buongiorno. «Come al solito Pamela e Andrea sono gli ultimi» disse versandosi un po’ di caffè in una tazzina. Come diede un sorso bagnandosi appena le labbra, la sua faccia cambiò espressione: gli occhi si spalancarono e la bocca prese la forma del disgusto. Era talmente denso e amaro che neppure il cucchiaino di zucchero era riuscito ad addolcirne il sapore. «Considerando che sono le nove ate, potremmo andare a bussare alla loro porta e svegliarli» disse arzillo come se si fosse appena sparato una dose di adrenalina. sca lo fulminò con lo sguardo come per dirgli di non provarci nemmeno. «Intanto possiamo pensare a cosa fare oggi» intervenne Roberto. «Come prima cosa si è deciso di andare a fare colazione al bar e approfittarne per fare qualche domanda alle bariste» ripeté Cristina che aveva sempre più fame. Lorenzo per la prima volta non fu polemico e, buttando giù l’ultimo sorso di quel caffè imbevibile, acconsentì sia per la colazione che per l’interrogatorio. Anche se normalmente riteneva le storie soprannaturali idiozie per creduloni, le vicende di Spinello lo avevano incuriosito a tal punto da voler mettere ordine a

tutte le informazioni contraddittorie che avevano raccolto. Dopo circa un quarto d’ora di chiacchiere di fronte al camino, il cigolio di una porta catturò la loro attenzione. Come un fulmine arrivò nella sala da pranzo Cleopatra che saltellava a destra e sinistra in cerca di qualcosa da mangiare. Dietro di lei sbucarono Andrea e Pamela che, ancora provati dalla sbronza della sera prima, si gettarono nel divano lasciando cadere i loro corpi pesanti sopra i cuscini. Pamela appoggiò la testa sul bracciolo e con il gomito si coprì gli occhi per pararsi dalla luce che entrava dalla finestra. «Buongiorno a tutti» disse Andrea allungandosi sulla fidanzata e cercando di spostarle il braccio per farle dispetto. Pamela fece un mugolio che assomigliava a un saluto. «Credo che le ci voglia del caffè per endovena» disse il fidanzato solleticandole la pancia. «Dai, smettila» piagnucolò lei scansandogli la mano e cercando di colpirlo in testa con un cuscino. Capendo che il fidanzato non l’avrebbe lasciata in pace, si sforzò di drizzarsi sul divano e afferrò la tazza di caffè che sca le stava porgendo. «Ragazzi, sono in coma» disse girando il cucchiaino per far sciogliere lo zucchero. «Oggi relax, vero?». «Oggi spedizione investigativa» rispose Roberto più pimpante che mai. «No, ancora? Che palle, ma non possiamo starcene tranquilli a cazzeggiare in giro?» chiese sperando di trovare l’approvazione di qualcuno. «Su amore, oggi niente camminate estenuanti, solo qualche domandina come si fa quando si gioca a Cluedo» disse Andrea sbaciucchiandola viscidamente. «Dai Pami. Andiamo a fare colazione al bar e poi ce la prendiamo con comodo. Dopo un caffè decente e una pasta vedrai che ti sentirai meglio» aggiunse sca cercando di convincere l’amica. Cleopatra, correndo energicamente dalla cucina alla sala, saltò sulle ginocchia

della padrona e la fece svegliare completamente. La leccò sulla guancia e le abbaiò contro un paio di volte per ricordarle che qualcuno aveva fame e doveva uscire a fare i bisognini. «Ciao Cleo, la mia cuccioletta» disse strofinandole la schiena e baciandola sul musino. «La mamma adesso ti dà da mangiare e ti porta a fare un giro». «Altro che colazione al bar. Due leccate del cane e Pamela è già bella che sveglia» commentò Andrea scuotendo la testa. «Allora ragazzi, ci vestiamo e usciamo?» propose Cristina che stava morendo dalla fame. «Sì, muoviamoci, altrimenti si fa ora di pranzo» disse sca che stava già smaniando per la sigaretta del dopo caffè. Quando tutti furono pronti erano già le dieci ate e la giornata soleggiata aveva scaldato l’aria a sufficienza per uscire senza piumini. sca prese Pamela e Cristina sotto braccio e insieme scesero la collina tenendo a bada Cleopatra che scorrazzava dappertutto annusando ogni cespuglio che le capitava a tiro. Lorenzo di dietro raccontò ai due amici di come un cliente americano si fosse arrabbiato per un macchinario nuovo che gli era arrivato con un componente già rotto. «Ma come, hai già guardato le e-mail del lavoro? Di domenica?!» affermò Roberto quasi disgustato. «Giusto un’occhiata veloce dal cellulare mentre voi finivate di prepararvi...». «Mi meraviglio che ancora ti stupisci» replicò Andrea. «Ad andar bene ha già letto tutte quelle nuove e pensato a come organizzarsi domani in ufficio». A Roberto sembrava una cosa inconcepibile. Per lui lavorare era solo una perdita di tempo. Se avesse potuto, avrebbe ato ogni giornata a fare sport e dedicarsi al bricolage. Era uno spreco perdere tutte quelle ore davanti al computer. Stare seduto nella stessa posizione era una sofferenza per il fisico e un insulto alle sue capacità manuali. Andrea invece era un tipo a cui non dispiaceva affatto andare in ufficio. Non era maniacale come Lorenzo, ma gli piaceva essere un uomo in carriera. L’idea di scalare la gerarchia aziendale lo faceva sentire importante e il portafogli pieno gli permetteva di togliersi tutti i suoi sfizi.

Quando arrivarono in paese le campane stavano annunciando l’inizio della Messa e i ritardatari si stavano affrettando per raggiungere la chiesa. Il bar a quell’ora era praticamente deserto. Per gli abitanti del luogo l’ora del primo caffè era ata da un pezzo, mentre quella del pranzo non sarebbe giunta prima di mezzogiorno. sca e Pamela si sedettero in uno dei tavolini di fronte al bancone, mentre gli altri si avvicinarono alla vetrinetta per vedere cosa c’era da mangiare. La barista giovane prese le ordinazioni e ritornò dopo qualche minuto con il vassoio carico di paste e sei cappuccini. La sala era ancora in disordine dalla mattina e la ragazza approfittò del momento di quiete per riassettare tutti i tavoli. In quel momento un signore di una certa età, con i vestiti trasandati e un bastone in mano, entrò bruscamente dalla porta e ordinò a voce alta un caffè corretto con la grappa. Si sedette in fondo alla stanza su uno sgabello e afferrò il quotidiano per leggere le notizie del giorno. I ragazzi seguirono con gli occhi tutta la scena e quando incrociarono lo sguardo della barista, si resero conto che non si trattava di una persona gradita. Dopo che la ragazza gli servì il caffè corretto, Roberto approfittò del fatto che non ci fosse nessuno per fermarla al loro tavolo e farle qualche domanda sul ristorante abbandonato. In quel momento il silenzio calò nella stanza. Il signore smise di commentare a voce alta le questioni di politica e la barista più attempata, appena uscita dalla cucina, sbatté violentemente il cestello con le tazzine pulite sul ripiano del bancone. «Perché lo volete sapere?» chiese la signora con tono risentito. «Per curiosità» intervenne Lorenzo stupito dalla reazione esagerata. «Ho una casa di proprietà in cima alla collina…» aggiunse cercando di trovare una scusa plausibile. «I miei genitori mi hanno raccontato qualcosa a proposito di certi incidenti, ma sempre in modo vago, quindi mi piacerebbe saperne di più». La donna li fissò per alcuni secondi senza parlare. La ragazza più giovane rimase accanto al loro tavolo immobile con il volto sbiancato. Sembrava che nessuno avesse voglia di infilarsi in quella conversazione. Lorenzo inarcò un sopracciglio e guardò la signora dritto negli occhi con disapprovazione. Non gli sembrava di aver chiesto chissà cosa e si aspettava quanto meno una risposta per educazione. La voce del vecchio in fondo alla stanza interruppe il silenzio imbarazzante che

si era creato. Alzandosi dalla sedia e camminando zoppicante verso il tavolo dei ragazzi, l’uomo rispose al posto delle due bariste. «Ve lo dico io cos’è successo» disse con voce tremula, facendo capire che la grappa versata nel caffè non era la prima della giornata. «Questo posto è maledetto. Il ristorante è maledetto» aggiunse indicando alla barista una bottiglia di cognac alle sue spalle. La donna scosse la testa contrariata e, afferrando la bottiglia, ne versò il contenuto in un bicchiere da liquore. Il vecchio allungò il braccio e con la mano tremante se lo portò alla bocca bevendone metà tutto d’un fiato. «Una volta Spinello era una bella cittadina. Ci abitava molta gente e venivano un sacco di belle turiste» continuò apprezzando con lo sguardo la bellezza delle ragazze. «Poi quel ristorante ha rovinato tutto. Sono morti i due calciatori, poi il figlio del sindaco, il bambino, e da quell’estate ne è successa una dietro l’altra». I ragazzi ascoltarono il discorso seguendo le parole biascicate che uscivano dalla bocca impastata. «Io l’ho visto quel bambino galleggiare a pancia in giù: era talmente gonfio d’acqua che sembrava un pallone. Non c’era rimasto più niente di umano in quel suo esile corpicino. Poi c’è stato il secondo incendio e l’incidente di quel povero elettricista che ci ha quasi rimesso le penne per ripristinare la corrente elettrica. Ve lo dico io cosa non funziona là dentro: chiunque tenti di risistemare quel posto non ne esce vivo senza che gli succeda qualcosa». Zigzagando fra i tavoli senza una meta precisa, il vecchio sbatté contro tutti gli spigoli facendo sbordare il cognac dal bicchiere. La barista più giovane, non riuscendo più a trattenere l’angoscia che quelle parole le avevano suscitato, si allontanò rapidamente dal tavolo raggiungendo la madre dietro al bancone. I ragazzi furono talmente impegnati a seguire i movimenti scomposti dell’ubriaco, che non si erano accorti che la ragazza si era messa a piangere. Quando la videro appoggiata alla spalla della madre con il singhiozzo che le soffocava il respiro, si sentirono in colpa per aver introdotto quell’argomento. Avrebbero terminato la conversazione anche subito, se non fosse stato per il vecchio ubriaco che, continuando a sbraitare, dava ad intendere di voler finire il suo monologo. «Quello che voglio dire…» continuò girandosi di nuovo verso i ragazzi «è che in seguito a quei fattacci la gente ha iniziato a smettere di venire. Il turismo è calato

e le squadre di calcio non sono più venute a disputare il Trofeo Olimpia. Tutto è andato alla malora e io so di chi è la colpa». I ragazzi rimasero immobili con gli occhi sgranati. Pamela, che era stata fino a quel momento la meno interessata al gioco investigativo, si era fatta talmente prendere dall’emotività della situazione da aver paura di sentire cos’altro il vecchio avesse da dire. Con una mano afferrò il braccio di Andrea e lo tirò verso il basso per fargli cenno di volersene andare. Gli altri invece erano dispiaciuti per la situazione che si era creata, ma nello stesso tempo erano curiosi di sentire il resto della storia. Roberto ripensò a quello che aveva raccontato il signore in bicicletta il giorno prima e si rese conto che molti avvenimenti combaciavano. Anche se l’uomo di fronte a loro sembrava un pazzo ubriacone, stava raccontando a modo suo la stessa versione dei fatti. «La colpa è del sindaco» disse interrompendo i loro pensieri battendo un pugno sul tavolo. Le ragazze fecero un balzo sulla sedia. La barista più giovane, non riuscendo più a trattenere l’emozione, urlò al vecchio di smettere e andarsene via. «Basta, sono tutte menzogne!» intervenne la madre cercando di calmarla. «Questo paese è stato solo sfortunato. Sfortunato di avere gente superstiziosa come lei che ha messo in giro quelle stupide voci. Il nostro sindaco era eccezionale e ha fatto un sacco di cose buone per questo paese» aggiunse guardandolo con disprezzo sperando che se ne andasse. Il vecchio non disse una parola e con la mano fece il gesto di lasciare perdere come se fosse uno spreco di tempo parlare con chi non era pronto ad ascoltare. Dopo aver deglutito l’ultimo sorso, sbatté il bicchiere vuoto su un tavolo e si diresse verso l’uscita. La barista giovane si lasciò scappare un urlo di disperazione e, coprendosi il volto con le mani, andò di corsa a nascondersi in cucina. «Lo sapevo che sarebbe finita così» disse a bassa voce la donna strofinando nervosamente con una spugna il bancone già pulito. I ragazzi rimasero basiti. Si guardavano perplessi e non sapevano come comportarsi. Senza nemmeno volerlo, erano stati loro ad aver causato tutto quello scompiglio.

Dopo una lunga pausa di silenzio, la signora fece un profondo respiro e si rivolse a loro sforzandosi di essere più gentile. «Scusate ragazzi. Era per questo che non volevo che Lucia rispondesse alle vostre domande. Quel signore là è un vecchio ubriacone che cerca in tutti i modi di seminare zizzania. Mia figlia oltretutto era la ragazza del figlio del sindaco. La sua morte non l’ha mai digerita fino in fondo e ogni volta che sente parlare di lui e della sua famiglia le ritorna su tutto. Sapete com’è…» disse voltandosi indietro per controllare che la figlia non la stesse ascoltando. sca si sentì ancora più in colpa per aver fatto piangere la ragazza. Andrea e Pamela si vergognarono per la brutta figura, mentre Cristina, Roberto e Lorenzo erano sempre più curiosi. Ancora una volta era saltata fuori la storia del sindaco e non riuscivano a capire se fosse stato un brav’uomo oppure no. Quel pazzo la pensava esattamente come i genitori di Lorenzo, ma il signore che avevano incontrato il giorno prima aveva detto esattamente l’opposto. Di sicuro quelle vicende erano ancora un argomento scottante per molti abitanti di Spinello. In un modo o nell’altro un fondo di verità doveva esserci in entrambe le versioni. sca si scusò con la signora per il disagio creato e invitò gli altri a uscire per fare due i. La scusa era buona per togliere il disturbo e scaricare la tensione accendendosi una sigaretta. «Questa storia ha veramente dell’incredibile» disse Roberto mentre eggiavano per le vie del centro. «Non riesco ancora a credere che sia successo tutto quel putiferio» aggiunse Cristina ancora scossa. «Almeno c’è un’altra persona che la pensa come i miei genitori. Per il momento siamo due contro uno» commentò Lorenzo. «No, due pari, se consideri la barista» lo corresse Pamela. «Com’è possibile che dopo dieci anni ci sia ancora tutto questo fervore quando si parla di quegli incidenti?» si chiese sca. «Vorrà pur dire che sotto c’è qualcosa che non quadra?». «Se gli episodi fossero stati dei banali incidenti, la gente non si animerebbe così

tanto dopo tutto questo tempo» disse Roberto. «Non ci dimentichiamo poi le strane cose che ci sono successe al ristorante. Strane tanto quanto quelle successe dieci anni fa» aggiunse sca. «Bisognerebbe trovare qualcun altro con cui parlare» pensò a voce alta Cristina. «Qualcuno che non si animi così tanto però. Ci mancava poco e partiva la rissa» replicò Lorenzo ridendo. «Ragazzi, ma vi rendete conto di che casino abbiamo fatto?» disse Pamela con tono di rimprovero. «Abbiamo fatto sbottare un vecchio ubriacone e piangere la barista. Cos’altro c’è poi da sapere? La storia completa ce l’ha detta il vecchio di ieri in bicicletta. Conosciamo gli incidenti che sono successi e il motivo per cui Spinello ha perso i turisti. Non vi sembra che sia sufficiente per considerare il caso chiuso?». «Amore, non l’abbiamo fatto mica apposta. Chi se lo immaginava che la barista era la morosa del figlio del sindaco?» precisò Andrea. «E comunque, incidenti a parte, continuano a non spiegarsi tutte quelle cose che ci sono capitate nel ristorante» insistette sca. «Va bene dai, adesso non scendiamo di nuovo nel soprannaturale» commentò Lorenzo. «Invece sì. È proprio questo il punto. Io sono convinta che là dentro ci sia qualcosa di soprannaturale. Non si spiegherebbe perché il giornale sia cambiato, io mi sia ritrovata la bottiglietta in tasca, la porta di Roberto si sia chiusa all’improvviso e…». «Quindi cosa vuoi dire?» la interruppe Pamela. «Dico che non possono essere solo coincidenze. E ci deve essere un nesso fra quello che ci è successo oggi e quello che è accaduto nel 2004». Roberto e Cristina erano completamente d’accordo. «In effetti in quel ristorante ne sono successe di ogni. Forse ha ragione il vecchio a dire che è maledetto» commentò Andrea rimanendo sul vago.

«Non è il ristorante che porta sfiga, è quello che c’è dentro al ristorante che provoca le sfighe» precisò sca. «Va bene, va bene, adesso mi sembra che stiamo lavorando un po’ troppo con la fantasia» disse Lorenzo cercando di riportare la conversazione su un piano più razionale. Perdendosi nei mille discorsi e camminando senza una meta precisa, i ragazzi finirono di nuovo di fronte al ristorante abbandonato. Sotto il sole splendente di mezzogiorno e senza una nuvola in cielo, la struttura non sembrava così sinistra come l’avevano vista il giorno prima. Si fermarono di fianco all’edificio e fissarono la lastra di ferro accostata al muro. Lorenzo scorse velocemente le finestre del piano di sopra e per un istante ebbe l’impressione che qualcuno avesse attraversato una delle stanze. «Ragazzi, c’è qualcuno» urlò indicando il piano superiore. «Piantala di fare il cretino. Non mi sembra proprio il momento» disse sca che non trovava il fidanzato affatto spiritoso. «No, no, dico davvero. Ho visto qualcosa muoversi vicino alla finestra». «Anche a me era sembrato di aver visto un’ombra la prima volta che siamo saliti di sopra» intervenne serio Roberto. «In che senso hai visto un’ombra? Perché non ci hai detto niente?» chiese Cristina al marito. «Pensavo fosse Andrea con uno dei suoi soliti scherzi. Dato che ne avevamo appena fatto uno a Pamela dalla cucina, ho pensato che volesse riprovarci di nuovo per spaventare voi ragazze». «E chi cavolo poteva esserci?» si chiese sca. «C’eravamo solo noi là dentro. Lo abbiamo visto tutti. Se qualcun altro avesse provato a entrare, avrebbe potuto farlo solo dalla cucina e ce ne saremmo accorti». Pamela preoccupata si voltò a guardare le finestre del primo piano sperando di non vedere nessuno. «Forse sono gli spiriti delle persone morte lì dentro» disse Cristina con enfasi.

«Vedi allora che ho ragione? La mia teoria dei misteri insoluti non fa una piega» l’assecondò sca. «Ve lo dicevo che certi spiriti rimangono nei posti dove sono morti finché la verità non viene a galla». «Ma smettila» disse Lorenzo trovando l’approvazione di Andrea che, come lui, preferiva la via dello scetticismo. «E quali verità nascoste dovrebbero mai esserci? Sentiamo». «Non lo so, forse è proprio quello che dobbiamo scoprire». «Ragazzi, scusate, non è che dobbiamo scoprirlo per forza. Vi ricordo che siamo venuti qui per are un weekend insieme in tranquillità» fece notare Pamela. Continuando ad animare la conversazione con i toni che si facevano sempre più accesi, non si erano accorti che il vecchio del bar li aveva raggiunti e si era posizionato dietro le loro spalle. «Cosa ci fate qui davanti? Non vorrete mica entrare» urlò indicando con il dito indice la lastra di ferro appoggiata al muro. I ragazzi fecero un balzo e, smettendo di parlare, si voltarono contemporaneamente verso l’uomo che li fissava minaccioso ricurvo sul suo bastone. sca e Pamela lo guardarono con ribrezzo: i suoi occhi sembravano persi nel vuoto e il fiato gli puzzava tremendamente di alcol. «Ve l’ho già detto, questo posto è maledetto. Stateci alla larga» continuò ando in rassegna tutte le finestre del primo piano. «Cosa c’è al piano di sopra?» chiese Lorenzo curioso di sapere perché l’uomo guardasse proprio in quella direzione. L’uomo rimase imibile. Continuò a fissare le finestre e all’improvviso inspirò con la bocca semi aperta strozzando il respiro nella gola. «Cosa?» chiesero Roberto e Cristina insistenti, voltandosi di scatto per capire cosa avesse visto. «Questo posto è da abbattere» disse con veemenza sputacchiando attraverso i denti irregolari. «C’è il Diavolo là dentro».

Lorenzo e Andrea furono gli unici a non lasciarsi suggestionare dalle parole del vecchio. La storia del Diavolo aveva ampiamente superato il loro limite di sopportazione alle stronzate. Volendo sapere piuttosto cosa centrasse il sindaco con tutta la vicenda, Lorenzo provò a chiedergli i motivi per cui gli serbasse così tanto rancore. Già che si dovevano sorbire il fetore che portava addosso, almeno voleva cercare di fare luce su quell’aspetto che era rimasto alquanto ambivalente. «Era una brutta persona» replicò il vecchio sbattendo il bastone sull’asfalto. «All’inizio era stato eletto perché era pieno di idee e sembrava che gliene importasse qualcosa della nostra comunità. Poi ci ha portato via sempre più terre per costruire tutte quelle strutture e sistemare la sua famiglia». I ragazzi si sforzarono di seguirlo, ma non riuscivano a capire che cosa avesse potuto fare di così tanto sbagliato. «Ha pensato solo ai suoi affari. Ha voluto esagerare ed è stato punito per gli errori che ha commesso». «Scusi, ma non può essere che la morte del figlio sia stata solo una disgrazia? E gli altri incidenti? Cosa c’entrano con il sindaco?» chiese sca ritenendo esagerato che qualcuno potesse avergli ucciso il figlio per vendicarsi di un torto subito. «Sciocchezze! È colpa sua se il figlio è morto. È colpa sua se sono successi quegli incidenti. Ha pagato per i suoi errori. Ha pagato per aver fatto i suoi interessi personali». Più il vecchio si animava nel suo farneticare senza senso, più il corpo ciondolava debole attorno al suo bastone. «Voi non capite. Le indagini successive alla morte dei due calciatori sono state troppo veloci e approssimative. Hanno voluto chiudere il caso in fretta per non creare troppo scalpore e concludere il torneo. Il figlio del sindaco aveva una carriera da perseguire e il ristorante del fratello non poteva di certo perdere dei clienti. Voleva essere sicuro che tutto andasse secondo i piani. Invece qualcosa è andato storto e la sorte gli si è rivoltata contro. La morte del figlio è stata una fatalità che lo ha punito per la sua avarizia e ingordigia». I ragazzi continuavano a non capire. Chi avrebbe dovuto avercela a morte con il

sindaco tanto da uccidergli il figlio ando inosservato? Come potevano poi le indagini della polizia essere state approssimative? Considerando che i due ragazzini giocavano nella stessa squadra, a maggior ragione avrebbero dovuto metterci più zelo per scoprire la causa del decesso. «Perché guarda sempre le finestre del primo piano?» chiese Roberto che si era stancato di girarsi continuamente ogni volta che il vecchio fissava le finestre dell’edificio. «Perché là dentro ci sono gli spiriti di quei due ragazzi» urlò sbarrando ancora una volta gli occhi come se stesse vedendo qualcosa. I ragazzi si girarono di nuovo e come al solito non videro nulla. «Ma i ragazzi sono morti in albergo, non al ristorante» commentò Lorenzo stanco del farneticamento del vecchio. «Sì è vero, ma il fattaccio è successo là dentro ed è lì che loro gridano la loro vendetta». Vedendolo divagare in discorsi senza senso, i ragazzi cominciarono a pensare che la signora del bar avesse ragione: quell’uomo era solo un vecchio ubriacone che si divertiva a creare scompiglio. Considerato lo stato in cui era ridotto, risultava loro difficile credere che i suoi discorsi potessero avere un qualche fondamento. Anche sca, nonostante fosse affascinata dalla teoria soprannaturale, si era stancata di stare a sentire gli insulti e i discorsi sconnessi di quel pazzo. Il vecchio nel frattempo aveva ripreso a ciondolare. L’equilibrio sulle gambe stanche si era fatto più incerto e le palpebre pesanti per l’ubriachezza avevano smorzato lo sguardo accusatorio. Senza neppure salutare i ragazzi, si aggrappò al bastone e riprese a camminare nella direzione opposta a quella da cui era venuto. «E se fosse vero che là dentro ci sono i loro spiriti?» chiese sca felice di poter ritornare a respirare normalmente. «Se anche così fosse, perché prendersela con il loro compagno di squadra, con un bambino e un elettricista?» si chiese scettico Andrea. «Ragazzi, tutto questo non ha senso. Sono solo i vaneggiamenti di un ubriacone.

Non lo vedete come è ridotto? È la grappa che parla, non lui» disse Lorenzo. «Però le ombre le avete viste, no?» chiese Cristina per ritornare sull’argomento e averne la conferma. Roberto e Lorenzo si guardarono negli occhi e non dissero nulla. A qual punto non sapevano neppure con certezza quello che avevano visto. Potevano essere state delle ombre come poteva essere stata la suggestione per l’eccitazione del momento. La storia era più ingarbugliata di quanto si aspettassero. Invece di aver fatto chiarezza con le domande, nella loro testa si era creata una gran confusione. «Se ci pensate però, i tentativi di ristrutturazione sono sempre falliti. È come se qualcosa avesse impedito al ristorante di tornare in vita» disse sca. «In effetti questo è vero. Il vecchio in bicicletta aveva detto che gli incidenti erano iniziati la settimana in cui erano partiti i lavori di ristrutturazione. Prima il bambino affogato, poi l’incendio notturno improvviso e infine l’elettricista folgorato nonostante il quadro elettrico fosse spento. Sono tutte cose accadute nello stesso periodo e a cui nessuno è stato in grado di dare una spiegazione» commentò Cristina. I ragazzi rimasero a guardarsi con mille domande rimaste insolute. Non avevano fatto alcun progresso e sembravano fermi al punto di partenza. Che si trattasse di spiriti o meno, occorreva trovare un’altra fonte di informazioni, possibilmente più sobria e che avesse voglia di parlare. «Secondo me il top sarebbe interrogare direttamente l’ex sindaco» disse Lorenzo che si illuminò come se gli si fosse accesa una lampadina. Roberto d’impulso si girò verso il vecchio e gli corse dietro. Considerando quanto odiasse quell’uomo e quanto sembrasse essere interessato alle vicende di Spinello, era l’unico che poteva dire loro dove abitava. Mentre gli si avvicinò per chiedergli l’indirizzo, pregò che l’ex sindaco risiedesse a Spinello. «Ci siamo ragazzi, siamo stati fortunati. È in pensione e abita proprio qui a Spinello» urlò agli altri correndogli incontro. «Prima di andare a casa sua però facciamo un attimo il punto della situazione, se no non ci capiamo più niente» disse Cristina riando tutte le informazioni che avevano raccolto. «Conosciamo gli incidenti, sappiamo che l’ex sindaco

potrebbe essere stato il responsabile del primo e che gli altri sono accaduti a catena, forse come una sorta di punizione. Qualcos’altro che mi sfugge?». «La boccetta di Guttalax!» urlò sca. «Ma no. Quella adesso cosa c’entra?» disse Lorenzo facendole cenno di stare zitta. «Non avete capito. La boccetta di Guttalax, ce l’ho qui». sca stava frugando nella borsa per prendere il pacchetto di sigarette e se la ritrovò ancora una volta fra le mani. «E allora?» disse Lorenzo. «Ero sicura di averla lasciata a casa. Non so perché, ma me la ritrovo sempre addosso…». «Potrebbe essere un indizio. Forse non è un caso che sia sempre con noi» disse Cristina sforzandosi di trovare un motivo. «In ogni caso tienila lì. Ci potrebbe fare comodo quando andiamo a parlare con l’ex sindaco» disse spicciativo Lorenzo preferendo concentrarsi sulle cose importanti. «E non dimentichiamoci che come fonte di informazioni abbiamo anche la barista giovane, dato che era la fidanzata del figlio» aggiunse Andrea che si stava apionando al gioco. «Non vorrete mica farla piangere di nuovo?» chiese incredula Pamela. «Magari se riuscissimo a parlarle con calma senza la madre…» disse Roberto pensando a un modo per avvicinarla in separata sede. «Quindi da chi andiamo per primo?» chiese Lorenzo che aveva bisogno di stilare un piano dettagliato. «Torniamo dalla barista, sentiamo la sua versione dei fatti e poi parliamo con l’ex sindaco che, a questo punto, mi pare essere il soggetto principale attorno a cui ruota tutta la faccenda» propose Cristina.

«Secondo me invece è meglio andare prima dall’ex sindaco e poi dalla barista» disse Roberto. «È quasi ora di pranzo. Se ci sbrighiamo forse lo becchiamo mentre mangia. La barista tanto non scappa e possiamo tranquillamente parlarle più tardi». «E del nostro di pranzo, non ne parliamo?» chiese Pamela preoccupata che le cose andassero per le lunghe. «Giusto, anche noi dobbiamo pranzare. Allora direi che l’ideale è andare adesso dall’ex sindaco e poi, con la scusa del pranzo, ritorniamo al bar e, mentre mangiamo, troviamo un modo per parlare da soli con la barista» concluse Lorenzo soddisfatto del suo calcolo perfetto. Tutti furono d’accordo inclusa Pamela. Nel paese d’altro canto non c’era molto altro da fare e l’idea di andare a pranzo fuori e non doversi preoccupare di cucinare a casa era un motivo più che valido per prendere parte al gioco investigativo.

Capitolo XIX Le eliminazioni per accedere ai quarti di finale andarono lisce come l’olio. La squadra di Marco vinse entrambe le partite e riacquistò la fiducia necessaria per proseguire carica nella fase successiva. «Ragazzi, pregate che i sorteggi siano ancora a nostro favore» disse Alessandro ai compagni mentre camminavano verso la sala congressi per controllare il cartellone delle partite. Erano le dieci del venerdì mattina e tutte le squadre si erano riunite davanti al tabellone degli annunci ufficiali per vedere contro che squadra avrebbero dovuto giocare nei quarti di finale. Alzandosi in punta di piedi, fra le teste di quelli che gli stavano davanti, Marco cercò di leggere il nome della sua squadra con il cuore che gli batteva forte nel petto. «È inutile, non si vede un cazzo» disse Luca rimasto da un lato, preferendo aspettare che un po’ di gente si levasse di torno. «Suspense, suspense» sussurrò Alessandro nell’orecchio di Marco, vedendo quanto l’amico fosse agitato. «Allora ragazzi, siete contenti?» urlò l’allenatore da metà corridoio, mentre goffamente si avvicinava con in braccio una pila di scartoffie. «Giochiamo contro il Livorno» urlò un compagno che era riuscito a vedere la parte bassa del tabellone. Marco tirò un sospiro di sollievo e si rasserenò. Il Livorno non era una squadra difficile da battere. Se avessero giocato bene come le ultime volte, sarebbero arrivati tranquillamente in semifinale. «Mister, lo sa contro chi gioca il Vicenza?» chiese Alessandro smanioso. «Contro il Parma. Sono andati benino anche loro. Prima o poi ve li beccate sicuro» rispose lui facendo cenno a tutta la squadra di spostarsi da una parte. Appoggiando la pila cartacea su uno dei tavoli della stanza, tirò fuori dal

taschino della polo la penna e disegnò una bozza dei sorteggi. «Questo è il quadro delle prossime partite: lunedì gioca il Pescara contro il Como, martedì gioca il Lecce contro la Roma, mercoledì il Vicenza contro il Parma e giovedì giocate voi contro il Livorno. Fra una settimana esatta sapremo chi sarà arrivato alle semifinali che si disputeranno sabato e domenica. Martedì ci sarà la finale». «Ma come? Ci sono le semifinali il prossimo weekend e la finale subito di martedì?» chiese Alessandro sorpreso. «Hanno accorciato il trofeo di una settimana. Si vede che vogliono risparmiare. Comunque chi erà il turno giovedì giocherà di domenica, quindi avrete due giorni per riposarvi. Sì, perché dovrete essere voi quelli che ano il turno». Marco osservava lo schema del mister e valutava mentalmente tutte le possibili soluzioni. Per come erano andati i sorteggi, avrebbero comunque evitato il Vicenza almeno in semifinale. «Ragazzi, ce la possiamo ancora fare. Giocate come nelle ultime partite e ci porteremo a casa il trofeo» disse l’allenatore incitando i suoi ragazzi. Le due vittorie consecutive dovevano aver allentato i suoi nervi e fattogli sperare di avere ancora una possibilità di vincere la gara. «Quindi questo fine settimana riposo totale» azzardò Alessandro sperando di avere entrambi i giorni liberi. L’allenatore ci pensò qualche istante e poi gli sorrise. «Va bene, vi lascio il weekend libero. Visto che giocate di giovedì potete uscire anche la sera a patto però che non facciate tardi. Dalla prossima settimana però si lavora a testa bassa fino alla fine del torneo». Alessandro, Marco e Luca esultarono come i prigionieri a cui viene ridata la libertà. «Stasera, quindi, come ci organizziamo?» chiese subito Alessandro. «Ci vediamo con le ragazze ovviamente» disse Luca felice di non dovere più

are di nascosto dalla lavanderia. «Marco? Sei dei nostri, vero?» chiese Alessandro. «Non saprei, mi devo ancora organizzare. Avevo pensato di chiamare Lucia e chiederle di uscire…». «Usciamo tutti e sei insieme, che problema c’è?» disse Luca. «Vediamo, dai. Dopo la chiamo e sento cosa vuole fare». Marco non sapeva se invitare Lucia oppure no. Non era sicuro che si sarebbe sentita a suo agio con Federica e Silvia. Erano troppo disinibite ed esuberanti. Forse Chiara era l’unica con cui poteva avere qualcosa in comune, ma ultimamente non si era fatta più vedere e probabilmente avrebbe evitato di trovarsi in mezzo a delle coppie anche quella volta. «Ragazzi, ci vediamo in albergo per il pranzo e poi oggi pomeriggio scendiamo in campo per riare la tecnica» li interruppe l’allenatore rimettendosi i fogli sotto braccio. «No, anche oggi pomeriggio?» chiesero tutti in coro con tono sfaticato. Bastò lo sguardo del mister per far capire loro che era meglio non tirare troppo la corda. La loro fetta di libertà se l’erano già guadagnata ed era meglio assecondarlo per evitare di giocarsela di nuovo. In gruppo tornarono all’albergo e nel primo pomeriggio si prepararono per le partite della settimana successiva. L’ultimo allenamento della settimana sembrò ai ragazzi interminabile ed estenuante. Avevano talmente lavorato sodo per raggiungere i quarti di finale, che l’unico pensiero del venerdì pomeriggio era quello di organizzare il weekend all’insegna del divertimento. Quando Marco arrivò nello spogliatoio, trascinandosi stanco nella divisa sudata, si lasciò cadere pesantemente sulla panchina appoggiandosi al muro con gli occhi socchiusi. Le orecchie sentivano il chiacchierio confuso dei compagni, incluso quello di Alessandro e Luca che stavano organizzando l’ultima serata con Silvia e Federica. Marco si sentiva le gambe stanche e le braccia molli cadevano pesanti sui muscoli tirati delle cosce. Con i talloni spinse la parte posteriore delle scarpe finché non gli uscirono forzatamente dai piedi rotolando sul pavimento. Lentamente aprì gli occhi e vide i due amici in fondo alla stanza confabulare a bassa voce trafugando

nell’armadietto. Si chiedeva come potessero avere ancora così tanta energia, nonostante il duro allenamento e il fatto che dormissero non più di cinque ore per notte. Probabilmente era l’entusiasmo di vedere le ragazze che li teneva così svegli. Anche lui avrebbe dovuto essere eccitato all’idea di incontrarsi con Lucia, invece aveva una gran voglia di buttarsi sul letto e rimandare tutto al giorno dopo. Andando sotto la doccia e girando il pomello dell’acqua fredda, sperò che quel getto ghiacciato gli restituisse un po’ di energia. Lentamente lo spogliatoio iniziò a svuotarsi e farsi silenzioso. Marco era rimasto l’ultimo a doversi cambiare, mentre Alessandro e Luca erano in fondo alla stanza con le mani dentro all’armadietto. Dopo aver controllato che l’amico fosse ancora sotto la doccia e che nella stanza non ci fosse più nessuno, Alessandro versò una manciata di pillole nella mano dell’amico. «Non saranno un po’ troppe? Ne abbiamo prese un pugno anche stamattina» chiese Luca un po’ preoccupato. «Dobbiamo prenderle due volte al giorno, tre di queste e due delle altre per tutto il periodo della gara. Piuttosto ricordati di bere le fiale che ti ho dato, così siamo sicuri che non ci sgamano» rispose Alessandro buttando un occhio verso le docce. «Sarà come dici tu, ma da quando ho iniziato a prendere sta roba mi sembra di essere più agitato…». «Sarai agitato perché sei in ansia per il torneo» disse l’amico ridendo. «Comunque, scherzi a parte, un po’ di eccitazione queste pasticche te la danno, visto che sono degli stimolanti. Devi ammettere però che sentirsi in piena in campo è una figata». Luca non riusciva a prendere l’argomento con leggerezza. Era vero che si sentiva meno affaticato e aveva energie da vendere, ma quelle capsule rimanevano comunque roba chimica di cui non si fidava. «Dai, fai un ultimo sforzo. Fra poco più di una settimana tutto sarà finito». «Mi chiedo solo per che cosa lo stiamo facendo. Non ci interessa neppure diventare calciatori». «Lo facciamo per la reputazione e per Marco. Non ci pensi a lui? Se non

arriviamo in finale nessuno lo noterà. Non vorrai mica che gli si spezzi il cuore?». Luca allungò la testa verso la porta delle docce e vide Marco strofinarsi i capelli con il cappuccio dell’accappatoio. Per nessun motivo al mondo avrebbe voluto vederlo deluso dalla sconfitta. Adesso che avevano ato il turno e aveva riallacciato il rapporto con Lucia, era ritornato il Marco energico e fiducioso di sempre. Di sicuro non sarebbe stato lui a rovinargli il sogno di diventare un calciatore professionista. Guardandosi il palmo della mano fece l’ennesimo sforzo e deglutì tutto. «Muoviti, sta arrivando» gli sussurrò Alessandro sbattendo violentemente lo sportello dell’armadietto per non far vedere la roba. «Ragazzi, andate pure. Me la voglio prendere con calma, ci vediamo in albergo» disse Marco. «Ricordati che stasera siamo a cena al ristorante. Il mister ci ha detto che da oggi possiamo tornare a cenare là insieme alle altre squadre. La punizione è finita» disse Luca. «Per me si è reso conto che al ristorante si mangia meglio» commentò Alessandro mentre si avvicinava con l’amico all’uscita. Marco si sedette sulla panchina e con calma finì di asciugarsi. Era rimasto solo dentro allo spogliatoio e finalmente poteva godersi un po’ di tranquillità. Mentre si infilava un paio di short e una polo verde, il cellulare gli vibrò nella tasca. «Ciao Lucia, come stai? Hai letto il mio messaggio?». «Ciao Marco, sì, l’ho letto». «Alessandro e Luca stasera escono per salutare delle ragazze che ritornano a casa domani, che ne dici se ci uniamo a loro?». «Veramente… non saprei…». «Dai Lucia non farti pregare. Sono ragazze tranquille e poi ci sono io. Così ne approfittiamo per stare un po’ insieme. Non ti va di vedermi?».

«Certo che mi va di vederti, stupido» rispose lei che non stava più nella pelle. «Allora facciamo così. Dato che non so ancora come si sono organizzati, io o da te subito dopo cena verso le otto e trenta e poi, se ti va, li raggiungiamo». «Okay Marco, vediamo quando sei qui cosa ci va di fare…» rispose lei rimanendo sul vago per non dargli una risposta definitiva. Marco riagganciò il telefono e soddisfatto uscì dallo spogliatoio. Lucia lo aveva chiamato per prima quindi voleva dire che aveva voglia di vederlo. Nella sala da pranzo del ristorante la tensione cominciava a farsi sentire. Alcune squadre avevano iniziato a guardarsi in cagnesco e, senza farsi vedere dagli allenatori, si stavano lanciando occhiate di sfida. Chi aveva perso era arrabbiato per gli esiti negativi delle partite, mentre chi aveva ato il turno faceva i pronostici vantandosi dei risultati della prima parte del torneo. Alessandro e Luca si divertivano in mezzo ai compagni a fare i commenti sulle partite che avevano vinto nella fase di ripescaggio. Confidando nella loro vittoria, animavano tutto il tavolo con battute strafottenti che non risparmiavano nessuno. «Ragazzi, datevi un contegno. Cosa avete mangiato stasera, carne e testosterone?» disse Marco cercando di smorzare la loro euforia. Parlare male delle altre squadre solo per il gusto di darsi delle arie lo trovava stupido e poco professionale. Si meravigliò che Luca, che di solito era un tipo abbastanza tranquillo, si fosse lanciato in battute che alimentavano la spavalderia di Alessandro. Probabilmente erano eccitati e scocciati allo stesso tempo perché quella sera avrebbero visto le ragazze per l’ultima volta. Sta di fatto però che la loro maleducazione aveva raggiunto livelli insopportabili. «Ragazzi, cosa avete poi deciso di fare questa sera?» chiese loro cercando di portare la conversazione a un livello più accettabile. «Silvia mi ha detto che danno un film divertente all’arena» rispose Alessandro tranquillizzandosi momentaneamente sulla sedia. «Che film è?». «Il titolo non lo ricordo... Me l’ha detto, ma c’era troppo casino nella sala e non

ho capito bene». L’idea di andare al cinema all’aperto non era male. Forse anche Lucia l’avrebbe apprezzata: qualcosa di tranquillo senza preoccuparsi di dover fare tardi. Il cinema all’aperto di Spinello era diverso dalle altre arene. Oltre alle solite sedie poste di fronte allo schermo, c’erano degli ampi spazi d’erba su cui era possibile sdraiarsi portandosi una coperta da casa. Il cinema forniva degli enormi cuscini gonfiabili e lo schermo gigante permetteva di godersi il film rimanendo più appartati. Quando Marco guardò l’orologio e vide che erano le otto ate, decise di andarsene da quel tavolo di trogloditi per raggiungere la casa di Lucia. «A che ora inizia il film?» chiese a Luca. Dovrebbe iniziare alle nove». «Okay, allora vado a prendere Lucia e ci vediamo davanti all’ingresso del cinema alle nove meno un quarto». «Okay, a dopo amico» li interruppe Alessandro alzando una mano per battere il cinque. «A dopo» rispose Marco guardandolo con compatimento e senza battergli il cinque. Quando il camlo suonò, Lucia era già pronta e stava ingannando il tempo leggendo il suo libro seduta nel divano del salotto. La madre fece entrare Marco che, come vide Lucia andargli incontro, ne rimase abbagliato dall’eleganza. Indossava un abito smanicato nero sulle cui spalline appoggiavano leggiadri i capelli sciolti. Ai piedi un paio di sandali color oro risalivano il polpaccio con due laccetti attorcigliati oltre la caviglia. Per l’occasione Lucia aveva marcato le palpebre con un tratto di matita nera e le labbra sottili con del gloss rosa confetto. «Wow, sei bellissima» si lasciò scappare lui stupito da un tale cambiamento. Non era abituato a vederla in quel modo. Tutte le volte che erano usciti aveva sempre preferito la comodità dei jeans e delle scarpe da ginnastica.

«Grazie, Marco» rispose arrossendo mentre afferrava la borsetta da una sedia nell’ingresso. «Cinema?» chiese lui camminando già in quella direzione. «Va bene. Se proprio insisti...». Durante il tragitto Marco descrisse le ragazze degli amici e poi, senza nemmeno accorgersene, finì per addentrarsi in argomenti seri e parlare del loro futuro. «Allora Lucia, hai pensato a cosa fare dopo l’ultimo anno di liceo?». «Non lo so ancora. Mi piacerebbe andare a fare l’Accademia delle Belle Arti a Firenze. Dicono che sia molto rinomata». Firenze suonò alle orecchie di Marco come una città lontanissima. «Tu invece, cosa vorresti fare? Cioè voglio dire, hai mai pensato a un’alternativa nel caso non riuscissi ad arrivare in Serie A?» gli chiese rendendosi però immediatamente conto di non aver fatto una gran bella domanda. «Non succederà mai, ne sono sicura, però se dovesse capitare…» aggiunse cercando di rimediare. «Ci ho pensato molto in questi giorni» rispose lui senza essere minimamente turbato. «Con le partite che sono andate male all’inizio, ho avuto modo di riflettere su cosa potrei fare da grande in alternativa al calciatore. Credo che mi piacerebbe rimanere nell’ambito dello sport e quindi non scarterei l’ipotesi di iscrivermi a scienze motorie e studiare per diventare allenatore». «È un’ottima idea» commento Lucia. «Cioè, sempre come seconda ipotesi intendo. Ti ci vedrei proprio ad allenare dei ragazzini. Dovresti provare a fare l’insegnante nelle scuole, avresti un sacco di tempo libero. Potresti lavorare in classe la mattina e sui campi da calcio il pomeriggio». Marco annuì, ma nella sua testa ripensava a quello che le aveva detto a proposito dell’Accademia di Firenze. Per un attimo provò di nuovo quel fastidioso senso di inferiorità. Lui stava ancora cercando di capire come gestire la sua vita, mentre lei aveva già le idee chiare ed era pronta a trasferirsi in un’altra città. Lo diceva con una tale spontaneità che sembrava che non le pesasse affatto l’idea di doversi riambientare in una realtà completamente diversa da quella in cui viveva.

A lui invece i grandi cambiamenti non piacevano affatto, anzi, lo destabilizzavano parecchio. Preferiva rimanere tranquillo nella sua routine quotidiana fatta di scuola, amici e allenamenti. Probabilmente aveva bisogno di tenere la sua vita sotto controllo. L’unica volta che aveva vissuto un grosso cambiamento ne era rimasto quasi travolto. La morte della madre era stato un duro colpo e dover riorganizzare tutto insieme al padre non era stato affatto semplice. «Ho detto qualcosa di sbagliato?» chiese Lucia vedendolo così assorto nei suoi pensieri. «No, no, scusa, stavo solo pensando…». «Pensando a cosa? Alla carriera?». «Pensando che se tu vai a Firenze faremo più fatica a vederci» rispose guardandola dritto negli occhi. Lucia rimase interdetta per qualche secondo. Non si sarebbe mai aspettata di vederlo preoccupato per la lontananza. Non pensava neppure che avesse preso sul serio il fatto che si stessero frequentando di nuovo. «Dico così, ma poi bisogna vedere se ci riesco ad andare…». «Perché non dovresti?». «Devo ancora sentire il parere dei miei e poi c’è l’esame di ammissione… Non è neppure detto che io riesca a arlo». «Sicuro che lo i. Ti conosco troppo bene: quando si tratta di studiare riesci sempre a ottenere ciò che vuoi». «E comunque non è detto che non ti debba trasferire anche tu. Se una squadra di Serie A ti fe una proposta potresti finire ovunque» disse ridendo. Marco pensò alle sue parole e gli si raggelò il sangue nelle vene. Effettivamente non aveva mai considerato il suo avanzamento di carriera da quel punto di vista e la cosa non gli piacque affatto. Il suo viso si fece serio e senza nemmeno accorgersene la sua mente cominciò a pensare a tutte le possibili città in cui sarebbe potuto capitare.

«Non roviniamoci la serata però... Ci penseremo quando sarà il momento» disse lei stringendosi al suo braccio. «A proposito di genitori, con tuo padre come va?». Si ricordava che aveva dei problemi a relazionarsi con lui. L’estate scorsa si era confidato apertamente e le aveva raccontato tutto. Le parlò di come era cambiato in seguito alla morte della madre e come si fosse chiuso in se stesso dedicandosi esclusivamente alla carriera. «Sempre uguale, non è cambiato molto dall’anno scorso...». «Sarà pure fiero di te? Vedere che hai delle buone possibilità per are in Serie A lo riempirà pure di orgoglio» disse incoraggiante Lucia. «Sì, credo di sì, o almeno lo spero. Il fatto è che tutta questa aspettativa mi crea una gran ansia. Voglio dire, se poi non vado da nessuna parte, mi considererà ancora un figlio degno del suo nome? Poi sai com’è fatto lui, va a parlare con Tizio e Caio, chiede piaceri a destra e sinistra. A volte mi chiedo se abbia più fiducia in me o nelle persone che mi potrebbero dare una mano…». «Ma no, cosa dici. Certo che ha fiducia in te. E il fatto che si prodighi così tanto per agevolarti in tutte le maniere possibili è il suo modo per dirti che ti stima». «Sarà come dici tu, ma ogni volta che parliamo finisce sempre che è lui che decide e io non riesco mai a esprimere quello che penso veramente». «È così un po’ per tutti. Anch’io ho sempre paura di dire qualcosa che non vada bene ai miei genitori. A volte mi pesa il loro giudizio e vorrei che non mi contraddicessero mai. Anche se mi scoccia ammetterlo, lo so che se fanno così è solo per il mio bene…». Marco rimase ad ascoltarla in silenzio e si rassicurò nelle sue parole. Almeno sapeva di poter contare su qualcuno che lo stava ad ascoltare veramente. Quando arrivarono davanti all’entrata del cinema Luca e Alessandro erano già arrivati e stavano chiacchierando con le ragazze. Anche quella volta Chiara non era venuta. «Federica, Silvia, questa è Lucia, la ragazza di Marco» disse Alessandro occupandosi delle presentazioni.

«Piacere» rispose lei stringendo le mani delle ragazze rossa come un peperone. Federica e Silvia ricambiarono il saluto e poi si diressero verso la biglietteria. Il film stava per iniziare e volevano essere sicure di trovare un angolo del parco ancora libero. «iamo prima dal bar» propose Federica mostrando l’enorme coperta che si era portata da casa. I ragazzi fecero incetta di liquirizie, popcorn e coca cola. Poi trovarono un posto sotto un salice piangente e si accomodarono sull’erba pronti per vedere Mi presenti i tuoi. «È un sequel, vero?» chiese Lucia per rompere il ghiaccio con le altre ragazze. «Sì, è il continuo di Ti presento i miei. Dovrebbe riguardare l’incontro delle famiglie di quella coppia che nel film precedente aveva fatto un gran casino con i genitori di lei» rispose Federica mentre sistemava la coperta. I ragazzi si sdraiarono sotto l’albero giusto in tempo per l’inizio del film. Ogni coppia sprofondò con la testa negli enormi cuscini e rimase abbracciata per tutta la durata della proiezione. Alessandro si divertì a stuzzicare di tanto in tanto Silvia mentre Federica e Luca condivisero qualche sigaretta. Marco si dimenticò dei discorsi tristi fatti prima e si godette la compagnia di Lucia apprezzando l’ilarità del film più sulle pieghe del suo sorriso che sullo schermo del cinema. Quando il film terminò, Alessandro aveva già in mente di andare a prendere un gelato e fare una eggiata nel bosco come la prima volta che si erano incontrati. Essendo quella l’ultima notte che avrebbe ato con Silvia, voleva salutarla nel modo più ionale possibile. Marco e Luca concordarono per il gelato, ma declinarono l’invito nel bosco. Luca era già stato invitato da Federica ad andare nella sua dependance, mentre a Marco non sembrò il caso di portare Lucia nel bosco. Dopo il gelato le tre coppie si salutarono e si divisero. Alessandro sparì con Silvia fra le fronde, mentre Marco e Luca riaccompagnarono le rispettive ragazze a casa.

Capitolo XX Il weekend di libertà trascorse in fretta e i giovani calciatori ebbero tutto il tempo per riposarsi e arrivare carichi alla seconda fase del trofeo. Silvia e Federica avevano fatto rientro a Imola e Alessandro e Luca non avevano più nessun motivo per fare tardi la sera. La settimana dei quarti di finale e delle semifinali fu intensa e ricca di sorprese. Lunedì mattina il Pescara ò il turno e martedì la Roma riuscì a battere il Lecce. Mercoledì il Vicenza sconfisse il Parma e giovedì il Forlì stracciò il Livorno. Luca, Marco e Alessandro erano felicissimi del risultato e l’allenatore stesso si complimentò per l’eccezionale performance dei ragazzi che segnarono brillantemente quattro goal lasciando gli avversari a quota zero. La squadra sembrava aver ritrovato il vigore e la compattezza di una volta. Le quattro squadre che composero il tabellone delle semifinali furono dunque il Vicenza che doveva giocare contro la Roma il sabato e il Forlì che se la doveva vedere con il Pescara la domenica. Le partite furono seguite da moltissimi spettatori e le prime file si riempirono di giornalisti e cameramen intenti a immortalare l’evento. Domenica mattina Alessandro, Marco e Luca non sapevano se essere più agitati per la propria partita o per la vittoria che il Vicenza aveva ottenuto contro la Roma il giorno prima. Come da pronostico, la squadra più temuta era ata in finale e, se il Forlì avesse vinto, avrebbe dovuto inevitabilmente incontrarla il martedì successivo. Durante la colazione la tensione aveva ammutolito i ragazzi a tal punto che gli unici rumori che si sentivano al loro tavolo erano quelli delle posate tintinnanti sui piatti di ceramica. La partita sarebbe iniziata verso le undici e tutti stavano aspettando che l’allenatore dicesse qualcosa per rompere il pesante silenzio. «Ragazzi, vi voglio trovare pronti nell’atrio fra quindici minuti» disse il mister alzandosi improvvisamente da tavola. I ragazzi si bloccarono di colpo e, annuendo con la testa, lo fissarono per essere

sicuri di cogliere ogni sua parola. «Nonostante le difficoltà incontrate all’inizio, siamo riusciti ad arrivare in semifinale con ottimi risultati, quindi mi aspetto il massimo da voi anche oggi» aggiunse fissandoli negli occhi uno ad uno. I ragazzi annuirono di nuovo senza aprire bocca e osservarono l’allenatore sparire fuori dalla sala da pranzo. «Marco, io e Luca andiamo un attimo su in camera» disse Alessandro alzandosi di scatto facendo strisciare rumorosamente la sedia sul pavimento. «Ti dobbiamo portare giù qualcosa?». «No, non mi serve niente. Fate presto però, fra poco dobbiamo andare». Alessandro e Luca in un attimo uscirono dalla sala e si precipitarono su per le scale verso la camera. «Chiudi la porta per sicurezza» disse Alessandro correndo verso l’armadio. «Dai sbrigati con quella roba» disse Luca che si sentiva in ansia tutte le volte che prendeva le pillole. «Shhh! Parla piano». «Ma non c’è nessuno». «È lo stesso, non si sa mai. Metti che qualcuno i dal corridoio e ci senta...». Luca guardò la porta e in quel momento si sentì in tensione come un ladro in procinto di rubare qualcosa. «Non mi hai mai detto perché sono di colore diverso». «Perché sono due cose diverse». «Cioè?» insistette Luca allungando la mano verso uno dei due flaconcini per leggere l’etichetta. «Queste bianche sono stimolanti mentre quelle rosse…».

Luca non lo lasciò finire di parlare che iniziò a leggere a voce alta l’etichetta di quelle rosse. «Epozine 01 NZ, che cavolo è?» si chiese girando la confezione per leggere sul retro la descrizione del prodotto. «Serve per aumentare la resistenza fisica e la massa muscolare» disse Alessandro sommariamente per dargli una spiegazione veloce. «Qui dice anche che espande il plasma sanguineo e aumenta i livelli di eritropoietina» aggiunse Luca strizzando gli occhi per mettere a fuoco le frasi scritte in piccolo. «Cosa cavolo è l’e-r-i-t-r-o-p-o-i-e-t-i-n-a?» chiese all’amico rileggendola tre volte per pronunciarla correttamente. «Favorisce la produzione di globuli rossi. Serve per ossigenare di più i muscoli. Stai tranquillo, è un ormone che produce il nostro corpo normalmente. Noi semplicemente ne aumentiamo un po’ la quantità per migliorare la prestazione dei nostri muscoli». «Allora cosa prendiamo a fare le altre pillole se queste svolgono più o meno la stessa funzione?». «Non sono proprio la stessa cosa. Il discorso è lungo e me l’aveva spiegato il tipo che me le ha vendute. Comunque non ti preoccupare, non sono steroidi o cose pesanti. È roba leggera e non ha effetti collaterali se usate per il verso». «A me sembra tutta robaccia. Io le prendo fino a martedì e poi con sta storia ho chiuso» ribadì per l’ennesima volta Luca, come atto scaramantico per scongiurare ogni possibile complicazione. «Tranquillo, anch’io farò lo stesso. Solo per questo benedetto trofeo e per Marco» replicò Alessandro versandogli le pillole sul palmo della mano. Luca ingurgitò le pasticche e seguì l’amico giù per le scale verso l’ingresso dell’albergo. «Noi siamo pronti» disse Alessandro tutto eccitato rivolgendosi ai compagni già in fila nell’atrio con i borsoni in spalla. «Ragazzi, oggi glielo facciamo vedere noi a quelli del Pescara con chi hanno a

che fare» aggiunse Luca che smaniava dalla voglia di iniziare la partita. «Vedo che partiamo con lo spirito giusto» commentò l’allenatore. «Vedete però di dilazionare tutta questa energia nei novanta minuti di gioco». «Mister, non c’è problema. Oggi li stracceremo e arriveremo in finale» dissero Luca e Alessandro quasi all’unisono. Marco e i compagni di squadra si misero a ridere e, caricati dai loro incitamenti, si diressero fiduciosi verso il campo da gioco. Il cielo era terso e una leggera brezza di maestrale teneva lontana l’afa estiva. Le tribune erano già piene di spettatori e le televisioni locali stavano annunciando l’inizio della gara ricapitolando le eliminazioni precedenti ed elencando le squadre rimaste in gioco. Luca e Alessandro si sentivano pieni di energie e non vedevano l’ora di sfogare l’adrenalina in campo. Il cuore batteva a mille e un senso di eccitazione impediva loro di stare fermi. Alessandro camminava avanti e indietro nello spogliatoio guardando fuori dalle finestre la folla sugli spalti, mentre Luca saltellava sul posto pugnando all’aria con i guanti già infilati. Quando scesero in campo si allinearono di fronte alla squadra avversaria e aspettarono la fine del discorso del sindaco per distribuirsi nelle rispettive metà campo. L’arbitro suonò il fischio d’inizio e il Forlì partì immediatamente all’attacco deciso di non fare durare la partita più di novanta minuti. Dopo una prima fase di assestamento per conoscere gli avversari, quasi tutto il primo tempo fu giocato nella metà campo avversaria. Alessandro segnò il primo goal da fuori area e insieme ai compagni mantenne il vantaggio per i primi quarantacinque minuti. Il Pescara però non si fece demoralizzare dalla partenza in salita e, ritornato dagli spogliatoi con un paio di sostituzioni, fece sentire la sua voglia di lottare al sessantacinquesimo minuto. Luca, rimasto scoperto per la difesa troppo lenta nel rientro in area, fu costretto a subire il goal del pareggio. Da quel momento la partita si fece più impegnativa ed estenuante del previsto. Il gioco si bloccò a metà campo e il risultato rimase invariato fino al fischio finale. Con grande disappunto dei giocatori del Forlì e del loro allenatore, si dovevano giocare i tempi supplementari.

«Ragazzi, non ci siamo» urlava l’allenatore camminando nervosamente su e giù per lo spogliatoio con le mani nei capelli. «Siete andati a gonfie vele i primi quarantacinque minuti e poi nel secondo tempo ho visto un calo di prestazione esagerato. Che cavolo vi è ato per la testa? Pensavate che un solo goal fosse sufficiente per garantirvi la vittoria? Adesso vi toccano i supplementari e cercate di chiuderla lì ed evitare i calci di rigore. Marco e Alessandro a parte, sapete benissimo che con quelli non ce la caviamo molto bene». I ragazzi ascoltavano le parole dell’allenatore seduti a testa bassa sulle panche dello spogliatoio cercando di recuperare fiato ed energie. Marco e Alessandro commentavano fra di loro gli errori commessi in campo, mentre Luca rimproverava se stesso per non essere riuscito a parare il goal del pareggio. L’allenatore stava continuando a parlare e, gesticolando, cercava di trovare la soluzione migliore per rendere il gioco più fluido e scattante. I ragazzi gli sembravano troppo lenti e, più si avano la palla avanti e indietro, più davano il tempo agli avversari di raggiungerli per marcarli stretti. L’unica strategia che poteva funzionare era quella di fare aggi lunghi e veloci che arrivassero in fretta nella metà campo avversaria. Da lì non sarebbe stato difficile per Marco e Alessandro raggiungere rapidamente la porta, dato che erano gli atleti fisicamente più prestanti e con il o molto veloce. Quando furono richiamati a scendere in campo, Alessandro e Luca uscirono per ultimi dallo spogliatoio per mettere mano nel borsone e ingurgitare una seconda dose di Efedrina. «Direi che per questa volta possiamo fare un’eccezione e prenderne un paio in più» disse Alessandro che voleva essere ancora più reattivo e concentrato. «Voglio vedere se questa volta quei fetenti hanno il coraggio di entrare ancora in porta» commentò Luca strisciandosi la tovaglietta sulla fronte per asciugare l’abbondante sudorazione. Durante i tempi supplementari fu il Pescara a segnare il secondo goal con un tiro dai venticinque metri che, prendendo la traversa nella parte interna, entrò dritto come un fuso al limite della riga di demarcazione della porta. Luca, convinto che la palla sarebbe finita oltre la traversa, la vide invece cadere velocissima dietro la schiena e non ebbe il tempo di reagire per cercare di bloccarla. L’allenatore a bordo campo era sconcertato. Ci vollero un paio di minuti di

discussione con l’arbitro per capire se il pallone fosse entrato effettivamente dentro, ma la sua ultima parola confermò il vantaggio del Pescara. I primi dieci minuti erano già ati e la tensione salì alle stelle nella metà campo forlivese. L’occasione del pareggio venne fuori al quindicesimo minuto quando Marco ricevette un lancio lungo e in contropiede tirò dai quindici metri una diagonale che fece entrare il pallone appena sotto l’incrocio dei pali. L’arbitro in quel preciso istante fischiò il cambio campo. La partita era di nuovo aperta. La seconda parte dei supplementari vide il Forlì dominare il campo con Alessandro che provava il tiro da ogni angolazione e Luca che riusciva a parare con scatti atletici ogni tentativo avversario. All’undicesimo minuto Marco segnò il goal decisivo che li mantenne in vantaggio fino alla fine. Esausto dalla velocità di gioco e dalla lunghezza della partita, il Pescara aveva finito per cedere subendo il goal della sconfitta per mano di una delle ali avversarie. Quando l’arbitro fischiò la fine, un boato di esultanza animò gli spalti dove la gente in piedi applaudì entusiasta la vittoria della squadra locale. Le trombette da stadio suonarono rumorosamente costringendo il sindaco ad aspettare diversi minuti prima di poter annunciare al microfono la vittoria del Forlì e il suo aggio in finale. In campo tutti i compagni di Marco gli corsero incontro e lo sommersero di abbracci per festeggiare il tiro della vittoria. Alessandro e Luca erano i più eccitati di tutti e, prendendolo per le braccia e per le gambe, lo fecero saltare ripetutamente in aria. L’allenatore si lasciò andare a gesti incontenibili di gioia per poi ricomporsi subito dopo per le interviste di routine con i giornalisti e le televisioni locali. «Hai visto, Luca? Una botta in più e in campo abbiamo fatto miracoli» disse Alessandro nell’orecchio dell’amico mentre tornavano negli spogliatoi. «Alla grande» rispose Luca battendo il cinque. «Ragazzi, me l’avete fatta proprio sudare questa partita» disse l’allenatore che era esausto come se avesse corso lui per tutto quel tempo. «Bravi tutti quanti, davvero. Avete chiuso la partita proprio bene» aggiunse soddisfatto. I ragazzi erano troppo eccitati per stare in silenzio ad ascoltare le sue parole. Le urla di gioia e gli sportelli degli armadietti che sbattevano rumorosamente rimbombavano nello spogliatoio come se fossero in una cassa armonica. «Ci vediamo dopo in albergo. Vado a finire di parlare con i giornalisti» disse il

mister pur sapendo di non essere ascoltato da nessuno. I commenti sulla partita continuarono sotto le docce e il brusio diminuì gradatamente man mano che i ragazzi uscirono dallo spogliatoio. Come al solito Marco, Luca e Alessandro furono gli ultimi ad andarsene. «Allora Marco, sarai pur soddisfatto dei goal che hai fatto? Di sicuro non sei ato inosservato» disse Alessandro dandogli una pacca sulla spalla. «Spero che Mario Ferri sia venuto a vedere la partita. Oggi è stata sicuramente una buona occasione per mettere in mostra le mie qualità. Speriamo che tutta questa fatica non vada sprecata». «Vedrai che c’era. Avete visto com’erano pieni gli spalti? Non mi ricordavo una roba così l’anno scorso» aggiunse Luca. «Era così, era così. Solo che l’anno scorso non siamo arrivati in finale e non ci abbiamo fatto caso più di tanto. Lo sai che i media arrivano soprattutto alla fine del trofeo. Quest’anno siamo famosi» disse Alessandro pavoneggiandosi come un divo della televisione. «Raga, fate silenzio un attimo, mi sta chiamando mio padre». «Ohhh...» bisbigliarono Alessandro e Luca in coro. «Se il papi chiama dopo la vittoria ci sono buone notizie» aggiunse Alessandro. «Shhh, per favore» disse Marco sottovoce. «Pronto, papà?». «Ciao figliolo. Complimenti per la vittoria e i bei goal che hai fatto» disse il sindaco con tono compiaciuto. «Grazie, papà. È stata dura, ma ce l’abbiamo fatta». «È stata dura, ma ne è valsa la pena. Ho seguito tutta la partita accanto a Mario Ferri e dalla sua espressione direi che è rimasto soddisfatto». «Ti ha detto qualcosa di me?» chiese precipitoso Marco. «Non ancora. Finita la partita sono dovuto andare al microfono e non ho avuto modo di parlargli apertamente, ma credo che nei prossimi giorni ci sentiremo. Se

poi vincerete il trofeo e ti farai notare segnando come hai fatto oggi, credo proprio che ci potrebbe scappare qualcosa di grosso». «Davvero? Sarebbe fantastico». «Sì, sì, fai conto però che non ti abbia detto niente e non montarti la testa. C’è ancora una partita da disputare: vedi di giocartela bene». «Alla grande, pà, stanne certo» concluse Marco chiudendo la conversazione. «Allora? Buone notizie dal papi?» chiese curioso Alessandro. «Forse. Me la devo giocare bene martedì». «Allora in bomba anche per la finale» commentò Alessandro lanciando un’occhiata d’intesa a Luca. «Gli facciamo il culo al Vicenza» replicò Luca facendo il gesto con le mani. «Raga, io scappo, ci vediamo in albergo fra un’oretta». «E adesso dove te ne vai?» chiese Alessandro conoscendo già la risposta. «Ci dovrebbe essere Lucia fuori ad aspettarmi. Vado a farle un saluto…». «Vai a prenderti il bacio della vittoria, eh?» replicò Alessandro sgomitandolo sulle costole. «Sì e allora, geloso?» rispose Marco pugnandolo per gioco. Alessandro e Marco lottarono qualche istante e poi si abbracciarono con Luca che saltò loro addosso chiudendo così il cerchio della loro amicizia. Quando Marco raggiunse le tribune dello stadio, la folla se ne era quasi tutta andata. Con lo sguardo fece il giro delle sedie centrali per cercare di individuare Lucia fra i pochi presenti rimasti. Camminò lungo la parte alta per avere una visuale più completa e la ritrovò non molto lontana dalla prima porta di accesso degli spettatori. Seduta a gambe incrociate con i gomiti appoggiati alle ginocchia, sorreggeva il solito libro fantasy nella cui lettura si era totalmente immersa. Marco si avvicinò in punta di piedi e le afferrò le spalle da dietro per

farle paura. «Ma sei matto?! Mi hai fatto venire un colpo» disse lei facendo un salto sul seggiolino e lasciando cadere il libro a terra. «Scusa, volevo solo farti una sorpresa» rispose lui facendo il finto tonto. Con un balzo atletico in avanti, si chinò sul pavimento e le raccolse il libro. «Scemo» replicò lei sorridendo e strappandoglielo dalle mani. Marco la guardò qualche istante negli occhi, poi la tirò a sé e le diede un profondo bacio. Lucia non oppose alcuna resistenza e, lasciandosi trasportare dall’emozione, chiuse gli occhi e assaporò le sue dolci labbra carnose. «Congratulazioni per la vittoria» gli disse scollandosi dalla sua bocca per riprendere fiato. «Grazie. È stata dura, ma ce l’abbiamo fatta». «Ho visto magari. Sono rimasta con il cuore in gola per tutto il tempo». «E per fortuna abbiamo evitato i rigori. Altrimenti non credo proprio che ce l’avremmo fatta…». «Comunque sia, l’importante è che siate in finale. Contro chi giocherete?». «È qui che viene il bello. Giocheremo contro il Vicenza. È la squadra più forte del torneo e se l’abbiamo evitata fino adesso è stato solo per buco di culo». «Sono sicura che andrà bene. Me lo sento, quest’anno è il vostro anno». «Speriamo, ma te lo assicuro: sarà davvero una gara dura». «Stasera cosa fai? Hai degli impegni?» azzardò Lucia sperando di poter are un po’ di tempo con lui. «Stasera c’è la consueta cena di augurio per la finale al ristorante. Sarà presente anche mio padre per fare il discorso alle due squadre finaliste. Speriamo che sia veloce e soprattutto che non mi prenda da parte. Odio quando si ferma a parlarmi in pubblico: mi sembra che tutti mi guardino male e pensino che io sia il solito

raccomandato». «Non dire sciocchezze, avrà anche lui il diritto di parlare con suo figlio, no?». «Sì, ma io mi sento a disagio, quindi spero che venga a fare il suo discorso e poi se ne vada subito». «Così prima finirai prima sarai da me». Lucia strofinò con la mano la sua chioma riccia e guardandolo intensamente negli occhi lo baciò di nuovo. Era il suo modo affettuoso per dirgli di non preoccuparsi. Anche se il rapporto con il padre era complicato, quel giorno doveva rimanere di festa e niente e nessuno avrebbe dovuto rovinarglielo. «Che palle devo già rientrare in albergo» disse Marco dopo aver controllato l’orario nel cellulare. «Allora sarà meglio andare. Facciamo un pezzo di strada insieme?». «Ovvio» le rispose lui aiutandola a scavalcare la seggiola. Camminando mano nella mano raggiunsero il bivio che li avrebbe divisi. Lucia si voltò verso Marco per salutarlo e lui l’avvolse fra le sue braccia per darle un ultimo bacio. «A dopo allora» disse lui baciandola di nuovo. «A più tardi» rispose lei sfuggendogli dalle mani. Alessandro e Luca stavano aspettando Marco in camera. Dovendosi preparare per la cena ufficiale di presentazione della finale, avevano trafugato tutto l’armadio alla ricerca di qualcosa di elegante da mettere. «Cazzo, ho solo dei jeans strappati» disse Alessandro cercando di capire quali avessero i buchi meno vistosi. «Ti darei un paio dei miei, ma sei troppo grosso per entrarci dentro» disse Luca per prenderlo in giro. «Sì, infatti ce l’ho troppo grosso perché mi entrino i tuoi pantaloni» replicò

Alessandro impermalito. Luca lo lasciò borbottare e si infilò un paio di pantaloni color sabbia e una camicia bianca con le maniche arrotolate. «Ehi raga, eccomi qua» disse Marco aprendo la porta di colpo con il fiato ancora corto per la corsa. «Finalmente lo posso dire io “dai sbrigati che se no facciamo tardi”» disse Alessandro squadrando l’amico dalla testa ai piedi. «Sembra che sei andato a fare una maratona. Dì la verità: sulle tribune sotto il sole fa caldo fare certe cose...». Marco non gli rispose nemmeno e si precipitò in bagno per rinfrescarsi di nuovo sotto la doccia. Quando entrò nella stanza da letto frugò nei cassetti e indossò un paio di jeans scuri e una polo aderente marrone con i bottoncini aperti sul petto. «Maglietta da figo, stasera si esce» commentò Alessandro mentre si infilava una camicia a quadretti sottili sopra l’unico paio di jeans senza strappi evidenti. «Indovinato. Io però sono già pronto mentre tu sei ancora lì che ti devi mettere le scarpe». Marco era talmente euforico per la vittoria e l’incontro con Lucia che non riuscì ad aspettare gli amici. Dopo essersi dato un’ultima occhiata allo specchio, li salutò e raggiunse il resto della squadra nella hall dell’albergo. Luca e Alessandro finirono di prepararsi con calma e dopo pochi minuti furono pronti per uscire dalla stanza. In quel preciso istante il cellulare di Luca suonò. Era un messaggio di uno dei compagni. «Cazzo» esclamò Luca scorrendo il messaggio lungo il display. «Cosa?» chiese Alessandro. «Giacomo ha detto che ha sentito delle voci di sotto nella hall che dicevano che prima della finale ci potrebbero essere dei controlli anti doping». «Dove, qui a Spinello? Per questo stupido trofeo?». «Evidentemente» commentò Luca un po’ agitato.

«Ma chi perderebbe mai tempo e denaro per fare dei controlli a questi livelli? Sarà sicuramente una voce del cazzo che ha messo in giro qualcuno che non ha ato il turno». «E se fosse vero?». «Cazzo Luca, mi fai venire la paranoia anche a me». Luca non riusciva a staccare gli occhi dal cellulare e rileggeva ripetutamente il messaggio per controllare che non gli fosse sfuggito qualcosa. «Fammi vedere» disse Alessandro strappandogli il cellulare dalle mani. «Giacomo non è uno scemo. Se dice così deve aver sentito veramente qualcuno parlare di queste cose» insistette Luca. «Cazzo che palle. Fammi pensare» disse Alessandro portandosi una mano sulla fronte e girando su e giù per la stanza. Luca lo guardava in silenzio mentre l’agitazione gli aveva fatto accelerare i battiti cardiaci. «Facciamo così. Anche se sono sicuro che se ci fero dei controlli non troverebbero niente, per essere sicuri stasera prendiamo una doppia dose di diuretici. Pisceremo di più, ma tutto se ne andrà via diluito nell’acqua». «Sei sicuro che sia sufficiente?». «Già la dose che prendiamo tutti i giorni dovrebbe farci stare tranquilli. Noi però, per stare dalla parte del sicuro, da qui alla fine del trofeo ne prendiamo il doppio. Tanto sono diuretici, non fanno niente». «Okay, va bene» disse Luca precipitandosi verso l’armadio. Alessandro tirò fuori un paio di fiale a testa e in pochi secondi ne bevvero il contenuto. «Tranquillo, è tutto sotto controllo» disse Alessandro cercando di rasserenare l’amico. «Adesso andiamo però, se no finiranno per insospettirsi veramente».

Così dicendo Alessandro spinse le fialette vuote sotto l’immondizia nel bidoncino del bagno e lasciò la camera insieme a Luca.

Capitolo XXI Alle sette in punto la cena iniziò ad essere servita. «Ammazza come hanno addobbato bene» disse Luca impressionato dalla meticolosità delle decorazioni sui tavoli di ogni squadra partecipante. Le due sale interne avevano le tovaglie blu che sbordavano sotto i coprimacchia bianchi scendendo verso terra fino a coprire quasi interamente le gambe dei tavoli. Il colore era ripreso dai tovaglioli in tinta e dalle decorazioni di carta pendenti qua e là dal soffitto. Al centro della pizzeria, vicino alla finestra, era stato allestito il tavolo principale dove si sarebbe seduto il sindaco con gli allenatori di ogni squadra e i dirigenti della Lega Serie A. Sul lato corto della sala da pranzo e su quello della pizzeria erano stati appoggiati al muro due lunghi tavoli ricoperti da una tovaglia color avorio dove i camerieri avrebbero servito i dessert a fine pasto. «Il sindaco fa sempre le cose in grande» sussurrò Alessandro all’orecchio di Marco mentre si sedevano a tavola. «Zitto, idiota» rispose secco lui che non sopportava quando tirava in ballo il padre per prenderlo in giro. In poco tempo le due sale si animarono e le voci saturarono l’aria eliminando ogni attimo di silenzio. In ogni angolo si poteva sentire il tintinnare dei bicchieri sollevati per i brindisi, l’odore delle pietanze che venivano servite e l’atmosfera gioiosa che rendeva la serata piacevole e speciale. Nella veranda esterna i turisti avevano già riempito tutti i tavoli e, fra una chiacchiera e l’altra, curiosavano attraverso i drappeggi semi aperti delle finestre per cercare di intravedere, con un po’ di fortuna, qualche volto conosciuto. La porta a spinta comunicante con la cucina si aprì improvvisamente e, facendo oscillare avanti e indietro le due ante rumorosamente, annunciò l’entrata dei camerieri che a o sostenuto portavano fiamminghe cariche di affettati e formaggi stagionati. I pizzaioli, lavoravano a vista dietro al bancone, infornando una dietro l’altra le spianate che, insieme ai triangoli di piadina romagnola, si sarebbero ammucchiati nei cestini sopra i tavoli. I piatti dei partecipanti erano straboccanti di cibo variegato e i calici di fronte ad essi erano colmi di vino rosso

delle aziende vinicole locali. Tutti erano a sedere a godersi il pasto luculliano, tutti tranne il sindaco che doveva ancora arrivare. Il sindaco in realtà fu uno dei primi a giungere al ristorante. Cercando di non farsi vedere da nessuno, entrò dalla porta di servizio della cucina e prese da parte il fratello per scambiare due parole. «Non vedi che sono impegnato adesso?» disse Alfredo mentre appoggiava un tegame pieno di ragù sul fuoco. «È urgente, ho bisogno di parlarti» rispose il sindaco fra i denti. Alfredo odiava essere interrotto nel pieno del servizio. Doveva cucinare per più di duecento persone e non aveva di certo tempo per le improvvisate del fratello. Si allontanò dai fornelli, aprì la cella frigorifera e tirò fuori alcuni sacchetti pieni di strozzapreti e tortellini. Quando vide che il fratello non aveva alcuna intenzione di cedere, mollò i sacchetti sul pianale dietro di sé e, tirando un sospiro di rassegnazione, si girò verso di lui. «Dai, sbrigati. Cosa mi devi dire di così importante che non puoi proprio aspettare?». «Ti devo chiedere un grosso favore» rispose il sindaco spingendo Alfredo nell’angolo vicino alla porta. «Come avrai saputo il Forlì è ato in finale e dovrà scontrarsi martedì mattina con il Vicenza. Dato che la squadra avversaria è la favorita e ha grosse possibilità di vincere, ti volevo chiedere se potevi dare un aiutino ai nostri mettendo fuori gioco le due punte del Vicenza». Alfredo non capiva. Il fratello bisbigliava sottovoce e fra i rumori della cucina pensò di essersi perso qualche aggio. I camerieri appoggiavano rumorosamente le fiamminghe vuote sul dove il lavapiatti le afferrava per arle sotto l’acqua corrente prima di metterle nella lavastoviglie. Il sottocuoco a voce alta dava il via ai vassoi pronti per essere serviti ai tavoli, mentre tagliava gli affettati che aveva sotto mano. Il tegame del ragù stava sobbollendo e quello dell’acqua era già pronto per cuocere la pasta. La cucina era un brulicare di persone indaffarate e ad Alfredo sembrava di aver già perso un sacco di tempo. «Santo cielo, gli antipasti sono stati quasi tutti distribuiti e devo ancora buttare

giù la pasta» disse a voce alta continuando a osservare l’andirivieni in cucina. «Hai capito cosa ho detto?» chiese il sindaco cercando di avere di nuovo la sua attenzione. «No, sinceramente non ho capito un fico secco di quello che hai detto e sono indietro con le ordinazioni». «È importante, Alfredo, è per tuo nipote. Puoi starmi ad ascoltare per due minuti?». Quando Alfredo sentì la parola “nipote” si girò serio verso il fratello e poi di nuovo verso la cucina. «Antonio, puoi prendere tu il mio posto per due minuti?». Il sottocuoco mugugnò qualcosa fra i denti, ma poi ubbidì. «Sbrigati però e sii conciso» disse guardando il fratello questa volta dritto negli occhi. «Per fartela breve, il Vicenza è una squadra forte e ho paura che i nostri non ce la facciano a vincere la finale. Per Marco è importante questo trofeo, è in ballo la sua carriera calcistica…». «Quindi? Cosa potrei mai fare io? Sono solo un cuoco...». «Dovresti versare il contenuto di questa nei piatti delle due punte avversarie» disse il sindaco estraendo dalla tasca una bottiglietta di Guttalax. «Cooosa?! Ma sei matto? Non ci penso proprio a fare una cosa del genere» rispose Alfredo spingendo il fratello fuori dalla porta per paura che qualcuno sentisse la conversazione. «Per favore Alfredo, te lo chiedo in nome della nostra parentela» insistette il sindaco. «E se lo scoprissero? Sarei un uomo rovinato. Guarda il locale com’è pieno. Finirei su tutti i giornali e addio reputazione».

«Non lo verrebbe a sapere nessuno. È una cosa che rimarrebbe solo fra me e te. Nessuno si insospettirà mai per un po’ di diarrea». «E se danno la colpa al mio cibo? Che figura ci faccio io?». «Non lo faranno. Se su duecento persone solo due stanno male, e per giunta due ragazzini, daranno la colpa a qualche schifezza che hanno mangiato per conto proprio. Dai Alfredo, non farti pregare. È per una buona causa, fallo per Marco». Per quanto Alfredo detestasse il modo di fare del fratello, non sapeva dire di no quando si trattava dell’unico nipote. Afferrò la bottiglietta del lassativo e la fissò per alcuni secondi. Sapeva che era una cosa sbagliata e in quel momento odiò il fratello per averlo messo nella condizione di dover fare quella scelta. Osservando la cucina dall’esterno pensò a cosa sarebbe potuto succedere se qualcuno l’avesse visto. L’idea di essere beccato gli aveva già fatto venire l’agitazione, ma l’immagine della vittoria del Forlì con il nipote che sollevava la Coppa Olimpia gli stringeva il cuore. «E va bene, lo faccio» disse nervoso infilandosi il lassativo nella tasca del grembiule. «Questo però è l’ultimo favore che mi chiedi e ricordati che lo faccio solo per Marco» precisò guardandolo con disprezzo. «Grazie, Alfredo, te ne sarò grato in eterno» disse il sindaco mettendogli una mano sulla spalla. «È la cosa migliore che potessi fare per tuo nipote. Vedrai, non te ne pentirai». «Sì, sì, certo» rispose freddamente Alfredo. «Adesso vattene però, ho un sacco di cose da fare e sono già indietro» disse rientrando in cucina chiudendosi la porta alle spalle senza nemmeno salutarlo. Il sindaco lo guardò allontanarsi e non aggiunse una parola. Aggiustandosi il nodo della cravatta e andosi una mano sui capelli per assicurarsi di essere in perfetto ordine, si allontanò dalla porta di servizio e rientrò da quella principale per fare il suo ingresso ufficiale. Alfredo tornò di corsa ai fornelli e continuò il suo lavoro. Mentre mescolava nervosamente il ragù per gli strozzapreti, ripensò a quello che si erano appena detti. Gli sembrava incredibile che gli avesse potuto fare una richiesta del genere. Sapeva che approfittava spesso della sua carica per chiedere favori

personali, ma versare del lassativo nei piatti di due ragazzini gli sembrò una cosa davvero spregevole. Quello però che lo infastidiva di più era il fatto che avesse usato il nipote per impietosirlo e farlo suo complice. Ripensando alla faccia tosta con cui gliel’aveva chiesto, mescolò ancora più nervosamente il condimento che ribolliva sopra il fuoco. Quando un guizzo di salsa schizzò sul grembiule, Alfredo si distolse da quei pensieri e si sforzò di concentrarsi sul suo lavoro. Versò gli strozzapreti nella pentola e con una spugna strisciò sul grembiule per levare i pezzetti di sugo rimasti attaccati. In quel momento sentì il Guttalax in rilievo dentro la tasca. Con una mano la scostò leggermente e ritrovò la bottiglietta appoggiata sulla cucitura. Si guardò intorno, spostò lo sguardo sul pentolone del sugo per poi ritornare sulla bottiglietta subito dopo. Pensando su quale cibo versare il lassativo, realizzò che la soluzione migliore fosse proprio il condimento della pasta. In mezzo al ragù e alla panna si sarebbe camuffato perfettamente. Rimaneva solo una questione da risolvere: fare in modo che i due piatti “contaminati” arrivassero a destinazione. Il fratello nella fretta si era dimenticato di dirgli chi fossero le due punte. Alfredo scosse la testa e lo detestò ancora di più: già non gli piaceva il fatto di dover sottostare alle sue regole, che in più doveva perdere tempo per capire chi fossero i due ragazzini. Per un istante pensò che quella avrebbe potuto essere la scusa buona per tirarsi indietro, ma l’idea di aver a che fare con il fratello infuriato lo fece desistere immediatamente dall’intento. Per come lo conosceva, avrebbe potuto legarsela al dito e mandargli il locale alla malora. Era talmente risoluto nelle sue decisioni che nessuno poteva permettersi di contrastarlo. E comunque si trattava pur sempre del futuro di Marco e Alfredo avrebbe preferito mille volte essere lui ad incassare il colpo piuttosto che vedere il nipote mortificato. Dirigendosi di fretta verso la sala, spinse un’anta quel tanto che gli bastava per uscire con la testa e cercò di individuare il fratello fra i tavoli. «Un applauso al cuoco che ci delizia con le sue prelibatezze» disse improvvisamente il sindaco ad alta voce vedendo il fratello sul ciglio della porta. Gli ospiti si girarono verso di lui e applaudirono all’unisono. Alfredo diventò paonazzo. In quel momento avrebbe voluto uccidere il fratello. Il sindaco con disinvoltura si avvicinò, gli mise un braccio dietro alle spalle e incitò i presenti a prolungare l’applauso. «I ragazzi sono quelli con la maglia verde e nera nel tavolo in fondo a sinistra»

gli bisbigliò nell’orecchio. Poi, con la stessa disinvoltura con la quale lo aveva raggiunto, si allontanò e si andò a sedere al suo posto. Alfredo accennò un saluto per non sembrare maleducato e sparì in cucina più arrabbiato che mai. Ricordandosi degli strozzapreti nel tegame, si precipitò sui fornelli per assicurarsi di non averli fatti scuocere. Mentre con una mano li sporzionò sui piatti, con l’altra si tastò il grembiule per controllare che la bottiglietta fosse ancora al suo posto. «Mario, vieni qui un attimo» disse al cameriere appena rientrato in cucina. «Sei tu quello che serve la sala da pranzo, vero?». «Sì, perché?». «Servi il tavolo in fondo a sinistra per ultimo. Quando hai fatto con tutti gli altri fammelo sapere». «Okay, Chef, come vuole lei» obbedì il cameriere prendendo in mano i piatti che erano già stati conditi. Alfredo riempì due piatti e li mise da parte. Il cuore gli batteva forte nel petto e la fronte aveva iniziato a sudare. Dopo aver controllato che nessuno lo stesse osservando, mise la mano in tasca, aprì la bottiglietta tenendola bassa vicino ai pomelli della stufa e con un gesto repentino ne versò il contenuto sul sugo. «Chef, mi servirebbero un paio di strozzapreti bianchi» disse Mario correndo verso di lui. Alfredo, preso alla sprovvista, si fece prendere dal panico e si girò di scatto di schiena. «Te li faccio subito» rispose facendo finta di rovistare fra i contenitori delle spezie sulla mensola. Non sapendo dove mettere la bottiglietta vuota e per paura che la vedesse, la nascose dietro al barattolo del curry. «Dopo questi inizio con il tavolo di sinistra» aggiunse Mario.

«Okay» rispose Alfredo girandosi verso di lui e sforzandosi di rimanere imibile. «Quei due piatti lì in fondo sono per il ragazzo con la camicia nera e quello con la maglietta verde. Ho messo la panna di soia perché sono intolleranti ai latticini. Non ti sbagliare». «Non c’è problema, porto questi e quando torno li servo subito». Alfredo annuì e sempre agitato si concentrò sui tortellini. Andò nel frigo, prese il burro e la salvia e chiese al sottocuoco di aiutarlo a distribuirli nei piatti. «Dieci tortellini per piatto, un quadretto di burro e la guarnizione con tre foglie di salvia». Scolò i tortellini, appoggiò lo scolapasta pieno accanto al fornello e iniziò a impiattare. «Chef, c’è un problema» disse a voce alta Mario di ritorno dalla sala. «Cosa c’è?» chiese allarmato Alfredo girandosi immediatamente verso il banco dei piatti pronti. Vedendo che i due messi da parte non c’erano più, gli venne il panico: forse i ragazzi si erano accorti che la pasta aveva qualcosa di strano. «I due piatti con la panna di soia…» disse Mario. Il cuore di Alfredo gli esplose nel petto. Lo avevano scoperto. Era un uomo finito. «Che problema c’è con quei due piatti?» chiese cercando di non far trasparire l’agitazione. «Non ci sono più. Li stavo per prendere adesso, ma credo che Stefano mi abbia anticipato. Probabilmente non si è accorto che erano stati messi da parte e li ha serviti in pizzeria. Dovrebbe farne altri due, se per lei non è un problema». «No, assolutamente, te li faccio subito» rispose sforzandosi di mantenere la calma. «Aiuta Stefano a finire il giro con questi e quando torni troverai i piatti pronti per i due ragazzi».

Alfredo mise da parte due normalissimi piatti con il sugo pasticciato e fece finta che fossero con la panna di soia. La boccetta di Guttalax era ormai vuota e non avrebbe più potuto versarci il lassativo. Mentre finiva di sporzionare i tortellini con il sottocuoco, ricordò la faccia seria del fratello e si sforzò di pensare al modo migliore per dirglielo. Sapeva che sarebbe andato su tutte le furie e la cosa lo turbò a tal punto da farlo stare in ansia per tutta la durata del servizio. Forse sarebbe stato meglio non dirgli niente. Si ripeteva continuamente che avrebbe fatto meglio a non assecondarlo. Si sentiva un debole e uno stupido. Poi pensò al nipote e pregò che in finale vincesse il Forlì. Se si fosse aggiudicato il trofeo, tutto sarebbe andato liscio come l’olio e il fratello non l’avrebbe infamato. Rimaneva però un problema: sapere chi erano quei disgraziati che avrebbero ato la loro giornata sulla tazza del cesso. All’improvviso Alfredo realizzò che potenzialmente gli sfortunati potevano essere anche due giocatori del Forlì. Stefano serviva la pizzeria e la squadra di Marco era proprio lì come lo era il tavolo del sindaco, degli allenatori e dei dirigenti della Lega Serie A. E se i due piatti con il Guttalax fossero invece finiti a loro? In quell’istante Alfredo andò in totale paranoia. Se avesse chiesto a Stefano a chi avesse servito quei due piatti, probabilmente gli avrebbe risposto che non ne aveva idea. Ce n’erano talmente tanti sul banco che molto probabilmente non si accorse neppure che erano stati messi da parte. Non vedendo altra via d’uscita, l’unica cosa che poteva fare era sperare che Marco vincesse ugualmente e che il lassativo non causasse troppi problemi a chi se l’era beccato. A fine serata, quando ormai tutto il personale aveva abbandonato la cucina, il sindaco ritornò dal fratello per accertarsi che avesse agito secondo i suoi piani. «Allora, Alfredo, fatto tutto?» chiese portandogli di nuovo il braccio sopra le spalle. Alfredo deglutì e iniziò a tergiversare. Sentiva il braccio del fratello pesante e se lo immaginava già stretto intorno al collo se gli avesse detto la verità. «Sì, tutto a posto» gli rispose allontanandosi. Con la scusa di dover mettere alcune cose in frigo si svincolò dal suo abbraccio ed evitò di guardarlo negli occhi. «Bravo, Alfredo» replicò seguendolo per la cucina. «Martedì il nostro Marco realizzerà finalmente il suo sogno» aggiunse dandogli una pacca sulla spalla.

Alfredo sentì quel gesto pesante sul suo corpo e si sentì una merda. Guardava il fratello compiaciuto e si immaginava come sarebbe cambiata la faccia di Marco così pieno di speranze se non avesse vinto la finale. Non sapeva se essere più arrabbiato per aver scelto di stare al gioco del fratello o per non essere riuscito a portare a compimento il piano per aiutare il nipote. «Ragazzi, io scappo» disse Marco con il sorriso stampato sulle labbra mentre si alzava da tavola. «Divertiti con Lucia e non fare tardi» rispose malizioso Alessandro. Era un po’ invidioso del fatto che l’amico avrebbe ato un’altra serata con la fidanzata. Silvia era già partita da una settimana e quella sera non avrebbe fatto nulla di particolarmente interessante. Marco si lanciò fuori dal ristorante e, attraversando un paio di parchi su per la collina, raggiunse la zona residenziale dove abitava Lucia. Di fronte al cancello d’ingresso controllò di essere in ordine e avvicinò il dito al pulsante del camlo. Prima che potesse spingerlo completamente all’interno, vide il portone aprirsi e le luci dei lampioncini illuminare il vialetto: i genitori di Lucia stavano uscendo proprio in quell’istante. «Ciao Marco, entra pure, il cancellino è aperto» urlò la madre di Lucia da sotto il porticato. «Salve, signora» disse incrociandola a metà strada. «Salve» aggiunse subito dopo apostrofando il marito che non aveva mai visto. Il padre di Lucia lo squadrò per tutto il tempo che gli fu davanti fino a quando la moglie lo spinse oltre il cancello bisbigliando di farsi i fatti suoi. «Ciao Marco. Ho sentito da mia madre che eri arrivato. Urla sempre quella lì, non ci posso fare niente» disse Lucia a cavallo della porta. «Figurati! Piuttosto, questa volta sono riuscito a incrociare tuo padre, non l’avevo mai visto». «Sì, infatti. È raro trovarlo in casa, è sempre via per lavoro. Mi cambio e sono pronta» disse lei sparendo su per le scale.

Marco camminò lungo il corridoio ed entrò nel salotto. Curiosò un po’ in giro e, guardandosi attorno, ebbe modo di constatare che la casa era esattamente come se la ricordava. C’era il cotto per terra, i mobili erano di legno scuro e le finestre erano finemente adornate da lunghe tende ricamate color pastello. Nel salotto c’era il camino, il vecchio pianoforte a muro e il divano che percorreva due lati della stanza per interrompersi all’altezza della portafinestra. Per tutta la lunghezza della parete del camino si estendeva la libreria che traboccava di libri fino al soffitto. I volumi erano di tutte le dimensioni e si susseguivano lungo le mensole interrotti, a tratti, da qualche soprammobile o cornice di famiglia. Il lampadario era di cristallo, ma la luce soffusa proveniva dalla lampada di carta nell’angolo della stanza. Marco si sedette sul divano e sfogliò il libro di Lucia appoggiato sui cuscini. «Okay, possiamo andare» disse lei scendendo dalle scale. Quando Marco sollevò gli occhi dal libro rimase incantato dalla sua bellezza ancora una volta. Indossava un abito bianco con una fascetta dorata che lo stringeva sotto i seni per farlo scendere morbido sui fianchi fino alle ginocchia. I capelli erano raccolti con delle spille argentate e alcune ciocche le scendevano insieme alla frangetta lungo il viso minuto. Ai piedi un paio di sandali color argento aumentavano il tocco di luminosità facendo il giro attorno alla caviglia con un cinturino pieno di strass. «Cavolo Lucia, mi lasci sempre senza parole» disse Marco impressionato dall’eleganza. Lucia arrossì leggermente e gli si avvicinò. Sapeva che quel vestito era ancora meglio di quello nero che aveva indossato l’ultima volta. «Grazie, anche tu non sei niente male» gli rispose dandogli un bacio. «Allora, dove vuoi andare di bello? Considerando come sei vestita, dovremo trovare un posto che sia degno della tua bellezza» disse lui ancora estasiato. «Non saprei… usciamo e poi vediamo» rispose lei avvicinandosi di nuovo al suo volto. Marco non seppe resistere e la baciò profondamente. Le ò un braccio attorno alla vita e la strinse a sé delicatamente per non sgualcirle il vestito. Lucia gli

mise le mani fra i capelli e ricambiò quel bacio respirando intensamente il suo odore. «Possiamo anche aspettare un attimo, non c’è fretta» gli sussurrò lei all’orecchio. Marco la seguì verso il divano dove i due si sedettero guardandosi intensamente negli occhi. Lucia afferrò il primo bottone chiuso vicino al collo e iniziò a sbottonare tutta la fila per scoprire il petto muscoloso. «E se arrivano i tuoi?» chiese lui un po’ preoccupato. Gli era tornato in mente lo sguardo indagatore del padre sul vialetto e non voleva rischiare di averci a che fare in circostanze spiacevoli. «Non preoccuparti, i miei sono andati a cena con degli amici e non torneranno prima delle undici. Abbiamo tutto il tempo di questo mondo...». Marco lanciò la camicia sul pavimento e si lasciò accarezzare i pettorali nudi. Le mani di Lucia erano morbide e scivolavano sulla sua schiena premendo più forte ogni volta che le loro lingue si incrociavano. Marco tirò giù la zip del vestito e, infischiandosene di sgualcirlo, lo fece cadere sui fianchi di lei. I seni di Lucia erano davanti ai suoi occhi nudi e pronti per essere assaggiati. Marco leccò i capezzoli turgidi e scese fino all’ombelico adagiando Lucia di schiena sui cuscini. Sfilò il resto del vestito oltre i sandali d’argento e giocò con il perizoma di pizzo bianco insinuandosi con la lingua fra le cosce calde. Lucia allungò le braccia verso i suoi pantaloni e con le dita diede un colpo secco alla cintura per slacciarla insieme ai bottoncini della patta. «Non mi sono mai sentito così» le sussurrò Marco baciandole il collo. «Mi sei mancata Lucia, non ti lascerò andare via mai più». Lucia ebbe un sussulto al cuore e lo strinse ancora più forte a sé. Non avrebbe mai pensato di essere ancora così legata al suo Marco. Avrebbe voluto che quel momento fosse durato per sempre. Facendo scivolare il corpo di Marco lungo il suo lo accomodò fra le sue gambe e lo lasciò entrare dentro di sé. I due si amarono apionatamente ed entrarono in sintonia come se appartenessero l’uno all’altro. Non esisteva più il tempo, non esisteva più lo spazio intorno, solo i loro corpi e le loro anime che si fondevano

per essere una cosa sola. «Dobbiamo assolutamente trovare il modo per stare insieme» disse Marco accoccolandosi accanto a lei sul bordo del divano. «Troveremo il modo, te lo prometto» rispose lei chiudendo gli occhi e godendosi il momento. Quando Alfredo fece rientro a casa, senza nemmeno cambiarsi gli abiti da lavoro, si buttò sul divano, afferrò il telecomando e fece zapping per un buon quarto d’ora. Gli occhi osservavano ivi le immagini susseguirsi veloci a ogni cambio di canale, mentre i pensieri ritornavano continuamente alle parole del fratello. Immaginò due ragazzi del Forlì assenti dal campo per problemi di pancia, poi due dirigenti della Lega Serie A che non riuscivano a presenziare la finale del trofeo per lo stesso motivo. L’unico pensiero che lo fece sorridere fu l’idea che fosse il fratello stesso a essersi beccato il lassativo. Gli sarebbe stato proprio bene. L’ilarità dell’immagine svanì comunque pochi secondi dopo per la crescente preoccupazione di non sapere a chi fossero veramente toccati quei maledetti piatti. Continuando a tormentarsi senza un attimo di pace, Alfredo si consumò nella sua disperazione fino allo sfinimento. Alle due e trenta del mattino la frenetica attività cerebrale cedette il o al sonno che lo fece crollare accasciato sul divano. Era ata da poco la mezzanotte e in camera era buio pesto. Marco cercò di raggiungere il letto rimanendo a luci spente per non svegliare i compagni. Muovendosi a tentoni si levò i vestiti, li buttò su una sedia, afferrò il pigiama e si infilò sotto le lenzuola. Per qualche istante tese l’orecchio per assicurarsi che nel movimento non si fosse svegliato nessuno. Alessandro e Luca sembravano dormire come due sassi e la cosa lo stupì. Per la prima volta non era stato lui ad essere andato a letto prima degli altri. Quella sera si dovevano essere annoiati veramente tanto. Nel silenzio della stanza Marco ripensò alla splendida serata trascorsa con Lucia e alle promesse che si erano fatti. Nonostante fosse stanco morto per la lunga giornata, si sentì carico di energie per affrontare l’ultimo allenamento prima della finale. Abbracciando felice il cuscino si addormentò con l’immagine sorridente di Lucia come suo ultimo pensiero.

Capitolo XXII La sveglia continuò a suonare ininterrottamente per cinque minuti. Era Luca quello che dormiva vicino al comodino e di solito allungava la mano per spegnerla. Questa volta però non batté ciglio e costrinse Marco ad alzarsi per andare a staccarla. «Dai ragazzi, muovete quei culi dal letto. Avete anche dormito più di me» disse sbadigliando mentre si avvicinava alla finestra per sollevare la tapparella. Quando si girò verso i due amici lì trovò immobili sotto le lenzuola. Si avvicinò per primo a Luca e lo scosse. Niente da fare, l’amico sembrava non volersi alzare dal letto. Con una mano sollevò il lenzuolo e lo trovò a pancia in giù con la testa girata a sinistra vicino al braccio che spariva sotto il cuscino. Il volto era piuttosto pallido e la prima cosa che pensò fu che i due si fossero sbronzati la sera prima per la noia. Si avvicinò ad Alessandro, gli diede una scrollata premendo sulla sua spalla, ma neppure lui aprì gli occhi e gli diede udienza. Marco li fissò sconcertato e si spazientì. Era chiaro che i due avessero bevuto troppo e adesso non avessero la forza di alzarsi. «Dai raga» urlò dal bagno. «Per fortuna che ero io quello che doveva stare tranquillo e non fare tardi». Dalla camera nessuno rispose. «Se alle otto non siamo disotto, salteremo la colazione prima dell’allenamento» continuò aprendo il rubinetto del lavandino. Bagnò la faccia sotto l’acqua corrente, districò i capelli ando le dita umide fra i ricci e afferrò la tovaglietta per asciugarsi. «Ale, Luca, vi muovete o no?» disse con tono sempre più indignato. In quelle situazioni proprio non li capiva: a volte si comportavano come se ci tenessero a vincere il trofeo, mentre altre se ne infischiavano completamente preferendo disintegrarsi la sera. Non avevano mai una via di mezzo e non riuscivano mai a essere costanti. Se non altro, avrebbero potuto sforzarsi di essere in forma almeno gli ultimi due giorni della gara.

Ritornato in camera li chiamò di nuovo, ma nessuno rispose. I volti erano seri e i corpi immobili. Per un attimo pensò che stessero facendo finta di dormire e lo stessero prendendo in giro. Senza dire niente si avvicinò all’armadio, indossò la divisa e preparò il borsone. Ogni tanto si fermava e si girava di scatto per cercare di coglierli in fragrante. Luca e Alessandro però erano sempre fermi nella stessa posizione. Un po’ preoccupato Marco tornò di nuovo dagli amici e li controllò da vicino. Aveva paura che il troppo alcol li avesse fatti stare poco bene. Si avvicinò ad Alessandro e, accostando l’orecchio alla bocca per sentirne il respiro, si accorse che l’amico non stava respirando affatto. Sperando di essersi sbagliato, gli prese il braccio, lo fece ruotare su se stesso e lo rovesciò a pancia in su. Controllò di nuovo che respirasse, ma l’aria non usciva né dalla bocca né dal naso e la gabbia toracica era immobile. Preso dal panico gli mise prima una mano sul cuore e poi premette con due dita nel collo sulla carotide. Era talmente agitato per lo spavento che le palpitazioni del suo cuore non gli permettevano di distinguere i suoi battiti da quelli dell’amico. «Cazzo» urlò mentre si girava verso Luca pregando che almeno lui stesse bene. Quando si avvicinò al suo volto però, notò che un sottile filo di bava era uscito dalla bocca semiaperta e aveva inzuppato l’angolo del cuscino. Dopo averlo scosso senza successo, girò anche lui a pancia in su e ripeté tutte le operazioni. Il suo corpo era rigido e freddo. La pelle del viso era bianca e nel ruotarlo la bocca rimase aperta con la saliva che gli colava lungo il collo. Marco incominciò a sudare freddo e una sensazione di vertigini lo fece traballare. Ripetutamente chiamò i loro nomi e scrollò i loro busti sempre più forte come se il movimento brusco li potesse svegliare. Il respiro si fece più affannato fino a procurargli un senso di soffocamento. Il cuore gli batteva forte nel petto e una sensazione di tremore attraversò tutto il suo corpo. In quel momento Marco stava vivendo un vero e proprio attacco di panico. Immobile fra i due letti, con l’impressione che la stanza gli stesse ruotando intorno, fece qualche o indietro e si accasciò sullo scalino del bagno. Con le mani davanti alla bocca e le lacrime che gli sgorgavano dagli occhi, esternò tutta la sua angoscia fissando disperato i corpi dei due amici. Per un istante pensò di stare morendo. Forse anche lui era destinato a fare la loro stessa fine. I muscoli gli stavano cedendo e in breve tempo si sarebbe accasciato a terra. Mille pensieri gli frullarono nella mente susseguendosi vorticosamente e impedendogli di

ragionare. Gli arono davanti agli occhi le partite di calcio, il padre, l’allenatore, i bei momenti trascorsi con i suoi due migliori amici e il volto di Lucia. In quell’istante ebbe la certezza che non l’avrebbe più rivista. Si sentì fragile, impotente e disperato. Una sensazione di intorpidimento lo stava paralizzando. Si sentiva come impazzire e aveva una fottuta paura di morire. Rimase seduto su quel gradino ciondolando con il busto avanti e indietro per parecchi minuti. Caduto in uno stato di totale abbandono, non aveva neppure la forza di alzarsi in piedi per chiedere aiuto. Quando l’attacco di panico diminuì e Marco sentì ritornare un po’ più di forze, iniziò a realizzare quello che era successo comprendendo la gravità della situazione. Un senso di urgenza lo fece alzare da terra e lo spinse a cercare l’aiuto dell’allenatore. Con il cuore ancora in gola uscì dalla stanza, corse fino alla fine del corridoio e bussò violentemente alla sua porta. «Marco, cos’hai fatto? Hai una faccia che sembra che hai visto un fantasma» disse il mister vedendolo pallido e sudato. Marco non rispose subito. Il fiatone gli bloccava le parole e la debolezza lo faceva reggere a malapena sulle gambe. L’allenatore, rendendosi conto che si doveva trattare di una cosa seria, lo fece accomodare su una sedia e gli allungò un bicchiere d’acqua. «Marco cos’è successo?» gli chiese di nuovo guardandolo negli occhi. «Luca e Alessandro…» rispose a monosillabi. «Luca e Alessandro cosa?» insistette l’allenatore sempre più preoccupato. «Credo… credo… credo che siano morti» disse scoppiando a piangere e gettandosi fra le sue braccia. «Marco, ma cosa dici?!» disse incredulo cercando di calmarlo. «Non si muovono, sono morti» ribadì di nuovo con più foga. L’allenatore tutto ad un tratto si fece serio e, infischiandosene di essere ancora in pigiama, corse scalzo per il corridoio verso la camera dei ragazzi. Quando entrambi furono dentro, si precipitò sui loro corpi e controllò cuore e respiro. Marco rimase più indietro e, osservando ivamente i suoi inutili tentativi, si

ripeteva nella testa che ormai non c’era più niente da fare. L’allenatore li chiamò un paio di volte scuotendoli energeticamente, ma ben presto si rese conto che era troppo tardi per qualsiasi intervento. Guardò con orrore Marco appoggiato debolmente al muro e afferrò tremante la cornetta del telefono per chiamare il 118. «Marco, ma com’è successo?» gli chiese facendolo sedere mentre aspettavano i soccorsi. «Non lo so. Non so niente» rispose lui agitato rimettendosi a piangere. «Stamattina quando mi sono svegliato li ho trovati così. All’inizio pensavo che fosse uno scherzo e invece… e invece…». L’allenatore lo prese fra le sue braccia e lo strinse forte a sé. Lo vedeva talmente provato che l’unica cosa che poteva fare era fargli sentire che gli stava vicino con un caloroso abbraccio. «Non preoccuparti, Marco, andrà tutto bene» gli ripeteva sapendo benissimo che non sarebbe stato così. In breve tempo l’ambulanza arrivò e un medico li fece sedere in corridoio mentre due infermieri entrarono nella camera per occuparsi dei cadaveri. «Sapete dirmi cos’è successo?» chiese il medico all’allenatore mentre gli controllava la pressione. «Non ne sappiamo molto. Quando Marco si è svegliato li ha trovati già così. Io mi sono precipitato qui appena mi è venuto a chiamare per dirmi della disgrazia». «Capisco» rispose il medico spostandosi su Marco per controllare che anche lui stesse bene. «Meglio che il ragazzo vada a casa a riprendersi in un ambiente familiare». «Non sarebbe più opportuno che venisse con voi in ospedale per degli accertamenti?» chiese l’allenatore preoccupato per il suo evidente stato confusionale. «Sinceramente, per come lo vedo adesso, non credo abbia molto senso che venga con noi. Fisicamente sta bene, è solo in stato di shock per quello che è successo.

Al momento noi non possiamo farci un granché. In questi casi ci vuole solo del tempo e al massimo un buono psicologo se dovesse avere difficoltà a elaborare il trauma». Quando i due infermieri uscirono in corridoio per chiamare il medico, la polizia apparve dalle scale. «Sono l’ispettore Moretti e questo è il mio collega Lombardi» disse uno dei due avvicinandosi al medico. I tre si scambiarono qualche parola sottovoce e poi sparirono nella camera per diversi minuti. Marco e l’allenatore rimasero seduti ad aspettare in corridoio insieme ad alcuni ospiti dell’albergo che, sentendo del trambusto, erano usciti dalle loro stanze per controllare cosa fosse successo. «Vado un attimo di sotto ad avvisare gli altri» disse l’allenatore a Marco dopo aver controllato l’orologio. Erano le otto ate e il resto della squadra era già scesa nella sala da pranzo per fare colazione. Nei lunghi minuti d’attesa i due agenti controllarono i corpi dei due ragazzi prima che lo staff medico li caricasse nell’ambulanza e poi perlustrarono la stanza. Sollevarono i materassi, rovistarono nei cassetti, aprirono le borse e controllarono tutti gli effetti personali. «Ispettore, ho trovato qualcosa» disse l’agente Lombardi tirando fuori dall’armadio delle confezioni di stimolanti e diuretici. «Ce ne sono anche qua» rispose Moretti dal bagno dopo aver rovesciato il contenuto del bidone sul pavimento. Le fiale vuote cestinate erano le stesse presenti nella confezione dei diuretici. «Mettile in questo sacchetto per le analisi in laboratorio» disse Moretti al collega. «Per il momento possiamo interrompere l’ispezione. Se è come penso, questi ragazzi devono aver esagerato con questa roba. Mettiamo la stanza sotto sequestro e aspettiamo i risultati delle analisi tossicologiche». Quando i due agenti uscirono dalla stanza trovarono il corridoio pieno di gente.

Gli ospiti delle altre stanze si erano ammassati davanti alla porta e la squadra di Marco si era raggruppata dietro di lui in un silenzio tombale. «Vi chiedo gentilmente di allontanarvi e rientrare nelle vostre stanze. È tutto sotto controllo. Per favore sgomberate l’area» disse con tono sostenuto l’agente Moretti. «Questi sono i compagni di squadra dei due ragazzi» disse l’allenatore non sapendo come gestirli, dato che volevano restare lì per sapere cos’era accaduto. «Al momento non possiamo darvi alcuna indicazione precisa. Vi consiglio di radunarvi tutti da un’altra parte e aspettare gli ordini del vostro allenatore. Tutti tranne tu» disse l’ispettore guardando i ragazzi e poi indicando Marco. L’allenatore suggerì loro di scendere in salotto e, una volta che il corridoio fu svuotato, chiese agli agenti se avessero un’idea della causa di morte. «Al momento possiamo fare solo delle supposizioni. Abbiamo trovato questa roba in alcune borse e nel bidone del bagno. Lei ne sapeva niente?». L’allenatore prese in mano la busta contenente le sostanze dopanti e cercò di leggerne le etichette. «No, non ne sapevo nulla» rispose meravigliato. Marco si alzò dalla sedia e, avvicinandosi al mister, osservò incredulo quello che aveva sotto gli occhi. «Tu ne sapevi niente, Marco? Di chi è questa roba?» gli chiese l’allenatore. «No, non ne so niente. Non so neppure che roba sia. Non è la mia e non avevo idea che Luca e Alessandro prendessero delle pasticche». L’allenatore gli credette sulla parola e, vedendolo agitarsi di nuovo, gli mise una mano sulla spalla e lo invitò a sedersi. «Che roba è?» chiese poi all’ispettore. «Sembrano stimolanti e diuretici. L’analisi degli specialisti comunque saprà darci informazioni più dettagliate e l’autopsia confermerà se ci sono tracce di

queste sostanze anche nei loro corpi». Marco non credeva alle sue orecchie. I suoi amici avevano assunto delle sostanze e l’avevano lasciato all’oscuro di tutto. «Quando crede che potremmo avere maggiori informazioni sulla causa di morte? Dovremo contattare i genitori e credo che vorranno sapere subito cos’è successo ai loro figli». «Credo che in due al massimo tre giorni avremo pronti i risultati. Sarà dura doverli chiamare e dire che hanno perso i loro figli...» rispose l’ispettore fissando Marco accasciato sulla sedia. «Se nel frattempo vi viene in mente qualcos’altro, fatecelo sapere» aggiunse allungando all’allenatore un biglietto da visita. Nel salotto dell’albergo i ragazzi aspettarono sconvolti che Marco e il mister li raggiungessero per chiarire l’accaduto. La hall era un brulicare di persone che camminavano avanti e indietro cercando di bloccare la receptionist per chiederle informazioni. In strada i anti si erano ammassati vicino all’ingresso per vedere chi stessero caricando sull’ambulanza, mentre i giornalisti cercavano di ricostruire l’incidente intervistando chiunque uscisse dall’albergo. In breve tempo la notizia si diffuse in tutto il paese e il Trofeo Olimpia, che era l’evento principale del momento, venne subito soppiantato dagli articoli di cronaca nera. L’allenatore ò buona parte della mattinata alla reception per chiamare i genitori di Alessandro e Luca e avvisare gli organizzatori del torneo che la finale sarebbe saltata. Tutte le squadre furono contattate come pure il sindaco che si liberò dagli impegni di lavoro per raggiungere il figlio il prima possibile. «È il caos più totale» disse l’allenatore ritornando dai suoi ragazzi con le mani nei capelli. Marco guardò fuori dalla finestra e osservò la gente che stava aumentando accalcata davanti al cancello. Un vigile era stato messo a dirigere il traffico e, nonostante le esortazioni a liberare il piazzale, fu costretto a sorvegliare l’entrata per evitare che le persone si intrufolassero nell’albergo. Guardando con compatimento la folla curiosa, scorse fra due signore Lucia che con il cellulare in mano cercava di farsi spazio per raggiungere le prime posizioni. Con un balzo Marco saltò giù dalla sedia e corse fuori per dire al vigile di farla are.

«Lucia, cosa ci fai qui?» le chiese allontanandosi dall’ingresso verso un angolo del giardino. «Volevo farti una sorpresa e venire a vederti durante l’allenamento, ma poi quando sono arrivata al campo non ho visto nessuno e mi sono preoccupata. Ti ho provato a chiamare diverse volte, ma non mi hai mai risposto… per fortuna che sei vivo» gli disse stringendolo forte a sé. «In paese dicevano che erano morti due ragazzi e per un momento ho pensato che ti potesse essere successo qualcosa». Marco rimase stretto nel suo abbraccio e scoppiò di nuovo a piangere. Era felice di averla lì con lui, ma gli faceva male pensare ai due amici perduti per sempre. «Luca e Alessandro… non ci sono più, Lucia, se ne sono andati» le disse con voce tremante guardandola negli occhi. Lucia rimase sconvolta dalla notizia. Mai si sarebbe aspettata che una disgrazia del genere fosse potuta succedere a delle persone che conosceva. Vedendo Marco in quelle condizioni cercò un posto più appartato e insieme si andarono a sedere nel dondolo in fondo al giardino. «Ma come è successo?» gli chiese con tono pacato cercando di calmarlo. «Non si sa ancora di preciso. La polizia ha trovato delle pasticche e i primi sospetti ricadono su quelle. Dobbiamo aspettare i risultati dell’autopsia. Ma ti rendi conto, Lucia? Ho perso i miei migliori amici. Sono morti per colpa di alcune stupide pasticche e io non me ne sono neanche accorto». «Non è colpa tua, Marco. Come potevi fare qualcosa se neppure sapevi che le stavano prendendo» rispose lei tenendolo fra le sue braccia. «È finita, Lucia. La mia vita è finita. Non mi importa più di niente. Fanculo a tutto e a questa stupido trofeo! Se non avessimo partecipato loro sarebbero ancora vivi». Lucia non disse nulla e lo lasciò sfogare. Sapeva che ogni tentativo di consolarlo sarebbe stato inutile. Lo baciò, lo coccolò e rimase in silenzio per tutto il tempo necessario. Mentre i due si consolavano condividendo quel dolore, l’allenatore li raggiunse correndo con il cellulare in mano.

«È tuo padre, vuole assolutamente parlarti». «Pronto, papà?» rispose singhiozzando. «Marco, come stai? Tutto bene? Fra poco sono da te. Ero a Bologna. Cerco di fare il prima possibile». «Non preoccuparti, papà, vai tranquillo, sono con Lucia». «Mi dispiace, figliolo, mi dispiace tanto, davvero». Marco rimase in silenzio. «Sono in autostrada. Fra un’oretta dovrei essere a Spinello». «Non c’è fretta ti ho detto, sono con Lucia. Preferisco restare con lei se non ti dispiace. Sto bene, ho solo bisogno di un po’ di tempo…». «Come vuoi, figliolo. Sappi comunque che io rimango in paese. Se hai bisogno chiama. Qualsiasi cosa e io arrivo». «Okay, papà, grazie». Lucia lo guardò restituire il cellulare all’allenatore e aspettò che parlasse. «Era mio padre. Sta tornando in paese, ma preferirei restare con te, se per te non è un problema» disse lui riappoggiando la testa sulla sua spalla. Lucia lo baciò e lo strinse di nuovo fra le sue braccia senza dire una parola.

Capitolo XXIII Alfredo stava camminando nervosamente su e giù per la cucina. Erano le quattro e il ristorante era ancora chiuso. Era sicuro che quella sera avrebbe avuto pochi clienti. La terribile notizia aveva sconvolto il paese. Il fratello gli aveva dato appuntamento a quell’ora e sarebbe arrivato di lì a poco. Si ò il fazzoletto di stoffa sulla fronte cercando di asciugare le gocce di sudore che incessantemente gli scendevano lungo le tempie. Guardò di nuovo l’orologio: era ato un quarto d’ora e il fratello non si era ancora fatto vedere. L’attesa lo stava uccidendo. Forse qualcosa era andato storto, forse la polizia aveva scoperto il suo piano e lo stava trattenendo per fargli delle domande. Se l’ispettore si fosse presentato da lui in quel momento non avrebbe sicuramente retto la tensione. I pensieri si fecero sempre più confusi e la convinzione di essere responsabile per quello che era successo crebbe contorta nella sua mente. Immaginò se stesso dietro alle sbarre con il dito puntato della gente che lo ricopriva di insulti. Il senso di vergogna unito alla paura di essere beccato lo fecero andare completamente nel panico. Quando osservò per l’ennesima volta le lancette dell’orologio ticchettare fastidiosamente nel quadrante, sentì la maniglia della porta di servizio abbassarsi in un sol colpo. «Sbrigati, apri!» disse una voce proveniente dall’esterno. Alfredo corse verso la porta e girò la chiave nella toppa. «Perché hai chiuso a chiave?» chiese il sindaco meravigliato di vedere il fratello così agitato. «Presto, chiudi. Non voglio che ci veda nessuno» disse lui serrando la porta con le mani tremanti. «Calmati, Alfredo. Non c’è motivo di essere così agitato». «Non c’è motivo? Come fai a dire una cosa del genere? Questa mattina sono morti due ragazzi che sono stati nel mio ristorante. Ti ricordi cos’abbiamo fatto ieri sera, vero? Se lo vengono a scoprire siamo rovinati. Lo sapevo che sarebbe finita così» disse continuando a camminare su e giù per la stanza.

Il sindaco cercò di mantenere la calma, ma era evidente la sua irritazione nel vedere il comportamento insicuro del fratello. Detestava quando andava nel panico per niente e gli avrebbe volentieri tappato la bocca per non fargli dire quelle frasi senza senso. «Prima di tutto Luca e Alessandro sono morti in albergo e non nel tuo ristorante, quindi puoi stare tranquillo che non verranno mai qui a investigare. Secondo, hanno perlustrato la loro camera stamattina e hanno già trovato degli indizi che fanno pensare a una morte accidentale per uso di sostanze dopanti». «Sì, ma al telegiornale hanno detto che forse si tratta di overdose di stimolanti e diuretici. Chi me lo dice che durante l’autopsia non salti fuori anche il Guttalax e che, non avendo trovato la bottiglietta in camera, pensino di fare un giro nel posto dove hanno mangiato l’ultima volta?». «Come fa a saltare fuori il Guttalax nei loro corpi se i piatti con il lassativo li hai dati ai due calciatori del Vicenza? Non ha senso quello che stai dicendo». Alfredo smise improvvisamente di camminare e, bloccandosi dietro ai fornelli guardò il fratello impaurito. «Alfredo, cosa mi stai nascondendo? Conosco bene quella faccia e non mi piace per niente». «Niente, non ho fatto niente…» rispose poco convinto guardando da un’altra parte. Il sindaco si avvicinò al fratello con fare minaccioso e guardandolo con sospetto lo fece crollare. «E va bene, ti ho mentito. Ieri sera avevo preparato i piatti per i due calciatori del Vicenza, ma uno dei camerieri li ha presi per sbaglio e li ha serviti a qualcun altro». Il sindaco sgranò gli occhi e lo guardò con orrore. «Cosa hai fatto? Ti avevo chiesto una cosa semplice, Alfredo, una cosa sola». «Lo so, ho sbagliato. Mi dispiace».

«Non basta che ti dispiaccia, Alfredo, non basta» lo rimproverò furioso. «A chi sono stati consegnati i due piatti?». «Non lo so, è questo il punto. Stefano serve la pizzeria e sicuramente sono finiti a due persone che cenavano lì. Ho paura che le due persone siano state proprio Luca e Alessandro…». «Sei un cretino!» urlò il sindaco portandosi una mano sulla fronte. Adesso anche lui aveva iniziato a sudare e capiva il motivo per cui il fratello fosse così agitato. «Come facciamo adesso? Oddio sono rovinato» continuava a ripetere Alfredo mettendosi a piangere. «Smettila di frignare. Stai zitto e fammi pensare» disse il sindaco che aveva gli occhi fuori dalle orbite per la rabbia. «Se trovano il lassativo nei loro corpi verranno qui. Siamo rovinati». «Non siamo ancora sicuri che quei piatti siano andati a loro. Potrebbe essere una coincidenza il fatto che siano morti. Forse se li sono beccati altre due persone» disse il sindaco cercando di convincere se stesso. «E se invece non è così? Se siamo stati noi a dargli il colpo di grazia con quella roba? Siamo rovinati, io come cuoco e tu come sindaco. Andremo in galera…». Questa volta era il sindaco a camminare nervosamente su e giù per la stanza. Alfredo lo seguiva con gli occhi gonfi di lacrime e si sentiva in colpa. «Non ci rimane che aspettare i risultati delle analisi. L’ispettore Moretti è un mio amico. Mi ha chiamato questa mattina dopo che ha visto che era proprio mio figlio a essersi trovato in quella spiacevole situazione. Se i risultati confermeranno l’ipotesi delle pillole e salta fuori anche il lassativo, spingerò per ipotizzare che l’abbiano preso insieme ai diuretici». Alfredo fissò il fratello incredulo. Era sconcertato dalla freddezza con cui riusciva a parlare e dalla macchinosità del suo piano. «È inutile che mi guardi così. Sto solo cercando di pararti il culo. Hai fatto la

cazzata e adesso devo rimediare». «Ah, sarei io ad aver fatto la cazzata adesso?». «E chi se no? Mica li ho dati io i piatti alle persone sbagliate». «Sì, ma il piano era il tuo». «Questo è tutto da dimostrare. Se vengono a ispezionare il ristorante quello che interrogano per primo è il cuoco, non il sindaco che era in sala a cenare con gli altri». «Ma tu sei ato prima in cucina. I miei ragazzi ti hanno visto» disse Alfredo incredulo che il fratello gli stesse scaricando tutta la responsabilità. «Sono ato a salutarti come tutte le altre volte. Niente di più. Quello che è successo dopo potrebbe essere tutta opera tua. Comunque non è questo il punto. Quello che voglio farti capire è che sei tu il primo che verrebbero a interrogare. Voglio solo che tu te ne renda conto. Sto solo cercando di trovare una soluzione per aiutarti e fare in modo che non salti fuori niente». Alfredo appoggiò un gomito sul bancone e si ò la mano sulla fronte. Le parole del fratello suonavano come pesanti accuse e, sentendosi abbandonato al suo tragico destino, pensò di non avere più una via d’uscita. Si era lasciato convincere a mettere in atto quel terribile piano e adesso il fratello se ne voleva lavare le mani. «Hai capito cosa voglio dire?» chiese il sindaco moderando il tono e avvicinandosi al fratello. «Non ti sto abbandonando. Sto solo dicendo che ci dobbiamo preparare nell’eventualità che ci vengano fatte delle domande e, siccome il ristorante è il tuo, tu per primo devi sapere come rispondere se viene la polizia a interrogarti». Alfredo non sapeva cosa dire. Era devastato dalla notizia della morte degli amici del nipote e continuava a sentirsi tutta la responsabilità addosso. «Per prima cosa assicuriamoci che la bottiglietta del Guttalax non sia qui. L’avevi buttata via, vero?». «Sì, l’ho buttata» rispose di getto, mentre si sforzava di pensare alle azioni che

aveva fatto la sera prima. «No, cazzo, non l’ho buttata» aggiunse subito dopo, ricordandosi di averla invece nascosta dietro al barattolo del curry. Senza dare il tempo al fratello di rispondergli, si precipitò verso la mensola e rovistò fra i contenitori delle spezie. «Non c’è più, cazzo, non c’è più» urlò facendosi di nuovo prendere dal panico. «Stai calmo, Alfredo, non ti agitare. Ripensa bene a tutto quello che hai fatto» disse il sindaco cercando di farlo ragionare. «L’avevo messa qui, ne sono sicuro» gli rispose continuando a spostare i barattoli. «Non potrebbe averla buttata via la donna delle pulizie?». «Sì, può essere. Di solito viene a pulire la mattina...» rispose sperando che fosse andata proprio in quel modo. «I sacchi dell’immondizia sono già stati buttati via, quindi siamo a posto» disse il sindaco ando i bidoni uno ad uno per assicurarsi che fossero vuoti. Alfredo era quasi convinto, ma non riusciva a calmarsi. «E con Marco come facciamo? Come facciamo a dirglielo?». «Con Marco non diciamo proprio un bel niente. Ma sei matto? Come pensi che la prenderebbe se venisse a sapere che c’è la possibilità che abbiamo contribuito alla morte dei suoi amici? L’unica soluzione è stare zitti. Stare zitti e negare fino alla morte. Intesi?». Alfredo annuì, ma non era per niente d’accordo. Oltre a sentirsi una merda per aver dato il lassativo ai due ragazzi, si sentiva anche in colpa per dover tenere il nipote all’oscuro di quel terribile segreto. Era sicuro che le cose erano andate in quel modo. Se lo sentiva dentro. Era stato complice di quel complotto e avrebbe dovuto tenersi la coscienza sporca per tutta la vita. Mentre i due continuarono a parlare del modo migliore per affrontare la cosa, il cellulare del sindaco squillò.

«Moretti, ciao» disse a voce alta facendo cenno al fratello di fare silenzio. Alfredo si rizzò in piedi e il cuore iniziò a battergli velocemente. «Sì certo, non c’è problema. Possiamo fare anche adesso, sono al ristorante di mio fratello. Grazie, sei un amico». Alfredo lo fissava con fare interrogativo e aspettava impaziente che buttasse giù la conversazione per sapere cosa si erano detti. «Era l’ispettore Moretti. Tutto a posto. Dato che è mio amico e la storia coinvolge anche Marco, ha fatto delle pressioni per velocizzare l’autopsia. Ovviamente i risultati tossicologici non ce li hanno ancora, ma dai primi rilevamenti sono già in grado di anticipare che la morte è probabilmente dovuta a una trombosi causata dall’assunzione combinata di quelle sostanze». «E il lassativo? È venuto fuori?» chiese Alfredo preoccupato. «Non credo. È stato spicciativo perché era ancora in ufficio, ma ha detto che a di qui per spiegarmi meglio». «Come a di qui? Adesso?». «Stai calmo Alfredo, è tutto sotto controllo. Moretti è un mio carissimo amico, non si metterà mai a fare delle domande. E poi la strada delle indagini sembra andare in quella direzione quindi non abbiamo nulla da temere». «Però era meglio se vi incontravate da un’altra parte… farlo venire qui…non lo so…». Mentre Alfredo pensava a come rimanere tranquillo davanti all’ispettore, il cellulare del sindaco suonò di nuovo. «Marco, figliolo. Dove sei?». «Ciao papà. Sono a casa di Lucia. L’allenatore mi ha detto che, date le circostanze, potevo rimanere da lei. Mi sento più tranquillo…». «Tutto quello che vuoi, figliolo, non c’è problema. Hai tutto il mio appoggio».

«Grazie, pà. In verità ti chiamavo per sapere se avevi avuto notizie dalla polizia. Siamo rimasti tutti un po’ sconvolti quando abbiamo saputo delle pasticche e volevamo sapere se era già venuto fuori qualcosa…». «Di preciso non so ancora niente, però l’ispettore mi ha chiamato proprio adesso e ha detto che a a minuti per dirmi come stanno procedendo le indagini. Se ti va di fare un salto mi farebbe piacere. Anche lo zio ha voglia di vederti». «Perché no. Sì, vengo. Il tempo di arrivare e sono lì». «Bene, figliolo. A fra poco allora». «Qualcun altro che voglia venire?» chiese sarcastico Alfredo. «Perché, non vuoi vedere tuo nipote?». «Non è che non lo voglio vedere. Non mi sento pronto a parlare con Moretti, figuriamoci a guardare in faccia Marco dopo tutto quello che ci siamo detti. Scusa tanto se io non sono come te e non riesco ad avere la faccia di bronzo come la tua». «Va bene Alfredo, non ti agitare. Capisco lo stress del momento, ma è meglio così. Fidati. Più ci dimostriamo disponibili e tranquilli, meno sospetteranno che c’entriamo qualcosa». «Ma tu proprio non ce l’hai una coscienza. E con che faccia lo guardo Marco, sapendo che potenzialmente potremmo essere stati noi i responsabili della morte dei suoi amici?». «Santo cielo, Alfredo, abbassa la voce! Ti ricordo che sta arrivando Moretti. Ti chiedo solo un ultimo sforzo: lascia parlare me e cerca di rimanere il più calmo possibile. Vedrai che durerà poco e andrà tutto bene». «Sarà, ma io non riuscirò mai a darmi pace veramente…». Nel mezzo della conversazione qualcuno bussò alla porta. Il sindaco fece cenno al fratello di stare zitto e, stirandosi l’abito con le mani, andò ad aprire la porta.

«Moretti, ben arrivato. Entra pure, accomodati. Ti possiamo offrire qualcosa?» chiese accompagnandolo nella sala da pranzo. «Un caffè magari, grazie». Il sindaco fece cenno ad Alfredo di andare al bar e lui sparì goffamente dietro al bancone osservandoli da dietro la macchina del caffè. «Allora, Moretti, dicevi a proposito delle indagini?». «Come ti ho anticipato per telefono, le analisi tossicologiche sono ancora in atto, ma è già stata rilevata una… come si chiama… ah, ecco: una trombo embolia» disse leggendo il blocchetto degli appunti che si era tolto dalla tasca della giacca. Il sindaco lo guardò perplesso cercando di capire di cosa si trattasse. «Quindi le sostanze che avete prelevato dalla stanza c’entrano oppure no?». «Sì, sì, c’entrano eccome. Arrivo al punto. Per farla breve, le sostanze che hanno ingerito potrebbero essere state la causa della loro morte per effetto della formazione di un embolo che è andato a ostruire un’arteria. Non sono un esperto di queste cose, ma da quello che ho capito l’occlusione è avvenuta vicino al cuore che non ha retto». «Quindi è quasi sicuro il fatto che la causa di tutto fossero quelle sostanze» ribadì il sindaco per spingere in quella direzione. «Al momento pensiamo sia dovuto a quello. Con i risultati delle analisi sapremo definitivamente tutte le sostanze che avevano ingerito. Non è detto che quelle che abbiamo trovato nella stanza siano le uniche. Alcuni dei nostri uomini stanno controllando anche tutti gli armadietti degli spogliatoi». Quando Alfredo sentì quelle parole gli venne un sussulto e si lasciò scappare un colpo di tosse nervosa. Il sindaco si girò e lo fulminò con lo sguardo. «Scusate. Maledetta tosse. Sono pronti i caffè» disse nervosamente avvicinandosi ai due con il vassoio. «Sono sicuro che alla fine risulterà che sono state quelle sostanze lì a causare il decesso. Accidenti a questi ragazzini: bisogna badarli in continuazione e poi non

basta» commentò il sindaco sollevando la tazzina in segno di brindisi. Mentre sorseggiavano il caffè, il rumore di un pugno sulla porta dell’ingresso principale fece saltare Alfredo sulla sedia. «Deve essere mio figlio questo» disse il sindaco facendo cenno ad Alfredo di andare ad aprire. Quando Marco entrò, l’ispettore si alzò in piedi e gli fece le condoglianze. Marco abbracciò il padre che lo strinse forte e lo zio che a fatica trattenne le lacrime. «Stavamo giusto parlando di quelle sostanze che hanno trovato, figliolo. Siediti, sarò un duro colpo sentire cosa ha da dire Moretti». Marco si sedette al tavolo e rivolse la sua attenzione all’ispettore. «Come dicevo a tuo padre prima, sappiamo già che i tuoi amici hanno avuto una trombo embolia al cuore con conseguente infarto miocardico. È una specie di riduzione del flusso sanguigno che risulta più scarso e denso e che può danneggiare l’organo in prossimità dell’occlusione» spiegò continuando a dare un’occhiata agli appunti per le parole chiave. Marco lo fissava cercando di dare un senso a quello che stava dicendo. «Pensiamo che la causa sia stata l’assunzione di quelle sostanze e soprattutto dei diuretici». «E cosa c’entrano i diuretici con l’infarto?» chiese Marco che continuava a non capire. «Molto spesso gli atleti assumono grosse quantità di diuretici per mascherare le sostanze dopanti. Il loro utilizzo viene impiegato per diluirle nell’urina e renderle invisibili ai controlli anti doping. Solo che il loro effetto collaterale peggiore è appunto quello di ridurre i liquidi anche nell’apparato circolatorio e aumentare i rischi connessi alla riduzione dell’afflusso di sangue agli organi e alla sua densificazione». Marco scosse la testa e i suoi occhi si fecero lucidi.

«Avrei dovuto accorgermene. Ecco perché andavano così spesso in bagno. Pensavo fosse una scusa per fare un giro e invece…». Alfredo era commosso dalla fragilità del nipote. Si sentiva responsabile e cercava di alleviare il peso della sua colpa standogli vicino. «Con questo direi che ho detto tutto quello che sappiamo al momento» disse l’ispettore alzandosi dalla sedia. «Sarà meglio che torni in ufficio. Vi faccio comunque sapere appena ho i risultati». Il sindaco si alzò dopo di lui e, invece di farlo are dalla porta principale, lo spinse nella direzione della cucina da dove era entrato. «Lo so che la situazione è molto delicata, ma dovremmo anche pensare al paese» gli disse il sindaco abbassando la voce. «Questo è un altro problema di cui mi sto occupando» rispose Moretti. «Non possiamo lasciare che questa storia venga prolungata nel tempo. Prima chiudiamo il caso prima Spinello tornerà alla normalità. C’è poi il Trofeo Olimpia da finire… Lo sai che Marco ha ottime possibilità quest’anno?». Moretti lo guardò compiaciuto. Era felice di sapere che suo figlio aveva buone speranze di entrare in Serie A. «È per questo che ci stiamo lavorando così tanto io e il mio collega Lombardi: stiamo facendo di tutto per chiudere la pratica il prima possibile. Prima troviamo una soluzione, prima la gente si dimenticherà della vicenda e tornerà alla routine quotidiana. Non lo sto facendo solo per farti un piacere, lo faccio anche per le sorti del paese in generale. Se questa storia non verrà archiviata il prima possibile, i giornali ci marceranno sopra e non faranno altro che gettare fango su Spinello. Lo sai come fanno loro, sempre a caccia del colpevole da additare. Molti genitori dei ragazzi tra l’altro stanno arrivando per portare via i loro figli e la psicosi del doping potrebbe mandare il Trofeo Olimpia alla malora». «Secondo me bisognerebbe spostare l’attenzione su qualcosa di positivo» propose il sindaco. «In che modo? Non si fa altro che parlare della disgrazia» chiese Moretti.

«Ad esempio utilizzando questa disgrazia come elemento che unisca le persone in nome di qualcosa di superiore» aggiunse il sindaco. «Se il Forlì vincesse la finale, per esempio, la squadra di Marco riacquisterebbe l’entusiasmo perduto e potrebbe dedicare la vittoria ai compagni scomparsi». «E tuo figlio erebbe in Serie A e riuscirebbe a dimenticare più in fretta l’incidente» concluse l’ispettore. «Esatto. Dovrebbe andare proprio così». «Vedi allora di organizzare la finale subito dopo i funerali. Insisti con l’allenatore perché motivi i ragazzi e fai in modo che la Coppa Olimpia diventi un omaggio per Luca e Alessandro» concluse Moretti stringendogli la mano sull’uscio della porta. Quando il sindaco tornò nella sala da pranzo, salutò il fratello e chiese a Marco se volesse un aggio. «Ci aggiorniamo, Alfredo» gli disse con sguardo d’intesa. Il sindaco accompagnò Marco in albergo e per tutto il tragitto parlarono dell’accaduto. «Ci vediamo domani, figliolo» gli disse stringendolo forte a sé per fargli capire quanto gli volesse bene. «A domani, papà» rispose lui sparendo nel corridoio su per le scale. Il sindaco, prima di lasciare l’albergo, si fermò alla reception e fece chiamare l’allenatore. Seduti nelle poltroncine in un angolo del salotto parlarono per un paio d’ore e trovarono un accordo sul giorno migliore per disputare la finale.

Capitolo XXIV A distanza di una settimana esatta l’ispettore Moretti constatò la causa del decesso e il caso venne archiviato. Non appena ricevette i risultati delle analisi telefonò al sindaco per comunicargli la notizia. «Finalmente sono arrivati gli esami tossicologici. Possiamo adesso chiudere la pratica e dimenticare questo spiacevole incidente». «Moretti, che bella notizia. Allora, quali sono esattamente i risultati?» chiese il sindaco ansioso di sapere quali sostanze avessero trovato. «Come pensavamo, la causa di morte è da attribuire a tutta quella roba che hanno ingerito. Sono state trovate tracce di sostanze dopanti, una gran quantità di diuretici e del lassativo». Alla parola lassativo il sindaco raggelò nelle vene. Come aveva temuto il fratello, i piatti che aveva preparato per i giocatori del Vicenza finirono invece a Luca e Alessandro. «In poche parole, hanno fatto tutto da soli» ribadì il sindaco cercando la conferma definitiva che lo potesse scagionare completamente. «Esatto. I diuretici e il lassativo che hanno preso hanno diminuito troppo i liquidi dell’apparato circolatorio determinando quello di cui abbiamo già parlato. Inutile tentare di risalire al fornitore: gli unici testimoni sono deceduti e nessuno dei compagni sembra saperne nulla. Abbiamo controllato gli spogliatoi e le loro stanze e non abbiamo trovato traccia di quelle sostanze da nessun’altra parte. Mi sembra strano che Marco non si fosse accorto di nulla, ma se tuo figlio dice così, gli credo». «Te lo posso assicurare: Marco non ha nulla a che vedere con quella roba, non rischierebbe mai di compromettere la sua carriera per delle stupide pillole. Ad ogni modo, chiudere il caso è la cosa migliore: ostinarsi a cercare il fornitore senza nessuna pista porterebbe via altro tempo e creerebbe ulteriore scompiglio in paese. Mi dispiace per Luca e Alessandro, ma spero che almeno questa vicenda serva da lezione per gli altri e li faccia desistere dal commettere gesti così stupidi in futuro» disse il sindaco nascondendo dietro il tono di voce

perfetto una leggera agitazione. «Sì, è senz’altro la soluzione migliore. Nel pomeriggio comunicherò la notizia ai giornalisti per renderla pubblica. Se vieni con me potrai ufficializzare la data della finale. A proposito, avete già deciso quando far ripartire il torneo?». «L’abbiamo fissata per sabato prossimo. Volevamo far are qualche giorno dal funerale per lasciare ai ragazzi il tempo di riprendersi. Alla fine abbiamo deciso di dedicare la gara a Luca e Alessandro. Non ti dico la fatica a convincere i genitori a far rimanere qui i loro figli…». «Me lo immagino… Mi sembra comunque un’ottima idea. Come avevamo già detto, è la soluzione migliore per il paese. Direi allora che ci possiamo vedere direttamente in centrale alle quattro». «Senz’altro, Moretti. Grazie per la telefonata e per avermi informato immediatamente dei risultati» disse il sindaco chiudendo così la conversazione. Le campane della chiesa annunciarono la fine della Messa funebre di Luca e Alessandro. Marco e i compagni di squadra avevano salutato per l’ultima volta i ragazzi con un discorso di stima e affetto che li ricordò come ottimi atleti e amici insostituibili. Lucia rimase per tutto il tempo accanto a Marco e lo aiutò ad affrontare quella giornata di dolore facendogli capire che, nonostante tutto, non era rimasto solo. «Grazie, Lucia, per tutto quello che stai facendo». «Non devi dirlo neanche per scherzo» replicò lei tenendolo stretto sotto braccio. Quel sabato pomeriggio trascorse lento e pensieroso. I due camminarono nel bosco mano nella mano cercando di lasciarsi alle spalle la forte sensazione di vuoto interiore. Le nuvole bianche in cielo avevano oscurato il sole e una leggera brezza accarezzava i loro volti. Sembrava che anche il tempo fosse triste per la scomparsa dei due amici. Il sole si era congedato in una giornata che non doveva essere di festa e il movimento sinuoso delle fronde intonava sottovoce il suono lento del rispetto. In quella giornata di riflessioni i due non parlarono né del ato né dei progetti futuri. Sommersi dal turbinio delle loro emozioni, si aggrapparono all’unica certezza di poter contare l’uno sull’altro.

«Pronto, sono Alfredo». «Ciao Alfredo, come va?». «Non molto bene direi» rispose con la voce tremante. Dopo aver letto la notizia sui giornali non aveva smesso un attimo di essere in tormento. «Qual è il problema adesso?» chiese il sindaco sospirando per il comportamento fragile del fratello. «Non hai letto i giornali?». «Sì che li ho letti. E allora?». «E allora hai visto la causa di morte di Luca e Alessandro?». «Era come pensavamo: sono morti per le pasticche che hanno preso». «Per le pasticche, i diuretici e il lassativo. Hai capito l’ultima parola? L-a-s-s-a-ti-v-o!». «Lo so, Alfredo, non ti agitare. Me l’aveva già detto ieri Moretti che avevano trovato del lassativo». «Vuol dire che sono finiti a loro due i piatti, siamo stati noi ad ammazzarli» lo interruppe agitandosi ancora di più. «Alfredo, non ricominciare per favore. Il fatto che abbiano trovato il lassativo nei loro corpi non vuol dire che sia stato quello ad ucciderli. Lo hai sentito anche tu quando diceva che era stato il mix di tutte quelle sostanze a causare il danno» rispose il sindaco cercando di minimizzare la questione. «E chi non ti dice che il Guttalax non sia stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso? Mi sento male io. Non riesco a darmi pace al pensiero che, se non l’avessimo versato in quei piatti, avrebbero potuto essere ancora vivi». «Non dire sciocchezze! La quantità di Guttalax era irrisoria in confronto a quella dei diuretici. Ti stai facendo un sacco di paranoie per niente. Smettila di pensare,

vai a casa e rilassati». «Fai presto a parlare tu. Io invece non ce la faccio a non sentirmi in colpa...». «Quindi cosa vorresti fare? Sentiamo» chiese il sindaco alzando il tono della voce. «Non voglio fare proprio un bel niente. Ti sto solo dicendo che non mi sento a posto. Scusa tanto se ti ho importunato mister-sindaco-so-tutto-io» rispose Alfredo iniziandosi ad arrabbiare. «Alfredo stai esagerando adesso, vedi di…». «No, basta! Per una volta stammi tu a sentire. Non voglio più vederti nel mio ristorante se non in veste ufficiale in mezzo all’altra gente e non ti azzardare a chiedermi altri favori. Ho chiuso con le tue diavolerie e d’ora in avanti se ci sentiremo sarà solo perché ho voglia di parlare con mio nipote». E così dicendo Alfredo riagganciò il telefono e concluse la conversazione. Il sindaco rimase sbigottito con la cornetta in mano. Non aveva mai sentito il fratello così infuriato, ma pensò che, per come era fatto, nel giro di pochi giorni gli sarebbe ata. La vicenda sarebbe stata dimenticata in fretta e tutto sarebbe tornato tranquillo come prima. I giorni successivi al funerale trascorsero quieti, con i ragazzi che lentamente tornarono alla loro quotidianità. La finale si sarebbe disputata una settimana dopo e il fatto di giocare in ricordo dei due ragazzi scomparsi li aiutò a rientrare nell’ordine di idee del gioco. Marco si allenò duramente tutti i giorni, nella convinzione che la Coppa Olimpia dovesse finire nelle mani della sua squadra per commemorare con la vittoria il legame che aveva avuto con i suoi due amici. Spinello sembrava essere ritornata la ridente cittadina di prima. I turisti proseguirono la loro villeggiatura sotto il sole che si era fatto di nuovo cocente e i media focalizzarono l’attenzione sulla finale della gara. La sera prima della partita decisiva, il sindaco chiese a Marco di trascorrere un po’ di tempo con lui e ò a prenderlo in albergo per andare a cenare in una trattoria a Santa Sofia.

«Perché siamo venuti fino qua? Non potevamo cenare dallo zio come al solito?». «Ho pensato che la sera prima della finale fosse meglio starcene per i fatti nostri lontani dagli occhi della gente. Non eri tu che ti lamentavi sempre perché non volevi farti vedere troppo con me in giro?». «Sì, sì, è che non me l’aspettavo. Alla fine siamo sempre rimasti in paese e mi ha stupito questo cambiamento dell’ultimo minuto». I due si sedettero nella piccola veranda della trattoria e ordinarono il menù del giorno. Osservando le persone attorno a loro e ammirando la vista sulle colline al tramonto, rimasero senza dirsi niente per diversi minuti. «Allora, figliolo, come ti senti per la partita di domani?» chiese il sindaco per rompere il ghiaccio. «Non lo so, papà, sinceramente non credo di essere pronto». Marco si aspettava la solita paternale, ma il padre rimase in silenzio ad ascoltarlo e non disse nulla. «Voglio dire…» continuò stupito che lo lasciasse parlare. «Siamo tutti ancora molto scossi da quello che è successo e comunque sono venuti a mancare il portiere migliore e il secondo attaccante… In questi giorni di allenamento ci siamo impegnati molto e abbiamo provato nuovi schemi di gioco, ma non so se ce la faremo…». «Ce la farete, Marco, ne sono convinto. Credo in te e sono sicuro che domani farai vedere quello di cui sei capace. Per te e per i tuoi amici» rispose il sindaco allungando una mano su quella del figlio in segno di affetto. Marco guardò il padre annuendo e poi girò la testa a sinistra verso le colline: gli occhi si stavano riempiendo di lacrime e non voleva farsi vedere così fragile. «Supereremo anche questo momento figliolo. È solo questione di tempo…». In quell’istante il cameriere arrivò con i primi interrompendo il momento commovente. Marco afferrò il piatto e si sforzò di far asciugare gli occhi senza versare una lacrima. Non sapeva se essere più commosso per la difficile situazione che stava vivendo o per l’atteggiamento accomodante che aveva suo

padre. Era da molto tempo che non lo vedeva così affettuoso nei suoi confronti. Per la prima volta dopo tanti anni era lui che parlava e il padre che lo stava ad ascoltare. Quella sera sembrava che avesse finalmente indossato di nuovo la veste del genitore e lasciato a casa quella del sindaco. «Con Lucia invece come sta andando?» gli chiese sorridente per spostare la conversazione su un argomento più allegro. Marco arrossì e abbassò lo sguardo sul piatto. «Sai, ad essere sincero mi ricorda un po’ tua madre…». Marco smise di masticare il boccone e alzò gli occhi stupito verso il padre. «Voglio dire, non che ci assomigli fisicamente, ma, da quel poco che ho visto, mi sembra molto simile nel carattere. Tua madre era proprio premurosa come lei. Sempre pronta a trovare un modo per risolvere le situazioni e vedere il lato positivo di ogni cosa. Anche Lucia mi sembra un tipo così se non sbaglio». «No, papà, non ti sbagli affatto. È proprio come dici tu. Non so come avrei fatto senza di lei in questi giorni…». Non appena disse quelle parole Marco si rese conto di aver messo in secondo piano il padre. Per la prima volta ebbe paura di averlo offeso e se ne dispiacque. «Cioè, voglio dire… a parte te intendo…» aggiunse cercando di rimediare. «Stai tranquillo, figliolo, so cosa intendi dire. È normale alla tua età voler condividere la propria vita più con gli amici che con i genitori. Cosa credi: sono stato giovane anch’io. Sono contento che ti stia trovando bene con lei, mi sembra una brava ragazza e vedo che ti trasmette molta serenità». Marco non aveva parole: davanti a lui c’era una persona completamente diversa. Forse la morte dei suoi amici lo aveva rabbonito. Forse l’idea che potesse essersi trovato il figlio sdraiato in uno di quei letti gli aveva messo paura. Qualsiasi cosa fosse, era felice di vederlo parlare apertamente senza toni solenni e austeri. Forse nel dolore collettivo di quella tragica fatalità si era aperto uno spiraglio di speranza per riallacciare il rapporto con il padre. Quella sera Marco parlò liberamente e non si sentì giudicato. Pur avendo dovuto

rinunciare ad uscire con Lucia, era contento di aver trascorso la serata in sua compagnia. Dopo il dessert rimasero seduti a tavola ancora a lungo e parlarono della scuola, del suo futuro come calciatore e del modo che dovevano trovare per continuare a vedere Lucia. Anche l’argomento della madre saltò fuori più volte. I due parlarono ininterrottamente come due vecchi amici che non si vedevano da molto tempo. «Forse è meglio rientrare» disse il sindaco facendo cenno al cameriere di portare il conto. Marco guardò l’orologio e le lancette segnavano le undici ate. «Non vorrei che l’allenatore mi sgridasse perché ti ho fatto fare tardi la sera prima della partita» aggiunse ridendo. Marco si fece riaccompagnare in albergo e quella notte andò a dormire con una speranza in più nel cuore.

Capitolo XXV Alle undici meno un quarto le due squadre finaliste erano pronte negli spogliatoi da un pezzo. Il sole splendeva alto nel cielo, le tribune erano piene di spettatori e le televisioni locali e nazionali erano in posizione per riprendere l’evento. L’allenatore tutto eccitato ripeteva gli schemi di gioco camminando nervosamente davanti ai ragazzi. «Mister, li sappiamo a memoria» disse uno dei giocatori facendo ridere tutti gli altri. «Okay ragazzi, avete ragione. Mettetecela tutta e che vinca il migliore» rispose lui incitandoli. «Per Luca e Alessandro» disse Marco alzandosi in piedi. «Per Luca e Alessandro» risposero tutti in coro guardando seri l’amico. Quando il sindaco iniziò a parlare al microfono i ragazzi si prepararono ad uscire dallo spogliatoio. La tensione era alle stelle come la voglia di vittoria per dedicarla ai compagni scomparsi. «Anche quest’anno siamo arrivati alla conclusione del Trofeo Olimpia» annunciò il sindaco di fronte alla folla. «Nonostante le difficoltà, ci troviamo qui riuniti per consegnare la coppa alla squadra che dimostrerà di possedere le qualità migliori. Come vi avevo detto in apertura, questo torneo è un ottimo trampolino di lancio per i ragazzi che hanno l’ambizione di trasformare la loro ione per il calcio in una vera e propria professione. Oggi mi sento di aggiungere che, oltre all’aspetto competitivo, non dobbiamo dimenticare anche quello sportivo e sociale. La vita spesso ci mette di fronte a delle situazioni complicate di cui non abbiamo il controllo. Nella gioia e nel dolore spero che questi ragazzi si ricordino che l’amicizia e la solidarietà sono le cose più importanti della vita. Apprezziamo quindi la possibilità che Spinello offre loro ogni anno per crescere insieme e imparare a vivere. Oggi dedicheremo la coppa, sia che vinca il Forlì sia che vinca il Vicenza, ai due ragazzi che sono venuti a

mancare. Oggi la Coppa Olimpia è la Coppa dell’Amicizia». La folla commossa si alzò in piedi sulle tribune e applaudì con ovazione le parole toccanti del sindaco. I ragazzi scesero in campo, si allinearono gli uni di fronte agli altri e ricordarono i due atleti con un minuto di silenzio. Poi l’arbitro fischiò l’inizio della partita e l’eccitazione della gara prese il sopravvento. Durante tutto il primo tempo il risultato rimase invariato. Le due squadre erano allo stesso livello e la partita si giocò quasi esclusivamente a centro campo. Il Vicenza cercava di avanzare sfondando la difesa, ma i giocatori del Forlì riuscirono a coprire bene ed evitare che il pallone si avvicinasse troppo alla porta. Quando l’arbitro fischiò la fine dei primi quarantacinque minuti, i ragazzi del Forlì corsero verso gli spogliatoi e si radunarono tutti attorno al mister. «Ragazzi, la difesa va bene, ma adesso è ora di iniziare a essere più aggressivi. Lo so che è dura con un solo attaccante, ma Marco c’è e dovete fare uno sforzo per aiutarlo a fare goal». I ragazzi erano carichi e non vedevano l’ora di scendere in campo per continuare a giocare. La motivazione superava la fatica e vincere la Coppa Olimpia era la cosa che volevano di più in quel momento. Durante il secondo tempo la squadra avversaria si dimostrò altrettanto energica e tenace. Una volta superata la metà campo non sarebbe stato difficile per loro avvicinarsi alla porta e fare goal. Un primo tentativo gli venne offerto quando un aggio lungo sulla sinistra, rimasta scoperta, diede loro la possibilità di avanzare. Il centrocampista crossò per l’attaccante che colpì di testa la palla mandandola in rete. Gli attimi che seguirono furono pesanti per il Forlì che si vide are in svantaggio al sessantacinquesimo minuto. Poi l’arbitro fischiò il fuorigioco e, con il goal annullato, tutti tirarono un profondo respiro di sollievo. Il Forlì doveva assolutamente trovare il modo di segnare prima che si asse ai tempi supplementari. I minuti scorrevano veloci sul quadrante e la paura di non farcela prese Marco e i suoi compagni. L’allenatore a bordo campo osservava le azioni di gioco attentamente e cercava di dar loro dei consigli senza far trasparire troppo l’agitazione.

Nelle tribune il tifo dei locali si rimpallava con quello dei sostenitori del Vicenza. Le urla delle persone e il rumore delle trombette erano diventate un tutt’uno e avevano raggiunto ogni angolo del paese. Spinello era sotto i riflettori e tutto si era fermato per concentrarsi su quell’evento. A meno di dieci minuti dalla fine, Marco riuscì a trovare uno spazio e avanzò nella metà campo avversaria. ò la palla a un compagno, si liberò da un paio di difensori e, lanciandosi verso la porta, riprese possesso della palla e segnò il goal del vantaggio. I compagni guardarono l’arbitro sperando che non fosse fuori gioco. Quando furono sicuri della regolarità del tiro, corsero esultanti ad abbracciare il loro capitano. A due minuti dalla fine, la vittoria del Forlì sembrava ormai sicura. Le piccole giocate e gli scambi di palla caratterizzarono i minuti di recupero fino al fischio finale. Marco non riusciva a crederci. Nonostante lo svantaggio in formazione, erano riusciti a battere il Vicenza e portarsi a casa la coppa. Alzando gli occhi al cielo ringraziò per la vittoria ed ebbe la sensazione di condividere quel momento con Luca e Alessandro. L’allenatore nello spogliatoio non riusciva a smettere di complimentarsi. I suoi ragazzi avevano lavorato sodo ed erano riusciti a vincere. Era talmente orgoglioso di loro che nell’euforia del momento si commosse e si mise a piangere. La cerimonia dopo la partita fu lunga e spettacolare. La premiazione venne immortalata dai riflettori che riprendevano il sindaco consegnare la coppa alla squadra vincitrice e un ricco buffet venne offerto a tutti i partecipanti nel giardino della sala congressi. Quel momento di festa aveva scacciato via tutti i brutti pensieri e a Marco tornò definitivamente la voglia di vivere e di continuare a inseguire i propri sogni. Il camlo suonò ripetutamente interrompendo il silenzio della casa. Lucia lanciò il libro sul cuscino, si precipitò giù per le scale e corse ad aprire a Marco per festeggiare con lui la vittoria. «Ce l’abbiamo fatta, Lucia, abbiamo vinto!» disse lui correndo a lunghi i per il viottolo del giardino. «Sono felicissima per voi, ve lo meritavate proprio» rispose lei baciandolo e

abbracciandolo. «Come mai non sei venuta al buffet?». «Ho preferito lasciarti festeggiare la vittoria con i tuoi compagni». «Tu sei la mia vittoria, Lucia. Sei la persona più importante della mia vita» replicò lui entusiasta, afferrandola tra le sue braccia per baciarla di nuovo. «Vieni dentro, scemo. Altrimenti diamo troppo spettacolo e i vicini iniziano a preoccuparsi» disse lei ridendo mentre chiudeva dietro di sé la porta. «Ho delle ottime notizie». «Che notizie migliori puoi avere oltre a questa?» chiese lei mentre versava del tè freddo in due bicchieri. Marco si sedette su uno degli sgabelli della cucina, fece un profondo respiro e le rivelò il suo piccolo segreto. «Sei la prima a saperlo quindi non dire niente a nessuno. Al buffet ho visto mio padre e mi ha detto che ha parlato con Mario Ferri, un osservatore del Bologna». Lucia tutta elettrizzata gli si avvicinò, si sedette sullo sgabello di fianco e aspettò che finisse il resto della frase. «Oggi pomeriggio lo devo incontrare per firmare il contratto con il Bologna» disse lui saltellando sulla seggiola per l’eccitazione. «È fantastico! Lo sapevo che ce l’avresti fatta». Marco era talmente felice che non riusciva a restare fermo. Aveva bisogno di abbracciare Lucia ed esternarle tutta la sua contentezza. «Ti rendi conto Lucia, non poteva capitarmi di meglio» aggiunse prendendola per le mani e facendola girare in tondo. «Marco, così mi fai venire il mal di testa. Fermati!» disse lei felice di rivederlo sorridere di nuovo. «No, non hai capito. Se anche tu vieni a Bologna per studiare potremmo

continuare a vederci e stare insieme». Marco si fermò di colpo e la guardò dritto negli occhi. In quel momento gli importava di più continuare a vedere lei che firmare il contratto con il Bologna. «Vediamo, dai. Bisogna vedere anche cosa dicono i miei…». «Non potranno dire di no. E poi Bologna è più vicina di Firenze. Se vuoi glielo chiedo io. Sento che oggi sarei capace di fare qualsiasi cosa». Lucia fu molto felice di vedere che Marco non aveva alcuna intenzione di dimenticarla. Ripensò ai primi giorni che si erano rivisti, ai sorrisi timidi e alle parole non dette. Nel giro di poche settimane le ritornò fuori quello che l’inverno scorso aveva sepolto. I suoi sentimenti non erano cambiati e, anche se non sapeva cosa il futuro avrebbe riservato loro, si godette il momento di festa sperando che potesse durare per sempre. «Stasera c’è la cena di chiusura del torneo al ristorante di mio zio. Dopo ci possiamo vedere. Non ci è rimasto molto tempo, domani pomeriggio si ritorna a casa…». Lucia si intristì di colpo. La finale era stata un successo, ma segnava la fine del torneo e della permanenza di Marco a Spinello. «Che stupido. L’estate non è ancora finita e posso chiedere a mio padre di rimanere finché non ricomincia la scuola» disse continuando a darsi del cretino per non averci pensato prima. Lucia lo strinse forte a sé appoggiando la guancia sul suo petto. Anche se fosse riuscita ad andare all’università a Bologna, l’inverno era lungo da are e dentro di sé rimaneva la paura che tutto potesse scemare come l’anno prima. «Non preoccuparti: resterò fino a settembre e poi ti scriverò e verrò a trovarti tutte le volte che posso. Non sarò così stupido da perderti anche questa volta…».

Capitolo XXVI Le otto in punto era l’orario di inizio del party di chiusura del torneo. Come ogni anno si sarebbe celebrato al ristorante “al Lago” e avrebbe previsto un menù speciale per tutti i partecipanti e gli organizzatori dell’evento. Il sindaco avrebbe presenziato la festa seduto in mezzo ai vip e avrebbe fatto il suo discorso di chiusura della gara a inizio serata. Quel giorno era l’unico di tutta l’estate in cui il ristorante non sarebbe stato aperto al pubblico. Gli invitati erano talmente numerosi che avrebbero occupato anche tutta la veranda esterna. Per Alfredo quello era il giorno più delicato. Doveva preparare la cena per tutte quelle persone e addobbare il locale ricreando un ambiente perfetto da copertina. I fotografi delle riviste di settore più importanti sarebbero stati presenti all’evento e quel party era l’occasione migliore che avesse per fare pubblicità al suo ristorante. Marco in camera rovistò nell’armadio per mezz’ora prima di trovare qualcosa di decente da mettersi. Voleva essere perfetto sia per il party che per la serata con Lucia. Indossò dei jeans chiari a sigaretta, una camicia beige e un paio di scarpe marroni in tinta con la cintura. Davanti allo specchio diede una ata di gel ai capelli e spruzzò ai lati del collo il profumo preferito. Quando i compagni bussarono alla sua porta era praticamente già con la mano sulla maniglia. Stava per uscire, quando si ricordò del regalo che aveva preso per Lucia. Nella via del ritorno era ato dal centro del paese e si era fermato in un negozietto etnico per comprarle qualcosa che lo ricordasse quando se ne sarebbe tornato a Forlì. Se lo infilò in tasca, controllò di avere il portafogli e raggiunse il ristorante insieme al resto del gruppo. Arrivati con largo anticipo, furono fatti accomodare nel tavolo migliore. In fondo alla pizzeria con le spalle rivolte verso la finestra, si potevano godere il fresco della brezza che entrava e avere una visuale completa delle due stanze. «Ti avevo detto di non farti più vedere» disse Alfredo al fratello quando lo vide entrare dalla porta della cucina. «Dai, Alfredo, non potrai rimanere arrabbiato per sempre».

«Non c’è proprio limite al peggio» continuò Alfredo guardandolo con disprezzo. «Cosa vuoi dire?». «Lo so che la partita di oggi è stata decisa a tavolino». Il sindaco cercò di fare l’espressione di quello che non ne sapeva niente, ma questa volta Alfredo fu meno ingenuo e non riuscì a dargliela a bere. «È stato necessario per il bene del paese» disse lui cercando di giustificarsi. «Spinello aveva bisogno di riconquistare popolarità. L’economia locale non può permettersi che l’attenzione venga spostata da un’altra parte». «L’economia locale o la tua carica deve avere l’attenzione di tutti?» chiese Alfredo indignato. «Non sei contento che tuo nipote vada a giocare nel Bologna? Pensi che l’avrebbero notato se il Forlì non avesse vinto la finale? Lo sai come funzionano le cose: oggi sei sotto i riflettori e tutti ti guardano, domani perdi d’interesse e non vali più niente per nessuno». «Immagino che Marco non lo sappia che ti sei messo d’accordo?». Il sindaco non rispose apertamente, ma la risposta era chiara. «Spero per te che ti vada sempre tutto bene, ma i nodi prima o poi vengono al pettine. Se non stai attento prima o poi finirai con il rimanerci scottato. E adesso vattene che ho un cenone di cui occuparmi e non voglio perdere altro tempo». Il sindaco se ne andò dalla cucina abbattuto. Questa volta il fratello sembrava fare sul serio ed ebbe l’impressione che il loro rapporto non sarebbe mai più tornato come prima. Uscì dalla porta posteriore e rientrò da quella principale con il suo solito sorriso di cortesia stampato in faccia. Gli ospiti erano tutti arrivati e i camerieri stavano servendo l’aperitivo di benvenuto. «Vorrei cogliere l’occasione per fare un brindisi e dire due parole» disse a voce alta cercando di catturare l’attenzione di tutti battendo il manico di una forchetta contro il calice di cristallo.

«Innanzi tutto vorrei ringraziare tutti voi che avete partecipato anche quest’anno al Trofeo Olimpia, come giocatori, ospiti e organizzatori dell’evento. Un ringraziamento particolare lo rivolgo a chi, quotidianamente, si è occupato della logistica e delle questioni tecniche: gli operai, i coordinatori, ma anche gli allenatori che hanno saputo seguire e disciplinare i nostri ragazzi. Ringrazio i dirigenti della Lega Serie A e gli osservatori che ogni anno trovano sempre il tempo per venire a trovarci e dare un’occhiata ai giovani talenti. Ho saputo che sono stati firmati un paio di contratti con due squadre della Serie A e ne sono orgoglioso. La finale di oggi è stata davvero una partita all’ultimo respiro e voglio congratularmi sia con il Forlì che con il Vicenza. Un brindisi a tutti i ragazzi presenti che in queste settimane si sono impegnati al massimo per dare il meglio di sé e uno di augurio per gli anni avvenire, affinché questo trofeo attiri sempre più squadre e possa servire come base di partenza per la realizzazione dei sogni di ognuno di voi». Un applauso generale riecheggiò nelle due stanze. Il frastuono delle mani dei ragazzi che sbattevano sui tavoli e dei piedi che pestavano sul pavimento sommerse la voce del sindaco che dovette fermarsi e fare una pausa. «A questo punto direi che è inutile trattenervi ulteriormente ma, prima di lasciarvi godere questo splendido cibo, vorrei invitare il Forlì a ritirare questa targhetta che ricordi il Trofeo Olimpia 2004 come una gara sportiva e dell’amicizia. Ci terrei a consegnarla al capitano in ricordo dei nostri cari amici Luca e Alessandro». I ragazzi commossi applaudirono questa volta più compostamente. La squadra del Forlì si diresse verso il sindaco e in fila indiana andò a stringere la mano di tutte le persone importanti che sedevano al tavolo con lui. Marco afferrò la targhetta, la sollevò in alto guardando i compagni di squadra e abbracciò calorosamente il padre. «Congratulazioni, figliolo, sono davvero orgoglioso di te». «Grazie, papà, ti voglio bene». La sala ritornò in breve tempo al brusio antecedente il discorso. I camerieri lavoravano incessantemente distribuendo dalla cucina piatti carichi di ottimo cibo, mentre il pizzaiolo si esibiva in lanci acrobatici delle spianate che andarono a riempire i soliti cestini di pane. Il party stava procedendo benissimo. La gente

mangiava soddisfatta e si godeva la serata accompagnata dalla musica jazz di un trio che stava suonando nella veranda. Il cielo era stellato, la brezza mitigava l’afa estiva e le luci decorative illuminavano il cuore di Spinello che lentamente aveva ripreso a pulsare. Nel pieno dei festeggiamenti, quando il tintinnare delle forchette si confondeva con il brusio delle parole allegre degli presenti, uno strano scoppio fece saltare la corrente elettrica e trasalire gli invitati. Gli ospiti nella veranda si girarono immediatamente verso le finestre, mentre quelli all’interno cercarono di capire da dove lo scoppio fosse provenuto. Un fiamma improvvisa si presentò ai loro occhi facendoli alzare di colpo dai tavoli. Presi dal panico e spaventati dalla velocità con cui le fiamme si ingrandivano, cominciarono a urlare e correre confusamente verso la porta principale. Il fuoco in breve tempo raggiunse il soffitto e si estese in tutte le direzioni inglobando il mobilio vicino. Le persone più indietro iniziarono a spintonare quelle davanti e alcune di loro caddero a terra fra le sedie in mezzo alla stanza ostruendone il aggio. «Cerchiamo di mantenere la calma e nessuno si farà niente» urlò il sindaco sperando che lo stessero ad ascoltare. Le grida di terrore però erano talmente forti che ogni tentativo di dare delle indicazioni ò inascoltato. Quando Alfredo uscì dalla cucina non credette ai suoi occhi: quello che pensava fosse un semplice blackout, si era trasformato in un incendio che stava rovinando tutto il suo locale. Tornando indietro fra gli spintoni della gente, afferrò l’estintore appeso al muro e lo ò a uno dei camerieri. «Prova a vedere se riesci a contenere l’incendio con questo» gli disse tirandoglielo prima che la calca lo spingesse fuori dalla pizzeria. Il cameriere avanzò controcorrente attaccato al muro, ma quando si avvicinò alle fiamme e azionò l’estintore, non riuscì a domarne che una piccola parte. «Non serve a niente, è troppo tardi» urlò ad Alfredo che però era già lontano. «Aiutami a far uscire queste persone» gli disse il sindaco dall’altra parte della stanza. «Falle are dalla cucina che è più sicuro». Il cameriere obbedì e sparì nella sala da pranzo.

«Marco, dove sei? Marco?» urlò subito dopo guardandosi attorno in mezzo al fumo che limitava la visuale. «Marco? Marco?» continuò a urlare abbassandosi a terra con la mano davanti alla bocca che tossiva. Fuori dall’edificio le persone che avevano scampato l’incendio e i turisti che si erano radunati tutt’intorno stavano osservando con orrore quel terribile spettacolo. In pochi minuti arrivarono anche i vigili del fuoco, la polizia e due ambulanze. «Fate largo! Lasciate are!» urlava un agente facendo strada al camion dei vigili. Un paio di pompieri entrarono nella sala da pranzo per completare l’evacuazione, mentre gli altri si posizionarono davanti alle finestre con le manichette dell’acqua. Quando le fiamme raggiunsero il forno a legna un secondo scoppio fece crollare un paio di travi dal soffitto e indietreggiare i pompieri. «Più indietro! State indietro!» urlò uno dei due puntando la manichetta verso l’alto. Le fiamme stavano uscendo dalle finestre e le imposte stavano crollando come se fossero di carta. Di fronte a quello spettacolo di fuoco Marco cercò fra la folla il padre chiamandolo ripetutamente. Controllò vicino alle ambulanze, fra i compagni di squadra e chiese a tutti se lo avessero visto. Non trovandolo da nessuna parte ebbe la sensazione che fosse rimasto dentro. Preso da un profondo senso di angoscia corse verso l’ingresso e cercò di entrare. «Allontanati da qui, è pericoloso» disse uno dei pompieri continuando a fare uscire le persone. «C’è mio padre là dentro, devo andare a prenderlo». «Ci pensiamo noi, ragazzo. Allontanati e lasciaci fare». Marco non riusciva a stare con le mani in mano. Il padre era in pericolo e doveva assolutamente fare qualcosa. Correndo nel giardino verso il lato dell’edificio,

vide la porta di servizio aperta e ò dalla cucina. «Papà, dove sei? Papà?» gridò attraversando la sala da pranzo. «Marco? Marco sei tu?» chiamava una voce dolorante da dentro la pizzeria. Marco si abbassò per vedere meglio attraverso il fumo e ritrovò il padre schiacciato a terra sotto una pesante trave di legno. «Marco, cosa ci fai qui, vai via!» disse il sindaco con espressione dolorante. «Sono venuto ad aiutarti, papà, non ti lascio qui» rispose lui cercando un modo per sollevare la trave. «È troppo pesante, lascia perdere e mettiti in salvo». Il sindaco era stremato dal dolore. La trave gli aveva spezzato una gamba e, crollata all’altezza del ginocchio, gli impediva di fare qualsiasi movimento. «Vado a chiamare aiuto e poi torno» disse Marco scomparendo nel fumo. Il sindaco si lasciò cadere a terra e, sempre più debole per il dolore estenuante, si rassegnò al suo tragico destino. «Come hai fatto ad entrare? Ti avevo detto di allontanarti» disse il pompiere meravigliato. «Mio padre è rimasto incastrato là dentro, deve venire ad aiutarmi» rispose Marco tossendo. «È troppo pericoloso, sta crollando tutto, non possiamo andare là dentro». «Ma c’è mio padre, non posso lasciarlo là» insistette correndo di nuovo verso la pizzeria. Il pompiere cercò di afferrargli la mano, ma Marco fu più veloce e gli scappò via. «Accidenti!» disse girandosi verso il collega. «Vado dentro un attimo. Un ragazzo è tornato indietro per salvare suo padre, non lo posso lasciare andare così».

Acquattandosi sulle ginocchia attraversò la sala da pranzo e raggiunse la pizzeria. «È qui sotto, presto» urlò Marco continuando a tossire. «Al mio tre spingiamo con i piedi la trave verso il basso» disse il pompiere dopo aver controllato il pezzo di legno. «Ma così gli faremo male alla gamba». «Non possiamo sollevarla, è troppo pesante. Questa è l’unica soluzione. Al mio tre, okay? Uno, due, tre». Marco appoggiò il piede a un’estremità della trave e spinse con tutta la sua forza verso il basso. Il sindaco urlò di dolore e, con le poche forze che gli rimasero, si sollevò da terra con l’aiuto del vigile che lo teneva sotto braccio. «Andiamo prima che crolli tutto» urlò il pompiere allontanandosi verso l’uscita. Marco dietro di loro li stava per affiancare quando una nuova esplosione fece crollare un altro pezzo di soffitto. Le fiamme raggiunsero la porta comunicante con la sala da pranzo e fecero crollare dei mattoni che insieme a una trave ostruirono il aggio. Quando il pompiere e il sindaco si voltarono, si trovarono di fronte a un muro di macerie e fiamme. «Marco! Marco!» urlò il sindaco divincolandosi per staccarsi dal vigile. «Non può andare là, sta crollando tutto». «Devo andare a salvarlo, mi lasci andare!». «Mando un mio collega dalla finestra, noi qui non possiamo farci niente e rischiamo di rimanerci secchi» gli rispose il pompiere tirandolo a forza verso l’uscita. Appena furono fuori, il vigile lasciò il sindaco nelle mani degli infermieri e corse dal collega per vedere se fosse possibile entrare dalla finestra. «Non si può are da qui. Dobbiamo prima circoscrivere l’incendio. È pieno di mobili che stanno bruciando: prima conteniamo le fiamme e poi entriamo».

Il sindaco assisteva piangendo alla scena accasciato a terra con la gamba rotta piegata sul lato. «Sarebbe meglio che venisse con noi nell’ambulanza» disse l’infermiere cercando di spostarlo sulla barella. «Non mi muovo da qui finché non vedrò mio figlio uscire». Il volto del sindaco era emaciato e le lacrime sgorgavano dai suoi occhi consumati dallo strazio del momento. Anche se la gamba era lacerata e i polmoni si contorcevano ad ogni respiro, il dolore più grande era quello che provava nel pensare a suo figlio intrappolato fra le fiamme. Dopo diversi minuti di lavoro incessante, l’incendio venne domato e i pompieri entrarono nella stanza. Il sindaco aspettò immobile e, con lo sguardo fisso rivolto verso la finestra, pregò che uscissero con Marco ancora vivo. I pochi secondi che arono gli sembrarono interminabili. In quel momento non sentì più né il dolore né le parole degli infermieri che lo stavano medicando. Tutto concentrato e rivolto verso quell’unico punto, aveva annullato ogni sua percezione. Quando vide il primo pompiere uscire dalla finestra, con uno sforzo sovrumano si sollevò da terra cercando si rimanere in piedi. Appoggiandosi sulla gamba sana e aggrappandosi all’infermiere che gli stava accanto, fece due i per cercare di avvicinarsi. Gli occhi rossi e gonfi di lacrime si riempirono di disperazione quando vide che anche il secondo pompiere uscì fuori senza il figlio al seguito. Gli bastò un scambio di sguardi per capire che per lui non c’era stato più niente da fare. Saltellando sulla gamba cercò di raggiungerli, ma la mancanza di un appoggio stabile gli fece perdere l’equilibrio. Urlando a squarcia gola il nome di Marco fece un ultimo tentativo prima di accasciarsi a terra e perdere conoscenza. Il bagliore dell’incendio aveva illuminato tutto il paese come una grande fiaccola. Lucia stava cenando con i genitori quando notò il colore rosso in lontananza oltre la collina. Allarmata dal costante suono delle sirene dell’ambulanza, usci di corsa in giardino per capire di cosa si trattasse. Molti dei vicini di casa erano affacciati alle finestre e davanti ai portoni di casa: confrontandosi gli uni con gli altri si stavano interrogando su cosa potesse essere quella luce nel centro del paese. Senza pensarci due volte Lucia corse in garage e prese la vecchia bicicletta del nonno. Pedalando più in fretta che potesse, uscì

dalla zona residenziale, attraversò il parco e raggiunse il luogo in cui il bagliore era più forte. Quando vide che il ristorante era andato a fuoco, si ricordò del party di fine torneo e iniziò a preoccuparsi. La prima cosa che le venne in mente fu quella di chiamare Marco al cellulare. Lanciò la bicicletta per terra, prese dalla tasca il telefono e compose il suo numero. Spingendo con i gomiti per farsi largo, guardò fra i gruppi dei calciatori per individuare la sua squadra. Il cellulare suonò a lungo, ma nessuno rispose. Ancora più preoccupata si fece spazio fra le persone finché non raggiunse la prima fila. Lo spettacolo che le si presentò era impressionante: i muri esterni era quasi del tutto anneriti, le finestre erano mezze bruciate e alcuni vigili del fuoco stavano aiutando dei colleghi a uscire da una finestra. Le voci intorno della gente ripetevano che l’incendio era stato fulmineo e improvviso. Le fiamme avevano in poco tempo invaso la pizzeria, ma il tempestivo intervento dei vigili del fuoco era riuscito a contenere i danni. Nei pochi minuti che le servirono per raggiungere il paese, l’incendio era stato quasi del tutto domato. Quando vide uno dei pompieri guardare nella sua direzione, si accorse che di fronte a lei c’era un uomo accasciato sul pavimento. Gli infermieri stavano cercando di tenerlo fermo quando all’improvviso urlò il nome di Marco. In quell’istante si accorse che si trattava del sindaco. In quel preciso momento si rese conto che qualcosa di brutto doveva essere accaduto al suo fidanzato. Correndo con il cuore in gola verso gli infermieri, si buttò a capofitto sul corpo disteso del sindaco per chiedergli cosa fosse accaduto. «Ha perso conoscenza, non può risponderle» le disse uno degli infermieri adagiandolo sulla barella. «Cos’è successo? Cos’è successo a Marco?» chiese in stato confusionale sperando che qualcuno la rassicurasse smentendole quello che stava pensando. Rimasta da sola, guardò il sindaco esanime lasciarsi trasportare dentro l’ambulanza. In pochi secondi le sirene si accesero e il camioncino si allontanò a tutta velocità verso l’ospedale. Lucia rimase immobile con lo sguardo fisso verso il ristorante bruciato finché l’allenatore del Forlì non la raggiunse per darle una spiegazione. «Mi dispiace, Lucia, mi dispiace tanto» disse con gli occhi gonfi appoggiandole una mano sulla spalla. Lucia non riuscì a dire una parola. Non poteva credere a quello che stava

vedendo. Non voleva credere che il suo Marco se ne fosse andato per sempre. Quella notte ci vollero ore prima che la situazione ritornasse sotto controllo. La polizia dovette stimare con i vigili la pericolosità del locale, dirigere il traffico, far sgomberare l’area e interrogare i testimoni per cercare di ricostruire la dinamica dell’accaduto. Quella notte l’incendio del locale fu il secondo duro colpo che Spinello dovette incassare. Alfredo, sotto shock per la morte di Marco, ò la nottata insonne sforzandosi di capire come tutto ciò fosse potuto accadere. A sole due settimane dalla morte di Luca e Alessandro era capitata un’altra terribile sciagura. Non gliene importava niente del danno che aveva subito il suo locale. Non gli importava di dover chiudere fino all’estate prossima perché c’erano i lavori di ristrutturazione da fare. Quello per cui non riusciva a darsi pace era il fatto che nel suo locale avesse perso la vita il suo unico nipote. Rigirandosi nel letto pensava al fratello e non poteva fare a meno di provare odio e disprezzo. Nonostante fosse stato portato esanime in ospedale, non era dispiaciuto per lui e non provava alcuna pietà. Non gli importava di andarlo a trovare né di informarsi sulle sue condizioni di salute. Lo riteneva responsabile di tutto e si sentiva in colpa per aver ceduto alle sue richieste. Anche se era stato lui ad aiutarlo ad aprire il ristorante e a far fruttare gli affari, non riusciva più a contemplarlo come parte della sua famiglia. Come avrebbe voluto che fosse rimasto lui intrappolato nelle fiamme al posto del suo Marco. Più ripensava alla sera in cui gli chiese quel maledetto favore, più si convinse che da quel momento le cose avevano iniziato a prendere una piega diversa. Era come se qualcuno li stesse perseguitando per quello che avevano fatto. Si sentiva colpevole e non riusciva a farsene una ragione. Era sicuro che non avrebbe più rivolto la parola al fratello, ma qualcosa gli diceva che le disgrazie non si sarebbero arrestate sotto le macerie. Il sindaco rimase immobile nel letto dell’ospedale per quasi un mese intero. Gli antidolorifici e le pillole che gli avevano somministrato lo tennero talmente sedato che il continuo stato di intontimento lo aiutò a tollerare meglio anche il dolore per la perdita di Marco. A parte qualche collega di lavoro e l’ispettore Moretti, nessuno lo andò mai a trovare. L’unico parente che gli era rimasto era Alfredo che però non si fece mai sentire. Quando fu congedato e fece rientro nella casa di Forlì, le stanze gli sembrarono

fredde e vuote. Non c’era più il disordine che Marco lasciava sempre in giro, né la musica assordante che agitava gli animi dei vicini. Tutto era in ordine e perfettamente al suo posto come la domestica l’aveva lasciato. Per diversi mesi fece avanti e indietro a Spinello per svolgere l’ultimo anno nel suo ruolo di primo cittadino. Quell’inverno però gli sembrò lungo ed estenuante. Tutto aveva perso d’importanza, inclusa la sua tanto amata carriera. A soli pochi mesi dal suo rientro in città, la desolazione di quella casa divenne insopportabile. Non aveva più senso rimanere lì da solo attanagliato dai ricordi del figlio e della moglie scomparsi. Non sapendo cosa farsene di due case vuote, decise di vendere quella di Forlì e trasferirsi a Spinello. Anche se l’incendio era accaduto proprio in quel paese, sperava che, chiudendosi dentro le mura di casa, avrebbe soffocato i dispiaceri nel silenzio della natura, lontano dai ricordi della routine cittadina. Quando riaprì la porta della villa di Spinello, la cosa che gli balzò subito agli occhi fu il contratto con il Bologna appoggiato sul tavolo dell’ingresso. Prima ancora di levarsi il cappotto e sistemare le sue cose, corse verso il camino e accese il fuoco. Lo scoppiettio della legna per un istante risuonò nelle sue orecchie forte e angosciante come quello dell’incendio. Preso da un momento di sconforto afferrò il contratto, lo strappò in mille pezzi e lo scagliò contro le fiamme. Poi, accasciandosi miseramente sulla poltrona di fronte, osservò rassegnato quei pezzetti di carta consumarsi lentamente insieme al suo dolore. Dopo la sera dell’incidente Lucia si chiuse in casa e per parecchi giorni non parlò più con nessuno. Vagando fra le stanze come uno zombie, ignorò i consigli dei genitori e si chiuse nel suo mondo immaginario. La realtà non aveva più nessun motivo di esistere. Tutto quello che le stava intorno le ricordava Marco e andava eliminato, almeno dalla sua vista. Trascorrendo il resto dell’estate chiusa in camera a leggere, non mise mai il naso fuori dalla porta neppure per andare a prendere dei libri nuovi. Era la madre il referente a cui commissionava il noleggio in biblioteca. Più restava riparata dentro le mura di casa meno sentiva il dolore lacerarle il cuore spezzato. Quando arrivò l’autunno e fu il tempo di ritornare a scuola, Lucia finì l’ultimo anno senza infamia e senza gloria. Ogni mattina prendeva l’autobus, assisteva alle lezioni e ava tutto il pomeriggio a studiare e a perdersi con la lettura nei suoi mondi incantati. Dopo il diploma non si informò per studiare a Firenze, né tanto meno per andare a Bologna. All’università finì per non andarci proprio per

niente. Tutto l’entusiasmo che aveva sempre avuto nel fare le cose era andato completamente perduto. Tutta l’energia che trasmetteva a Marco si era consumata insieme a lui nell’incendio. Solo dopo qualche anno le cose cominciarono lentamente a migliorare. Iniziò a lavorare con la madre nel bar del centro e riprese ad uscire insieme a qualche amica vicina di casa. Ogni tanto, nelle sue eggiate solitarie al tramonto, ava davanti alla villa dell’ex sindaco e la osservava malinconica. Più di una volta fu tentata di fermarsi per chiedergli come stava, ma poi, temendo di non reggere le sue stesse emozioni, finì sempre per lasciar perdere e tirare dritto.

Capitolo XXVII «Secondo le indicazioni del vecchio, la casa dell’ex sindaco dovrebbe essere in fondo a questa strada» disse Lorenzo in testa al gruppo, camminando in salita a o sostenuto. «Cavolo, alla faccia della residenza estiva. Questa non è una casa, è una reggia» commentò stupefatta Pamela quando arrivarono davanti al cancello. La villa era l’ultima della via, nascosta fra il verde degli alberi, con il retro che dava sul bosco di Spinello. Disposta su tre livelli, al pian terreno le ampie vetrate si susseguivano sotto il porticato di fronte a una serie di colonne in mattone a vista. Il cortile era curato, l’erba era tagliata di fresco e le piante erano minuziosamente potate. A sinistra tre ulivi circondavano il pozzo in sasso, mentre sulla destra un salice piangente pendeva su un tavolino e due sedie decorate a mosaico. La cancellata era in ferro battuto e il muricciolo bianco di recinzione circondava tutta la proprietà. Il secondo piano era adornato nei balconi da lunghi vasi di fiori, mentre l’ultimo piano, a ridosso del tetto spiovente, aveva al centro due finestrelle dalla forma irregolare. Fra le tegole di cotto rosso spuntavano quattro comignoli e da uno di essi stava uscendo del fumo. I ragazzi si immaginarono l’uomo seduto davanti al camino godersi i giorni della sua pensione. «Certo che fare il sindaco comporta dei notevoli vantaggi» commentò Cristina. «Lo puoi dire forte» aggiunse Roberto. «Abbiamo sbagliato tutto. Nella prossima vita ci diamo anche noi alla politica». «Nella prossima vita allora vedi di farti delle buone conoscenze, se no non andrai proprio da nessuna parte» replicò ironica Cristina. «Ragazzi, siamo sicuri di volerlo fare? E se si incazza?» chiese Pamela non molto convinta di voler suonare il camlo. «Al massimo ci caccerà via» risposero Andrea e sca quasi in contemporanea.

Lorenzo non disse nulla, ma era chiaro che a quel punto non si sarebbe più tirato indietro. Si fece coraggio e premette il camlo. Aspettò nervosamente qualche istante, finché la voce di un uomo rispose, chiedendo chi fossero dall’altra parte del citofono. «Siamo degli studenti» disse improvvisando. «Stiamo facendo una ricerca per conto dell’università sul paese di Spinello e, se non le dispiace, vorremmo farle qualche domanda». I ragazzi lo fissarono attoniti. Non si aspettarono di sentire Lorenzo inventarsi una scusa e furono curiosi di vedere come avrebbe portato avanti quella farsa. «E come mai volete fare delle domande proprio a me?». «Perché lei è stato sindaco di Spinello. Chi meglio di lei conosce questo paese?». L’ex sindaco indugiò per qualche istante e poi fece scattare il cancello. Il portone principale si aprì e un uomo avvolto nella vestaglia fece cenno di avanzare. I ragazzi, accalcati gli uni sugli altri, camminarono lungo il vialetto e raggiunsero il porticato. L’uomo si presentò in abiti informali, con i pantaloni della tuta blu e una felpa color vinaccia che sbucavano fuori dalla vestaglia di lana. Il viso era segnato dall’età nelle rughe profonde e i pochi capelli rimasti erano completamente grigi. «Non vorremmo farle perdere troppo tempo quindi faremo in fretta. Solo qualche domanda e poi togliamo il disturbo» disse Lorenzo che ormai aveva preso in mano le redini della conversazione. L’ex sindaco li guardò per un istante poi socchiuse la porta dietro di sé e li fece accomodare nei divanetti sotto il porticato. I ragazzi si sedettero in silenzio e aspettarono che Lorenzo parlasse per loro. Pamela era palesemente nervosa. Giocare all’investigatore era divertente, ma quando si trattava di andare a casa delle persone e raccontare delle bugie, la cosa non le piaceva affatto. «Allora, le spiego brevemente di cosa si tratta» disse Lorenzo cercando di prendere tempo per farsi venire in mente qualcosa. «Innanzi tutto grazie ancora per la sua disponibilità. Stiamo facendo una ricerca sulle attività paranormali

presenti in alcune abitazioni e locali pubblici del territorio romagnolo. Abbiamo già ispezionato una casa vicino a Cesena, parlato con i proprietari del castello di Azzurrina, non so se lei lo conosce, ed ora stiamo analizzando il vecchio ristorante giù in paese». Pamela guardò Andrea sconcertata. Era sicura che l’uomo non l’avrebbe bevuta. Lorenzo tirò fuori dalla tasca un pezzo di carta e una penna e fece il gesto di prendere appunti. Non era sicuro che quell’argomento gli sarebbe andato a genio, ma, dato che quello che volevano sapere andava in quella direzione, tanto valeva affrontarlo subito senza girarci troppo attorno. Il sindaco, di primo acchito, non ebbe nessuna reazione. Guardò Lorenzo chino sul pezzo di carta, poi ò in rassegna tutti gli altri osservandoli uno ad uno. «Conosco la storia del castello di Azzurrina…» disse incrociando le dita delle mani sul ventre mentre si accomodava sullo schienale. sca deglutì il nodo che aveva in gola e si sforzò di mantenere il contatto visivo. Era talmente preoccupata che qualcosa andasse storto che, ogni volta che lui la guardava, le veniva da girarsi dall’altra parte. «Che università frequentate?» chiese incuriosito. «Siamo studenti della facoltà di Psicologia di Bologna» disse Cristina cercando di portare la conversazione su argomenti che conosceva. «Di solito il programma di studi non prevede queste cose, ma di recente abbiamo partecipato a una conferenza di uno psicologo americano che ha tentato di spiegare la psicologia sotto un aspetto completamente diverso…». Cristina era molto nervosa. Gli occhi fissi su di lei la misero a disagio e perse il filo del discorso. «Quello che vuole dire…» intervenne sca salvandola in extremis «è che in America esiste una branca della Psicologia, detta appunto Parapsicologia, dove vengono studiati con metodi scientifici alcuni fenomeni particolari. Ci siamo apionati all’argomento e abbiamo deciso di fare delle ricerche nella nostra regione». Cristina assecondò l’amica e l’aiutò nella sua argomentazione. Pur sapendo

benissimo che la Parapsicologia non trattava il soprannaturale, sperò che l’uomo fosse estraneo alla materia abbastanza da poterci credere veramente. Pamela osservò in silenzio gli amici e si meravigliò di come riuscissero a inventarsi tante stronzate per riuscire a intervistare quell’uomo. Sotto un certo punto di vista quel vecchio le faceva pure pena: infagottato nella sua vestaglia, con gli occhi nascosti dietro a due lenti spesse come fondi di bottiglia, stava perdendo tempo ad ascoltare degli imbroglioni. D’altro canto erano talmente determinati a scoprire la verità, che avrebbero fatto qualsiasi cosa pur di arrivare alla conclusione di quell’assurda vicenda. Tenendosi Cleopatra in braccio e rimanendo in silenzio per quasi tutto il tempo, osservò come il povero malcapitato rispondesse alle domande dei suoi aguzzini. «Allora, quali sono le cose che volevate sapere?» chiese l’ex sindaco per non perdere troppo tempo. «Per prima cosa vorremmo sapere se, secondo lei, esistono o sono esistite delle attività paranormali nel vecchio ristorante. Alcune persone giù in paese ci hanno accennato qualcosa a tal proposito» disse Lorenzo rimanendo sul vago per vedere la sua reazione. «Ci hanno elencato tutti gli incidenti che sono successi e di come avrebbero reso impossibile la ristrutturazione del ristorante dopo l’incendio» aggiunse sca rendendosi però conto subito dopo di aver toccato un tasto dolente. Lorenzo si girò verso di lei e la fulminò con lo sguardo. «Mi scusi» disse lei portandosi una mano davanti alla bocca. Roberto si girò verso Cristina e con lo sguardo le fece capire che si erano appena giocati la possibilità di ricavare nuove informazioni. Tirare subito fuori l’argomento dell’incendio era stata davvero una pessima idea. «Non preoccuparti» replicò invece l’ex sindaco come se non fosse successo nulla «È ato molto tempo dall’incidente, non dico che me ne sia fatta una ragione, ma quantomeno riesco a parlarne». sca tirò un respiro di sollievo e si rilassò sullo schienale della poltrona. La sua gaffe non aveva compromesso l’intervista e il fidanzato non l’avrebbe infamata in privata sede.

«Per quanto riguarda queste attività paranormali… in verità non saprei…» aggiunse con tono fermo e pacato. Rimase in silenzio a pensare e poi ritornò sull’argomento raccontando la sua versione. «Quel ristorante è stato il successo e la rovina di questo paese. Tanti anni fa, come già probabilmente saprete, Spinello era una cittadina prospera e molti turisti ci venivano in vacanza nel periodo estivo. Il ristorante era conosciuto in tutta la vallata e attirava un sacco di gente sia per il buon cibo che per la balneazione del lago. Immaginatevi tutte le persone che abitavano nelle cittadine circostanti avere la possibilità di fare il bagno in quel bellissimo lago senza dover fare troppi chilometri per arrivare al mare. Fu un investimento molto fruttuoso quello» disse rivivendo con la mente i momenti felici di Spinello. «E invece il lato negativo?» chiese Cristina che non vedeva l’ora di arrivare al sodo. Il sindaco con una mano le fece cenno di aspettare. Nel suo ricordo idilliaco non aveva ancora finito di parlare degli aspetti positivi. «A rendere prospero Spinello contribuì anche il centro sportivo Olimpia. Grazie a me e alla mia lungimiranza siamo riusciti a trasformare il torneo locale in un trofeo di fama nazionale. Ho impiegato tutte le mie energie in campagna elettorale per convincere gli abitanti di questo paese che investire altro denaro su quella struttura avrebbe portato ricchezza e prosperità. E per molti anni fu così, prima che succedesse quel che è successo…». I ragazzi seguirono il discorso in silenzio aspettando che dicesse quello che stavano cercando. «Insomma… come vi avranno già detto, prima che accadessero tutti quegli incidenti che hanno mandato il paese alla malora» concluse spicciativo, non avendo alcuna intenzione di entrare nel dettaglio. «Sarebbero proprio quegli avvenimenti che a noi interesserebbero» disse sca con voce soffusa cercando di non sembrare troppo pedante. Non poteva fare cadere la conversazione in quel modo e qualcuno prima o poi avrebbe dovuto insistere.

«Se per lei non è di troppo disturbo» aggiunse Lorenzo sperando di invogliarlo a parlare. «No, no, non c’è problema. È solo che per me è molto doloroso ripensare a quel periodo. Come avrete saputo, mio figlio è morto la notte in cui c’è stato l’incendio. Da allora le cose non sono più tornate come prima. Era l’ultimo anno della mia carica di sindaco, ma dopo l’incidente non sono riuscito più a concludere nulla. Era come se con lui fosse morta anche una parte di me. Lo so che avrei dovuto continuare a svolgere il mio dovere di primo cittadino, ma non ce l’ho fatta. Non mi importava più di niente e di nessuno». I ragazzi, sentendo le parole tristi dell’uomo, si sentirono a disagio. Stavano giocando con i sentimenti di un poveretto rimasto solo e la sua espressione, chiaramente provata, fece pensare loro che non si potesse trattare di una cattiva persona. Non riuscivano a capire come mai il tizio ubriaco del bar ce l’avesse così tanto con lui. Forse non aveva figli e non poteva capire. Forse lo aveva giudicato sotto il profilo politico dimenticandosi di guardarlo anche sotto l’aspetto più umano. Di colpo le opinioni che avevano sentito a proposito dei suoi malaffari sembrarono loro le solite chiacchiere da bar. Era impossibile che un uomo che si era prodigato così tanto per quel paese potesse venire considerato un pessimo sindaco dai suoi stessi concittadini. Probabilmente molti di loro, come i genitori di Lorenzo, non avevano capito l’importanza di quegli investimenti. I ragazzi continuarono a fissare quell’espressione affranta non sapendo cos’altro dire. Pamela pensò a quanto dovesse essere triste vivere in quell’enorme casa nella totale solitudine. Lei che si svegliava tutte le mattine con le attenzioni del marito e le feste di Cleopatra, non si riusciva proprio a immaginare quanto deprimente potesse essere vivere ogni momento della giornata senza nessuno al proprio fianco. Anche sca era dispiaciuta del momento di amarezza che avevano suscitato e per un istante pensò che sarebbe stato meglio non essersi mai presentati. Quelli che invece rimasero più scettici furono Cristina e Lorenzo. Lei perché non si fidava in generale dei politici, lui perché sapeva che su quegli argomenti i genitori non si erano mai sbagliati. «Le dispiacerebbe dirci qualcosa di più sull’inizio del declino?» chiese educatamente Roberto che era l’unico che non si era fatto ancora un’idea di che tipo fosse quell’uomo.

L’ex sindaco fece un profondo respiro, ritornò alla sua faccia inespressiva e continuò la sua spiegazione dei fatti. «Tutto è cominciato dopo il primo incidente. Dopo che sono morti i due ragazzi, ho fatto di tutto perché la disgrazia asse in sordina e si potesse tornare alla normalità. Le cattive notizie non portano mai a nulla di buono. Poi però sono successi gli altri incidenti uno di seguito all’altro. Le voci hanno iniziato a girare e in paese si incominciò a pensare che il ristorante fosse maledetto. La morte dei due calciatori in poco tempo ritornò sulle bocche di tutti e i primi che si allarmarono furono i genitori di alcuni ragazzi che decisero di non farli più partecipare al torneo. Con la chiusura definitiva del ristorante e il divieto di balneazione, anche i turisti hanno iniziato a calare: senza le due attrazioni principali, sembrava che Spinello non avesse più niente da offrire». «Quello che però ci sembra strano è proprio questo» disse Roberto cercando di chiarire il aggio. «Anche le altre persone che abbiamo intervistato hanno tirato fuori la storia delle dicerie come causa del lento declino. Noi però non riusciamo a capire come sia possibile che delle semplici voci possano avere un impatto così grande da influenzare l’andamento di un intero paese». «Voi non avete idea di quanta forza possano avere le convinzioni delle persone. Sono un po’ come gli stereotipi e le superstizioni: si tramandano di generazione in generazione e, una volta instaurate, sono difficilissime da eliminare. Pensate solo a tutte le volte che vi cade il sale sulla tavola o dovete camminare sotto una scala: chi di voi non ha mai fatto il gesto di gettarsi il sale alle spalle o cercare di are da un’altra parte. Sono retaggi culturali che ci portiamo dietro e che influenzano la nostra vita anche se non lo vogliamo. Figuriamoci poi in un paese come questo, abitato da contadini con un livello bassissimo di scolarizzazione. Anche se sono stati costruiti alberghi e impianti sportivi, la mentalità è rimasta sempre quella povera e limitata di una volta». «Quindi, secondo lei, quello che si vociferava in paese era solo frutto, diciamo, dell’ignoranza popolare» chiese Andrea non molto convinto che una spiegazione del genere potesse essere vera. «Ovviamente. Non vorrete mica credere che esistano i fantasmi?» disse l’ex sindaco lasciandosi scappare una timida risata. «In realtà è proprio quello che stiamo cercando di studiare» intervenne

sca che preferiva la versione soprannaturale. «Ragazzi, scusate se non prendo la vostra ricerca molto sul serio, ma queste cose sono solo leggende metropolitane. Prendete il castello di Azzurrina: avete visto che business sono riusciti a farci da quella storia? Peccato che noi, invece di trarci un profitto, abbiamo mandato tutto alla malora» commentò con un amaro sorriso. Roberto guardò Cristina come per dirle che c’era qualcosa che non gli tornava. Le parole di quell’uomo erano troppo misurate. Sentiva che dietro la sua storia c’era qualcosa di più, ma non sapeva come fare per leggere tra le righe. La storia di Spinello continuava ad essere ingarbugliata. C’è chi parlava bene dell’ex sindaco, chi ne parlava male, chi diceva che gli incidenti erano solo coincidenze, chi li attribuiva a presenze misteriose. In mezzo a quel guazzabuglio di informazioni Roberto pensò che l’ultima carta da giocare fosse quella di raccontargli quello che era successo loro dentro al ristorante. «Lei dirà che sono solo superstizioni, però quando siamo entrati nel ristorante in effetti sono successe delle cose strane…». Il sindaco di colpo serrò le labbra e si fece serio. «Siete entrati nel ristorante?!». «Sì, perché?» chiese Roberto sorpreso dal repentino cambiamento di espressione. Non gli sembrava di aver detto una gran cosa, ma il volto dell’uomo gli fece capire che era stato toccato un altro tasto dolente. «Volevamo fare un sopralluogo…per la ricerca…» disse sca cercando di farlo tranquillizzare. «E cosa avreste trovato là dentro di così soprannaturale?». «Prima di tutto abbiamo trovato un giornale con l’articolo sulla morte dei due calciatori» intervenne Andrea vedendo che la conversazione si stava facendo interessante.

«Che poi la seconda volta che siamo entrati è cambiato, contenendo invece l’articolo sull’incendio del ristorante» aggiunse Roberto. «Ma non diciamo sciocchezze. Come fa un giornale vecchio di dieci anni a essere rimasto per tutto quel tempo là dentro? Figuriamoci poi se cambiano gli articoli». «Le dico che è così, lo abbiamo visto con i nostri occhi» replicò Andrea che, pur essendo scettico su quelle cose, non poteva negare quello che aveva visto. «E poi c’era quella continua sensazione di non essere soli, quando Cristina ed io eravamo nello scantinato e quando Roberto non riusciva ad aprire la porta di una camera al piano di sopra…». I ragazzi annuivano alle parole di sca fissando il sindaco che sembrava sempre più scosso dalle loro parole. «Secondo me, ragazzi, avete visto un po’ troppi film» disse con aria di sufficienza cercando di tagliar corto. Da come si comportava era chiaro che volesse concludere quella conversazione. Si stava sfregando le mani e le strisciava sulle braccia come per dire che aveva freddo e voleva rientrare in casa. «Le stiamo dicendo la verità. Lo scopo della nostra ricerca è proprio quello di raccogliere indizi cercando di rimanere il più obbiettivi possibili» insistette Lorenzo infastidito dal suo cambiamento di umore. Pamela osservò l’espressione indignata dell’uomo e temette una sua improvvisa reazione. «Forse è meglio se ce ne andiamo» bisbigliò sottovoce all’orecchio di sca. «Non mi sento a mio agio, ho bisogno di una sigaretta…». Alla parola “sigaretta” sca mise le mani in tasca e cercò quello che per tutto il tempo l’aveva perseguitata. Frugando fra il pacchetto e l’accendino prese la boccetta di Guttalax e la tirò fuori davanti a tutti. «Poi abbiamo trovato anche questa» disse mettendola in bella vista.

L’ex sindaco sgranò gli occhi e allungò la mano per afferrarla. «Giusto, me ne ero dimenticato» intervenne Lorenzo prendendola dalle mani della fidanzata prima che lo potesse fare lui. «Questa è la cosa più inspiegabile di tutte» commentò girandosela fra le dita per indispettirlo. «È apparsa in cucina all’improvviso e da allora non siamo riusciti più a liberarcene». «Me la sono ritrovata sempre in tasca, anche quando pensavo di averla lasciata là dentro» spiegò sca. «Io sono sicura che era rimasta là dentro: ce l’avevo messa io sul tavolo della sala da pranzo» aggiunse Pamela intervenendo sull’unica cosa di cui era effettivamente certa. Il sindaco li ascoltava cercando di trattenersi, ma la sua espressione lasciava a intendere che la storia della bottiglietta lo stava turbando moltissimo. Più volte chiese di prenderla in mano, ma Lorenzo trovò sempre il modo per cambiare discorso e non dargliela. «Secondo lei cosa ci poteva fare una bottiglietta di lassativo nella cucina di un ristorante? Strano che sia saltata fuori così all’improvviso, non trova?» chiese Andrea divertendosi a stare al gioco dell’amico. «E cosa volete che ne sappia io?» rispose l’ex sindaco con tono sgarbato. «Forse è proprio questa il fulcro di tutta la storia. Magari le disgrazie sono nate proprio da questa bottiglietta» incalzò Roberto volendo vedere fino a che punto l’uomo sarebbe riuscito a contenere la sua frustrazione. L’ex sindaco era palesemente irritato. Più Lorenzo rigirava la boccetta sotto il suo naso, più traspariva dai suoi occhi la brama di volersene impossessare. Stanco di girarci attorno e vedendo che la conversazione non sarebbe andata da nessuna parte, si alzò di scatto dalla poltrona e sgarbatamente invitò i ragazzi ad andarsene dalla sua casa. «Mi sembra di avervi detto tutto quello che sapevo. Se non vi dispiace, adesso avrei delle faccende da sbrigare…». «Non volevamo turbarla così, signor sindaco» disse Andrea con tono sarcastico.

«Non mi avete turbato affatto. Adesso però andatevene» rispose con tono più inasprito sollecitandoli verso l’uscita. Dopo aver chiuso il cancello, senza neppure salutarli, camminò velocemente lungo il vialetto di casa e chiuse la porta dietro di sé sbattendola rumorosamente. «Cazzo se lo abbiamo fatto arrabbiare» commentò Roberto mettendosi a ridere. «Avete visto come si dimenava cercando di prendere la bottiglietta?» chiese Andrea ripetendo il gesto con Lorenzo. «Secondo me lui c’entra qualcosa» disse Cristina rinforzando la sua idea che tutti i politici avessero qualcosa da nascondere. «Voi non siete mica normali» commentò Pamela scuotendo la testa. «Comunque una cosa è certa: dalla sua reazione possiamo dedurre che il Guttalax deve per forza centrare con la storia» disse sca soddisfatta. Quello che aveva raccontato l’uomo era solo l’ennesima versione personale e la sua teoria paranormale poteva ancora essere un’ipotesi. «Sì, ma come?» chiese Roberto arrabbiato perché non riusciva a venirne a capo. «Questo è il punto. Ci manca il tassello più importante, la connessione di tutta la vicenda con questo lassativo» rispose Cristina sforzandosi di capire quale potesse essere. «Non credo che lo scoprirete mai» disse Pamela mettendo giù il cane. «Perché?» chiese sca accendendosi una sigaretta. «Perché è domenica pomeriggio e domani si torna a lavorare?». «Va bene, comunque abbiamo ancora una carta da giocare» disse Lorenzo che si era fatto prendere a tal punto da non volere più mollare. «Giusto, il pranzo» urlò Andrea accarezzandosi la pancia. «Ho un certo appetito, che ne dite di darci una mossa e raggiungere il bar?». «Ottima idea» risposero tutti lasciandosi la villa alle spalle e incamminandosi

verso l’ultima persona da intervistare.

Capitolo XXVIII Quando i ragazzi giunsero all’incrocio con la strada principale, girarono l’angolo e videro con sorpresa il bar pieno di persone. La maggior parte erano anziani, seduti nei tavolini all’esterno, impegnati a giocare a carte. «Cazzo, ma avete visto che ore sono?» disse Pamela guardando il cellulare. «Speriamo che ci diano ancora da mangiare, se no azzanno qualcuno» commentò Andrea dopo aver visto che erano già le due. I ragazzi si avvicinarono all’entrata osservando meticolosamente le persone nella veranda. Dopo aver sentito tutte quelle versioni sulla storia di Spinello, si chiedevano quali avessero sostenuto il sindaco e quali invece lo avessero odiato. «Chissà cosa ne pensa tutta questa gente degli incidenti» chiese sca mentre li osservava curiosa. «Potremmo andare da loro e intervistarli uno ad uno» disse ironica Pamela. «Non dirglielo due volte se no è buona di farlo veramente» commentò Andrea che non ci vedeva più dalla fame. «Andiamo dai, se no qua non ci danno più da mangiare». Dentro al locale i ragazzi avevano l’imbarazzo della scelta: gli anziani si erano seduti tutti fuori e i tavoli interni erano a loro completa disposizione. «È troppo tardi per mangiare?» chiese Andrea prima di sedersi. «No, prego. Accomodatevi pure» rispose la barista giovane. «Siamo a cavallo» disse a voce bassa Roberto per non farsi sentire. «Lucia è qui e possiamo farle tutte le domande che vogliamo». sca annuì e Lorenzo alzò il pollice in segno d’approvazione. Cristina si girò per osservarla, mentre Pamela sollevò gli occhi al cielo. «Il menù del giorno comprende atelli asciutti con speck e porcini e tagliata di manzo al rosmarino» disse Lucia avvicinandosi al loro tavolo.

«Altri primi?» chiese Pamela che non aveva molta voglia di mangiare dell’altra carne. «Ci sono le solite tagliatelle al ragù e i cappellacci panna e prosciutto». I ragazzi si consultarono per qualche istante e poi optarono per un tris di minestre da condividere. «Da bere volete del vino, acqua?». «Direi che oggi prendiamo solo dell’acqua. Fra poche ore dobbiamo tornare a casa ed è meglio rimanere sobri» disse Roberto facendola sorridere. Andrea lo guardò con aria dispiaciuta, ma non disse nulla. Lucia ringraziò e si allontanò con l’ordinazione. «Bisogna che la prendiamo in un momento buono quando non c’è la madre» disse Lorenzo intravedendola oltre il bancone dentro la cucina. «Finiamo di mangiare e poi vediamo, okay?» disse sca. «Secondo me è meglio lasciar stare. Non vorrei che finisse in una tragedia come ieri. Direi che le abbiamo rotto le palle già abbastanza, no?» commentò Pamela mentre allungava un biscottino a Cleopatra che si dimenava scodinzolante sotto il tavolo. «Più che altro dobbiamo pensare a che domande farle. Ormai la storia la sappiamo e non ci interessa un’altra versione dei fatti. Dobbiamo andare dritto al sodo e chiederle cosa ne pensa delle dicerie sui fenomeni paranormali» disse sca che non aspettava altro che avere una conferma della sua teoria. «Potremmo anche parlarle del Guttalax e della reazione che ha avuto oggi l’ex sindaco» propose Cristina. I ragazzi stavano vagliando tutte le ipotesi quando Lucia ritornò al loro tavolo con la pasta. «Non credo sia una buona idea parlarle del lassativo. Se l’ex sindaco fosse stato veramente invischiato in qualcosa di losco, al posto di Lucia non credo che lo vorrei sapere» commentò a bassa voce sca per non farsi sentire da Lucia

che si stava allontanando. «Perché no?» chiese stupito Lorenzo. «Se succedesse qualcosa che indirettamente mi riguardasse, io lo vorrei sapere». «Sì, ma qui la situazione è diversa. Stiamo parlando del padre dell’ex fidanzato e di una storia vecchia di dieci anni. Dopo tutto questo tempo e quello che ha ato, credi che le farebbe piacere sapere che forse il padre di Marco centrava con gli incidenti che sono successi? Sarebbe come girare il coltello nella piaga…». «E se poi fossero solo congetture? Che senso avrebbe metterle strane idee in testa per niente?» aggiunse Roberto intromettendosi nel battibecco che si era creato fra i due. «sca forse ha ragione. In fondo a noi cosa ci cambia il fatto che sappia determinate cose? Il nostro scopo è quello di venire a capo della vicenda, non di far riaprire il caso» commentò Cristina. «Il vostro scopo vorrete dire» precisò Pamela stanca di sentir ripetere sempre le stesse cose. «Va bene, allora le facciamo le domande che ci sembrano più utili e poi la finiamo qui» concluse Andrea. «Shhh, ragazzi, zitti, sta arrivando» disse Pamela facendo cenno con la mano di chiudere la bocca. «Volete qualcos’altro ragazzi? Dolci, caffè?». «Io o direttamente al caffè» rispose immediatamente sca che non vedeva l’ora di fumarsi una sigaretta. «Caffè per tutti» disse Andrea dopo aver chiesto agli altri. Lucia segnò l’ordinazione e sparì di nuovo dietro al bancone. «Allora, cosa facciamo?». «Chiediamo solo lo stretto indispensabile» disse Cristina.

«Niente Guttalax e niente riferimenti alla visita all’ex sindaco» ribadì Pamela. «Chi parla?» chiese sca. In quel momento Lucia tornò con il vassoio e appoggiò le sei tazzine sul tavolo insieme al contenitore dello zucchero. Nessuno sembrava avere il coraggio di fare il primo o. Roberto guardò Lorenzo e gli fece cenno di dire qualcosa. Lorenzo desistette e gli fece segno indietro per dirgli che poteva parlare anche lui. I ragazzi si guardavano negli occhi senza sapere chi e come avrebbe dovuto iniziare la conversazione. «Scusaci, Lucia, non vorremmo disturbarti ancora con le nostre domande…» parlò all’ultimo sca, prima che potesse essere troppo tardi. «Se non ti dispiace, vorremmo chiederti un paio di cose sugli avvenimenti del 2004. Sai quelli di cui parlava il vecchio ubriaco…». «Ci servirebbe per la nostra ricerca universitaria» aggiunse Cristina preoccupata che la barista non avesse alcuna voglia di ritornare sull’argomento. Lucia li guardò e posò il vassoio sul tavolo. «Stiamo facendo una ricerca sulle attività paranormali presenti in Romagna. Cose tipo rilevamenti di presenze nelle case e luoghi pubblici…» continuò sca. «Ah sì? Ecco perché volevate sapere degli incidenti. E come le rilevate queste presenze?» chiese Lucia incuriosita. «Beh, in realtà non le rileviamo proprio fisicamente …» rispose sca schiarendosi la voce per chiedere aiuto. «Più che altro ci limitiamo a raccogliere le informazioni che ci vengono fornite dalle persone e, se possibile, facciamo un sopralluogo per vedere se anche noi notiamo qualcosa di insolito» intervenne Lorenzo. «Cosa volete sapere di preciso?». «Dato che ci sono dei pareri discordanti sulle cause degli incidenti avvenuti in quell’anno, vorremmo sapere anche la tua opinione. Il fatto che si siano susseguiti uno dietro l’altro è stata una casualità oppure c’è veramente qualcosa

di strano dentro al ristorante?» chiese Roberto bramoso di una risposta. «Non saprei…è ato così tanto tempo… e poi io ero solo una ragazzina…». I ragazzi la fissarono sperando che potesse fornire loro qualche dettaglio in più. «Personalmente non ho mai creduto alle storie di fantasmi, ma il fatto che la gente stesse alla larga da quel posto mi fece venire il dubbio anche a me. Mi sembrò strano che di colpo nessuno volesse più risistemare il locale più famoso del paese. Anche lo stesso cuoco desistette dal portare avanti la ristrutturazione. Nonostante ci avesse investito tutto quello che aveva, alla prima difficoltà si tirò indietro e lasciò perdere. Quell’inverno, tra l’altro, vendette anche casa sua e da allora nessuno ha avuto più sue notizie». Lorenzo ripensò alla bottiglietta di Guttalax e fu tentato di fargliela vedere per cercare di capire se il cuoco potesse centrare con il lassativo che avevano trovato. Il fatto che l’avessero raccolta proprio in cucina e che il cuoco fosse sparito dalla circolazione poteva avere un qualche significato. «Credi che il cuoco potesse centrare con gli incidenti?» le chiese preferendo girarci un po’ attorno. «Non credo. Per quale motivo avrebbe dovuto centrare con l’incendio del proprio locale?». «Forse aveva una polizza assicurativa e, stanco di quel lavoro, aveva pensato di riscuotere i soldi e rifarsi una vita da un’altra parte» ipotizzò Lorenzo. «Vedendo morire il proprio nipote sotto i suoi occhi? Non credo proprio… e comunque amava troppo il suo lavoro per potervi rinunciare…». «Magari la morte del nipote è stata una disgrazia non prevista» commentò Cristina. Lucia in quel momento ripensò a Marco e alla scena del padre accasciato a terra distrutto dal dolore. Non poteva credere che l’incendio fosse stato deciso a tavolino. C’erano in ballo le vite di troppe persone per poter fare una cosa del genere. «Adesso che ci penso, da quell’inverno il sindaco e suo fratello non si sono mai

più parlati. Quando finalmente ebbi il coraggio di andarlo a trovare, parecchi anni dopo, il padre di Marco mi confessò che dal giorno dell’incendio non aveva avuto più notizie di Alfredo…». Più Lucia pensava a quell’ipotesi, più cresceva lo sconcerto fra le pieghe del suo volto. «Oh mio Dio! E se fosse davvero così? Se fosse vero che l’incendio faceva parte di un piano? Si spiegherebbe come mai Alfredo se ne fosse andato così alla svelta vendendo la casa e non dando più notizie di sé. Forse il padre di Marco sapeva tutto e, essendo il piano sfuggito di mano al fratello, gli attribuì tutta la colpa non perdonandolo per la morte del figlio». Lucia si stava quasi convincendo della possibilità che le cose potessero essere andate in quel modo. Rievocando le sensazioni che aveva provato gli anni successivi alla morte di Marco, si fece prendere dall’emotività del momento e andò nel panico. Cercò attorno a sé una sedia, la strisciò sul pavimento per avvicinarsela e si sedette prima di svenire a terra per l’agitazione. Pamela la osservò adagiata sul tavolo con la mano appoggiata alla fronte. Il volto era pallido e lo sguardo perso nel vuoto faceva capire quanto fosse provata. Indignata per l’insistenza degli amici, li fissò uno ad uno sollecitandoli con lo sguardo a fare qualcosa. «In realtà noi non crediamo che sia andata così» spiegò sca cercando un modo per farla calmare «Propenderemmo più per l’ipotesi paranormale… Forse avevano ragione quelli che dicevano che era il posto che portava sfortuna. Probabilmente il cuoco si rese solo conto di quanto fosse inutile continuare a investire su un locale che sarebbe poi rimasto vuoto». «Non si spiegherebbero altrimenti la morte del bambino e dell’elettricista subito dopo» aggiunse Cristina spingendo in quella direzione. Lucia annuì sforzandosi di contenere le lacrime. «Anche noi quando siamo entrati nel ristornate per fare un sopralluogo abbiamo avuto la sensazione che ci fosse qualcosa di strano. Era come se non fossimo soli. È per questo che stiamo propendendo per l’ipotesi soprannaturale…» aggiunse sca.

«Non so cosa dirvi, ragazzi. Questo è tutto quello che so» disse Lucia ricomponendosi sulla sedia. «Sono tante le ipotesi che sono state fatte a tal proposito. La polizia non ha mai trovato un indiziato e i casi sono stati tutti archiviati come incidenti». In quel momento un signore entrò nel bar e ordinò un caffè corretto. «Scusate, ma devo tornare a lavorare» disse alzandosi in piedi. I ragazzi la guardarono allontanarsi e rimasero perplessi. «Forse dovremmo dirle del lassativo» disse Roberto incuriosito dal fatto che l’ex sindaco e il fratello non si fossero più parlati. «Forse dovremmo farci i cazzi nostri e lasciarla in pace» disse Pamela stanca di vedere gli amici così insistenti. «Pamela ha ragione. A questo punto non farebbe più alcuna differenza e finiremmo per agitarla per niente» disse Andrea d’accordo con la fidanzata. Roberto rimase perplesso. Nonostante fosse insoddisfatto delle conclusioni a cui erano giunti, dovette rassegnarsi all’idea che non avrebbe mai saputo la verità. Lasciò perdere il lassativo e fu d’accordo con gli amici a concludere lì l’investigazione. «Si sta facendo tardi» disse Andrea alzandosi per andare a pagare. «Meglio tornare a casa e prepararci per fare rientro a Forlì» aggiunse Lorenzo pensando che doveva ancora sistemare tutta la casa. «Era ora!» disse Pamela mentre si avvicinarono alla cassa. «Grazie di tutto e scusaci ancora per il disturbo» disse Roberto infilando il resto nel portafogli. «Niente figuratevi. Mi dispiace di non esservi stata molto di aiuto…» rispose lei salutandoli. Lungo la via del ritorno i ragazzi tirarono le somme della loro indagine rimanendo con molte questioni in sospeso.

«Quindi, di tutta questa storia, cosa abbiamo capito alla fine?» chiese Roberto per ricapitolare. «Che ci sono stati degli incidenti dalle circostanze inspiegabili, che il sindaco e il fratello da allora non si sono più parlati e che in quel ristorante succedono delle cose strane. Altro?» chiese Cristina. «Direi che è tutto» rispose sca. «Quindi?» aggiunse Lorenzo. «Quindi qualunque cosa sia successa non lo sapremo mai» commentò Pamela. «Io rimango della mia idea del soprannaturale» disse sca. «Forse il sindaco e il fratello sono stati veramente in combutta e qualcosa è andato storto…». «A me non dispiace anche l’idea della polizza assicurativa» disse Lorenzo che preferiva comunque una spiegazione più logica. «Concordo» disse Andrea volendo a quel punto tirarla corta. «A me l’ipotesi della polizza assicurativa sembra banale e comunque non spiegherebbe gli incidenti accaduti dopo. Preferisco anch’io la versione soprannaturale» disse Roberto. «Sono d’accordo: anche se non sapremo mai se è veramente successo qualcosa in quella cucina, la versione di sca rimane al momento quella più plausibile» disse Cristina. Lorenzo piegò la bocca come per ammettere che avevano ragione. Anche se gli scocciava riconoscerlo, la teoria della fidanzata era al momento quella che dava un senso alla maggior parte delle informazioni che avevano raccolto. «Ragazzi, non guardate me» disse Pamela sentendosi gli occhi puntati addosso. «Io non ne ho idea e non me ne frega niente». «Dai Pami, si fa per scherzare. Da che parte stai? Con noi o con Andrea e Lorenzo?».

Andrea le si avvicinò e la strisciò viscidamente per cercare di strapparle il suo voto. «Che palle. Va bene… se proprio insistete… insomma, considerando quello che ci è successo là dentro… avvallerei l’ipotesi soprannaturale». «Evviva!» urlò sca battendo il cinque con Cristina e Roberto. «La squadra dei ghost hunters ha vinto!» commentò soddisfatta allungando una sigaretta all’amica come ricompensa. «Così però non vale. Avete vinto solo perché Pamela è stata corrotta» disse Lorenzo ridendo. «La sigaretta gliel’avrei data lo stesso, quindi zitto: avremmo vinto comunque» gli rispose lei felice di averla spuntata sul fidanzato. «Considerando l’ora, direi che possiamo andarcene, non prima però di esserci liberati una volta per tutte di questo Guttalax» disse Lorenzo mentre si frugava nella tasca per prendere le chiavi di casa. Sulla via principale della zona residenziale, estrasse la bottiglietta e la lanciò nel bidone vicino al marciapiede cercando di fare canestro. «Come giocatore di basket mi sembri un po’ scarso» commentò Andrea ridendo. «Vai a raccoglierla» lo rimproverò la fidanzata. «Non sono io che l’ho fatta cadere, è il bidone che è pieno». «Sì, ma almeno la puoi appoggiare sopra l’altra immondizia». «Vacci tu a toccare l’altra roba. Non vedi che per terra è pieno di schifezza? Ci penseranno bene gli spazzini a raccogliere tutto». sca lo guardò irritata, ma non gli diede la soddisfazione di vederla andare a raccogliere la bottiglietta al suo posto. Quando giunsero a casa ognuno sistemò le proprie cose e aiutò Lorenzo e sca a dare una rassettata.

«Ragazzi, grazie per l’ospitalità, ci siamo divertiti un sacco» disse Roberto. «Grazie a voi della compagnia» rispose sca. «Dovremmo farle più spesso queste gite». «Magari facendo qualcosa di diverso invece che fossilizzarci su delle stupide vicende di paese» commentò Pamela. «La prossima volta più camminate e meno storie di fantasmi» disse Cristina facendo sorridere tutti. Salendo nelle rispettive macchine i ragazzi lasciarono Spinello scambiandosi qualche suonata di clacson per poi guidare verso Forlì ognuno per la propria strada.

Capitolo XXIX Seduto nella poltrona del salotto, l’ex sindaco fumava la pipa ripensando all’incontro di quella giornata. Erano anni che non riceveva più una visita. Si era ormai abituato a vivere da solo, condividendo la casa unicamente con i suoi pensieri. Per lungo tempo era riuscito a tenere a bada i fantasmi del ato. O almeno questo era quello che aveva sempre creduto. Quel pomeriggio di fine inverno invece le parole di quei ragazzi riaprirono la porta dei brutti ricordi. Dopo aver fissato a lungo il fuoco del camino, diede un tiro alla pipa, ma dal condotto non uscì nulla. Aveva aspettato troppo e il tabacco si era spento di nuovo. Allungò una mano sul tavolino e prese la scatola dei fiammiferi. Il brutto vizio che aveva di lasciare confezioni di cerini in giro questa volta gli era tornato utile. Inspirando lentamente il fumo aromatizzato, si alzò dalla poltrona e si accostò alla finestra. Guardando gli alberi spogli in giardino, osservava come il tempo trascorresse inesorabile nel susseguirsi delle sue stagioni. Un altro inverno stava finendo e un anno in più si aggiungeva a quello della scomparsa del figlio. In lontananza notò un gruppo di nuvole grigie oscurare il sole all’orizzonte: il tempo stava cambiando e quella sera avrebbe piovuto. Il vento aveva ripreso a soffiare e i ramoscelli che si staccavano dagli alberi stavano sporcando il vialetto del giardino. Mentre pensava che il giorno dopo avrebbe dovuto spazzare di nuovo, si ricordò con quanta fretta avesse sbattuto fuori i ragazzi. Sentirli parlare degli incidenti e vedere la boccetta del lassativo, gli aveva dato talmente fastidio da fargli perdere completamente le staffe. Un senso di inquietudine lo aveva preso e da quel momento non era riuscito più a liberarsene. Girando su e giù per la stanza irrequieto, continuava a tormentarsi assalito da mille pensieri. Nella smania dell’andirivieni e non sapendo cos’altro fare, afferrò due pezzi di legno e li gettò nel camino. Aspettò che la fiamma fosse alta, poi si defilò nella cucina sperando di schiarirsi le idee con il pensiero della cena. – Santa donna – pensò fra sé, afferrando il pollo con le verdure che la domestica gli aveva lasciato. Lo infilò nel microonde, settò l’orologio e, controllando l’orario, si stupì che non fossero ancora le sei. Mentre apparecchiava la tavola, scegliendo con quale annata di vino affogare il suo turbamento, venne interrotto dal colpo di una persiana che sbatté violentemente contro il muro esterno. Il rumore giunse alle sue orecchie secco e

deciso. Lo fece sobbalzare per la paura irrigidendogli tutta la muscolatura. – Sciocchezze – badava a ripetersi, cercando di tenere a freno la fervida immaginazione. Appoggiato il cavatappi sul tavolo, si diresse al piano di sopra e chiuse tutte le imposte. Seguì l’ordine delle stanze lungo il corridoio, iniziando dalla sua camera da letto e finendo con quella di Marco dove si soffermò per alcuni minuti. Nonostante fossero già ati dieci anni, la camera del figlio era rimasta esattamente come l’aveva lasciata: alcuni libri di scuola erano impilati storti sulla scrivania, il letto era avvolto dalle stesse lenzuola e le pareti erano tappezzate di fotografie di lui e degli amici con la divisa della squadra. Fissando quelle immagini ripensò all’ultimo trofeo a cui aveva partecipato. Gli vennero in mente le ultime parole che si erano detti e il contratto con il Bologna che non ebbe mai la possibilità di sfruttare. Ripensò a Lucia e a quanto Marco lo avesse supplicato per rimanere a Spinello finché non fosse ricominciata la scuola. Con gli occhi gonfi di lacrime si avvicinò alla porta e, nel momento in cui premette l’interruttore, sentì qualcosa cadere sul pavimento. «Marco!» si fece sfuggire nel momento di emozione. Quando riaccese la luce e si girò indietro, vide che uno dei libri era caduto dalla scrivania. Sorpreso dalla reazione sciocca che aveva avuto, si chinò sul libro e lo riposizionò in cima alla pila. Quando ritornò disotto, il timer del microonde aveva già suonato. Sedendosi come tutte le sere nell’angolo della cucina, consumò il pasto in silenzio tormentato dai mille pensieri. La stanza era silente come la strada nel vicinato. Gli unici rumori che si sentivano erano il tintinnio delle posate sul piatto e il fischio del vento che attraversava gli infissi. La quiete della sera, che non aveva mai disdegnato, in quel momento gli sembrò insopportabile. Le immagini degli incidenti che aveva cercato di dimenticare gli arono davanti agli occhi come per ricordagli che non l’avevano mai lasciato. Lo scoppiettio del fuoco nel camino si amplificò nella sua mente rievocando il fragore dell’incendio in cui Marco aveva perso la vita. Rivisse la sensazione di impotenza che aveva provato quando il pompiere lo aveva trascinato fuori dal ristorante e gli sembrò di sentire la voce del figlio che gli chiedeva piangendo perché lo avesse abbandonato. Masticando nervosamente, tagliava il petto di pollo facendo stridere la lama del coltello contro la ceramica del piatto. Gli occhi si gonfiarono di nuovo di lacrime e le mani iniziarono a tremare. Lo stato di agitazione lo aveva mandato talmente in affanno da farlo quasi smettere di

respirare. «Basta, andate via!» urlò scuotendo la testa con le mani che premevano sulle tempie. Le immagini rimasero invece lì e peggiorarono nonostante lo sforzo. Gli apparve la figura di Alfredo che, con il dito puntato, lo accusava di essere l’unico responsabile. Poi seguirono i volti di Luca e Alessandro che, alternandosi ripetutamente, deridevano con disprezzo la sua folle disperazione. Mentre il sole tramontava dietro le nuvole grigie, il vento soffiava sempre più intensamente attraversando le fessure delle finestre. Con il suo sibilo continuo, come se fosse una voce umana, sembrava sussurrargli all’orecchio quanto fosse miserabile. «Lasciatemi in pace!» urlò di nuovo battendo il pugno sul tavolo. Un senso di rabbia lo stava infiammando, contrastando quel senso di angoscia che lo aveva reso così vulnerabile. – Smettila stupido vecchio. Non sei un debole – si ripeteva stizzito. L’idea che le proprie emozioni prendessero il sopravvento lo stavano letteralmente facendo andare fuori di testa. Nel turbinio di quelle sensazioni, con la testa che gli girava, l’ex sindaco si alzò di scatto dalla sedia e con il piatto in mano si diresse verso il bidone. Senza nemmeno rendersi conto che il sacco era già pieno, versò gli avanzi della cena che finirono tutti per terra. «Cazzo» si lasciò scappare sbattendo il piatto vuoto sopra il lavandino. Sempre più infuriato si chinò verso il pavimento e, raccogliendo i resti del pollo, perse definitivamente il lume della ragione. «Ve lo faccio vedere io» disse pressando con tutta la sua forza l’immondizia dentro al bidone. «Vedremo chi l’avrà vinta». Quell’incomprensibile gesto d’ira era diventato il suo assurdo tentativo di disfarsi dei fantasmi del ato. Guardando con occhi allucinati il nodo in cima al sacchetto, si sentì fiero della sua vittoria e fu convinto di aver scacciato il tormento.

Senza pensarci due volte si diresse verso l’ingresso e, infilando il cappotto sopra la vestaglia, uscì di casa per disfarsi di quella spazzatura. Camminando lungo la via non incrociò anima viva. La temperatura era calata e il vento pungente lo costrinse a stare incurvato con la mano che teneva stretto il bavero. Quando fu in prossimità del cassonetto, gettò con irruenza la spazzatura e si sentì sollevato come se si fosse liberato di un grosso peso. Era come se con quel gesto avesse buttato via anche le sue ossessioni. Immobile sul ciglio della strada, rimase a fissare per qualche istante il bidone con lo sguardo perso nel vuoto. Il vento soffiava sempre più forte spazzando via tutto quello che non aveva radici. Le foglie secche si sollevavano da terra grattando quasi impercettibilmente l’asfalto, mentre le cartacce si spargevano tutt’intorno deturpando la pulizia del marciapiede. Fu allora che il tintinnio di un oggetto catturò la sua attenzione. Fu allora che il rotolare costante, in sincronia con il vento, si fissò nella sua testa come il ticchettio di un orologio. Infastidito da quel rumore che spezzava la quiete della strada, l’ex sindaco si guardò attorno per individuare l’oggetto insolente. A pochi metri di distanza una bottiglietta di vetro faceva sentire la sua presenza fra la sporcizia vicino a un bidone. Un tuffo al cuore lo colse di sorpresa. Cercando di mettere a fuoco dietro le lenti spesse, si convinse che non poteva essere quello che stava pensando. Si avvicinò per vedere meglio, bloccò la bottiglietta con la pantofola e si chinò per raccoglierla. Analizzando l’etichetta e osservandone la forma, si lasciò scappare una risata isterica che riecheggiò nella strada deserta. – Alla fine sei mia – pensò compiaciuto. Gli sembrava incredibile come poche ore prima avesse cercato in tutti i modi di impossessarsene, mentre adesso se la ritrovasse così facilmente tra le mani. Sollevandola contro luce la osservò sconcertato: nonostante fossero ati tutti quegli anni, si era mantenuta in perfette condizioni. Quando guardò oltre la bottiglietta e l’attenzione volse sul panorama di dietro, l’ex sindaco si rese conto che da quella posizione si vedeva il centro del paese. Dalla zona residenziale sopraelevata nella collina, i suoi occhi caddero immediatamente sul ristorante abbandonato. Non si era mai accorto che il parco lì di fronte avesse fermato l’urbanizzazione. In quella serata ventosa, dove non c’era un briciolo di foschia, la visibilità era praticamente perfetta. Con un senso di inquietudine guardò l’edificio e il lago nascosto nell’incolta vegetazione. Mise la bottiglietta in tasca, si strinse nelle spalle e, sfregandosi le braccia sopra le

maniche, cercò di arrestare i brividi di freddo. Mentre continuava a fissare il ristorante come se ne fosse incantato, una folata più sostenuta gli sollevò le estremità del cappotto. Le immagini del ato ripresero a susseguirsi nella sua testa, con il sibilo del vento che gli sussurrava che era giunto il momento di entrare. Per un attimo ebbe l’impulso di scappare via ignorando quelle voci che lo stavano assillando. Poi un istinto più profondo lo inchiodò davanti a quel panorama, facendogli crescere un desiderio impellente di voler affrontare le sue paure. Era convinto che se fosse rientrato nel luogo in cui tutto aveva avuto inizio, si sarebbe liberato dalle sue ossessioni e avrebbe posto fine a quell’atroce agonia. Senza preoccuparsi del calare della notte e del cielo che minacciava pioggia, attraversò il parco a o svelto continuando a fissare il ristorante abbandonato. Gli sarebbero rimasti solo pochi minuti di luce, ma l’unica cosa che gli importava era di far smettere il bisbigliare di quelle voci dentro la sua testa. Quando arrivò davanti all’edificio, il respiro era affannato e il cuore batteva forte nel petto. Con un braccio si appoggiò al tronco di un albero e aspettò di recuperare un po’ di forze. Più fissava il ristorante, più cresceva dentro di lui quel senso di urgenza che lo spingeva ad entrare. Calpestando i vetri rotti sparsi nel giardino, si avvicinò all’entrata. Ancora una volta sarebbe ato dalla cucina. Questa volta però non avrebbe infastidito il fratello interrompendolo durante il servizio. Con la mano tremante per l’emozione, scostò la lastra dal muro e in un attimo fu dentro. La poca luce che filtrava dai vetri della finestra lo costrinse ad aspettare alcuni secondi prima di riuscire ad adattare gli occhi alla penombra. Avanzò lentamente sul pavimento irregolare, sentendo la suola delle pantofole prendere la forma della sporcizia sotto i suoi piedi. Appoggiò una mano sul banco dove venivano smistati i piatti e ricordò la frenesia del lavoro e l’agitazione di Alfredo ai fornelli. Mentre ava in rassegna i barattoli sopra la mensola dietro la stufa, una ventata improvvisa entrò nella stanza spingendo contro il muro la lastra di ferro. L’ex sindaco fece un salto sul posto e si voltò di scatto per controllare che non ci fosse nessuno. I mestoli appesi sui fuochi presero a cigolare e la porta a spinta comunicante con la sala da pranzo iniziò a oscillare. Con il cuore in gola e le gambe che gli tremavano, guardò le due porte e si chiese cosa fosse meglio fare. A sinistra c’era la via d’uscita che sapeva bene dove portava, mentre a destra c’erano i fantasmi del ato che doveva affrontare. Facendo un profondo respiro e cercando di rilassare i nervi, decise di andare avanti ed entrò nella camera successiva. La luce era sempre più scarsa e il vento freddo entrava prepotente attraversando i vetri rotti delle finestre. Una

serie di fulmini illuminò a giorno la stanza. Poi seguirono i tuoni che, con il tintinnare della prima pioggia, annunciarono l’inizio del temporale. Girando fra il mobilio con gli occhi rivolti a terra per non inciampare, l’unico rumore che sentiva era il fruscio dell’erba alta e il gocciolio sulla grondaia. – Muoviti, non ti fermare – si ripeteva per farsi coraggio. Portando le mani avanti, avanzava a tentoni verso la pizzeria aiutando la vista con il bagliore intermittente dei fulmini. Quando andò a sbattere con le punta delle dita contro lo stipite della porta, si rese conto che la parete divisoria era stata del tutto ricostruita. In quell’istante il cuore gli batté ancora più forte e tutto il corpo iniziò a tremare. Rivivendo il momento in cui il muro era crollato davanti ai suoi occhi, gli sembrò di sentire la voce di Marco che lo chiamava per chiedergli aiuto. Con il nodo alla gola e le gambe che gli cedevano, senza vedere dove mettesse i piedi, cercò alla svelta un appoggio di fortuna. Fu allora che inciampò contro una sedia e con tutto il busto si rovesciò sopra un tavolo. Lo stridio delle gambe di ferro che si erano spostate sul pavimento si amplificò per tutta la stanza andandosi a perdere nella tromba delle scale. Subito dopo un rumore simile, come di un mobile che veniva trascinato, gli sembrò rimbalzare indietro come una eco dal piano di sopra. Fermo con la faccia su una superficie che non era quella del tavolo, tese l’orecchio e aspettò qualche istante con il fiato sospeso. In quella posizione si sentiva vulnerabile. L’udito era l’unico senso su cui poteva fare affidamento. La stanza era ormai completamente buia e la vista non gli serviva più a niente. Alzando leggermente la testa e facendo leva sulle braccia per sollevarsi, tastò l’oggetto sotto di lui e realizzò che si trattava di un giornale. Forse era proprio quello di cui i ragazzi gli avevano parlato. Preso dalla smania di volerlo vedere, si dimenticò in fretta del rumore che aveva sentito. Precipitandosi zoppicante verso la finestra, si schiacciò contro il vetro e provò a sfruttare il bagliore dei lampi per leggerne il contenuto. La pioggia di taglio in breve tempo infradiciò la spalla destra del cappotto. Il giornale era rimasto all’asciutto ma la luce incostante non gli diede neppure il tempo di mettere a fuoco il titolo centrale. Ritornando al tavolo, si portò istintivamente le mani in tasca e con sorpresa sentì una confezione di cerini. Con le mani ancora tremanti tirò fuori un fiammifero e con tocco deciso lo ò sulla striscia di carta vetrata. Pochi secondi e l’esile bagliore fu spento da una folata di vento improvvisa. Spazientito ne estrasse un altro e riprovò facendogli scudo con la mano. Il sibilo del vento arrivò puntuale ancora una volta e, sussurrandogli nelle orecchie, lo spense di nuovo. Nel buio più totale, con l’odore di bruciato che gli ricordava quello dell’incendio, aprì la scatola di fiammiferi e accese il terzo cerino. Con l’agitazione che saliva e le gambe che non smettevano di tremare, decise di impiegare quell’attimo di luce per controllare attorno a lui quello che la

fiammella riusciva a illuminare. Girò la testa a destra e sinistra, portò il fiammifero più in alto possibile e, pur non vedendo nessuno, non riuscì a convincersi di essere solo. Le voci si stavano affollando sempre più confuse nella sua mente e, insieme al sibilo del vento, sembrava stessero chiamando il suo nome. Non riuscendo più a distinguere quello che era nella sua testa da quello che era fuori, afferrò di nuovo la scatola dei cerini. Per sua sfortuna ne contò solamente quattro. Preso dal panico non seppe se consumarli per tornare in cucina, oppure leggere il giornale. Considerando che avrebbe avuto bisogno dell’ausilio delle mani per camminare, strinse i denti, fece un profondo respiro e grattò il quartultimo cerino. Il giornale sotto di lui si presentò vecchio e sciupato. La carta era completamente ingiallita, ma la data in cima era quella del giorno stesso. Sentendo il bruciore nei polpastrelli, perché la fiamma aveva già raggiunto le dita, lasciò cadere il fiammifero che si spense prima ancora di toccare terra. Con la foga di un bambino che sta per scartare i regali di Natale, afferrò il terzultimo fiammifero e lo puntò dritto in mezzo alla pagina. Come illuminò la foto principale e riconobbe se stesso e il volto del fratello, fece un balzo all’indietro che gli fece perdere l’equilibrio. Barcamenandosi nell’aria per cercare di non cadere, afferrò lo schienale della sedia su cui si ritrovò direttamente a sedere. In quel momento il bagliore di un lampo illuminò tutta la stanza. Poi seguì il fragore del tuono che come una cannonata irruppe nel cielo. Le persiane ripresero a sbattere e il rumore dal piano di sopra ritornò a farsi sentire. L’ex sindaco girò la testa in tutte le direzioni con gli occhi spalancati per cercare di vedere. Il respiro si fece di nuovo affannato e il cuore gli batté all’impazzata. «Chi c’è?» urlò con la voce tremante mentre accese il penultimo cerino. Confondendosi con la pioggia battente, un rumore, come di i veloci, attraversò il corridoio sopra la sua testa. Alzandosi di scatto dalla sedia e spingendo via il tavolo per farsi strada, prese a correre verso la sala da pranzo per raggiungere la via d’uscita. Fradicio di sudore, con i tremori della paura che gli stavano togliendo tutte le forze, inciampò da tutte le parti scivolando dentro le pantofole di lana. In pochi secondi i i dal piano di sopra scesero la tromba delle scale. «C’è qualcuno?» continuava a chiedere voltandosi di tanto in tanto. «Carlo…» sussurravano delle voci provenienti da tutte le direzioni.

«Chi è?» chiese di nuovo sempre più disperato. Sentendo i i attraversare la pizzeria, prese in mano l’ultimo cerino e si voltò di scatto per vedere chi avesse di dietro. Nell’istante in cui la fiamma prese forza e riuscì a illuminare vicino alla sua figura, l’ex sindaco spalancò gli occhi ed esalò l’ultimo gemito di paura.

Epilogo Resto del Carlino Spinello, 3 aprile 2014 Ex sindaco di Spinello trovato morto nella sala da pranzo dell’ormai in disuso ristorante “al Lago”. In seguito alla denuncia di scomparsa da parte del fratello, la polizia rinviene il cadavere dell’ex sindaco nel vecchio ristorante di paese. Sembrava che il fratello lo stesse cercando da diversi giorni. Dopo svariati tentativi telefonici ed essersi recato presso l’abitazione, avendo trovato il portone spalancato e la casa vuota, si è rivolto immediatamente alle autorità competenti locali. A soli due giorni dalla denuncia di scomparsa, un gruppo di ragazzini avrebbe telefonato alla polizia dicendo di aver trovato un cadavere sul pavimento della sala da pranzo del vecchio ristorante. Durante il sopralluogo il corpo è stato subito identificato dall’ispettore in carica Moretti e dallo stesso fratello. Sono ancora da definire le dinamiche dell’accaduto. In base all’autopsia si accerterà il motivo e l’orario del decesso. Al momento le prime ipotesi riconducono all’arresto cardiaco. Completamente da definire invece sono le motivazioni che avrebbero spinto l’ex sindaco a entrare nel ristorante dismesso. Vestito in maniera informale, senza documenti al seguito, sono stati ritrovati ai suoi piedi una bottiglietta di lassativo e un vecchio giornale. Per chi fosse interessato, il funerale verrà celebrato a porte aperte e si terrà sabato 5 aprile alle ore 16 presso la chiesa di Spinello.

...Pronto? ... «Pronto, Cristina, hai letto il giornale oggi?». «Ciao Fra, no, perché?». «È successa una cosa orribile a Spinello. Hanno trovato l’ex sindaco morto nel ristorante abbandonato… La notizia è su tutti i giornali locali». «Quale ex sindaco? Quello che siamo andati a trovare noi?». «Proprio lui. Hanno detto che probabilmente era lì da un paio di giorni». «Oddio Fra… dici che…». «Non lo so. Lorenzo mi ha già detto che vuole tornare su». «Altro weekend a Spinello? E Pamela?». «Beh, Pamela... in un modo o nell’altro la convinciamo…».

Ringraziamenti Vorrei ringraziare Franco Vignazia per il disegno dipinto con estrema maestria e l’amico Jimmy per avermi aiutato nella creazione della copertina. Un ringraziamento a mio marito per aver letto la bozza del manoscritto offrendomi la prospettiva del lettore e per avermi ato in questa mia avventura. Infine un piccolo ringraziamento a me stessa perché, pur in mezzo a mille vicissitudini, sono finalmente riuscita a scrivere il mio primo romanzo.